Il desiderio come esperienza di verità di Mimmo Pesare

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PASSIONI – VISIONI – RIVOLUZIONI
Il desiderio come esperienza di verità.
di Mimmo Pesare
Ogni movimento rivoluzionario è
romantico, per definizione. (Antonio
Gramsci)
Le emozioni non hanno simpatia per
l'ordine fisso. (Yukio Mishima)
L'arte non è uno specchio cui riflettere
il mondo, ma un martello con cui
scolpirlo. (Vladimir Majakovskij)
Per fare una rivoluzione ci vogliono
due cose: qualcuno o qualcosa contro
cui rivoltarsi e qualcuno che si
presenti e faccia la rivoluzione.
(Woody Allen)
La maestra mi chiese di Massimiliano
Robespierre. Le risposi che i Giacobini
avevano ragione e che, Terrore o no, la
Rivoluzione Francese era stata una cosa
giusta. La maestra non ritenne di fare
altre domande. (Offlaga Disco Pax)
Da Cromwell alla Bastiglia, da Lenin a Cuba, il concetto di rivoluzione, da sempre, si porta dietro una
carica sovversiva che è propria degli individui, dei gruppi sociali e dei movimenti di pensiero che sono
destinati a far ripensare la Storia in un’ottica diversa da come precedentemente era pensata. Al contrario
delle rivolte, passionali ma estemporanee, le rivoluzioni sono anche, sempre, rotture epistemologiche,
rovesciamenti di pensiero e shock emotivi dell’umanità. Una rivoluzione non è mai solo muscolare: in
assenza di pathos non v’è ombra dei suoi clamori sediziosi.
Ma, probabilmente, non c’è solo una caratterizzazione illuministica e progressista delle rivoluzioni. In altri
termini: esse non sono esclusivamente “le locomotive della storia”, bella immagine di Marx per alludere alla
loro carica di emancipazione e di progresso rispetto a una condizione precedente di sottomissione o di
minorità (politica o culturale).
Come osserva bene Gramsci, il concetto di rivoluzione detiene al suo interno una forte carica romantica.
Le rivoluzioni, pertanto, hanno a che fare fondamentalmente col desiderio; appartengono innanzitutto alla
sfera delle emozioni, prima che a quella della ragione e della prassi. Come dire, non vi sarebbe prassi senza
desiderio e, guarda caso, l’etimo latino del termine desiderio (de-sidera: “intorno alle stelle”) pare
curiosamente strizzare l’occhio all’altra accezione, quella astronomica, di rivoluzione. La tensione verso le
stelle, ciò che di più irraggiungibile vi è per l’uomo – o al contrario (pensando il de come un privativo), il
distogliere lo sguardo dalla rotta notturna segnata dalle stelle, come metafora del disorientamento, del
meraviglioso e perturbante smarrimento che i desideri impongono alla ragione –, si lega intimamente alla
forza viscerale che da sempre le rivoluzioni consegnano all’immaginario umano. Se, come suggerisce la
psicoanalisi di Lacan, il desiderio veicola attraverso lo sguardo e si alimenta degli appetiti che esso
raggranella, il concetto di rivoluzione possiede già al suo interno quelli di visione e di passione. Non c'è
rivoluzione senza una visione e senza la passione. Se la rivoluzione è il soggetto, la visione è il suo
complemento di causa e la passione è il suo complemento di mezzo. Si parte da una visione delle cose,
quanto più possibile lucida e anticipatrice degli scenari che verranno e la si incastona all'interno di una
tensione emotiva che ne delinei le strategie e le possibilità di attuazione.
Ecco perché le rivoluzioni non possono essere solo il frutto di una ideologia, giacché anche dietro ogni
movimento ideologico non c’è solo la massa ma c’è sempre, primariamente, il singolo che desidera, che si
dispera, che tenta di rendere reale una visione, una immagine passionale che tende a un mondo migliore.
Ecco perché le arti (e il cinema, in questo caso) sono fondamentali per la coscienza collettiva dei
movimenti rivoluzionari, almeno quanto la politica stessa. Non è possibile analizzare l’immaginario
rivoluzionario senza “abitare” i suoi consumi artistici, proprio perché l’arte alimenta lo sguardo, nutre il
desiderio e quindi genera la visione e la passione che stanno alla base delle rivoluzioni. Analizzare queste
ultime esclusivamente rispetto alle loro dimensioni strutturali (istituzionali, politiche, socio-economiche, ecc.),
non è molto utile in termini di comprensione completa del fenomeno, o quanto meno costituisce una
riduzione di complessità. Per questo motivo, forse, la cruda osservazione dei fatti sociali che spesso
sembrano solo malattie di una collettività confusa, ma che invece costituiscono la trasposizione di dolori e
ferite individuali di una umanità suo malgrado “alienata” e non più a suo agio, può arricchirsi e ampliarsi
quando si considera la cornice desiderativa di tali fatti.
Le rivoluzioni, in questo senso, non servono solo alla Storia, alle masse, alle classi sociali, o meglio ne
migliorano le condizioni e ne emancipano la struttura solo a patto di aver, precedentemente, costituito una
“esperienza di cambiamento individuale”. In termini psicoanalitici, dunque, le rivoluzioni sono innanzitutto un
insight dell’individuo, cioè una occasione di trasformazione che, mentre cambia i contenuti emotivi di chi ne
fa esperienza, produce verità. L’insight è una esperienza di verità che cura, che produce cura di sé, direbbe
Foucault. E questo è lo scarto finale delle esperienze rivoluzionarie: partire da un desiderio che genera una
visione del mondo diversa da quella esistente, caricarla di contenuti passionali per metterla in atto e
accogliere la trasformazione individuale e collettiva che la rivoluzione genera come esperienza di verità dei
soggetti.
Desiderio, visione, passione, verità, dunque.
Ma la cosa più affascinante della faccenda è che le rivoluzioni, come concetto, sono sempre destinate a
“superarsi”, sono costitutivamente votate al superamento: ogni rivoluzione è superata da una ulteriore
rottura, e poi da un’altra successiva, e da un’altra ancora, e così via. In questo modo l’esperienza di verità
che si portano dietro non diventa mai assoluta, sventa il rischio di cristallizzarsi e divenire totalitarismo, tanto
politico, quanto culturale. Ecco perché non dovremmo mai aver paura delle rivoluzioni ma, al contrario,
auspicarne sempre una, di tanto in tanto. Per non abituarci alla verità che, dopo un po’, diventa dogma.
Mimmo Pesare, Ph.D.
Cattedra di Psicopedagogia del linguaggio
Facoltà di Lettere e Filosofia, Unisalento
Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali
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