■ Quesiti civilistici Quesito n. 613-2007/C Interpretazione dei divieti contenuti in convenzione PIP “Fattispecie: il Comune X ha realizzato nel proprio territorio un'area PIP, procedendo successivamente ad assegnare i vari lotti, parte in diritto di proprietà e parte in diritto di superficie. “Sono state stipulate le relative convenzioni, ai sensi dell'art. 27, Legge 865/71, nelle quali erano previsti (sia per le aree cedute in proprietà sia per quelle cedute in diritto di superficie) limiti alla trasferibilità a terzi sia di carattere soggettivo (caratteristiche degli acquirenti), sia di carattere oggettivo. “In particolare era previsto un prezzo massimo di cessione con riferimento a criteri predeterminati dalla convenzione e l'obbligo di comunicazione preventiva al Comune, con facoltà del medesimo di effettuare il riscatto dell'immobile in caso di violazioni. “Non era previsto alcun termine di durata di tali vincoli. “Poiché nel corso degli anni tale situazione aveva determinato l'alimentarsi di un notevole contenzioso con il Comune anche a causa del fatto che l'applicazione dei parametri previsti dalla convenzione determinava prezzi assai inferiori a quelli di mercato, il Comune con delibera consiliare, ha stabilito: - di consentire agli assegnatari di stipulare nuove convenzioni, ai sensi dell'art. 27, Legge 865/1971, secondo lo schema approvato dal Consiglio Comunale, nelle quali veniva stabilita la durata decennale, da computarsi dalla data della convenzione originaria, dei vincoli derivanti dalla convenzione e sostanzialmente confermati nel nuovo testo, il tutto, beninteso, dietro versamento di un corrispettivo al Comune medesimo; - di consentine altresì la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, ai sensi dell'art. 11 della Legge 12 dicembre 2002 n. 273, dietro versamento di autonomo corrispettivo. Poiché la norma suddetta prevede un vincolo di inalienabilità quinquennale per gli immobili per i quali si è richiesta la trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà, si richiede se l'alienazione sia comunque autorizzabile da parte del Comune ed eventualmente a quali condizioni”. Fin qui il suo quesito. Si tratta ora di accertare se i divieti previsti nella citata convenzione P.I.P. abbiano fonte normativa o soltanto pattizia. L’art. 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 prevede il potere per i Comuni dotati di strumenti urbanistici generali (piano regolatore generale o programma di fabbricazione) di adottare un piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.). Tali aree, una volta espropriate dal Comune, possono essere concesse in diritto di superficie o cedute in proprietà ai soggetti attuatori del piano, con contestuale stipulazione di una convenzione, per atto pubblico, nella quale vengono disciplinati "gli oneri posti a carico del concessionario o dell’acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza" (art. 27, ultimo comma, della Legge 22 ottobre 1971, n. 865). Lo scopo della convenzione è quello di evitare che gli assegnatari del diritto di proprietà o di superficie sulle aree comprese nel piano possano compiere operazioni speculative, rivendendo a terzi le stesse e lucrando la differenza fra il prezzo originario del loro acquisto dall’Ente pubblico ed il prezzo del successivo trasferimento (v. TRAPANI, Convenzione per le aree per gli insediamenti produttivi e retrocessione da coacervo fallimentare, Studio del C.N.N. 12 gennaio 2000 n. 2242). Occorre precisare che per i piani PIP la legge n. 865 del 1971 non prevedeva divieti temporanei di alienazione del bene sanzionati con la nullità dell’atto in caso di deroga al divieto. I divieti valevano esclusivamente per i piani PEEP e limitatamente alle concessioni in diritto di proprietà. Infatti per le concessioni in diritto di superficie, neppure per i piani PEEP era previsto un divieto temporaneo sanzionato con la nullità. Per i piani PEEP prevedenti concessione in diritto di proprietà il divieto aveva una sua logica giustificazione: poiché l’alloggio a prezzo politico era concesso ai ceti meno abbienti, si voleva evitare che persona assegnataria di un siffatto alloggio lo rivendesse immediatamente in via speculativa a prezzo di mercato, dimostrando in tal modo di non averne avuto necessità. Per i piani PIP ciò non era previsto, in quanto il bene veniva concesso per un’attività economica, che aveva come presupposto che il bene veniva concesso a soggetto strutturalmente dedito alle leggi economiche di mercato. Pertanto in tal caso la legge non poneva divieti di cessione del bene, né prevedeva nullità analoghe a quelle previste per il piano PEEP. Per il piano PIP, infatti, la legge taceva e non stabiliva prescrizioni particolari sul contenuto della convenzione con il Comune. Assodato che la legge 865 del 1971 non prevedeva vincoli normativi, limitativi della commerciabilità dei fabbricati realizzati, che valessero per le aree P.I.P., si tratta di accertare se questi vincoli scaturiscano dalle numerose norme che hanno previsto la trasformazione della aree P.I.P. concesse in diritto di superficie in aree P.I.P. concesse in diritto di proprietà Già a partire dalla legge finanziaria del 1997 (legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 62 e comma 64) era stata ampliata la possibilità di trasformare le convenzioni in diritto di superficie in convenzioni in diritto di proprietà anche per le aree ad insediamento produttivo (aree PIP). Dopo varie vicissitudini legislative, tutte caratterizzate da una norma che si limitava a prevedere la trasformabilità di area in diritto di superficie in area in diritto di proprietà, ma che non prevedeva divieti di sorta nell’ambito di questa operazione, si è pervenuti alla norma vigente, introdotta dall’art. 11 della legge 12 dicembre 2002, n. 273, la quale così dispone: “I comuni possono cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie nell'àmbito dei piani delle aree destinate a insediamenti produttivi di cui all'articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865. Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al momento della trasformazione di cui al presente comma. La proprietà delle suddette aree non può essere ceduta a terzi nei cinque anni successivi all'acquisto”. Si tratta ora di attribuire valore e portata a questa norma. Che trattisi di una norma di divieto non può essere posto in discussione. Peraltro sorge il problema di stabilire se essa norma operi esclusivamente per il trasferimento dell’area, oppure anche per il trasferimento della costruzione realizzata sull’area. Va chiarito che allorquando il legislatore ha inteso distinguere il problema della cessione dell’area da quello della cessione del fabbricato realizzato sull’area, ha utilizzato norme chiare, come poteva desumersi dalla vecchia dizione dell’art. 35, che, intendendo limitare nel tempo l’alienabilità degli alloggi, ha fatto esplicito riferito a questi ultimi e, di più, ha fatto decorrere il dies a quo del divieto dalla data dell’abitabilità, documento che si innestava in modo chiaro sulla costruzione realizzata. Nel nostro caso un conto è parlare di area, altro conto parlare di opificio industriale o manufatto destinato ad attività economica. Se infatti imporre un divieto per l’area ha un senso (evitare speculazioni per un’area acquisita a prezzo di favore), non avrebbe alcun senso riferire il divieto alla costruzione destinata all’impresa da intraprendere, sia perché questa è esclusivamente frutto del costruttore, sia perché essa ha in sé tutti i germi di costruzione destinata ad operare nel libero commercio giuridico proprio di ogni iniziativa di carattere economico. In questa materia è sorto anche il problema se, per effetto della trasformazione delle convenzioni previste dalla legge 865 del 1971 in convenzioni Bucalossi (già previste dalla legge n. 10 del 1977 e recepita attualmente dall’art. 18 del testo unico sull’edilizia n. 380 del 2001) per questa strada dovessero essere applicati determinati divieti concernenti la libera commerciabilità dei fabbricati costruiti su questi piani. In proposito la legge 448 del 1998 ha previsto la possibilità di ottenere dall’assegnatario dell’area clausole pattizie o atti d’obbligo in linea con la legge Bucalossi. Queste clausole e questi atti, invece, non potevano essere richiesti per le aree PIP, perché la legge Bucalossi le prescrive soltanto per l’edilizia abitativa (ex artt. 7 e 8 della legge n. 10 del 1977). Non poteva, pertanto, continuare a verificarsi lo stretto collegamento tra procedimento per le aree PEEP e procedimento per le aree PIP esistente in precedenza. Allo stato pertanto nessun divieto sembra debba ulteriormente sussistere, salvo quelli previsti nella convenzione con il Comune, che trovano la loro fonte nei patti contrattuali ivi previsti e, comunque, sempre esclusa qualsiasi ipotesi di nullità, data la carenza di una norma di legge che faccia da supporto alla nullità stessa. È infatti risaputo che la nullità di un atto, per l’esigenza che essa ha di tutelare un interesse di carattere generale, non può essere mai stabilita pattiziamente, ma abbisogna di una fonte legislativa per poter operare. Sul punto la posizione del Consiglio Nazionale del Notariato è chiara: ai divieti contenuti nelle convenzioni che non trovano riscontro nella legge va riconosciuta un’efficacia meramente pattizia, tale cioè da non poter mai comportare conseguenze in ordine alla validità dell’atto di alienazione posto in essere, ma da riflettersi, tutt’al più, sul piano contrattuale, dal risarcimento danni per inadempimento sino alla risoluzione di diritto. Giovanni Casu