Filmiche storie di malati e di medici

Stefano Beccastrini
FILMICHE STORIE DI MALATI E DI MEDICI
Medicina narrativa e uso formativo del cinema
Abstract: Di fronte alla crisi epocale d’una medicina contemporanea sempre più specialistica, tecnologica,
commerciale, si rende necessaria una profonda svolta etica ed epistemologica della medicina stessa, che
riaffermi la sua dimensione antropologica, relazionale, umanistica. A tal fine è nato, negli Stati Uniti ma
ormai con qualche positiva diffusione anche in Italia, un approccio, definito Narrative Medecine, che pone al
centro dell’atto medico l’ascolto delle storie dei pazienti, la valorizzazione della relazione umana oltre che
tecnica tra medico e paziente, l’utilizzo di metodologie qualitativo/narrative anziché, unicamente,
quantitativo/analitiche. Un libro di prossima pubblicazione (Stefano Beccastrini: “Lo specchio della vita.
Medici e malati sullo schermo del cinema”) propone l’utilità del sapiente utilizzo di quell’immenso archivio
di filmiche storie di malati e di medici che è il cinema per la formazione, giustappunto in Medical Humaities
e in Narrative Medicine, dei futuri professionisti della cura.
L’autore: Stefano Beccastrini è medico e pedagogista nonché cultore e scrittore di cinema. Dirige la collana
“Comunicazione in sanità” del Centro Scientifico Editore di Torino e la collana “Viaggio in Italia”
dell’editore Aska di Firenze. E’ membro del comitato scientifico della sezione italiana dell’ISDE
(International Society Doctors for Environment) e coordinatore didattico della Scuola Internazionale
Ambiente Salute e Sostenibilità (SIASS). Relatore a molti convegni nazionali e internazionali, impegnato
nella cooperazione internazionale (ha compiuto missioni tecniche e formative in Cile, Cina, Egitto,
Nicaragua), ha pubblicato molti saggi e articoli su riviste cartacee ed on-line nonché una ventina di volumi
(sulla pedagogia sociale e della salute, sulla percezione e la comunicazione del rischio, sull’educazione
ambientale, sulla formazione nelle organizzazioni, sul cinema e sul suo uso educativo).
Parole chiave: pensiero narrativo, medicina umanistica, medicina narrativa, storie filmiche, uso formativo
del cinema.
1. Lo specchio della vita. Introduzione
Questo testo tratta dei rapporti tra il cinema e la medicina o meglio tra la storia – e le storie – del
cinema e la storia – e le storie – della medicina (nonché delle malattie e dei malati). E’ un tema sul
quale vado da tempo lavorando, facendone argomento di seminari formativi per gli operatori
sanitari nonché, più di recente, d’un libro intitolato “Lo specchio della vita”(sottotitolo “Medici e
malati sullo schermo del cinema”: dovrebbe uscire entro l’anno per i tipi dell’Istituto Change di
Torino). Il titolo ricalca quello italiano, l’originale essendo “Imitation of Life”, d’un vecchio ma
non invecchiato film di Douglas Sirk (“Lo specchio della vita”, 1959, con Lana Turner, John Gavin
e Sandra Dee), autore di fiammeggianti melodrammi capaci di commuovere e far pensare (con
l’intelligente divertire, le finalità più preziose del cinema). E’ una buona definizione del cinema
stesso, vero specchio della nostra vita, capace di rappresentarne più o meno fedelmente - com’è
proprio d’ogni specchio, che soltanto de/formandola ri/specchia la realtà - i dolori e le gioie, le
speranze e le delusioni. Uno specchio non è lo strumento perfetto per vedersi qual siamo veramente,
resta peraltro l’unico che abbiamo per comprendere come gli altri ci vedano, e ciò vale anche per i
medici. Se, come ha scritto un illustre storico della medicina, Giorgio Cosmacini (nel suo “Il
mestiere di medico”, Cortina, 2000) “...per aiutare a nascere senza pericoli e a morire serenamente,
per proteggere i sani e aver cura dei malati cronici, degli anziani, dei disabili, saranno sempre più
necessari ‘nuovi curanti’ che porteranno la medicina a potenziare o recuperare…la vocazione
antropologica che da sempre le appartiene…”, tali nuovi curanti dovranno considerare le cosiddette
Medical Humanities quali competenze integranti della propria professionalità, trovando anche nel
cinema una fonte di conoscenza di sé e dei propri sofferenti interlocutori. Se è vero, come scrivono
Bruna Zani ed Elvira Cicognani (nel loro “Psicologia della salute”, Il Mulino, Bologna, 2000) che
“…la salute, così come la malattia…, non esistono nel vuoto sociale ma si inseriscono in contesti
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relazionali, sociali, culturali, nelle opinioni dei professionisti e della gente comune, interagiscono
con i valori, le tradizioni, le immagini…,” quel grande specchio della vita (e della morte) che è lo
schermo cinematografico può aiutare formativamente i medici, e gli operatori sanitari in genere, a
meglio comprendere tali contesti e tali opinioni, in quanto proprio su tale grande specchio le
persone, tramite la macchina luminosa inventata nel 1895 dai fratelli Lumiére, proiettano
giustappunto i loro valori, le loro tradizioni tradizioni, le immagini prodotte dalle loro menti e dai
loro cuori.
2. La medicina narrativa
La medicina contemporanea, ancorché ricca di importanti successi tecnici e tecnologici, soffre
d’una crisi epocale che è fatta d’incertezza sui propri paradigmi epistemologici e sui propri statuti
etici nonchè di perdita crescente della propria dimensione antropologica, relazionale, umanistica.
L’usura ormai nota e drammatica del rapporto tra medico e paziente, culturalmente costitutivo
dell’arte medica ma sempre più aggredito dal prevalere d’una visione meramente iatrotecnica
(tecnologica e commerciale, specialistica e aziendale) della medicina, ne è evidente testimonianza.
Per rimediare a ciò, occorre che la medicina del futuro riscopra la sua perduta dimensione narrativa,
tornando capace di ascoltare, sependole intrecciare proficuamente con le storie dei medici, le storie
dei pazienti non meno che di saperne analizzare i parametri fisiopatologici. A tal scopo è nata
qualche anno fa in America, seppur per adesso con scarsa conoscenza e diffusione tra i medici
italiani (ma si veda l’opera meritoria di due precursori della sua introduzione in Italia, Giorgio Bert
e Silvana Quadrino, “Parole di medici, parole di pazienti”, Il pensiero Scientifico, Roma, 2002,
nonché più recentemente Vincenzo Masini: “Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed
interazione dinamica nella relazione medico-paziente”, Angeli, Milano, 2005), la cosiddetta
Narrative Medecine. Si tratta di un nuovo paradigma epistemologico della medicina, sorto come
reazione alla sua deriva tecnicistica e teso alla valorizzazione della matrice antropologica e
umanistica della medicina stessa (si veda, in merito, Rita Charon: “Narrative Medicine. Attention,
Representation, Affiliation”, Oxford University Press, New York, 2005) nonché orientato alla
riscoperta della dimensione esistenziale, cognitivamente fondata sul pensiero giustappunto narrativo
invece che analitico, dell’arte del guarire. Si tratta di una dimensione da affiancare, seppur non da
contrapporre, a quella più razionalistica della Evidence Based Medicine ovverosia alla medicina
fondata su prove sicure e sperimentali di efficacia. Circa l’auspicabile complementarità dei due
paradigmi epistemologici, ha affermato Milos Jenicek (illustre epidemiologo canadese:
http;//www.praticaclinica.it/lineeguida/jenicek): “I due punti di vista sono complementari e devono
convivere. Per molto tempo abbiamo preso in considerazione soltanto dati scaturiti da ricerche di
tipo quantitativo o, comunque, da quanto si faceva per quantificare le cose…ma credo che in questi
anni, anche grazie all’impegno di psicologi, sociologi ed infermieri, la ricerca qualitativa abbia fatto
molti passi in avanti e la Narrative Medicine appartiene proprio a questo nuovo filone di studio. Il
focus di queste ricerche non è definire verità universali ma contribuire ad una migliore
comprensione della realtà, molto spesso studiando proprio i casi o meglio le clinical situation…”.
L’approccio della Medicina Narrativa è, quindi, di natura qualitativa e si basa sulla capacità di
ascoltare ed elaborare storie, mentre l’approccio della medicina cosiddetta basata sull’evidenza è di
natura quantitativa (analitica e statistica). L’una fa capo al pensiero narrativo - che, almeno dopo le
ricerche psicologiche e pedagogiche di Vigotskij e Luria, è riconoscibile come una forma diversa
ma non meno cognitivamente efficace del pensiero logico-analitico - l’altra al pensiero,
giustappunto, logico-analitico. Come ha scritto Vincenzo Masini nel suo libro, uno dei pochissimi
sul tema d’autore italiano: “La narratività compare sulla scena proprio nel momento in cui la
medicina, giunta a straordinari traguardi di sviluppo tecnologico, sembra perdere la sua efficacia
proprio nel rapporto con il paziente…La medicina narrativa stimola tre processi: l’anamnesi
esistenziale e relazionale del vissuto del paziente…, la co-costruzione tra medico e paziente del
significato del vissuto di malattia e l’apertura progressiva della biomedicina ai contributi delle
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medicine complementari, naturali e quotidiane, oltre che alla crescita di un fecondo dialogo con la
sociologia, la psicologia e l’antropologia…”. Io aggiungerei, anche, con la letteratura e, in
riferimento al tema specifico di questo testo, con il cinema. E, aggiungerei anche, che non si tratta
soltanto, per i medici, di apprendere (o riapprendere) ad ascoltare le storie dei malati bensì anche ad
apprendere a, e avere il coraggio di narrare, agli stessi pazienti oltre che ai colleghi, le proprie, col
loro generalmente celato carico di incertezza e timore dell’errore, di identità insoddisfatta, di paura
della propria malattia e della propria morte viste nella malattia e nella morte altrui (è l’archetipo del
“guaritore ferito”, che sempre più spesso va narrativamente emergendo nella letteratura e nel
cinema dei nostri giorni: per esempio, nel volume autobiografico “Un medico, un uomo” del dottor
Ed Rosenbaum, da cui è tratto l’omonimo film, 1992, di Randa Haines). Se occorre, e non v’è
dubbio che occorra e persino con urgenza, riscoprire come la medicina sia fatta anche, e forse
soprattutto, di storie (oltre che di numeri, diagrammi e dati analitici), il cinema può costituire un
immenso archivio, formativamente disponibile e utile, di esse: in ormai oltre cento anni di esistenza,
infatti, esso ha saputo narrare centinaia e centinaia di stoie di malattie e di malati, di medici e di
sanità, cui sarebbe sciocco non attingere per formare medici di domani che sappiano pensare,
lavorare, dialogare coi propri pazienti anche utilizzando metodologie di natura qualitativo/narrativa
oltre che, seppur non in antagonismo con, metodologie di natura quantitativo/analitica.
3. La medicina e il cinema
Coetanea dell’invenzione, da parte di Sigmund Freud, della psicoanalisi nonché di quella, da parte
di Wilhelm Conrad Roentgen, dell’apparecchio a raggi X (Roentgen depositò presso la
Physikalisch-Medizinische Gesellschaft di Wurtzburg la comunicazione, con allegata l’immagine
radiografica d’una mano, della sua scoperta lo stesso giorno, il 28 dicembre 1895, in cui avvenne a
Parigi, presso il Salon Indién di Boulevard des Capucines, la prima proiezione dei Lumiére),
l’invenzione del cinema era destinata, come del resto le altre due, ad apportare significativi
cambiamenti nelle conoscenze e nei costumi degli uomini del secolo che stava nascendo, il
Ventesimo. Psicoanalisi, raggi X, cinema: tre modi innovativi di vedere cosa stava dentro gli esseri
umani, sotto la loro apparenza più superficiale, nelle profondità del corpo e della mente (tra l’altro,
cinema e raggi X rappresentarono, negli anni immediatamente successivi alla loro invenzione, due
affiancate e lucrose curiosità da baraccone fieristico e cinema e psicanalisi, nonostante il giudizio
poco lusinghiero che Freud aveva espresso sul cinema medesimo, s’incontrarono ben presto: fu nel
1926, infatti, che un allievo di Freud, Karl Abraham collaborò come consulente per il primo
psicofilm, “I misteri di un’anima”, regia di Georg Wilhelm Pabst). Pare che i Lumiére
considerassero il cinematografo un’invenzione priva d’alcun futuro commerciale ma erano invece
sicuri dell’interesse scientifico della loro invenzione. Auguste, in un’intervista del 1954 e dunque
ormai novantenne, ricordò che, disinteressato al cinema come arte, s’era dedicato “…alla biologia,
alla fisiologia, alla patologia, alla medicina…” (si può leggerla in Louis e Auguste Lumiére: “Noi
inventori del cinema. Interviste e scritti scelti 1894-1954, Editore Il Castoro, Milano, 1995 ).
Fautore della medicina umorale, fondatore di cliniche e riviste, autore d’oltre quaranta volumi
d’argomento medico, comparve anche, giustappunto in veste di medico, nel film “Pasteur”, 1922,
regia di Jean Epstein (un cineasta che aveva fatto studi medici e fu uno dei primi teorici del cinema
come arte). Logicamente, non soltanto dagli interessi biomedicali d’uno dei due fratelli che lo
inventarono nacque “… l’utilizzo del cinema come strumento di indagine, ricerca, divulgazione,
documentazione o propaganda nell’ambito degli studi medico-scientifici…” (come scrive Chiara
Tartarini nel suo “Anatomie fantastiche. Indagine sui rapporti tra il cinema, le arti visive e
l’iconografia medica”, Clueb, Bologna, 2003) ma proprio i Lumiére dettero contributi in tal senso,
in quanto “…si dedicarono molto presto alla microfotografia…(con)…la tecnica dell’autochrome,
che permise le prime immagini a colori di germi e tubercoli…(e)…fin dal 1896 si occuparono di
raggi X e produssero i negativi…grazie ai quali furono possibili le prime riprese
radiocinematografiche…”. Nei decenni seguenti, le due strade, quella del cinema scientifico/clinico
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e quella del cinema artistico/spettacolare, si son sempre più e giustamente divaricate ma la lontana
fratellanza d’origine ha continuato a esistere, tramite un’osmosi di forme, un dialogo di modelli,
un’attenzione reciprocamente profonda. Il rapporto tra cinema e medicina ha avuto modo di
svilupparsi anche in senso terapeutico, oltre che documentativo: già nel 1917 un critico americano,
Fred W. Philips, avanzò in un articolo intitolato “Il valore terapeutico del film” l’ipotesi che il
cinema potesse costituire un farmaco di particolare ed economica efficacia. L’idea, in seguito, fu
piuttosto combattuta che appoggiata dai medici, presso i quali prevalse, contro il cinema, uno spirito
di ostile crociata: fu affermato che provocava mille mali, da quelli alla vista (la cineoftalmia,
sindrome oculare da scintillio della luce di sala) a quelli mentali (il cinema fu definito come “…un
vampiro…succhiatore di cervelli…bevitore di anime…rapitore di coscienze…” (come racconta
Gian Piero Brunetta nel suo “Buio in sala”. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico”,
Marsilio, Venezia, 1989)). Peraltro, in anni recenti, la vecchia idea di Philips è andata vieppiù
prendendo campo e, prima negli Stati Uniti eppoi anche in Italia, si parla cinematerapia. Il suo
precursore è considerato il dottor Gary Salomon, autore di “The Motion Picture Prescription: Watch
this Movie and Call Me in the Morning. 200 Movies to Help You Heal Life’s Problems” (Aslan
Pub Publishers, 1995). Poi la metodologia cinematerapeutica ha travalicato la stretta competenza
medica, per esempio venendo fatta propria dal movimento femminista e producendo un libro come
“Cinematerapia. C’è un film per ogni stato d’animo” (Feltrinelli, Milano, 1993), manuale per
l’utilizzo autocoscienziale e psicoriparativo del cinema da parte di donne in crisi, scritto da Nancy
Peske e Beverly West, seconda le quali “Una buona pellicola è come un ricostituente lenitivo…”.
In Italia è da segnalare “Curare con il cinema” (CSE, Torino, 2001) dello psichiatra napoletano
Ignazio Senatore, peraltro giustamente convinto che “…la visione di un film non…(ha)…mai
potuto eliminare i conflitti, ridurre le ansie, placare le angosce di uno spettatore…”. Il tema
dell’utilizzo del cinema da parte della medicina resta comunque aperto e suggestivo. Personalmente
ritengo che esso possa rivelarsi utile soprattutto quale strumento di formazione, e counselling, alle
competenze della Narrative Medicine e alle riflessioni delle Medical Humanities: competenze e
riflessioni che abbisognano di ragionar su storie di vario tipo, potendo trovare in quell’immenso
archivio di filmiche storie (a cominciare da quella narrata nella prima opera cinematografica di
fiction avente per protagonista un medico: “The Country Doctor”, 1909, un breve film muto
narrante la dedizione alla propria missione d’un medico di campagna, realizzato da David Wark
Griffith, che del cinema come arte narrativa può essere considerato il padre) che è la storia del
cinema, un patrimonio immenso di fonti di meditazione e discussione.
4. Malati e medici sullo schermo
E’ costitutivo dell’arte e della scienza medica il poggiarsi sulla relazione tra due persone. Non è
così per alcuna – o quasi: dovrebbe avvenire anche nel campo dell’educazione - altra arte o scienza.
In medicina, il momento relazionale non fa da vago e facoltativo sfondo al momento tecnico bensì
gli è inestricabilmente legato, tramite una profonda relazione interna. Di ciò, il libro testimonia
persino strutturalmente, essendo distinto, ma tutt’altro che diviso, in due parti tra loro dialoganti:
una prima di cui son protagonisti i malati e le malattie, una seconda di cui son protagonisti i
medici e la sanità. Ciascuna parte è composta da venti capitoli. Quelli della prima parte son
dedicati a: il nascere, il crescere, l’ammalarsi, il diventare un paziente, i vari tipi di malattia (con
particolare attenzione al cancro e all’AIDS), la condizione femminile, l’handicap, i rapporti tra
salute e lavoro, quelli tra salute e ambiente, la salute mentale, le dipendenze, l’uso dei farmaci, il
rapporto tra cibo e salute, eccetera eccetera, fino all’invecchiare e al morire. Quelli della seconda
parte son dedicati a: la storia della medicina, le varie tipologie di medico, il diventar medici, il
filone dei Medical horror e dei Medical Thriller, la relazione tra medici e pazienti, le situazioni
pediatriche, l’ospedale, il manicomio, la psicoanalisi, la professione infermieristica, l’antropologia e
la sociologia medica, la malasanità, l’epistemologia della medicina, la medicina e la guerra,
eccetera eccetera, fino alla bioetica e al rapporto tra la medicina e la morte. In tal senso, le due parti
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son quasi speculari, affrontando sostanzialmente gli stessi argomenti ma con la differenza che nella
prima parte il punto di vista è quello dei malati (nel senso concreto che i protagonisti dei film presi
in considerazione e illustrati sono giustappunto persone ammalate) mentre nel secondo il punto di
vista è quello della medicina e della sanità (nel senso concreto che i protagonisti dei film presi in
considerazione e illustrati sono medici o altri professionisti sanitari). Ciascun capitolo d’entrambe è
articolato in tre sottocapitoli: il primo (“Il tema”) illustra l’argomento del capitolo stesso,
inquadrandolo nella storia, e nella filosofia, della medicina e del mondo (esso si rivela assai utile, in
sede formativa, per un sintetico inquadramento teorico di seminari o corsi monotematici); il
secondo (“I film”) presenta una sorta di, necessariamente non esaustivo ma assai ampio (sono citati
e illustrati oltre quattrocento film, complessivamente), catalogo di opere cinematografiche al tema
collegabili (e dunque utilizzabili, anche proiettandone singoli brani, in occasione dei suddetti
seminari o corsi); il terzo (“Il Film”) sceglie, tra le varie possibili sul tema, un’opera
cinematografica particolarmente significativa (in tutto sono quaranta, una per capitolo: da “Film
blu” a “Sussurri e grida”, da “Gli anni in tasca” a “L’impero americano”, da “Le chiavi di casa” a
“Caro diario”, da “Un medico, un uomo” a “La forza della mente”, da “Il grande cocomero” a
“Vivere”, da “Missione in Manciuria” a “La gente mormora”, da “Al di là della vita” a “Tutto su
mia madre”, da “Il mare dentro” a “Il medico della mutua” e così via), dedicandogli una peculiare
attenzione (si rivela assai utile, in sede formativa e proiettando il film per intero, come caso su cui
attivare più approfondite discussioni, ricerche d’aula, braimstorming tra i partecipanti e così via).
Insomma, considerando ogni capitolo una specie di unità didattica, “Il tema” ne rappresenta
l’inquadratura storico/filosofica, “I film” il repertorio delle fonti e degli esempi, “Il Film” il caso
esemplare da proporre all’approfondimento e alla discussione. Il fine è quello di promuovere,
attraverso l’utilizzo formativo di filmiche storie, un arricchimento della professionalità dei futuri
medici, e dei futuri professionisti della sanità in genere, che sappia ridonar loro la padronanza,
accanto a quella tecnico-specialistica e tecnologica, anche della dimensione antropologica,
relazionale, filosofica, in una parola umanistica, del loro mestiere, così riuscendo alfine a trovare
“…una cura filosofica per la biomedicina…” (come scrive Franco Voltaggio nel suo “La medicina
come scienza filosofica”, Laterza, Bari, 1998. In quella “…età della fine del V e del IV
secolo…(che)…rappresenta nella storia della professione medica uno dei punti di più alto
prestigio…- scrisse Werner Jaeger (nel suo “Paideia”, La Nuova Italia, Firenze, 1959) - … il
medico appare a un tempo come il rappresentante di una dottrina altamente specializzata e
metodicamente raffinata, e come l’incarnazione di un ethos professionale esemplare…”. Spero che
un’età simile possa far ritorno, facendosi il medico d’essa prestigioso protagonista nonchè trovando,
per imparare a farlo, ausilio anche in quel umile ma efficace strumento di pensiero, oltre che di
divertimento e di commozione, che è il cinema: un grande specchio del nostro tempo e come tale
capace di aiutarci a vedere noi stessi come guardassimo un altro. Andare al cinema può essere, in tal
senso, come porre la mano dentro una bocca della verità. Ho sempre pensato che proprio questo sia
il vero motivo che ci spinge a entrare, curiosi e timorosi, nel buio delle sue sale.
5. Un viaggio dall’uomo all’uomo. Conclusioni
Ha scritto Giorgio Cosmacini (nel suo “L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità ad oggi”,
Laterza, Bari, 1997) che “…di medicina si scrive moltissimo…(ma) …sulla medicina si scrive
molto meno. La medicina è un’arte-scienza molto sicura di sé…. Per questo una riflessione critica
sulla medicina viene a latitare dagli studi medici…”. Vorrei che tale riflessione cessasse di latitare,
così dando nuovo spessore culturale alla professione medica e al suo rapportarsi con i pazienti, la
società, il mondo. Se davvero la medicina e la sanità contemporanee soffrono di tre forme di crisi
epocale (si veda, in merito, il volume di Daniel Callahan “La medicina impossibile”,
Baldini&Castoldi, Milano, 2001), ovverosia una di fiducia (in se stessa e da parte della
popolazione), una crisi di unità (essendo ormai frammentata in una quantità impressionante di rivoli
specialistici spesso incapaci di dialogare tra loro e ricondurre a un approccio globale la cura del
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paziente/persona e non soltanto il trattamento dei suoi suoi diversi malesseri) e una crisi di
sostenibilità (dovuta al costo, non soltanto ma anche economico, crescente della sua
ipertecnologizzazione e del suo espansionismo sociale), e se il modo per affrontarle positivamente
risiede in “…una nuova alleanza tra medici e pazienti…” (come scrive Roberto Satolli alla voce
“Medicina” del “Dizionario di storia della salute”, Einaudi, Torino, 1996, da lui curato con Giorgio
Cosmacini e Giuseppe Gaudenzi), credo che il cinema possa rivelarsi uno, tra molti seppur
probabilmente non il più importante, degli strumenti culturali tramite il cui buon utilizzo, anche
formativo, tale nuova alleanza sia saldabile. Questo l’auspicio de “Lo specchio della vita. Medici e
malati sullo schermo del cinema”, nel suo invitare, giustappunto tramite il cinema, “…a vedere la
storia della medicina quale viaggio dall’uomo all’uomo…” (come scrive Franco Voltaggio,
auspicando che si possa alfine “…pensare alla storia dell’arte medica nei termini di una
autobiografia della specie…”, nel volume curato da Pino Donghi e Lorena Preta “In principio era la
cura”, Laterza, Bari, 1995).
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