Breve sguardo sul pensiero utopico del XIX secolo. L’utopia sociale, politica ed economica di Louis Blanc di Paolo Coluccia ([email protected]) Abstract Nel XIX secolo la società europea occidentale fu interessata da una profonda trasformazione culturale, economica e politica. Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema avvenne in alcune fasi: la rivoluzione agraria, l’aumento della popolazione, la proletarizzazione, la concentrazione della produzione nella fabbrica, lo sfruttamento meccanico di nuove fonti energetiche. Cominciò a prefigurarsi una nuova classe sociale: la classe operaia. Il movimento operaio, le lotte operaie, il pensiero operaio: lavoro, proprietà, lotta al capitalismo, insieme con riforme, organizzazione sociale, educazione e istruzione, costruzione di un mondo nuovo, libero e giusto. Il pensiero utopico, il socialismo utopico, il protosocialismo. Il giudizio di Marx. Louis Blanc e i tre fattori che dominano la storia e la società: l’autorità, vinta nel 1789 con la Rivoluzione; l’individualismo, che è scaturito dopo di essa; e la fraternità, che deve essere ancora instaurata tra gli uomini. Vita e opere. Il libro L’Organizzazione del lavoro. 1. 2. 3. 4. 5. INDICE Lo scenario socio-economico europeo nel XIX secolo. Dal vecchio al nuovo sistema produttivo. La nascita della classe operaia e le prime lotte sociali. Il pensiero utopico. Temi sociali, politici ed economici del socialismo utopico. Louis Blanc: la vita, il pensiero e le opere. L’Organizzazione del lavoro. 1. Lo scenario socio-economico europeo nel XIX secolo 1.1. Nel XIX secolo la società europea occidentale fu interessata da una profonda trasformazione culturale, economica e politica. In particolare, quel complesso fenomeno storico che si suole definire Rivoluzione industriale, che fin dalla metà del secolo precedente aveva, soprattutto in Inghilterra, delineato radicali trasformazioni nella vita sociale della popolazione, stava cominciando ad avanzare impetuosamente anche nelle altre nazioni europee, soprattutto nella Francia post-napoleonica. Con la grande Rivoluzione del 1789 la borghesia aveva conquistato i posti chiave della direzione statale. C’era poi stato il travaglio, tragico e avvincente allo stesso tempo, della parabola napoleonica, a cui erano subentrate le difficoltà sociali e politiche conseguenti alla restaurazione. Rispetto al resto dell’Europa, il trapasso dalla società feudale verso una concezione moderna del vivere sociale era stato molto più complesso ed articolato in Francia, dove si erano visti fiorire prima i Lumi e l’Enciclopedia e poi, oltre allo sconvolgimento del Bonaparte, i pensieri e le riflessioni di un numeroso e composito stuolo di rivoluzionari e politici, socialisti ed utopisti, anarchici e progressisti di varia levatura ed importanza. Come è stato acutamente osservato, molti erano i temi sociali alla base del periodo storico in questione: «Il problema dell’eliminazione dei resti dell’aristocrazia feudale e quello della limitazione del potere economico e politico della borghesia, il problema di come sovvenire ai bisogni della nuova classe che stava affacciandosi alla scena delle nazioni; questioni di distribuzione e di ridistribuzione della ricchezza, questioni inerenti all’autoaffrancamento (o per concessione dall’alto) delle classi oppresse, questioni di rinnovo, di sostituzione o anche d’eliminazione di una classe dirigente precocemente invecchiata; problemi di sollievo spirituale per il singolo e per la collettività, d’emancipazione e di libertà individuale, tanto per l’uomo che per la donna, d’umanizzazione e d’armonizzazione di tutto il complesso dei rapporti sociali: tutto questo era alla base del pensiero progressista europeo degli anni tra le «due» rivoluzioni (1789-1848) o, più limitatamente […] il prequarantotto, che copre gli anni della Restaurazione fino ai moti rivoluzionari di quello che Friedrich Engels definì l’uragano del ‘48»1. 1 G. M. BRAVO, Introduzione a Il socialismo prima di Marx, antologia di testi, Roma, 1973, p. 7. 1 1.2. La rivoluzione nei sistemi di produzione aveva accelerato in maniera vertiginosa un processo che tendeva ormai inesorabilmente a porre il primato della sfera economica all’interno della società e della stessa natura umana. «Nessun altro fatto storico, salvo la rivoluzione neolitica, è stato così profondamente, così drammaticamente, così inequivocabilmente rivoluzionario come la rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale creò una irrevocabile discontinuità nel processo storico. Dopo la rivoluzione industriale il mondo non è stato più e non potrà più essere quello di prima. E il cambiamento è avvenuto nel giro di poche generazioni»2. Il passato non era soltanto passato: era completamente morto, almeno per tutto ciò che si prefigurava riguardo ai sistemi produttivi e dell’organizzazione del lavoro. Occorre dire, per inciso, che la rivoluzione neolitica durò per svariati millenni e dette la possibilità all’essere umano di adeguarsi progressivamente. Invece, questo nuovo cambiamento, iniziato intorno alla fine del XVI secolo e proseguito inarrestabilmente lungo il XVII secolo, almeno inizialmente per la sola Inghilterra e poi progressivamente anche per le altre nazioni europee, cambiò nel giro di poche generazioni un modello di vita che era durato quasi inalterato per migliaia di anni sul pianeta. «Ciò che distinse gli ultimi decenni del Settecento in Inghilterra da ogni epoca precedente, fu che i mutamenti nella struttura economica si svilupparono congiuntamente ed in misura tale da garantire per i decenni successivi uno sviluppo inarrestabile e cumulativo. La novità era rappresentata dalla profondità e dalla persistenza delle trasformazioni»3. Tutte le forme di rivoluzione economica e industriale che interessarono l’Inghilterra, e poi le altre nazioni europee, provocarono mutamenti principalmente nell’organizzazione economica, nell’innovazione tecnologica e nella struttura dell’attività produttiva e commerciale. Il modello inglese era diventato, o stava diventando, anche se in tempi diversi nelle varie regioni europee, un modello di riferimento generale e portava con sé i vari benefici, le innumerevoli contraddizioni e gli incontestabili difetti. Ha osservato, infatti, Polanyi: «Dal sedicesimo secolo in poi i mercati erano ad un tempo numerosi e importanti. Nel sistema mercantile essi divennero una delle principali preoccupazioni del governo, tuttavia non vi era ancora alcun segno del prossimo controllo della società umana da parte dei mercati, al contrario: regolamentazione e disciplina erano più severe che mai, l’idea stessa di un mercato autoregolato era assente»4. Tra il XVII ed il XIX secolo avvenne un brusco cambiamento, un’accelerazione continua e sfrenata verso un’istituzione che finirà per diventare unica e incontrollata: il mercato. 2. Dal vecchio al nuovo sistema produttivo 2.1. Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema produttivo avvenne in alcune fasi: 1) la rivoluzione agraria, che si espresse con l’espropriazione dei terreni ai coltivatori, con la fine dei pascoli comuni, con l’impresa latifondista che concentrò la proprietà terriera, la sostituzione delle colture e dei cicli colturali ecc.; 2) l’aumento della popolazione che, per esempio, in Inghilterra nel giro di tre generazioni triplicò, e gradualmente la stessa cosa avvenne nel resto d’Europa; 3) la proletarizzazione, che in seguito all’aumento della popolazione e alla progressiva povertà nelle campagne, concentrò nelle periferie delle città larghe fasce di popolazione, attirate dallo sviluppo delle fabbriche, soprattutto manifatturiere, che richiedevano, nella prima fase, una massa di manodopera a buon mercato; 4) la concentrazione della produzione nella fabbrica, che sostituiva largamente il lavoro artigianale e quello svolto a domicilio; 5) lo sfruttamento meccanico di nuove fonti energetiche (acqua, vapore), più potenti dell’energia animale usata fino ad allora. Questo cambiamento non avvenne senza violenze ed abusi. Anche se relativamente lento, il progetto di trasformazione si mostrò inesorabile e spesso con aspetti sconvolgenti della vita fondata sulle consuetudini locali, e si servì di metodi d’esproprio disumani e vigliacchi: «La rivoluzione nell’agricoltura – dice Polanyi – precedeva decisamente la rivoluzione industriale. Tanto la 2 C. M. CIPOLLA, Introduzione a P. DEANE, La prima rivoluzione industriale, tr. it., Bologna, 1971, pp. IX-XI. P. DEANE, La Rivoluzione industriale in Inghilterra, in AA.VV. Storia economica d’Europa, tr. it., Torino, 1973, p. 120. 4 K. POLANYI, La Grande Trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Introduzione di A. Salsano, tr. it., Torino, 1974, p. 72. 3 2 recinzione dei terreni demaniali che il formarsi di proprietà compatte, che accompagnarono il nuovo grande progresso nei metodi dell’agricoltura, ebbero un potente effetto di sconvolgimento. La guerra alle aziende familiari, l’assorbimento di orti e terreni a conduzione familiare, la confisca dei diritti sui terreni demaniali privarono l’azienda familiare dei suoi due principali sostegni: i guadagni della famiglia e la sua base agricola. Fino a che l’industria domestica era sostenuta dai vantaggi e dalle possibilità di un orto, di un appezzamento di terreno o dai diritti di pascolo, la dipendenza del lavoratore dal reddito monetario non era assoluta; il campicello delle patate o tenere le oche, una mucca o anche un asino nei terreni demaniali, faceva tutta la differenza e i guadagni famigliari funzionavano come una specie di assicurazione contro la disoccupazione; la razionalizzazione dell’agricoltura sradicò inevitabilmente il lavoratore e ne minò la sicurezza sociale»5. 2.2. Ai mutamenti sopra individuati, se ne devono aggiungere degli altri, spesso consequenziali, come l’innovazione tecnologica, la produzione in serie su scala sempre più grande, la spersonalizzazione dell’impresa capitalistica che non produceva più per le persone in forma diretta, ma per il mercato, e l’evoluzione del commercio nazionale ed internazionale, sia per quanto riguardava i prodotti finiti sia per quanto riguardava l’approvvigionamento delle materie prime da trasformare nelle fabbriche. «I mutamenti della tecnologia sono in gran parte il risultato dell’applicazione delle conoscenze scientifiche e dello spirito di innovazione al processo di produzione e di distribuzione, e sono state in genere caratterizzate da due principali tipi di sviluppo: 1) l’impiego di macchine che sfruttano fonti di energia inanimate; 2) la sostituzione delle materie prime tradizionali con nuove materie prime meno costose e più abbondanti (ad esempio carbone e ferro al posto della legna, cotone al posto del lino, gomma invece del cuoio)»6. D’altro canto «i mutamenti nella struttura industriale implicano il passaggio di risorse del settore primario ai settori secondario e terziario, dalla produzione di beni di consumo a quello dei beni d’investimento, dai beni di lusso alla produzione di massa, dalla campagna alla città»7. 3. La nascita della classe operaia e le prime lotte sociali 3.1. Cominciò così a prefigurarsi una nuova classe sociale, la classe operaia, concentrata sia nei luoghi di lavoro, sia negli agglomerati urbani industrializzati, che proprio per questo cominciò ad organizzarsi e a solidarizzare, al fine di preservare i propri interessi. Dal 1825 al 1848 il progresso economico fu ondulatorio: in 23 anni ci furono 8 anni di sviluppo e 15 anni di crisi economica e occupazionale. «La nuova organizzazione economica permette un formidabile aumento della produzione, un considerevole sviluppo degli scambi commerciali, in un regime di liberalismo economico, così chiamato perché accorda alla produzione industriale la libertà di svilupparsi senza impedimenti. Questo regime della produzione ha potuto svilupparsi solo grazie al concentramento d’una mano d’opera abbondante nelle città e nei distretti industriali. È una prosperità economica pagata a caro prezzo. La grande industria produce in modo massivo e discontinuo. Essa obbedisce ad un ritmo: periodi di sviluppo e periodi di depressione accoppiati formano una crisi continua. […] Quindici anni di miseria su ventitré. Ma il concentramento degli operai ha avvicinato e unito tra loro i lavoratori. Le sofferenze subite in comune li affratellano mentre le loro ire individuali si fondono in un momento di rivolta collettiva. È nata una nuova classe»8. Nasceva il movimento operaio, che si fondava su un pensiero operaio, che non può essere identificato con il pensiero socialista. «Si tratta di un “pensiero”, frutto di esperienza collettiva più che di teoria elaborata in modo chiaro e distinto, risultato dell’opera degli umili e degli oppressi considerati come classe piuttosto che di singoli individui»9. Gli ideologi e gli scienziati sociali arriveranno dopo, per mettere a punto teorie e pratiche rivoluzionarie o riformiste. Alcuni di essi 5 Ivi, pp. 117-118. P. DEANE, Op. cit., p. 120. 7 K. POLANYI, Op. cit., p. 74. 8 É. DOLLÉANS, Storia del movimento operaio. 1830-1871, tr. it., Firenze, 1968, p. 17. 9 E. RAGIONIERI, Introduzione a É. DOLLÉANS, Op. cit, p. XIV. 6 3 saranno più sensibili, altri più visionari, altri ancora più razionali e scientifici, con intuizioni a momenti confuse e in altri più chiare. «La storia del movimento operaio è fondamentalmente la storia dell’autonomia della classe operaia, e cioè del suo declinarsi come classe oggettivamente indipendente nel contesto del processo sociale caratterizzato dalla rivoluzione industriale; più precisamente, è storia del formarsi autonomo della sua coscienza di classe, nelle determinazioni associative che questa coscienza di classe assume»10. 3.2. Le prime lotte per il miglioramento sociale ed economico furono quelle che si manifestarono contro le macchine11, alle quali si attribuiva la perdita di forza lavoro, e quindi la disoccupazione, e pertanto causa principale della miseria e dell’indigenza. Verso la fine del XVIII secolo si era cominciato a diffondere un movimento d’opposizione sociale relativo alla meccanizzazione del lavoro, il luddismo, che riteneva le macchine colpevoli di togliere lavoro alla gente. Prese il nome da Ned Ludd, che nel 1779 aveva distrutto un telaio meccanico. In seguito, questo capo rivoluzionario era riuscito ad organizzare vere e proprie bande d’operai tessili, di lavoratori a domicilio e di piccoli artigiani, che si dedicavano, con azioni da guerriglia, alla lotta e alla distruzione delle macchine nelle fabbriche. Fu questo un inedito tentativo d’opposizione al nuovo sistema produttivo, accompagnato e sospinto dalla miseria e dallo sfruttamento di una popolazione che affrontava condizioni di vita veramente precarie e che sopportava, quando non era disoccupata, condizioni di lavoro massacranti. Il lavoro è la struttura costitutiva della vita dell’operaio. Divisione del lavoro, processi di produzione e macchine fanno sparire i mestieri. Le macchine spogliano l’operaio, gli fanno mancare quel sostegno tradizionale e millenario. La funzione dell’operaio nella fabbrica diventa parte marginale di un congegno, di un ingranaggio, una parte egli stesso della macchina. «Spodestando l’operaio, la macchina troppo spesso lo getta sul lastrico. Il ritmo della grande produzione fa pesare sul lavoratore l’incertezza; la minaccia di restar senza lavoro incombe sull’operaio. L’incertezza, forse, di tutti i mali è il peggiore»12. Quando si apre la prospettiva di un licenziamento, quando si pensa di non ricevere più un salario, quando la vecchiaia può essere intravista come un incubo, il lavoro quotidiano reso precario diventa pesante, specie se è sottopagato e se viene reso in condizioni ambientali infime: 15-16 ore al giorno, ambienti malsani con l’aria irrespirabile, senza igiene, da 27 a 29 gradi Celsius, con regolamenti di fabbrica che puniscono con pesanti ammende le infrazioni, come chi apra una finestra, chi accenda troppo presto la luce a gas la sera o la spenga troppo tardi la mattina, chi fischi durante il lavoro, chi si lavi o si sporchi durante il lavoro ecc. Le agitazioni luddiste furono duramente represse. Fu persino prevista la pena di morte per chi venisse accusato di distruggere le macchine. L’apice degli scontri si ebbe intorno al 1811, quando numerose fabbriche furono assaltate col fine di distruggere le macchine. Disperso e decimato dalla repressione, questo movimento in seguito cambiò strategia, diventando qualche volta società di mutuo soccorso, mentre altre volte si prefisse obiettivi sindacali veri e propri, rivolti al riconoscimento sociale e politico delle masse di lavoratori sfruttate e ridotte alla miseria. E proprio nel 1811 nacque Louis Blanc, storico, giornalista e studioso di problemi sociali, autore del libro L’Organizzazione del lavoro. Egli perseguì per tutta la vita forti idee utopiche e riformistiche di liberazione sociale, basate sulla democrazia e sul socialismo, sulla cooperazione economica e sulla collaborazione istituzionale, e si contrappose con tutte le forze ad ogni forma d’assolutismo unilaterale, allo sfruttamento indecente ed inumano della povera gente e soprattutto alla concorrenza come fattore primo e demenziale di ogni tipo di competizione, considerata la causa principale di tutti i mali dell’umanità, persino delle stesse classi dominanti, che secondo lui erano costrette a farsi una guerra perenne nella corsa all’innovazione, con l’impiego d’ingenti capitali, 10 Ivi, p. XI. Gli inventori delle nuove macchine per le industrie erano persone semplici, spesso illetterate, ma con grande ingegno: John Kay, meccanico e tessitore, inventò la spoletta volante; James Waytt, carpentiere, progettò la filatura meccanica; Metcalf, non vedente, perfezionò l’arte della costruzione delle ruote; Brindley, figlio di un pastore, costruì un ponte su di uno stretto; Bell, semplice apprendista presso un costruttore di mulini, sfruttò la forza del vapore; Stephenson, figlio di un pompiere, costruì la prima locomotiva. Tutti questi personaggi «non avevano la percezione dello sconvolgimento che le loro invenzioni avrebbero portato nell’esistenza dei loro compagni di lavoro» (É. DOLLÉANS, Op. cit., p. 17). 12 Ivi, p. 4. 11 4 nella riorganizzazione continua del lavoro, nella gestione dei ricavi e delle perdite e nella conquista di nuovi mercati dove piazzare le grandi quantità di manufatti prodotti. 4. Il pensiero utopico. Temi sociali, politici ed economici del socialismo utopico 4.1. Genericamente si tende a chiamare il movimento politico socialista prima di Marx protosocialismo o pensiero premarxista. In questo complesso movimento rientrano numerosi pensatori, politici, rivoluzionari che hanno intuito in maniera più o meno chiara che nella società moderna si era aperta una profonda frattura, che essi hanno interpretato in modo rivoluzionario o riformatore. Si era ormai dischiusa un’epoca fatta di lotte, rivendicazioni e speranze di giustizia sociale ed economica. Nulla e nessuno hanno più arginato, nel corso dei tempi, la frattura tra la borghesia e questi movimenti rivoluzionari13. Ormai si prefiguravano nuovi criteri interpretativi della realtà, se ne scorgevano le contraddizioni, si concettualizzavano metodologie, teorie e pratiche d’intervento sociale, soprattutto nell’ambito dei temi del lavoro, dello sfruttamento degli operai nelle fabbriche capitalistiche, della soggezione sociale e dell’impedimento alla libera espressione dei diritti fondamentali. Le radici ideologiche e le riflessioni di questi pensatori erano antiche. Il processo partiva da lontano, dal messianismo ebraico, dalle impostazioni filosofiche del passato, ad iniziare dal disegno politico-utopico della Repubblica di Platone. E transitavano poi nelle affermazioni di principio del Cristianesimo (o meglio dell’ «annunzio evangelico», che trascende nel progetto di fraternità dell’umanità), come l’uguaglianza, la liberazione, la giustizia, la fraternità; poi nelle riproposizioni del millenarismo (a partire dal II secolo) e delle comunità messianiche, delle sette eretiche e dei movimenti protestanti nel corso dei secoli successivi; per giungere alle più recenti e famose espressioni filosofico-utopico-letterarie di pensatori come Thomas Moore (L’Utopia, 1516), Francis Bacon (La Nuova Atlantide, 1621), Tommaso Campanella (La Città del Sole, 1630), George Harrington (Oceana, 1656), e agli scritti romanzeschi che raccolgono una grande varietà di progetti sociali, con i quali i loro autori si sono soffermati a descrivere società giuste e liberali, rapporti umani felici, basati sulla solidarietà e sulla fraternità. Nel Seicento, e soprattutto nel secolo dei Lumi e dell’Enciclopedia, avvengono in sequenza alcuni grandi eventi rivoluzionari, a partire dalla Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento del 1640-1653 (da cui scaturisce il Patto del Popolo inglese), fino alla Dichiarazione d’Indipendenza delle colonie americane nel 1776 e, infine, alla grande Rivoluzione francese del 1789, da cui scaturisce la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino». Si aprono così nel mondo occidentale, in maniera dirompente ed irreversibile, nuove prospettive sociali fondate sulla speranza di libertà e sulla giustizia sociale. A queste andranno ad aggiungersi i movimenti rivoluzionari del XIX secolo e poi, nel ‘900, la Rivoluzione Russa e la Contestazione giovanile degli anni 1960-197014. 4.2. Lavoro, proprietà, lotta al capitalismo furono, dunque, i temi di fondo dei protosocialisti. Poi anche l’organizzazione sociale, le riforme, l’educazione e l’istruzione sociale, la costruzione di un mondo nuovo, libero e giusto. Dopo il 1848 il movimento sfociò nell’internazionalismo, che si nutrì di pacifismo (la guerra evento immorale, fatta dai poveri per conto dei ricchi), e di lotta unitaria delle classi operaie in tutto il mondo per l’emancipazione sociale e per la liberazione dallo sfruttamento. Anche questo proveniva dalle idee socialiste prequarantottine: è risaputa l’intesa esistente fin dal 1835 a Parigi tra i socialisti francesi, gli altri gruppi socialisti europei, soprattutto inglesi, tedeschi e svizzeri, e le varie società segrete. Certo, dopo i fatti del ’48, con gli sviluppi sociali, politici e teorici, il movimento si allarga e si collega sempre più, sia col fine di internazionalizzare il processo di solidarietà delle classi lavoratrici, sia per preparare il processo storico rivoluzionario del proletariato. Pertanto, i pensatori, i riformisti e i rivoluzionari premarxisti sono dunque utopisti15, nonutopisti o socialisti? Forse, rivisitando i termini in modo più appropriato, non si può non 13 Cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, tr. it., Torino, 1949. Cfr. A. COLOMBO, L’Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Bari 1997. 15 Nel senso spregevole e contraddittorio affibbiato loro da Marx. 14 5 riconoscere che furono un po’ tutte e tre le cose; ma anche di più, perché lottarono attivamente per le loro idee e non si nascosero in mondi o in zone desertiche avvitati su idee irrealistiche; perché le loro idee essi le pubblicarono in tanti libri, giornali e riviste, per le loro idee furono perseguitati, condannati, incarcerati, esiliati, giustiziati o semplicemente uccisi nelle sommosse, soffocate sempre nel sangue dai più diversi ed autoritari governi europei dell’epoca. È sbagliata, dunque, l’idea che di essi ci si è genericamente fatta, quasi siano stati degli isolati, rinchiusi in se stessi e nelle loro elucubrazioni mentali. Anzi, fu proprio l’opposto, discussero continuamente tra loro, spesso animatamente e fino a scontrarsi, furono perseguitati, spaziarono su territori e nazioni (a volte proprio perché perseguitati), parlarono e scrissero in varie lingue, aspirando con le loro riflessioni e con i loro programmi ad una società armonica e senza classi che si andrà poi via via realizzando, tra mille difficoltà e con differenti percorsi, rivoluzionari o riformistici, nel secolo successivo. È stato infatti scritto giustamente che «essi operarono per lo loro «utopie», ebbero giornali, diressero associazioni operaie, rivoluzionarie e di riforma, parteciparono a movimenti intellettuali e politici, furono maestri con molti allievi e diedero vita, in numerosi casi, a vere e proprie scuole: svolsero insomma una gran mole d’attività politica, che, pur sovente priva di mordente e imprecisa, con limiti non definiti in modo chiaro, rappresentò uno dei più significativi filoni teorici del movimento operaio e socialista alle sue origini»16. 4.3. Raggruppare tutti questi intellettuali e uomini d’azione in un contesto unico di pensiero può rappresentare una vera e propria forzatura. Tante sono le loro differenze, sia di tipo individuale, sia per appartenenza a vario titolo a differenti scuole di pensiero. Non faremo loro giustizia indicandone per grosse linee, seppur in maniera non esclusiva, le appartenenze, le scuole di pensiero e le organizzazioni sociali di cui fecero parte, ma non possiamo fare altrimenti; fermo restando, però, che tutti, indistintamente, ebbero un solo scopo principale nella loro vita: migliorare concretamente la vita sociale ed economica delle persone e la società in generale. Pertanto, possiamo distinguere: 16 La linea rivoluzionaria e radicale, che parte da François Noël Babeuf (1760-1797), che poneva il comunismo come effetto improcrastinabile della situazione economica e politica. Ne fece parte anche Filippo Buonarroti (1761-1837) e gran parte degli esponenti dei movimenti insurrezionali e rivoluzionari del XIX secolo, tra cui il neobabuvista Auguste Blanqui (18051881), che concepì la lotta di classe e l’azione rivoluzionaria come unico criterio per liberarsi dalle classi dominanti. La corrente socialista ideale che fa capo a Henry de Saint-Simon (1760-1825), critico dell’anarchia capitalista, il quale si prefiggeva di riorganizzare il capitalismo, piuttosto che eliminarlo. I suoi seguaci s’inserirono concretamente nella vita economica francese, osservando quasi religiosamente i precetti dell’opera più famosa del loro maestro, Il nuovo cristianesimo, soprattutto nell’organizzazione sociale, nel lavoro e nella soppressione dello sfruttamento dell’essere umano. Ne fecero parte Prosper Enfantin (1796-1851), Saint-Amand Bazard (17911856), Olinde Rodriguez (1794-1851), Philippe Buchez (1795-1856) e Pierre Leroux (17971871). Questi ultimi due, repubblicani e profondi conoscitori dei problemi del proletariato, in seguito si staccarono dalla scuola sansimoniana. Caposcuola di una terza corrente socialista francese fu Charles Fourier, che accentuò drasticamente la critica al capitalismo e allo stato borghese. La società doveva essere armonica e libera e doveva rifuggire il parassitismo e l’anarchismo capitalista. Il modello organizzativo era il falansterio o falange, piccole comunità di circa 1800 individui, dove tutti godevano della libertà, del lavoro e dell’autonomia. La rivoluzione era rifiutata per principio, mentre si prediligeva la via del buon esempio dei più illuminati. Riforma sociale senza rivoluzione fu il motto del giornale La Falange, fondato da un importante esponente di questa linea di pensiero, Victor Considérant (1808-1893). G. M. BRAVO, Storia del socialismo, cit., p. 35. 6 5.3. Intorno a queste grosse linee di pensiero e d’azione ruotano e si sviluppano idee autonome e complementari, appartenenti ad un insieme di pensatori, scrittori e uomini politici, tra i quali occorre ricordare: 17 18 Robert Owen (1771-1858), industriale illuminato inglese, tentò di costituire comunità di lavoro fondate sulla collaborazione e sull’educazione intellettuale dei lavoratori. Le sue iniziative socialiste riformistiche e cooperative, rivolte al miglioramento sociale ed economico, vanno sotto il nome di New Lanark (in Inghilterra) e di New Harmony (in America); dai rispettivi villaggi dove impiantò le sue organizzazioni produttive, che purtroppo si rivelarono fallimentari. Si dedicò, inoltre, all’organizzazione degli operai e fondò giornali. Nella sua opera più famosa, A New View of Society, tentò una sistemazione delle sue idee riformistiche dell’organizzazione sociale. Osservatore attento degli effetti nefasti della rivoluzione industriale sulla popolazione, non si perse mai d’animo nelle difficoltà e fu sempre sostenuto dalla fiducia che comunque fosse possibile agire sulla società per il miglioramento sociale ed economico degli esseri umani. Fu profondamente consapevole della distinzione tra società e stato: «Egli considerava lo stato – dice Polanyi – semplicemente per quello che esso poteva realizzare, per un utile intervento designato ad allontanare il male dalla comunità e decisamente non per organizzare la società […], e che le tendenze inerenti alle istituzioni del mercato [dovessero essere] controllate da una consapevole direzione sociale resa efficace attraverso la legislazione. […] Egli coglieva il fatto che ciò che appariva soprattutto come un problema economico era esclusivamente un problema sociale»17. Influì con le sue idee in Inghilterra e in Europa, soprattutto tra i primi socialisti cristiani, come Etienne Cabet (1788-1856), autore di un progetto utopico intitolato Icaria, che di Owen accolse le idee pacifiste, e tra i sansimoniani, che furono sempre in collegamento con le idee scritte nei giornali oweniani. Anche il sarto tedesco Wilhelm Weitling fu influenzato positivamente da Owen. Figura centrale del dibattito socialista prequarantottesco, portatore di cultura operaia e comunista, Weitling promosse in modo entusiasta ed idealista la lotta di classe. Autodidatta, scrisse Garanzie dell’armonia e della libertà e L’umanità come è e come dovrebbe essere; anche se, in seguito ai numerosi fallimenti, si abbandonò ad un astratto atteggiamento profetico, isolandosi progressivamente dal movimento operaio. Owen, invece, fu criticato aspramente, oltre che da Marx, da Fourier, che respinse l’owenismo bollandolo di settarismo e «ciarlatanismo». Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), economista e filosofo, aspramente attaccato da Marx in Misère de la philosophie, che lo definì «né filosofo né economista», cercò nella maturità di pensiero di trovare un equilibrio tra individuo, comunismo e capitalismo, alla ricerca di una complessa conciliazione degli opposti, che purtroppo ben si manifestavano in una altrettanto complessa società, che tenderà negli anni successivi a diventarlo sempre di più. Si distinse per l’attacco frontale portato al concetto di proprietà. Se Che cos’è la proprietà? (1840) è il titolo della sua opera più famosa, la sua risposta compare già nelle prime righe: «La proprietà è un furto!». Nell’opera egli tentò di dimostrare che la proprietà è impossibile ed irrazionale: da questo doveva necessariamente derivare l’uguaglianza economica e, quindi, politica degli esseri umani. Marx ed Engels elogiarono questo scritto nella Sacra famiglia prima e, successivamente, anche dopo la sua morte, ritenendola un’opera che aveva fatto epoca, «se non per la novità di ciò che afferma, per lo meno per il modo nuovo e ardito con cui tutto vien detto»18 Figura complessa ed intelligente, Louis Blanc non sfuggì alle sollecitazioni e influenze di pensiero del suo tempo. Ritenuto persino poco originale, pur non ricoprendo un ruolo di caposcuola non mancò di influenzare molte persone che gli furono vicine. Di lui rimane indelebile la composta coerenza della decisione e dell’impegno, il rifiuto della violenza e la via social-democratica riformatrice basata sulla collaborazione e l’associazionismo nella vita sociale, economica e politica. In relazione con Blanc, perché di lui fu collaboratore fidato, serio e discreto, oltre ad essere stato segretario della Commissione del Luxembourg di cui Blanc era presidente, merita un cenno particolare Constantin Pecqueur (1801-1887). Economista e K. POLANI, Op. cit., pp. 161-163. Riportato da G. M. BRAVO, Storia del socialismo, cit., p. 135. 7 pubblicista, interessò lo stesso Marx e dallo stesso fu tenuto in grande considerazione, perché ricavò dalle sue opere molte notizie utili per l’elaborazione del suo pensiero. Dallo studio delle opere di Saint-Simon e di Fourier, Pecqueur trasse un ampio interesse per i problemi sociali, arrivando a formulare una teoria collettivistica che non mancò d’influenzare lo stesso Blanc e Proudhon. Pecqueur fu un grande critico del laissez-faire di origine liberista in economia, concepì il possesso della proprietà come un diritto universale; fu avversario inclemente del fatto che in economia politica si fosse permesso che l’uomo avesse perso le sue indiscusse qualità, al solo scopo di salvaguardare il progresso materiale e la sempre maggiore produzione. «Far produrre di più – egli sosteneva – senza distribuire equamente, è aumentare il sacrificio di coloro che meritano; distribuire meglio senza produrre di più è realizzare poco di ben fatto, ma almeno è fare giustizia». Pecqueur ebbe una concezione quasi religiosa dello stato, che nella sua concezione socialista poteva raggiungere una perfezione altissima, a condizione che ogni uomo si fosse affidato alla sua forza morale, dopo aver spazzato via l’anarchia capitalistica e il liberismo sfrenato, che sfruttava immoralmente la gran parte della società. Fondò nel 1849 un periodico, La salvezza del popolo, sul quale espose le sue idee socialiste. Sostenitore del suffragio universale, considerato l’unico strumento che poteva garantire i principi fondamentali di uguaglianza, sovranità e diritto, perorò la causa della rappresentanza delle donne. Lo stato doveva pertanto costruire e garantire le riforme, soprattutto doveva intervenire dove era più necessario, come nell’istruzione, nel sostegno alla famiglia, per la quale era previsto il divorzio. Ma per arrivare ad uno stato socialista, Pecqueur escludeva in modo assoluto la violenza e la rivoluzione: occorreva insistere sulle possibilità che il suffragio universale offriva, e sul sostegno proveniente dalle analisi economiche, sociologiche e, soprattutto, etiche. Sulla stessa scia di Pecqueur, scrittore squisitamente comunista, come venne definito dallo stesso Marx nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, François Vidal (1814-1872) si distinse per aver affrontato apertamente i temi del lavoro nella vita sociale e la libertà di lavorare senza essere sfruttati. Vivere lavorando è il titolo di un suo libro pubblicato nel 1848, e «Il lavoro affrancato» è il titolo di un giornale settimanale apparso tra la fine del ’48 e la metà del ’49, con il quale cercò di dar voce all’associazionismo dei lavoratori. Partecipò alla rivoluzione di Febbraio e, oltre che amico e collaboratore di Blanc e di Pecqueur, fu anche lui segretario di Blanc alla Commissione di Luxembourg. Amava definirsi un «veterano del socialismo», coerente fino in fondo con le idee riformiste dello stato e dell’economia. «Il nostro programma – egli sostenne dalle pagine del suo giornale – è il programma di Febbraio, il programma della repubblica democratica e sociale […]. In Febbraio il popolo, guidato dal sentimento, che è la ragione istintiva delle masse, ha richiesto: il diritto al lavoro; l’abolizione di ogni sfruttamento dell’uomo attraverso l’uomo; l’organizzazione del lavoro mediante l’associazione». Risulta fino in fondo chiara ed inequivocabile la sintonia di pensiero con Blanc che traspare da questo proclama. Tanti gli altri nomi che si potrebbero aggiungere a questo ridottissimo elenco. Ma non faremmo loro giustizia con la semplice citazione o con le poche righe che potremmo scrivere qui sulle loro idee sociali e politiche. Per una disamina approfondita rimandiamo allo studio già citato di Gian Mario Bravo, perché non possiamo esimerci, o ritardare più di tanto, di riportare, anche se in maniera sommaria, la posizione critica dello stesso Marx nei confronti di questi autori e movimenti socialisti, che egli – come abbiamo già detto – definì sprezzantemente utopisti. E forse, in un certo senso, a ragione; anche se in molti anni della sua vita visse a fianco a loro, ne conobbe le idee, ne lesse molti scritti, ne ammirò lo spirito collaborativo e la solidarietà che ispiravano i gruppi sociali da essi fondati; contribuendo in ogni caso ad un approfondimento critico e conoscitivo degli stessi in molte pagine delle sue opere, soprattutto nel Manifesto del Partito Comunista, scritto insieme con Engels, in alcune opere giovanili, in quelle precedenti Il Capitale e nel Capitale stesso. 4.5. Marx, proprio negli anni della sua maturazione filosofica e politica, si trova a diretto contatto con gli ambienti parigini socialisti e rivoluzionari. Frequentò le associazioni comuniste di artigiani francesi a Parigi, specialmente nel suo soggiorno del ’44, periodo in cui scrisse l’opera frammentaria, ma molto importante per lo sviluppo del suo pensiero, Manoscritti economico8 filosofici del 1844. Di questi gruppi, peraltro assai criticati, Marx ammirò «la spontaneità dello slancio rivoluzionario e la genuinità dello spirito solidale»19. Nel descrivere le riunioni, Marx nei Manoscritti critica aspramente questa forma di comunismo rozzo e primitivo dei socialisti francesi. Spesso è citato Proudhon, ma di sfuggita anche Saint-Simon, Fourier, Owen. Ignorato completamente Blanc, che sicuramente Marx non teneva per niente in considerazione a livello teorico e pratico. La ricerca marxiana, protesa a dare al comunismo un fondamento teorico nella lotta di classe e nella rivoluzione, non poteva che trascurare lo stile oratorio e appassionato di stampo riformista e interclassista con cui Blanc esprimeva le sue idee. Sicuramente era considerato da lui un piccolo-borghese che cercava di conciliare stato, proletariato e borghesia. Pertanto, Marx non poteva vedere di buon occhio il radicalismo democratico di estrazione piccolo-borghese di Blanc, nel quale si manifestavano un profondo umanitarismo, le simpatie verso i lavoratori sfruttati, le sollecitazioni veementi e appassionate alla coscienza e alla ragione degli uomini, affinché si contrastassero le ingiustizie e le oppressioni della povera gente. Blanc, come si è già detto, fu persino aspramente deriso da Marx, alla stregua di quasi tutti gli altri socialisti, rozzi e volgari utopisti lontani dalla realtà; perché essi non potevano pretendere, con generici ideali e futili proclami, di sovvertire la «merda economica» che accompagnava il processo capitalistico della borghesia: «Hegel – egli scrive in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte del 1850 – nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ma dimentica di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Coussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1841-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio»20. Forse un giudizio un po’ troppo ingeneroso, tagliente e sarcastico, anche perché non tiene un gran ché conto dei fatti sconvolgenti e restaurativi avvenuti tra la rivoluzione del ’79 e la nuova fase rivoluzionaria di metà secolo; in considerazione del fatto che proprio da qui invece si diparte il complesso processo di democraticizzazione della società di molti paesi dell’Europa occidentale. 5. Louis Blanc: la vita, il pensiero e le opere. L’Organizzazione del lavoro. 5.1. Jean Joseph Charles Louis Blanc nacque a Madrid, dove il padre era ispettore generale delle Finanze per conto di Giuseppe Bonaparte. La sua famiglia, in origine agiata e benestante, cadde in disgrazia economica in seguito alla restaurazione avvenuta dopo il Congresso di Vienna (1815). Pur tra le ristrettezze economiche frequentò le scuole superiori e con grandi sacrifici studiò legge. Verso il 1830, dopo la rivoluzione, andò a Parigi, per stabilirsi qualche tempo dopo ad Arras, riuscendo a malapena a sopravvivere facendo il precettore privato e collaborando con qualche giornale locale, come il «Progrès du Pas-de-Calais». Dopo due anni ritornò a Parigi, dove lavorò, come giornalista, ai giornali «National» e «Bon Sens». Di quest’ultimo diventò nel 1837 redattore capo. Cominciò quindi ad essere conosciuto per i suoi ideali, soprattutto per l’impegno profuso nella campagna dell’estensione del suffragio universale dalle pagine della rivista, che aveva contribuito a fondare nel 1839, «Revue du progrès» e del giornale «La Réforme». Si distinse anche per il forte impegno critico e progressista e, contrario alle privatizzazioni di strutture di pubblico utilizzo, condusse una forte campagna contro la concessione a compagnie private della costruzione e della gestione delle linee ferroviarie. Acquistò anche una buona reputazione come storico in seguito alla pubblicazione di alcuni lavori come Histoire de dix ans. 1830-1840 (tenuta in considerazione per influenza e merito indiscusso dallo stesso Engels qualche anno più tardi in una lettera a Marx) e Histoire de la Révolution française, che riscosse un grande successo, nella quale difese la figura storica di Robespierre. Giornalista e storico in un’epoca in cui le due attività costituivano per un uomo di sinistra il mezzo più sicuro per arrivare alla notorietà e alla politica, Blanc diventò celebre grazie ad un piccolo libro intitolato L’Organisation du travail (L’Organizzazione del lavoro), pubblicato per la prima volta nel 1839 nella «Revue du progrès». Tra il 1840 e il 1848 il libretto, una delle opere 19 20 N. BOBBIO, Prefazione a K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it., Torino, 1968, p. VIII. Tr. it. di P. Togliatti, Roma, 1947, p. 9. 9 d’ispirazione socialista più lette dagli operai francesi, raggiunse le dieci edizioni. In esso, con stile chiaro e pungente, egli tratteggiò la sua azione politica degli anni futuri, che non furono in realtà molto facili. Per lui, tutti i mali che affliggevano la società ad ogni livello, sia tra operai sia tra imprenditori, sia tra istituzioni sia tra nazioni, erano causati dalla concorrenza. Questa provocava una grande pressione sociale ed erano sempre i più deboli quelli destinati a soccombere. Facendo sua la critica sociale di Fourier, egli propose il passaggio ad una società rinnovata, che avesse come fine il miglioramento morale e materiale di tutti, mediante i principi d’associazione e di cooperazione, ispirati da un’azione istituzionale dello Stato fondato sulla democrazia, che esercitasse il suo potere senza prevaricazioni e violenza, e che introducesse le riforme necessarie per assicurare a tutti finanziamenti, lavoro e abbondanza, senza però ricorrere a rivoluzioni, a spargimenti di sangue e senza contrapposizioni faziose e fanatiche. Le idee politiche di Blanc si rivolgevano, oltre che agli operai, anche ai piccoli artigiani e ai piccoli commercianti in procinto di essere spazzati via dal capitalismo industriale monopolistico e invadente. 5.2. Tre fattori dominano per Blanc la storia e le società: l’autorità, vinta nel 1789 con la Rivoluzione; l’individualismo, che è scaturito dopo di essa; e la fraternità, che deve essere ancora instaurata tra gli uomini. Per farlo, occorrerà sopprimere la concorrenza selvaggia nell’economia e negli stessi esseri umani, fortemente invischiati in un processo competitivo perdente e mistificante. La via non potrà essere che quella orientata ad una strategia cooperativa nelle fabbriche e tra le fabbriche stesse, alla cui base c’è la famosa idea degli ateliers sociali (laboratori sociali). Lo Stato ne sarà il più importante finanziatore e fornirà i capitali necessari per la produzione. Di pari passo il governo giocherà un ruolo regolatore del mercato, il che non significherà assassinarlo, ma certamente non più abbandonarlo alle derive dello spontaneismo e del laissez faire appena teorizzato dagli economisti classici di matrice liberista. Blanc accorda un’importanza strategica al ruolo dello Stato, tanto che è portato ad affermare come essenziale l’interdipendenza delle riforme politiche con quelle sociali. Infatti, come lui osserva, la politica è il semplice mezzo per raggiungere il fine ultimo che è il benessere sociale di tutti. Per queste idee molto legate all’intervento dello Stato nella società e nell’economia, Blanc non è ben visto nello stesso ambiente socialista, soprattutto dall’anarchico Proudhon. Simili concezioni sono immediatamente bollate come esagerazioni stataliste, soprattutto negli ambienti intellettuali; diversamente avviene nel grande pubblico, dove, anche per lo stile chiaro, lapidario ed elegante della sua scrittura, le sue idee riscuotono un grande successo, soprattutto tra gli operai e gli artigiani, le classi sociali che in quegli anni subiscono gli squilibri e le difficoltà economiche e sociali della concorrenza capitalistica. Va detto che, pur rasentando a tratti posizioni ingenue e poco originali, le argomentazioni di Blanc tendono ampiamente e principalmente al risultato pratico ed immediato del miglioramento sociale ed economico delle classi popolari emarginate e ridotte alla miseria dal mutamento epocale. 5.3. Dal 1845 al 1847 l’Europa fu colpita da un profonda crisi sociale, che si manifestò in ogni ambito politico ed in ogni settore produttivo. Fame e carestie imperversarono tra le popolazioni, moltissime fabbriche chiusero a causa di eclatanti fallimenti, e la disoccupazione accompagnò la miseria più nera e dilagò tra larghi strati della popolazione. La crisi intaccò anche le istituzioni politiche e le classi dirigenti che detenevano il potere (nobiltà e alta borghesia) e che furono sottoposte all’attacco di fermenti rivoluzionari e di moti insurrezionali che vedevano le masse popolari scendere minacciosamente in piazza, caratterizzando la loro azione con aspettative che riguardavano sia la questione nazionale, sia la questione sociale ed economica. Ma nel 1848 le due questioni fondamentali si fusero, anche se in alcune nazioni si differenziarono in maniera importante. Se in Italia, per esempio, i moti del 1848 puntarono al raggiungimento dell’indipendenza nazionale dall’impero asburgico, in Francia emerse con tutto il suo peso e con tutte le sue contraddizioni la questione sociale, soprattutto quella che riguardava l’organizzazione del lavoro e della produzione, e la partecipazione alla vita pubblica della classe operaia. La rivoluzione di Febbraio a Parigi fu un’iniziativa di radicali, repubblicani e rivoluzionari estremisti. Il popolo insorse, la Guardia nazionale passò dalla parte degli insorti. Il 24 febbraio Luigi Filippo dovette abdicare. Si formò un Governo provvisorio, composto da repubblicani moderati. Ma il 10 popolo rimase il protagonista indiscusso della rivolta. Ha scritto con grande chiarezza Alexis de Tocqueville, che fu diretto osservatore di quei fatti: «Due cose mi colpirono soprattutto: prima il carattere – non dico principalmente – ma unicamente ed esclusivamente popolare della rivoluzione che avveniva; l’onnipotenza che essa aveva dato al popolo propriamente detto, cioè alle classi che lavoravano con le loro mani, sopra tutte le altre. […] Sebbene le classi operaie avessero spesso avuto la parte principale negli avvenimenti della prima repubblica (1792), non erano mai state le conduttrici e le uniche padrone dello stato né in fatto né in diritto. […] La rivoluzione di luglio era stata fatta dal popolo, ma la classe media l’aveva suscitata e condotta e ne aveva raccolto i frutti principali. La rivoluzione di Febbraio, al contrario, sembrava essere fatta esclusivamente al di fuori della borghesia e contro di essa. […] In quella giornata io non vidi in Parigi uno solo degli agenti della forza pubblica, non un soldato, non un gendarme, non un agente di polizia; anche la guardia nazionale era sparita. Solo il popolo portava armi, stava a guardia dei luoghi pubblici, vegliava, comandava, puniva. Era una cosa straordinaria e terribile vedere nelle mani di quelli che non possedevano nulla, tutta quella immensa città, piena di tante ricchezze, o piuttosto quella grande nazione, perché grazie alla centralizzazione, chi regna a Parigi comanda la Francia. E così, il terrore di tutte le altre classi fu profondo, anzi io credo che in nessuna epoca della rivoluzione sia stato così grande e penso che si potrebbe paragonare solo al terrore che dovevano provare le città incivilite nel mondo romano, quando si trovarono d’un colpo in potere dei Vandali e dei Goti»21. La forza delle classi popolari più povere e sfruttate si presentò in termini spesso drammatici, tanto che si diffuse per la prima volta, non solo in Francia, ma in tutta l’Europa, la paura del comunismo. 5.4. Dopo la rivoluzione di Febbraio, alla quale aveva partecipato con funzioni organizzative e dirigenziali, Blanc venne nominato per acclamazione al Governo provvisorio, in cui tentò d’impostare i suoi provvedimenti in senso democratico e per favorire una ripresa sociale della repubblica; e dove si schiera nell’area della sinistra. Con questo incarico, egli cercò di allargare l’influenza delle sue idee tra la gente, nelle strade come egli stesso ha detto. Si batté con tutte le forze perorando l’istituzione di un Ministero del Lavoro, che si occupasse esclusivamente di ogni aspetto che interessasse il lavoro, gli operai, le fabbriche, la produzione. Ma i suoi sforzi furono vani. Le idee socialiste facevano paura. Spesso fu boicottato e ostacolato nei suoi progetti di riforma sociale dai rappresentanti più borghesi del governo e perfino dallo stesso Albert, un operaio meccanico nominato ministro. La sua proposta di un Ministero del Lavoro fu addirittura surrogata con la formazione di una Commissione del Governo dei Lavoratori (28 febbraio 1848), di cui venne fatto presidente, denominata Commission du Luxembourg. Composta da 888 membri (657 operai e 231 padroni), aveva un Comitato composto da 16 operai e 10 padroni, che aveva il compito di assistere la direzione. Furono inoltre invitati a partecipare ai lavori numerosi scrittori ed intellettuali, come Vidal, Pecqueur, Considérant, Leroux, Reynaud, White, Girardin. Svolse principalmente attività di mediazione per dirimere conflitti, per un periodo che va dal 1° marzo ai primi di maggio 1848. Blanc si dimise l’8 maggio. Alla prima seduta della Commissione, Blanc, in qualità di presidente, avanzò la richiesta di studiare il problema della riduzione dell’orario di lavoro e del lavoro a cottimo. Immediati i decreti che abolirono il cottimo e fissarono l’orario lavorativo di 10 ore a Parigi, di 11 ore nella provincia. Inoltre cercò di dar vita agli Ateliers sociali, basati sul principio associazionistico e cooperativistico, che dovevano garantire uguali salari tra i lavoratori; i quali avrebbero dovuto poi eleggere nell’organizzazione i loro rappresentanti, e definire interessi più ridotti per gli investitori. Gli utili della produzione si sarebbero dovuti ripartire, secondo Blanc, in tre parti: una per i membri associati che ne facevano parte; l’altra per lo sviluppo sociale; l’ultima per remunerare i capitali privati impiegati. Ma, purtroppo, queste idee, che si pensava fossero da riferirsi alle iniziative concrete degli Atelier Nationaux organizzati subito dopo la rivoluzione di Febbraio, furono di fatto snaturate, in quanto erano apertamente avversate o fraintese da molti componenti del governo e dalla classe dirigente francese. Gli Ateliers organizzati dal governo, infatti, diventarono immediatamente i luoghi sociali di lavoro dove impiegare in lavori pubblici una massa in continuo aumento di 21 A. de TOCQUEVILLE, Una rivoluzione politica. Ricordi del 1848-49, tr. it., Bari, 1939. Cfr. anche K. MARX, La lotta di classe in Francia dal 1848 al 1859, tr. it., Roma, 1962. 11 disoccupati che avevano invaso Parigi, e che così potettero essere dislocati altrove e quindi allontanati dalla città. Inoltre, nel complesso, questi cantieri pubblici di lavoro si rivelarono un vero e proprio disastro finanziario. I risultati della Commissione furono perciò minimi e il poco che riuscirono a fare fu persino sminuito, tanto che lo stesso Marx dirà ironicamente che a Luxembourg si era ancora all’affannosa ricerca della pietra filosofale che avrebbe dovuto risolvere magicamente tutte le questioni sociali ed economiche. Purtroppo Marx si sbaglia clamorosamente su questo, o forse lo fa apposta, vista la sua avversione di fondo per il socialismo utopico; perché i laboratori sociali pensati da Blanc potevano pur essere utopistici, ma non avevano niente a che fare con gli Ateliers Nationaux governativi22. Oltretutto, in evidente malafede, molti membri del Governo provvisorio fecero cadere la responsabilità del loro fallimento su Blanc, quasi fossero stati una concessione alle sue idee; mentre furono organizzati come luoghi d’elemosina da Marie, membro del Governo provvisorio e, secondo il racconto di Lamartine, non ebbero utilità produttiva e «controbilanciarono, fino all’arrivo dell’Assemblea Nazionale, gli operai settari del Luxembourg e gli operai sediziosi dei circoli. Ben lungi dall’essere al soldo del Sig. Louis Blanc, erano ispirati dallo spirito dei suoi avversari»23. I disoccupati assunti, spesso anche per un giorno su quattro, negli Ateliers Nationaux, aumentarono vertiginosamente e il debito pubblico aumentò in maniera incontrollata. Il 15 giugno vengono sciolti, oltre un centinaio di migliaia di persone si ritrovano senza mezzi: occorreva farla finita con queste utopie socialiste, che ostacolavano la prosperità e la libertà della produzione industriale. Dice Dolléans: «Gli Ateliers Nationaux offrono il destro all’ironia di coloro che pretendono vedervi non un espediente, ma un’esperienza che mostra l’assurdità pratica dell’ideologia socialista e del diritto al lavoro»24. 5.5. Blanc, che aveva fondato la Società centrale degli operai, e tutto il gruppo socialista subirono un grave scacco alle prime elezioni a suffragio universale dell’aprile 1848 25, con le quali si elesse l’Assemblea costituente. Su 876 seggi, appena un centinaio furono conquistati dalla sinistra. Pur eletto, Blanc risultò molto distanziato da Lamartine e fu costretto ad uscire dal governo. Il 15 maggio un gruppo di manifestanti alla guida di socialisti rivoluzionari, tra cui Blanqui, invase i luoghi dell’Assemblea. Borghesia moderata e proletariato parigino erano ormai votati allo scontro decisivo. L’ultimo era destinato comunque a soccombere. Blanc si era sempre dichiarato contrario ad ogni manifestazione di forza, in quanto ogni rivoluzione doveva essere pacifica e fondata sulla discussione, perché potesse portare ad una società fondata sul sentimento della fraternità, sia per gli uomini, sia per le classi sociali. Ma fu lo stesso accusato dal partito dell’ordine di essere il fomentatore di questa insurrezione; tanto che, per sfuggire ad un arresto dato per scontato, dovette riparare prima a Bruxelles e poi finalmente in Inghilterra. Fu condannato in contumacia nel 1849. Come si è già detto, il 21 giugno 1848 il governo emise il decreto di chiusura degli Ateliers Nationaux. La reazione operaia fu violenta: agli incitamenti allo scontro si alzarono barricate nelle strade. Il governo ordinò di domare la ribellione. La lotta fu dura, si combatté per le strade, nei quartieri, le barricate furono abbattute a colpi di cannone. Molti furono i morti, i prigionieri Marx dà prova di conoscere l’argomento sia a livello storico sia a livello geografico. Se gli Ateliers vennero di fatto aboliti in Francia nel 1848, in Inghilterra e in America furono in seguito rivisitati e riproposti, ma con precise differenze di mezzi e di fini. Dice infatti Marx ne Il Capitale: «Gli “atelier nationaux” inglesi dell’anno 1862 e più tardi, costruiti per operai cotonieri disoccupati, si differenziano da quelli francesi del 1848 per il fatto che in questi ultimi l’operaio doveva svolgere lavori improduttivi a spese dello stato, mentre nei primi doveva svolgere lavori urbani produttivi a vantaggio della borghesia ed esattamente a un prezzo più basso di quello dei normali operai, con i quali in tal maniera veniva messo in concorrenza» (K. MARX, Il Capitale, Introduzione di E. Sbardella, tr. it., Roma, 2005, nota n. 183, p. 312). Qui Marx si riferisce in particolare agli operai della fabbrica di Preston che furono impiegati nei lavori della Palude di Preston nel 1865. Infatti, questi lavori pubblici, che occupavano operai cotonieri in cave di pietra per costruire lavori di pubblica utilità, scatenarono una micidiale concorrenza tra i lavoratori, perché i lavoratori effettivi di questo settore vedevano scendere le loro paghe allo stesso livello di quelle dei lavoratori dell’industria cotoniera, oltretutto sottopagati. «In tal modo – conclude Marx – questa nuova edizione degli “ateliers nationaux” del 1848, ma questa volta creati a vantaggio della borghesia, vennero gradualmente sospesi» (Idem, p. 1004). 23 A. de LAMARTINE, Histoire de la Révolution de 1848, in É. DOLLEANS, Op. cit., p. 216. 24 É. DOLLÉANS, Op. cit., p. 217. 25 Anche se votarono solo i maschi, il corpo elettorale passò di fatto da 200.000 a 9.000.000 di elettori. 22 12 giustiziati o deportati. È stata la prima battaglia tra le due classi in cui era ormai divisa la società moderna, secondo l’acuta osservazione dello stesso Marx. La via per spegnere i fuochi del ’48 era segnata: favorito dalla memoria che il popolo ancora aveva del suo avo Napoleone, fu eletto presidente Luigi Bonaparte, che si avviò a restaurare l’ordine sociale francese. La Francia aveva sperimentato in meno di un anno la rivoluzione proletaria, la lotta di classe, i tentativi di organizzare il lavoro, l’impianto di leggi sociali e gli effetti del suffragio universale, che ora portava con un consenso plebiscitario alla restaurazione e ad un potere autoritario. I costituzionalisti cominciarono a non temere più di tanto il suffragio universale, quasi potesse essere l’anticamera del socialismo. Ma su questo si scavò una frattura enorme tra socialismo e democrazia, visto che al primo non rimase che la via della rivoluzione e l’impostazione dittatoriale. In sostanza, il proletariato era lo spettro che si aggirava per l’Europa, proprio nel senso dell’immagine evocata da Marx all’inizio del Manifesto del Partito Comunista, stampato proprio nel febbraio del 1848 per la prima volta. 5.6. Stabilitosi quindi a Londra, Blanc vi rimase fino alla fine dell’Impero che, dopo la fase seguita al ’48, venne di fatto restaurato per durare più 20 anni, fino al 1870, collaborando con vari giornali francesi e inglesi e dedicandosi agli studi storici, raccogliendo materiali e documenti in 12 volumi sul periodo rivoluzionario nella Histoire de la Révolution Française, i cui manoscritti sono conservati nel British Museum di Londra. Scrisse anche la Histoire de la révolution de 1848, in due volumi, che sarà pubblicata nel 1870, con la quale tentò soprattutto una difesa della sua attività politica durante i moti insurrezionali di quell’anno. Intorno al 1860, le idee repubblicane, ormai da lungo tempo sopite, cominciarono a riaffacciarsi sullo scenario politico francese, accompagnate da un forte radicalismo caratterizzato dalla distanza rispetto ad ogni forma di compromesso. Caduto l’Impero, Blanc ritornò a Parigi il 4 settembre 1870. L’anno successivo, nelle elezioni di febbraio, venne eletto alla Camera dei Deputati nella circoscrizione della Senna con un gran numero di voti. Rifiutò però, un mese dopo, di recarsi a Parigi in segno di protesta e di condanna della Comune, scaturita da un governo rivoluzionario ed estremista. Disapprovandone i metodi e le azioni, che denunciò apertamente all’Assemblea di Versailles il 26 aprile 1871, ritenne che la Comune avesse violato la legalità per la quale lui si era sempre battuto. Ciononostante cercò in tutti i modi di mediare tra il Governo e i comunardi, ma inutilmente, perché se da una parte fu visto con sospetto, dall’altra fu considerato addirittura un traditore. Fu ancora rieletto nel 1876 in diverse circoscrizioni e nel 1879 sostenne alla Camera, con grande senso politico e fraterno, un progetto di amnistia per i comunardi messi in prigione negli anni precedenti. In questo periodo si dichiarò apertamente vicino alle idee radicali di sinistra: «Essere radicali – egli disse – è volere che la Repubblica, fondata sul suffragio universale, abbia per fine il miglioramento morale, intellettuale e fisico del destino di tutti». Negli ultimi anni della sua vita pubblicò diverse opere : Discours politiques (1847 à 1881), Lettres sur l’Angleterre, Dix années de l’Historie del l’Angleterre, Questions d’haujourd’hui et de demain. Morì nel 1882 e le sue esequie furono fatte a Parigi a spese dello Stato. 5.7. Blanc si è espresso in modo chiaro e spesso veemente nei suoi scritti. Dotato di grande abilità nella ricerca e nel discernimento degli avvenimenti storici del suo tempo, ha espresso con fervore le sue idee, anche se a volte cede a forme estremamente oratorie, utili comunque per arringare le folle, che spingono al riscatto, alla liberazione, al diritto di esistere dignitosamente, nella società e nel lavoro. Influenzò moltissimo il socialismo francese e le sue opere furono tutte pubblicate durante la sua vita. Secondo Blanc, stipendi ed interessi privati dovevano essere conciliati, dovevano parificarsi e tendere verso il bene comune. Egli faceva espresso riferimento al detto seguente, molto in voga negli ambienti del socialismo utopico francese ed europeo di quel tempo: «Da ciascuno secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Su questo principio di giustizia sociale, Blanc ha costruito tutta la sua critica alla logica del laissez faire, che stava alla base della teoria economica liberista, e causava una concorrenza spietata. Non saranno certamente i vizi privati, che la mano 13 invisibile del mercato trasformerà in virtù pubbliche, secondo la teoria smithiana26, a dare migliori condizioni di vita e dignità al lavoro agli operai sfruttati e ridotti alla miseria, ma istituzioni produttive (officine, laboratori sociali) in un primo momento pubbliche, organizzate e finanziate dallo stato; che in un secondo momento diventeranno autonome e basate su un regime cooperativo, autogestite, e potranno perfino assorbire nella loro organizzazione le stesse fabbriche private. Questi laboratori, retti dagli stessi operai e gestiti dai loro rappresentanti sindacali, punteranno con la loro attività e con i loro commerci ad un unico fine: il raggiungimento del bene comune. Operai e sindacati hanno questo compito sociale fondamentale: unire i loro sforzi d’attività e d’organizzazione per sconfiggere la concorrenza e per raggiungere il benessere individuale e di tutta la società. In concreto, poi, questo sistema dei laboratori sociali nazionali pensato da Blanc poteva permettere di risolvere immediatamente un grave problema sociale di quel periodo: la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi economica e finanziaria, allo sfruttamento, alla speculazione e alla corruzione. Queste idee, fondate su un forte, seppur iniziale, intervento statale nell’economia e nella società, hanno fatto considerare Blanc uno dei primi teorici dell’intervento socialista statale; in verità esse, animate da uno stile oratorio di grande e fertile comprensione – che abbiamo cercato di lasciare il più possibile inalterato nella traduzione, pur non senza difficoltà – furono tenute in grande considerazione ed ebbero grande efficacia nel 1848, quando la situazione sociale, economica e politica era diventata palesemente incandescente, sia in Francia sia nel resto dell’Europa. A differenza delle teorie sociali ed economiche di altri suoi conterranei, come Fourier e Proudhon, le proposte di Blanc, basate su interventi istituzionalizzati pratici che tendevano ad alleviare concretamente le difficoltà e le disgrazie della povera gente, in condizione di miseria nelle luride periferie industrializzate e praticamente ridotta alla fame, apparvero una soluzione praticabile. «Louis Blanc, – osserva Cole – per molte sue idee, si può giustamente considerare un precursore del socialismo democratico moderno. Influenzato dai sansimoniani, assegnava allo stato una funzione fondamentale nella pianificazione economica e nello sviluppo dei servizi sociali. Nei primi scritti fu ardente fautore della nazionalizzazione delle ferrovie, punto chiave per una politica generale di sviluppo economico pubblico. Ma, a differenza di molti sansimoniani, credeva fermamente nella democrazia rappresentativa basata sul suffragio universale: contava appunto sul suffragio universale per trasformare lo stato in uno strumento di progresso e di benessere, e, pur essendo inesorabile nell’attaccare il capitalismo e la concorrenza e nel denunciare la sofferenza dei lavoratori nel sistema allora esistente, era un deciso avversario della dottrina della lotta di classe»27. 5.8. Il tema affrontato da Blanc nel libro L’Organizzazione del lavoro è sempre di grande attualità, anche oggi, nell’epoca della globalizzazione economica irta di incognite, ma piena anche di grandi speranze. Tantissimi sono i temi che Blanc ha trattato nella sua opera più famosa, la più letta e più pubblicata durante la sua vita. L’attenzione in generale è rivolta ai poveri, alla questione dei poveri, ai lavoratori emarginati e sfruttati, alle loro famiglie che vivono in miseria nei tuguri delle periferie malsane e fatiscenti: «È a voi, ricchi, che questo libro si rivolge, poiché c’è la questione dei poveri. Perché la loro causa è anche la vostra». È con queste parole che si apre L’Organizzazione del lavoro di Blanc. C’è grande coscienza del momento storico. Siamo di fronte ad un problema oscuro, terribile, che causa sommosse. Ma non possiamo scoraggiarci. Insieme è possibile affrontare questo problema immenso della miseria che opprime la gran parte dell’umanità. Solo combinando gli sforzi è possibile risolverlo. Pertanto fiducia, speranza, impegno, per «dare alla fraternità la scienza per torcia, pensare e sentire contemporaneamente, riunire in uno stesso sforzo d’amore la vigilanza dello spirito e le potenze dell’anima, confidare coraggiosamente nel futuro dei popoli e nella giustizia di Dio per lottare contro la permanenza del male e della menzognera immortalità. […] C’è un più degno impiego del tempo e della vita?». Oggi, pertanto, occorre trovare soluzione al «L’interesse personale [secondo il pensiero economico di Smith] ci sollecita semplicemente a fare ciò che intrinsecamente beneficherà anche gli altri, così come l’interesse personale del macellaio finirà col fornirci un pranzo. […] Il pensiero di Smith è pervaso da un ampio ottimismo», commenta con fine ironia K. POLANYI (Op. cit., p. 142). 27 G. D. H. COLE, Storia del pensiero socialista. I precursori, tr. it., Bari, 1967, p. 190. 26 14 problema del lavoro. Come? Con l’«organizzazione del lavoro. […] Ecco trovato l’argomento di studio». L’organizzazione del lavoro non ha finalità meramente materialistiche, ma profondamente spirituali e dignitose per l’essere umano ridotto alla miseria. La miseria, infatti, opprime l’uomo in tutti i sensi. «La miseria mantiene l’intelligenza dell’uomo nella notte. […] La miseria consiglia incessantemente il sacrifico della dignità personale. […] La miseria crea una dipendenza di condizione a chi è indipendente per carattere. […] Se la miseria genera la sofferenza, genera anche il crimine.[…] Crea gli schiavi; forma la maggior parte dei ladri, degli assassini, delle prostitute». Organizzando il lavoro nella società si potrà sopprimere la miseria, alleviare le sofferenze del popolo, e ciascuno riacquisterà la stima di se stesso. La civiltà moderna tende a distribuire iniquamente il lavoro e i suoi benefici. C’è bisogno di un riequilibrio, di un’armonia alla base della società che voglia chiamarsi civile. «Perché l’armonia – si chiede Blanc – non potrebbe diventare la legge della vita individuale, come è la legge dei mondi?». Ed ogni miglioramento morale e materiale deve rivolgersi a tutti, proprio perché lo si raggiunge «con il libero contributo di tutti e la loro associazione fraterna!». Se le classi privilegiate dominanti sono insensibili al problema, allora occorre far loro capire che tutto ciò non è più rinviabile. Ecco perché occorre pianificare la presa del potere, senza improvvisazioni, ma prevedendo in anticipo le difficoltà. «Le rivoluzioni che non abortiscono sono quelle il cui scopo è preciso ed è stato definito con anticipo». Esplicito, dunque, il riferimento alla Rivoluzione del 1789 e al grande laboratorio d’idee del secolo XVIII, secolo dei Lumi e dell’Enciclopedia. La conquista del potere è indispensabile. Solo se si conquista il potere si può iniziare seriamente un nuovo processo riformista. «Non basta scoprire metodi scientifici, atti ad inaugurare il principio d’associazione ed organizzare il lavoro sulla scia delle norme della ragione, della giustizia, dell’umanità; occorre mettersi nelle condizioni di realizzare il principio che si adotta e di fertilizzare i metodi forniti dallo studio. Ora, il potere è la forza organizzata. Il potere poggia su camere, tribunali, soldati, cioè sulla triplice potenza delle leggi, delle sentenze e delle baionette. Non prenderlo come strumento, significa incontrarlo come ostacolo». 5.9. Riforme da una parte, ma anche pragmatismo politico, senza perdersi in molte chiacchiere, per essere veramente incisivi e cambiare le cose. «Occorre applicarvi tutta la forza dello stato. Ciò che manca ai proletari per liberarsi, sono i mezzi di produzione: la funzione del governo è di fornirli a loro». Ma senza violenza, senza soprusi, senza confische, solo seguendo le vie democratiche, perché il suffragio universale (che, seppur riservato in Francia ai soli uomini, non era cosa da poco per quei tempi) coincide secondo Blanc con la democrazia. «Chiediamo che lo stato – quando sarà democraticamente costituito – crei laboratori sociali, destinati a sostituire gradualmente e senza scossoni i laboratori individuali; chiediamo che i laboratori sociali siano disciplinati da statuti che realizzino il principio di associazione ed abbiano forma e potenza di legge. Ma, una volta fondato e messo in moto, il laboratorio sociale sarebbe autonomo e non dipenderebbe che dal suo principio: i lavoratori associati sceglierebbero liberamente, dopo il primo anno, amministratori e capi; ripartirebbero tra loro i vantaggi». Questo ruolo dello stato, si chiede Blanc, fa dello stato un tiranno? Proprio come protegge i cittadini dai ladri, lo stato deve proteggere i cittadini dalla miseria. E causa della misera è la concorrenza, il male dell’intera società è la concorrenza, «che mette contro il ricco con il povero, lo speculatore abile con il lavoratore ingenuo, il cliente del banchiere scaltro con il servo dell’usuraio». E tutto questo qualcuno osa chiamare paradossalmente libertà. Sono liberi forse i bambini dei poveri che si vendono nelle filande? Gli operai che muoiono sui cantieri, i disoccupati, chi non ha casa e dorme per strada e le giovani donne che per vivere sono costrette a prostituirsi? «La causalità della nascita vi ha gettati fra noi in un’indigenza assoluta? Lavorate, soffrite, morite: non si fa credito al povero, e la dottrina del “lasciar fare” lo consacra all’abbandono. Siete nati in seno all’opulenza? Prendetevi tutto il tempo che volete, conducete una vita allegra, dormite: il vostro denaro guadagna altro denaro per voi». La libertà non è qualcosa di astratto: «Diciamolo dunque una volta per tutte: la libertà consiste, non soltanto nel diritto accordato, ma nel potere dato all’uomo di esercitare, sviluppare le sue facoltà, sotto il regno della giustizia e sotto la salvaguardia della legge». Oggi, afferma Blanc, c’è bisogno di uno stato forte che protegga i deboli e intervenga nella produzione. Domani, se le 15 speranze di oggi non sono un inganno, non sarà più necessario un governo forte, perché il socialismo avrà trionfato: «Il socialismo non può essere fecondato che dal soffio della politica». Lo stile di Blanc è pervaso da un’intensa, appassionata ed aulica forma di oratoria, tanto da sembrare un discorso da Assemblea nazionale, o un discorso tenuto alla gente in un luogo pubblico. Sicuramente è uno stile dell’epoca. Andrebbe forse letto a voce alta, per cogliere meglio la forza e l’enfasi di questo stile. Tante le domande e le risposte retoriche, le metafore e le argomentazioni dirette ed indirette, gli scambi di battute , spesso severe ma corrette, con personaggi che sembrano essere proprio lì di fronte all’Autore, pronti a ribattere; che comunque fanno parte dello sfondo politico e sociale dei tempi. Sembra quasi di sentire le animose e appassionate discussioni di quegli anni, forse mai più ripetute nell’ovattato contesto politico e istituzionale degli anni futuri. Spesso, come d’uso negli scrittori dell’epoca, un velo di leggera ironia pervade gli schemi letterari e i riferimenti storici. Resta il fatto incontrovertibile che il libro ebbe a suo tempo un grande successo, soprattutto tra gli strati più popolari, tra la gente comune; la quale fu protagonista, anche se per brevissimo tempo, di un momento storico avvincente e denso di significati, per certi versi segnato da avvenimenti tragici, ma anche attraversato da forti speranze di giustizia, da utopie che intravedevano possibilità di riscatto e da costruzioni teoriche e pratiche che avrebbero trovato negli anni futuri senso e significato storico, nonché concreta valenza ed attuazione politica e sociale nelle democrazie europee del ‘900. Martano, 9 marzo 2011 Paolo Coluccia, dottore in Pedagogia, saggista e osservatore socio-economico indipendente, ha collaborato e collabora con varie riviste nazionali ed internazionali ed ha pubblicato vari libri, come La Banca del tempo (Bollati Boringhieri, Torino 2001), La cultura della reciprocità (Arianna, Casalecchio-BO 2002), Il tempo... non è denaro! (BFS, Pisa 2003), e ha tradotto il libro/rapporto di Patrich Viveret, Ripensare la ricchezza (TerrediMezzo, Milano 2005). Ulteriori notizie bio-bibliografiche sull’autore sono sul suo sito Internet: http://digilander.libero.it/paolocoluccia. 16