Le parole, che fanno parte della nostra lingua, risultano composte di

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GRAMMATICA ITALIANA
sintetica.
LINGUA
Per poter comunicare con le altre persone è necessario avere a disposizione
una lingua, che nell’uso delle persone diventa un linguaggio ‘gestuale’, se basato
sui gesti, o ‘fonico’, se basato sui suoni, o ‘alfabetico’, se basato sulle lettere
dell'alfabeto.
Il linguaggio, che noi usiamo più frequentemente, è quello alfabetico, basato
sui suoni quando viene parlato (linguaggio orale), e sulle lettere quando viene
scritto. Tale linguaggio, soggetto a determinate regole, è quindi l’applicazione
pratica, nei vari settori della società (linguaggi quotidiano, letterario, scientifico,
tecnico, giornalistico, multimediale, ecc.), della LINGUA o CODICE, cioè
dell’insieme dei segni alfabetici (delle lettere: consonanti e vocali), organizzato
secondo le regole della grammatica.
Le regole, che complessivamente vengono usate nell'uso orale e
specialmente scritto della lingua, costituiscono la grammatica.
La grammatica può essere suddivisa in tre parti:
1) FONOLOGIA
Trattazione dei singoli suoni secondo cui si articolano
(si compongono o formano e si pronunciano) le parole.
La fonologia controlla la corretta pronuncia e la corretta scrittura.
2) MORFOLOGIA
Riguarda la corretta forma delle parole.
Classifica le categorie, cui appartengono le parole (Articolo, nome o
sostantivo, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione,
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interiezione o esclamazione).
Tali categorie costituiscono le parti del discorso, che possono essere
analizzate mediante l'analisi grammaticale.
3) SINTASSI
Riguarda i legami o i rapporti reciproci tra parole, frasi o proposizioni e
periodi.
Nell'analisi delle frasi o proposizioni e dei periodi è necessario distinguere tra
analisi GRAMMATICALE o analisi delle parti delle frasi e
analisi LOGICA o analisi dei legami e delle funzioni delle parole, delle
frasi o proposizioni e dei periodi.
Il periodo è un insieme di frasi o proposizioni legate tra di
loro dalle regole della sintassi.
Quindi l’ordine crescente degli elementi o componenti di una lingua o
codice sono: lettera (dell’alfabeto), sillaba (di solito, consonante più vocale),
parola (insieme di lettere, cioè di consonanti e vocali), categoria o parte del
discorso (vedi morfologia), frase o proposizione, periodo.
Mentre l'analisi GRAMMATICALE è STATICA, cioè prende in considerazione
le singole parole separatamente l'una dall'altra, l'analisi LOGICA è invece
DINAMICA, in quanto considera le parole e le proposizioni e i periodi nei loro
legami reciproci e nelle loro reciproche influenze, cioè nelle loro funzioni (azioni,
operazioni).
FONOLOGIA
Le parole, che fanno parte della nostra lingua, risultano composte di pochi suoni
semplici, variamente combinati fra loro.
Ad ognuno di tali suoni semplici corrisponde un segno grafico per la sua scrittura.
I singoli segni grafici (scritti) si chiamano LETTERE e, nel loro insieme,
costituiscono l'alfabeto.
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Le lettere dell'alfabeto si distinguono in VOCALI e CONSONANTI.
Si dicono VOCALI quelle lettere che hanno un SUONO INDIPENDENTE, cioè
che sono autosufficienti.
Esse sono cinque: A, E, I, O, U.
L'incontro di due vocali, che nella pronuncia vengono a fondersi (poiché si
pronunciano insieme), si chiama DITTONGO, come ad esempio AI, EI, OI, IA,
ecc.
Quando due vocali, pur essendo vicine, non costituiscono DITTONGO (o
fusione di due vocali), formano IATO (= SEPARAZIONE), cioè restano separate,
come nel caso di TEATRO, le cui vocali vicine si pronunciano infatti separate (TE
– A - TRO).
E' da notare che spesso, in poesia, tali vocali, separate da IATO, possono
considerarsi una sillaba sola, e ciò si chiama
SINERESI, che significa FUSIONE (forzata)
Si ha invece il TRITTONGO quando le vocali fuse tra loro sono tre, come nel
caso della frase ‘I tuoi figl – iuo - li’.
Si chiamano CONSONANTI quelle lettere dell’alfabeto che ‘consonano’ o
suonano insieme, perché suonano (si possono pronunciare) soltanto se collegate
con una vocale: non avendo quelle lettere (le consonanti) un loro proprio suono
(non essendo cioè autosufficienti come le vocali), richiedono infatti, per essere
pronunciate, il sostegno o l'appoggio delle vocali.
LE SILLABE.
La forma più semplice di sillaba è quella costituita da una consonante e da una
vocale sia in quest'ordine come in ordine inverso (es: nella parola ORTO ci sono due
sillabe, la prima OR (vocale-consonante) e la seconda TO (consonante-vocale]).
Si chiama ACCENTO TONICO quello che dà il tono ad una sillaba, perché
cade su quella sillaba, la quale prende il nome di SILLABA TONICA, mentre le
altre sillabe della stessa parola, prive di accento, si chiamano SILLABE ATONE.
Quando l'accento cade sull'ultima sillaba di una parola ( CITTA’ ) oppure sulla
penultima sillaba ( FINIRE )
oppure sulla terzultima ( TAVOLO )
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la parola prende rispettivamente il nome di TRONCA, PIANA, SDRUCCIOLA.
L'accento viene di solito segnato:
1. sull'ultima sillaba delle parole TRONCHE, come in <perché>, <città>;
2. su alcuni monosillabi (parole formate da una sola sillaba) per distinguerli da
altri monosillabi scritti in modo identico, ma senza accento, perché di diverso
significato
( sé, pronome personale, da non confondersi con <se>, congiunzione;
<dì> (giorno), nome, da non confondersi con <di>, preposizione semplice;
<dà> voce del verbo dare, da non confondersi con <da>, preposizione semplice
);
3. sulla vocale tonica di certe parole quando potrebbero venir confuse con altre
scritte in modo identico, ma senza accento, perché di diverso significato
( prìncipi e princìpi, tèndine e tendìne ).
4. NON va posto l’accento sugli avverbi di luogo <qui> e <qua>, nè su alcune
forme monosillabiche (con una sola sillaba) del presente indicativo dei verbi
(sto, sta, va, ecc.)
ACCRESCIMENTI E RIDUZIONI DI PAROLE.
II TRONCAMENTO, per effetto del quale cade la sillaba finale di una parola,
avviene per lo più davanti a parola che cominci per consonante
( ad esempio: bel t-ipo, buon f-igliolo ), purché non sia ‘S’ IMPURA
( cioè seguita da una o più consonanti come in S-PIGOLO, S-PROPOSITO)
né uno dei gruppi PS, GN (PS-ICOLOGIA, GN-OMO);
cioè non si può (facendo troncamento) scrivere ‘buon studente’ (ma bisogna
adoperare <buono studente>), né si può usare <bel straccivendolo> (ma bisogna
adoperare <bello straccivendolo>), perché in ambedue i casi la ‘s’ è impura,
cioè seguita da consonante (s-tudente, s-traccivendolo).
Per lo stesso motivo, nel caso di psicologo, si usa <uno p-sicologo> e non
<un psicologo>; <uno g-nomo>, non <un gnomo>.
L'ELISIONE (CADUTA DI UNA VOCALE), per effetto della quale si ha la
caduta dell'ultima vocale ATONA (senza accento) di una parola, avviene quando
la parola seguente comincia per vocale (un [a] 'anima, pover [o] ’uomo).
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L'apostrofo, collocato al posto della vocale caduta, è il segno dell' ELISIONE.
ATTENZIONE: IL PRONOME PERSONALE FEMMINILE ‘LA’ NON SI ELIDE
QUANDO ABBIA VALORE DI - A LEI - , COME NEL SEGUENTE ESEMPIO:
LE AVREI DETTO (non ‘l’avrei detto’), PER EVITARE LA CONFUSIONE CON
L’ELISIONE DEL PRONOME PERSONALE MASCHILE
‘LO’, CHE
RISULTEREBBE IDENTICA (‘l’avei detto’).
Anche nel caso dell’articolo femminile plurale ‘LE’ non si fa elisione (- LE ETÀ
– no ‘l’età’) , per evitare confusione con l’elisione dell’articolo femminile singolare
‘LA’ (‘l’età’) .
La ‘DIERESI’ (divisione) è la separazione, indicata dal segno ortografico di
due punti orizzontali, posti sulla vocale separata, di una vocale da un’altra vocale
vicina, impedendo così, con la separazione delle vocali vicine, la nascita di un
dittongo.
E' da notare che la DIERESI si comporta in modo opposto rispetto alla
SINERESI, in quanto la DIERESI separa le vocali di un DITTONGO,
trasformando ‘una’ sillaba in ‘due’ sillabe ( OR / ’I’-EN / TE ), mentre la SINERESI
raggruppa due vocali, separate dallo IATO, in un'unica pronuncia, trasformando
‘due’ sillabe in ‘una’ sola: <PO-E-TA>, di tre sillabe, diventa con la SINERESI
<POE-TA> di due sillabe, in quanto le due vocali affiancate, vicine, si
pronunciano come una sola vocale.
LE PARTI DEL DISCORSO.
Le parti del discorso sono nove: articolo, nome, aggettivo, pronome, verbo,
avverbio, preposizione (da non confondere con ‘proposizione’ o frase),
congiunzione, esclamazione o interiezione.
Le parti del discorso possono essere
- variabili, come l’articolo, il nome, l'aggettivo, il pronome e il verbo, cioè soggette
a variazioni, e
- invariabili, come l'avverbio, la preposizione, la congiunzione e l'esclamazione o
interiezione.
L'insieme delle variazioni, a cui le parole variabili sono soggette, si chiama
FLESSIONE;
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perciò si ha la flessione ‘nominale’ o del nome, detta DECLINAZIONE,
la flessione verbale o del verbo detta CONIUGAZIONE, e
la flessione pronominale o del pronome.
IL NOME.
NOME o SOSTANTIVO è la parola che indica una PERSONA (operaio), un
AFFETTO o un SENTIMENTO (amore) o un OGGETTO (bandiera).
NOMI COMUNI sono quelle parole che servono a denominare o chiamare
categorie o gruppi di persone ( POETA / POETI) o di animali ( VOLPE / VOLPI) o
di cose ( PALAZZO / PALAZZI).
I NOMI invece che indicano con precisione un individuo (Mario, Dante, ecc.) si
chiamano PROPRI e si scrivono con l'iniziale maiuscola.
IL GENERE DEI NOMI.
I nomi o sostantivi si distinguono tra loro, secondo il genere che
rappresentano, in maschili e femminili.
I nomi o sostantivi terminanti in –o sono generalmente maschili,
i nomi terminanti in –a sono generalmente femminili.
IL NUMERO DEI NOMI.
II numero si riferisce ad una o più persone, ad uno o più animali, ad una o più
cose, in quanto dobbiamo distinguere se ci troviamo di fronte ad un solo individuo
o a più individui.
Nel primo caso il nome si dice di numero SINGOLARE ( GIOCO ), nel
secondo caso di numero PLURALE ( GIOCHI ).
I nomi o sostantivi si distinguono inoltre in tre classi diverse:
La Prima classe, o dei nomi che terminano in –a, comprende :
- nomi maschili singolari (arma, poema): il plurale di questi nomi esce in -i
essendo nomi maschili: poemi, armi;
- nomi femminili singolari (divisa, chioma): il plurale esce in -e essendo nomi
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femminili: divise, chiome.
Da ricordare che i nomi uscenti in -cia o -gia conservano nel plurale la i
quando sulla i cada l'accento ( farma-cìa, farma-cìe ) e quando le uscite in
-cia e -gia siano precedute da sillaba aperta, la quale quindi termini, prima di
-cia e di -gia, in vocale: cami-cia, cami-cie; vali-gia, vali-gie;
o, in parole più semplici, i nomi che terminano con le uscite in -cia e -gia, precedute
da vocale, mantengono la i al plurale (cam-i-cie, val-i-gie).
I nomi invece con le uscite in –cia e –gia, precedute da sillaba chiusa, cioè
uscente in consonante, perdono la i al plurale (tor-ce, provin-ce),
ovvero, in parole più semplici, i nomi che terminano con le uscite in –cia e –gia,
precedute da consonante, perdono la i al plurale (torcia e provincia fanno infatti
al plurale <tor-ce> e <provin-ce>, senza la i).
Seconda classe o dei nomi che terminano in –o :
lup-o ( singolare ), lup-i ( plurale ).
Terza classe o dei nomi terminanti in -e, in consonante, in vocale
accentata:
- i nomi, uscenti (che finiscono) al singolare in -e (sed-e), terminano al plurale
in -i (sed-i).
- ì nomi, uscenti (che finiscono) in -i ( brindisi ), in consonante ( gas ), in vocale
accentata ( virtù ), restano inalterati nel plurale.
Le alterazioni (le modifiche) più consuete (più frequenti) dei nomi sono quattro
e danno luogo ai
- nomi ACCRESCITIVI quando, per mezzo di un suffisso (di un’aggiunta), il
concetto o contenuto, rappresentato dal nome,
si accresce, come in
<discorsone> (da discorso > discorsone = discorso grande) e <donnone> ( da
donna > donnone = donna grande);
- nomi DIMINUTIVI quando, invece, il concetto o contenuto diminuisce (si
riduce), come in <libretto> (da libro > libretto = libro piccolo) e <fogliolina> (da
foglia > fogliolina = foglia piccola);
- nomi VEZZEGGIATIVI quando il diminutivo (vedi sopra) inclina (tende) alla
simpatia: <pianticella> (piantina graziosa), <focherello> (piccolo fuoco
amichevole);
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- nomi PEGGIORATIVI quando si vuole che, sopra il concetto (sopra il
contenuto) rappresentato dalla parola (dal nome), cada la riprovazione (un
giudizio negativo) : <visaccio (da ‘viso’), modaccio (da ‘modo’), poetastro (da
‘poeta’), ideuzza (da ‘idea’).
L'ARTICOLO
L'articolo è quella parte del discorso che, premessa al nome (messa prima del
nome), dà al nome stesso più o meno rilievo (importanza).
L'articolo, quando ha lo scopo di determinare l'idea (il contenuto), si chiama
ARTICOLO DETERMINATIVO (‘il’, ‘lo’, ‘la’), in quanto determina, specifica il
pensiero;
quando invece ‘non’ determina l'idea si chiama
ARTICOLO INDETERMINATIVO (‘un’, ‘uno’, ‘una’), perché l’argomento (il
contenuto) rimane generico, non determinato.
L'articolo è una parte flessibile o variabile del discorso, perché ha una forma
per il maschile ed una forma per il femminile: ‘il’ pero, ‘la’ pera; ‘lo’ scolaro, ‘la’
scolara; ‘un uomo, ‘una’ donna.
L'articolo determinativo ha anche la forma del plurale ( che invece manca
all'articolo indeterminativo ): ‘i’ peri, ‘gli’ scolari, ‘le’ zucche.
Le forme dell'articolo determinativo sono:
- per il (genere) maschile e per il (numero) singolare ‘il’, ‘lo’ ( l’ davanti a
qualunque vocale );
- per il (genere) maschile ed il (numero) plurale ‘i’, ‘gli’ ( gl’ davanti a i ).
- per il (genere) femminile invece sono: al (numero) singolare ‘la’ ( l’ davanti a
vocale );
al (numero) plurale ‘le’ (l’ davanti ad ‘e’,
quando non si confonde con il singolare)
Le forme dell’articolo indeterminativo sono:
- al (genere) maschile ‘uno’, ‘un’
- al (genere) femminile ‘una’ ( un' davanti a vocale ).
Da notare che l'articolo indeterminativo nel (genere) maschile ha troncamento
( un ) e quindi non si apostrofa, mentre al (genere) femminile ha elisione e quindi
si apostrofa, per cui nel genere maschile si ha
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- un insegnante - senza apostrofo,
mentre nel genere femminile si ha - un'insegnante - con l’apostrofo.
Gli articoli determinativi, che nel discorso, cioè nelle frasi (o proposizioni),
vengono a trovarsi dopo le preposizioni semplici, si uniscono con le preposizioni
stesse.
Tale unione tra una preposizione ‘semplice’ e l'articolo determinativo dà
origine ad una preposizione ‘articolata’, come, ad esempio:
DI (preposizione semplice) + LO (articolo determinativo) SCOLARO (nome)=
DELLO (preposizione articolata) SCOLARO,
SU (preposizione semplice) + LA (articolo) MONTAGNA = SULLA
(preposizione articolata) MONTAGNA,
IN (preposizione) + LA (articolo) BORSA = NELLA (preposizione articolata)
BORSA.
L’AGGETTIVO.
L'aggettivo è quella parte del discorso che aggiungiamo ad un nome per meglio
definire la qualità ( - bel - tramonto, - brutto - paese ) oppure la quantità
( - grandi - inchini ) oppure il numero ( vent'anni ) oppure l'appartenenza ( Italia –
mia - ) o qualsivoglia altro modo di essere delle persone o delle cose ( - ogni giorno, le – stesse - ragioni, - qualunque - cosa ).
Anche l'aggettivo, come il nome, modifica la sua forma secondo le modifiche
morfologiche (della forma) del nome stesso, al quale si riferisce.
Alcuni aggettivi al plurale hanno le seguenti forme (uscite, parti finali) in -ci o
in -chi: amici, pratici, dimentichi, carichi, biechi, pudichi.
BELLO, QUELLO, BUONO, SANTO, nelle forme del singolare, subiscono il
troncamento ( caduta della vocale finale senza apostrofo ) davanti a consonante (
eccettuata la s impura, cioè seguita da consonante ) : bel quadro, quel Dio, buon
diavolo, San Siro, ma bello s-tudente, quello s-facciato, buono s-conto, Santa
S-colastica.
Nel plurale ‘bello’ e ‘quello’ si modificano in ‘begli’ e ‘quegli’ davanti a
vocale oppure davanti a z o ad s impura (cioè seguita da altra consonante) :
begli o-cchi, quegli s-colari.
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AGGETTIVI QUALIFICATIVI.
Gli aggettivi qualificativi possono esprimere la qualità in misura o grado
maggiore o minore.
Tre sono i gradi attribuiti all'aggettivo:
- POSITIVO ( è il primo grado ricavato dal vocabolario: GRANDE )
- COMPARATIVO ( PIÙ GRANDE )
- SUPERLATIVO ( GRANDISSIMO )
- II grado POSITIVO significa la qualità in sé : "Tu sei pulito".
- Il grado COMPARATIVO stabilisce un confronto fra due termini (fra due uomini o
animali o cose). Il comparativo può essere:
- di maggioranza: Giorgio è più sveglio di Carlo;
- di minoranza: Carlo è meno sveglio di Giorgio;
- di eguaglianza: Giulio è attivo come Carlo.
Il grado SUPERLATIVO indica il più alto grado di una qualità. Può essere:
- ASSOLUTO, quando la qualità di una cosa viene considerata nel grado più alto,
senza alcun confronto: la notte fu lunghissima;
- RELATIVO quando invece tale qualità viene considerata la più alta in rapporto
ad altri termini di riferimento: d'inverno le notti sono le più lunghe dell’anno (in
relazione a tutte le altre notti dell’anno).
Il SUPERLATIVO ASSOLUTO si ottiene aggiungendo all’aggettivo positivo
(ricavato dal vocabolario), privato di desinenza (buono > buon-), il suffisso
-ISSIMO: buon - issimo > buonissimo ( superlativo assoluto ).
Per alcuni aggettivi la forma del superlativo non si ricava dal positivo ( primo
grado dell'aggettivo così come è ricavato dal vocabolario ), ma da forma analoga
del latino ( acerrimo, da acer, acre ).
Eccezioni:
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POSITIVO
BUONO
CATTIVO
GRANDE
PICCOLO
ALTO
BASSO
COMPARATIVO
SUPERLATIVO
ASSOLUTO
MIGLIORE
PEGGIORE
MAGGIORE
MINORE
SUPERIORE
INFERIORE
OTTIMO
PESSIMO
MASSIMO
MINIMO
SUPREMO
INFIMO
AGGETTIVI DETERMINATIVI
Gli aggettivi determinativi si distinguono in aggettivi 1) numerali, 2) possessivI,
3) dimostrativi, 4) indefiniti.
1) AGGETTIVI NUMERALI.
Gli aggettivi numerali possono indicare il numero delle persone o cose e si
chiamano
- CARDINALI.
I numeri CARDINALI pertanto sono: 1,2,3,4 ecc.
Gli aggettivi numerali possono invece indicare l'ordine e si chiamano
- ORDINALI ( ad esempio: primo, secondo, terzo, ecc. ).
E’ da notare che gli ORDINALI si usano anche per indicare il denominatore
delle frazioni, mentre il numeratore è indicato da numeri CARDINALI.
2) AGGETTIVI POSSESSIVI.
Gli aggettivi POSSESSIVI determinano il nome con un'idea di possesso
(stabiliscono che il nome possiede qualcosa, cioè attribuiscono al nome il
possesso di qualcosa)
( ad esempio: mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro, altrui ).
‘Loro’ e ‘altrui’ sono invariabili.
‘Mio’ e ‘nostro’ si riferiscono alla persona che parla;
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‘tuo’ e ‘vostro’ a quella che ascolta;
’suo’ e ‘loro’ alla persona di cui si parla.
3) AGGETTIVI DIMOSTRATIVI.
DIMOSTRATIVI si chiamano gli aggettivi che determinano un nome in
modo preciso (dimostrandolo). Ad esempio
‘questo’ si riferisce a ciò che è vicino a chi parla;
‘codesto’ si riferisce a ciò che è vicino a chi ascolta;
‘quello’, si riferisce a ciò che è lontano sia da chi parla sia da chi ascolta.
4) AGGETTIVI INDEFINITI.
INDEFINITI sono gli aggettivi che non determinano un nome in modo preciso
(non definendolo, non precisandolo).
Possono riguardare:
- la quantità ( molto, poco, troppo );
- la maniera o il modo d'essere ( qualunque, qualsivoglia, qualsiasi, tutti e tre
aggettivi indefiniti invariabili;
- la somiglianza o la differenza ( stesso, medesimo; altro, diverso, ecc., che sono
aggettivi indefiniti declinabili, perché possono essere maschili, femminili,
singolari e plurali);
(tale, altrettale sono invece invariabili nel singolare e con una sola forma nel
plurale: ‘tali’, per il maschile e il femminile ).
L'aggettivo di solito accompagna un nome, ma alle volte, quando è solo, può
sostituirlo: "la sciagurata ( aggettivo, che fa le veci del nome ) rispose".
CONCORDANZA.
L'aggettivo si accorda nel genere (maschile / femminile) e nel numero (singolare /
plurale) con il nome a cui si riferisce:
cielo azzurro ( maschile singolare ), occhi azzurri ( maschile plurale ), casa bassa
( femminile singolare ), case basse ( femminile plurale ).
Se un medesimo aggettivo si riferisce a più nomi di genere diverso, per regola
l'accordo si fa con il maschile, ma alle volte si può fare con il femminile se il nome
più vicino all'aggettivo è femminile:
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"Le tue parole e i tuoi modi ci riescono sgraditi" ( concordanza al maschile ).
"Che modi e parole sono queste?" ( concordanza al femminile con la parola più
vicina).
IL PRONOME
E’ la parte del discorso che sostituisce il nome. Si tratta di una parte variabile.
I PRONOMI possono essere PERSONALI, DIMOSTRATIVI, RELATIVI,
INTERROGATIVI e INDEFINITI.
I PRONOMI PERSONALI sono:
- di prima persona ( singolare: io, me, mi;
plurale: noi, ce, ci ),
- di seconda persona ( singolare: tu, te, ti;
plurale: voi, ve, vi ),
- di terza persona
- ( maschile singolare: egli, esso, lui, lo, gli, sé, si, ne;
- femminile singolare: ella, essa, lei, la, le, sé, si, ne;
- maschile plurale:
essi, loro, li, sé, si, ne;
- femminile plurale:
esse, loro, le, sé, si, ne ).
Ne ( forma del pronome personale ) sostituisce i nessi ( le forme ) seguenti:
di lui, di lei, di ciò, di loro, di quello, ecc. ( es. Hai notizie dell'amico? Non ne so
nulla ).
I PRONOMI DIMOSTRATIVI sono:
- questo (maschile singolare), questa ( femminile singolare ), questi ( singolare
invariabile),
- codesto ( maschile singolare ),
- codesta ( femminile singolare )
- quello ( maschile singolare ), quegli ( singolare invariabile ), costui, costei,
colui, colei.
Questi, quegli, altri, possono essere usati come soggetto nella forma
invariabile del singolare ( es. questi è un ottimo figliolo ).
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DIFFERENZA tra il PRONOME e l'AGGETTIVO:
questo, codesto, quello sono
PRONOMI quando si usano da soli; sono
AGGETTIVI quando si aggiungono ad un nome
[ es.: questa ( pronome perché sta da solo);
questa ( aggettivo, perché accompagna un nome ) cosa ( nome )].
Nei PRONOMI RELATIVI si distinguono due forme:
- variabile ( quale, il quale, la quale );
- invariabile ( che, chi, cui ).
Deriva da chi (pronome relativo e interrogativo) il pronome chiunque, usato
solo al singolare e che sta per ‘qualunque persona’.
E' da notare che l'avverbio onde sostituisce, specie in poesia, il PRONOME
RELATIVO [ es.: il lauro e il ferro ond'erano ( di cui erano ) carchi - i nostri padri
antichi ].
I pronomi relativi chi, che, quale si adoperano anche come
PRONOMI INTERROGATIVI
tanto nella forma diretta ( Chi sei?, Che vuoi?, Quale ufficio eserciti? )
quanto nella forma indiretta ( Non so chi sei; dimmi che vuoi; fammi sapere quale
ufficio eserciti ).
INDEFINITI si chiamano i PRONOMI che, nel designare ( indicare ) persone o
cose, non le determinano con precisione, lasciando le cose indicate appunto
indefinite: uno, alcuno, qualcuno, certuno, ognuno, taluno, nessuno, chicchessia,
altri, altro, niente, nullo, tale.
IL VERBO.
II verbo è quella parte del discorso con la quale si esprime un'azione ( ad esempio
FARE ) o un modo di essere ( ad esempio TEMERE ), riferiti al soggetto.
Si può dire che il verbo sia la parte del discorso più importante.
Il verbo essere, ed altri verbi che gli sono affini ( vicini ), come DIVENIRE,
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SEMBRARE, RIUSCIRE, ecc.,.,per rendere compiuta l'espressione, devono unirsi ad
un nome o ad un aggettivo ( ad esempio "II cielo era sereno" ).
Alcuni pochi verbi si presentano, senza soggetto, nella terza persona singolare.
Essi perciò si chiamano IMPERSONALI: TUONA, NEVICA, LAMPEGGIA.
Affini a questi verbi sono le espressioni verbali impersonali seguenti: "E’ ora; è
caldo; è presto".
VERBI TRANSITIVI ED INTRANSITIVI.
I verbi si distinguono anzitutto in due grandi categorie:
TRANSITIVI ED INTRANSITIVI.
TRANSITIVI sono quelli che fanno transitare ( passare ) un'azione dal soggetto
all'oggetto: "II contadino miete il frumento".
INTRANSITIVI sono invece quelli che esprimono un'azione che non passa
direttamente dal soggetto all'oggetto: "Egli passeggia per il parco".
Lo stesso verbo può essere sia transitivo che intransitivo:
- II vecchio saliva le scale (TRANSITIVO)
- II fumo saliva nel cielo (INTRANSITIVO)
VERBI ATTIVI, PASSIVI, RIFLESSIVI.
Se, per esprimere il pensiero contenuto in questa frase: "II contadino
miete il frumento ", io volessi mettere in evidenza, piuttosto che l'azione
compiuta dal contadino, quella patita (subita) , per così dire, dal frumento, direi:
"II frumento è mietuto dal contadino".
In casi come questo il verbo, invece di indicare un'azione compiuta ( fatta ) dal
soggetto, indica un'azione patita ( subita ) dal soggetto e, perciò, il verbo, in
questo caso, si chiama (è detto) passivo.
Il verbo dunque ha due voci,
ATTIVA, se indica un'azione compiuta (fatta, commessa),
PASSIVA, se indica un'azione subita.
Da ciò si deduce che solo i verbi transitivi ( cioè capaci di esprimere un'azione
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attiva ) possono farsi ( essere) anche passivi (cioè esprimere anche un’azione
passiva).
Un'altra forma assai importante del verbo è la cosiddetta forma
RIFLESSIVA, nella quale il verbo transitivo (che esprime l’azione del soggetto) è
usato per esprimere un'azione che si riflette (che ricade) sul medesimo soggetto:
"Con queste parole tu ti accusi".
I verbi RIFLESSIVI sono accompagnati dalle particelle o pronomi personali
mi, ti, si, ci, vi, si.
I verbi RIFLESSIVI si uniscono regolarmente al verbo ausiliare ( che fa da
ausilio o da aiuto) ESSERE: "Io mi sono alzato tardi".
PERSONE E NUMERI
La forma del verbo varia secondo la persona o la cosa che compie (fa)
l'azione.
Le persone del verbo sono tre, cioè tante quante sono quelle del pronome.
Tali tre persone del verbo, che possono essere singolari o plurali, sono rette dai
corrispondenti
tre pronomi singolari: IO, TU, EGLI,
e
tre pronomi plurali: NOI, VOI, ESSI.
Il verbo ha quindi tre persone ( prima, seconda e terza ) e due numeri (singolare
e plurale ).
I TEMPI.
Un'azione qualunque, espressa dal verbo, può essere concepita come se si svolga
nel tempo stesso, in cui uno parla, cioè al presente, o in un tempo precedente, cioè
al passato, o in un tempo seguente, cioè al futuro.
Ogni azione espressa da un verbo può essere dunque considerata come
presente, passata, futura, per cui le forme del verbo variano in relazione al tempo
che esprimono: "Io leggo (presente), io leggevo (passato: imperfetto), io leggerò
(futuro semplice)”.
Nel presente vi è un solo tempo.
Nel passato vi sono cinque tempi: imperfetto, passato prossimo, passato remoto,
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trapassato prossimo, trapassato remoto.
Nel futuro vi sono due tempi: futuro semplice, futuro anteriore.
Il presente indica l'azione contemporanea,, che avviene nel tempo stesso in
cui uno parla o scrive: "II bimbo piange".
L'imperfetto indica un fatto passato con l'idea di una certa durata o di una
ricorrenza abituale: "Io leggevo mentre tu dormivi". "Io solevo leggere ogni
giorno un'ora".
Il futuro indica un’azione successiva rispetto al tempo presente o attuale:
“Domani ti vedrò”.
IL PASSATO PROSSIMO
II passato prossimo indica un'azione svoltasi in un tempo che non è trascorso
completamente (che non è terminato): "Mi sono alzato or ora".
Il trapassato prossimo esprime un fatto avvenuto nel passato, ma prima di un
altro fatto pure avvenuto nel passato:
"Non venisti anche se io ti avevo preparato (trapassato prossimo) una lieta
sorpresa".
Il passato remoto indica un'azione svoltasi interamente nel passato:
"II 1848 fu l'anno delle rivoluzioni".
Il trapassato remoto indica un'azione compiuta (avvenuta) nel passato prima
di un'altra azione espressa da un passato remoto:
"Tacque dopo che m'ebbe udito (trapassato remoto)".
Il futuro semplice indica un'azione che dovrà accadere:
"Tornerò solo".
Il futuro anteriore indica un'azione che dovrà avvenire ma prima di un'altra
azione espressa dal futuro semplice: "Quando tornerai ( futuro semplice) io sarò
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già partito ( futuro anteriore ).
I tempi si distinguono in semplici e composti.
Si dicono semplici i verbi formati da una sola parola
( da una sola voce verbale ).
Composti sono quelli formati da due o più parole ( da due o più voci
verbali ): "Sarei stato rimproverato".
Le forme semplici risultano dal tema verbale seguito dalla desinenza del
tempo: legg – o; legg - erò.
Le forme composte risultano dal participio passato del verbo principale e
dalle voci dei verbi ausiliari avere ed essere: ho amato, sono stato amato.
I MODI DEL VERBO
I modi diversi di esprimere l'azione o lo stato, espressi dal verbo, si
distinguono in
modi finiti, cioè determinati nella persona e nel numero ( indicativo, congiuntivo,
imperativo e condizionale ) e in
modi infiniti, cioè indeterminati nella persona e nel numero ( infinito, participio e
gerundio ).
Il modo finito indicativo è il modo della certezza sia che affermi ( tu sali, io
scendo ), sia che neghi ( tu non capisci nulla ).
II modo finito congiuntivo invece esprime dipendenza da un altro pensiero o
verbo, una possibilità, un augurio, cioè una situazione d'incertezza:
"Vorrei che tu venissi".
Si chiama congiuntivo perché si trova congiunto al verbo reggente per mezzo
di una congiunzione: "Desidero ( verbo reggente ) che ( congiunzione ) tu venga
( congiuntivo ).
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Il modo finito imperativo è il modo del comando e non ha la prima persona:
"Levati e cammina".
Il modo infinito, cioè non determinato né nel numero né nella persona,
esprime l'idea del verbo in modo generico.
Due sono i tempi dell'infinito, presente e passato: "E' necessario studiare
(infinito presente ), aver studiato ( infinito passato )”.
L'infinito può essere usato anche come nome: "II leggere (infinito sostantivato
o nome) giova a tutti".
Il modo (infinito) participio è verbo e anche aggettivo ed ha due tempi: il
presente ( il sole è abbagliante ) e il passato ( gli occhi furono abbagliati ).
Il modo (infinito) gerundio indica un'azione secondaria rispetto a quella del
verbo reggente e ad essa contemporanea: "Proseguiva il cammino guardando a
terra."
Il modo gerundio può avere il tempo presente ( ridendo ) ed il tempo
passato ( avendo riso ).
Soltanto il modo indicativo ha tutti i tempi.
LA CONIUGAZIONE.
II verbo, quindi, varia (cambia) di forma dovendo esprimere il modo, il tempo, la
persona e il numero: l'insieme di tali forme del verbo costituisce la coniugazione.
Le forme del verbo presentano due parti:
una prima parte immutabile detta radice o tema e
una seconda parte o parte finale, detta desinenza, che indica come si modifica il
verbo: LOD- ( radice o tema ) –ARE ( desinenza ),
LOD- ( radice o tema ) –ERO’ (desinenza ).
I verbi italiani possono essere divisi in tre gruppi, corrispondenti alle tre
coniugazioni:
- Verbi con desinenza dell'infinito in ARE (I coniugazione);
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- Verbi con desinenza dell'infinito in ERE (II coniugazione);
- Verbi con desinenza dell'infinito in IRE (III coniugazione).
I verbi possono essere anche irregolari quando ad esempio manchino di
alcune voci (di alcune forme).
I verbi ausiliari sono essere e avere e servono a formare i tempi composti
degli altri verbi: "Io ho viaggiato a lungo; io sono tornato stanco".
I verbi passivi possono essere fatti o coniugati soltanto con i verbi transitivi,
cioè con i verbi che fanno transitare ( passare ) l'azione dal soggetto all'oggetto.
I verbi intransitivi, esprimendo azione che non passa (che non si compie) sopra
alcuna persona od oggetto, non possono essere passivi.
Non c'è una norma rigorosa per distinguere i verbi intransitivi, che si
coniugano con avere, dagli altri verbi intransitivi, che si coniugano con essere.
( Ad esempio, con il verbo ausiliare essere si coniugano i verbi intransitivi
andare, stare, diventare, ecc.;
si coniugano invece con il verbo ausiliare avere i verbi intransitivi rabbrividire,
tossire, sudare, ecc. ).
I verbi come potere, dovere, sapere, ecc., anche se richiedono per sé,
nella loro coniugazione, l'ausiliare avere ( ho saputo ), quando si coniugano
insieme a verbi intransitivi assumono l'ausiliare proprio di questi ultimi (dei verbi
intransitivi):
"Non son potuto venire”, e non invece: “Non ho potuto venire.”
I verbi riflessivi si coniugano regolarmente sul modello della coniugazione
attiva con l'aggiunta dei pronomi mi, ti, si, ci, vi, che di solito vengono posti prima
del verbo ( mi specchio ).
Nei tempi composti i verbi riflessivi si coniugano con l'ausiliare essere: "Mi
sono alzato ora".
I VERBI IRREGOLARI.
Si chiamano irregolari quei verbi che si comportano in modo più o meno diverso da
quelli regolari.
Quattro di essi appartengono alla prima coniugazione
DARE, ANDARE, STARE, FARE;
(uscita in –ARE):
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molti appartengono alla seconda coniugazione (uscita in -ERE ) e
pochissimi alla terza (uscita in -IRE ).
Ad esempio: accludere ( passato remoto: acclusi, participio passato:
accluso ); assumere ( passato remoto: assunsi, participio passato: assunto );
difendere ( passato remoto: difesi, participio passato: difeso ); espellere (espulsi,
espulso ); giacere ( giacqui, giaciuto ); nascere (nacqui, nato); nuocere ( nocqui,
nociuto ), ecc.
Alla terza coniugazione appartengono verbi irregolari come apparire (apparvi,
apparso ); svenire ( svenni, svenuto ).
I VERBI DI DOPPIA CONIUGAZIONE.
Vi sono verbi che hanno doppia coniugazione come adempire ( terza
coniugazione ) e adempiere ( seconda coniugazione); compire ( terza
coniugazione ) e compiere ( seconda ); starnutare ( prima ) e starnutire ( terza ).
Alcuni di questi verbi possono essere transitivi in una forma e intransitivi
nell'altra: arrossare è transitivo, arrossire è intransitivo.
USI PARTICOLARI DEI TEMPI.
Il tempo presente del modo indicativo si usa talvolta invece del passato remoto
e si chiama presente storico: Napoleone muore nel 1821.
Il tempo presente inoltre si usa a volte invece del futuro ( parto domani ) e per
indicare azioni ricorrenti ( ogni giorno cammino un'ora ).
Il tempo imperfetto si usa per azioni ricorrenti nel passato ( ogni anno veniva a
trovarci ).
Il modo (finito) imperativo negativo si rende con il modo infinito preceduto
dalla negazione: non tradire la verità.
L'AVVERBIO.
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L'avverbio, che è stato anche chiamato l'aggettivo del verbo, è quella parte invariabile del
discorso che, come dice il nome, si aggiunge al verbo per integrarne il significato: "Ho
dormito beatamente".
Si aggiunge anche all'aggettivo: "<assai> adirato", o ad un altro avverbio:
" <troppo> poco ".
L'avverbio può essere costituito da una sola parola: direttamente, o da più
parole ( locuzioni avverbiali ): "a dirotto".
Gli avverbi possono essere:
MODALI o di modo o di maniera: alto, bene, certo, neppure, ecc.;
LOCALI o di luogo: qui, qua, su (senza accenti), lì, là, giù (con gli accenti), vicino,
su, ecc.
Qui (senza accento) indica il luogo di chi parla;
costì e costà (con gli accenti) indicano il luogo di chi ascolta;
là o colà (con gli accenti) indicano il luogo lontano dall'uno e dall'altro;
TEMPORALI o di tempo:
oggi, ieri, domani, stamani ( tempo determinato );
quando, mai, sempre, allora (tempo indeterminato);
QUANTITATIVI o di quantità: assai, molto, poco, meno, abbastanza, ecc.
LA PREPOSIZIONE.
La preposizione è parte invariabile del discorso.
Essa spiega il rapporto tra le parole (il modo, il luogo, il tempo, ecc.,
dell’azione), tra le quali s'interpone: "Leggere con diligenza".
Le preposizioni possono essere semplici ( di, a, da, in, con, su, per, tra, fra ) e
articolate ( in quanto assorbono l'articolo: della, alla, dalla, nel, nella, ecc. ).
Talora le preposizioni si uniscono con avverbi e si dicono composte:
dentro a, addosso a, dietro a, fuori di, insieme con.
LA CONGIUNZIONE
La congiunzione è la parte invariabile del discorso che collega due o più parti
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di una proposizione o frase o di un periodo (insieme di frasi).
Le congiunzioni sono
semplici ( e, né, o, però, ma, ecc. ) e
composte, quando risultano dall'unione di più parole ( perché, poiché, allorché,
perciò, bensì, sebbene, nonostante, ecc. ).
L'ESCLAMAZIONE O INTERIEZIONE.
Le esclamazioni più comuni sono espresse da monosillabi: "Ah, Eh, Oh, ecc.".
Altre esclamazioni o interiezioni sono formate da parole intere: "Evviva, grazie, giusto,
ecc."
LA PROPOSIZIONE.
La forma più elementare del nostro pensiero, espressa con parole, si chiama
proposizione o frase: "II sole splende".
Per costituire una proposizione o frase sono essenziali due elementi:
un soggetto e
un predicato o verbo.
Molte proposizioni presentano anche altri elementi, detti complementi.
Il soggetto è la persona, l'animale o la cosa che agisce: “Gli uccelli ( soggetto )
volano ( predicato o verbo )".
Il predicato è il verbo che esprime l'azione:
"II cielo (soggetto) splende ( predicato o verbo ) ".
I complementi servono per meglio determinare il soggetto e il predicato:
"il cielo ( soggetto ) d'Italia ( complemento di specificazione ) splende
(predicato o verbo) in ogni stagione ( complemento di tempo )."
Quando un elemento di una proposizione non è esplicito, ma implicito
( sottinteso ), la proposizione si dice ellittica.
Oltre alle proposizioni ellittiche, esistono quelle semplici, complesse e
composte.
E' semplice la proposizione formata dal soggetto e dal predicato o verbo:
"Omero ( soggetto ) era cieco ( predicato nominale )."
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La proposizione complessa è formata da soggetto, predicato e uno o più
complementi: "Noi ( soggetto ) leggiamo ( predicato o verbo ) Dante
( complemento oggetto ) nella scuola ( complemento di luogo )”.
La proposizione è composta quando comprende più soggetti o più predicati
o più complementi: "Tu ( soggetto ) leggi e scrivi ( due predicati o verbi );
Aldo ( soggetto ) ha meritato ( predicato o verbo ) molte lodi e premi
( più complementi oggetto )".
IL PERIODO.
II periodo è costituito da un insieme di due o più proposizioni o frasi:
II babbo è ammalato, perciò Gino va a comprare le medicine.
E' da notare che il numero delle proposizioni o frasi, che compongono un
periodo, è pari al numero dei verbi contenuti nel periodo stesso.
Spesso il periodo è costituito da una frase principale o reggente, che può
stare anche da sola, e da una o più frasi dipendenti, che dipendono appunto dalla
frase principale o reggente: Io gli dissi ( frase principale o reggente )
di venire subito ( frase dipendente o secondaria ).
Bisogna distinguere nel periodo la coordinazione dalla subordinazione
delle frasi.
La coordinazione (paratassi) si ha quando le congiunzioni collegano o
coordinano due o più frasi dello stesso livello o grado della frase reggente o
principale:
Venni, vidi, vinsi; un cane vide una lepre e la inseguì.
La subordinazione (ipotassi) si ha invece nel caso, che abbiamo già visto, di
una o più proposizioni dipendenti ( subordinate o secondarie ) rispetto ad una
principale o reggente:
Voglio sapere ( frase principale ) che cosa hai fatto ( frase dipendente o
subordinata o secondaria ).
LA CORRELAZIONE DEI TEMPI.
Al presente e al futuro della proposizione principale corrisponde nella frase
secondaria di modo indicativo:
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1. il presente per indicare azione contemporanea: Vedo che piangi;
2. il futuro per indicare azione posteriore: Vedo che finirai male;
3. l'imperfetto, il passato prossimo, il passato remoto per indicare azione
antecedente in via di svolgimento ( imperfetto ) oppure già avvenuta
( passato prossimo e passato remoto):
so ( presente ) che hai letto ( passato prossimo );
so ( presente ) che leggevi ( imperfetto);
so ( presente ) che leggesti ( passato remoto ).
Ad un tempo passato, che si trovi nella frase reggente, corrisponde nella
frase dipendente:
1. l'imperfetto se l'azione è contemporanea: Egli capiva ( imperfetto ) che non
c'era ( imperfetto ) niente da fare;
2. Il trapassato prossimo se l'azione è anteriore: Egli capì ( passato remoto ) che
aveva detto ( trapassato prossimo ) uno sproposito.
Il futuro, che dipenda da un passato, si esprime con il condizionale presente
o passato indifferentemente: Parlò ( passato remoto ) dei libri che porterebbe
( condizionale presente) o avrebbe portato ( condizionale passato ) con sé.
SEGNI DI INTERPUNZIONE O DI PUNTEGGIATURA.
I segni di punteggiatura o di interpunzione fondamentali sono quattro:
la virgola, i due punti, il punto e virgola e il punto fermo.
La virgola indica la pausa di grado minore.
Il punto e virgola indica una pausa di grado più forte tra due proposizioni o
frasi.
I due punti indicano una pausa che sta tra quella debole della virgola e quella
più forte del punto e virgola, separando due proposizioni, di cui la proposizione
seguente è in qualche modo la continuazione della precedente: Vedi chi viene:
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gente da tutte le parti.
II punto indica la pausa più forte e si usa quando il discorso o il periodo è
concluso.
Da notare che la parola punteggiatura deriva da punto.
ETIMOLOGIA.
L'etimologia è quella parte della grammatica che studia la storia della
parola nella sua origine e nella sua derivazione.
La lingua italiana è composta di parole derivate, nella loro maggioranza,
dalla lingua latina.
Molte parole però derivano dal greco: antologia, mania, genia, nevrastenia,
metro, termico, glicerina.
Di origine germanica sono invece: bandiera, brando ( spada ), albergo,
banco.
Sono di origine araba: algebra, ciabatta, sofà, alcool.
ARCAISMI E NEOLOGISMI.
Le parole, che scompaiono dall'uso o se ne allontanano, oppure che non si
usano più nel loro primitivo significato, si chiamano arcaismi ( ad esempio:
sirocchia ( sorella ), allotta ( allora ), pietanza ( pietà ).
Le parole di nuovo conio si chiamano neologismi, che possono derivare anche da
lingue straniere e dai dialetti.
(elaborazione 2005)
(a cura di Giorgio Rinaldi)