Malighetti_06RE

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IL TRAGICO OSSIMORO: NOTE SULLA DERIVA
MONOCULTURALE DEL MULTICULTURALISMO1
Roberto Malighetti 2
Il riconoscimento della propria realtà culturalmente composita da parte delle società europee è
un'acquisizione recente. Solamente a partire dagli anni Ottanta, e non senza forti resistente da
parte di molte forze politiche e di vasti settori dell'opinione pubblica, è maturato un interesse
esplicito per ciò che viene definito con il termine multiculturalismo.
In nome del multiculturalismo la società europea ha elaborato una proliferazione di discorsi
riguardanti il ruolo delle minoranze, di programmi intesi a promuovere l'uguaglianza e di
strutture istituzionali designate a fornire servizi. Le iniziative hanno, tuttavia, producono l'effetto
contrario di escludere le minoranze, invece di promuovere la loro partecipazione alla società e
alla cultura nazionale e transnazionale. Tale risultato deriva dalle modalità con cui si è inteso il
concetto "multiculturalismo" e le nozioni ad esso connesse - in particolare quelle di cultura e di
etnicità.
In termini operativi le politiche multiculturali hanno aumentato la frammentazione (e il
rischio di aparthaidizzazione) della distanza fra le componenti della società, dimostrandosi validi
strumenti per la costruzione dell'identità nazionale. Il multiculturalismo produce così la propria
contraddizione: il monoculturalismo.
MULTICULTURALISMO E MONOCULTURALISMO
Il concetto di multiculturalismo si fonda su un'immagine della società come di un mosaico
formato da monoculture minoritarie omogenee e dai confini ben precisi, in rapporto a una
monocultura dominante altrettanto chiusa.
Basato ambiguamente su un'improbabile neutralità, sull'illusione dell'uguaglianza e sul
pluralismo, tale concetto reifica ed essenzializza le culture, considerandole come entità separate,
proprietà di un gruppo etnico o di una razza. In tal modo enfatizza i confini e la mutua
distinzione in termini che producono richieste repressive di conformità comune e strategie
assimilatrici.
Etnicità e multiculturalismo sono due forme interrelate di ideologia sociale. Entrambe sono
strumenti rigidi di classificazione che sottolineano l'omogeneità interna, costruita, alternativamente, attorno a variabili culturali, genealogiche, territoriali, religiose o linguistiche.
Similmente al concetto di razza - specie nella fissazione e nell'immutabilità della differenza selezionano ciò che divide i gruppi sociali invece del loro intrinseco rapporto. In tal modo si
dimostrano coerenti coi principi e le strategie nazionalistiche, legittimando pratiche di
separazione politica e culturale. Il modello richiama alla mente la logica del sistema di
sudafricano dove studiosi della tradizione volkekunde fornirono le basi ideologiche per il regime
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Articolo pubblicato su Passaggi. Rivista Italiana di Scienze Transculturali, n° 4, 2002.
Professore Associato di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha condotto
ricerche sul campo in Italia e in Brasile, interessandosi soprattutto di metodologia della ricerca ed epistemologia,
cooperazione internazionale e sviluppo e dello studio delle culture afro-brasiliane. Tra i suoi lavori: Il filosofo e il
confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz, (1991); Alla ricerca dell’identità (1998); Dal tribale al
globale (2000); Antropologia Applicata (2001); Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una
comunità brasiliana di discendenti di schiavi (2004), Oltre lo sviluppo, le prospettive dell’antropologia (2005).
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1
dell' aparthaid e la divisione del paese in comunità etniche, concepite come "ontical, human
social units" (Coertze, 1978:1). Utilizzando gli strumenti dell'antropologia, così come furono
elaborati in epoca coloniale (Malighetti 2001), i "government anthropologists" e gli ideologi del
National Party scorsero nel sistema di segregazione razziale il rispetto delle singole tradizioni
culturali locali, conservate nella loro purezza e lontane da possibilità di contaminazione (Grillo,
Rew, 1985:135).
Il multiculturalismo può essere considerato come il modo in cui lo stato nazionale descrive e
pensa se stesso, una manifestazione della reazione contemporanea alla delegittimazione e alle
minacce di erosione dell'egemonia delle culture dominanti all'interno dei paesi europei. Tali
prospettive si caratterizzano oggi nel riconoscimento e nell'istituzionalizzazione delle diversità
in funzione della loro emarginazione o della loro omologazione. La tendenza è di considerare
imperative e autoescludentesi le identità multiple: se ne può avere solo una, altrimenti non si è
visibili all'interno delle nicchie create dal multiculturalismo.
L'insistere sulle divisioni e sulle differenze fra gruppi etnici e fra culture, comporta non solo
criteri e simboli per una loro identificazione, ma anche una strutturazione e una limitazione dei
loro rapporti al fine di impedire le inevitabili interazioni, i reciproci contributi, le influenze e le
negoziazioni. Per restare fedeli all'idea verticale di "nazionalità" vari governi europei hanno
finito per aggrovigliarsi in una fitta rete di leggi sull'immigrazione basate sull'idea che le
politiche per tali gruppi siano specifiche, alternative e separate dai problemi dello stato. In tal
modo le minoranze vengono definite al di fuori dei concetti di nazione e di comunità alla cui appartenenza possono difficilmente aspirare solo attraverso un processo di annullamento e di
negazione della propria identità.
Profondamente influenzata da una parziale definizione socio-economica dell'etnicità (per cui
si intendono con questo termine solamente le minoranze "marginalizzate" ed economicamente
deboli), il concetto di multiculturalismo non può prendere in considerazione la composita realtà
europea nel suo insieme e neppure le differenze culturali all'interno degli stati nazionali. Si riferisce esclusivamente ad una inverosimile cultura "extra-communitaria" omologata come unica
"diversità" all'interno della società nazionale e usata come capro espiatorio di tutti i problemi e
delle crisi. Espelle la dimensione del cambiamento e dell'articolazione interna, se non come
effetto di interventi ed "enti patogeni" esterni come l'immigrazione (ma, curiosamente, non la
globalizzazione considerata come fenomeno "interno").
Tale "esportazione-espulsione" al di fuori dell'Europa del multiculturalismo, rispondendo ai
precisi intendimenti politici dei differenti stati nazionali, ha così promosso un'ideologia nazionalista, fondata sull'unità territoriale, sull'autenticità storica e culturale, sulla purezza etnica o
razziale. Questo ha portato a prendere in considerazione il multiculturalismo solo in quanto
problema (immigrazione, marginalità, povertà, criminalità ecc.) all'interno di un quadro teorico
dominato dalla contrapposizione assimilatrice "cultura egemonica-cultura subalterna" fondata
sulla negazione dell'alterità e quindi del dialogo fra culture. In base a quest'ottica le attività a
favore del multiculturalismo si sono concentrate a ridurre i conflitti e le tensioni sociali e a
promuovere l'assimilazione delle subculture all'interno dei modelli culturali dominanti.
Reificando e enfatizzando le differenze e le divisioni il multiculturalismo si è dunque posto in
connessione con pratiche indirizzate esclusivamente in direzione delle minoranze, nell'intento di
renderle interlocutori autorevoli di un asimmetrico e unilaterale dialogo interculturale. Il termine
è infatti principalmente usato per denotare gli interventi miranti a favorire l'integrazione dei
gruppi minoritari nella rappresentanza e nella partecipazione politica, nei curricula scolastici e
accademici come anche nei programmi o negli eventi della cultura nazionale dominante.
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Seguendo un movimento che può apparire paradossale il multiculturalismo si rivela come il
lato oscuro della monocultura: l'omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraverso il
riconoscimento e l'annullamento integrativo o escludente della differenza.
LA COMPLESSITA’ DELLE CULTURE
La globalità dei processi economici e politici hanno creato reti di interconnessioni che penetrano
i contesti locali più periferici. In tale mondo plurivoco ed eteroglosso, i cui confini culturali sono
sempre più confusi e mutevoli, sistematicamente ibridati attraverso l'aggregazione sincretica di
tratti eterogenei in nuove e instabili configurazioni, diventa difficile iscrivere la diversità
culturale in culture indipendenti e ben definite. In questo contesto si aprono nuovi spazi e nuove
strategie di ricerca e di rappresentazione, che impongono di modificare una serie di topoi
caratteristici del sapere occidentale: cultura, comunità, identità, etnia, razza, tribù, nazione.
Come è stato da più parti sottolineato (Epstein, 1978; Poutignat,Streiff-Fenart, 1995; Fabietti,
1995), il riemergere di conflitti etnici, ha richiesto nuovi approcci al problema dell'identità e
dell'etnicità, non più definibili in termini di semplice appartenenza a un compatto e coerente
insieme culturale. L'identità etnica e culturale è sempre meno un attributo quasi-naturale di
conchiuse comunità, considerate come unità indifferenziate o somma di tratti empiricamente
riscontrabili all'interno di un contesto locale. Al contrario, è il prodotto caleidoscopico,
congiunturale e frammentario, di strategie attivamente perseguite da individui e gruppi a vario
livello - costruzioni, interpretazioni del passato, o "invenzioni della tradizione" (Wagner, 1981;
Featherstone, 1990, Lash-Friedman, 1992). In questo senso l'identità culturale non è "statica", ma
è sottoposta ad un continuo processo di riformulazione, costituendo una totalità in movimento
che si compone e ricompone in mutevoli rapporti con l'esterno e in reinterpretazioni del passato
alla luce di nuovi modelli e nuove forme di comprensione (Barth, 1969; Said, 1978; Clifford,
1988; Smith, 1991).
Balandier (1971) e Amselle (1990) hanno mostrato come la produzione dell'identità etnicoculturale sia frutto di un duplice processo dinamico e dialettico fondato su due livelli: un livello
interno ed uno esterno. In realtà la distinzione fra i livelli interni ed esterni è solo un artificio
euristico, non solo perché l'identità come è percepita dagli interessati si costituisce come idea di
un "noi" che ha senso solo se contrapposto ad un "loro". Ma anche perché la natura complessa
del contesto in cui si produce l'identità si fonda sul concorso e la cooperazione di diversi agenti,
che superano la dicotomia fra localismi e globalizzazione: le comunità locali, le organizzazioni
statali, i gruppi di pressione, i movimenti politici, i media ecc.
Concetti come cultura, comunità, etnia, razza, tribù, nazione non risultano come qualcosa di
definito una volta per tutte e nemmeno come un'entità reale. Tali nozioni sono costrutti artificiali
mediante i quali un gruppo produce una definizione del sè e dell'altro collettivi, autoattribuendosi una omogeneità interna e, contemporaneamente, una diversità rispetto agli altri. In
questo senso l'identità culturale ed etnica è pensabile solamente in una maniera contrastiva e
contestuale che ha le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi coagulati attorno ad interessi
specifici. Le etnie risultano come il prodotto di una rappresentazione contingente, fondata su un
processo di continua negoziazione dell'identità attraverso l'opposizione, l'interesse, il conflitto
(Cohen, 1974).
La novità delle recenti analisi non consiste tanto nella identificazione di valenze economicopolitiche nei processi di costituzione dell'identità, già efficacemente sviluppate negli anni
Sessanta e Settanta. Ciò che caratterizza gli approcci contemporanei consiste, piuttosto, nel
togliere all' etnia la valenza oggettiva e nel considerarla come una costruzione, sottolineando il
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carattere processuale, discontinuo, inventato e contrattuale delle definizioni di identità (Hosbawn
& Ranger, 1983, Marcus & Fisher, 1986, Wagner, 1981; Bhabha, 1994; Appadurai, 1996;
Clifford, 1997; Amselle, 1999, 2001).
Come rivela correttamente Ugo Fabietti (1995), questo non vuol dire che l'identità etnica sia
un'invenzione dell'immaginazione. Piuttosto significa che anziché corrispondere a delle realtà eterne, autentiche e pure, è il risultato di processi di etnicizzazione. Le culture, le società, le etnie,
le nazioni emergono non come realtà "naturali" immutabili, ma come delle vere e proprie
costruzioni, forme di rappresentazione del sé relazionali e in continua trasformazione nell'ambito
dei rapporti che un gruppo umano intrattiene con altri e con il contesto che li contiene.
Roger Keesing (1974:88) parla di "magia dei simboli" alludendo alla trasposizione dei simboli
condivisi in entità che dominano, implicitamente o esplicitamente la coscienza individuale.
Questa entificazione o sostanzializzazione consiste nel conferimento ai simboli di una
condizione di realtà autonoma e indipendente, sottratta al flusso esperienziale del loro impiego e
ai cambiamenti della vita sociale, totalizzante nei confronti dei suoi fruitori (Ceccarelli,
1978:272; 1982:57). Tuttavia, per quanto il processo di reificazione possa spingersi in avanti, la
cultura non è una cosa che possa mantenersi e sussistere indipendentemente dall'impiego che se
ne fa. I simboli culturali esistono solamente in quanto sono impiegati, condivisi e socializzati
(Remotti, 1992). In quanto "traffico di simboli significanti" (Geertz, 1973) la cultura deve essere
non solo costruita ma anche continuamente ricostruita. Esistendo solamente attraverso le
inevitabili variazioni determinate dell'uso, la cultura, come la lingua, si realizza non già
nonostante, ma attraverso le variazioni e la sua realtà non si trova al di là del cambiamento ma al
suo interno (Sapir, 1922:155; Sahlins, 1985:126).
Keesing (1994) preferisce utilizzare l'aggettivo "culturale", a sottolineare il carattere di
costrutto antropologico astratto e non di entità reale. Clifford (1988), da parte sua, parla di
predicament difficilmente traducibile come "predicamento", per ribadire la sua natura
prospettica costruita e "attribuita" alla realtà. Usando un concetto wittgensteiniano potremmo
dire che la cultura tratta“ della rete”, e non della realtà, configurandosi non come uno spazio
esterno a chi lo utilizza, un oggetto delle pratiche e dei discorsi, ma come uno spazio globale di
cui i soggetti sono parti integranti e come il luogo da cui parlano.
In tal senso si tratta di un processo storico e politico piuttosto che spaziale (Amselle 2001,
Appadurai, 1996, Clifford, 1988, 1997; Hannerz, 1992). Clifford, preferendo al concetto di
invenzione quello di articolazione, descrive il collegarsi e scollegarsi di elementi disparati in
maniera al tempo stesso espressiva e politica, secondo modalità simili a quelle sollecitate dai
cultural studies nella loro riflessione sull'intreccio fra sistemi simbolici e sistemi di potere, e
sulla produzione e riproduzione delle forme culturali. Tale "politica della cultura" o "politica
economica della conoscenza" (Keesing, 1974) pensando la cultura come una costruzione
politica, invita a considerare "chi crea e chi definisce" o chi manipola nella contingenza e a quale
scopo i significati culturali, attraverso quali dinamiche e toccando quali elementi, secondo quali
concezioni della cultura
Il punto di vista antropologico non ha, quindi, semplicemente decostruito l'idea di cultura. Ha
invece cercato di disaggregarla, di renderla storica e politica, indagando gli spazi di scambio,
politici, linguistici e culturali nei quali si definisce, di coglierne le modificazioni e gli usi
all'interno delle pratiche.
Ogni cultura, è sempre stata meticcia o multiculturale, prodotto di una lunga storia di
appropriazioni, resistenze, compromessi in continuo mutamento, fondato, dunque, anche su
antagonismi incoerenze, contraddizioni. Non è "impazzita" o "insozzata" (Clifford, 1988)
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solamente nella contemporaneità a causa della globalizzazione, che in ogni caso non è una
dinamica recente, avendo costituito, attraversandola, la storia dell'uomo (Amselle, 2001). Vale
la pena di citare, a tale proposito, un lungo passo del 1937 di Ralph Linton che ben sottolinea il
contrasto fra la ferma convinzione di appartenere ad un gruppo e ad una cultura ben definiti e
chiusi e la concezione intrinsecamente ibrida e interculturale della cultura.
"Non ci sono dubbi sull'americanismo dell'americano medio, né sul suo desiderio di
conservare ad ogni costo questa preziosa eredità. Tuttavia alcune insidiose idee straniere
si sono già insinuate nella sua cultura senza che egli si sia reso conto di quello che stava
accadendo. Ecco dunque il nostro insospettabile patriota che indossa il pigiama, un indumento che ha avuto origine nell'India orientale, e dorme sdraiato su un letto costruito
secondo un modello originario persiano o dell'Asia Minore. E' coperto fino alle orecchie
di stoffe non americane: cotone coltivato per la prima volta in India, lino coltivato in
Medio Oriente, lana prodotta da un animale originario dell'Asia Minore, oppure seta,
che i cinesi hanno inventato e usato per primi. Tutti questi materiali si sono trasformati
in tessuti grazie a un procedimento inventato nell'Asia sud-occidentale. Se fa piuttosto
freddo può dormire sotto un piumone a trapunta inventato in Scandinavia.
Svegliandosi dà un'occhiata alla sveglia, un'invenzione medievale europea ... e va verso
il bagno.... il vetro fu inventato dagli antichi egizi, le piastrelle vetrificate del pavimento
e delle pareti nel Medio Oriente, la porcellana in Cina e l'arte di smaltare i metalli dagli
artigiani mediterranei dell'età del bronzo. Anche le tubature e la tazza del cesso sono
copie appena modificate rispetto agli originali romani. L'unico contributo americano a
tutto il complesso è il radiatore.
In questa stanza da bagno l'americano si lava con il sapone inventato dai Galli. Poi si
lava i denti, una rivoluzionaria pratica europea che non si propagò in America fino agli
ultimi anni del diciottesimo secolo. Quindi si fa la barba, rito masochistico la cui origine
risale a preti dell'antico Egitto e ai sumeri. Il procedimento è reso meno penoso dal fatto
che usa un rasoio di acciaio, una lega di ferro e carbonio inventata in India o in
Turchestan. Infine si asciuga con un asciugamano turco.
Ritornando nella camera da letto... prende gli abiti dalla sedia, il cui modello è stato
elaborato nel Medio Oriente, e inizia a vestirsi. Si mette un abito attillato le cui forme
derivano dalle vesti di pelle degli antichi nomadi delle steppe asiatiche e lo allaccia con
dei bottoni i cui prototipi comparvero in Europa alla fine dell'età della pietra.... Si infila
ai piedi delle calzature di cuoio confezionate secondo un procedimento inventato
nell'antico Egitto e tagliate secondo un modello che risale agli antichi Greci e si assicura
che siano accuratamente lucidate, anche questa un'idea greca. Infine si passa intorno al
collo una striscia di stoffa dai colori vivaci, che è un vestigio sopravvissuto dello scialle
che indossavano i Croati del diciassettesimo secolo. Si dà un'ultima occhiata allo specchio, vecchia invenzione mediterranea e scende le scale...
Si mette in testa un capello di feltro, materiale inventato dai nomadi dell'Asia orientale
e, se sta per piovere, si mette le soprascarpe di gomma, inventate dagli antichi messicani, e prende l'ombrello, inventato in India. Scatta via per prendere il treno, che è
un'invenzione inglese... Alla stazione si ferma un istante per comprare il giornale e lo
paga con delle monete inventate nell'antica Lidia. Una volta in carrozza si sistema sul
retro per fumare una sigaretta, invenzione messicana, o un sigaro, invenzione brasiliana.
Intanto legge le notizie del giorno, stampate con caratteri che derivano dagli antichi
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Semiti, stampati mediane un procedimento inventato in Germania su materiale
inventato in Cina. E, mentre legge l'ultimo editoriale che parla dei disastrosi risultati
che l'accettazione delle idee straniere produce sulle nostre istituzioni, non potrà fare a
meno di ringraziare un Dio ebreo in una lingua indoeuropea di essere al cento per cento
(sistema decimale inventato dai greci) americano (da Amerigo Vespucci, navigatore e
geografo italiano)". (Linton, 1937, pp. 427-429).
Il brano porta a riflettere sull'effetto ironico di considerare la cultura come qualcosa di
"autentico" e "puro", come un contenitore chiuso in cui sarebbero riposte le vere "radici", le
vere "tradizioni" di un popolo, di un'etnia di una nazione. Sottolinea, altresì, il fatto che ogni
cultura, ogni stato-nazione siano sempre stati multiculturali, non diventandolo solo di recente a
causa di intrusioni dall'esterno. Considerare la natura multiculturale delle società europee come
essenzialmente una questione di pluralismo dovuto alla presenza di popolazioni di origine
immigrata, è una finzione ideologica funzionale non solo al mantenimento della "pulizia" etnica
e nazionale. Comporta, altresì l'illusione che si tratti di una tendenza ciclica che possa essere
controllata, fermata o resa reversibile.
IBRIDAZIONI E METICCIAMENTI
Le configurazioni delle culture e delle relazioni culturali nel mondo contemporaneo
congiuntamente ai cambiamenti nello statuto del sapere hanno aperto nuovi spazi e nuove
strategie di ricerca che impongono di modificare le dicotomie del discorso modernista (globalitàlocalismo, modernità-tradizione, centro-periferia ecc.). Queste si frantumano in una molteplicità
di articolazioni complesse, in ibridazioni e "traffici di culture" (Canclini, 1998; Hannerz, 1998;
Guidieri, 1990; Appadurai, 1991; Fabietti, 2000), ripensando le relazioni fra locale e globale,
particolare e generale, centralizzazione e decentramento, omogeneità e individualità in termini di
"coappartenza" (Gadamer, 1983) o di "attraversamento". Come non esiste un locale puro così
non esiste un globale autentico, nonostante i fallimentari sforzi egemonizzanti di imporre una
tale prospettiva. Entrambi si stratificano contingentemente in pratiche, relazioni, influenze e
saperi (Miller, 1995; Appadurai, 1996; Long, 1996 ; Gupta & Ferguson, 1997, Binsbergen,
1998).
La riflessione contemporanea sulle configurazioni interculturali può offrire la possibilità di
trascendere la reificazione delle differenze, sostituendo all'idea di processi generati dalla
modernità rimpiazzando il moderno al tradizionale, l'idea di una modernità ibrida intesa come
un insieme di realtà negoziali prodotte essenzialmente dall'articolazione e dalla "coappartenenza"
della tradizione e della modernità, del locale e del globale. Tali reti di interconnessioni penetrano
i tempi storici più lontani e i contesti locali più periferici (Canclini 1998, Hannerz 1998, Guidieri
1990, Appadurai 1991, Fabietti 2000). Questa prospettiva considera l'attuale mondo ibrido,
plurivoco ed eteroglosso (Bakthin 1937), non come il prodotto della globalità dei processi
economici e politici contemporanei. Al contrario ritiene che i confini culturali siano sempre stati
confusi e mutevoli, sistematicamente ibridati attraverso l'aggregazione sincretica di tratti
eterogenei in nuove e instabili configurazioni (Amselle 2002).
Questi approcci forniscono la possibilità di considerare, da un lato, le "culture tradizionali"
nel loro coinvolgimento trasformativo con la modernità globalizzante. Dall'altro permettono di
pensare le realtà contemporanee non in termini omologanti, ma come società vernacolari
(Latouche 1997:112) nate dall'interrelazione fra antico e nuovo (Hannerz 1988, Fabietti 2000).
Le ibridazioni o le "sozzure" (Clifford 1993:28) sarebbero, cioè, fertilizzanti per nuove sintesi ed
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"emersioni" culturali e sociali.
Se non si abbandonano i presupposti, per altro già superati dalla realtà storica ed economica,
dell'uniformità interna, e non si ripensa la natura dello stato nazionale, accettando come
"normale" la diversità, non si potranno realizzare politiche veramente interculturali.
Interpretato alla luce di questi argomenti il multiculturalismo esce da un modello verticale,
fondato sulla somma di differenze discrete, e assume una connotazione orizzontale, fondata
sull'interrelazione fra le diverse componenti culturali della società. Questo indirizza gli
approcci e gli interventi interculturali o transculturali non solo verso le minoranze o verso
coloro che si occupano professionalmente di minoranze, ma verso la società nel suo insieme,
cogliendo l'aspetto di complessità teorica, politica e sociale che il concetto di cultura implica.
La società del XXI secolo deve superare il modello rigido della cultura nazionale pura e
incontaminata, decostruendo il carattere ideologico e mistificatorio con cui lo stato
"monoculturale" ha costruito e manipolato la propria identità.
Il fine è di riconoscere la complessità, e la natura culturalmente composita della realtà
sociale e culturale, considerando e valorizzando la ricchezza delle diverse componenti culturali
della società, non solo del passato ma anche e soprattutto del presente. Non si tratta di un
semplice invito a favore del cosmopolitanismo, o di una superficiale e romantica "celebrazione
delle differenze", ma di una presa di coscienza della natura interculturale della cultura e della
società. Solo in questo modo sarà possibile sostenere uno sviluppo risultante dalla comprensione reciproca e fondato sulla possibile identificazione dialogica e negoziale, e quindi
politica, di valori comuni.
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