Etica e procreazione
CARMELO VIGNA *
Penso sia opportuno cominciare subito la mia breve indagine da un punto che forse è
il più decisivo; cioè da una tesi che, però, è il rovescio di una comune convinzione. Si
dice infatti, solitamente, che abbiamo un’anima e si pensa che quest’anima sia nel
corpo. Ora io vorrei un po’ argomentare una convinzione opposta; a me par vero,
piuttosto, dire che il corpo è nell’anima. Questa è una verità su cui riflettiamo molto
poco, ma che in realtà viviamo quotidianamente.
Faccio qualche esempio. Quando incrociamo persone sgraziate nel corpo, ma con
anime spiritualmente luminose, dimentichiamo rapidamente il fatto che abbiamo a che
fare con un corpo dagli aspetti sgradevoli; lo dimentichiamo, perché è la relazione
all’anima, tramite il corpo, che ci prende. Ma si rifletta anche al fatto che il corpo stesso
è mano a mano stampato dall’anima. Ognuno di noi, in effetti, andando avanti con gli
anni, assume, specialmente nel volto, l’aspetto dell’anima sua. Ci sono dei vecchi
bellissimi; hanno fatto una vita bellissima, e lo testimoniano, appunto, nel volto. E poi
ancora: provate a pensare per un momento ad uno che sia in perfetta salute. Questi non
sente il corpo, sente il mondo. Uno, poniamo, che cammina in primavera su un prato
erboso, a piedi nudi, sente l’impatto con l’erba verde. Non pensa al proprio piede. La
sua relazione immediata è con l’erba verde. Se, però, per caso una spina gli punge il
piede, non sente più l’erba verde, quanto il dolore al piede. Sente il piede. In altri
termini, il corpo non è più medio atematico del rapporto al mondo, ma oggetto
immediato di rapporto. La relazione intenzionale ha avuto una sorta di arretramento.
Siamo passati dal corpo “soggetto” (medio del rapporto) al corpo “oggetto” (termine del
rapporto).
In effetti, dall’interno noi sperimentiamo la corporeità come “niente di determinato”,
se è in buona salute; la sperimentiamo solo come rapporto al mondo. Quando vediamo il
corpo dall’esterno, allora, certo, viene innanzi un altro spettacolo: una “cosa” di tanti
chili, con gli occhi così e così, con una certa età ecc. L’effetto massivo e visibile del
corpo nasconde allora l’invisibile, cioè l’anima; ma è l’invisibile che lavora e governa il
visibile. E questo perché il “capo” della relazione nostra al mondo, se da un lato, come
“termine intenzionale”, è il mondo (o anche il corpo-mondo), dall’altro lato, come
“fonte intenzionale”, è l’anima. Ciò significa che ogni cosa è per l’anima e quindi
“l’anima è in certo modo (cioè intenzionalmente) tutte le cose” (Aristotele). La quale
anima, dunque, è il vero “contenitore” universale. Vi dicevo già che questo è il punto
decisivo da tenere a mente per affrontare in modo corretto il problema della
procreazione da un punto di vista etico. Anche se la procreazione sembra, sulle prime,
soprattutto una questione di corporeità.
Io vorrei obbiettare, come avrete inteso, solo a quel “soprattutto”. Perché l’etica
pensa certamente al corpo, come no? Il corpo ci importa, e molto. Ma l’etica comincia
propriamente dall’invisibile cioè dall’anima; comincia, cioè, dal modo in cui noi ci
rapportiamo al mondo. Che vuol dire: dal modo in cui ci rapportiamo al mondo
ambiente e specialmente agli altri nel mondo che ci circonda; in ultima istanza, l’etica
comincia dal (e finisce nel) modo in cui ci rapportiamo a Dio. Le realtà di cui dobbiamo
oggi parlare (le forme della procreazione) di solito prendono, invece, massivamente il
primo significato dal corpo “esterno”; implicano una tecnica della vita corporea o,
comunque, vengono così gestite, sicché si lavora sul corpo umano un po’ come si lavora
su una lucertola, cioè per “sezioni”: la testa, il corpo centrale, quattro zampe, la coda
ecc.
Poiché di queste cose si viene a capo studiandole “a pezzi”, alcuni pensano di poter
fare lo stesso con l’essere umano. Ma quest’ottica, eticamente parlando, falsa del tutto la
questione di senso del fenomeno. E nulla intende di una realtà delicata e profonda come
la procreazione, la quale comprende un fascio di relazioni e di dinamiche
intersoggettive di fondamentale importanza, e in primo luogo la relazione della madre al
suo bambino, anzi della coppia parentale con il proprio bambino. “Fare un bambino”
vuol dire, infatti, avere dinanzi, nell’immaginario agli inizi, ma poi dopo corposamente
nella realtà, un interlocutore. Vuol dire, quindi, istituire una relazione intenzionale. Ne
segue subito che, per capire qualcosa della procreazione, eticamente parlando, bisogna
cominciare a mettersi in mente che non si tratta anzitutto di un problema di tecnologia o
di tecnica della vita. S’intende, c’entra anche la tecnica medicale nella procreazione,
specie se si ragiona di procreazione assistita. Ma dobbiamo renderci conto del fatto che
prima di tutto noi abbiamo a che fare, nelle dinamiche della procreazione, con un
problema di relazione tra esseri umani. Ebbene, la convinzione che il corpo è nell’anima
deve poterci consentire di guardare il corpo come il luogo in cui si manifestano le
relazioni che sono nell’anima, cioè come il luogo dove, appunto, le relazioni “prendono
corpo”. Esse, abbiamo anticipato, sono il vero oggetto dell’eticità. Se uno aggiusta solo
il corpo, astraendo dal fatto che esso è il luogo delle relazioni, il corpo sarà
inevitabilmente trattato male: anche se uno (il maschietto) lo vuole “palestrato”, anche
se un altro (la femminuccia) lo vuole giovane e magro, ricorrendo magari alla chirurgia
estetica...
Il corpo, dicevo, è ciò in cui le relazioni si incorporano. Noi, in effetti, non possiamo
avere relazioni con gli altri se, ad esempio, non li guardiamo negli occhi, se non
stringiamo loro la mano. Una madre che porta un bambino in grembo ha mille prove di
questa realtà pervasiva. Ma se il corpo è necessario, non è il termine ultimo del
rapporto. Ebbene, un certo andamento delle pratiche di procreazione, specie quando
viene esasperato l’intervento tecnico-medicale, tratta di fatto il corpo proprio così:
diventa una sorta di “oggettivazione” brutale della profonda unità di anima e corpo di
cui siamo costituiti. Se un medico sbaglia intorno a questa unità profonda può essere
condotto a comportamenti eticamente aberranti; se una donna sbaglia su queste cose,
sbaglia per sé e per il proprio bambino e sbaglia anche per conto del proprio uomo;
perché la relazione di una madre col proprio bambino è anche quella che porta in dote,
se si tratta di una buona coppia, la relazione del padre al proprio bambino.
L’oggettivazione e la frammentazione dei processi di procreazione risentono
indubbiamente della libertà che s’è prodotta mano a mano negli ultimi 50 anni, quanto
ai nessi che stanno in madre natura. Fino a non molti anni fa l’accoppiamento tra un
uomo e una donna era naturalmente (e pure naturalisticamente, purtroppo) aperto alla
possibilità che nascesse un bambino; adesso, invece, i rapporti sessuali possono
agevolmente essere tenuti distinti dalla procreazione. Fino a pochi anni fa l’infertilità
del maschio e/o della femmina pareva senza rimedi. Adesso è possibile avviare i
processi di procreazione per altre vie. Insomma, la sessualità può essere tenuta distinta
non solo dalla fecondità, ma anche dalla responsabilità diretta della procreazione e
persino della gestazione. Ovocita e/o sperma possono essere non solo omologhi alla
coppia, ma anche eterologhi. L’utero può essere surrogato, e anche in affitto. Si sta
persino tentando di costruire un utero artificiale. In generale, la donna pare ora liberata
dai vincoli della maternità “naturale”. Può decidere dei tempi e dei modi d’avere un
figlio. Può decidere di non avere figli. Si sa della diminuzione drastica della natalità. Ma
il desiderio diffuso di non avere più di un figlio convive con il desiderio di non poche
donne d’avere un figlio ad ogni costo. Insomma, si vive una sorta di schizofrenia
sociale.
La deriva di queste, che pure sono, in parte, giuste forme di liberazione della vita al
femminile, è presto detta: ci si assuefà al senso della esteriorità, della frammentazione, e
si va al commercio del corpo. In altri termini, diventa dominante, nella percezione
comune e diffusa, il corpo come merce. Tutti sappiamo che la procreazione assistita
manifesta inquietanti tendenze allo sfruttamento economico intensivo delle coppie
desiderose di avere un bambino come che sia. Il corpo di una donna diventa non di rado,
in mano a medici senza scrupoli, una povera cavia per tentativi costosi, lunghi e pure
angosciosi. La clonazione, ultima arrivata, anche se ancora lontana da protocolli sicuri e
condivisi, sembra messa lì a ratificare e globalizzare questo trend. Il clono, cioè la
ripetizione o la riproduzione identica di un essere vivente, riconduce infatti l’umanità
alla cifra propria della categoria della quantità, per molti versi lontana, e a volta
opposta, alla categoria della qualità, dove solo può abitare l’irripetibile1. Il clono,
dunque, come progetto (peraltro impossibile in senso assoluto) si oppone in qualche
modo a una realtà e a un destino che un essere umano porta sempre con sé e da cui non
può e non vuole liberarsi: la realtà e il destino dell’unicità2.
Un essere umano sta male, se la propria unicità può essere violata. La propria unicità
vuol dire anche la propria intimità. Quando si posa uno sguardo d’altri sul nostro corpo,
non proviamo vergogna solo se è lo sguardo di chi ci vuol bene; ci copriamo, invece,
spontaneamente, se è lo sguardo è di uno sconosciuto. Sentiamo che potrebbe, appunto,
violare la nostra intimità. Potrebbe attentare a quella intimità-unicità che noi avvertiamo
inalienabile, d’istinto. E qui è subito da ricordare che un essere umano, a differenza di
un animale, non solo è unico e inoggettivabile, ma è anche un orizzonte dove tutte le
cose appaiono; un orizzonte che è senza confini. I filosofi tecnicamente chiamano
questo orizzonte “trascendentale”, per dire che è un orizzonte in qualche modo infinito.
Ed è per via di questa infinità intenzionale che un essere umano può avere a che fare
con Dio, che è assolutamente infinito. È per questa stessa infinità intenzionale che Dio
può avere a che fare con un essere umano, e persino incarnarvisi. Come è accaduto in
Gesù di Nazareth, il Figlio eterno. Questa apertura infinita è poi anche un destino
infinito, che rende pure il corpo in certo modo infinito. Qui sta la “fonte” e il
fondamento della sua “unicità”.
Questo fa intendere perché vogliamo essere amati in modo unico. Cioè totalizzante.
Il rapporto di coppia è il luogo dove questa unicità meglio si lega alla trascendentalità,
perché l’esclusività del dono reciproco dell’intimità corporea simbolizza in modo
inequivocabile i due lati dell’esperienza dell’io. Di qui anche l’indissolubilità del
matrimonio, sempre meno tollerata, ma in realtà sempre in asse con la natura più
profonda del legame tra un maschio e una femmina umani. Diventiamo infatti in certo
senso intercambiabili, solo quando ci ritraiamo da questo sguardo interiore e ce ne
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La natura vivente, dove trionfa, appunto, il qualitativo, non ripete mai. Lo osservava qualche
secolo fa un celebre filosofo, Leibniz, con il suo principio detto degli “indiscernibili”. Egli sfidava
i suoi ascoltatori a prendere una foglia qualsiasi e a trovarne un’altra identica. Nella natura vivente,
in effetti, tutto è rigorosamente individuale. Anche nei casi di doppio. Il doppio in natura è sempre
apparente.
Mi diceva una ragazza, l’aneddoto vale solo simbolicamente, che la sorella di una sua amica,
gemella monovulare, si era fidanzata e che questa sua amica era perseguitata da una sorta di
pensiero un po’ angoscioso. Diceva questa sua amica: “Quando mia sorella condivide la propria
intimità con il suo uomo, sento anche la mia intimità esposta, perché siamo fatte allo stesso modo.
Questo mi dà molto fastidio”.
stiamo come all’esterno delle persone; quando ci appiattiamo facilmente sul loro
“visibile”, dimenticando l’“invisibile”.
Torniamo, dopo queste riflessioni preparatorie, al nostro tema, avanzando subito una
esigenza strategica, per così dire. Il fatto che si possieda oggi una tecnica della vita così
sofisticata, esige assolutamente una sorta di contrappeso, cioè esige una buona etica
della vita. Se in futuro metteremo al mondo tanti bambini prodotti solo dalla tecnica
della vita e senza badare a un’etica della vita, avremo molti disadattati e anche molti
pisicolabili in giro. Costoro ci chiederanno chi è mio padre, chi è mia madre e dunque
chi sono io; e non sapremo dare loro una risposta decente.
Potremo avere anche molti bambini disconosciuti. Così relazioni preziosissime e
delicatissime come quelle fra genitori e figli rischieranno fortemente di restare
compromesse e in alcuni casi completamente sconvolte. Provate a seguire la storia di
qualche bambino adottato e avrete la misura della richiesta umanissima e angosciosa
della ricerca dell’identità. Ora pensate per un momento ad un bambino che si sappia
addirittura programmato nel suo apparato genomico: volto, statura, assetto corporeo e
fors’anche carattere; tutte caratteristiche, poniamo, ingegneristicamente prodotte a
tavolino. Non è fantascienza. La manipolazione genetica per gli umani è alle porte.
Progettare un figlio come un qualsiasi altro prodotto ingegneristico sembra a breve
possibile, cioè una volta che ci si sia completamente impadroniti della mappa del
genoma umano e che si possa operare sui singoli geni a piacimento. Si parla in ambiente
anglosassone di “designer babies”. Ma un grossa opportunità, intanto, sembra già la
selezione genetica pre-impianto, soprattutto per escludere embrioni portatori di malattie
ereditarie. Ma gli scopi terapeutici potrebbero facilmente diventare scopi miglioristici3.
L’eugenetica potrebbe persino suggerire forme di procreazione mirata a scopi
utilitaristici. In altri termini, l’essere umano potrebbe diventare una sorta di macchina
vivente, con una riedizione tecnologicamente aggiornata della stagione antica della
schiavitù. Ciò che l’uomo finora ha fatto per soggiogare la natura, potrebbe ora farlo per
soggiogare la vita umana: potrebbe tutta ricondurla al prodotto artificiale.
Tutta o quasi. La discrasia tra potere sulla vita umana corporea e la vita umana
psichica è relativa. Si sa del rapporto originario tra corporeità e psiche. Una azione sul
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Alcuni sono convinti del fatto che, una volta mappato il genoma, si possono programmare tante
“migliorie” genetiche. Ma gli scienziati vanno avvertendo che le dinamiche secondo cui il genoma
di fatto vive e promuove lo sviluppo dell’organismo non sono prevedibili e controllabili, almeno
per ora. Quindi mettere al mondo una esistenza manipolata geneticamente rischia d’essere
un’impresa votata al disastro. Ma non si può mettere altri a rischio. Semmai solo noi stessi. La
nostra potenza sulla natura è, in realtà, molto limitata. Il rischio delle manipolazioni genetiche è
altissimo. Con ogni probabilità, resterà tale, soprattutto perché le dinamiche dei geni non lavorano
secondo causalità meccanica (determinismo). Il corpo è interno ad una causalità secondo libertà.
La quale potrebbe essere contrastata drammaticamente e alterata da una artificialità che procede, a
sua volta, da un’altra e antitetica causalità secondo libertà.
corpo è anche una azione sulla psiche. Basti qui accennare alla vasta gamma degli
psicofarmaci, che possono indurre mutamenti considerevoli nel carattere. Si sa che la
vita emotiva dipende a volte dalla presenza o meno di sostanze organiche. Non
sappiamo fin dove può spingersi oggi la manipolabilità della vita psichica di un essere
umano con opportuni interventi manipolatori “esterni” (deprivazioni sensoriali,
psicofarmaci, condizionamenti psicofisici ecc.) o anche “interni” (terapie o
manipolazioni psicologiche). Meno ancora sappiamo immaginare quali cambiamenti
potrebbe indurre nella vita di un essere umano la manipolazione genetica. Soprattutto
non sappiamo quali cambiamenti possa indurre in un essere umano il venire a sapere di
tutto questo come storia propria.
Venire a sapere che qualcuno degli umani mi ha prodotto teconologicamente può
cambiare tutto, perché la discrasia tra psiche e soma può diventare esplosiva
esattamente a questo punto. La vera discrasia è, infatti, quella tra coscienza e
autocoscienza, essendo l’autocoscienza il livello più proprio dell’essere umano. Una
autocoscienza che si sa come coscienza manipolata da altri esseri umani rischia
fortemente di rifiutarsi e di esplodere. O comunque di chiedere un risarcimento infinito.
Tutte le relazioni e le dinamiche psichiche possono risultare alterate senza rimedio. Non
sappiamo come possa crescere un io che si sa prodotto artificiale d’altri esseri umani. La
sua singolarità non sarebbe più assolutamente protetta. La richiesta di infinità, di
assolutezza e di unicità, propria di un orizzonte trascendentale, verrebbe a contrastare in
modo permanente con la riproducibilità dell’opera artificiale (cioè umana). Ci si
potrebbe sentire asserviti per sempre da altri come noi. Ci si potrebbe sentire
inevitabilmente (da sempre e per sempre) non-umani. Replicanti.
Potete facilmente prevedere e intuire il dramma di un essere umano che non si sa
messo al mondo da madre natura tramite un essere umano, ma da un altro essere umano
tramite un artificio umano. Perché la verità è questa, che la tecnica della vita è una
prassi di esseri umani i quali, se sono senza scrupoli, cioè senza eticità, a monte
decidono di noi senza di noi, e in modo per noi irreversibile. Noi allora saremo
destinati, ossia costretti, a pensarci come già fatti da qualcuno che ci ha fatti come lui ci
voleva. Inevitabile l’implicazione: siamo in mano sua in modo originario; siamo per
sempre una sorta di schiavi suoi; non possiamo più sfuggire alle sue mani.
Io credo che un essere umano, il quale ha dentro di sé, se è un essere umano, l’idea
del diritto alla libertà della propria origine e all’infinità del proprio destino, non può
sopportare più di tanto la notizia di essere stato programmato a tavolino da un altro
essere umano. Si sentirebbe manipolato nella sua esistenza in totalità, vorrebbe a tutti i
costi liberarsi da questa dipendenza e forse vorrebbe farla pagare a chi lo ha manipolato
prima ancora che nascesse al mondo. In ogni caso, egli tenderebbe a chiedere a tutti un
risarcimento infinito. Lo chiede già chi di noi ha perso la mamma o il papà da bambino.
Figurarsi chi non può neppure immaginare d’avere un papà e una mamma! Insomma, il
turbamento delle pratiche naturali della procreazione umana non può che procurare
patologie senza fine. E si sa che le patologie sono tanto più profonde, radicate e difficili
quanto più cominciano nei primi tempi della vita.
Bisognerebbe a queste cose un po’ pensare e convincersi che madre natura ha delle
costanti che più di tanto non possono essere manipolate o, peggio, violate. E non ci sono
solo costanti nella corporeità, ma anche, anzi soprattutto, nelle dinamiche delle relazioni
tra noi: specie se si tratta di dinamiche parentali. Contenuto di un’etica della vita sono
soprattutto queste, come dovrebbe oramai parere chiaro. Ed è a partire da queste che
prendono una curvatura etica le dinamiche più vicine o anche proprie della corporeità. Il
rapporto tra madre e figlio, il rapporto della coppia parentale con il figlio fa parte delle
costanti di un essere umano: è intuitivo. Tanto è vero che un essere umano cresce bene,
solo se ha un buon rapporto con la madre e col padre.
L’etica della procreazione è dunque, prima di tutto, un’etica della buona relazione
della coppia con il nascituro. E la regola fondamentale di quest’etica è presto detta,
dopo i discorsi fatti fin qui: ogni pratica procreativa deve essere orientata alla buona
vita del nascituro, a cui dunque vanno anzitutto garantiti i legami fondamentali
d’amore: garantita una coppia genitoriale che si prenda cura di lui come figlio e lo
introduca convenientemente alla vita. La buona qualità della relazione di procreazione è
questa. In generale, contro un immaginario narcisistico (un figlio tutto per me;
procreazione come ab-soluta creazione), è da coltivare un’etica della procreazione come
un gesto e una cifra per altri. Dove “altri” è, appunto, il nascituro. Ricordare Kant:
l’uomo (qualsiasi essere umano) non può mai essere trattato semplicemente come
mezzo, ma sempre (anche) come fine. Pro-creare, dunque, a favore (“pro”) di un
bambino; ma anche, in ultima istanza, procreare invece e su mandato (“pro”) di qualcun
Altro. Procreare per preparare un’esistenza che viva per altri. Che vuol dire: “educare”
un essere umano ad una vita degna di un essere umano.
Possiamo allora concludere tracciando una specie di dittico, che restituisce per intero
l’etica della procreazione e riassume tutte le osservazioni fatte sin qui.
Procreazione, se trasgressivamente vissuta, è appropriazione e dominio; messa al
mondo di un essere umano per un fine non suo; strumentalizzazione e abiezione;
oggettivazione e distruttività; consumo e ripetizione; conflitto non fra umano e
artificiale, ma fra umano e umano, perché umana è l’origine dell’artificio impiegato su
un essere umano.
Procreazione, se eticamente vissuta, è dono e abbandono. Dono come ripresa della
icona dell’origine. Dono come messa al mondo di un essere umano, da istruire intorno
alla sua relazione al bene, cioè intorno alla sua buona relazione con un altro essere
umano e intorno alla sua buona relazione con Dio. Un dono che è anche un abbandono.
Abbandono come piena fiducia nella vita e nel suo Creatore. Abbandono come
consegna della propria vita per la vita del figlio. Abbandono come disponibilità a
portare il peso della cura di chi è venuto al mondo.
La posta in gioco, come si vede, è di tutto rispetto.
* Università di Venezia