Giuseppe Barone

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1943: Guerra in Sicilia Storiografia e memoria
Giuseppe Barone*
La decisione di un attacco alleato in Sicilia fu presa nella conferenza di Casablanca e fu lo stesso
Churchill a convincere il presidente americano Roosevelt per centrare il triplice obiettivo di
provocare il crollo del fascismo in Italia, di impegnare l’esercito tedesco in un’azione militare
diversiva prima dello sbarco in Normandia e di evitare che l’Unione Sovietica, lasciata sola a
combattere sul fonte orientale, potesse trattare una pace separata con la Germania. Le perplessità
non furono poche, anche perché il generale Eisenhower riteneva di dover incontrare una tenace
resistenza, ma nell’estate del 1943 l’operazione Husky ebbe pieno successo conseguendo tutti i
risultati previsti 1 . Ben diversa si presentava la situazione in Italia. Il capo di Stato maggiore
generale Ambrosio nel febbraio del 1943 era consapevole dell’inadeguatezza delle forze armate a
resistere ad un’invasione nemica, anche in seguito alle gravi sconfitte subite dall’esercito su tutti i
fronti. Pur mettendo in guardia Mussolini sull’inferiorità militare italiana, Ambrosio coltivò fino
all’ultimo l’illusione che un eventuale attacco angloamericano sarebbe scattato molto più tardi e che
avrebbe comunque costretto la Germania a concentrare la propria azione nel Mediterraneo dopo
aver stipulato una pace separata con l’Unione Sovietica. Anche il generale Castellano, braccio
destro di Ambrosio, si mostrò fiducioso sull’esito finale del conflitto, ritenendo che una volta
disimpegnato dalla fallimentare campagna di Russia Hitler avrebbe potenziato le difese sullo
scacchiere mediterraneo, così da consigliare prudenza agli Alleati che a quel punto avrebbero potuto
rinunciare all’impresa. Come dimostrano le Memorie di Grandi neppure la perdita della Tunisia e la
resa precipitosa di Pantelleria modificarono tali convinzioni2. I fatti però avrebbero presto smentito
le speranze, e nel luglio 1943 lo sbarco angloamericano in Sicilia determinò una svolta cruciale
della seconda guerra mondiale. Poteva essere davvero bloccata l’invasione? Si trattò di una sconfitta
onorevole o di una vera e propria capitolazione? Di chi furono le responsabilità maggiori? Quale
strategia difensiva seguirono le forze armate italo-tedesche ed in quale contesto sociale si svolse la
ritirata? A queste domande la storiografia più recente e la documentazione archivistica consentono
di dare attendibili risposte.
L’accusa di “tradimento”, che fu subito mossa alle forze armate ed agli alti comandi italiani
incapaci di fronteggiare lo sbarco angloamericano in Sicilia, ebbe inizialmente una chiara matrice
tedesca. Dalle dure prese di posizione del colonnello Schamalz sull’ingiustificata resa della
piazzaforte di Augusta, alle proteste del generale Hube e del generale Rintelen circa il mancato
coordinamento delle truppe italo-tedesche nel luglio-agosto 1943, risulta soprattutto evidente la
forte diffidenza tra i due alleati prima e dopo il 25 luglio, ma anche la difficoltà di stabili relazioni
politiche tra Italia e Germania durante la seconda guerra mondiale. Alle inevitabili polemiche di
parte tedesca, si aggiunsero però immediatamente le recriminazioni politiche dei fascisti. Subito
dopo la resa di Augusta Farinacci attaccò in modo sprezzante i vertici militari, delineando uno
scenario inattendibile di un Mussolini ingannato dal falso ottimismo dei suoi generali che avrebbero
occultato in mala fede le insufficienze dell’apparato difensivo in Sicilia e che per viltà non
avrebbero opposto un’adeguata resistenza. Sulla scia di Farinacci, lo stesso Mussolini in Storia di
un anno non esitò a lanciare accuse di disfattismo e sospetti sulla lealtà istituzionale dei capi
militari, inaugurando una lunga stagione di “veleni” contro le forze armate che sarebbe continuata
anche nell’Italia repubblicana. Memorialistica e pamphlets dei gerarchi fascisti avrebbero perciò
accreditato a lungo la tesi del tradimento militare, con l’obiettivo politico di addossare sull’esercito
le responsabilità della sconfitta. Così Attilio Tamaro in Due anni di storia (1948) definiva
*
Università di Catania.
R. De Felice, Mussolini e l’alleato. L’Italia in guerra 1940-43, I II, Einaudi, Torino 1990, p. 1117 sgg. V. pure F. W.
Deakin Storia della repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1963.
2
D. Grandi, Il mio paese, Il Mulino, Bologna 1985
1
1
“menzognere” le assicurazioni fornite al duce dai generali Ambrosio e Guzzoni circa l’efficienza
del sistema difensivo dell’isola; così Alfredo Cucco nel volume Non volevamo perdere (1951)
giustificava il famoso discorso mussoliniano del “bagnasciuga” con l’inverosimile storiella degli
alti comandi fuggiti subito dopo la notizia dello sbarco angloamericano; così il docente universitario
palermitano Giuseppe Maggiore si domandava ironicamente se mai fosse stata combattuta nel 1943
una battaglia di Sicilia di fronte al rapido sbandamento delle truppe italiane. Soprattutto nel clima
politico antimonarchico successivo al referendum del 1946 queste tesi avrebbero temporaneamente
ripreso vigore nel fuoco delle polemiche tra esercito e marina in ordine alle rispettive responsabilità:
basti pensare al volume di Antonio Trizzino, Navi e poltrone (1953) ed agli strascichi giudiziari che
negli anni ’50 coinvolsero i vertici della Marina militare3.
Ricondotta alla sua doppia matrice tedesca e fascista, la tesi del presunto “tradimento” non regge
tuttavia sul piano storiografico. Da un lato l’ampia letteratura di storia militare, le analisi e le
testimonianze dei protagonisti (si pensi alle Memorie dei generali Roatta, Faldella, Zanussi, Rossi,
Santoro), la documentazione archivistica messa a disposizione dagli Stati Maggiori dell’esercito e
della marina; dall’altro i contributi della ricerca storica più recente (Santoni, Aga Rossi) accreditano
soprattutto l’interpretazione sulle responsabilità politiche della fallimentare difesa della Sicilia,
mettendo in evidenza le gravissime carenze del regime fascista e personali di Mussolini nella
preparazione e nella conduzione della guerra. Come ha dimostrato puntualmente Alberto Santoni
nella monografia Le operazioni in Sicilia e in Calabria 1943 (1983) la difesa dell’isola
dall’invasione alleata risultò praticamente impossibile per l’inadeguatezza delle forze italo-tedesche
terrestri, per la superiorità aerea e per l’assoluto dominio del mare da parte angloamericana.
Nonostante l’evidente disparità logistica e di armamento, tuttavia, la battaglia di Sicilia non si rivelò
una semplice passeggiata per gli alleati, che dovettero affrontare 40 giorni di pesanti combattimenti,
numerose perdite e dovettero alla fine riconoscere che gli italiani erano riusciti ad organizzare una
onorevole ritirata4.
L’inferiorità delle forze terrestri schierate nell’isola al momento dello sbarco non era tanto di ordine
quantitativo, ma di tipo qualitativo. Nel complesso l’esercito italiano schierava 230 mila soldati
inquadrati nella VI Armata comandata dal generale Guzzoni ed articolata in due Corpi d’armata (il
XII del gen. Arisio e il XVI del gen. Rossi); a queste quattro divisioni di manovra, si aggiungevano
cinque divisioni costiere, due brigate autonome ed alcune unità di supporto logistico, oltre al
contingente militare tedesco, costituito inizialmente da due divisioni corazzate di 28 mila uomini
(che al momento della ritirata sarebbero aumentati ad oltre 50 mila). Senonché alla quantità non
corrispondeva l’efficienza qualitativa dei reparti: dal novero delle truppe effettive, infatti, non solo
bisognava escludere i 57 mila militari adibiti ai servizi civili nell’isola, ma soprattutto le divisioni
costiere composte per due terzi da elementi locali ed anziani, guidate da ufficiali della riserva,
scarse di mezzi di trasporto e di armamenti adeguati (1 pezzo di artiglieria anticarro ogni 3 Km; 1
batteria ogni 8 Km). Fu proprio questa debole difesa costiera il primo vero tallone d’Achille:
divisioni raccogliticce e senza tradizioni, attrezzate di sole biciclette e con fucili obsoleti,
abbandonate subito dai soldati siciliani che preferirono rifugiarsi nei paesi d’origine o soccorrere i
propri familiari. Non considerando le unità prive di reale capacità operativa ha perciò ragione
Oreste Bovio quando nella sua aggiornata Storia dell’esercito italiano (1996) sottolinea come il
rapporto di forze fosse nettamente a favore degli attaccanti rispetto ai difensori. Anche se le truppe
sbarcate non superarono i 160 mila uomini, gli angloamericani poterono contare su una maggiore
densità degli armamenti: 66 battaglioni di fanteria contro 47 degli italo-tedeschi, 600 carri armati
contro 265, 1800 pezzi di artiglieria contro 500, 4000 aerei contro 800, mentre per le forze navali
Per la ricostruzione delle polemiche dopo lo sbarco alleato cfr. G. Zingali, L’invasione della Sicilia (1943),
Avvenimenti militari e responsabilità politiche, Crisafulli, Catania 1962, pp. 91-137. V. pure F. Renda, Storia della
Sicilia dal 1860 al 1970, Sellerio, Palermo 1987, vol. III, p. 25 sgg.
4
Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico. A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-settembre
(1943), Stilografica, Roma 1983, pp. 437-443.
3
2
non è neppure possibile fare il confronto data la decisione italiana di non fare intervenire la flotta5.
Più che le forze terrestri, tuttavia, furono l’indiscussa superiorità aerea e l’assoluto dominio sul
mare degli Alleati a rendere in partenza la difesa dell’isola un’impresa senza molte probabilità di
successo. Nonostante i molti errori compiuti dall’aviazione angloamericana nel luglio del ’43
(fallimento dei primi aviolanci, mancanza di copertura aerea durante la controffensiva italo-tedesca
a Gela, scarso coordinamento con le operazioni navali), i 4000 aerei utilizzati dagli Alleati non solo
misero subito fuori uso i dodici aeroporti militari della Sicilia, ma non subirono mai una efficace
azione di contrasto e di interdizione sia per l’insufficiente appoggio dell’aeronautica tedesca durante
l’invasione, sia perché nettamente inferiori si rivelarono le condizioni dell’aeronautica militare
italiana (armamento obsoleto, mancanza di aerosiluranti, logorio di mezzi e materiali per le
precedenti guerre d’Etiopia e di Spagna)6. Il Mediterraneo rimase in ogni caso saldamente in mano
agli Alleati, che oltre alla continuità dei rifornimenti poterono contare sulla netta superiorità
dell’artiglieria navale (per calibro, gittata di tiro, mascheramento e mobilità), la cui protezione
risultò decisiva nella fase iniziale dello sbarco e nella successiva avanzata della fanteria lungo la
costa.
Questo dominio sul mare fu ancor più agevolato dalla decisione “politica” di non impegnare la
Regia Marina in uno scontro in campo aperto col nemico. La flotta italiana rimase completamente
inattiva e durante l’invasione della Sicilia restò ancorata a La Spezia e alla Maddalena, con le
inevitabili polemiche nel secondo dopoguerra circa le ragioni per le quali il Regno d’Italia si fosse
ridotto a possedere non tre, ma solo due forze armate. Dov’era finita la “grande Marina”, che pure
nel 1940 disponeva di 6 corazzate, 31 incrociatori, 43 cacciatorpediniere, circa 60 torpediniere e
oltre 100 sommergibili? Perché fu tenuta lontana dai campi di battaglia e poi consegnata intatta agli
Alleati a Malta nel 1943? Quella di non impegnare la flotta fu in realtà una scelta strategica fatta
personalmente da Mussolini, che preferì non rischiare l’uso della flotta nelle acque di Sicilia dove
comunque erano prevalenti le forze angloamericane con 7 portaerei, 6 corazzate, 20 incrociatori,
100 cacciatorpediniere e numeroso naviglio da sbarco. Anche se nel giugno ’43 Supermarina si
dichiarò pronta per “un’azione estrema” nel canale di Sicilia, lo stesso capo della marina germanica,
ammiraglio Doenitz, sconsigliò l’invio della flotta italiana che andava risparmiata per una fase
successiva del conflitto. Le cose andarono però diversamente e dopo il 25 luglio il generale
Badoglio si convinse a non impiegare la flotta in operazioni belliche, in modo da conservarla come
possibile moneta di scambio nelle trattative con gli Alleati per ottenere condizioni di resa meno
dure. Nel documentato volume di Angelo Iachino, Tramonto di una grande Marina (1959) sono
tuttavia elencate con competenza tecnica alcune deficienze strutturali della nostra flotta: la mancata
costruzione di portaerei, l’arretratezza tecnologica (assenza di radar), difficoltà nel rifornimento di
nafta, logoramento eccessivo del materiale nautico per garantire i traffici con le colonie africane e
nel canale di Sicilia. Senza pensare ad “un’azione estrema” Iachino valuta un errore strategico non
aver impiegato la Marina militare con una tattica di contrasto “flessibile” che avrebbe aiutato
logisticamente la ritirata7.
La recente pubblicazione dei verbali delle riunioni dello Stato Maggiore dell’Esercito nel 1943
mette in luce la forte preoccupazione dei vertici militari circa le deficienze strutturali del sistema
difensivo nell’isola. Nella seduta del 2 Maggio il comandante delle forze armate in Sicilia, generale
Roatta, delineò un quadro allarmante ma realistico della situazione: truppe equipaggiate male,
difesa costiera inadeguata, mancanza di materiali e di manodopera per costruire le fortificazioni,
difesa aerea insufficiente ed aeroporti troppo vicini alle coste e quindi esposti al fuoco nemico. Le
critiche di Roatta erano rivolte esplicitamente al regime fascista che non aveva mantenuto le
promesse di dare priorità alle necessità militari dell’isola in previsione di uno sbarco
Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico. O. Bovio, Storia dell’esercito italiano (1861-1990), Ludovici, Roma
1996, pp. 351-360
6
A. Santoni, op. cit., pp.437-443
7
A. Iachino, Tramonto di una grande Marina, Longanesi, Milano 1959. Per le infuocate polemiche degli anni ’50 e per
le vicende giudiziarie che ne seguirono v. pure A. Trizzino, Navi e poltrone, Milano 1956.
5
3
angloamericano, né tacevano sulle difficoltà degli approvvigionamenti alimentari per la
popolazione civile causate dalla precarietà dei trasporti ferroviari e marittimi. La decisione di non
coinvolgere la Marina nelle operazioni militari in Sicilia indeboliva ulteriormente le condizioni
logistiche della difesa: allorché l’ammiraglio Riccardi confermò l’orientamento di non impegnare la
flotta per contrastare lo sbarco, adducendo a giustificazione l’assoluta inferiorità aerea, allo stesso
Roatta non restò altra replica se non quella di affermare che “allora potremo fare solo un’onorevole
resistenza”8.
A fine maggio a sostituire Roatta (nominato Capo di Stato maggiore dell’Esercito) viene chiamato
il generale Alfredo Guzzoni, che dopo aver assunto il comando della VI Armata compie insieme al
colonnello Faldella una minuziosa ispezione nell’isola, che confermò le gravi carenze logistiche
nonché “lo spirito depresso” della popolazione. Il suo rapporto riservato al Capo di Stato maggiore
dell’Esercito del 14 giugno è davvero impietoso: in Sicilia non funziona niente, occorre rinforzare
al più presto le forze terrestri con altre divisioni italiane ed almeno con un’altra divisione corazzata
tedesca, soprattutto perché le divisioni “Aosta” e “Napoli” erano composte da siciliani “che
risentono direttamente e profondamente del disagio morale della popolazione civile”, non
diversamente dai rabberciati battaglioni costieri “formati da siciliani anziani e comandati da
inesperti ufficiali della Riserva”. La circolare inviata da Guzzoni il 27 giugno ai comandanti dei
reparti col suo asciutto realismo contrasta con la retorica del regime fascista (il discorso del
“bagnasciuga” era stato pronunziato dal duce tre giorni prima): occorreva evitare ogni ingiustificato
ottimismo, non nutrire eccessiva fiducia sul contegno delle truppe “che mostrano segni di voler
abbandonare il posto di combattimento o di passare al nemico per proteggere i propri cari e i propri
interessi”9.
Lo sbarco degli Alleati in Sicilia avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 luglio costituì un brusco
risveglio per tutti, smentendo clamorosamente la propaganda fascista circa la inespugnabilità
dell’isola “centro strategico dell’impero” e confermando l’errore di affidare la tenuta delle difese
costiere già scarse a truppe locali, che smobilitarono subito di fronte ai massicci bombardamenti
aeronavali e alla schiacciante superiorità militare angloamericana. Appare davvero paradossale che
il regime fascista abbia tentato di applicare la strategia patriottica della “nazione armata”
confidando sulla resistenza della popolazione locale, quando sin dal 1941 Mussolini aveva decretato
il trasferimento coatto di migliaia di pubblici funzionari dalla Sicilia perché considerati
politicamente “infedeli”. In realtà, più che le consuete accuse di vigliaccheria e di tradimento,
valgono a spiegare lo sbandamento delle forze armate in Sicilia la consapevolezza della inferiorità
militare e il prevalere della lealtà “prepolitiche” verso i propri familiari e le proprie case da mettere
al sicuro, tanto più che dopo il 25 luglio il crollo del fascismo aveva accresciuto il disorientamento
generale di soldati e civili10.
Nella drammatica congiuntura politica e militare del luglio-agosto 1943 toccò perciò ai pochi altri
ufficiali di stanza in Sicilia organizzare un’ordinata ritirata in Calabria, evitando gli esiti catastrofici
di una “Caporetto” meridionale. Le carte private dell’ammiraglio Pietro Barone, comandante della
R. Marina in Sicilia e della piazzaforte di Messina, testimoniano l’acuta consapevolezza della crisi
sociale ma pure la necessità di salvaguardare l’onore delle armi e la dignità della patria. Il rapporto
segreto inviato il 19 luglio al ministro della Marina è un documento che non lascia spazio alle
illusioni: dopo lo sbarco nemico – annota l’ammiraglio – si sono verificati a Messina l’abbandono
del posto di lavoro nella base di tutti i civili e militari, la spontanea cessazione dal servizio delle
milizie portuali e ferroviarie, lo “squagliamento” di Polizia e Carabinieri, una diffusa tendenza delle
Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico (SME), Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, vol.
IV, (1 gennaio 1943 – 7 settembre 1943), a cura di A. Biagini e F. Frattolillo, Roma 1985, pp. 103-124.
9
Entrambi i documenti sono riportati in appendice al volume di A. Santoni, op. cit., pp. 481-487, 490-492.
10
E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, Bologna 1993, pp.
45-51. Per un’attenta ricostruzione del contesto economico e politico-sociale dell’isola al momento dello sbarco cfr. R.
Mangiameli, La regione in guerra, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia,, a cura di M. Aymard e
G. Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, pp. 483-600
8
4
truppe alla diserzione e il contemporaneo disordinato ritorno dal continente di soldati siciliani
sbandati che cercavano di ricongiungersi alle loro famiglie, l’interruzione delle comunicazioni
telegrafiche e telefoniche nonché del servizio di navi-traghetto sullo stretto per i danni provocati dai
bombardamenti alle invasature di Reggio e Villa S. Giovanni, il collasso dei servizi pubblici in città
(acqua, luce, nettezza urbana). L’aspetto più preoccupante riguardava tuttavia la scarsità di generi di
prima necessità per la popolazione civile e la carenza di rifornimenti alimentari anche per le truppe,
tanto che si erano verificati saccheggi notturni ad opera di civili e militari a danno sia di magazzini
e case private, sia dei depositi dello Stato; i piroscafi “Piemonte” e “Viminale” (alla fonda per
avarie) erano stati addirittura depredati dagli stessi equipaggi che avevano disertato, mentre
venivano segnalati assalti di civili e sbandati ai vagoni ferroviari in stazione. Nella circostanza l’alto
ufficiale non si perse d’animo, istituì posti di blocco per limitare il flusso continuo di sbandati che
congestionava le strade d’accesso alla città, né esitò ad ordinare la fucilazione immediata per
disertori e colpevoli di pubblico saccheggio. La situazione restava però gravissima e il malcontento
popolare avrebbe potuto esplodere in sanguinosa sommossa se lo Stato non dimostrava rapidamente
di avere ancora qualche capacità di difesa, come l’uso dell’aviazione da caccia per contrastare il
nemico11.
Senza flotta e privo di mezzi operativi l’ammiraglio Barone assiste impotente alla resa incresciosa
delle basi navali di Porto Empedocle e di Augusta ed esorta il collega Manfredi che almeno “a
Trapani ed a Messina dobbiamo servire fino all’ultimo la Patria, a costo della nostra vita, e
salvaguardare l’onore della Marina” 12 . Ma il 24 luglio è lo stesso alto ufficiale a consigliare a
Guzzoni di cominciare a predisporre per tempo un razionale piano di evacuazione dall’isola per
evitare caos e confusione dell’ultima ora. Barone si mostra consapevole dei rischi della ritirata nel
continente di fronte all’assoluto dominio del mare e del cielo da parte del nemico, né ritiene utile
fare assegnamento sul naviglio germanico riservato esclusivamente alle truppe tedesche; nella
impossibilità di realizzare una manovra simile a quella effettuata a Dunkerque dagli inglesi durante
la prima guerra mondiale, occorreva “inventare” una “ritirata flessibile” alternando prudenza e
rapidità ed utilizzando al meglio i due traghetti e le poche motozattere disponibili13. A Roma però si
criticarono come premature queste prese di posizione. Nelle settimane precedenti i gerarchi del
Partito nazionale fascista avevano attaccato duramente l’ammiraglio Barone, accusato di tramare in
Sicilia contro il regime; dopo il 25 luglio è invece lo Stato maggiore dell’Esercito a mettere in
dubbio “la resistenza nervosa” dell’ufficiale, ritenuto “depresso e sfiduciato e pronto a giustificare
disertori e saccheggiatori in pubbliche conversazioni”. Ma il generale Guzzoni rifiuta di sostituire
l’ammiraglio, che riconosce “sfiduciato come la maggioranza di coloro che hanno elementi per
valutare la situazione in Sicilia”14.
L’arresto di Mussolini, la fine del fascismo e gli avvenimenti successivi al 25 luglio ebbero
comunque un peso determinante sull’andamento delle operazioni militari in Sicilia. Sin dal giorno
27 le divisioni germaniche di stanza nell’isola cominciarono a ripiegare benché gli angloamericani
fossero ancora lontani dall’obiettivo del pieno controllo del territorio. In un clima politico e militare
di grande incertezza il 31 luglio i tedeschi assunsero il comando unificato delle forze armate in
Sicilia ed intensificarono la ritirata dopo l’attacco degli Alleati su Troina. Furono questi giorni
drammatici di tensioni e di incidenti tra soldati tedeschi ed italiani, tra tedeschi e popolazione civile:
scontri, ruberie, rappresaglie, razzie e vere e proprie rivolte popolari si susseguirono per tutto il
mese di agosto, mentre interi battaglioni italiani della divisione “Aosta” si consegnavano agli
angloamericani e ben 9000 uomini della divisione “Assetta” disertavano 15. Le carte dell’ammiraglio
Rapporto segreto dell’ammiraglio Pietro Barone del 19 luglio 1943, in Carte Barone, fasc. 1. Ringrazio l’avvocato
Mario Barone per avermi dato l’opportunità di consultare l’archivio paterno.
12
Lettera dell’amm. Barone all’amm. Manfredi di stanza a Trapani, 21 luglio 1943, ivi.
13
Rapporto dell’amm. Barone al gen. Guzzoni, 24 luglio 1943, ivi.
14
La corrispondenza del 30-31 luglio tra lo Stato maggiore dell’Esercito e Guzzoni, ivi. Per le accuse dei gerarchi
fascisti a Barone cfr. S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Torino 1984, pp. 124-125
15
E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando cit., pp. 49-51. Sull’argomento cfr. il recente contributo di R. Mangiameli,
Memorie della seconda guerra mondiale in Sicilia, Cuecm, Catania 2003
11
5
Barone documentano dall’osservatorio messinese la fase finale del ripiegamento italo-tedesco sotto
i pesanti bombardamenti aeronavali degli Alleati che cercavano di tagliare le linee di
comunicazione. Sono giorni difficilissimi, seminati di morte e distruzioni, tra soldati e civili atterriti
dal fuoco nemico e dai cacciabombardieri, con un piccolo gruppo di alti ufficiali italiani che tentano
di garantire le condizioni logistiche minime per traghettare uomini e mezzi sulle coste calabre.
Il Diario giornaliero dell’ammiraglio annota puntigliosamente le perdite subite, i bombardamenti a
tappeto sulla piazzaforte ma anche nel centro storico e sugli ospedali della città, l’impossibilità di
dare ordini e mantenere in servizio gli equipaggi ed i lavoratori portuali sottoposti a “sofferenze
d’ogni genere che non possono essere comprese da chi non sta sul posto”, l’affondamento di
motozattere e rimorchiatori, la paralisi progressiva dei sistemi operativi della base navale di
Messina praticamente indifesa16.
Nella notte tra il 10 e l’11 agosto prende il via la complicata operazione di trasferimento sul
continente della macchina bellica italo-tedesca. Le navi traghetto “Villa” e “Cariddi” tra mille
pericoli, avarie e attacchi aerei, trasportano 14.000 soldati italiani, 20.000 il giorno successivo, oltre
alle motozattere che fanno la spola e sono ad ogni viaggio assaltate da militari sbandati che si
mischiano alle truppe regolari. L’esercito italiano e quello tedesco ripiegano in modo parallelo, ma
tra i due contingenti la tensione è altissima. Italiani e tedeschi sono ancora formalmente alleati, ma
per le trattative segrete condotte dal governo Badoglio stanno per diventare nemici. Diffidenza,
disprezzo, odio e paura sono palpabili e rendono difficili i rapporti tra ufficiali e truppe dei due
paesi. Nel Diario del 12 agosto Barone sottolinea ritardi e lentezze nella ritirata perché i tedeschi
avevano assunto il controllo delle strade e di tutti i punti d’imbarco per partire per primi. Essi
avevano inoltre requisito il naviglio più grande e sicuro per traghettare automezzi e pezzi di
artiglieria, costringendo gli italiani ad abbandonare materiali e mezzi militari 17 . Mentre le
operazioni di trasferimento rallentano per mancanza di imbarcazioni, il 15 agosto gravissimi
incidenti scoppiano nel centro di Messina tra la popolazione civile ed i soldati tedeschi che fanno le
ultime razzie: centinaia di abitanti assaltano con moschetti e bombe a mano i convogli germanici in
partenza, ma già quella stessa sera violenti bombardamenti terrestri preannunciano che gli
angloamericani sono giunti alla periferia della città. All’alba del giorno 16 gli ultimi ufficiali italiani
salpano da Messina e poche ore dopo brillano le potenti cariche di esplosivo che fanno saltare
“Villa Anna”, sede dell’alto comando delle forze armate , insieme con le batterie contraeree e con
tutte le apparecchiature della base navale; dall’autodistruzione restano esclusi solo i magazzini di
generi alimentari che furono aperti ai civili18.
Dopo 38 giorni di guerra gli Alleati conquistavano la Sicilia. Ma non era stata certo una
passeggiata, se si consideravano i costi umani dell’invasione: per gli angloamericani si contarono
5.187 morti, 9.000 feriti e 3.300 prigionieri, mentre nell’altro schieramento si calcolano 4.325
caduti tra i tedeschi e 4.688 le vittime italiane19. Le previsioni di Eisenhower di una campagna non
più lunga di una settimana si rivelarono errate, ma soprattutto la sconfitta italo-tedesca fu mitigata
dal buon esito delle operazioni di sgombero dell’isola, condotte con tempestività e con ordine,
nonostante le pessime condizioni ambientali. I tedeschi riuscirono a traghettare 40.000 uomini,
10.000 automezzi, 20.000 tonnellate di materiali e un centinaio di pezzi di artiglieria; gli italiani
misero in salvo 75.000 uomini, 500 automezzi e 42 pezzi di artiglieria. Questi dati confortano
l’equilibrato giudizio di A. Santoni, secondo il quale si trattò di una ritirata onorevole, che può
paragonarsi a quella anglo-francese di Dunquerke nella prima guerra mondiale o a quella dei
giapponesi a Guadalcanal20. Nel 1943 l’Italia era ormai “una nazione allo sbando” (Aga Rossi), ma
16
Diario delle operazioni di guerra dei giorni 5-9 agosto 1943, in Carte Barone, fasc. 2
Diario delle operazioni di guerra del 12 agosto 1943, ivi. Per ulteriori informazioni al riguardo cfr. P. Maltese, Lo
sbarco in Sicilia, Milano 1981.
18
Diario delle operazioni di guerra del 15-16 agosto, ivi.
19
E. Faldella, Lo sbarco e la difesa della Sicilia, Roma 1956, pp. 212-13. Per le stime sulle perdite da parte americana
v. pure S. Nicolosi, Sicilia contro Italia, Tringale, Catania 1981, pp. 32-33
20
A. Santoni, op. cit., p.443 Cfr. al riguardo H. Pond, Sicilia, Longanesi, Milano 1964, pp. 334-335-,515 e S.A.
Shepperd, The Italian campaign 1943-45, London 1968, che riconoscono entrambi i meriti eccezionali dell’ammiraglio
17
6
“l’operazione Husky” in Sicilia era stata una guerra vera.
Barone nelle operazioni italo-tedesche di ripiegamento .
7
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