Crescita, energia, agricoltura di Roberto Petrocchi, Ordinario di Economia e Politica Agraria nell’Università Politecnica delle Marche Ho scelto di trattare i temi enunciati nel titolo nel tentativo di lumeggiare alcuni aspetti analitici e teorici che li collegano tra loro e che ritengo stiano alla base del momento di grave difficoltà che stanno vivendo le moderne società, difficoltà che sono di ordine economico ma anche di ordine culturale e di valori. La crisi economica, nella sua profondità ed espansione, ci ha costretti a portare all’attenzione in termini e con dimensioni senza precedenti le questioni circa la compatibilità dell’economia industrializzata con le disponibilità energetiche e ambientali della terra. Ciò che principalmente viene messo in discussione, ritengo, è il concetto di crescita economica che ha guidato gli stati moderni nel corso degli ultimi 250 anni. Il termine “crescita” viene spesso usato come sinonimo di “sviluppo” ma “sviluppo” costituisce, in realtà, concetto ben più vasto e omnicomprensivo di quello di “crescita”, in quanto implicante aspetti culturali ed etici e può essere identificato con quello di miglioramento della qualità di vita. Il concetto di “crescita”, pur costituendo la categoria critica dell’interpretazione economica della società, è invece un criterio di tipo prettamente quantitativo, con cui si intende la capacità di un sistema economico di incrementare in un dato periodo di tempo la quantità di beni e servizi prodotti. Tramite l’indice di crescita del prodotto interno lordo, è l'indicatore maggiormente utilizzato dagli economisti, dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali. Dalla Rivoluzione industriale in poi la società capitalistica ha visto una espansione pressoché continua della produzione. La scienza economica nasce proprio con l’intento di spiegare questo processo, nuovo e straordinario nella storia dell’umanità, della continua creazione di nuova ricchezza. Colpiti dal fenomeno della Rivoluzione industriale, cui assistono in prima persona, gli economisti classici dell’’8oo ne identificano subito la spiegazione nel funzionamento della macchina produttiva: in base a quali forze essa è in grado di autoriprodursi e crescere mediante il processo di accumulazione capitalistica; quale sia la causa della creazione della ricchezza in che modo la ricchezza debba essere distribuita. Queste sono le domande che sorgono nell’assistere per la prima volta a questo miracolo senza precedenti. La produzione capitalistica è vista come un meccanismo che si riproduce su scala sempre più larga, mediante il reinvestimento del sovrappiù. Un processo circolare a spirale allargata, dunque, fondato - come ebbe a definirlo Keynes in una delle sue fulminanti intuizioni - sul “principio dell’interesse composto”. Ad eccezione di J. B. Say e della sua famosa legge degli sbocchi, gli economisti classici paventano la possibilità di un inceppamento del sistema, la fine della crescita e il raggiungimento dello stato stazionario. Tuttavia, la percezione dell’impossibilita di una illimitata crescita trova spiegazione, in questi autori, esclusivamente nei processi interni di funzionamento dello stesso sistema. E’ difficile per un contemporaneo comprendere le ragioni della mancata percezione, da parte degli economisti classici, dei limiti fisici che l’ambiente 1 naturale - limitato nello spazio e nella dotazione di risorse disponibili - pone inevitabilmente alle possibilità di indefinita espansione di un sistema. Cause di questo limite del pensiero classico furono la disponibilità di uno stock ancora intatto e apparentemente illimitato di risorse energetiche e materiali, l’esistenza di un potenziale apparentemente inesauribile di bisogni umani da appagare nonché, come vedremo, l’impostazione culturale dell’epoca ancorata ad una concezione epistemologica meccanicistica derivata dalla fisica classica. L'avvento, nella seconda metà del XIX° secolo, dell'economia neoclassica e il concentrarsi dell'attenzione analitica non più sulla produzione bensì sui processi di scambio e della ripartizione delle risorse, portarono la questione “crescita” in secondo piano. Assumono ora rilievo cose come la concezione del risparmio quale motore primo della formazione della ricchezza, il mercato concorrenziale quale ottimizzatore sovrano dell’allocazione delle risorse e l’equilibrio di piena occupazione costantemente garantito dalle forze della libera concorrenza lasciate al loro libero e spontaneo dispiegarsi. Alla base di questo paradigma sta, come è noto, una rappresentazione dell’individuo mosso, in quanto soggetto economico, dal proprio esclusivo interesse, da un egoismo acquisitivo a cui non devono essere posti freni. Questo uomo egoista, rivestito con una patina di virtù “sociali” come la parsimonia, l’operosità, la sobrietà, la pietà verso i poveri diviene il centro di quell’equilibrio tra egoismo utilitarista economico e moralità sociale noto come “compromesso vittoriano”. Su questo scenario culturale irruppe, devastante, la grande crisi degli anni Trenta del Novecento. In essa J. M. Keynes vide dimostrata la fallacia della legge di Say - che escludeva crisi di sovrapproduzione -, nonché il fallimento della “mano invisibile” a garanzia di ricchezza sociale e piena occupazione. I comportamenti dell’uomo cosiddetto “virtuoso” e la “mano invisibile” avevano in realtà condotto le economie capitalistiche nel più profondo baratro della loro storia. E le cure proposte sul modello ideologico dominante, lungi dal contribuire a risolvere la crisi, la aggravavano. Contro la visione del libero dispiegarsi degli egoismi individuali quale condizione per il perseguimento del pubblico bene, Keynes, in sintonia con il pensiero di Edmond Burke, sostenne con decisione la concezione di uno stato moderno capace di orientare con l’attività politica le scelte dei soggetti economici verso obiettivi di felicità collettiva. Come è stato detto, la “politica economica” keynesiana “venne concepita come un tassello di quel grande mosaico che è l’arte o la scienza di governo”. La “politica economica” così intesa, con le misure di sostegno alla domanda effettiva, consentì non soltanto la ripresa dell’espansione del capitalismo ma una sua straordinaria accelerazione in tutto il mondo occidentale. Eppure, nemmeno Keynes, nonostante l’esperienza diretta di una crisi del capitalismo come quella degli anni Trenta e con tutta l’imponente mobilitazione intellettuale – sua ma anche di molti altri radunati intorno a lui – che si dimostrò capace di attivare, riuscì, così come tutti i grandi economisti prima di lui, ad individuare altre cause di instabilità della crescita che non fossero di ordine interno al sistema economico. Mai ebbe modo di rilevare l’esistenza di influenze e connessioni reciproche tra espansione economica e limiti ambientali e quindi di poter individuare tali limiti come ostacoli per la crescita economica. Anzi, alcune sue proiezioni sull’andamento futuro della condizione umana sono 2 di un tale ottimismo da apparire oggi perfino ingenue. Ebbe infatti a lanciarsi in un’ardita profezia che - avvertiva egli stesso - avrebbe sconcertato i lettori. Secondo il generoso vaticinio il problema futuro dell’umanità sarebbe stato cosa fare della propria acquisita libertà dai bisogni economici, una volta che l’uomo si fosse affrancato da essi in virtù dello sviluppo economico. “Giungo alla conclusione – affermava - che, […] il problema economico può essere risolto (…)nel giro di un secolo”. A quel punto l’umanità privata “del suo scopo tradizionale”, guadagnarsi da vivere, sarebbe andata incontro a un generale “esaurimento nervoso” non sapendo più “come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato” .(ibidem). Il secolo profetizzato dal grande economista è ormai arrivato e, ammettiamolo, almeno per quanto riguarda il generale “esaurimento nervoso” dell’uomo contemporaneo, egli fu veramente profeta. Ma la realtà è che non sappiamo più che fare di una economia che ha consumato la quasi totalità delle risorse disponibili e sta compromettendo le condizioni di vita sul pianeta, mentre la liberazione dell’umanità dai bisogni economici è ancora lontana da vedersi. Sappiamo invero, in questo addivenuto secolo, che la rivoluzione keynesiana, se ha salvato il capitalismo, ha anche posto le premesse teoriche per la trasformazione del capitalismo medesimo in un implacabile meccanismo di “produzione per la produzione” al cui interno il consumo stesso viene continuamente prodotto dalla produzione. Il consumo, cioè, ha finito per divenire il momento centrale ed essenziale della riproduzione sociale delle stesse condizioni della produzione. Contrariamente a quanto affermato dalla profezia, non c’è stata una liberazione dell’uomo dal problema economico: compito principale del sistema è diventato proprio quello di creare continuamente nuovi scopi economici e, quindi, di vita per l’umanità. La rivoluzione keynesiana indicò la via per il passaggio all’età del consumismo. Negli anni successivi alla rivoluzione keynesiana la teoria economica della crescita ha continuato a non vedere i limiti ad essa posti dalla esauribilità delle risorse naturali che la alimentano. Anche quando le risorse naturali sono state considerate oggetto di specifica trattazione economica ciò è avvenuto all’interno di un assunto generale circa la capacità dei meccanismi equilibratori del mercato di garantirne l’ottimale utilizzo. Ne è valido esempio quel noto “principio dello sconto del futuro” che è servito da base, negli anni trenta, per il famoso studio di Harold Hotelling dell’economia delle risorse esauribili. Ma nessun principio dello sconto del futuro sarà in grado di tenere in conto la domanda delle generazioni future, dato che esse non possono partecipare alla contrattazione per la determinazione di un tasso temporale di sconto che tenga conto anche delle loro esigenze. Mezzo secolo dopo, J. M. Hartwick – per citare uno dei più noti di questa classe di fantasiosi economisti – arriverà ad affidare al sistema di accumulazione un ruolo quasi metafisico di creazione di una entità riproducibile, il capitale, investito della capacità di sostituire i beni materiali in esaurimento. Al fine di ovviare al riconosciuto problema dell’esaurimento delle risorse irriproducibili per via del loro utilizzo, è sufficiente investire in capitale riproducibile tutte le rendite derivanti dallo sfruttamento delle risorse. Personalmente, consentitemi, credo che nel mito o nella letteratura fantastica sia forse possibile trovare analoghi riscontri di ottimismo nei poteri dell’uomo posto ormai capace di sostituirsi al Dio creatore. 3 Per arrivare alla prima analisi, tuttora insuperata, di una economia esplicitamente inquadrata all’interno di un ambiente limitato, bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento e l’opera di Nicholas Georgescu Roegen. Egli definisce lo studio dell’attività economica “Bioeconomia” per sottolineare che si tratta di una attività che si svolge – e, quindi, può essere studiata - soltanto in stretta connessione con le forze fisiche e biologiche che governano la natura e con cui essa interagisce. Georgescu Roegen intuisce che anche i processi economici di produzione e consumo soggiacciono ai principi della termodinamica che possono essere così sintetizzati: “La quantità di energia totale dell’universo è costante e l’entropia è in continuo aumento”. Essi stabiliscono in maniera inoppugnabile che ogni trasformazione energetica comporta una perdita irreversibile, nel senso che una parte dell’energia trasformata non sarà più utilizzabile. Georgescu Roegen dimostra che il principio vale non solo per l’energia ma anche per la materia per cui le trasformazioni sia di energia che di materia soggiacciono allo stesso ineludibile principio della dissipazione. L’economista rumeno, avendo individuato il processo economico come artificiale acceleratore dell’universale principio di degrado entropico di materiaenergia, introduce all’interno del discorso economico il concetto di entropia. Nella visione bioeconomica di Georgescu Roegen le risorse naturali ed i servizi ambientali vengono interpretati come “patrimonio di bassa entropia”. Dette risorse (energetiche e materiali) a disposizione dell’umanità possono essere o rinnovabili solo in tempi geologici, oppure si tratta di flussi continuamente rinnovati secondo ritmi misurabili ma non controllabili dall’uomo, come l’energia solare. Nei fatti, le risorse energetiche e i materiali realmente utilizzati dalla produzione economica sono costituiti, in pressoché totale misura, da stock disponibili sulla terra in misura finita. A differenza delle tradizionali impostazioni di derivazione meccanicistica, soprattutto quella marginalista, che vedono il processo economico in termini di circolarità, nell’interpretazione termodinamica i fatti economici vengono correttamene individuati in quanto processi unidirezionali e irreversibili. Il tempo storico, inteso come succedersi irrevocabile di eventi, diviene elemento essenziale dell’osservazione economica e ogni trasformazione produttiva viene finalmente vista quale inesorabile degradazione del capitale naturale utilizzato. La dimensione temporale consente di reinterpretare il tradizionale concetto di scarsità delle risorse: le fonti energetiche sono scarse perché sono non riproducibili e fisicamente limitate e, soprattutto, perché il loro utilizzo nel tempo ne causa l’inevitabile esaurimento. Ciò introduce per la prima volta all’interno dell’economia il concetto di scarsità assoluta delle risorse, le quali cessano di essere categorie quasi metafisiche capaci di alimentare indefinitamente il mito prometeico dell’uomo creatore, ma divengono elementi concreti che definiscono le reali possibilità produttive. In tal modo, gli orizzonti dell’analisi economica vengono allargati a una prospettiva intergenerazionale. Da tutto ciò discendono con immediatezza nuovi criteri di ricchezza e di valore, non più determinati esclusivamente, come si riteneva in passato, dal lavoro contenuto, dall’utilità marginale o dal livello della domanda ma, in primo luogo, dal contenuto energetico dei beni. Il meccanismo dei prezzi, rispondente alle 4 dinamiche fluttuanti della domanda e dell’offerta, risulta in questa ottica inadeguato per assegnare il reale valore delle cose e i meccanismi di mercato non sono in grado di garantire un’efficiente allocazione delle risorse nei termini intertemporali e di efficienza entropica. Anche il concetto di produttività assume, alla luce della termodinamica, una connotazione del tutto nuova non essendo più la quantità prodotta per unità di tempo o per unità di lavoro impiegata che stabilisce l’efficienza di un processo, bensì il contenuto di entropia per unità di produzione. Non è il caso, in questa sede, di entrare oltre nel merito dell’opera di G. Roegen. Possiamo solo aggiungere che il suo contributo forse più rilevante è stato aver posto le premesse per un possibile risveglio dell’economia dall’illusione di poter indefinitamente sostituire il capitale prodotto dall’uomo al capitale naturale consumato nei processi economici. E questo avviene a distanza di ben un secolo e mezzo dalla enunciazione del secondo principio della termodinamica e dalle rivoluzionarie conseguenze che esso impose all’impostazione epistemologica di stampo meccanicistico in tutte le discipline scientifiche a partire dalla fisica. Solo la scienza economica, pur definita la “triste scienza” (R. Carlyle) ha continuato a muoversi nella continua illusione “delle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente” (G. Leopardi, La ginestra, 1836) da cui il poeta aveva messo in guardia il nostro tempo “superbo e sciocco”. E ancora oggi, a quasi mezzo secolo dal contributo di G. Roegen, l’impostazione dominante della scienza economica continua a muoversi nell’indifferenza circa i limiti che alla crescita economica vengono posti dalla disponibilità energetica a monte e dalla capacità di assorbimento degli scarti indesiderati a valle. E ciò, nonostante sia ormai ben evidente l’inadeguatezza dei modelli rappresentativi e delle analisi tradizionali alla luce di tali limiti ambientali. E’ ormai all’ordine del giorno l’urgenza di una presa d’atto generale della impossibilità di continuare in una crescita senza limiti e della necessità di abbandonare la cieca fiducia che ha sorretto gli intelletti durante gli ultimi secoli e per cui “qualunque cosa accada la tecnologia ci aprirà una strada”. Oggi sappiamo che questo mito tecnologico porta con sé molti possibili e terribili pericoli e che l’applicazione delle tecniche esistenti - basate sulla disponibilità limitata di risorse inquinanti utilizzate però come se si trattasse di risorse illimitate e pulite - può portare anche a risultati disastrosi. 3. Il caso in questo senso paradigmatico è quello della moderna agricoltura. L’attività produttiva agricola tradizionale, fondata sulla conoscenza e il governo dei cicli naturali, costituiva un’attività in armonia con i ritmi e le complementarità tecniche e temporali derivanti dalla natura organica dei processi naturali di trasformazione. Essa si affidava per la coltivazione al lavoro degli uomini e degli animali, per la fertilizzazione e la conservazione del suolo ai concimi naturali e alla rotazione delle colture, per la difesa delle piante ai nemici naturali degli insetti. L’esercizio dell’attività agricola nel rispetto di tali vincoli faceva dell’agricoltura un’”arte” con le sue regole ben definite e temporalmente scandite e gli “agri-cultori” dovevano essere profondi e rispettosi conoscitori delle regole dell’arte agricola. Le modalità di esercizio 5 dell’agricoltura tradizionale configuravano un’attività multifunzionale che oltre alla produzione di beni agricolo-alimentari sicuri e di alto valore nutritivo, rendeva altri importanti servizi alla collettività come il presidio territoriale, la tutela dell'ambiente, la cura del paesaggio. La modernizzazione ha sostituito le macchine al lavoro dell’uomo e degli animali, i prodotti chimici alla fertilizzazione organica, alle rotazioni, al diserbo manuale e al controllo naturale degli agenti patogeni. Con l’industrializzazione – ovvero, la trasformazione dell’agricoltura tradizionale in un “sottoprodotto della rivoluzione industriale” – l’agricoltura non solo ha perduto quelle multifunzioni virtuose cui abbiamo fatto cenno ma è divenuta all’opposto la più grande sperperatrice di energia non riproducibile, fonte di inquinamento ambientale, causa di dissesto del territorio e produttrice di beni agroalimentari spesso di dubbia qualità e sicurezza. Per quanto si vogliano celebrare i mirabolanti risultati quantitativi della moderna agricoltura, per quel che riguarda i suoi effetti entropici è fuor di dubbio essa si è mostrata tanto “viziosa” quanto “virtuosa” fu l’agricoltura tradizionale. Le moderne tecniche agricole sostituiscono energia solare, praticamente illimitata e gratuita, con la più scarsa delle risorse, l’energia fossile. Ciò è in evidente contrasto con il criterio di efficienza entropica, il quale implica che i flussi di energia e materia in entrata debbano essere inferiori a quelli in uscita. L’agricoltura è per sua natura fondata sullo sfruttamento del vantaggio entropico legato all’attività fotosintetizzante delle piante; a differenza degli altri settori produttivi dovrebbe dunque presentare un bilancio positivo dei flussi di energia e materia. La fotosintesi infatti, utilizza la fonte energetica più abbondante e rinnovabile attualmente a disposizione – il sole – per strutturare materia organica e per la formazione di energia libera: essa è dunque l’unico processo in grado di contrastare il degrado entropico associato a tutte le attività vitali. Viceversa la modernizzazione agricola, sostituendo l’energia fossile a quella solare, ha puntato tutto in direzione di un aumento della produttività economica ma, diminuendo l’efficienza entropica, ha rinunciato al vantaggio derivante dal processo fotosintetizzante. A fronte di queste considerazioni sulla dannosità della moderna agricoltura, la risposta pressoché unanime fa riferimento alla crescente pressione demografica e alla necessità primaria di ottenere quantità crescenti di beni agricolo-alimentari al fine di affrontare il problema della sottonutrizione e della fame. Si sostiene – evocando talvolta perfino Malthus –, che tale obiettivo può essere perseguito soltanto attraverso una intensificazione del rendimento della terra coltivata a mezzo di una sempre maggiore meccanizzazione, maggior uso di fertilizzanti e pesticidi chimici, nonché, sulla base delle più recenti innovazioni tecniche, maggior coltivazione dei cerali ad alta resa. Tuttavia, come sostiene Georgescu Roegen, la realtà è che, contrariamente a quanto generalmente sostenuto, “questa tecnica agricola moderna costituisce nel lungo periodo, un’azione contraria ai più elementari interessi bioeconomici della specie umana”. E’ da tempo e abbondantemente provato che i nuovi elementi con cui la tecnica moderna rimpiazza l’energia solare sono caratterizzati da una resa fortemente decrescente. All’aumento dell’utilizzo del macchinario, dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi fa riscontro un aumento notevolmente meno che proporzionale 6 delle rese per via del fatto che l’intensificazione di attività fotosintetica consentita dalle nuove tecniche su di una data superficie di terra coltivata viene ottenuto a scapito di un ancor più intensivo consumo di bassa entropia di origine terrestre, la sola risorsa criticamente scarsa. Si tratta di una diseconomia - osserva Georgescu Roegen - “particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevata che hanno fatto vincere al loro realizzatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel”. In definitiva, quindi, se per un verso l’utilizzo delle moderne tecniche sembra fornire risposta nell’immediato al problema delle necessità alimentari di una popolazione crescente, per altro verso, a motivo della intensificazione del consumo delle risorse esauribili, crea le premesse per compromettere le stesse possibilità di vita delle generazioni future. Questo fatto, unitamente alla progressiva perdita di biodiversità causata dall’applicazione delle moderne tecniche agricole potrebbe condurre “il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno”. 4. Ecco, questo è, credo, nei suoi termini essenziali, lo scenario generale della situazione delle società umane allo stato attuale. Tuttavia, se questo è il quadro, per quanto foschi possano apparire i suoi colori, ritengo che il più grave errore sarebbe abbandonarsi alle suggestioni di un cupio dissolvi legato a senso di ineluttabilità circa il drammatico destino di una umanità impotente rispetto al suo futuro. A fronte di questo desolante panorama è sterile e dannoso l’atteggiamento catastrofistico e rassegnato di molti, quasi quanto quello degli ottimisti tecnologici ad oltranza. Potremmo assistere, in un prossimo futuro che forse è già iniziato, a ripensamenti di portata rivoluzionaria circa le modalità organizzative delle società degli uomini, ma anche di ordine culturale ed esistenziale, che riguarderanno il senso stesso della vita, attraverso radicali rivisitazioni delle concezioni degli stili di vita e dei rapporti degli individui con il mondo umano e naturale intorno ad essi. Capovolgimenti di pensiero e di approcci politici che sembravano impensabili fino a poco tempo fa si affacciano già oggi in termini dominanti sulla scena mondiale e accendono di nuovo le speranze di una umanità che sembrava destinata a non avere più sogni. Non spetta a me in questa sede provare ad immaginare in che termini e quando esattamente tutto ciò avverrà. Il mio compito, il nostro compito come uomini di cultura, ricercatori di scienza, costruttori di sapere, è quello di smetterla, infine, di coltivare ad oltranza e acriticamente i graziosi giardinetti del nostro sapere accademico, talvolta troppo isolati dal mondo, dalle sue contraddizioni e dalle sue storture; avere il coraggio di abbandonare, quando necessario, i percorsi di ricerca ben collaudati e per noi assai rassicuranti, ma talvolta – e mi rivolgo soprattutto ai colleghi economisti - avvitati nella asettica autoreferenzialità di una sterile ricerca di perfezione formale, senza più avere chiaro dove si stia andando. Dobbiamo uscire, credo, dalle nostre mura, prendere atto e affrontare con gli strumenti a disposizione una realtà che può anche non piacere ma che non si può non vedere. E questa realtà è quella di un mondo viziato dalla convinzione che le disponibilità materiali degli uomini debbano sempre e continuamente 7 crescere – il mito della crescita –; un mondo che ormai non può più permettersi di coltivare questo mito, mentre la gran parte dell’umanità, quella che sino ad ora ne era stata esclusa, preme per poter sedere anch’essa al banchetto dell’abbondanza; un mondo esausto svuotato delle sue preziose risorse esauribili e ormai troppo saturo delle deiezioni del oro irragionevole utilizzo; un mondo densamente popolato che annaspa alla ricerca di nuove fonti energetiche capaci di garantire uno “sviluppo” che possa dare risposta alle necessità vitali di questa popolazione ma che non potrà essere la replica della crescita incontrollata che ci ha guidato finora: dovrà essere un vero “sviluppo”, ispirato da criteri guida radicalmente nuovi rispetto ad essa. Questo è il mondo che dovremo saper vedere e con cui dovremo saperci confrontare per tentare di offrire il nostro indispensabile contributo. Spetta a noi lavorare con senso di concretezza sulla ricerca di fonti energetiche veramente pulite, alternative a quelle fossili – compresa quella nucleare, anch’essa in via di esaurimento e pericolosissima per noi e per le generazioni future –; per fare ciò dovremo abbandonare l’illusione del moto perpetuo e che sia ancora ipotizzabile un mondo di uomini-dio dotati di risorse illimitate e inesauribili. E dovremo saper dire ai popoli che il nostro pianeta non è in grado di mantenere ancora a lungo una pressione demografica come quella attuale, con gli attuali consumi, e che in prospettiva la popolazione dovrà necessariamente decrescere. Spetta a noi essere capaci di elaborare modelli di riferimento filosofico, culturale ed economico fondati su cognizioni affatto nuove dei concetti di ricchezza e di valore; per fare ciò dovremo abbandonare l’illusione che l’esercizio della libertà degli uomini possa essere indifferente rispetto alle necessità di giustizia e di equità tra individui, popoli e generazioni. Spetta a noi, ancora, saper costruire obiettivi e paradigmi politici capaci di dare senso di appartenenza, compartecipazione, condivisione e di indirizzare l’attività degli uomini verso mete comuni da cui possa discendere, reale benessere per i singoli individui; per fare ciò dovremo abbandonare l’illusione tipicamente moderna degli stati di equilibrio e di benessere collettivo emananti come per incanto - per metafisica “mano invisibile” - dal libero agire delle forze primitive, dagli egoismi della natura umana. Infine, per noi economisti che ci occupiamo del settore agricolo, si pone, credo, anche un compito più preciso, strettamente legato al ruolo fondamentale che in un futuro eco-sostenibile dovrà avere la coltura della terra. Dovremo lavorare nel senso di una nuova agricoltura che, contrariamente a quanto avvenuto in passato, si conformi ad un uso misurato e giudizioso della tecnologia, tale cioè da rendere le produzioni agricole compatibili sia con la conservazione dei caratteri originali delle forze biologiche su cui si fondano, che con l’ambiente naturale nonché con le necessità di una alimentazione di qualità e sicura. Una agricoltura che dovrà saper recuperare modalità tradizionali di sapere agricolo attraverso il formarsi di nuovi mestieri colturali fondati, come lo erano gli antichi mestieri agricoli, sulla conoscenza 8 delle leggi, dei ritmi della natura e del loro rispetto: attraverso essi soltanto, diverrà possibile ricostruire una rinnovata fiducia tra agricoltori e consumatori nel quadro di una nuova alleanza tra agricoltura, tecnologia e natura. 9