1 - Irccs Fatebenefratelli

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LA TRASFERIBILITÀ DELLA RICERCA NELLA PRATICA CLINICA: L’IMPATTO
DELLE NEUROSCIENZE
Anna Placentino1, Jorge Perez1,2
1
Unità di Psichiatria Biologica, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) Centro
S.Giovanni di Dio- Fatebenefratelli, Brescia
2
Università degli Studi Milano-Bicocca
Jorge Perez, MD, PhD
Unità di Psichiatria Biologica –Linea Psichiatria Clinica
Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS)
“Centro S.Giovanni di Dio” Fatebenefratelli,
Via Pilastroni, 4 – 25124 Brescia
E-mail: [email protected]
Tel: +39 030 3501719/504
Fax: +39 030 3533513
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La trasferibilità della ricerca nella pratica clinica: l’impatto delle neuroscienze
INDICE
1
- Introduzione
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- Processi di traslazione della ricerca nella clinica
2.1 Considerazioni generali
2.2 I fattori di rischio
3
- Prevenzione secondaria
3.1 La prevenzione nella salute mentale
3.2 Aspetti diagnostici, prognostici e terapeutici
4
- Prevenzione terziaria
4.1
Aspetti diagnostici, prognostici e terapeutici
5
- Conclusioni e prospettive future
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1.
INTRODUZIONE
L’idea di scrivere un capitolo sulla traslazione della ricerca nella pratica clinica potrebbe
sembrare alquanto presuntuosa. Di fatto, nell’ambito dei disturbi mentali s’intrecciano, in modo
ancora molto enigmatico, la malattia, nella sua complessità bio-psico-sociale, il trattamento e la
realtà soggettiva del paziente; in questa realtà così articolata risulta ancora troppo poco delineato il
supporto fornito dalla ricerca.
Durante l’ultimo decennio, coerentemente con lo sviluppo degli studi di neuroscienze, anche
in psichiatria, si è assistito ad un crescente interesse per la valutazione dell’intervento clinico
secondo un approccio basato su evidenze scientifiche (Evidence Based Medicine - EBM). Tale
approccio, che presuppone l’uso coscienzioso, preciso e ponderato delle attuali evidenze
scientifiche, mira a favorire il decision making assistenziale (Sackett et al., 1996), fornendo un
importante contributo alla gestione del paziente.
Le indicazioni, tuttavia, siano esse diagnostiche, prognostiche e terapeutiche, ispirate
all’EBM (Cole et al., 1999; Kim et al., 2003), risultano ancora di difficile applicazione in campo
clinico, suggerendo la presenza di molteplici barriere che impediscono, o per lo meno rendono
molto difficoltoso, il processo di traslazione della ricerca scientifica nella pratica clinica quotidiana
(Rich, 2002). Fra i numerosi aspetti che ostacolano tale processo, i più studiati, possono essere
raggruppati sotto tre tipologie riferibili agli operatori della salute mentale, ai pazienti e al sistema
sanitario.
Le barriere collegate agli operatori includono la mancanza di conoscenze delle attuali
evidenze scientifiche e della relativa formazione (Rich, 2002). Sebbene la pletora di studi possa
contribuire a rendere più difficoltoso tale approfondimento, è altrettanto vero che solo una maggior
familiarità e consapevolezza degli studi clinici potrebbe concorrere ad una critica lettura degli stessi.
Le barriere collegate ai pazienti si riferiscono prevalentemente alla loro complessità clinica
e psicosociale (Pincus et al., 1999; Kessler et al., 2005); la presenza di stili comportamentali
disfunzionali, come pure il vissuto soggettivo di malattia, possono ulteriormente complicare la
scelta delle linee di condotta sul trattamento o essere causa di ricadute.
Infine, gli ostacoli dovuti al sistema sanitario includono la mancanza di approcci sistematici
per le patologie mentali e le ridotte risorse finanziarie stanziate. Di fatto, a livello di politica
sanitaria, viene fortemente richiesto un approccio EBM, quale criterio che concorre a definire gli
indicatori di qualità di un servizio, ciononostante resta dubbia la loro effettiva applicabilità.
Le carenze riscontrate in questi tre ambiti riflettono l’incapacità di riprodurre nella pratica
clinica quotidiana le conoscenze sviluppate dalla ricerca, con il risultato che utili innovazioni
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richiedono spesso anni prima di diffondersi ed essere utilizzate nella quotidianità. Malgrado
l’importanza data all’EBM, molti altri fattori dovrebbero essere presi in considerazione, per favorire
la riduzione del divario tra gli studi di ricerca e la loro traslazione all’assistenza nel real world
clinico (Morrison, 2004).
Sebbene sia importante che i ricercatori continuino a sviluppare nuovi interventi diagnostici,
prognostici e terapeutici e ne valutino gli esiti, sarebbe auspicabile generare evidenze, usando
approcci verosimilmente più aderenti alla pratica clinica. I fattori correlati all’applicabilità di questo
tipo di intervento sottintendono la compatibilità di diversi aspetti, che prevedano 1) una padronanza
delle innovazioni scientifiche 2) la conoscenza delle precise esigenze e delle risorse sia del paziente
sia del sistema sanitario, 3) un approccio valutativo e comunicativo condiviso. Tutto ciò suggerisce
l’utilità di una stretta collaborazione tra medici e ricercatori, la quale risulta di cruciale importanza
in presenza di interventi sia a breve che a lungo termine (Roussos & Fawcett, 2000).
In termini generali ci si può augurare che la diffusione di elementi di impatto scientifico
favorisca un processo di trasferibilità, non solo attraverso il lavoro all’unisono di ricercatori e
medici (Unutzer, 2002; Weisz, 2000), ma anche adattando gli studi in modo congruente sia alla
popolazione dei pazienti sia ai setting clinici (Duan et al. 2001; Wells 1999; Roy-Byrne et al. 2003;
Schoenwald et al. 2001). Un approccio così inteso avrebbe il vantaggio di potenziare attivamente
l’intervento, risultando arricchito grazie alle evidenze scientifiche e alle osservazioni cliniche
(Sullivan et al., 2005; Druss, 2005).
In conclusione, per ridurre il divario tra ricerca e clinica si dovrebbe sostenere un approccio
culturale differente; da una parte, i futuri metodi di ricerca dovranno trovare un modo, non per
ignorare la realtà clinica, ma per adattarvisi; dall’altra, gli operatori della salute mentale dovranno
promuovere una maggiore ed incisiva consapevolezza dei recenti progressi scientifici e dovranno
applicarli, dopo adeguata formazione, nella loro azione assistenziale.
Si tratta, quindi, di approntare un accurato collegamento tra “Evidence Based Medicine” e
“Medicine Based Evidence”, attraverso la promozione di studi di ricerca basati sulla realtà clinica e
le relative difficoltà.
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2.
PROCESSI DI TRASLAZIONE DELLA RICERCA NELLA CLINICA
2.1
Considerazioni generali
Durante le ultime decadi, il supporto della ricerca è stato indiscutibile per quanto concerne
lo sviluppo di nuovi approcci diagnostici e terapeutici, così come per l’individuazione dei fattori di
rischio dei disturbi mentali e per l’avvio dei relativi approcci preventivi.
Ciononostante, il divario tra ciò che la ricerca ha evidenziato e la conseguente applicazione in
termini di cura e di prevenzione nella quotidianità clinica risulta ancora considerevole (Barnes,
2005).
L’ottimizzazione dei processi di traslazione della ricerca nella pratica clinica dovrebbe
contemplare un percorso articolato che veda al suo interno un reciproco coinvolgimento e scambio
di informazioni tra la ricerca di base, la ricerca clinica e la pratica clinica.
L’interazione degli studi sperimentali, siano questi di base o clinici, ha portato, ad esempio, ad
ipotizzare che la vulnerabilità per molti disturbi psichiatrici sia in parte correlata a fattori genetici
(Tsuang, 2000; Möller, 2003; Heinz et al., 2003). A conferma di questa ipotesi numerosi studi
hanno dimostrato che i familiari di primo grado di pazienti affetti da patologie psichiatriche hanno
una probabilità maggiore di sviluppare tali disturbi. Ulteriori progressi della ricerca sperimentale
(Craddock & Jones, 1999) hanno evidenziato che, contrariamente alla passata concezione
monogenica delle malattie mentali, diversi geni possono essere coinvolti nella suscettibilità a tali
disturbi e dunque condurre ad un gradiente diverso di predisposizione alla malattia.
E’ importante sottolineare, tuttavia, che non sempre lo sviluppo di una malattia mentale è
necessariamente ed esclusivamente di tipo genetico (Lenox, 2000, McEwen 2000, Kendler, et al.
1999). L’interazione di una diatesi genetica e danni precoci durante la fase del neurosviluppo
possono favorire diverse alterazioni nel Sistema Nervoso Centrale (SNC) (Selemon & GoldmanRakic, 1999; Heinz et al, 2003). A tale proposito, diversi studi hanno documentato una positiva
associazione tra complicanze pre-peri-postnatali e lo sviluppo a lungo termine di disturbi afferenti
alle psicosi maggiori (Compton, 2004). In aggiunta, i progressi nelle tecniche di neuroimaging
hanno contribuito a riscontrare anomalie strutturali e di funzionamento del SNC, in diversi disturbi
psichiatrici (Heinz, et al. 2003; Sala et al. 2004). Parallelamente a queste ricerche, sono progrediti
gli studi in ambito neuropsicologico, dimostrando che alterazioni della sfera cognitiva possono
essere presenti in diverse fasi delle malattie psichiatriche (Harvey et al., 2005; Altshuler et al, 2004;
Green et al, 2004).
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Queste ricerche cliniche sono supportate anche da studi preclinici. A tale proposito, le attuali
opinioni scientifiche ritengono che i disturbi mentali possono essere determinati dall’interazione di
fattori genetici ed ambientali (Licinio, 2002; Caton et al., 2005; Kendler et al., 2004). Attraverso
l’uso di modelli animali, è stato evidenziato che lo sviluppo del SNC è molto sensibile agli stressor.
Ad esempio, è stato dimostrato che una precoce separazione materna/deprivazione delle cure
parentali (early maternal deprivation) può indurre delle alterazioni biochimiche molecolari, sia a
breve che a lungo termine (Roceri et al., 2004; Fumagalli et al., 2004). E’ stato riportato, inoltre,
che l’esposizione allo stress può indurre anomalie ippocampali, riscontrate non solo negli animali,
ma anche in quei disturbi psichiatrici correlati allo stress, come il Disturbo Post traumatico da
Stress, il Disturbo Borderline di Personalità e la Depressione Maggiore (Sala et al., 2004). Come
noto, l’ippocampo, unitamente ad altre strutture cerebrali, concorre a regolare le risposte allo stress
e, oltre a condizionare la risposta alla paura, è coinvolto direttamente nei processi mnesici e di
processamento dell’informazione (Wittenberg & Tsien, 2002; Egan et al., 2003).
I primi studi condotti in ambito psicofarmacologico hanno supportato l’esistenza di un
legame tra neurotrasmetittori e disturbi psichiatrici, ciononostante, i meccanismi cellulari e
molecolari coinvolti nella patogenesi dei disturbi mentali e nell’azione degli psicofarmaci necessita
di ulteriori studi. La definizione dei meccanismi biochimici coinvolti nella trasduzione dei segnali
cellulari ha permesso di comprendere che il passaggio dell’informazione dello spazio sinaptico
all’interno delle cellule è regolato da svariati processi biochimico-molecolari intracellulari,
implicando anche l’espressione genica (Kandel, 1998; Perez et al. 2000; Perez & Tardito, 2001)
Attuali evidenze suggeriscono che i vari percorsi di trasduzione del segnale, inclusi quelli coinvolti
nell’azione dei fattori neurotrofici e dei canali ionici, potrebbero potenzialmente essere legati con la
patofisiologia dei disturbi psichiatrici e, a differenza della passata concezione neurotrasmettitoriale,
hanno evidenziato il coinvolgimento di tutti i sistemi coinvolti nella neurotrasmissione non solo
nella patologia, ma anche nell’azione degli psicofarmaci (Popoli, et al 2001; Perez et al., 2000;
Perez & Tardito, 2001).
In questa direzione, i trials farmacologici, condotti secondo il metodo dell’evidence based
medicine hanno assunto un ruolo di rilievo nel dimostrare l’efficacia clinica degli psicofarmaci;
un’importante conquista nell’ambito terapeutico delle patologie mentali si è realizzata quando,
anche alcuni approcci psicologici, utilizzando sempre questo tipo di metodologia, hanno dimostrato
la loro efficacia clinica. Di conseguenza non stupisce il fatto che studi recenti abbiano dimostrato
che approcci integrati risultino più efficaci del singolo trattamento nella cura delle malattie mentali
(Eddy et al., 2004; Arean & Cook, 2002; Leichsenring et al., 2005; Colom et al., 2003)
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Questi argomenti, da noi solo brevemente trattati, ma ampiamente discussi anche in altri
capitoli di questo trattato, evidenziano che l’interazione dei contributi della ricerca di base e della
ricerca clinica abbiano contribuito ad ampliare le conoscenze dei disturbi mentali e dei relativi
trattamenti. Ciononostante, molto rimane ancora da fare per traslare i concetti e i risultati della
ricerca scientifica nella pratica clinica. Ad esempio, l’utilizzo di tecniche quali, neuroimaging ed
indagini neuropsicologiche è ancora lontano dall’essere concepito come utile strumento
nell’approccio diagnostico, prognostico e terapeutico del paziente affetto da disturbo mentale
(Green et al, 2004; Heinz et al, 2003; Altshuler et al, 2004).
D’altra parte, sebbene gli studi clinici controllati abbiano dimostrato l’efficacia degli
approcci terapeutici, oggi è possibile sostenere che solo una porzione di pazienti potrebbe essere
eleggibile all’utilizzo di determinati trattamenti (Pincus et al., 1999; Klein et a., 2002; Posternack,
2002). Infatti, come dimostrato da Zimmerman e colleghi (2002), questo concetto deve far riflettere
sull’effettiva possibilità di generalizzazione degli studi clinici controllati sopramenzionati, dal
momento che si riferisce solo il 14% dei pazienti afferenti ad un servizio di salute mentale sarebbe
risultato idoneo all’utilizzo di un antidepressivo, seguendo i criteri di inclusione dei trials clinici.
Le ricerche in ambito clinico dovrebbero contemplare un disegno di studio flessibile ed
adattabile alle necessità cliniche, popolazioni di studio eterogenee e l’inclusione di una varietà di
setting, tutti elementi rappresentativi della realtà clinica (Zerhouni, 2003), senza prescindere dai
risultati della ricerca, comprendendo la comparazione tra interventi clinici di rilievo e la
misurazione di un’ampia gamma di esiti clinicamente validi (Tunis et al. 2003). Per favorire la
generalizzabilità, è importante che i campioni di pazienti siano reclutati e trattati nei contesti clinici
di ordinaria applicazione (Baigent, 1997), evitando di tralasciare la randomizzazione, che risulta
ancora una delle migliori difese dai possibili errori (Peto & Baigent, 1998).
Un utile strumento finalizzato a migliorare le procedure d’intervento è rappresentato dal
miglioramento dell’assetto diagnostico e dalla relativa gestione delle informazioni cliniche derivanti
(Smith, 1996). Sfortunatamente, molte barriere, tra cui la regolazione delle norme sulla privacy, il
decentramento delle strutture di salute mentale e l’inadeguato sistema di comunicazione “interprofessionale”, complicano le operazioni di raccolta, di sintesi, di registrazione e di condivisione
delle informazioni cliniche. Il tempo impiegato per rintracciare le informazioni mancanti potrebbe
risultare essere sottratto al tempo da destinarsi alle cure dirette al paziente, causando un’ulteriore
limitazione delle risorse assistenziali, peraltro già fortemente minacciate da altre necessità, e la
procrastinazione dell’inizio del processo di cura del soggetto (Smith, 2005).
La mancanza di informazioni cliniche, non solo è ostacolata dalle barriere sopraccitate, ma
anche dalla ridotta consapevolezza della ricaduta dell’impatto di tali informazioni sul management
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del paziente. Come è stato dimostrato (Elder et al., 2004; Forster et al., 2003), la mancanza di
informazioni cliniche è associata al 15,6% degli errori nelle cure assistenziali; tale aspetto è
particolarmente importante in quanto si potrebbero determinare anche gravi danni al paziente dovuti
a diagnosi mancate o ritardate, a mancate o errate richieste di indagini di approfondimento o a
prescrizione di farmaci e trattamenti inadeguati (Leape et al., 1995).
Un ulteriore rallentamento a questo processo proviene, inoltre, dalla “lotta di supremazia”
tra gli approcci terapeutici appartenenti a diversi orientamenti culturali (Kandel, 1999); comunque
oggi, consapevoli della complessità del paziente psichiatrico, ci appare ancor più necessario uno
sforzo congiunto per poter garantire un approccio integrato alla salute mentale (Arean & Cook,
2002; Colom et al, 2003).
Come è possibile supporre, nell’ambito della salute mentale, il trattamento del paziente è un
processo complesso. Tutti gli elementi raccolti dal soggetto, dal caregiver e dalle evidenze della
letteratura scientifica possono concorrere a favorire il complesso decision making clinico. I pazienti
necessitano di essere gestiti in senso olistico, nel loro contesto socio-ambientale, personale e nella
relazione medico-paziente, senza trascurare gli specifici bisogni di cura. Ciò presuppone una
valutazione
professionale
individualizzata
ed
approfondita,
che
comprenda
indagini
multiprofessionali e multidimensionali; a tale riguardo, come verrà ampiamente discusso nel
paragrafo successivo, recentemente la letteratura ha iniziato a evidenziare come la complessa
interazione degli aspetti bio-psico-sociali possa avere un ruolo determinante nello sviluppo e negli
outcome delle malattie mentali.
Sulla base di queste evidenze, considerate le complesse variabili che entrano in gioco in
questo divario tra ricerca e clinica, è lecito chiedersi come è possibile avviare questo percorso di
traslazione. A nostro parere, fermo restando la necessità di uno sforzo congiunto tra ricercatori e
clinici, il primo passo per avviare questo complesso processo potrebbe essere intrapreso, per
questioni etiche e di necessità assistenziali, in un contesto di “front line”, ossia direttamente nei
luoghi di cura e di riabilitazione psichiatrica.
La sfida per la realizzazione di tutto questo, auspicabile nel prossimo futuro, riguarda la
costruzione e il mantenimento di network di ricerca con decision makers provenienti da diverse
strutture. E’ noto che la ricerca sia caratterizzata da costi elevati, mancanza di fondi e
frammentazione delle infrastrutture; ciononostante, solo la possibilità di poter usufruire di
finanziamenti può consentire la prosecuzione degli studi e lo sviluppo dei modelli da applicare
nell’ambito della salute mentale.
Il nostro intento è quello di promuovere la ricaduta delle evidenze scientifiche nei processi
di diagnosi, prognosi e trattamento dei disturbi mentali. In questo contesto riteniamo che la
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conoscenza dei fattori di rischio, che contribuiscono allo sviluppo, al mantenimento e alla ricaduta
dei disturbi mentali, debbano giocare un ruolo fondamentale nei processi preventivi, siano essi di
prevenzione primaria, secondaria o terziaria. Per cui, avere un’adeguata conoscenza di tali
informazioni si rivela uno strumento imprescindibile e di estrema utilità nel favorire il management
clinico del paziente affetto da disturbo mentale.
2.2
I fattori di rischio
Come precedentemente accennato, attualmente si suppone che i disturbi mentali siano
multideterminati (Compton, 2004). L’ipotesi eziologica più accreditata è quella che sostiene
un’origine multifattoriale per le psicopatologie, la quale, senza trascurare l’influenza biologicoorganica, prioritaria per esempio nelle psicosi maggiori, prende in considerazione anche i fattori
psicologici e socio-ambientali.
Tenendo presente tale complessità, negli ultimi anni, come già accaduto per altre aree della
medicina (Yusuf et al., 2004), in ambito psichiatrico sono aumentate le pubblicazioni riguardanti i
fattori di rischio e la loro importanza nell’attività clinica.
Ricordiamo che per fattore di rischio si intende qualsiasi antecedente la cui presenza faccia
aumentare la vulnerabilità alla malattia (Compton, 2004), o influisca sul mantenimento o sulle
ricadute della stessa. Tali fattori possono intervenire nell’arco della vita, talvolta anche fin dal
periodo prenatale, e manifestarsi lungo il decorso psicopatologico, in tutte le fasi che, dall’esordio, e
ancor prima, conducono all’eventuale fase residuale del disturbo.
La letteratura scientifica supporta la presenza di tre categorie di fattori di rischio: biologici,
psicologici e socio-ambientali (Figura 1).
La familiarità è uno dei fattori di rischio maggiormente studiati ed associati allo sviluppo di
disturbi mentali.
Notevole interesse hanno suscitato gli studi mirati a valutare la predisposizione genetica dei
disturbi mentali (Plomin & McGuffin, 2003). Lo studio del cromosoma 22q11 (Hodgkinson et al.,
2001) la cui delezione è coinvolta nello sviluppo della sindrome velo-cardio-facciale, ne è un
esempio, dimostrando che i soggetti con tale sindrome riportano un maggior rischio di sviluppare
una patologia psichiatrica (Murphy et al., 1999).
Ulteriori studi (Cloninger, 1987) sono stati indirizzati a valutare le influenze genetiche e
costituzionali esercitate sulla personalità. E’ stato riportato (Meehl, 1989; Tsuang et al., 2001)
come caratteristiche di personalità schizotipica possono rappresentare un elemento di vulnerabilità
per la schizofrenia (Vollema et al., 2002).
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Le evidenze epidemiologiche hanno portato ad osservare che l’età elevata dei genitori al
momento del concepimento potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di rischio nello sviluppo, a
lungo termine, di un disturbo psichiatrico nel nascituro, considerando che le cellule germinali di
persone in età avanzata hanno una maggior frequenza di alterazioni genetiche contribuendo ad
innalzare il rischio per lo viluppo di patologie psichiatriche (Zammit et al., 2003; Byrne et al., 2003).
Altri studi hanno documentato un’associazione positiva tra complicazioni perinatali e
ostetriche (Tabella 1) e lo sviluppo di disturbi mentali (Compton, 2004). E’stato riportato che tali
complicanze possono provocare danni al Sistema Nervoso Centrale compromettendo il
neurosviluppo, rendendolo più suscettibile a disturbi psichiatrici. Sebbene i rischi di ipossia durante
il parto siano stati molto studiati, più recentemente si sono evidenziati molteplici fattori che possono
rappresentare dei fattori di rischio per i disturbi mentali: emorragie, diabete, incompatibilità Rh,
esposizioni prolungate a radiazioni, carenze nutrizionali e vitaminiche, infezioni in gravidanza e uso
di sostanze psicoattive o di farmaci.
Parallelamente, fattori di rischio similari sono stati riscontrati anche in fase post-natale e
nell’infanzia (Compton, 2004). Di fatto vari elementi patogeni, fra cui infezioni del SNC, carenze
nutrizionali, esposizione a radiazioni, disfunzioni metaboliche e traumi cranici, intervenendo in una
fase del neurosviluppo ancora molto sensibile, possono aumentare la vulnerabilità per i disturbi
psichiatrici.
Interessanti sono i risultati che riportano una relazione tra stagione di nascita, ambiente di
crescita e l’incidenza dei disturbi mentali. Nel dettaglio, questi studi riportano che durante il periodo
invernale e primaverile, l’aumentato rischio di esposizione ad agenti patogeni ed influenzali
potrebbe contribuire a favorire lo sviluppo di infezioni che possono condurre a condizioni di
vulnerabilità verso i disturbi mentali (Mortensen et al., 1999).
Oltre ai fattori di rischio citati, appartenenti prevalentemente al versante biologico, la
letteratura scientifica ha individuato altri fattori di tipo psicologico e socio-ambientale.
Numerosi studi hanno dimostrato che i soggetti con una storia di abuso sessuale e
trascuratezza in infanzia presentano un maggiore rischio di sviluppare sintomatologie psichiatriche o
un peggioramento della prognosi (Kendler et al., 2000).
Ulteriori fattori predisponenti, indagati dalla letteratura, come un’alterata atmosfera familiare
(Arsarnow et al., 1994; Pourmand et al., 2005), modalità comunicative intrafamiliari disfunzionali,
inadeguati stili relazionali tra la figura significativa ed il bambino (Ward et al., 1988), disgregazione
precoce del nucleo familiare ed un ambiente scarsamente stimolante eventualmente associato a bassi
livelli socio-culturali ed economici (Loebel et al., 1992), possono costituire fattori di rischio per lo
sviluppo di diverse psicopatologie (Parker et al., 1982; Parker et al., 1988).
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Quanto brevemente esposto ha messo in evidenza alcuni fattori di rischio che possono
intervenire in periodi, relativamente precoci, della vita dell’individuo, ma come precedentemente
accennato, è stato dimostrato che i fattori di rischio intervengono in diverse fasi della malattia,
assumendo in ognuna di queste un diverso impatto (Figura 1). In altri termini, se i fattori di rischio
come la familiarità e le complicanze ostetriche possono rendere il soggetto maggiormente
vulnerabile alla psicopatologia e facilitarne la comparsa, i fattori che intervengono in momenti
successivi alla prima manifestazione psicopatologica, quali ad esempio eventi stressanti, possono
peggiorare il decorso della malattia e le condizioni di vita del soggetto, facilitando l’incremento di
nuove ricadute e incidendo negativamente sulla prognosi.
A tale proposito, si evidenzia che, nell’ambito della psichiatria, medesimi fattori di rischio
giocano un ruolo variabile, ad esempio predisponente o precipitante, per cui la loro individuazione,
congruentemente agli stadi di malattia e al setting clinico, assume un’importante funzione
diagnostica, prognostica e terapeutica. Sulla base di queste osservazioni si riporta una rapida
rassegna esplicativa dei principali fattori di rischio che possono incontrarsi nelle diverse fasi delle
malattie mentali.
Molte evidenze suggeriscono il ruolo assunto dagli eventi stressanti (Corcoran et al., 2003)
come fattori di rischio che possono intervenire nell’esordio, nelle fasi di riacutizzazione e nelle
ricadute del disturbo.
Altri studi sono stati indirizzati all’influenza delle comorbidità psichiatriche in asse I e in asse
II (Poyurovsky et al., 2003), evidenziando il loro ruolo, come fattore precipitante e/o complicante
contribuendo alla cronicizzazione del disturbo mentale. Nella stessa direzione agiscono le sostanze
di abuso, abitudine largamente diffusa nella popolazione (Veen et al., 2004). In aggiunta, è stato
documentato che la comparsa di disturbi
mentali può essere
preceduta da alcuni sintomi o
manifestazioni psicopatologiche come attacchi di panico e sintomi ossessivo-compulsivi che,
sebbene non soddisfino chiari criteri diagnostici (Gourzis et al., 2002), risultano indicativi di
manifestazioni prodromiche.
Le comorbidità mediche risultano fattori di rischio altrettanto importanti; infatti, la presenza di
malattie organiche può agire su vari livelli, favorendo l’insorgenza di una malattia mentale, ma
anche complicandone l’evoluzione ed il trattamento. Ovviamente, sebbene la comparsa di
comorbidità medica aumenti con l’aumentare dell’età del paziente, è importante sottolineare che
nella pratica clinica molti pazienti giovani con abuso di sostanze spesso presentano complicanze
internistiche.
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I fattori di natura socio-ambientale come il basso status socio-economico (Loebel et al., 1992),
la disoccupazione (Agerbo et al., 2004), lo status d’immigrato (Cantor-Graee & Selten, 2005),
relazioni problematiche in famiglia (Butzlaff & Hooley, 1998), il mancato supporto relazionale
(Agerbo et al., 2004) e socio-ambientale possono concorrere allo sviluppo del problema mentale
come pure possono mantenerlo o aggravarlo.
Infine, è stato riportato che uno dei fattori che concorre ad aumentare il rischio di ricadute sia
da attribuire alla mancata aderenza al trattamento (Weiden et al., 2004). I motivi che conducono ad
una bassa compliance vanno dal tipo di relazione terapeutica scelta e proposta agli effetti collaterali
che si possono manifestare alla negazione da parte degli ambienti in cui il soggetto inserito. In
aggiunta, è stato osservato che la mancata aderenza al trattamento rappresenta una delle cause
maggiori del fenomeno del “revolving door” (Haywood et al., 1995; Sullivan et al., 1995).
Nel complesso i fattori di rischio non necessariamente risultano patognomonici o sufficienti per
lo sviluppo di una malattia, tuttavia la loro interazione concorre ad aumentare il rischio di
manifestazione e di mantenimento dei disturbi mentali.
Di recente, particolare interesse ha suscitato lo studio dei marcatori di rischio, che unitamente
alla rilevazione dei fattori di rischio può essere di utile ausilio clinico.
Un marcatore di rischio consiste in un tratto fenotipico (Tabella 2) che riflette un sottostante
processo alterato, il quale unitamente ad altri fattori potrebbe concorrere a predire la vulnerabilità.
Alcuni marcatori sono stati osservati in soggetti affetti da disturbi mentali, nei loro familiari, come
pure in soggetti altamente a rischio. Fra i marcatori maggiormente studiati troviamo alterazioni
strutturali e di funzionamento del SNC, deficit neurocognitivi, alterazioni neurofisiologiche e deficit
di identificazione olfattoria ed anomalie dermatoglifiche (Compton, 2004). E’auspicabile che in
futuro si possano individuare degli endofenotipi utilizzando i marcatori di rischio come elementi di
ricerca obiettivabili.
A questo punto risulta legittimo chiedersi quale metodologia potrebbe favorire il collegamento
tra tali evidenze scientifiche e la pratica clinica. A nostro avviso, considerata la potenziale ricaduta
delle conoscenze sui fattori ed sui marcatori di rischio nella gestione del paziente, lo strumento che
faciliterebbe tale processo, è l’utilizzo di un’accurata raccolta anamnestica.
Purtroppo, le informazioni anamnestiche non sempre ricoprono un ruolo in termini di ricaduta.
Molte volte tali dati vengono raccolti in modo inadeguato o addirittura omessi; in aggiunta il valore
di queste informazioni tende ad essere sottostimato e in taluni casi addirittura ignorato (Guttmacher
et al., 2004). A tale proposito, solo una risoluta ed informata presa di coscienza dell’utilità clinica di
tali fattori potrà ridurre le barriere che intervengono in questo processo. E anche quando il paziente,
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o i suoi familiari, non saranno in grado di fornire queste informazioni, tenere presente le evidenze
scientifiche, consentirà un tentativo “mirato” di intervento.
In conclusione, raccogliere accurate informazioni sui fattori di rischio bio-psico-sociali, con
l’ausilio di strumenti di neurocognitività, neuroimaging e biologici, è il primo passo per poter
operare, anche nell’ambito della salute mentale, secondo un’ottica preventiva. Tale processo
prospettivo è spesso trascurato in presenza di disturbi mentali di cui si presume l’immodificabilità,
ma risulta necessario per operare in appropriati termini diagnostici, prognostici e terapeutici.
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3. PREVENZIONE SECONDARIA
3.1
La prevenzione nella salute mentale
Una comprensione degli elementi che concorrono allo sviluppo ed al mantenimento dei
disturbi mentali è il presupposto che sta alla base dei processi preventivi.
I processi preventivi generalmente sono stati catalogati su tre livelli: primario, secondario e
terziario. Tradizionalmente, la prevenzione primaria coinvolge strategie di promozione della salute
mentale e specifici interventi protettivi, indirizzati a ridurre l’influenza di alcuni fattori nello
sviluppo di problemi psicopatologici e comportamenti disadattivi. In questo contesto, gli interventi
usuali comprendono l’utilizzo di processi informativi e/o formativi, direttamente e indirettamente
rivolti a popolazioni target, come pure alla popolazione generale. I processi di prevenzione
secondaria e terziaria, generalmente, vengono approntati nei confronti di soggetti che presentano già
un problema psicopatologico e gli interventi, differenziandosi per setting clinici, prevedono la cura
e la riabilitazione del paziente psichiatrico.
Partendo dalla conoscenza dei fattori di rischio e dei marcatori di rischio attualmente
descritti in letteratura emergono un numero di potenziali aree di prevenzione in ambito psichiatrico
(Compton, 2004). Sulla base di questi presupposti e con l’intento di indirizzare tali interventi su
specifiche popolazioni target (Hasler et al, 2004), la prevenzione può assumere nuove ed utili
applicazioni. In quest’ottica la prevenzione primaria, oltre ai tradizionali intenti sopraccitati,
potrebbe sostenere quella secondaria, avviando degli interventi preliminari che concorrano a
facilitare il riconoscimento di situazioni a rischio. Coerentemente con questo approccio la
prevenzione secondaria potrebbe favorire una precoce identificazione e trattamento, non solo della
malattia in corso, ma anche dell’incipiente disturbo mentale che, ad esempio nell’ambito delle
psicosi maggiori, potrebbe avviarsi già a partire dallo stadio premorboso e dei prodromi
sintomatologici.
Sulla base di queste premesse la prevenzione secondaria assume un ruolo cruciale
nell’intervento dei disturbi mentali. Infatti, se da una parte si presuppone che un adeguato
trattamento possa favorire gli outcome, è altrettanto vero che una precoce individuazione di un
disturbo latente, prima della comparsa della malattia, possa sortire un’importante impatto d’esito e
prognostico, cruciale per la salute del paziente. A tale proposito, alcuni autori hanno suggerito
l’utilizzo di screening precoci indirizzati a valutare la presenza di fattori biologici (Compton, 2004;
Hasler et al, 2004) che, unitamente a fattori psico-sociali potrebbero influire sulla vulnerabilità ai
disturbi mentali. Conseguentemente, individuata una popolazione che si potrebbe definire ad “alto
rischio”, l’attivazione di interventi selettivi potrebbe svolgere una duplice funzione; da una parte
14
consentirebbero di modificare/attenuare i fattori di rischio sfavorevoli alla salute mentale del
soggetto e dall’altra incrementare i fattori protettivi e le risorse individuali, al fine di “contenere” la
vulnerabilità alla psicopatologia.
Da quanto riportato si potrebbero evidenziare due importanti obiettivi d’intervento della
prevenzione secondaria: il primo indirizzato a gruppi ad alto rischio psicopatologico per favorire
una precoce rilevazione del disturbo mentale, e il secondo indirizzato ai pazienti che presentano i
criteri diagnostici per i disturbi psichiatrici.
Tuttavia, sebbene recenti evidenze abbiano riportato dei dati sull’early detection and
intervention delle psicosi e a livello teorico sarebbe auspicabile raggiungere entrambi gli obiettivi,
riteniamo che già riuscire a migliorare la gestione del paziente che presenta un disturbo
psicopatologico e afferisce ad un servizio clinico, potrebbe rappresentare un importante traguardo di
prevenzione secondaria. In questo contesto, il miglioramento dei processi diagnostici dovrebbe
rappresentare la condizione imprescindibile per poter adottare un adeguato programma terapeutico.
Tale processo potrebbe beneficiare di un approccio olistico e multiprofessionale che, unitamente ad
un’anamnesi strutturata in cui raccogliere tutti i fattori di rischio evidenziati dalla letteratura e
all’utilizzo delle innovazioni strumentali (una strutturata batteria di indagine neuropsicologica,
tecniche di neuroimaging e screening biologici) possano favorire una migliore diagnosi, prognosi e
trattamento.
3.2
Aspetti diagnostici, prognostici e terapeutici
In un’ottica di prevenzione secondaria, il presupposto su cui orientare l’agire clinico consiste
nel miglioramento delle procedure diagnostiche. Tale processo, condotto in termini accurati fin
dalla prima visita, potrebbe portare ad una serie di benefici condivisi, ciò inevitabilmente
conduce ad una riflessione sulla necessità di riorganizzare le strutture di salute mentale,
considerando le limitate risorse di personale e di tempo.
Un’approfondita raccolta anamnestica, comprendente una consapevole rilevazione dei
fattori di rischio, rappresenta il punto di partenza del processo diagnostico. In precedenza è stata
dimostrata l’influenza di tali fattori sull’esordio dei disturbi mentali (Figura 1). Pertanto, in
termini di prevenzione secondaria, un’attenzione particolare dovrebbe essere posta ai fattori
predisponenti e ai fattori precipitanti del disturbo mentale.
In questo contesto dovrebbe assumere un certo rilievo l’anamnesi familiare, non solo per i
disturbi psichiatrici, ma anche rispetto ad altre malattie organiche che potrebbero correlarsi o
15
avere un’influenza sui disturbi mentali. Nel contempo l’anamnesi personale dovrebbe procedere
favorendo la rilevazione di tutti i problemi bio-psico-sociali del paziente. Infatti, è stato
dimostrato che la presenza di comorbidità psichiatriche e mediche (Pincus et al, 1999; Iosifescu
et al 2003; Marder, 2004; Perez & Tardito, 2002) complica notevolmente la diagnosi, la prognosi
ed il trattamento del paziente. Nella medesima direzione sarebbe opportuno proseguire con
un’accurata anamnesi farmacologia, fondamentale per la scelta del programma terapeutico.
Nel processo di questo percorso diagnostico, un importante supporto viene fornito
dall’utilizzo di una batteria di scale di valutazione diagnostica. La letteratura fornisce un ampio
panorama di strumenti di valutazione, tuttavia la loro scelta non dovrebbe essere casuale. Di fatto,
come suggerito dalle evidenze scientifiche, la scelta delle scale di valutazione dovrebbe
comprendere interviste che favoriscano l’individuazione della diagnosi psichiatrica secondo
criteri condivisi, il calcolo di severità della malattia, possibilmente specifica per il problema in
oggetto e la rilevazione del livello di funzionamento personale-globale. In aggiunta, come
accennato precedentemente, quei pazienti che presentano fattori di rischio di origine biologica,
quali ad esempio la familiarità positiva o le complicanze ostetriche, potrebbero trarre un utile
aiuto dalla valutazione neuropiscologica, neuromorfologica e dagli screening biochimici. Tutti
questi strumenti risultano di grande ausilio, in quanto, oltre a favorire il processo diagnostico,
concorrono a monitorare nel tempo il trattamento e a fornire degli indici misurabili dell’esito
dell’intervento globale.
Quanto esposto mette in evidenza che le informazioni raccolte secondo una metodica
approfondita ed articolata assumono non solo un utile valore diagnostico-clinico, ma anche un
importante indicatore prognostico.
Come suggerito (Zimmerman et al., 2004), nella scelta degli psicofarmaci, ovviamente previa
conoscenza delle condizioni generali del soggetto, ci si dovrebbe riferire all’anamnesi familiare e
personale e si dovrebbero attentamente valutare tollerabilità, effetti collaterali, aspettative del
paziente e costi.
Non possiamo non considerare il ruolo che sta assumendo la farmacogenetica nella scelta
terapeutica (Malhotra et al., 2004). I dati attualmente disponibili suggeriscono che attraverso
queste metodiche nel prossimo futuro sarà possibile individualizzare il piano terapeutico,
aumentando la possibilità di risposta e diminuendo gli effetti collaterali. In questo contesto
diversi gruppi europei, finanziati dal sesto programma quadro (integrated project) della
commissione europea stanno cercando di ampliare le conoscenze di farmacogenetica e di
traslarle nella quotidianità clinica. Nel frattempo diversi studi hanno affrontato il problema degli
16
effetti collaterali. Un aspetto, da noi ampiamente condiviso, è che alcuni effetti collaterali dei
farmaci potrebbero essere evitati aumentando le conoscenze sulle evidenze provenienti dalla
ricerca e dall’osservazione clinica. La conoscenza di questi risultati suggerisce, in accordo con la
nostra linea di pensiero, che un’anamnesi familiare e personale accurata potrebbe essere un
valido strumento per evitare gli effetti collaterali, quali problemi di tipo metabolico,
cardiovascolare, endocrino e neurologico, che si manifestano spesso con quadri discinetici. In un
recente lavoro (Marder, 2004) sono state fornite le linee guida che, sebbene talvolta possano
apparire semplici e scontate, in realtà risultano di grande impatto clinico per il management del
paziente. Sarebbe auspicabile, quindi, che, prima di formulare la scelta terapeutica e/o nel corso
del trattamento, si conducessero indagini come ad esempio l’ECG, la valutazione cardiologica, la
valutazione dei parametri biochimici (glicemia, triglicerdi, ecc.), le valutazioni nutrizionali e la
valutazione dei paramentri ematologici, facendo in modo che essi entrino nella quotidianità
clinica non solo per determinare gli esiti del trattamento, ma anche per decidere quale terapia
possa essere la più adatta. Anche una volta intrapresa la decisione terapeutica, apposite linee
guida per la valutazione dei rischi e dei benefici associati ad un processo terapeutico dovrebbero
essere predisposte e seguite. In altre parole, se, da un lato, un trattamento farmacologico può
riportare il paziente ad un buon funzionamento psicosociale, dall’altro può anche produrre
importanti complicazioni mediche, per cui in questa complessa interazione risulta ancora
difficile comprendere, nell’ambito della quotidianità clinica, il confine, anche dal punto di vista
legale, tra ciò che è rischio (effetti collaterali) e ciò che è beneficio (risposta terapeutica).
Dovrebbe ormai essere chiaro che, un’accurata conoscenza del soggetto e l’ausilio di
trattamenti combinati potrebbero concorrere a fornire risposte di cura adeguate ai bisogni dei
nostri pazienti.
17
4.
PREVENZIONE TERZIARIA
La prevenzione terziaria prevede interventi mirati che hanno appunto il fine di prevenire, in
pazienti già inseriti in percorsi terapeutici, eventuali ricadute, elementi di comorbidità, atti suicidari,
vagabondaggio. Gli obiettivi consistono nel reinserimento sociale e lavorativo del paziente, nel
compattamento delle nuove problematiche che sorgono negli ambienti familiari, lavorativi e sociali
in cui i pazienti sono inseriti e nel mantenimento del livello di funzionamento raggiunto.
Le modalità risultano essere interventi strutturati attuati in corso di malattia, che mira
all’attenuazione dei sintomi, migliorando così la compliance alla terapia e minimizzando la
mortalità, il drop-out, implicando, quindi, la riduzione dell’impatto a lungo termine e del carico del
disturbo.
In un’ottica preventiva di tipo terziario è necessario considerare che la raccolta anamnestica
deve essere orientata verso una rivisitazione ed eventuale conferma della diagnosi precedentemente
formulata, il miglioramento della prognosi e del trattamento. Per ottenere questo risultato, al
momento della presa in carico del paziente, non si può prescindere dalla raccolta di un’accurata
anamnesi, che permetta di individuare gli aspetti salienti della storia di malattia del soggetto, e gli
eventuali fattori di rischio bio-psico-sociali che possono aver avuto un ruolo nelle ricadute della
malattia o quelli che potrebbero influenzare in modo negativo il decorso della patologia. Risulta
fondamentale, inoltre, avere a disposizione una dettagliata indagine sulla storia dei trattamenti del
paziente che, coerentemente ad un attento esame delle eventuali comorbidità mediche e
psichiatriche, può essere uno strumento utile per orientare le considerazioni del clinico sulla scelta
terapeutica.
Occuparsi di prevenzione terziaria significa, dunque, cercare di diminuire la sofferenza del
paziente e dei suoi familiari, creando condizioni di vita migliori, favorendo l'inserimento sociale ed
intervenendo sulla comunità al fine di sensibilizzare e migliorare la percezione del fenomeno della
patologia mentale. Nel dettaglio, le opzioni di intervento nell’ambito della prevenzione terziaria,
comprendono: 1) il trattamento farmacologico; 2) interventi di tipo psicoeducativo e psicosociale,
utili ai pazienti e alle loro famiglie per imparare come trattare la malattia in modo più efficace, per
apprendere l’uso di strategie di problem solving e di gestione efficace dello stress, la prevenzione
delle ricadute e come migliorare il funzionamento sociale; 3) la riabilitazione sociale, per favorire il
recupero delle abilità quotidiane-occupazionali e la reintegrazione dei pazienti nella comunità.
18
4.1
Aspetti diagnostici, prognostici e terapeutici
A differenza della prevenzione secondaria che mira 1) ad una diagnosi accurata fin dalla
prima visita 2) all’identificazione precoce del disturbo, la prevenzione terziaria ha lo scopo di
confermare la diagnosi effettuata in precedenza. Per formulare un’accurata prognosi ed impostare
un trattamento che risulti individualizzato, costruito sulle reali necessità del paziente, un programma
di prevenzione terziaria dovrà quindi prevedere la raccolta di un’accurata anamnesi, che indaghi la
storia familiare del paziente, i precedenti disturbi dei soggetti, la modalità in cui questi sono stati
trattati e la loro risposta ai trattamenti.
Il processo anamnestico, anche dopo l’esordio della patologia, deve approfondire, comunque,
tutti quei fattori, biologici, psicologici e sociali, che costituiscono un rischio per le ricadute della
patologia, allo scopo di migliorare il decorso della malattia. Tra questi, la familiarità per patologie
di importanza medica e le relative comorbidità mediche sono di fondamentale importanza (Marder,
2004; Sokal, 2004). Tali aspetti complicano il quadro clinico del paziente, peggiorano la qualità
della vita delle persone che ne sono affette e procurano alti costi socio-asistenziali (Meltzer, 2002;
Newcomer, 2004).
La comorbidità con l’uso di sostanze e alcool e con le patologie di asse II è spesso la più
frequente tra le comorbidità psichiatriche negli individui con severi disturbi mentali
(Menezes,1996). Le comorbidità complicano il decorso della patologia, la risposta al trattamento e
l’outcome; per questo motivo l’individuazione e il trattamento specifico delle condizioni
patologiche concomitanti rappresentano un elemento essenziale del management del paziente. Uno
dei fattori più influenti nell’aumentare il rischio di ricadute è la mancata compliance al trattamento
(Weiden, 2004), spesso inficiata dai numerosi effetti collaterali dei farmaci e da altri fattori, quali
la cognitività, che vanno ad accentuare il fenomeno del “revolving door” ( Sullivan, 1995). Questi
tre fattori, la compliance, gli effetti collaterali e le ricadute, sono infatti in rapporto circolare tra
loro e si influenzano a vicenda.
In letteratura si è dimostrato che il miglioramento dell’insight e la consapevolezza di
malattia da parte del soggetto rappresenta un utile strumento per favorire la motivazione al
trattamento e, di conseguenza, la compliance (Lysaker, Bell, 1995). Il tema della mancanza di
insight (lack of insight) appare, tuttavia, molto controverso; se da un lato, come sottolineato, esso
favorirebbe la compliance al trattamento, non si possono non considerare quei dati che sottolineano
come una maggiore consapevolezza di malattia aumenti il rischio di sviluppare depressione post19
psicotica (PPD) e l’influenza che esso può avere sul rischio di suicidio in una patologia quale la
schizofrenia (Iqbal, et al., 2000). Probabilmente solo ulteriori ricerche potranno fare luce su questo
argomento.Tuttavia, l’aspetto non può essere trascurato.
Accanto all’indagine clinica, la valutazione del funzionamento personale e globale
dell’individuo si rivela di grande utilità. A tale proposito, possono essere utilizzati strumenti
finalizzati ad individuare le capacità dell’individuo nell’adempimento delle proprie attività
giornaliere e nell’assolvimento dei bisogni personali. La riabilitazione psichiatrica non può
prescindere da questi aspetti, e dunque presuppone una serie di interventi volti a ridurre la severità
del quadro psicopatologico, a migliorare la qualità della vita del paziente, attraverso un eventuale
reinserimento socio-lavorativo e un recupero funzionale nelle attività quotidiane e nelle relazioni
interpersonali (Liberman, 1988).
Individuare un piano terapeutico adeguato, migliorare il quadro psicopatologico, monitorare
accuratamente il decorso della patologia e controllare gli eventuali fattori di rischio, sono validi
strumenti applicabili in un approccio di prevenzione terziaria, sia per diminuire il rischio di ricadute
sia per evitare nuove ospedalizzazioni. In quest’ottica, risultano necessarie misure di valutazione
ripetute le quali potrebbero rappresentare dei validi strumenti per intervenire precocemente sul
numero e sulla severità delle recidive, ma anche per consentire all’equipe riabilitativa di affinare il
programma terapeutico sulle reali esigenze del paziente, tenendo conto, per esempio, delle
limitazioni cognitive che potrebbero delimitare l’utilizzo di strategie complesse (Lukoff, 1997).
La riabilitazione psichiatrica, quindi può essere definita intervento specifico, sulla disabilità
conclamata e la cronicità, ma può essere concepita anche secondo una visione
più ampia
indirizzandosi verso una più corretta riappropriazione dell’identità psicosociale del paziente
(Liberman et al., 1997). Per cui, in sintesi, la letteratura ha evidenziato che gli interventi da attuarsi
nell’ambito della prevenzione terziaria, dovrebbero essere indirizzati a:
- Ridurre l'aggravamento della malattia attraverso l’identificazione di un’accurata diagnosi,
ponendo particolare attenzione alle comorbidità psichiatriche, mediche e all'instaurazione di una
adeguata terapia;
- Aumentare la compliance ed il monitoraggio degli effetti collaterali;
- Riabilitare il soggetto secondo un approccio psico-sociale;
- Intensificare il supporto familiare.
Terapia Adeguata
Per favorire una maggiore efficacia dell’intervento, la scelta del piano terapeutico deve
risultare individualizzata e personalizzata in base alle esigenze del paziente. In particolare, per
20
quanto riguarda la scelta farmacologica, per superare la complessità psicopatologica caratterizzante
le patologie croniche, risulta fondamentale eseguire un accurato assessment, clinico, funzionale e
cognitivo, anche ripetuto nel tempo, miri ad indagare, con precisione, la sintomatologia presente.
L’indagine, tuttavia, non può prescindere anche da un’attenta raccolta anamnestica che consideri
l’ampio spettro di patologie mediche in comorbidità. Una patologia medica nel paziente psichiatrico,
infatti, può interferire sia durante la formulazione della diagnosi sia sul trattamento del disturbo
mentale e, al tempo stesso, la terapia intrapresa per la cura di quest’ultima può interferire e
peggiorare il trattamento in atto per le patologie mediche in comorbidità (Alexopoulos, 2003).
L’uso di farmaci e le psicoterapie possono agire, non solo su diversi sintomi, ma anche in differenti
fasi di malattia
Molte ricerche hanno dimostrato che l’approccio combinato, che include farmacoterapia e
psicoterapia, risulta essere il più valido nel trattamento di diverse patologie mentali (Karel e
Hinrichsen, 2000; Areàn e Cook, 2002). Tali modelli, prendono in considerazione i bisogni di cura
specifici di ogni soggetto e, in base alle informazioni ottenute, valutano quale, tra i diversi
trattamenti disponibili, risponde meglio alle esigenze del soggetto, al suo livello di funzionamento e
ai suoi bisogni di cura (Lenroot, 2003). In particolare queste tipologie di approccio mirano a
reintegrare il paziente nel suo contesto, combinando l’apprendimento di abilità personali con un
adeguato supporto ambientale.
La mancata compliance è uno dei più importanti fattori per le ricadute che sono molto
frequenti nei pazienti con disturbi psichiatrici cronici (Marder, 1998). Spesso le ricadute sono
causate da interruzioni della terapia, dovute, in alcuni casi, agli effetti collaterali indotti dai farmaci
assunti. Gli effetti collaterali molte volte portano a conseguenze piuttosto sgradevoli, sia per il
paziente che per la sua famiglia, le quali generano rifiuto sociale e riducono le possibilità di un
reinserimento socio-lavorativo dei pazienti. Tali conseguenze possono tradursi in disturbi cognitivi,
trascuratezza e disabilità sociale.
Gli effetti collaterali non sono gli unici fattori che possono influenzare la mancata
compliance alla terapia:
Fattori intrinseci:

La diagnosi psichiatrica

La personalità del paziente

La percezione soggettiva del bisogno di assumere i farmaci

Il tipo di sintomatologia
Fattori estrinseci:

Le difficoltà delle modalità d’assunzione della terapia
21

Il tipo di relazione medico-paziente (“alleanza terapeutica”)

L’ambiente terapeutico

Variabili socio-demografiche
Negli ultimi anni diverse ricerche hanno cercato di individuare fattori clinici importanti per
il miglioramento del profilo degli effetti collaterali e, di conseguenza, della compliance. In questo
contesto l’anamnesi familiare si è dimostrata di grande utilità. E’ stato, infatti, riportato che pazienti
con familiarità positiva per disturbi del movimento hanno un rischio più elevato di sviluppare tale
sintomatologia dopo trattamento con antipsicotici tipici, e in alcune situazioni con antidepressivi di
nuova generazione. Un altro importante sviluppo è stato dato dalla dimostrazione di come altri
agenti esterni come il fumo e la dieta, alterando il funzionalismo epatico attraverso interazioni con i
citocromi, possono influenzare pesantemente la biodisponibilità e di conseguenza la
farmacodinamica degli psicofarmaci (De Leon, 2004; Mori et al., 1999). Per ultimo riteniamo che
gli studi di farmacogenetica che si sono dimostrati di potenziale interesse nella scelta di uno
psicofarmaco potranno, nel prossimo futuro, giocare un ruolo indispensabile nella scelta
individualizzata delle terapie farmacologiche
Riabilitazione Psicosociale
L’approccio psicoeducativo è un trattamento a lungo termine, che in un’ottica collaborativa
tra la famiglia del paziente e l’équipe clinica, si propone di favorire il monitoraggio del paziente
durante tutto il decorso della patologia, di facilitare l’individuazione dei primi segnali di ricaduta, di
ridurre l’onere della famiglia e di aumentarne il supporto al paziente (Mueser et al. 2004). Questo
intervento, che trova un’applicazione individuale e/o di gruppo, si basa sul presupposto che
l’informazione, fornita al paziente e ai familiari, giochi un ruolo fondamentale nel trattamento del
soggetto. Le informazioni fornite si riferiscono al tipo di malattia contratta dal soggetto e alle
modalità di assistenza e di cura. Questo approccio si rivela particolarmente utile in quanto,
facilitando la comunicazione e il problem solving, favorisce l’implementazione delle competenze
del paziente e ne migliora l’integrazione sociale (Mueser, et al. 2004,). Negli ultimi anni diversi
studi suggeriscono l’efficacia di tale approccio nei pazienti con patologia psichiatrica cronica.
(Pitschel-Walz 2001). Partendo dal presupposto che "ogni paziente affetto da una malattia cronica
necessita di adeguate istruzioni che lo mettano in grado di gestirla e di convivere al meglio con
essa", l'aspetto psico-educazionale risulta un’importante parte costitutiva dell'intervento terapeuticoriabilitativo. Ciò presuppone che gli operatori della salute mentale siano accuratamente formati ed
aggiornati su tale approccio e sui concetti evidenziati dalla ricerca per consentirne la traslazione
nella pratica clinica quotidiana.
22
Oltre all’intervento psicoeducazionale, diversi studi hanno dimostrato l’efficacia della
terapia cognitivo-comportamentale (TCC), la quale, attraverso l’uso di tecniche di auto-rinforzo,
strategie di interazione sociale e training assertivo, problem solving, ristrutturazione cognitiva
(cambiamento dei pensieri negativi e delle assunzioni che mantengono i comportamenti
problematici), ripristina e aumenta il numero di esperienze positive, concorrendo a migliorare il
livello di funzionamento globale del paziente psichiatrico. La durata di applicazione della terapia
varia in genere dai tre ai dodici mesi, a seconda del caso, con frequenza settimanale. In questo tipo
di intervento sia il terapeuta che il paziente giocano un ruolo attivo: il primo lavora insieme al
paziente per stabilire gli obiettivi e concordare il piano terapeutico; il paziente, invece, si adopera
per mettere in pratica nella vita quotidiana, ciò che ha appreso durante le sedute. Questo tipo di
approccio prevede che entrambi gli attori lavorino insieme per comprendere e sviluppare strategie
utili alla risoluzione dei problemi del paziente, modificando abitudini di pensiero disfunzionali e le
relative reazioni emotive-comportamentali, che risultano essere causa di disagio e sofferenza.
Compito del terapeuta è anche quello di monitorare periodicamente il trattamento al fine di
constatare il raggiungimento degli obiettivi prefissati e i relativi progressi. Numerosi studi in
letteratura hanno dimostrato l’efficacia di questo tipo di intervento soprattutto per depressione ed
ansia (Otto & Deveney, 2005; Wetherell et al., 2005; Colom & Vieta, 2004; Hollon et al., 2005).
In aggiunta, recenti studi sono stati indirizzati a valutare l’efficacia di terapie neurocognitive
e cognitive, attraverso l’utilizzo di training computerizzati. A tale riguardo, sarebbe auspicabile che
tali approcci, provenienti dalla ricerca, vengano utilizzati, dopo adeguata formazione del personale
e acquisizione di sufficienti finanziamenti, anche in ambito della pratica clinica (Hogarty, et al.
2004).
Altre tecniche riabilitative utilizzano il Social Skills Training (STT), ossia un intervento
psicologico (individuale o di gruppo), derivato della psicoterapia cognitivo-comportamentale e
basato sulle teorie dell’apprendimento umano e sul modello stress- vulnerabilità- copingcompetence. Il SST mira a sviluppare quelle competenze sociali degli individui, che rivestono
un'importanza fondamentale per vivere ed esprimersi in maniera più funzionale nei propri contesti
di appartenenza: familiari, sociali, lavorativi, etc. Attraverso l’intervento SST, i soggetti sviluppano
la capacità di intraprendere un lavoro su se stessi e sulle proprie competenze sociali al fine di
migliorare la propria vita e le proprie relazioni. Questi programmi hanno come obiettivo
l’addestramento di persone con disabilità cronica, allo scopo di favorire la gestione degli aspetti più
invalidanti della malattia e ad acquisire una sufficiente capacità di vita autonomia, in un contesto
sociale non protetto. Un meta-analisi condotta sulla valutazione di 27 studi (Bender & Schroeder,
1990) ha dimostrato l’efficacia dell’intervento SST condotto con pazienti schizofrenici; i risultati
23
emersi, hanno messo in evidenza che la degenza in ospedale dei soggetti diminuiva, le ricadute si
riducevano, gli apprendimenti risultavano significativi, duraturi e generalizzabili in un contesto non
protetto e le abilità sociali risultavano migliorate e consentendo una maggiore adattabilità al
contesto socio-ambientale (Benton & Schroeder, 1990).
Un approccio integrato utilizzato anche in ambito riabilitativo è il “training assertivo”, lo
scopo di questo intervento è quello di favorire una comprensione delle modalità di comportamento
personale, del proprio assetto cognitivo e di favorire l’apprendimento di strategie di comunicazione
sicure ed efficaci. E’ stato dimostrato (Bond, 1988) che questo tipo di training contribuisce a ridurre
i sintomi e le riospedalizzazioni, migliorando la stabilità e la qualità della vita nei disturbi
psichiatrici maggiori.
Come molte terapie a breve termine la Terapia Interpersonale è stata ideata per trattare
episodi acuti e gravi di malattia. L’IPT sostiene che uno stress recente potrebbe essere la causa
dell’insorgenza di un episodio acuto di un disturbo mentale in un individuo vulnerabile o che
l’esordio di malattia abbia generato difficoltà interpersonali in grado di turbare la vita del soggetto.
Le evidenze in letteratura dimostrano che l’IPT è un approccio efficace che garantisce un risultato a
lungo termine nel trattamento dei disturbi mentali, soprattutto se paragonato ad approcci che
utilizzano un numero di sedute limitate (Shapiro et al. 1995).
In conclusione, il numero degli studi nell’ambito delle prevenzione terziaria hanno
evidenziato un ampio panorama di tecniche e terapie. Tuttavia, considerata l’eterogeneità
diagnostica e la complessità dei pazienti inseriti nei setting dediti alla riabilitazione psichiatrica,
molti studi risultano ancora necessari per migliorare gli approcci terapeutici e favorire gli interventi
di prevenzione terziaria.
24
5.
CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE
I presupposti che hanno indirizzato la stesura di questo capitolo nascono dalla crescente
necessità di favorire il processo di traslazione delle evidenze scientifiche nella pratica clinica.
Come delineato nel capitolo, le ricerche scientifiche hanno prodotto una serie di evidenze
che possono rivelarsi di notevole ausilio nella pratica clinica. In aggiunta, progressi strumentali e
metodologici hanno contribuito a fornire importanti supporti diagnostici, prognostici e terapeutici,
dei disturbi mentali.
Ciononostante, solo una maggior consapevolezza di tale acquisizione e l’attenzione al real
world clinico potranno contribuire a migliorare il management del paziente psichiatrico. A tale
proposito, l’ottimizzazione delle procedure diagnostiche e prognostiche risulta la condizione
imprescindibile per migliorare il trattamento in psichiatria.
Trattare pazienti affetti da disturbi mentali presuppone la conoscenza degli aspetti eziologici,
precipitanti e di mantenimento della malattia. In quest’ottica se impariamo a considerare i disturbi
mentali, tenendo presente l’influenza dei fattori di rischio bio-psico-sociali, nuove prospettive
preventive potranno delinearsi.
Sulla base di questi presupposti, la prevenzione primaria potrebbe assumere importanti
implicazioni, in cui avviare un’azione di controllo e di precoce riconoscimento dei fattori di rischio
che favoriscono l’incidenza dei disturbi mentali. In questa direzione, utili ausili potrebbero
provenire dalle indagini genetiche condotte in soggetti con familiarità per le psicopatologie, come
pure dall’implementazione dei controlli in gravidanza e durante l’età evolutiva.
Infine, data l’identificazione di una popolazione definita ad “alto rischio”, coerentemente
con una nuova visione di prevenzione secondaria, il passo seguente presuppone il precoce
riconoscimento e l’attuazione di interventi specifici, indirizzati a prevenire l’esordio di una
psicopatologia incipiente e di modulazione della gravità.
In conclusione, sebbene siamo consapevoli che il processo di traslazione della ricerca nella
pratica clinica sia ancora molto difficoltoso, solo il lavoro congiunto tra ricercatori ed operatori
della salute mentale consentirà di renderlo possibile e di favorire più efficaci e nuove prospettive
preventive anche in ambito psichiatrico.
25
RINGRAZIAMENTI
Questo lavoro è stato supportato dal Ministero della Salute (RC 2005, RF 2003) e dal Sixth
Framework Programme Integrated Project- GENDEP (grant 503428).
Si ringraziano, infine, per il contributo fornito Simona Barreca, Livia Ligorio, Sara Milana,
Laura Milini ed Emanuela Papa.
26
Tabella 1
Fattori che influiscono sul periodo prenatale
Condizioni materne:
-infezioni: rosolia, influenze, herpes simplex, toxoplasmosi ecc.
-carenze di vitamine e sali minerali: vitamina D, acido folico ecc.
-uso di farmaci e sostanze psicoattive
-esposizione a radiazioni
-anoressia durante la gravidanza
-anemia durante la gravidanza
-ipertensione materna
Possibili complicazioni in gravidanza:
-incompatibilità RH
-alterazioni della placenta
-emorragia nel terzo trimestre
-deviazione del ritmo cardiaco fetale
-parto prematuro
-preeclampsia
-basso peso alla nascita rispetto alla settimana di gestazione
-ipossia
Possibili complicazione del parto
-parto podalico
-ipossia
-invasività del parto
-atonia dell’utero
27
Figura 1
Fattori principali coinvolti nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi mentali
PRE-ESORDIO
FATTORI PSICO-SOCIALI
FATTORI BIOOGICI
(Fattori predisponenti)
ESORDIO
(Fattori precipitanti)
•Familiarita’
•Anomalie genetiche
•Complicazioni pre-peri –post natali
•Alterazioni dello sviluppo evolutivo
•Patologie mediche
• Caratteristiche temperamentali
•Condizioni d’abuso e di
maltrattamento
nell’infanzia
•Stile d’attaccamento e
disfunzionale atmosfera
familiare
•Eventi stressanti
POST-ESORDIO
(Fattori coinvolti nel mantenimento o
nella ricaduta)
•Abuso di sostanze
•Complicazioni mediche
•Comorbidita’ medica
•Comorbidita’ psichiatrica
•Effetti collaterali dei farmaci
•Difficoltà di adattamento socio-ambientale
•Status socio-economico
•Migrazione
•Declino scolastico, problemi lavorativi e
disoccupazione
•Mancanza di relazioni significative/emarginazione
•Atmosfera familiare disfunzionale
•Eventi stressanti
•Mancata aderenza terapeutica
28
Tabella 2
MARCATORI di RISCHIO
Chimica
•
•
HVA nel plasma e nel liquido cerebrospinale degli SPD (Disturbi di Personalità Schizotipica)
MAO nelle piastrine degli SPD (Disturbi di Personalità Schizotipica)
Marcatori biologici e neuropsicologici
•
•
•
•
•
•
•
•
Patologie cerebrali, strutturali e funzionali
Anomalie fisiche minori, anomalie dermatoglifiche e lunghezza delle dita
Pensiero allusivo
Deficit neurocognitivi (ad es. deficit dell’attenzione sostenuta)
Segni di disturbi neurologici e neuromotori
Disturbo dei movimenti oculari (di inseguimento lento, saccade)
Indici elettrofisiologici alterati (aumentata latenza e ridotta ampiezza della P300)
Deficit di discriminazione olfattiva
Effetti negativi dei farmaci
•
intervallo QT prolungation alterato
Marcatori di funzionamento sociale
•
•
•
Declinio performances scolastiche/lavorative
Deficit abilità organizzative
Funzionamento sociale (isolamento)
29
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