23 - Comunità dell`Isolotto

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23.02.69 disubbidienti e ribelli? don Milani
Bobina BA016 (al giro 307)
Una chiesa chiusa: simbolo di chi vorrebbe mettere la museruola alla città
(Interventi di: Gabriella Bellucci, Enzo Mazzi, d. Remo Collini parroco alle Caselle di Vicchio,
altre voci non identificate)
Gabriella B.: Siamo davanti alla chiesa, davanti alla porta che ancora rimane chiusa. Per noi questo
fatto è motivo di tormento perché ogni domenica ci ripropone più vivamente, quasi fisicamente, il
fatto della nostra esclusione. Siamo qui per pregare, intimamente uniti gli uni agli altri e tutti
insieme ci porremo oggi questo interrogativo: siamo stati esclusi perché non abbiamo fatto un atto
di obbedienza? Se sfogliamo i giornali che si sono occupati del nostro caso, se ripensiamo ai molti
giudizi delle persone che si sono interessate della nostra esperienza che tuttora stiamo vivendo è
facile, facilissimo imbattersi in questa parola: ribelli. Ricorrono spesso frasi come queste: “preti
disubbidienti”, “popolo ribelle”, “contestatori”, “sovversivi”, eccetera. Insieme alla solidarietà e
compartecipazione di tanti è giunta anche questa specie di valanga fatta di giudizi negativi nei nostri
confronti. Non è che vogliamo difenderci da questi ultimi dicendo che invece i buoni siamo noi e i
cattivi loro, che questi ultimi non ci capiscono o sono malvagi. Non sta a noi fare dei giudizi, né
questo è il momento. E’ nostro dovere invece accogliere le critiche che ci vengono fatte, prendere
occasione da queste per valutare meglio il nostro operato, per chiarire la nostra esperienza alla luce
del Vangelo. Questo è molto importante per noi, per tutti noi che cerchiamo, certo senza riuscirvi
sempre e abbastanza, di essere veramente obbedienti al Vangelo e sinceramente obbedienti anche
alla Chiesa. Cercare di vedere la nostra esperienza alla luce del Vangelo è importante come è
altrettanto importante considerare alla stessa luce del Vangelo le esperienze di altri, i fatti degli
uomini di oggi, tutti gli avvenimenti del mondo. Perché è certo che non siamo soli. C’è tutto un
mondo che è giudicato obbediente e tutto un mondo che è giudicato disubbidiente. Noi siamo tra i
disubbidienti o tra coloro che cercano, anche se non lo sono abbastanza, di essere veramente
obbedienti? Siamo persone che cercano di obbedire alla giustizia, persone che hanno fame e sete di
giustizia come dice il Vangelo oppure persone obbedienti e quindi acquiescenti verso le ingiustizie
e i profittatori di queste? Siamo persone obbedienti alle leggi che creano le divisioni nel mondo, le
approfondiscono, le mantengono oppure le persone che cercano di essere obbedienti e quindi
cercano di seguire quanto vi è di più giusto, di più fraterno, di più umano nel mondo e che
corrisponde da quanto richiesto dal Vangelo? Siamo tra i benpensanti che si sono fatto la cuccia
comoda e calda in mezzo ad un mondo ingiusto oppure persone che, a causa del Vangelo, che non
permette di essere benpensanti, si trovano costrette a trasgredire alle leggi inique dell’oppressione,
della violenza, della divisione, dello sfruttamento, dell’ingiustizia? Domandiamoci questo: i popoli
che stanno male e che non possono essere benpensanti, questi popoli che cercano di liberarsi
dall’oppressione e dallo sfruttamento sono popoli obbedienti o sovversivi? Gli operai che fanno
sciopero per migliorare la loro condizione, gli studenti che contestano la società, i negri che
protestano per rivendicare i diritti di parità sono obbedienti o disobbedienti? Martin Luther King
quando lo mettevano in prigione era perché aveva disubbidito o perché aveva ubbidito? Non certo
perché aveva ubbidito. La sua contestata disobbedienza era davvero disobbedienza o ubbidienza
vera? Don Mazzolari, il parroco trasferito dalla sua precedente parrocchia alla parrocchia di
Bossolo, colpito più volte dall’autorità religiosa e civile e di cui ora, nel decennale della morte,
vogliono trasportare solennemente la salma per darle sepoltura onorata in chiesa, era un obbediente
o un disobbediente? E don Milani? Sono cose che fanno pensare seriamente. Forse si diventa
obbedienti da morti essendo estati disobbedienti da vivi? Evidentemente c’è qualcosa che non torna.
Cerchiamo di vedere queste esperienze e quindi anche la nostra visto che ci giudicano
disobbedienti, alla luce del Vangelo. Nessuno dubiterà che Gesù era ubbidiente anche da vivo:
“ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce”, dice san Paolo. Eppure i capi religiosi e civili del
suo tempo lo hanno ugualmente tacciato di ribelle, di trasgressore della legge, di sovversivo,
persino di bestemmiatore. Siamo in buona compagnia.
Voce femminile: dal Vangelo di Matteo troviamo dei concetti che ribadiscono quanto abbiamo
detto: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti che pagate la decima della menta e del cimino…[Matteo
23, 23-35]
Voce femminile: Come abbiamo detto nel mondo oggi vi sono un gran numero di persone che
disubbidiscono per ubbidire a quanto profondamente credono e perciò non ci sentiamo isolati. Dopo
la lettura del Vangelo leggeremo ancora insieme delle testimonianze dei nostri giorni. Ho qui i
“Sermoni” di Matin Luther King che a un certo momento dice: “Ogni cristiano che accetta
ciecamente le opinioni della maggioranza e per paura e timidezza segue un cammino di adattabilità
e di approvazione sociale è mentalmente e spiritualmente uno schiavo”. E nel corso del medesimo
sermone prosegue: “In questi giorni di confusione universale vi è un tremendo bisogno di uomini e
di donne che diano coraggiosamente battaglia per la verità. E dare battaglia può voler dire
disubbidire, fare una scelta cioè tra quanto è lontano e quanto crediamo più vicino alla verità del
Vangelo”. Questo sermone era intitolato “Alla lettera che Paolo scrisse ai romani, la lettera che poi
terminava dicendo: non siate conformati a questo mondo ma trasformatevi attraverso il
rinnovamento della vostra mente”.
Un’altra testimonianza la riceviamo da quanto scrisse Camillo Torres, il sacerdote colombiano. Nel
primo numero di “Fronte Unido” padre Camillo aveva rivolto questo messaggio ai cristiani: “Le
agitazioni causate dagli avvenimenti politici, religiosi e sociali degli ultimi tempi probabilmente
hanno creato molta confusione nei cristiani della Colombia. E’ necessario che noi cristiani in questo
momento decisivo per la nostra storia siamo fermi alle basi essenziali della nostra religione. La cosa
principale nel cattolicesimo è l’amore al prossimo. Questo amore – prosegue – per essere vero deve
essere efficace.” Ed ecco l’efficacia del suo amore. “Io ho lasciato i doveri e i privilegi del clero ma
non ho cessato di essere sacerdote. Credo di essermi dato alla rivoluzione per amore verso il
prossimo. Ho smesso di dire messa per realizzare questo amore del prossimo sul piano temporale, e
economico e sociale. Quando il mio prossimo non avrà niente contro di me, quando avrò realizzato
la rivoluzione tornerò ad offrire la messa a Dio se me lo permette. Credo così di seguire il mandato
di Cristo”.
Ora leggiamo insieme la prima lettura. [La lettura o non è stata fatta o non è stata registrata.]
Enzo M.: Qualche domenica fa io, vi dissi che questa porta chiusa, questa chiesa chiusa aveva un
significato molto più largo, molto più profondo di quello che non sembrasse. Non si tratta soltanto
di un edificio di mura, chiuso per un periodo di tempo occasionalmente. Ma si tratta di un simbolo:
il simbolo di molte altre cose che sono chiuse per i poveri, per il popolo nella nostra società, sono
impedite. E in particolare oggi noi vorremmo vedere in questa chiesa chiusa il simbolo di una città
che è stata chiusa, di una città a cui da tempo si è cercato di mettere la museruola perché non si
esprimesse con quella vitalità con cui si avviava ad esprimersi. Perché Firenze era, ed è, continua ad
esserlo, nonostante la museruola, una città viva. Molte persone in questa città hanno contribuito a
realizzare questa vitalità. Noi ne possiamo ricordare oggi alcune che hanno dato anche a noi una
grande spinta, che hanno sostenuto fortemente, sempre, per esempio il cardinale Dalla Costa. Il
cardinale Dalla Costa era una persona che ha contribuito molto a dare vitalità alla città di Firenze. E
negli ultimi anni della sua vita hanno cercato di mettergli la museruola, hanno cercato cioè di
rovinare tutto quello che lui aveva costruito, allontanando o mettendo a tacere tutte le persone che
lo circondavano, che da lui prendevano ispirazione. Un’altra persona che ha costituito una fonte di
grande vitalità, di grande esempio e testimonianza per Firenze e per noi è don Facibeni. Anche lui,
negli ultimi tempi, è stato fortemente colpito. Voi sapete che era soprattutto un parroco, un padre, lo
chiamavano “il padre”. Era padre di tutta una zona di Firenze, la zona operaia di Rifredi che
guardava a lui come ad un esempio di Vangelo messo in pratica, come a un Cristo vivente. A questo
don Facibeni, negli ultimi anni della sua vita, gli fu tolta la parrocchia perché insomma sembrava
che lui non fosse capace di mandarla avanti. Gli fu tolta la parrocchia e per lui fu una grande croce
questa. E la zona di Rifredi ora è una zona morta. Un’altra persona che ha costituito per noi, per
tutta Firenze una grande testimonianza, una grande luce, una grande fonte di vitalità è stato don
Milani. Tutti voi più o meno conoscete don Milani: un grande profeta che ha dato la parola al
popolo, ai poveri. Ha detto: prima del pane la parola perché con la parola poi si raggiunge anche il
pane. Senza la parola il pane è un regalo, è una beneficenza cioè senza la dignità, senza la
coscienza. Con la coscienza il popolo arriva a conquistarselo il pane. Senza la coscienza il pane sarà
sempre calato dall’alto e mancherà sempre. Don Milani è stato colpito, perseguitato continuamente.
Sono stati proibiti i suoi libri, sono stati tolti dalla circolazione. Si è tentato in ogni modo di
metterlo a tacere. Si è perfino portato in tribunale. E’ stato anche qualche volta condannato per le
sue idee, per la sua testimonianza alla verità. Ed è proprio a don Milani che oggi in particolare
dedicheremo questa nostra assemblea. Ci sono degli amici che attraverso le opere di don Milani
hanno fatto un’opera teatrale, teatrale per modo di dire, hanno fatto una testimonianza da presentare
a tutti. E loro sono venuti qui in mezzo a noi proprio perché capiscono che la testimonianza di don
Milani è una testimonianza che è molto vicina alla nostra. Sono un po’ una cosa sola, direi, da un
certo punto di vista. Sono venuti qui prima di tutto per portare la loro solidarietà e poi per
presentarci, appunto, questa testimonianza di don Milani perché ci sia ulteriormente di sostegno.
Perché abbiamo bisogno di sostegno. Debbo aggiungere che questi nostri amici anche loro sono
stati colpiti come don Milani perché sono stati denunziati, denunziati perché questo loro lavoro –
dice – è vilipendio alla religione di Stato. Ora noi ascolteremo dalla loro voce le parole di don
Milani e sentiremo e ci renderemo conto se veramente è vilipendio alla religione questa o se invece
vilipendio alla religione sono le parole, gli atti, i gesti di coloro che denunziano, di coloro che
stanno sopra, di coloro che colpiscono continuamente.
[Interruzione per la preparazione alla lettura “don Milani”]
Voce maschile: “L’obbedienza non è più una virtù” ma la più subdola delle tentazioni quando
obbedire è rinunciare a giudicare, è alibi, è rifiuto di responsabilità. Questo è il principio che
informa il pensiero di don Milani, il prete fiorentino morto a quarantaquattro anni di leucemia il 26
giugno 1967. Al vaglio di quel principio egli passerà tutte le istituzioni umane: dalla Chiesa allo
Stato, alla Scuola, alla famiglia. Ebreo di lato materno, borghese di nascita e di educazione, colto,
bello e raffinato. Conseguita a Milano la maturità classica si iscrive a Brera. L’anno seguente è di
ritorno a Firenze dove frequenta le lezioni e lo studio di un pittore locale. Ma è ormai maturo per
una scelta decisiva e a venti anni, nel novembre del ’43 entra nel Seminario della sua città. Non
sappiamo molto sull’origine della sua vocazione: gliela troveremo addosso, schietta e salda tanto da
sopportare l’esercizio quotidiano di quella violenta critica alla società cattolica che molto chiasso
farà intorno al suo nome. Vi è però registrata, in occasione di una intervista, una frase che ci
illumina sul motivo della sua scelta. [ C’è una interruzione dovuta al cattivo funzionamento del microfono da qui
il commento di colui che parla:] La fiducia di don Milani sui mezzi tecnici era molto subordinata: aveva
ragione!
“Quasi solo per quello solo sono cattolico: il perdono dei peccati, per farmeli togliere e per
toglierli.” Della sua fede comunque non si parla quasi mai nelle sue opere giacché “Nessuno scrive
libri o fa conferenze o tiene appassionate discussioni per dimostrare che il giorno c’è il sole e di
notte c’è buio”. Questa fede postulato non implica però l’ossequio incondizionato all’autorità
ecclesiastica, don Milani, anzi, ne rivendica piena indipendenza. Infatti, “La storia della Chiesa è
stata fatta da iniziative di singoli, preti e laici, che poi la Chiesa ha o condannato o approvato. Ecco
perché obbedisco solo dopo il fatto. Ma nessuno potrà contestarmi le idee prese di peso dal Vangelo
e poste come reattivi nel vivo del nostro tempo”. Da idee semplici, ovvie dopo che le ha dette, da
una costruzione mentale logica fino al paradosso, da una prospettiva rigidamente ortodossa, da
metodi di ricerca elementari esce una figura così complessa e originale che sfugge alle definizioni.
Uomo scomodo, a molti sgradito. Non è connivente con nessuno e men che meno con i cattolici dei
quali mette a nudo con mano ferma le millenarie colpevoli debolezze. La sua testimonianza è
affidata ad alcune pubblicazioni: “Esperienze pastorali”, “Lettera a una professoressa”, varie lettere
aperte oltre a un materiale inedito non consultabile. E nasce dall’esperienza quotidiana vissuta, ora
per ora, in mezzo al suo piccolo popolo: ducentosessantacinque case a San Donato, quarantadue
anime a Barbiana. Al suo compito egli si dedica con impegno realistico, né mai pretenderà di
estendere ad altri nuclei sociali a lui sconosciuti, il risultato delle sue indagini. Anche se attraverso
l’esame del suo ristretto campo di osservazione scoprirà realtà di tutti i tempi. L’inizio del suo
apostolato è simile a quello di tutti i giovani preti secolari. Mandato curato a San Donato nel 1947
la sua prima esperienza pastorale è posta in tutta semplicità e buona fede. Ma un muro di silenzio e
diffidenza cresce fra lui e il suo popolo che accetta solo la religione come rito esteriore. Invano don
Milani alza la voce, offende, diffida i suoi parrocchiani dal frequentare in quelle condizioni di
spirito la chiesa. Invano cerca di scoraggiare il suo popolo dal partecipare con gusto pagano alle
processioni e alle feste liturgiche. “Ne ha avute e ne ha – dice con sdegno – anche di civili e le ha
celebrate con identico trasporto senza preoccuparsi troppo se stesse celebrando il solenne passaggio
di un dittatore terreno, o quello di Bartali o del re, l’anniversario della repubblica, la festa dell’Unità
oppure il lancio di un qualsiasi prodotto commerciale. Ma niente cambia. La consuetudine è l’unica
legge di questo popolo trincerato dietro il conformismo per ignoranza e paura: paura ad essere
giudicato, paura di non saper poi difendere un gesto nuovo”. Se non ci fosse il parroco, don Milani
abolirebbe tutte le feste religiose, non crede allo shock psicologico creato dallo splendore esterno
del rito. “Siamo in Toscana -–dice – in una popolazione già di suo estremamente versata per la
critica e in più siamo in terra di comunismo laddove ognuno ha sentito parlare di cose sociali e del
miglior uso del denaro. Allo stesso uscio accatta il camarlingo delle Quarantore e il compagno dei
licenziati della Ginori. Tra le due richieste, in un popolo di poca fede come questo, appare un
divario di vitalità e di dignità che non è certo a vantaggio della prima”. E ancora: “Versare olio
prezioso sui piedi di Gesù non è fatto oggettivamente buono. E’ opera meritoria se chi lo versa sa
chi è Gesù, è offesa ai poveri se non lo sa. Del resto – continua - la cosa è inammissibile anche da
un punto di vista morale perché si pretende che la solennità sia a maggior gloria di Dio ma non è
vero. Ne sono esempio certi splendidi candelieri di legno che abbiamo qui a San Donato. Li
mettiamo attorno al tabernacolo per onorare il Sacramento, ma sono dorati solo dalla patte che
guarda il popolo”. Né si illude col vecchio ritornello: ‘l’importante è che siano venuti, quando poi
sono qui qualche cosa di buono la piglieranno di certo. E poi c’è la grazia!’ “Eh no! – esplode don
Milani - la grazia fulmina un uomo anche sulla via di Damasco e non ha bisogno di fulminarlo sulla
buona via della predica. Chiedere a Dio ogni giorno di questi miracoli strepitosi è cosa buona ma
pretenderli come via ordinaria, farne la giustificazione quotidiana di tanta parte incoerente del
nostro ministero questa è eresia grande come quella di non credere alla grazia. La via ordinaria
dobbiamo ordinarla secondo esperienza e ragione. Mi dicono: lasciamo le feste come sono e
incrementiamo l’istruzione religiosa”. Ma per lui ce n’è fin troppa tra chiesa e scuola. “Più di così ci
pare che un cattolico non potrebbe pretendere dallo Stato. A qualche cattolico di sentimenti
democratici parrà anzi anche troppo. Pure la cultura religiosa degli adulti è quasi nulla o peggio si
condensa in superstizioni. Qual è la causa di questo di questo assurdo formalismo? Tutti i fenomeni
di incoerenza sono, a mio avviso, da attribuirsi alla mancanza di istruzione civile”. A questo punto
la strada di don Milani si fa a senso unico. La forma della sua missione sacerdotale si definisce.
“Per ora non faccio con convinzione altro che scuola. La scuola, in questo popolo e in questo
momento, non è uno dei tanti modi possibili ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né
meno di quel che non sia la lingua per i missionari in Cina”. E apre la sua casa agli scolari. Per
quale scuola ? Una concezione organica e precisa don Milani morente la maturerà insieme ai suoi
ragazzi in “Lettera a una professoressa”. Ma chiaro e leale è fin da principio il suo atteggiamento.
“Ragazzi, io vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio solo per darvi l’istruzione e che
vi dirò sempre la verità di ogni cosa sia che faccia comodo alla mia Ditta sia che le faccia
disonore.” E infatti in tanti anni di scuola popolare non ha mai giudicato che ci fosse bisogno di
farci anche dottrina. “Ho badato solo a non dire stupidaggini, a non lasciarle dire e a non perdere
tempo. Poi ho badato a edificare me stesso: ad essere io come avrei voluto che divenissero i
ragazzi.” Chiaro lo scopo dell’iniziativa: “Colmare il livello culturale tra classe e classe. Il che non
rappresenta un’utopia. La prova è questa: oggi un avvocato e un ingegnere godono di un livello
culturale, quindi umano, dal quale il popolo è totalmente tagliato fuori e umiliato. Ma tra loro due
si parlano da pari a pari quantunque l’ingegnere non sappia nulla di avvocatura e viceversa. La
parità umana è dunque ben compossibile con un totale dislivello in cultura professionale ed è data
dalla parità comune di una cultura generale. In questa cultura generale il fattore determinante è – a
mio avviso – la padronanza della lingua e del lessico. Ad una cultura così intesa si può ben portare
il povero senza che per questo si avveri la catastrofe prevista dall’infame apologo di Menenio
Agrippa. Non si tratta infatti di fare di ogni operaio un ingegnere o di ogni ingegnere un operaio ma
solo di far sì che l’essere ingegnere implichi automaticamente l’essere anche più umano. Si
raggiungerebbe così uno dei traguardi civili: colmare l’abisso di differenza fra classe e classe”. Per
favorirlo don Milani enuncia, sembrerebbe paradossale, “la necessità di ordinare le nostre scuole
parrocchiali con criteri rigidamente classisti. Si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni
gratuite di minestre? Il classismo in questo senso non è dunque una novità per la Chiesa. E se un
giorno con la scuola classista si sarà riusciti a colmare il dislivello sarà tolta all’odio di classe gran
parte della sua ragione d’essere. Ma il classismo della scuola del prete non deve limitarsi al
contrasto tra le due classi tradizionali. Entro la classe dei poveri c’è ancora modo di fare dell’altro
classismo. Per esempio i montanari a scapito dei campagnoli, i campagnoli a scapito dei cittadini, i
contadini a scapito degli operai e in ognuna di queste sottoclassi innalzare il meno dotato
intellettualmente a scapito dei geni. L’esatto contrario di quanto va programmando il governo: borse
di studio ai più dotati. Queste sono cose da lasciarsi fare ai nazisti, ai sovietici, agli americani, a
tutti quelli che vivono per l’efficienza e che nell’efficacia dei loro atti pongono l’unica ragione di
vita, non noi. E nemmeno lo dovrebbe fare un partito che si fregia del nome di cristiano. Non noi
che abbiamo come unica ragione di vita quella di contentare il Signore e dimostrargli di avere
capito che ogni anima è un universo di dignità infinita”. E si butta nella scuola, con lo slancio e il
rigore del neofita. Carezze e pedate, scenate e disciplina, pranzo e cena: tutto è scuola e per tutto il
giorno. Il libro di testo più importante è il giornale. Con quello si imparano la storia, la geografia, le
lingue, nozioni di ogni genere. Attraverso quello si vive inseriti nel nostro tempo, su quello si
esercita il nostro senso critico. Il primo tema da vagliare è il mondo borghese, un mondo in agonia
che Dio sta forse accecando per castigarlo per avere troppo e male usato l’intelletto oppure di non
averne fatto parte agli infelici. Primo bersaglio da colpire è la cultura borghese, espressione e
patrimonio di quel mondo, cultura alla quale non sfugge nemmeno l’insegnamento del Seminario. I
sacerdoti vengono, tramite l’educazione comune a tutti gli intellettuali, integrati nel sistema così da
rispettarne le ideologie, l’ambiente, le esigenze, il razzismo e spesso anche gli interessi. Questa
cultura non sta bene nella formazione mentale di un prete. E soprattutto non è roba che si può
offrire decentemente ai poveri. Ci troverebbero, accanto a indiscutibili valori, anche un immenso
bagaglio di cose a loro inutili, a loro inferiori, a loro dannose, spesso ostili, spesso incomprensibili,
sempre mancanti di tatto, quasi sempre false di fronte a quella realtà della vita quotidiana che il
povero conosce molto meglio del letterato. Chi crede nella vocazione storica dei poveri a diventare
classe dirigente senza perdere la propria personalità e i propri doni vorrà offrire loro una cultura
entitativamente diversa da quella che usa o, meglio ancora, offrirà loro solo il materiale linguistico,
lessicale, logico, che occorre per fabbricarsi una cultura nuova che con quell'altra non abbia più
nulla a che vedere". Al fine di creare le premesse per questa nuova forma di cultura, analizza e
seziona quella borghese. Scompone il meccanismo che crea la suggestione e recupera gli elementi
base. Smonta prima di tutto se stesso. Si apre, si mostra, si fa cavia, si spoglia di ogni privilegio.
Musica, teatro, cinema, bellezze naturali, cose tanto amate, bruciano davanti ai suoi occhi febbrili
per la causa dell'eguaglianza. C'è una intransigenza spietata nel furore sacro di questo prete che vive
fuori di sé, proiettato negli altri. Condanna come il peggiore degli egoismi il godere da solo di beni
intellettuali che egli traduce per un fine immediato e pratico ai suoi ragazzi: acquisire concetti per
tener testa ai padroni, per essere loro pari. E così di tutto lo scibile umano rifugge nell'insegnamento
da qualsiasi tecnicismo, da qualsiasi specializzazione. Spreme i concetti base, l'essenziale, perché
nessuna parola possa disorientare e mettere in stato di inferiorità il povero e perché egli apra la
mente e il cuore. Potrà dire di loro con orgoglio: "Si sono affacciati al mio mondo; sono ormai di
quelli che le ispettrici scolastiche chiamano spostati. Sì, spostati per sempre; non torneranno più
indietro". Dalla cultura borghese deriva una mentalità borghese: veleno sottile che ha afferrato
anche la Chiesa schierando il clero dalla parte dei padroni quando non è esso stesso padrone. La
questione del prete-padrone è ancor oggi vivissima in Toscana. Ed è forse il capitolo più grave. Sia
che si esamini la cosa come origine remota e prossima del comunismo de popolo, sia come origine
di scadimento del sentimento evangelico e sociale del clero. E l'accusa si fa circostanziata. "La
grande maggioranza dei parroci che hanno poderi sono iscritti alla Confederazione Generale
dell'Agricoltura. Eppure è Associazione di parte, anzi di classe, anzi positivamente intesa per la
lotta di classe". Per quanto riguarda il possesso di oggetti utili ma costosi don Milani è severo coi
preti ed è dell'avviso che essi non debbano mettersi in casa niente che non possono avere anche tutte
le famiglie, non una esclusa, del suo popolo. Del resto la sua fiducia nei mezzi tecnici è sempre
subordinata. "Si dice, per esempio, che un motore permette di arrivare prima e in più parti. Quindi
con un motore si fa più bene. Questa è una eresia. Nessuno può dare di più di quello che ha. Se il
motorizzato è un imbecille, il motore farà arrivare prima e in più parti un imbecille, oppure un prete
con poca grazia. Se è un santo prete non avrà la superbia di credere che la propria moltiplicazione
possa giovare al Regno di Dio e il motore gli brucerà sotto il sedere. Giacché massimo bene è
possedere quella cattedra ineccepibile che è la povertà, unica cattedra dalla quale si potrebbe dire al
mondo sociale e politico qualche parola nostra in cui nessuno ci abbia preceduto. Purtroppo la
mentalità borghese inquina anche l'animo popolare che si è adulterato nella corsa al benessere, al
lusso, al divertimento". E don Milani col solito scrupolo tocca con mano le piaghe dei poveri.
"Prima fra tutte la schiavitù della consuetudine di gara per cui negli eventi pubblici, e così son
diventate anche le cerimonie più intime e religiose come prima comunione e matrimonio, l'unica
preoccupazione è ben apparire, sorprendere con i cortei di macchine e banchetti con numeri folli di
invitati, mostrare lusso di mobili, il motore e l'abitudine ai divertimenti, mentre il libro è ancora
quasi del tutto sconosciuto. E non si pensi che l'ostacolo sia negli alti prezzi del libro, perché una
coppietta di giovani sposi rinciviliti potrebbe risparmiare centomila lire sul lusso dello sposalizio e
allinearsi in casa una bibliotechina di cento volumi". E indaga: "Perché ha comprato il motore?
Imprevidenza, leggerezza, mancanza di ideali, di educazione, di cultura, ma questa appunto è la più
grande povertà dei poveri. E non è certo a loro che va rinfacciata bensì ai più provveduti. Voler
bene al povero, proporsi di metterlo al posto che gli spetta vuol dire non solo crescergli i salari ma
crescergli il senso della propria superiorità , mettergli in cuore l'orrore di tutto ciò che è borghese.
Voler bene ai poveri vuol dire fare scuola di idee più sane, vuol dire far loro capire che il vanto di
un povero non è quello di scimmiottare per un giorno le parate antisociali degli oppressori e poi
ritornare il giorno dopo nella schiera anonima degli oppressi e brontolare sterilmente contro il
mondo ingiusto. Il mondo ingiusto l'hanno da raddrizzare i poveri. E lo raddrizzeranno solo quando
l'avranno giudicato e condannato con aperta e sveglia coscienza come può averla il povero che è
stato a scuola." Altro che il diritto di prendere il posto dei padroni in uno sterile avvicinamento di
classi, sostituendo nuovi padroni a vecchi padroni. E quale “responsabilità per gli intellettuali
religiosi e non, che non si fanno scrupolo di adulterare la verità con la scusa che il popolo non può
intendere, perché il popolo è inferiore, il popolo è infante. Per parlargli bisogna abbassarsi fino a
lui, scaldargli la pappina, perché non ha i denti per il pane, a un popolo che è cristiano da venti
secoli. E volete continuare ad evangelizzarlo stando al piano di sopra? Ma non sarò io a
consigliarvi di scendere fino a lui. Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con i
pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo. Questo però significa tutto il contrario di ciò che fa
la Chiesa a cominciare dagli oratori parrocchiali dove l’unico obbiettivo finisce con l’essere,
nell’intento di togliere i giovani dalle Case del Popolo comuniste, la ricreazione. Se una notte
qualcuno scrivesse sulla porta del Ricreatorio ‘luogo per il metodico sperpero di uno dei più grandi
doni di Dio: il tempo’, cosa gli vorreste fare?” E passa in rassegna tutte le attività ricreative che
hanno stimolato nel clero una affannosa quanto inutile corsa all’aggiornamento, corsa che ai tempi
di ‘Esperienze Pastorali’ si era fermata solo alle soglie delle sale da ballo, ora abbondantemente
superate. Metodico, divide questa attività in quattro gruppi. Primo gruppo: ricreazioni con malizia
propria oltre quella della sterilità. Ed elenca: cinema, radio e televisione, almeno come vengono
programmati per ora, mettendo sullo stesso piano spettacoli immorali a cui spesso anche il cinema
parrocchiale indulge per ragioni di concorrenza e spettacoli classificati buoni, anche se stupidi, dai
bollettini parrocchiali, e che per don Milani sono ancora più nocivi e immorali dei primi. E
sentenzia con durezza: “Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti.
Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti. Lo schierarsi di qua o
di là di questa barriera è per il prete decisione ben grave”. L’elenco e la deprecazione continuano.
Appartengono sempre al primo gruppo il gioco con interesse. Del resto il gioco a carte è “la quinta
essenza della bestemmia del tempo”. Il tifo sportivo, “disperazione dei disperati che non hanno altra
ricchezza interiore” e il bar “incentivo diseducativo a spendere. Nei bar solennemente inaugurati e
benedetti dall’Arcivescovo si vendono veleni o vizi di gola o calorie troppo care”. Anche per i
fumetti ha parole di fuoco. E non distingue quelli cattolici dagli altri vistosamente proibiti dai
pulpiti delle chiese “poiché entrambi esaltano senza riserva la violenze, l’omicidio, rappresentando
la morte, pilastro su cui poggia tutto l’edificio della nostra fede, come un macabro scherzo”. Nel
secondo gruppo, ricreazioni cattive solo perché sterili, egli mette i discorsi futili, il chiasso
inconcludente e l’assistere a competizioni sportive, cose che spesso il prete, magari suo malgrado
sopporta, pur di accattivarsi la simpatia e il benvolere di tutti. “Ma dove è scritto che il prete deve
farsi voler bene? Io al mio popolo ho tolto la pace ma non si può dire che non ne ho elevato gli
argomenti di conversazione e di passione. Ho insegnato anche a chi mi darebbe fuoco, e in
contraccambio io devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello
che essi credevano di imparare da me sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro
solamente a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Sono loro che mi hanno avviato a
pensare alle cose che sono scritte in questo libro. Sui libri delle scuole io non le avevo trovate. Le
ho imparate mentre le ho scritte e le ho scritte perché loro me le avevano insegnate”. Nel terzo
gruppo, ricreazioni inutili alla salute, si chiede se siano necessarie. “Nessun contadino o manovale o
montanaro o pescatore o pastore, che sono da soli il settanta per cento dei bambini del mondo, può
avere bisogno di aria pura. Anche tra i nostri giovani operai, quelli che ora mancano qui a San
Donato, sono ben pochi, perché quando appena il tempo lo permette, tutti vanno a lavorare in
bicicletta. E’ forse utile per gli studenti? Se lo studente, in quelle due ore prescritte dal medico,
vangasse negli appositi orti, otterrebbe lo stesso scopo fisiologico meglio che col pallone, e in più ci
guadagnerebbe tanto la sua formazione morale e politica”. Per quanto riguarda il quarto gruppo,
ricreazioni buone perché istruttive come spettacoli o mete turistiche, don Milani non avrebbe
obbiezioni e le catalogherebbe con entusiasmo sotto il capitolo scuola. Ma purtroppo constata che il
criterio dell’obiettività non precede mai a questa scelta. Concludendo: “Piegarsi sulla piaga della
ricreazione, studiarla, capirla, averne pietà, comprensione, sì questo è ancora sacerdotale e di questo
potrete dire di me che non l’ho saputo fare. Ma organizzarla noi la piaga, questo non sarà
sacerdotale mai”. Finita la requisitoria intorno alla ricreazione, don Milani passa a considerare la
sua influenza sul prete stesso. “Non impunemente si passa ore, giornate e anni a discutere o
occuparsi di cose futili o anche solo a tollerarle intorno a sé. Ci si ritrova alla fine di qualche anno
in una paurosa vuotezza di pensiero e di cognizioni: non si imparano a conoscere il problemi del
mondo del lavoro, non si medita sull’opportunità di risolverli, si vive in un mondo artificiale, si ha
bisogno di ferie e di distrazioni, si gioca al totocalcio. Abbiate pietà di voi. Come volete che si
soddisfi un adulto colto e intelligente a passare la vita tra i balocchi dei ragazzi, in guerricciola con i
comunisti, a discutere di calcio coi giovinastri da poco? Non c’è da meravigliarsi se poi al prete
viene voglia per esempio di pigliar moglie, farsi una famiglia tutta sua, da tirarsi su come vuole lui,
qualcosa di concreto, di stabile, con degli affetti che non cadono al primo colpo di vento”. Nel ’54
muore il vecchio parroco, tanto caro al cuore di don Lorenzo. E vengono i giorni tristi della
destinazione a Barbiana, una frazione di Vicchio, nel Mugello. La Curia ha riaperto per lui una
piccola chiesa abbandonata, in una zona quasi disabitata. Lo hanno promosso priore. Una canonica
addossata alla chiesina, sette o otto case sparse a perdita d’occhio, prive di strada, di acqua, di luce.
Ma non una parola di ribellione esce dalla bocca del prete contestatore. Si devono discutere idee e
istruzioni, ci si deve compromettere in faccia all’Autorità per amore degli altri, ma quando la
Chiesa comanda si ubbidisce senza replicare. “Amo i miei superiori e confratelli fino al lasciarli
infangare il mio onore a loro piacimento. Tu non sapresti dirmi come amarli di più” – scrive ad un
amico. E ancora: “A me i figlioli li hanno strappati di dosso con una brutalità che non ha pari. E non
parlo dei cinquanta chilometri che hanno messo tra loro e me e che non sono niente, ma del
disonore e del sospetto che sono un isolante ben più grave”. Ma i ragazzi di San Donato imparano
subito la via di Barbiana. E ancora oggi, ogni domenica, la percorrono alla spicciolata dai vari posti
di lavoro per ritrovarsi con i ragazzi di Barbiana anche loro ormai esuli, riuniti intorno alle due
lunghe tavole a volta a volta di pranzo e di studio. Anche Eda, per vent’anni perpetua di don
Lorenzo, torna a Barbiana, la domenica, a preparare pranzo e cena ai figlioli del priore, dice, e
ammicca a Benito il matto e a Marcello il bel bambino ritardato, i prediletti del priore, dice, e ad
ogni frase le si gonfiano gli occhi. La presenza del priore è certo vivissima lì dentro. E’ in quel
sentirsi subito fratelli, seduti alla stessa tavola, accolti senza diffidenza né cerimonia, né forzature.
Ma c’è aria ferma d’attesa, c’è nostalgia nella scuola disarmata, nella chiesa vuota e spalancata, nel
paesaggio deserto fin giù al piccolo cimitero panoramico dove biancheggia una piastra troppo
grande. Chi sa cos’era il senso della Comunità quando c’era quest’uomo nella sua casa sempre
aperta! Non voleva che si chiudessero gli scuri nemmeno a notte alta perché ogni passante si
sentisse invitato. Ha voluto persino morire alla presenza della sua Comunità, una Comunità senza
gerarchia, senza imposizioni, dove l’estraneo che entrava era uno fra tanti ma subito inserito, eguale
ma sovrano e aveva subito una funzione: o imparare o insegnare, qualunque cosa e chiunque fosse,
con tutti i suoi limiti, visti e accettai da tutti come ciascuno di noi accetta la propria mano. Solo il
pettegolezzo, il gioco e l’animosità erano banditi e l’ipocrisia, i falsi pudori, le reticenze e la
superbia e l’avarizia intellettuali.
Voce maschile: Lettura dal Vangelo di San Luca. [La lettura non è registrata]
d. Remo C.: Sono un prete fiorentino, del Mugello. Sono venuto a farvi atto di solidarietà e di
amicizia. Devo ringraziare veramente tutto quello che voi avete fatto e anche tutta l’attività
parrocchiale, la Comunità dell’Isolotto, quella che avete voi mostrato. Anche a me personalmente
(avete dato) perché ha maturato in me tante cose che probabilmente non sarebbero mai venute fuori
e di questo debbo ringraziarvi. Per quello che possa capire, nella vostra vita di Comunità cristiana,
voi mi avete fatto vedere come essa sia spontanea e libera. C’è spontaneità e libertà. Purtroppo nelle
nostre, diciamo parrocchie, non chiamiamole neanche comunità, nelle nostre parrocchie, nel nostro
cristianesimo, manca la spontaneità. (C’è) In genere qualche cosa di artefatto e una costruzione già
fatta che ci si trova addosso appena si nasce, e tutta la vita del cristiano è un qualche cosa di
artificiale, che scatta a tempo: magari la messa la domenica, magari un certa frase in una certa
determinata situazione che dopo non vuol dire nulla perché non è vissuta e detta perché si deve dire.
E così di seguito. Voi, almeno, a quello che mi pare, avete dimostrato di avere una spontaneità
cristiana. Il Vangelo lo vivete dal di dentro e dal di dentro di voi, concrete persone nel mondo
concreto di oggi, nei problemi che vi pressano. E anche questo riunirvi insieme è un atto di
spontaneità, di vita evangelica. Dunque è veramente vita cristiana. E questo è stato un esempio
grandissimo per me, per me come uomo personalmente, e per me come parroco, perché io devo
cercare di più di riportare l’ambiente dove vivo - che è purtroppo tendente ad un tradizionalismo,
ambiente contadino - devo riportarlo a questa spontaneità. La seconda cosa è la libertà che voi avete
mostrato, una libertà che è veramente libertà cristiana, la libertà di essere quello che si deve essere
quando siamo chiamati dalla Parola di Dio, di fronte a tutto e di fronte a tutti. E in questo caso
debbo dirvi che, almeno a mio parere, voi non siete dei disubbidienti ma degli ubbidienti perché
avete preso per metro del vostro agire e del vostro comportarvi da cristiani, nella vostra Comunità e
nell’insieme della Chiesa, avete preso per metro il Vangelo. Ed è questo importante. Voi obbedite al
Vescovo in una maniera egregia proprio perché vi regolate secondo il Vangelo. Non importa di
dirvi che nessun cristiano dovrebbe avere l’idea del Vescovo che è stata presentata dal Procuratore
della Repubblica quando ci fu l’introduzione dell’anno giudiziario, perché quello non è un Vescovo,
quello è un Magistrato della Chiesa, come è stato presentato in quella maniera. Il Diritto Canonico
potrà essere utile anche alla Chiesa per mantenere l’ordine pubblico della Chiesa ma non sempre
l’ordine pubblico della Chiesa corrisponde al Vangelo. In certi momenti, in quello attuale, quello
che veramente può dare un ordine, una unità, una vitalità alla Chiesa secondo Cristo, è il Vangelo.
Credo che nessuno di voi penserà che il Vescovo sia il Magistrato della Chiesa come il Procuratore
della Repubblica è il Magistrato della Repubblica. Il Vescovo è qualche altra cosa. Il Vescovo va
giudicato e visto, ascoltato, obbedito col Vangelo. E voi avete , col vostro atteggiamento, cercato di
far capire a me, agli altri cristiani, a voi stessi e al Vescovo che anche lui, con la sua autorità, la sua
autorità la può trovare solo quando apre il Vangelo e ci vive dentro perché il Vescovo, in quanto
vero Vescovo della Chiesa di Dio, è qualcosa che emerge dal Vangelo e non può emergere da altre
cose, neanche dal Diritto Canonico, tanto meno dalle parole del Procuratore della Repubblica. Io
non credo che ci sia bisogno di dire altro. Tanto più che è stato detto tanto. E’ stato detto tanto
soprattutto di don Milani. Io sono anche un po’ borghese, mi vergogno, e qui dietro mi grattavo la
testa perché mi pentivo di me stesso, perché mi sono sentito tanto borghese, tanto da mettermi sotto
terra. E mi pento - forse non ero ancora preparato a farlo, sono un po’ privatista di carattere – di non
aver mai incontrato troppo spesso don Milani, nonostante sia stato molto vicino a lui e sia tuttora
nell’ambiente perché sto nella zona di Vicchio, e nonostante che don Milani, tutte le volte che
faceva qualche atto riguardante la vita dei preti e della Chiesa, mandasse un pretino a parlarne
proprio con me, a sentirne il mio parere. Chi sa perché! Oltretutto non c’ero mai stato a trovarlo e
egli davo contro. Il bello è questo, anche. Bene, io non ho altro dirvi. Di nuovo vi ringrazio
veramente. Quello che vi chiedo è che continuiate: questo per voi e per la Chiesa fiorentina, che
continuiate a guidare la vostra vita sia di singoli cristiani sia di Comunità cristiana sempre
riflettendo voi stessi sul Vangelo perché è l’unico verso per essere quello che dobbiamo essere. Al
momento che subentri al Vangelo qualche altra cosa allora la nostra stessa testimonianza scade,
perde di valore, non è più una testimonianza valida, non è più un fermento nella Chiesa di Dio.
Grazie.
[Una voce chiede nuovamente di fare una lettura dal Vangelo di Luca. La lettura non è registrata.]
Voce femminile: Sul tavolino che è alla vostra sinistra si continua a raccogliere le firme per la
corresponsabilità con tutti coloro che sono stati denunciati. Inoltre devo comunicarvi che tutte le
sera, sempre, dalle sei alle otto, ci ritroviamo alle Baracche Verdi di via degli Aceri per parlare
insieme, discutere tutto quello che avviene. Mercoledì sera, alla nostra riunione, ci saranno gli
avvocati, i magistrati e quindi vi preghiamo di intervenire numerosi perché sarà molto interessante.
Ora ci sono qui dei nostri amici di Castel Pusterlengo che vogliono parlarci.
Voce maschile: Dire pochissimo soprattutto. Dunque noi veniamo dalla Diocesi di Lodi. Non so se
conoscete dove si trova, in provincia di Milano. Siamo un gruppo di amici, di ragazzi e di ragazze,
c’è con noi anche un sacerdote che vuole portare la propria e la nostra testimonianza alla vostra
assemblea. Dobbiamo dire una cosa molto semplice. Ci avevano detto che se fossimo venuti qui
all’Isolotto avremmo incontrato gente molto alla buona, avremmo forse scoperto qualcosa di nuovo.
Effettivamente noi abbiamo scoperto che la vostra Comunità ha una fede che noi non conosciamo.
E veramente venendo qui ci sentiamo estremamente poveri perché da noi veramente la Chiesa è
qualcosa che non riusciamo a comprendere. Invece qui, con voi, almeno questa è la mia esperienza
e penso che corrisponda a quella degli altri amici e delle altre amiche, proprio d’aver scoperto una
Chiesa che si apre sul Vangelo, una realtà veramente nuova che credo anche possa essere una svolta
storica nella nostra esperienza italiana. Quindi noi soprattutto vogliamo ringraziarvi per quello che
ci avete donato e vogliamo pregarvi di continuare anche se la nostra collaborazione sarà purtroppo,
per ora, fatta a parola. Però ci vogliamo impegnare nell’ambiente in cui viviamo, nelle nostre
parrocchie, a far sorgere qualche nuova testimonianza e quindi poter allargare la vostra stessa
esperienza. E’ tutto quello che vogliamo dirvi: ringraziarvi veramente di cuore perché ci avete
donato tante, tante cose questa mattina..
Voce femminile: Ringraziamo i nostri amici. Ed ora per finire canteremo tutti insieme “Noi ce la
faremo”.
[Viene eseguito il canto].
(Il resto della prima parte della bobina è vuota. Nella seconda parte (coda rossa)Inizia la registrazione dell’assemblea del2 marzo 1969)
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