Amministrazione Provinciale di Siena Regione Toscana Università degli Studi di Siena – Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti Fondazione Monte dei Paschi di Siena Carta archeologica della provincia di Siena Direzione scientifica di Riccardo Francovich e Marco Valenti Volume IV Alessandra Nardini Chiusdino © copyright 2001 by Provincia di Siena Piazza del Duomo I-53100 Siena Isbn 88-7145-182-1 I edizione: Dicembre 2001 Pubblicazione a cura dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione e alle Culture Assessore: Gianni Resti Coordinamento editoriale: Antonio De Martinis Realizzazione editoriale: nuova immagine editrice, via San Quirico, 13, I-53100 Siena e-mail: [email protected] Stampa: Industria Grafica Pistolesi - Siena In copertina: Probabile particolare del finimento da cavallo. Castello di Miranduolo, rinvenimento di superficie. (foto di Vittorio Fronza) Indice pag. I Il contesto territoriale 1. Caratteri geomorfologici 2. Uso del suolo e caratteristiche insediative in età moderna II Storia degli studi 1. La ricerca archeologica 2. La ricerca storica 3. Gli studi su San Galgano e sull’abbazia cistercense III L’edito archeologico e le fonti d’archivio. Tendenze insediative e prime ipotesi sul potenziale archeologico 1. Le fonti archeologiche: un trend negativo 2. Le fonti archivistiche: un contributo per la ricostruzione della topografia storica fra X e XIV secolo 3. L’utilizzo della documentazione d’archivio IV L’indagine sul comune di Chiusdino Introduzione 1. Obiettivi dell’indagine 2. Impostazione dell’indagine sul campo: la scelta delle aree campione 3. L’indagine sul campo 4. Categorie di lettura delle emergenze di reperti mobili in superficie 5. Il trattamento delle foto aeree 6. Analisi del deposito archeologico in elevato 7. Il raddrizzamento fotografico V La ceramica 1. Tipologia degli impasti VI Schedario topografico VII La diacronia del popolamento 1. La preistoria 2. Il periodo etrusco. La fase di colonizzazione 3. Il periodo romano. La rarefazione della maglia insediativa 4. Alto Medioevo 5. Medioevo VIII Atlante Cronotipologico delle murature 1. I campioni 2. Cronotipologia delle murature 3. Tecniche costruttive nel territorio di Chiusdino Appendice. L’abbazia di San Galgano e Siena. Per una storia dei rapporti tra i Cistercensi e le città (1256-1320) 1. Premessa 2. I Cistercensi camarlenghi del Comune di Siena 3. I Cistercensi e l’Opera del Duomo 4. I Cistercensi amministratori dell’Opera 5. La gestione dei mulini dell’Opera del Duomo a Foiano sulla Merse 6. San Galgano, casa del Comune di Siena 7. I Cistercensi e la vita pubblica tra il 1290 e il 1320 8. L’Opera del Duomo e i Cistercensi tra il 1290 e il 1320 9. I mulini sulla Merse e gli altri beni dell’Opera del Duomo 10. Conclusioni Bibliografia Progetto «Carta Archeologica della Provincia di Siena» Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti - Università degli Studi di Siena Assessorato alle Culture - Provincia di Siena - Assessore: Gianni Resti Direzione scientifica: Riccardo Francovich Segreteria scientifica: Marco Valenti Coordinamento - Provincia di Siena: Antonio De Martinis Redazione: Alessandra Nardini con la collaborazione di Silvia Quattrini e Federico Salzotti Testi: Marie Ange Causarano Barbara Lenzi Alessandra Nardini Laura Neri Schede: Tutte le schede sono di Alessandra Nardini, tranne schede nn. 29, 56, 58, 103, 105, 110, 111, 112, 113, 114, 138, 144, 145, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157 di Alessandra Nardini e Marie Ange Causarano, nn. 51, 53, 57 di Marie Ange Causarano, n. 161 di Filippo Cenni, nn. 32-33 di Fabio Gabbrielli. Elaborazioni GIS del territorio: Federico Salzotti Elaborazioni GIS di scavo: Alessandra Nardini, Silvia Quattrini e Veronica Semeraro Modellazioni 3D ceramica e territorio: Frank Salvadori Tavole di raddrizzamenti fotografici: Barbara Lenzi Tavole tecniche murarie: Marie Ange Causarano Fotografie: Ermanno Betti Ringraziamenti: Attilio Galiberti, Roberto Farinelli, Luciana Bartaletti, Andrea Conti, Antonio De Martinis, Vittorio Fronza, Carlo Tronti, Luca Isabella, Laura Rossi, Alberto Mignani, Benjamin Tixier, Mirko Montelatici, Pierpaolo Pocaterra, Luca Mandolesi, Maria Elena Cortese, Luisa Dallai, Alessio Salvini, Siria Panichi. I - IL CONTESTO TERRITORIALE 1.Caratteri Geomorfologici Il comprensorio comunale di Chiusdino, situato a sud-ovest di Siena, occupa il settore centro-occidentale della Toscana meridionale, per un’estensione complessiva di 141,85 kmq. Confina a nord-ovest e nord-est rispettivamente con Radicondoli e Sovicille, a sud-ovest con Montieri, a sud-est e sud con Monticiano e Roccastrada. I limiti amministrativi non definiscono un ambito geografico-morfologico omogeneo e unitario. La porzione centrorientale del comune, a carattere prevalentemente pianeggiante e basso collinare, rappresenta la zona medio-alta del bacino idrografico del fiume Merse e del Feccia (affluenti dell’Ombrone rispettivamente di destra e di sinistra); un lungo tratto del confine orientale del comprensorio è demarcato proprio dal primo dei due fiumi. Il paesaggio si modifica progressivamente fino ad assumere un carattere più prettamente alto collinare e montuoso, procedendo verso le porzioni estreme del comune; i versanti nord-est e sud-ovest coincidono infatti, l’uno con le ultimi propaggini della Montagnola Senese e l’altro con il sistema dei rilievi collinari delle Colline Metallifere. Una tale variabilità paesaggistica è strettamente connessa all’evoluzione paleogenetica. In seguito al processo distensivo verificatosi a partire dal Miocene superiore (dopo la sequenza di eventi di corrugamento collegato a una tettonica di tipo essenzialmente compressivo), ebbe luogo un totale cambiamento della paleogeografia della Toscana meridionale, terminato con la formazione di depressioni tettoniche (Graben) e di strutture positive (Horst). Le prime, favorendo l’ingressione del mare, si trasformarono in bacini marini nei quali si depositarono sedimenti argilloso-sabbiosi e subordinatamente conglomerativi; le altre invece costituirono delle dorsali. Nel Pliocene medio, il generale sollevamento della regione (in parte ancora attivo) determinò il ritiro del mare e, nel Neogene, si formò quello che i geologi contraddistinguono come Bacino di Chiusdino: una depressione tettonica separata da aree più sollevate identificabili, sul lato orientale, con la cosiddetta Dorsale Monticiano-Roccastrada e, sul lato occidentale, con le Colline Metallifere. Dal punto di vista morfologico, le aree del Bacino di Chiusdino, connesse agli affioramenti di terreni poco resistenti ai processi erosivi, corrispondono, a eccezione del fondovalle, alle zone più depresse e si presentano come rilievi tipicamente collinari. Le aree al margine del bacino, costituite da rocce più resistenti, sono formate da rilievi a carattere tendenzialmente montuoso (anche se le altitudini raramente superano i 500 m s.l.m.), con forti dislivelli e pendenze dei versanti in corrispondenza delle incisioni vallive. Anche la geologia del territorio chiusdinese propone un’estrema variabilità; si articola in 13 sottotipi riconducibili a cinque formazioni originarie principali: per facilità di consultazione, nel testo faremo quindi riferimento al gruppo litologico di appartenenza mentre nelle tabelle verranno mantenute le informazioni di dettaglio (fig.2). Litotipo % Detriti e discariche 5,6% Depositi alluvionali 17% Travertini e calcari organogeni 1,6% Argille 16% Argille e argille sabbiose con intercalazione 5,2% Sabbia con intercalazioni di argille e ciottoli Conglomerati poligenici con intercalazione 12% Flysh prevalentemente arenacei 0,04% Flysh prevalentemente argillitici 17,4% Rocce carbonatiche massicce 0,36% Rocce carbonatiche brecciate 7,2% Rocce silicee 8,8% Ofioliti 1,5% 7,2% Tabella riassuntiva della distribuzione percentuale delle diverse formazioni geologiche presenti nel comprensorio (le percentuali sono relative alla superficie totale del comprensorio) L’incrocio fra le caratteristiche morfologiche e quelle geo-litologiche permette di individuare quattro unità paesaggistiche (descritte nella fig.3). Habitat A – Si estende per una superficie complessiva di 12,5 kmq, pari a 8,8% della superficie totale del comprensorio. Descrive le aree pianeggianti di fondovalle e, geologicamente, corrisponde agli areali di affioramento dei depositi alluvionali recenti e terrazzati, posti ai margini dei maggiori corsi d’acqua. Questi spazi si concentrano per lo più in prossimità del Feccia e dei suoi affluenti e, in adiacenza del corso inferiore del fiume, formano le piane alluvionali del Piano di Feccia e del Piano di Papena. Lungo il tracciato del Merse, nel tratto compreso fra l’abbazia di San Galgano e il confine occidentale del comune, sono presenti altre aree pianeggianti, definite da depositi alluvionali prevalentemente terrazzati associati a depositi travertinosi. Litotipo Estensione % Detriti e discariche 0,2 kmq 1,6% Depositi alluvionali 7,2 kmq 57,6% Travertini e calcari organogeni 0,5 kmq Argille 1,3 kmq 10,4% Argille e argille sabbiose con intercalazione di sabbie, ghiaie e gesso 1 kmq Sabbia con intercalazione di argille e ciottoli 1,8 kmq 14,4% Conglomerati poligenici con intercalazione 0,5 kmq 4% di sabbia, argille e brecce 0,5 kmq 4% 8% 4% Geologia dettagliata riconosciuta nell’habitat A (le percentuali indicate sono relative all’estensione complessiva della formazione nell’intera superficie comunale) Habitat B – Si estende per una superficie complessiva di 39,2 kmq, pari a 27,6% della superficie totale del comprensorio. Descrive le aree a carattere tipicamente collinare e corrisponde geologicamente ai terreni argilloso-sabbiosi del bacino neogenico di Chiusdino. Occupa la parte centrale del territorio ed è caratterizzato da una serie di piccole colline, con quote comprese fra i 340 e i 400 m s.l.m., poste in successione continua. Litotipo Estensione % Detriti e discariche 0,9 kmq 2,3% Depositi alluvionali 6,6 kmq 16,8% Travertini e calcari organogeni 1,3 kmq Argille 15,4 kmq 39,3% Argille e argille sabbiose con intercalazione di sabbie, ghiaie e gesso 3,3 kmq Sabbia con intercalazione di argille e ciottoli 3,3 kmq 8,4% Conglomerati poligenici con intercalazione di sabbia, argille e brecce 6,6 kmq 16,8% Flysh prevalentemente argillitici 1,5 kmq Rocce carbonatiche brecciate e/o vacuolari (cavernose) 0,1 kmq 0,3% Rocce silicee 0,2 kmq 0,6% 3,3% 8,4% 3,8% Geologia dettagliata riconosciuta nell’habitat B (le percentuali indicate sono relative all’estensione complessiva della formazione nell’intera superficie comunale) Habitat C – Si estende per una superficie complessiva di 31,3 kmq, pari a 22,1% della superficie totale del comprensorio. Descrive le aree di passaggio ai primi rilievi e occupa la porzione a sud di Frosini, quella a ovest di Chiusdino e le zone circostanti Luriano. Rappresenta un’area d’interfaccia fra l’habitat B e l’habitat D, individuata prevalentemente in base all’aspetto morfologico; si configura, infatti, come una serie di piccoli rilievi che segnano il passaggio graduale fra il paesaggio di tipo collinare e quello montuoso. Anche per quanto riguarda i litotipi, mostra elementi di ‘transizione’ fra i due habitat. Rimane pressoché inalterata la percentuale dei depositi alluvionali e aumenta in modo non significativo quella dei conglomerati; decresce la percentuale dei terreni argillosi in favore di altri più resistenti, quali flysh e rocce, caratteristici delle aree montuose dell’habitat D. Litotipo Estensione % Detriti e discariche 2,2 kmq 4,7% Depositi alluvionali 4,9 kmq 15,7% Travertini e calcari organogeni 0,5 kmq 1,6% Argille 6,2 kmq 19,8% Argille e argille sabbiose con intercalazione di sabbie, ghiaie e gesso 2,9 kmq 9,3% Sabbia con intercalazione di argille e ciottoli 2,6 kmq 8,3% Conglomerati poligenici con intercalazione di sabbia, argille e brecce 6,4 kmq 20,4% Flysh prevalentemente argillitici 3 kmq 9,6% Rocce carbonatiche brecciate e/o vacuolari (cavernose) 2,6 kmq 8,3% Ofioliti 0,01 kmq 0% Geologia dettagliata riconosciuta nell’habitat C (le percentuali indicate sono relative all’estensione complessiva della formazione nell’intera superficie comunale) Habitat D – Si estende per una superficie complessiva di 58,9 kmq, pari a 41,5% della superficie totale del comprensorio. Descrive aree a carattere tendenzialmente montuoso; corrisponde ai terreni preneogenici della Dorsale Medio-Toscana e delle Colline Metallifere e, in subordine, dei terreni mio-pliocenici calcareoconglomeratici. Sul versante occidentale insiste sulle propaggini orientali del sistema delle Colline Metallifere. Le pendenze e i dislivelli sono rilevanti e le altitudini dei maggiori rilievi superano spesso i 600 m s.l.m. (l’altitudine massima, 726 m s.l.m., si raggiunge nel Poggio Fogari). Sul versante orientale occupa il margine occidentale della Dorsale Monticiano-Roccastrada, dove affiorano le rocce, in prevalenza molto resistenti, delle formazioni carbonatiche-argillose-silicee di età mesozoica e paleozoica, o i prodotti di una loro parziale rielaborazione (risultanti di processi deposizionali posteriori, collegati agli eventi del neogene). L’energia del rilievo si mantiene generalmente elevata, soprattutto in corrispondenza delle maggiori incisioni vallive lungo il Merse e il torrente Rosia, anche se l’altitudine supera di rado i 500 m s.l.m. Litotipo Estensione % Detriti e discariche 4,7 kmq 8% Depositi alluvionali 6 kmq 10,2% Travertini e calcari organogeni 0,1 kmq 0,2% Argille 1 kmq 1,7% Argille e argille sabbiose con intercalazione di sabbie, ghiaie e gesso 0,2 kmq 0,3% Sabbia con intercalazione di argille e ciottoli 2,6 kmq 4,4% Conglomerati poligenici con intercalazione di sabbia, argille e brecce 3,5 kmq 5,9% Flysh prevalentemente arenacei 0,1 kmq 0,2% Flysh prevalentemente argillitici 420,2 kmq 34,3% Rocce carbonatiche massicce e/o stratificate 0,5 kmq 0,8% Rocce carbonatiche brecciate e/o vacuolari (cavernose) 7,7 kmq 13,1% Rocce silicee 12,3 kmq 20,9% Geologia dettagliata riconosciuta nell’habitat D (le percentuali indicate sono relative all’estensione complessiva della formazione nell’intera superficie comunale) 2. Uso del suolo e caratteristiche insediative in età moderna La valutazione dei dati riportati nella cartografia vettoriale relativa all’uso del suolo mostra una netta predominanza del bosco, con un valore complessivo pari al 60,5%, rispetto agli spazi destinati a uso agricolo, corrispondenti invece al 34,1% del totale (prevale comunque il seminativo rispetto alle colture stabili, presenti in una percentuale decisamente esigua); sono limitate le aree tenute a pascolo o incolte (3,1%) e ridotte le aree urbanizzate (0,73%). Uso del suolo % Boschi di leccio 0.65% Boschi di castagno 2.07% Boschi di cerro 50.8% Boschi di roverella 1.88% Formazioni arboree 0.43% Impianti di conifere 4.6% Impianti di latifoglie 0.069% Incolti e pascoli 3.1% Seminativi 33% Sistemi colturali e particellari complessi Aree urbanizzate 0.73% 1.1% Tabella riassuntiva delle percentuali di uso del suolo (le percentuali sono calcolate sulla superficie totale del comprensorio) In questo senso, il comune di Chiusdino s’inserisce perfettamente nella tendenza riscontrata in tutta la Val di Merse. Spazio geografico di forte impatto ambientale, dominato da un paesaggio quasi incontaminato e scarsamente antropizzato, rappresenta una fascia di transizione fra le colline tipiche del senese e la Maremma; è caratterizzato da un predominio del bosco sugli spazi coltivi e da un popolamento a maglie larghe per poderi e rari nuclei accentrati. Questi aspetti emergono chiaramente dalla lettura comparata dei dati relativi a uso del suolo e concentrazione demografica per i comuni compresi nell’ambito della Val di Merse (Chiusdino e Monticiano) e quelli limitrofi a essa (Sovicille, Casole d’Elsa, Radicondoli); sulla base dei risultati, è possibile inoltre dimostrare l’esistenza di un rapporto fra aumento delle superfici boscate/decremento degli spazi coltivi/decremento della popolazione. Per quanto riguarda le percentuali di presenza delle superfici boschive, i valori più bassi si rilevano nel comune di Sovicille, con il 53%, mentre Monticiano e Radicondoli registrano rispettivamente l’84% e il 64,1%. Tendenza inversa invece per il seminativo: dal 39,8% di incidenza nel comune di Sovicille, decresce progressivamente al 25,9% in quello di Radicondoli fino al 10,1% del comprensorio di Monticiano; così le colture stabili passano dal 4,5% di Sovicille, al 2,6% di Monticiano e infine all’1,3% di Radicondoli. Le punte estreme del popolamento vedono nuovamente da un lato Sovicille, come punta massima, con il 54,4% di abitanti per kmq e il 2,6% di spazio occupato dalle aree urbanizzate; dall’altro Monticiano e Radicondoli rispettivamente con il 13,2% e il 7,8% di abitanti per kmq su 0,5% e 0,1% di spazio urbanizzato. Casole d’Elsa e Chiusdino mostrano invece valori di transizione; confermano così una tendenza secondo la quale l’allontamento dai centri urbani (la città di Siena a est e l’area valdelsana a ovest) determina una riduzione progressiva dello spazio antropizzato e, di conseguenza della concentrazione demografica, in favore delle superfici a vegetazione stabile. Il primo comune, infatti, pur caratterizzato da una morfologia simile a quella della Val di Merse, registra valori superiori a quelli di Monticiano e Chiusdino, sia relativamente alle superfici coltivate che al popolamento, avvicinandosi invece a quelli rilevati per Sovicille; il comune denominatore, in tal senso, potrebbe essere la vicinanza a centri vitali, come Colle Val d’Elsa (con cui Casole confina e da cui ha una distanza massima di 10-15 km) e Siena (con cui confina invece Sovicille e da cui dista al massimo 15-17 km). Chiusdino, posto fisicamente all’interno dei comuni considerati, invece, assume il ruolo di territorio di passaggio, con percentuali che corrispondono approssimativamente alla media di quelli registrati dagli altri. Casole Chiusdino Aree urbanizzate 0,73% Aree boschive Incolti e pascoli Seminativi 55,7% Colture stabili Popolazione/kmq 54,5/kmq Monticiano 0,9% 0,5% Radicondoli 0,1% Sovicille 2,6% 55,8% 84,5% 64,1% 53% 3,8% 2,3% 8,6% 0,1% 10,1% 25,9% 39,8% 33% 2% 2,6% 1,3% 4,5% 17,3/kmq 13,2/kmq 7,8/kmq 13,5/kmq 60,5% 3,1% 1,1% Tabella riassuntiva dei diversi tipi di utilizzo del suolo distribuiti nei 5 comuni considerati Nello specifico, il chiusdinese rispetto agli altri comuni mostra un’incidenza abbastanza consistente della pratica agricola: in questo senso, risulta determinante che circa il 45% del territorio corrisponda a superfici pianeggianti o basso collinari, con una composizione litologica più o meno naturalmente favorevole allo sfruttamento agricolo. Le aree di fondovalle (habitat A) e quelle collinari (habitat B) sono quasi interamente destinate alla coltivazione; le prime per il 70,3% della loro totale estensione, le seconde per il 55,6%. Nelle aree di transizione (habitat C), il seminativo raggiunge valori intorno al 37,4% mentre compaiono, seppur in percentuale esigua, le colture stabili (2,8%); in corrispondenza dell’inizio della zona dei rilievi, si riduce poi al 10,3% a causa della presenza di superfici disagevoli e suoli troppo duri. Il paesaggio collinare (soprattutto nello spazio compreso fra Palazzetto e Frassini) è caratterizzato da seminativi, alternati a piccole porzioni di campi tenuti a pascolo. La zona pianeggiante del Pian di Feccia, invece, è divisa in lotti di grande estensione, adibiti a coltivazione di cereali alternati a girasoli. La vocazione agricola di quest’area è stata in parte ostacolata dalla natura dei suoli (depositi alluvionali e detriti) che, essendo molto permeabili, risultano soggetti ai fenomeni di esondazione e infiltrazione da parte della fitta rete idrografica presente. Sin dall’epoca medievale, si ha notizia di tentativi di risolvere il problema; le fonti ricordano il progetto di un monaco di San Galgano per bonificare la piana di Feccia e addirittura convogliare l’acqua del fiume per l’approvvigionamento idrico della città di Siena. Recentemente, l’intervento dell’uomo ha ridotto considerevolmente il fenomeno di impaludamento della zona, facendo così prevalere definitivamente la destinazione a seminativo. Ricordiamo, per inciso, un progetto presentato nel corso degli anni ’70’80, finalizzato a regolamentare il regime delle acque dei fiumi della Val di Merse per favorire i territori circostanti. Il provvedimento prevedeva la costruzione di due dighe, di cui una più piccola, creata sul fiume Farma, che avrebbe potenziato la portata d’acqua del Merse. L’altra doveva essere realizzata in una zona prossima la confluenza della Feccia nel Merse con l’obiettivo di creare un lago artificiale con una capacità di contenimento fino a 140 milioni cubi di acqua; questo avrebbe permesso di irrigare la piana grossetana e il piano di Rosia nel periodo estivo. Un’operazione di questo tipo avrebbe avuto però conseguenze pesanti sia sul patrimonio naturale che su quello artistico del chiusdinese: le più gravi riguardavano l’impaludamento del territorio e i rischi per la staticità dell’abbazia di San Galgano che, al termine dei lavori, si sarebbe trovata ai margini di una specie di promontorio sul lago artificiale. L’intero progetto venne bocciato in seguito alle accese proteste degli ambientalisti e alle perizie di numerosi studiosi e tecnici: anche il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti di Siena, nel luglio 1984, fu chiamato a valutare le conseguenze dell’intervento sul patrimonio archeologico dell’area interessata. La diffusione del bosco segue un andamento inverso a quello delle superfici lavorate. Risulta infatti abbastanza limitato nell’habitat A (27,5%) e si concentra ai margini delle pianure lungo il corso del fiume Merse, in prossimità del confine centro orientale del comune. In corrispondenza dell’area collinare, la percentuale delle aree a vegetazione stabile tende ad aumentare fino al 42,2%. Si tratta di boschi a variabile densità di vegetazione: prevalgono i radi (80%-60%) rispetto a quelli aperti (60%-20%) e si presentano spesso in forma di manifestazioni isolate poste a interrompere la successione continua dei campi. Passando alla fascia di transizione, identificata nell’habitat C, il bosco, ora ad alta densità di vegetazione (100%-80%), arriva a incidere per il 57% sul totale; raggiunge poi un’estensione complessiva pari all’82,3% in corrispondenza dell’area a carattere tendenzialmente montuoso dell’habitat D. Compare il bosco di castagno, altrove assente, per un valore pari al 4,6%, e si distribuisce in macchie estese lungo il confine nordorientale del comune. Lo sfruttamento di questi spazi, è quasi interamente orientato al potenziale offerto dalla raccolta del legname e, fino a un passato recente, alla produzione del carbone; per lo più effettuata in loco, è testimoniata dalle numerose tracce di carbonaie, tuttora visibili all’interno dei boschi. Le uniche attività di tipo industriale svolte nel chiusdinese hanno riguardato, nel corso degli ultimi due secoli, la risorsa geologica e mineraria. Nell’area di Luriano, nei pressi del podere Case Sant’Agata, sono ancora attive due cave di alabastro; nell’area sovrastante Frosini rimane intensa l’estrazione di travertino e ghiaia. Abbastanza vitale a partire dal XIX secolo e oggi concluso per esaurimento dei filoni, lo sfruttamento dei giacimenti minerari posti in località Spannocchia-Camporedaldi e Cetine di Cotorniano. Nel primo caso, si tratta di mineralizzazioni in filoni e lenti concordanti con ganga gessosa che hanno permesso l’estrazione di piombo e probabilmente d’argento; di importanza modesta, registrano una fase di coltivazione nel corso della prima metà del nostro secolo. Più rilevante il caso del giacimento delle Cetine, consistente in una mineralizzazione antimonifera in piccole lenti e ricca di solfati di alterazione, sfruttata nel corso del XIX-XX secolo. Il deposito è costituito da un ammasso di calcare cavernoso esteso per circa 330 m in direzione est-ovest e circa 50 m in direzione trasversale. Qui le mineralizzazioni a solfuri si sono formate in conseguenza del contatto dei fluidi caldi, risaliti in seguito alle intrusioni magmatiche che hanno interessato la Toscana durante il Plio-pleistocene, con le rocce calcaree e permeabili delle Cetine. Data la sua funzionalità per l’industria bellica, la produzione dell’antimonio si mantenne vitale nei periodi immediatamente a ridosso delle due guerre mondiali. La coltivazione, iniziata nel 1878 con i cantieri a cielo aperto e proseguita nel 1876 anche con le ricerche in sotterraneo, venne interrotta per motivi di scarsa economicità nel 1920 per poi riprendere in corrispondenza del secondo conflitto; nel 1948, fu considerata esaurita e quindi definitivamente chiusa. Dell’attività mineraria rimane un profondo canale, il Canalone Franato, attraverso il quale originariamente venne aggredita la massa mineralizzata nella sua concentrazione più ricca: il canale, posto all’estremità dell’abitato delle Cetine, e altre gallerie sono tuttora visitabili. All’interno del paese di Chiusdino (via P. Mascagni) è stato inoltre aperta una mostra documentaria permanente sulla Miniera delle Cetine. Uso del suolo A B C Aree urbanizzate 0,7% 1,5% Boschi di castagno Boschi di cerro 26,5% 40,5% 47,5% Boschi di leccio Boschi di roverella 0,2% Formazioni arboree 0,8% 0,43% Impianti di conifere 0% Impianti di latifoglie 1,5% Incolti e pascoli 0,7% 1,7% Seminativi 70,3% 55,6% 37,4% 9,2% Sistemi colturali e particellari complessi D Totale 1,1% 0% 4,9% 2,07% 64,3% 50,8% 1,6% 0,65% 1,3% 7% 0,4% 0,2% 0,5% 0% 2,3% 7,4% 33% 2,8% 1,1% 11% 0% 3,1% 0,73% 1,88% 4,6% 0,069% 1,1% Tabella riassuntiva dei diversi tipi di utilizzo del suolo distribuiti nei quattro habitat riconosciuti (le percentuali sono calcolate rispetto alla superficie del singolo habitat). In conclusione, appare chiaro che la morfologia e le caratteristiche geologiche hanno condizionato la diversificazione d’uso e di sfruttamento economico degli spazi e, vedremo che in una prospettiva più ampia, sono risultati determinanti nella distribuzione e nella tenuta del popolamento. Dal punto di vista produttivo, il comprensorio di Chiusdino, risulta da sempre orientato verso una gestione del territorio improntata per lo più a un tipo di agricoltura non specializzata, finalizzata più all’autoconsumo che a una produzione di tipo industriale. Come la maggior parte della campagna senese, è stato caratterizzato da un’organizzazione della terra di stampo mezzadrile, articolata in poderi facenti capo a fattorie come centro direzionale e organizzativo. Differentemente da altre zone della provincia, però, la crisi del sistema mezzadrile, intervenuta alla fine degli anni ’50, non ha determinato la spinta propulsiva verso un processo di trasformazione delle strutture socio-economiche tradizionali; ha invece causato la loro cristallizzazione nell’ambito di un’agricoltura improntata alle esigenze personali dei piccoli proprietari. Anche le fattorie sono state soffocate dalle difficoltà gestionali connesse alla necessità di investire nuovi capitali per un miglioramento qualitativo e quantitativo della produzione: vendute dai proprietari all’Azienda Demaniale delle Foreste, hanno perso la loro funzione e sono state quasi immediatamente abbandonate. Il fenomeno del depopolamento diventa dunque tangibile dopo gli anni ’50, come si evince dalla lettura dei censimenti rilevati negli anni 1951, 1981, 1991. Nel 1951, la popolazione censita si calcola in misura di 3.030 abitanti (densità insediativa 21,4 abitanti per kmq); nel 1981 il numero decresce fino a 2.252 abitanti (densità insediativa 15,8 abitanti per kmq); infine, nel 1991, si contano solo 1.922 abitanti per una densità di 13,5 per kmq. Il dato assume ancora maggiore spessore, considerando il numero dei centri censiti nei diversi rilevamenti; nel 1951, si considerano esclusivamente i residenti del sette centri principali; nel 1981, si aggiungono al computo i monaci dell’abbazia di San Galgano, i residenti nel nucleo di Pentolina e quelli dell’abitato sparso; nel 1991, si aggiungono ancora quattro insediamenti accentrati. In sintesi, nel corso di 40 anni, si registra un decremento percentuale calcolabile intorno al 40%-60%. Lo stesso capoluogo comunale passa dai 1.379 abitanti del 1951 ai 757 del 1991; Ciciano, dai 555 individui cala a 298; Montalcinello dai 388 del primo censimento ai 165 dell’ultimo e così Frosini dai 131 degli anni ’50 decresce a 57 nel ’91. 1951 1981 1991 Chiusdino 1.379 838 Abbazia di San Galgano non censito Casino 113 54 Causa non censito non censito 20 Ciciano 555 328 Ciglierese non censito non censito Colordesoli non censito non censito Frassini 294 212 Frosini 131 74 Le Cetine non censito non censito Luriano non censito non censito non Montalcinello 388 195 Moscofuli non censito non censito Palazzetto 170 126 Pentolina non censito 20 non Spannocchia non censito non censito non Case Sparse non censito 398 Totale 3.030 2.252 1.922 757 7 38 6 298 22 17 172 57 9 censito 165 12 116 censito censito 233 Tabella riassuntiva del popolamento registrato nei tre censimenti Le vicende occorse al territorio nella seconda metà del secolo, hanno dunque concorso a far scivolare il comprensorio di Chiusdino per circa un decennio in una situazione abbastanza stagnante. Il drastico decremento demografico ha fatto precipitare il fenomeno di abbandono degli spazi coltivi nel corso degli anni ’80. Ad aggravare ulteriormente la situazione, sono poi intervenute, nei primi anni ’90, le disposizioni di legge CEE tendenti a limitare la sovrapproduzione dei prodotti comuni; in questo periodo, coincidente con la fase iniziale della nostra ricerca, la campagna appariva infatti, punteggiata di poderi immersi in terreni abbandonati, a eccezione dell’area circostante Frassini e Palazzetto e, in misura minore di quella intorno Montalcinello. A partire dalla metà degli anni ’90 si iniziano a cogliere, invece, segnali di ripresa. Per quanto riguarda il settore agricolo, la scadenza del vincolo legislativo, effettiva per alcuni terreni già nel 1994 e per l’intero comune nel 1995, ha segnato un momento decisivo per la ripresa dell’attività: già nel primo anno (quando ancora solo pochi appezzamenti erano svincolati dal decreto) si registrava un incremento del 30% circa delle superfici lavorate. La ripresa di Chiusdino si è comunque basata non tanto sul potenziamento della popolazione residente bensì sulla creazione di nuovi bacini di utenza. Un aspetto del tutto innovativo nell’economia chiusdinese è stata l’apertura al settore del turismo, nel rispetto del potenziale ambientale e naturalistico della Val di Merse. Lo scarso dinamismo economico dell’area, infatti, se da un lato ne ha condizionato lo sviluppo, dall’altro ha rappresentato uno strumento decisivo per la sua conservazione, inibendo un’eccessiva antropizzazione degli spazi a scapito del patrimonio naturale. Varie zone sono attualmente inserite nel circuito dei parchi naturali. Uno dei tratti più suggestivi e meno antropizzati del Merse, situato nell’area compresa fra il fiume e il fosso Ricausa, costituisce la Riserva Naturale dell’Alta Merse. Non lontano, nella valle di Ricausa, le numerose specie di uccelli presenti sono state protette in un’oasi faunistica, istituita dall’Amministrazione Provinciale di Siena su iniziativa dell’Università degli Studi di Roma. Più a sud, nell’area di Luriano, troviamo la Riserva Naturale della Pietra, promossa nuovamente dall’Amministrazione Provinciale di Siena; contigua a quella del Farma, con la quale costituisce un unico complesso naturalistico, racchiude un patrimonio faunistico eccezionale in un contesto naturale di indubbio fascino. Una zona di particolare interesse, ancora non promossa a riserva naturale, è quella delle Vene di Ciciano. Si tratta di sorgenti ipotermali, di origine non chiara, da cui sgorgano acque, di vasta portata, a una temperatura media pari a 21° . L’area è stata recentemente inserita nel progetto AREL (aree a sviluppo economico locale) promosso dalla Co.Svi.g (Consorzio per lo sviluppo delle Aree Geotermiche), come area vincolata solo ad attività connesse all’utilizzo delle acque tiepide. Il Consorzio (accogliendo le esigenze dei diversi Comuni interessati) si fa promotore di potenziali iniziative per la nuova imprenditoria legate allo sfruttamento della risorsa geotermica, tramite l’immissione in rete (<http//www.cosvig-rtrt.regione.tos.it>) della cartografia essenziale e di tutti i dati utili alla scelta dell’investimento (disponibilità geotermica, presenza di corsi d’acqua, vicinanza alle vie di comunicazione e urbanizzazione). Al di fuori delle riserve naturali, troviamo comunque altre zone di interesse paesaggistico, particolarmente adatte a essere inserite nei percorsi di trekking e segnalate per passeggiate a cavallo, in mountain bike e in bicicletta. Elemento ulteriore per l’affermazione del turismo è il patrimonio storico-artistico. Da sempre oggetto principale nell’attenzione del visitatore, l’abbazia di San Galgano che, al di là delle sue forme architettoniche, è resa unica dall’assenza del tetto e dalla pavimentazione erbosa, e inoltre l’eremo di Monte Siepi, con la sua mitica Spada nella Roccia. A queste si aggiungono il paese stesso di Chiusdino, nucleo di origine medievale ben conservato e rispettato nelle sue forme originali; gli edifici e i ruderi, dislocati nella campagna a testimoniare l’insediamento di epoca medievale; le imponenti strutture tipo fortificazione, che, seppur prodotte da ristrutturazione tarde, esercitano comunque la loro attrattiva. Infine, negli ultimi anni si è aggiunto come altro polo di attrazione per il grande pubblico, il famoso Mulino Bianco, conosciuto attraverso le pubblicità della Barilla; l’azienda, peraltro, nel periodo di maggiore diffusione dello spot televisivo, è intervenuta attivamente nella vita del comune, facendosi sponsor di molte delle iniziative promosse. La struttura (localizzata sul Merse lungo la strada massetana in prossimità di Poggio della Badia), evidentemente artefatta nel suo aspetto, è stata ottenuta, rivestendo con pannelli bianchi, un edificio di origine medievale, noto con il nome di Mulino delle Pile; le foto del ‘prima e dopo’ sono comunque disponibili in rete all’interno dell’Archivio Barilla (<http://www.museiidimpresa.com>). In tempi recenti, il mulino è stato oggetto di un intervento di restauro conservativo, volto a ripristinare l’integrità iniziale del monumento: attualmente, è sede di un’azienda agrituristica esclusiva. In sintesi, la tranquillità e la bellezza della zona, unita a un patrimonio artistico di valore, hanno dato la spinta propulsiva all’industria agrituristica; in anni recenti, si contano infatti numerosi casi di privati che, dopo aver rilevato molti dei poderi abbandonati, hanno coordinato attività di questo tipo. Ad esempio Papena (villaggio e poi grangia di epoca medievale), oggi completamente ristrutturata, è gestita come agriturismo: pubblicizzata in rete, in lingua inglese, esprime con orgoglio l’origine medievale del nucleo, le connotazioni naturali dell’area e la vicinanza con alcuni dei monumenti e delle città più affascinanti della Toscana. Il numero di siti o pagine, finalizzate alla diffusione di informazioni in merito alle varie strutture recettive, prodotti tipici, percorsi di trekking o altro, è indicativo della volontà di incrementare il settore turistico. Lanciando una ricerca veloce su un qualsiasi motore, vengono selezionati 27 indirizzi: di questi sei pubblicizzano aziende agrituristiche e ristoranti, cinque i percorsi di visita, otto il patrimonio ambientale e artistico, otto riportano informazioni generali sul Comune. Anche nel settore delle attività culturali, l’Amministrazione Comunale si è fatta promotrice di numerose iniziative, che hanno concorso a inserire Chiusdino nel circuito dei centri attivi nell’ambito della musica classica. Già da molti anni, nel periodo estivo, l’abbazia di San Galgano è sede di concerti in collaborazione con l’Accademia Musicale Chigiana. Più recenti sono le manifestazioni organizzate nell’ambito di un Festival, giunto nel 2001 alla quinta edizione, inserito nel Progetto Culturale Monfardini e incentrato sulla messa in scena di commedie in musica e recitate, opere liriche, concerti, musical e balletti; le rappresentazioni avvengono sia all’interno del paese di Chiusdino che nell’abbazia. Nel corso del 2000, data la destinazione a luogo di spettacolo, per lo più in notturna, è stato realizzato un progetto di illuminazione del monumento cistercense finanziato da Regione Toscana, Amministrazione Provinciale di Siena e vari sponsor: è stato scelto un tipo di illuminazione dall’alto verso il basso in modo da ottenere un effetto a radenza per esaltare l’edificio nella sua caratteristica assenza del tetto (<http://www.giubileo.toscana.it/lumina/si>). Alessandra Nardini II - STORIA DEGLI STUDI Solo recentemente la ricerca archeologica e quella storica hanno iniziato a interessarsi al territorio di Chiusdino. Il panorama dei rinvenimenti archeologici noti non offre infatti che poche informazioni; allo stesso modo le indagini di carattere storico sono circoscritte a determinati luoghi, intesi singolarmente e mai inseriti in un quadro più generale. Anche se la storiografia recente ha affrontato alcuni aspetti peculiari con lavori esaustivi sull’abbazia di San Galgano, non disponiamo ancora di tentativi di sintesi che considerino la realtà territoriale globalmente e nella diacronia. 1. La ricerca archeologica Dal punto di vista archeologico, il territorio chiusdinese è rimasto estraneo alla tradizione degli interessi antiquari che hanno determinato nella Toscana del XVII e XVIII secolo il rinvenimento, o la segnalazione, di molti siti. Le attestazioni disponibili, nel loro complesso risalenti all’ultimo secolo, si limitano a registrazioni di scoperte casuali espresse sinteticamente e senza tentativi di contestualizzazione storica; spesso non disponiamo di elementi certi per poter collocare con puntualità su basi cartografiche quanto individuato. Anche i lavori di censimento della risorsa archeologica territoriale di più ampio respiro mostrano questa situazione e propongono i limiti indicati. Nella carta archeologica del territorio senese, curata da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1927, sono riportati solamente due rinvenimenti, riferibili a singole emergenze prive di elementi georeferenziali utili. Non molto più ampio è il quadro offerto dall’Atlante dei Siti Archeologici Toscani (ASAT), in cui vengono elencati complessivamente cinque contesti databili tra Preistoria ed età romana; in particolare si tratta di tombe di periodo etrusco (le più importanti rinvenute in località Papena) e romano (del tipo a camera, in località Palazzetto), con imprecisioni riguardo alla loro ubicazione, originate da una sbrigativa considerazione delle fonti consultate. Come hanno evidenziato Francovich e Valenti, l’ASAT, pur avendo il grande merito di raccogliere un enorme patrimonio conoscitivo (parliamo di oltre 3.500 schede) contiene però alcuni difetti di fondo che ne impediscono l’uso, secondo i parametri di catastazione oggi richiesti. “Questo lavoro risulta estremamente condizionato dall’essere passato per molte mani senza un controllo unificatore dei dati prodotti, per le molte ripetizioni di schede talvolta differenziate solo da un toponimo di riferimento diverso, per bibliografia citata e in molti casi non riportata, per l’assenza di georeferenziazione (quindi impossibile la loro collocazione su cartografia numerica). Infine si decide a priori che l’archeologia degna di essere censita debba avere come termine il VII secolo d.C. Il Medioevo non esiste, o meglio, si finge che non esista; una discriminazione aprioristica grave (nella quale è caduta di recente anche la Regione Emilia Romagna) ma che risulta ancor più grave per la Toscana, dove il Medioevo caratterizza decisamente tutta la formazione del paesaggio e della rete insediativa odierna. Ignorare l’archeologia del Medioevo impedisce oltretutto di raccogliere informazioni corrette anche per l’antichità. Il Medioevo spesso si sovrappone a essa; evitarlo significa non raggiungere un buon grado di conoscenza del patrimonio archeologico e penalizzare la comprensione della diacronia insediativa del territorio ”. Tracciare una storia della ricerca archeologica sul territorio in oggetto significa pertanto limitarsi a un semplice elenco di iniziative disgiunte fra loro e spesso occasionali. Risale agli anni Quaranta l’intervento di Rittatore in località Papena (indicato come Buca delle Fate) dove, controllando una segnalazione di persone del luogo, individuò la piccola necropoli etrusca. Lo scavo ebbe poi luogo 23 anni dopo a opera di Phillips (nell’ambito del progetto promosso dalla Etruscan Foundation di Detroit), impegnato nello stesso periodo nell’esplorazione della necropoli di Poggio Luco di Malignano (Sovicille). L’ASAT riportando le due iniziative, a seguito di una sbrigativa considerazione delle fonti consultate, segnala due distinte necropoli, l’una posta in località Papena, l’altra definita attraverso il toponimo Buca di Fate, assente nella cartografia IGM; non si specifica la sua vicinanza con il podere Greppini, esplicitata nei resoconti dell’annuario “Studi Etruschi” grazie al supporto di una piantina molto schematica. Consultando gli scritti originali appare poi chiaro che i due interventi riguardano in parte lo stesso contesto archeologico; una delle necropoli indagata da Phillips corrisponde infatti a quella indicata da Rittatore come Buca delle Fate mentre un’altra piccola area sepolcrale, individuata in quell’occasione, si pone in prossimità del podere Papena. L’assenza del riferimento bibliografico ai contributi di Phillips, nella scheda dell’ASAT relativa alla Buca delle Fate evidenzia il fraintendimento. A partire dagli anni Sessanta, la personalità di spicco nell’archeologia del chiusdinese (più per la quantità di lavoro svolto che per la sua qualità) è senza dubbio il conte Cinelli, proprietario della fattoria di Spannocchia; per oltre trent’anni ha continuato a organizzare campagne di scavo svolte da archeologi americani, membri della Etruscan Foundation di Detroit (come abbiamo visto, già attivi a Papena e a Sovicille). L’intervento più complesso e più lungo (1967-1974) è stato compiuto nell’eremo di Santa Lucia, con risultati che hanno permesso di retrodatare la struttura di due secoli rispetto a quanto attestato dalle fonti. I dati di questi scavi non sono stati però diffusi né a livello nazionale né a livello locale; i rapporti di scavo (peraltro sintetici) sono stati pubblicati all’interno della rivista “Etruscans”, in lingua inglese, con una circolazione in America e pressoché irreperibile in Italia. Risale poi ai primi anni Settanta una ricerca molto utile e ben articolata, a opera della Bertini, sulle sedi scomparse della Val di Merse. Nata come tesi di laurea presso l’Università di Firenze, si segnala in particolare per la caratterizzazione dei due importanti centri medievali di Miranduolo (castello) e Serena (castello e abbazia) legati alla famiglia dei Gherardeschi e di precoce attestazione; oltre a tracciare schede sulle due realtà insediative, la Bertini ne localizza i ruderi sul territorio, sgombrando così il campo, per Miranduolo, da cattive ed errate interpretazioni. Oltre a questo lavoro, le segnalazioni per il Medioevo sono limitate quasi esclusivamente alle emergenze monumentali di centri incastellati presentate nel repertorio curato da Cammarosano e Passeri. Altri interventi archeologici sull’area della Val di Feccia sono stati svolti da un’équipe composta da archeologi del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena, della British School di Roma e del Department of Archaeology and Prehistory of Sheffield University, nell’ambito del progetto Montarrenti. I risultati delle ricognizioni di superficie, coordinate da Barker (allora direttore dell’accademia inglese) non hanno sinora trovato pubblicazione con l’eccezione di alcuni rapporti preliminari soprattutto di carattere metodologico. Le schede prodotte, conservate sotto forma cartacea presso l’Università di Siena, sono state inserite in anni recenti nel database della carta archeologica della provincia di Siena; i dati, nel complesso, mostrano i difetti insiti in una documentazione non rivista, mantenuta cioè a livello di registrazione effettuata sul campo e non rimeditata a tavolino. Manca un linguaggio codificato per la definizione delle emergenze, sono assenti talvolta le dimensioni delle concentrazioni di reperti mobili in superficie e soprattutto non sono collegate a uno studio analitico del materiale raccolto, che permetterebbe una migliore valutazione dei dati. Contemporaneamente all’indagine di superficie sulla Val di Feccia, sono stati condotti due saggi di scavo nell’area circostante l’abbazia di San Galgano, sotto la direzione di Riccardo Francovich e coordinati sul campo da Cucini e Paolucci. I risultati sono proposti nelle pagine della rivista Archeologia Medievale del 1985, ben corredati di piante e sezioni. L’intervento si è articolato in due saggi di scavo in aree, caratterizzate da una fitta concentrazione di reperti in superficie, che hanno poi restituito tracce di infrastrutture collegabili al complesso religioso. Quest’operazione segna gli inizi di una ricerca più organica sul territorio di Chiusdino, coordinata dall’Area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena, e incentrata su una serie di iniziative progressive tese alla lettura della risorsa archeologica nella diacronia, nel censimento di emergenze monumentali legate alla sfera della produzione e ad approfondimenti di scavo sui siti giudicati più significativi nella comprensione delle dinamiche del popolamento medievale. Nella prima metà degli anni Novanta, sono state così svolte due iniziative parallele: le ricognizioni territoriali su aree campione legate alla redazione della Carta Archeologica della Provincia di Siena (curate da chi scrive) e l’indagine rivolta all’individuazione e studio degli opifici idraulici nel bacino Farma-Merse (curata dalla Cortese); lo studio ha interessato in misura minore l’area di Chiusdino dal momento che fisicamente le strutture sono collocate lungo il corso del Merse e Farma, dunque comprese soprattutto nei territori di Monticiano e Sovicille. Il libro della Cortese si articola, oltre alla parte descrittiva della tecnologia degli opifici, in uno schedario e in una parte di sintesi e contestualizzazione sociale dell’organizzazione produttiva; è un contributo fondamentale per la definizione del ruolo dell’abbazia di San Galgano nella storia dell’evoluzione tecnologica dell’area nel corso del basso Medioevo. Dal 2001 le indagini sul chiusdinese hanno avuto un significativo sviluppo attraverso un progetto di lunga durata incentrato soprattutto su interventi di scavo; abbiamo deciso di approfondire la modellizzazione storica elaborata sui risultati della ricognizione, iniziando scavi mirati sul castello di Miranduolo e che in futuro prevederanno auspicabilmente il vicino castello e abbazia di Serena, gli impianti produttivi dell’abbazia di San Galgano, forse la curtis di San Magno, alcuni dei siti individuati (area di scorie del Castelluccio). Lo scavo di Miranduolo offre l’occasione di indagare un castello già in vita agli inizi dell’XI secolo (e quindi ascrivibile tra i castelli toscani di prima fase), le sue origini e le sue trasformazioni sino alla metà del XIII secolo (periodo nel quale Miranduolo risulta già decastellato), la fase di rioccupazione della collina nel corso del XIV secolo, le forme insediative legate alla famiglia comitale dei Gherardeschi in Val di Merse. Lo sviluppo del progetto attraverso l’incremento degli scavi darà poi modo di leggere nella diacronia un’area geografica nella quale l’insediamento pare caratterizzato anche dallo sfruttamento delle risorse minerarie sia locali che esterne, cogliendone così le trasformazioni e l’evoluzione anche in relazione allo sviluppo delle tecniche di produzione (dalle più arcaiche allo sfruttamento dell’energia idraulica) fra XII e XIV secolo. L’intervento archeologico, come nella tradizione delle attività di ricerca curate dall’Area di Archeologia Medievale dell’ateneo senese, sarà anche destinato a una valorizzazione del patrimonio storicomonumentale e paesaggistico dell’area in oggetto. Oltre alla progettazione di aree attrezzate nelle località di scavo potranno essere creati percorsi di visita, tesi a decongestionare il ‘consumo’ del monumento San Galgano e a mostrare la storia insediativa e della produzione nel territorio. Una prima proposta, già presentata in occasione di convegni e seminari (nonché sul sito web dell’Area di Archeologia Medievale) è stata redatta da Sagina e Cortese e prevede essenzialmente tre percorsi principali. 2. La ricerca storica Studi territoriali – Gli studi nei quali rintracciare informazioni più organiche sulla geografia del popolamento medievale, sono in scarso numero e corrispondono alle sintesi di carattere storico-antiquario di XVII-XVIII secolo (manoscritti di Pecci, Gherardini, Bichi e Faluschi); seguono poi opere di ampio respiro come i Viaggi di Targioni Tozzetti, il Dizionario di Repetti, il più recente (e già citato) repertorio di Cammarosano e Passeri. Anche la tradizione di storia locale, peraltro poco sviluppata, non ha percorso la via di trattazioni organiche, concentrandosi soprattutto sul castello di Chiusdino per il quale si segnalano, oltre al contributo di Felli, risalente alla fine dell’Ottocento, alcune pagine recenti di Conti (peraltro anche autore di un saggio ancora inedito sulla chiesa di Santa Maria delle Grazie). Isolato, per il castello di Montalcinello, il contributo di Lenzi, Serpi, Trombetti e Buononimi, i quali hanno redatto un libretto in cui sono raccolti quasi acriticamente tutti i passi relativi alla vita della comunità, dalla fondazione a oggi, estrapolati dalla documentazione disponibile (i Regesti senese e volterrano, i Caleffi e il Diplomatico del Comune di Siena, le visite pastorali e fonti settecentesche): un’iniziativa che senza pretenziosità fornisce un valido strumento di approfondimento della realtà del centro. Resta infine da segnalare un breve articolo di Borracelli incentrato sulla storia della Magione dei Templari di Frosini. Una storia del chiusdinese, quindi, deve essere ancora scritta e l’unico tentativo di sintesi risulta, inspiegabilmente, a oggi la recente edizione di una guida turistica organizzata secondo diversi percorsi adatti al trekking e alle passeggiate a cavallo. Costituisce in realtà un utile libretto per orientarsi sul patrimonio naturalistico della Val di Merse, che viene trattato in modo decisamente dettagliato, ma dal punto di vista storico propone semplici trattazioni dei diversi monumenti presenti lungo i percorsi. Le informazioni che vengono riferite, tutt’altro che specialistiche, sono tratte dai testi principali già citati e non risultano prive di quelle inesattezze, frutto dell’assenza di approfondimenti, che mal si legano a un’operazione editoriale di tipo commerciale e divulgativo dal carattere di instant book. Sono riportati così alcuni degli errori definibili ‘classici’ per il territorio chiusdinese; per esempio, l’interpretazione errata della località Castelletto Mascagni come castello medievale. Sugli aspetti storici e archeologici è quindi estremamente superficiale e anche nel trattamento dei resti monumentali non soddisfa; propone fraintendimenti di elementi architettonici tipo basamenti a scarpa di età moderna, attribuiti a impianti originari di età medievale. Studi tematici – Gli interessi più specifici della ricerca si sono concentrati sulla presenza della famiglia Gherardesca, sull’abbazia di Serena, sul castello di Miranduolo e soprattutto sul complesso cistercense di San Galgano e sulle sue vicende. Nel corso degli anni Ottanta, Maria Luisa Ceccarelli Lemut, nell’ambito delle sue ricerche in merito alla famiglia Gherardesca, dedica alcuni studi alla comprensione dei loro castelli in Val di Merse e dell’abbazia di Serena, da essi fondata. In due agili saggi, completi ed esaurienti, affronta la lettura degli unici due documenti conservati e utili a tracciare i lineamenti della signoria territoriale dei conti nel chiusdinese. Nel lavoro pubblicato nel 1982 approfondisce le vicende connesse alla decadenza del potere comitale sul territorio, partendo dall’analisi testuale del lodo di pace stipulato nel 1133, al termine della guerra che vede contrapposti i Gherardeschi al Vescovato volterrano. Negli atti del convegno in onore di Tellerbach, pubblicati nel 1993, propone invece l’analisi dell’atto di dotazione pronunciato dai signori in favore dell’abbazia benedettina di Santa Maria (interna alle mura del castello di Serena); sugli spunti offerti dal testo, l’autrice ricostruisce la reale fisionomia dell’istituzione monastica, mettendone in luce il ruolo chiave nell’affermazione familiare sul chiusdinese; un progetto espansionistico messo in atto a partire dalla fine del X secolo. Entrambi i lavori sono corredati da informazioni sintetiche sulle vicende di costituzione e decadenza della casata; tali aspetti sono comunque argomento specifico di alcuni contributi fondamentali; fra questi il più completo è senz’altro l’articolo presentato al convegno I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale. Il castello di Miranduolo era stato analizzato nel 1931 anche da Vatti che sulla “Rivista Storica Maremmana” pubblica un brevissimo articolo di sintesi sulle sue vicende storiche; la ricostruzione dell’autore non è priva comunque di errori e fraintendimenti. Egli sembra assimilare i castelli di Serena e Miranduolo; in tal modo, riferisce la distruzione del castrum Sirene (letto peraltro come castrum Irene) nel corso del conflitto fra vescovi volterrani e conti al Miranduolo, e su questa considerazione imposta molto della sua trattazione; tali presupposti inficiano la validità dell’elaborazione. Inoltre la complessa realtà della politica gherardesca non viene nemmeno sfiorata o accennata; infatti, il castello rappresenta un’entità del tutto autonoma e a se stante, sganciata da ogni valutazione complessiva dei secoli in cui vive. Alla valenza mineraria di Miranduolo accenna Lisini, nel lavoro concernente il patrimonio minerario della provincia senese; la notizia consiste però nella semplice menzione del toponimo all’interno del lungo elenco di castelli ‘minerari’ attestati dalle fonti. 3. Gli studi su San Galgano e sull’abbazia cistercense Riguardo a San Galgano e all’abbazia omonima si osservano tre filoni principali di studio: mitico-agiografico, storico-monumentale, economicoterritoriale. Studi mitico-agiografici – La prima produzione cinque-seicentesca, di stampo agiografico e tradizionale, concerne esclusivamente la vita del santo; sulla base dei tradizionali schemi di tali narrazioni, vengono combinati liberamente documenti storici e leggende popolari. Nei racconti di Libanori e Lombardelli (testi base di questo filone letterario) la trattazione delle vicende storiche, connesse al monastero cistercense, non è mai scissa dagli aspetti leggendari ed è priva di valore storiografico; l’unico punto di contatto fra realtà e fantasia è stabilito dall’episodio del ritrovamento del corpo di Galgano da parte degli abati cistercensi, determinante per la decisione di insediare la comunità monastica nell’eremo di Montesiepi. Essenzialmente vengono utilizzate da tutti gli autori le stesse fonti. Si tratta della Inquisitio in partibus, edita da Schneider, il resoconto del processo istituito per la sua canonizzazione del 1185 (riguarda la raccolta delle deposizioni rilasciate dinanzi ai delegati pontifici da una ventina di testimoni in seguito alla quale Galgano viene fatto santo); varie fonti agiografiche fra le quali l’Anonimo Cistercense (Vita Sancti Galgani) del XIII secolo, l’Anonimo Agostiniano (Vita Beati Sancti Galgani) e altri elementi per la ricostruzione della vita del santo vengono offerti dagli Inni dell’Ufficio Liturgico cistercense. Citiamo al riguardo i lavori di Seniori Costantini e poi di Coco, Volpini, Gilli, Susi, Benvenuti. In tempi recenti la leggenda viene poi ripresa da Franco Cardini, che ne propone una lettura completamente inedita; si tratta di una raffinata analisi antropologica, (della leggenda stessa e delle sue implicazioni mitologiche e agiografiche) elaborata all’interno delle complesse tematiche del ciclo arturiano; una moderna interpretazione del mito della spada nella roccia. Nella seconda edizione del lavoro, Cardini aggiorna poi la storia di San Galgano alla luce dei nuovi lavori sulla vita del santo e pone la propria attenzione sul linguaggio narrativo che risulta denso di contenuti mitici e archetipici. Collega la leggenda a immagini e a racconti letterari noti nella Toscana fra XII e XIV secolo, valutandola a tre livelli (mitico-archetipico, filologico-testuale e storico). Viene tentata una lettura della storia di San Galgano attraverso gli strumenti dell’antropologia culturale; attratto anche dalle sollecitazioni psicoanalitiche, tenta però di non discostarsi dalla vera e propria ricerca filologico-testuale. In realtà, con l’eccezione delle pagine sempre attente e disincantate di Cardini, la figura di Galgano e della spada nella roccia hanno dato luogo recentemente a una rilettura del mito nella quale trovano posto, in un singolare, stravagante e confuso miscuglio, sia analisi scientifiche sia suggestioni pseudoscientifiche alle quali ha dato ampia spinta anche la creazione nel 1999 del sito web “Enigma Galgano”, espressione delle iniziative legate all’Associazione Culturale Progetto Galgano fondata cinque anni prima. Si inseriscono in questo filone e con lo stesso spirito del sito web (del quale parleremo fra breve) vari interventi dalla metà degli anni Novanta a oggi. Tassoni nel 1995 ha narrato con linguaggio aulico la storia di Galgano e il sogno in cui gli compare l’arcangelo Michele con toni estremamente romanzeschi e senza pretesa di alcuna elaborazione. Falzon, nel 1996, trattando in modo sintetico ma attento il ciclo arturiano in Toscana (regione nella quale il ciclo bretone ebbe la maggiore fioritura), dedica alla spada nella roccia una particolare attenzione. Ripercorre le connessioni fra l’arcangelo Michele (colui che spinge alla conversione il santo) e re Artù e quelle fra gli ordini cavallereschi, di cui nel XIII secolo diventa patrono proprio San Michele. Serino propone una lettura della figura del santo in rapporto ai miti cavallereschi legati al Santo Graal. Pfister, nel 2001, occupandosi della rotonda di Montesiepi, unisce la trattazione degli elementi base della leggenda con alcuni aspetti ‘storico-artistici’ riletti in chiave esoterica e mistica; propone un rapporto fra astronomia e architettura. Tratta le leggi matematiche della costruzione architettonica della cupola e ne traccia collegamenti con i segreti astronomici e astrologici che rimandano a Stonehenge, a Castel del Monte e alla piramide di Cheope. Manca, per stessa ammissione di Cardini (che definirei in questo caso ‘generoso’ autore della prefazione) di “informazioni analitiche e, soprattutto formalizzate e metodologicamente ordinate” tipiche delle ricerche a carattere scientifico; lo riconosce non privo di inesattezze ma gli attribuisce “il buono dell’amatore”, che propone una propria visione della storia. Sulla stessa linea di Pfister, si pone Rubino con due interventi pubblicati nelle pagine del sito Enigma Galgano. L’autore, si definisce ‘ricercatore indipendente’ che ha fatto studi sulla percezione isolando un nuovo tipo di energia chiamata psinergia. Durante lo sviluppo di questi studi ha scoperto delle sequenze armoniche molto simili alle scale musicali ed elaborato una “Teoria Dinamica”; le linee riscontrabili nelle geometrie dei monumenti egizi, si rintracciano a suo parere anche nel caso di San Galgano i cui “maestri costruttori probabilmente conoscevano tutti i rapporti dell’ottava musicale detta “scala diatonica naturale”. Le quote dove sono collocati capitelli, modanature, chiavi di volta e altri particolari architettonici si trovano esattamente agli stessi livelli dell’ottava diatonica naturale come si ottengono dal modello geometrico. L’interasse delle navate tiene conto della dinamica geometrica generata da un percorso ideale seguito dal pellegrino che entra dalla porta di ingresso della Cattedrale e prosegue verso l’altar maggiore. Dove si creano incroci nello stesso punto di tre allineamenti si evidenziano linee privilegiate da tenere in considerazione rendendole manifeste attraverso precisi elementi architettonici. In un secondo intervento titolato San Galgano e la Tomba di Meryatum sostiene che i monaci cistercensi “erano a conoscenza dei canoni armonici geometrici dell’antico Egitto. Codici pervenuti a loro forse, proprio come sostiene la leggenda, dai documenti che i Templari hanno portato in Europa da Gerusalemme. Si vede infatti che anche nella cattedrale di Chartres è stato applicato il modello geometrico di San Galgano”. Se ogni giudizio su tali elaborazioni non può che rimanere sospeso, ci colpisce invece lo spazio concesso dal sito web e le motivazioni addotte: “confesso di non essere in grado di valutarne l’effettiva scientificità [...]. Trovo comunque molto suggestive e meritevoli queste ricerche, conoscendo bene l’attenzione quasi maniacale dell’ordine cistercense per qualsiasi forma di simbologia, compresa e anzi privilegiata proprio quella numerica. Questo aspetto delle vicende galganiane è uno di quelli che più hanno attirato la mia curiosità e che meno sono esaminati nei testi e nelle fonti”. Questo modo di agire caratterizza del resto l’intero sito Enigma Galgano; si tende a rafforzare l’aspetto sensazionalistico, mistico-mitico ed esoterico di tutto ciò che ruota intorno alla figura di Galgano e della spada nella roccia, cercando di rivestirlo con abiti ‘scientifici’. In tal senso credo si possano leggere anche le più recenti iniziative organizzate con il patrocinio della rivista “Focus”: il ciclo di incontri Il Mistero della Spada nella Roccia e lo svolgimento del convegno La spada nella roccia: San Galgano e l’epopea eremitica di Montesiepi. In realtà le relazioni presentate hanno cercato di sfatare gli aspetti fantasiosi legati a tali tematiche mentre le analisi scientifiche effettuate su una serie di reperti non hanno risolto gli interrogativi sulla veridicità delle reliquie o svelato chi sa quali segreti; hanno piuttosto mostrato l’esigenza di approfondire le indagini e soprattutto fare interagire gli specialisti con storici e archeologi che proporre un’accozzaglia di dati presentandoli a torto e con sensazionalismo come tessere di un puzzle che si va ricomponendo. Studi storico-artistici e studi economico territoriali – Alla fine del XIX secolo l’attenzione viene posta decisamente sul carattere storico e artistico dell’abbazia; la monografia curata da Canestrelli nel 1896 segna infatti una svolta radicale nel panorama degli studi. Il lavoro è articolato in due sezioni distinte, una storica e una artistica; quest’ultima, particolarmente accurata e attenta, risulta dotata di un supporto grafico e fotografico di notevole interesse. L’analisi storica è il risultato del vaglio di tutta la documentazione reperita negli archivi senesi e fiorentini, in particolare il Caleffo di San Galgano, le carte della Biccherna e del Consiglio Generale; alcuni documenti vengono riportati per esteso in appendice, fornendo uno strumento di immediato approfondimento delle affermazioni contenute nel testo. Al di là dei risultati della sintesi talvolta generici, la vera peculiarità del lavoro risiede nel tentativo di lettura del monastero come organismo economico territoriale; l’autore procede con assoluto rigore metodologico a una prima intepretazione della complessa realtà politica ed economico-produttiva dell’insediamento; ne emergono dunque numerosi spunti, che raccolti e ampliati in studi recenti hanno confermato la validità delle intuizioni. Negli stessi anni Schevill e Enlart pubblicano altri saggi di sintesi storica; il primo si rivolge soprattutto alla comprensione dei rapporti fra i monaci e Siena mentre il secondo presta particolare attenzione all’aspetto patrimoniale e organizzativo della comunità. Alla fine degli anni Sessanta di questo secolo, Amante e Martini redigono una monografia storica oggettivata sulla valenza insediativa dell’abbazia; il contenuto del lavoro è però fortemente ideologizzato, privo di validità scientifica e forzato nella volontà di dimostrare la correttezza delle loro teorie. Il presupposto iniziale è l’esistenza di un “rapporto dialettico fra il territorio in cui si svolge la lotta delle classi sociali e le trasformazioni operate sull’ambiente”; a loro parere, l’uso che la classe dominante fa del territorio può essere ricostruito attraverso la “sedimentazione storica dei reticoli viari, dei parametri spaziali, antropogeografici e l’esame delle ‘fabbriche’ significative di un periodo”; l’artificiosità e concettuosità del linguaggio palesa la rigidità dei modelli applicati e il vuoto metodologico su cui viene impostata l’elaborazione. Secondo l’idea che “ogni fatto storico è valido all’interno del sistema che lo ha generato”, giudicano lo studio delle caratteristiche strutturali del monumento un valido elemento di valutazione della realtà circostante. Troppo interessanti a dimostrare la validità delle loro idee, commettono errori macroscopici nell’uso delle fonti e nella ricostruzione degli avvenimenti; la loro trattazione è inoltre di carattere prettamente enciclopedico e priva di cesure cronologiche. Viti, nella sua recensione al libro, segnala tutte le irregolarità metodologiche e le numerose inesattezze di datazione, attraverso una verifica diretta della documentazione; il breve articolo, pubblicato nella rivista “Notizie Cistercensi” costituisce uno dei testi base per la trattazione della storia dell’abbazia. Nell’ultimo decennio sono poi state discusse due tesi di laurea, che hanno approfondito particolari aspetti della realtà cistercense; lavori esaustivi che offrono elementi importanti e fondamentali per affrontare l’analisi del rapporto abbazia-territorio. Andrea Barlucchi ha ripercorso le tappe della formazione e gestione del patrimonio cistercense dall’epoca di fondazione fino al 1320; il suo studio è basato sulla lettura combinata della Tavola delle Possessioni e del Caleffo di San Galgano, esemplificata poi in statistiche e tabelle riassuntive di facile approccio. La trattazione di Laura Neri si è rivolta invece a comprendere le ragioni del forte legame instauratosi fra monaci e Siena dagli anni immediatamente successivi alla nascita fino alla decadenza; a tale scopo, è stato effettuato uno spoglio sistematico delle fonti pubbliche, edite e inedite, pertinenti sia all’abbazia (Caleffo di San Galgano) che alla città (Statuti, Capitoli, Consiglio Generale, Tavola delle Possessioni). Ricordiamo infine i libretti di Bassi e di Albergo, che costituiscono esempi di facili guide al monumento e affrontano in modo agile le questioni storiche, ripercorrendone le tappe centrali. Si devono poi a Fabio Gabbrielli due contributi fondamentali, pubblicati nel 1998 e nel 2000, tratti da un più ampio lavoro condotto nell’ambito della tesi di dottorato di ricerca. L’indagine affronta lo studio delle fasi costruttive dell’abbazia, concentrandosi sullo studio della steretotomia degli archi, al fine di ricostruire le fasi edilizie del complesso architettonico e individuare la provenienza delle maestranze che lavorarono nel cantiere. L’indagine stereotomica delle arcate di valico del primo livello, presentata nel 1998, ha permesso di riconoscere tre grandi gruppi di archi, riconducibili ad altrettante fasi edilizie; l’articolo successivo, pone l’accento sulle potenzialità di questo tipo di analisi nel definire, attraverso il confronto con le cattedrali toscane e le coeve abbazie cistercensi, il contributo delle maestranze monastiche alla costruzione di San Galgano e allo sviluppo delle tecniche murarie del territorio (inserendosi così nel dibattito storiografico circa il ruolo svolto da maestranze monastiche e laiche nella realizzazione dei grandi complessi religiosi). Nel 2001, è uscito un lavoro di Rainini incentrato sull’architettura dell’abbazia. Dotato di ottima documentazione fotografica, nasce a seguito di uno stage di studio, catalogazione e rilievo architettonico presso San Galgano, destinato a un gruppo di studenti di Milano specializzandi nel settore dei Beni Culturali. Da questa iniziativa è scaturito un progetto rivolto a dotare gli allievi delle competenze teorico-operative (attività di inventario e catalogazione, tecniche di rilevamento grafico, fotografico, fotogrammetrico, conoscenza delle metodologie di conservazione e restauro, esegesi delle fonti documentarie e d’archivio); è stato applicato poi all’abbazia. Il lavoro si è concluso nel 1998 e fra i suoi risultati una mostra allestita presso l’Università Cattolica di Milano su Percorsi di iconografia medievale. Dalla Gerusalemme celeste all’abbazia di San Galgano. Lavoro completo: dall’inquadramento dell’ordine religioso e dell’architettura cistercense agli aspetti più specifici dell’abbazia e dell’eremo. Nel volume, l’abbazia viene inserita nel contesto italiano e francese, attraverso una serie di confronti con le maggiori abbazie cistercensi delle due nazioni. Non condivisibile la lettura della struttura della cinta da mura, poste a difendere la sacralità dello spazio monastico, rimandando il ruolo di fortificazione difensiva al castello di Frosini. Visione un po’ semplicistica di vicende insediative ben più complesse; alcune inesattezze di carattere storico-archeologico non inficiano la validità del lavoro incentrato in modo decisamente più significativo sugli aspetti storico-artistici, trattati in modo valido. Alessandra Nardini III - L’EDITO ARCHEOLOGICO E LE FONTI D’ARCHIVIO TENDENZE INSEDIATIVE E PRIME IPOTESI SUL POTENZIALE ARCHEOLOGICO 1. Le fonti archeologiche: un trend negativo Il numero complessivo dei rinvenimenti conta 17 unità: di queste, solamente cinque corrispondono alle presenze censite nei volumi di sintesi del patrimonio archeologico edito mentre le altre sono il risultato di indagini di superficie o di scavo, effettuate negli ultimi decenni di questo secolo. Nella distribuzione cronologica dei rinvenimenti si registra un’incidenza percentuale pari al 23,5% per la preistoria (quattro siti), al 29,3% per l’età romana (cinque siti), all’11,7% per il periodo etrusco e medievale (due siti ciascuno; altrettanti corrispondono a evidenze non cronologizzabili). Il campione, insufficiente per fornire indicazioni riguardo alle tendenze del popolamento, è invece significativo per una prima valutazione del potenziale archeologico conservato nel sottosuolo. Al valore registrato per l’edito, sicuramente uno dei più bassi riscontrati nel trend generale della provincia senese, corrisponde infatti un incremento del 300% circa in relazione a un intervento mirato sul territorio; il dato statistico diventa ancora più emblematico se consideriamo che la superficie battuta nel corso di questa ricerca non supera il 4% dell’intera estensione comunale. Distribuendo la percentuale di incremento nei diversi periodi attestati, leggiamo un aumento del 400% nei depositi riferibili alla preistoria, del 500% per il periodo romano mentre rimane invariato il periodo etrusco. Il valore è comunque falsato dal fatto che il campione sottoposto a ricognizione (area della Val di Feccia), tarato sul singolo habitat di pianura, non è rappresentativo dell’intero contesto territoriale. D’altro canto, il brusco incremento indicato per preistoria ed età romana, in corrispondenza di alcune caratteristiche geomorfologiche specifiche, rappresenta l’unico indicatore di una tendenza insediativa: di fatto, la prossimità alla rete idrografica e la presenza di quote non superiori ai 330 m s.l.m. sembrano determinare un discrimine negativo per l’affermarsi di forme insediative di età etrusca mentre si configurano idonee al popolamento per le altre fasi. Questo è tutto ciò che possiamo ipotizzare circa il popolamento della zona nel periodo premedievale: esiguità numerica, tipologia dei depositi e qualità delle descrizioni a essi relative non permettono di aggiungere altre indicazioni. 2. Le fonti archivistiche: un contributo per la ricostruzione della topografia storica fra X e XIV secolo La difficoltà di reperire tracce in superficie dei siti medievali (spesso frequentati senza soluzione di continuità fino alle epoche moderne), limita fortemente le potenzialità dell’indagine territoriale nel cogliere l’articolazione della rete insediativa di questo periodo. Dunque, in riferimento al Medioevo, la dotazione archivistica rappresenta la fonte privilegiata da cui attingere dati utili a una ricostruzione sufficientemente realistica della topografia storica; permette infatti di estrapolare toponimi associati a termini istituzionali, che ne definiscono la tipologia insediativa, e di leggere, negli abbandoni e nelle trasformazioni delle varie forme abitative, le tendenze diacroniche del popolamento. Per il chiusdinese, il censimento sistematico della documentazione storica ha determinato un incremento delle notizie pari al 900% rispetto a quelle riferite dall’edito archeologico; per il 14% si ascrivono al tardo X secolo-inizi dell’XI, mentre le restanti si concentrano in uno spazio cronologico compreso fra la seconda metà del XIII secolo e i primi decenni del XIV. Le attestazioni riferibili alla seconda metà del X secolo (desunte da quattro documenti) indiziano una rete di case sparse (sette) e villaggi (uno), organizzati intorno agli organismi curtensi (due). Nei primi anni dell’XI secolo, l’unica variazione dell’assetto territoriale riguarda la comparsa dei castra. Le fonti (anche in questo caso numericamente limitate) testimoniano la fortificazione di una delle curtis e la continuità dell’unico casale precedentemente attestato. Il trend riconosciuto mostra una distribuzione abbastanza omogenea nello spazio, caratterizzata solo dall’esclusione delle aree prettamente montuose e quelle di fondovalle, probabilmente già condizionate dai fenomeni di esondazione. La densità insediativa può essere calcolata in misura di un nucleo ogni 4,5 kmq; è comunque probabile ipotizzare valori più alti, dal momento che il numero esiguo di documenti non può essere ritenuto un campione rappresentativo del popolamento. Il silenzio delle fonti relativamente al periodo fra XI secolo e prima metà XII secolo non impedisce di ipotizzare una sostanziale continuità nell’organizzazione del territorio, secondo un sistema insediativo di tipo accentrato articolato in castelli e villaggi. Alla progressiva ripresa della documentazione nel corso del XII secolo, registriamo infatti un solo abbandono mentre vengono attestati due nuovi centri fortificati e cinque nuclei insediativi aperti; è assente l’abitato sparso. In questa fase emerge una netta predilezione per gli spazi di media e alta collina (69% delle presenze), con la frequentazione sporadica anche dei primi rilievi (23%). Con il passaggio al XIII secolo, l’ampia disponibilità di fonti permette di proporre un modello insediativo esaustivo. Lo spoglio sistematico della documentazione archivistica porta a un incremento complessivo delle informazioni pari al 630%. Si delinea una maglia insediativa, organizzata in castelli, villaggi e grange e corredata da un sistema di aree di sfruttamento agricolo e strutture produttive; la densità demografica cresce fino a un nucleo ogni kmq. La rete del popolamento si distribuisce a coprire l’intero territorio in modo abbastanza omogeneo con valori leggermente superiori per quanto riguarda le aree di alta collina (28%); per il resto le percentuali si aggirano intorno al 14% per le zone di alta quota, al 19% per quelle collinari e al 9% per la pianura: l’occupazione (seppure parziale) degli spazi di fondovalle per scopi agricoli, è da ritenere conseguente al piano di bonifica della zona messo in atto dai cistercensi. Nelle aree più elevate si collocano i centri incastellati; intorno a essi, a una quota uguale o leggermente inferiore, si dispongono i nuclei aperti, mantenendo distanze regolari fra loro (1.5 km) e rispetto al castello (2-3 km). Le aree di sfruttamento agricolo, destinate a diversi tipi di colture, sono concentrate per lo più negli spazi pianeggianti o di bassa collina, in posizione favorevole alla rete idrica. 3. L’utilizzo della documentazione d’archivio Il patrimonio documentario, cui abbiamo fatto riferimento, consiste in tre archivi a carattere amministrativo e istituzionale, relativi a un arco cronologico compreso fra la seconda metà del XIII secolo e la prima metà del XIV secolo: il Caleffo di San Galgano, le Pergamene di Montieri e la Tavola delle Possessioni. Il primo, raccolto in tre volumi, riproduce in copia autenticata da 17 notai senesi tutto l’archivio del monastero o almeno una sua parte consistente. Redatto fra il marzo 1319 e il febbraio 1320, risponde all’esigenza dei monaci di dotarsi di uno strumento di facile consultazione che certificasse la consistenza del loro patrimonio fondiario. I volumi contengono 2.324 documenti, prevalemente ordinati con criterio di tipo geografico. Ogni tomo è preceduto da un repertorio degli instrumenti contenuti e all’inizio di ogni quaterno viene indicato l’argomento o il luogo a cui si riferisce; al margine di ogni carta viene poi riportato il luogo di cui si tratta nello specifico. Gli atti economici sono trascritti per esteso con data, nome dell’acquirente e del venditore, oggetto dell’acquisto definito da toponimo, termine giuridicoistituzionale, corte di appartenenza, estensione ed eventuali clausole. L’archivio è stato oggetto di uno spoglio conservato presso l’Archivio di Stato di Siena (consultato nel corso della nostra ricerca). Le pergamene di Montieri (88 pergamene, conservate in massima parte nell’Archivio di Stato di Siena dal 1899) contengono un elenco dei contratti di vendita, stipulati fra il 1255 e il 1337, relativi al castello di Miranduolo e ai terreni a esso pertinenti. Le carte, ordinate con criterio cronologico, riportano informazioni relative ad acquirenti e venditori (nome, patronimico e luogo di residenza), all’oggetto acquistato (estensione della parte ceduta, toponimo definito dal termine istituzionale, raramente i confini), eventuali clausole. Il fondo è stato oggetto di alcuni spogli. Quello redatto nel 1796 (contraddistinto dalla sigla Ms. B.96) comprende alcuni documenti andati perduti nel periodo compreso fra questa data e la consegna all’Archivio di Stato: contiene repertori dei nomi dei contraenti e degli argomenti e luoghi. Uno spoglio successivo (Ms. B.23), è stato invece composto al momento dell’attribuzione all’Archivio senese e comprende le sole pergamene presenti in quell’anno. Altri due spogli (Mss. B.95 e B.23 bis) risalgono a un periodo ancora posteriore e non sono privi di lacune e inesattezze. Nel corso del nostro lavoro, abbiamo consultato in modo parallelo le fonti disponibili. Infine, la Tavola delle Possessioni rappresenta l’inventario fiscale di tutti i beni immobili presenti nella città di Siena e nella sua campagna, rilevati da commissioni addette negli anni 1316-1320, per volontà del Governo dei Nove. In volumi distinti secondo i diversi Comuni o popoli, sotto il nome dei proprietari (riportati in ordine alfabetico) sono raccolte tutte le varie particelle delle loro proprietà, descritte con nomi dei confinanti, indicazione delle colture presenti, estensione e stima in denaro; per la zona d’indagine, rimangono i tomi relativi a Frosini, Luriano, Pentolina, Tamignano e “Palazzetti, Ficchi e Montecchio” (oggi rispettivamente Le Palazze e Montecchio). Il lavoro sulle fonti archivistiche, al di là della raccolta delle informazioni storiche, è stato finalizzato a censire ogni tipo di indicazione topografica; dalla semplice menzione isolata del toponimo (ad esempio, nell’attestazione di provenienza di individui) alla più complessa citazione descrittiva. I dati ottenuti sono stati poi cartografati o attraverso la corrispondenza con nuclei abitativi attuali oppure attraverso l’assimilazione con alcuni indizi toponomastici conservati sul territorio; alcune evidenze, definite da nomi legati al quotidiano (indicazioni secondo il nome del proprietario o con forme popolari), hanno invece trovato solo una collocazione generica nelle pertinenze dei maggiori centri insediativi (cioè compresi nell’ambito della corte relativa al censimento). Per quanto riguarda la Tavola delle Possessioni, il problema della scomparsa dei toponimi si è proposto in particolar modo per il volume sulle corti di Luriano, Pentolina-Tamignano e Palazzetti, dove la percentuale delle attestazioni rintracciabili si limita al 37%; diverso il caso di Frosini, dove l’incidenza dei toponimi conservati sale al 58%. Purtroppo la perdita delle “tavolette preparatorie”, nelle quali i censori rilevavano graficamente le particelle, penalizza fortemente il processo di identificazione degli spazi catastati. La lettura integrata del fondo cistercense e dell’inventario senese ha permesso di ricostruire un quadro abbastanza esauriente della realtà territoriale nel periodo compreso fra i secoli centrali e il basso Medioevo; la dimensione sincronica della Tavola (fotografa infatti un paesaggio statico al 1318), viene superata con l’ausilio del Caleffo, che accogliendo documenti redatti a partire dal XII secolo, propone una visione diacronica della maggior parte degli agglomerati censiti. Praticamente, il lavoro sull’Estimo ha previsto la trascrizione di tutti i toponimi, eventuali strutture presenti, estensione e tipo di coltura delle varie particelle di terreno; ciò che riguarda gli spazi agricoli è stato utilizzato come dato individuale per ciascun luogo (per capirne cioè la funzione specifica all’interno dell’organizzazione della terra) senza essere proiettato nella definizione del paesaggio agrario di XIV secolo. Il catasto (in quanto particellare) non definisce mai l’identità istituzionale delle località e, in un’ottica di tipologizzazione degli insediamenti, non fornisce dati utili; studiando la diversa incidenza di percentuali di terreno e di edifici abitativi, abbiamo dunque formulato ipotesi, che hanno poi trovato conferma nel Caleffo. Toponimi associati quasi esclusivamente a strutture abitative, e sporadicamente a piccole porzioni di ortivo, sono state interpretati come villaggi (nel Caleffo villae); quelli invece caratterizzati da grandi estensioni di spazi coltivi sono state letti come aree a sfruttamento agricolo (nel Caleffo loci dicti). Entrambi i termini non danno difficoltà di interpretazione. Villa corrisponde a un nucleo insediativo aperto per lo più accentrato, mentre loco dicto sta a indicare una porzione di terreno, sia coltivato che incolto, privo di strutture abitative, una ‘località’ in senso generico: è questa l’accezione più appropriata per quei toponimi che il Caleffo definisce solo e sempre con tale termine (corrispondenti alle aree agricole della Tavola). Nei molti casi invece, in cui il termine loco dicto viene accostato a toponimi con connotazione insediativa ben precisa, si propone un significato di “nelle vicinanze”. La complementarietà dei due archivi ha garantito una riproduzione abbastanza fedele dell’aspetto giuridico-istituzionale ed economico della corte di Frosini, nella quale convergono ampiamente le due documentazioni. Manca purtroppo la Tavola delle Possessioni di Chiusdino; ciò impedisce di produrre lo stesso grado di dettaglio anche per la sua corte. Lo stesso sistema di raccolta dei dati è stato applicato alle pergamene di Montieri. Attraverso i dati contenuti in questo fondo è stato possibile ricostruire le trasformazioni giuridiche del castello di Miranduolo; delimitare il territorio compreso nella sua giuridizione; identificare i proprietari succedutisi; infine, individuare le principali attività economico-produttive sviluppate al suo interno. Alessandra Nardini IV – L’INDAGINE SUL COMUNE DI CHIUSDINO Introduzione La ricerca sul comune di Chiusdino, svolta nel biennio 1993-1995, fa parte dei primi interventi promossi nell’ambito della Carta Archeologica della Provincia di Siena; un progetto che, a dieci anni dalla sua attivazione, registra 19 casi esaminati (di cui otto già pubblicati) e tre in corso di studio su un totale di 36 comuni. La nostra esperienza segue da vicino le ricerche effettuate sul Chianti senese e nell’alta Val d’Elsa, che hanno rappresentato un momento decisivo nell’elaborazione e nella sperimentazione di un metodo concernente l’impostazione del lavoro, la decodifica e il trattamento del dato raccolto. Questi volumi, preceduti da alcuni interventi introduttivi, nascono infatti sulle linee teoriche e metodologiche sviluppate dall’area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena partecipando al dibattito internazionale che ha investito i criteri alla base dell’indagine, le scelte operative del lavoro sul campo, la definizione della tecnica di ricerca, le categorie di lettura delle emergenze in superficie, il problema della visibilità del Medioevo. Quindi, l’indagine su Chiusdino, sia nell’impostazione, sia nell’elaborazione, segue l’impalcatura metodologica costruita in questa esperienza e nel presente paragrafo illustreremo le scelte effettuate per la pianificazione delle aree da battere, nella lettura dei dati, nel costruire modelli della diacronia insediativa attraverso l’impiego delle moderne tecnologie informatiche. La pianificazione della strategia, consistente nella scelta di eseguire la ricognizione di aree campione rappresentative, viene subordinata a una preliminare definizione del contesto di studio sulla base delle sue caratteristiche paesaggistiche e geomorfologiche (determinanti nella progettazione del lavoro sul campo) e della documentazione disponibile (censimento delle informazioni edite, utili a isolare aree di maggiore o minore probabilità archeologica e a stilare un questionario di domande in grado di indirizzare la ricerca stessa). Focalizzare le peculiarità del territorio significa sapere scegliere gli strumenti di indagine più idonei alle sue caratteristiche fisiche e all’uso del suolo che lo caratterizza; l’incidenza degli spazi indagabili (seminativi e, talvolta, colture stabili) su quelli non battibili (bosco, pascolo, incolto) rappresenta infatti una discriminante sul tipo di strategia e sui metodi di rilevamento dei depositi sommersi. Non solo: riconoscere i fattori di condizionamento della visibilità/conservazione del patrimonio archeologico potrà consentire una stima preliminare del suo potenziale e della sua resa. Una metodologia nella lettura delle emergenze di materiali mobili in superficie si rende indispensabile nel definire un ‘paradigma condiviso’ per l’archeologia di superficie, auspicato sino dai primi passi del progetto Carta Archeologica: scaturisce dalla necessità di limitare la soggettività interpretativa del ricercatore in fase di registrazione del dato e di consentire la corretta comunicazione alla comunità scientifica dei risultati conseguiti, prevedendo l’adozione di categorie di lettura dei depositi emersi. La modellizzazione dei dati ottenuti nel corso dell’indagine estensiva riguarda strettamente le finalità di ricerca. Produrre carte archeologiche territoriali non può limitarsi al censimento del patrimonio conservato nel sottosuolo e di quello presente ancora in elevato; un obiettivo di questo tipo, prezioso indubbiamente dal punto di vista della tutela e della conservazione del bene archeologico, non esaurisce però la volontà di ‘fare’ storia, di ricostruire la realtà socio-economica e insediativa (e la sua evoluzione in senso diacronico) del comprensorio analizzato. Di qui, la necessità di ‘modellizzare’, di riconoscere delle tendenze del popolamento essenziali nella comparazione delle diverse realtà territoriali studiate e, in seguito, ampliare o completare tali modelli in funzione delle nuove suggestioni emerse proprio da tali confronti. Il concetto di “modello” esprime il giusto livello di astrazione del dato, a cui il ricercatore deve tendere affinché la sua ricerca non rimanga isolata e costituisca oggetto di studio e di approfondimento per altre indagini. L’efficacia di un’impostazione di questo tipo trova la sua prima, e forse più concreta, conferma proprio nei contributi prodotti all’interno del Progetto Carta Archeologica. Con il procedere delle indagini nei diversi comprensori comunali, tende a definirsi sempre più chiaramente il quadro ricostruttivo in senso diacronico dello sviluppo socio-economico dell’intera provincia di Siena: emergono chiaramente differenze e similitudini nelle linee evolutive del popolamento, i condizionamenti degli eventi storico-economici sulla formazione e sulle modificazioni del tessuto insediativo e infine l’organizzazione del potere e la sua influenza sul territorio. La possibilità di verificare le ipotesi prodotte su ogni singolo contesto in una prospettiva di così ampio respiro costituisce una sorta di valore aggiunto alle elaborazioni prodotte; in altre parole, ogni singolo ricercatore costantemente deve procedere alla verifica dei propri modelli sulla base degli altri ed è dunque costretto a valutare i propri risultati in una prospettiva che supera necessariamente l’ambito specifico del suo lavoro. In questo senso, un elemento ulteriore di raffinazione del processo interpretativo (concretizzato per la prima volta nel volume relativo all’alta Val d’Elsa), è stato determinato dall’adozione del mezzo informatico, legato in special modo alla tecnologia GIS. Questo sistema è infatti particolarmente adatto allo studio del territorio sia per le sue potenzialità di analisi sia per la natura stessa del suo metodo di catastazione del dato; ogni singolo rinvenimento viene infatti inserito in forma georeferenziata all’interno di una piattaforma, che ricompone di fatto la realtà territoriale attraverso la sovrapposizione di tutti i livelli di informazione (aspetti morfologici, geologia eccetera): la possibilità di usufruire di uno strumento che permetta di studiare contesti spaziali molto ampi, senza difficoltà, aumenta il potenziale di ricerca in modo decisamente significativo. Per ottenere un confronto veritiero di diverse realtà territoriali, dobbiamo poterle comparare secondo il loro potenziale ‘reale’ o almeno ‘realistico’: cioè il più possibile tarato sulla base dei fattori di condizionamento determinati da peculiarità geomorfologiche (ad esempio, massiccia presenza di superfici coperte a vegetazione stabile) o dalle caratteristiche dello sfruttamento antropico esercitato nel tempo (pratiche agricole troppo invasive oppure assenti, abbandono della terra eccetera), che possono aver compromesso la buona qualità della raccolta del dato di superficie. È necessario dunque applicare un criterio di lettura che permetta in un certo senso di modellizzare la potenzialità archeologica: compiere cioè una valutazione predittiva di quanta archeologia presente nel sottosuolo non emerge o non è visibile in concomitanza di una serie di eventi naturali, economici, sociali eccetera. Perché tale esigenza si pone in occasione dell’indagine su Chiusdino? Accenniamo ad alcune caratteristiche principali di questo comprensorio: un progressivo quanto massiccio abbandono a partire dal XVIII secolo, una parziale riappropriazione di questi spazi solo negli ultimi anni, una condizione di marginalità all’interno del tessuto provinciale interrotta solo dalla fama dello straordinario monumento dell’abbazia di San Galgano e della ‘mitica’ spada della roccia che, insieme alla agiografia sviluppata intorno alla figura del santo, hanno contribuito a disegnare una sorta di aura mistica intorno a questo insediamento. Questi aspetti hanno concorso a definire una realtà territoriale diversa dalla maggior parte del senese e hanno condizionato e limitato i risultati della ricerca. Il Chianti senese e l’alta Val d’Elsa, come anche molti altri territori già studiati o in corso di studio, si presentano come oggetti di indagine pressoché omogenei: ampia letteratura relativa ad almeno alcuni dei periodi storici principali, forte e costante sfruttamento della terra, limitata presenza delle aree boschive (a parte i casi di Radda in Chianti). Il comune chiusdinese invece costituisce un caso diverso: limitatezza degli spazi indagabili determinata dalle condizioni di abbandono e della decisa presenza del bosco, quasi totale assenza di documentazione archeologica, scarsità di fonti storiche relative ai periodi precedenti ai secoli del basso Medioevo. Se noi leggessimo il dato emerso al termine dell’indagine in senso assoluto, avremmo un quadro fuorviato, e fuorviante, della sua storia insediativa; è dunque necessario valutare il rapporto potenziale archeologico/visibilità archeologica/resa archeologica per ottenere una ricostruzione realistica (sempre nei limiti connaturati alla ricerca di superficie) del contesto studiato. Dal punto di vista metodologico, questo aspetto rappresenta l’unica peculiarità e l’unico elemento di novità nella impostazione della nostra ricerca; l’applicazione degli strumenti di analisi propri della tecnologia GIS per capire l’incidenza percentuale dei fattori di condizionamento e soprattutto quantificare quanto questi possano condizionare la lettura esaustiva del dato archeologico. 1. Obiettivi dell’indagine Come hanno sottolineato Francovich e Valenti nel volume di sintesi e confronto fra le varie esperienze effettuate in Toscana, la costruzione di carte archeologiche prevede il perseguimento di due obiettivi principali, uno scientifico (comprendere l’evoluzione insediativa di una regione) e uno politico (fare entrare definitivamente l’archeologia nelle dinamiche di gestione e valorizzazione che la riguardano). Le finalità principali della ricerca sul chiusdinese sono quindi state la lettura sincronica e nella diacronia delle forme assunte da rapporti di tipo residenziale (ricostruendo così il processo di formazione del territorio), la produzione di carte tematiche su cui leggere la formazione del paesaggio e catastare la risorsa archeologica. Nel cogliere le tendenze insediative abbiamo tentato di perfezionare i modelli di popolamento proposti per il settentrione della provincia, quindi allargare il ventaglio delle variabili possibili, verificandone la validità su un contesto diverso per posizione geografica, per vicende storiche e per implicazioni di carattere strategico ed economico- produttivo. Si trattava dunque di estendere la ricerca sugli spazi orientali del senese e tarare i modelli sulla base di nuove evidenze, contribuendo ad allargare le conoscenze sulla storia insediativa di questo territorio. Il confronto permetteva poi di verificare la resa archeologica in relazione a tipologie diverse di intervento sul paesaggio collegate alle moderne politiche economiche e demografiche. Mentre il comprensorio Chianti-Valdelsa rappresentava in questo senso un campione particolarmente favorevole (molto esteso, con un alto potenziale archeologico e con un alto valore in termini di resa archeologica, anche grazie a caratteristiche di sfruttamento del suolo ideali per la ricognizione sul campo), il chiusdinese offriva invece l’occasione di stimare e valutare il rapporto fra potenzialità, visibilità e resa archeologica su un’area intrinsecamente diversa dalle precedenti. Era inoltre possibile valutare il grado di rappresentatività dell’informazione edita rispetto al potenziale espresso dal territorio. Anche in questo senso, il chiusdinese rappresentava un’eccezione rispetto alle altre zone, per l’assenza pressoché totale di notizie: condizione che, di fatto, gli assegnava un ruolo di marginalità assoluta nel corso dei periodi premedievali. Se per l’antichità lo spettro delle domande si limitava essenzialmente alla verifica della presenza di forme insediative e il loro rapporto con il paesaggio (senza articolare e approfondire gli aspetti modellistici evincibili dall’edito), per il Medioevo, invece, la documentazione storica, nonostante la sua esiguità, forniva un’ampia serie di interrogativi. Proponeva infatti alcuni indicatori che autorizzavano ad attribuire al chiusdinese un ruolo strategico decisamente in contrasto con l’immagine attuale. In proposito, basta pensare alla fondazione delle due abbazie, Santa Maria di Serena (XI-XII secolo) e San Galgano (XIII-XV secolo), e all’interesse manifestato da ceti e da organismi dominanti, come il Vescovato volterrano e la famiglia Gherardeschi prima (a partire dalla seconda metà del X secolo con alterne vicende fino alla prima metà del XIII secolo) e la città di Siena dopo (a partire dal XIII secolo fino a tutto il XIV secolo). Per il periodo compreso fra la fine del X secolo e la prima metà del XII secolo, era necessario contestualizzare la presenza della famiglia comitale nel territorio; comprendere le finalità di carattere politicostrategico ed economico alla base del loro intervento in Val di Merse. Ricercare e interpretare i castelli di Serena e Miranduolo (espressione del loro potere nella zona), attraverso l’analisi delle evidenze in superficie, e indagarne gli spazi circostanti per rintracciare indizi di attività economiche, a essi connesse, rappresentava uno degli obiettivi di base della ricerca. Questo aspetto riguardava in special modo il castello di Miranduolo, indicato dalle fonti come riferimento di attività produttive legate all’estrazione dell’argento. Per quanto riguarda le fasi bassomedievali, l’attenzione doveva necessariamente spostarsi verso l’abbazia cistercense di San Galgano. In primo luogo, nella definizione della topografia dello spazio a essa circostante per ricostruire la pianta storica dell’insediamento; poi, nella comprensione della maglia insediativa di ‘contorno’ all’abbazia per cogliere eventuali forme di condizionamento dei cistercensi sul precedente assetto territoriale. 2. Impostazione dell’indagine sul campo: la scelta delle aree campione Per rispondere agli interrogativi proposti, sono stati previsti due campioni di indagine. Il primo era rivolto a chiarire gli aspetti legati alla prima fase di incastellamento e prevedeva l’indagine mirata all’interno di 11 kmq di bosco, corrispondenti all’area interessata dai ruderi dei castelli di Serena e Miranduolo. Il secondo, impostato per cogliere la diacronia del popolamento, è stato forzatamente dimensionato sullo spazio occupato dalla maggior parte dei terreni liberi da vegetazione stabile; si è così ritagliato un campione nella parte centrale del comune (delimitato a nord e a ovest dai castelli di Frosini e Chiusdino e a sud dall’abbazia di San Galgano), esteso per 48,3 kmq, che, nella previsione a tavolino, auspicavamo di poter battere almeno per il 60%. I vincoli imposti dallo sfruttamento del suolo hanno messo di fatto in subordine ogni altra discriminante; la ricognizione sistematica della superficie boscata avrebbe infatti richiesto tempi di realizzazione troppo lunghi e con un dispendio di energie non proporzionale ai risultati. Come indicato da Francovich e Valenti la scelta di indagare estensivamente (e non in modo mirato) i boschi non pagherebbe sufficientemente in termini di risultato; inoltre il grado di visibilità molto basso e il dispendio enorme di tempo in una ricognizione inciderebbero troppo sull’economia di ricerca. L’esperienza svolta nel settentrione del senese non ha fornito risultati soddisfacenti; ha piuttosto ribadito la necessità di adottare tecniche di analisi in laboratorio e successivamente riscontri pratici. Lo stesso complesso dei rinvenimenti effettuati nei boschi del Chianti senese, apporta conferme. Le presenze sono state individuate grazie all’apertura di cesse antincendio o di stradelli o dopo segnalazioni di abitanti del luogo (35% dei casi), e verificando le indicazione prodotte dalla fotointerpretazione (65%). In definitiva, il transetto isolato appariva sufficientemente corrispondente alle esigenze dell’indagine estensiva; comprendeva tre dei quattro habitat presenti, il 75% dei rinvenimenti noti e il 56% delle attestazioni riferite dalle fonti d’archivio: sembrava dunque comprendere le aree più idonee all’insediamento umano. Per capire, però, in quale misura la zona individuata rappresentasse gli spazi privilegiati di frequentazione e corrispondesse alle esigenze insediative delle diverse fasi del popolamento, si è fatto ricorso al confronto con le tendenze emerse nel corso delle ricognizioni su Chianti senese, Val d’Elsa, Radicondoli, Sovicille e Murlo. Stimando l’incidenza percentuale delle presenze in relazione alla rete fluviale e alla geologia, volevamo ottenere indicazioni statistiche che, proiettate sul territorio chiusdinese, isolassero areali di potenzialità insediativa; verificare così se la configurazione naturale del territorio fosse più o meno idonea alle forme di occupazione del suolo in senso diacronico; e infine calcolare quanto il campione di indagine fosse rappresentativo del potenziale archeologico stesso. Dato che al momento dell’indagine non disponevamo ancora di strumenti informatici, la prima valutazione in tal senso è stata ottenuta attraverso il calcolo manuale delle frequenze dei siti in concomitanza con le variazioni geo-morfologiche dei diversi territori; in questa sede, sfruttando la tecnologia GIS abbiamo invece potuto perfezionare i sistemi di trattamento del dato e conseguire risultati più esaustivi. L’analisi si è limitata ai transetti battuti e ha trattato 1.123 emergenze di superficie (databili fra la preistoria e il Medioevo) distribuite su un’area complessiva di 348 kmq. Per valutare la distribuzione dei siti in rapporto alla risorsa idrica, abbiamo dunque disegnato fasce di buffer ogni 100 m attorno ai principali corsi d’acqua, confidando nel fatto che i loro tracciati non abbiano subito modificazioni significative nel corso dei secoli; abbiamo invece escluso i fossi e i piccoli torrenti perché poco rappresentativi e troppo soggetti a trasformazioni. Il quadro emerso indica la maggiore concentrazione dei siti in un’area compresa fra i 100 m e i 500 m di distanza, con una densità variabile fra un massimo di 3,50 evidenze per kmq (rilevate fra i 400 e i 500 m) e un minimo di 2,56 nell’area dei 300-400 m; i valori intermedi si attestano invece al di sotto dei 100 m (2,71 emergenze per kmq) mentre i più bassi si registrano superando i 500 m, con una media di 1,50 depositi per kmq. La distribuzione dei rinvenimenti in rapporto ai suoli, è stata calcolata invece dividendo l’estensione di ogni formazione per il numero di presenze collocate al suo interno. La densità maggiore è stata riconosciuta in corrispondenza dei travertini e dei conglomerati (entrambi con 6,62 siti per kmq), sui depositi detritici (7,55 siti per kmq), sugli ofioliti (6,04 presenze per kmq); valori variabili fra 4-5 evidenze per kmq ricorrono per i terreni argillosi, le sabbie e le rocce mentre scendono a 3,16 siti per kmq in corrispondenza di quelli alluvionali. Se nell’analisi inseriamo anche i siti noti (comprendendo quindi anche castelli, villaggi e chiese), vediamo crescere di 2,50 punti percentuali il grado di incidenza delle rocce; indizio di una tendenza delle forme insediative maggiori a occupare terreni più resistenti (rocce) mentre quelle minori, più rintracciabili sotto forma di tracce in superficie, privilegiano i suoli meno duri, più facili da sfruttare. Attraverso l’intersezione delle due griglie, abbiamo ottenuto un gamma di valori esemplificativi delle tendenze tarate su entrambi i fattori ambientali. I dati sono stati dunque proiettati sul territorio chiusdinese e visualizzati all’interno del GIS sotto forma di cromatismi variabili a seconda del grado di potenziale presenza dei siti: le aree di massima probabilità in gradazioni di blu, di minima di giallo, intermedia di verde (Fig.11). Ne emerge che le zone in assoluto più idonee all’insediamento (colorazione blu scuro) si concentrano nella porzione occidentale del comune in corrispondenza dei primi rilievi (intorno e a ovest Montalcinello e a est dalle propaggini delle Colline Metallifere); gli spazi ad alto potenziale si distribuiscono invece nella parte centro ovest (comprendendo Frosini, Papena e Ticchiano) e in quella sud-est (a ovest di Pentolina e Spannocchia e a est del confine comunale di Monticiano), circondando i fondovalle alluvionali della Val di Feccia, connotati da un basso grado di probabilità. Le aree con la minore incidenza di rinvenimenti sono descritte dalle zone montuose, poste a ovest, in prossimità del confine con il comune di Montieri. Risalta la corrispondenza con i diversi habitat; massima probabilità per B e C, bassa per l’habitat A, minima per il D. Sovrapponendo al grid ottenuto la carta dell’uso del suolo, riusciamo poi a valutare in quale proporzione queste aree identifichino quelle con il maggior grado di visibilità. Vediamo che le superfici boschive risparmiano in misura del 60% le zone di maggior probabilità insediativa; di queste superfici, il 37% sono comprese nel campione di indagine (Fig.12). Si evince così che il transetto rappresenta effettivamente la potenzialità archeologica, espressa dall’analisi delle evidenze di superficie censite sui nove comuni. Di conseguenza, il verificarsi di condizioni geo-morfologiche idonee al popolamento, assimilabili a quelle individuate nel resto del territorio, permette di inserire, in via preliminare, il chiusdinese in una tendenza insediativa altrove riconosciuta. Se dunque si fosse realizzata la previsione a tavolino, di una battitura per il 60% del transetto, avremmo avuto la possibilità di fare una stima realistica del potenziale rispetto a quello emerso nel corso delle altre ricerche. L’uso del condizionale, in questo caso, è d’obbligo: le aspettative riguardo alla visibilità del campione sono andate deluse e hanno lasciato aperti molti interrogativi ai quali tenteremo di rispondere, proponendo ipotesi predittive riguardo alla presenza di archeologia nel territorio. 3. L’indagine sul campo Il lavoro sul campo, svolto nel biennio 1993-1995, si è articolato su due campagne di fieldwalking, con un team di quattro ricognitori, per una durata complessiva di sette settimane. Il censimento delle emergenze presenti in elevato e il rilievo delle evidenze murarie relative ai castelli di Serena e Miranduolo ha occupato tre settimane, con l’impegno di due ricognitori. Contemporaneamente si è proceduto alla verifica delle 16 anomalie individuate tramite fotoaereointerpretazione: nessuna segnalazione ha però trovato conferma sul campo. L’elemento di disturbo nell’applicazione del metodo è la peculiare fisionomia del chiusdinese; la frequenza di superfici rilevate e naturalmente appiattite, marcate da profonde incisioni vallive (in corrispondenza dei molti corsi d’acqua), disegnano infatti un paesaggio caratterizzato da sommità tabulate spesso fraintendibili. Rispetto alle previsioni, l’indagine sul terreno ha richiesto tempi più limitati: si è dovuto infatti sospendere per mancanza di arativi da battere. A causa delle normative CEE (a cui abbiamo fatto riferimento nel primo capitolo di questo volume), lo sfruttamento del suolo a scopo agricolo in quegli anni era stato fortemente inibito e di conseguenza gli spazi arati erano ridottissimi. Inoltre, una percentuale importante dei campi lavorati si distribuiva lungo il Piano di Feccia, nel quale la presenza di suoli alluvionali limitava in modo deciso la ricognizione; le consistenti infiltrazioni d’acqua determinavano infatti la compattazione del terreno immediatamente dopo l’aratura, compromettendo la visibilità delle emergenze di superficie. L’unica strategia attuabile era quella di battere il terreno contemporaneamente ai lavori agricoli, seguendo cioè il percorso del mezzo meccanico: per ovvi motivi, questo metodo non ha superato il limite della pura coincidenza e non è stato utile a garantire una copertura sistematica di questi spazi. La superficie battuta è di 8 kmq, pari al 16,6% dell’estensione totale del campione e al 5,7% dell’estensione totale del territorio (Fig.10). Nonostante la scarsa visibilità, il dato relativo alla resa archeologica è invece positivo. Il numero complessivo dei siti sale infatti a 214 unità; escludendo le attestazioni edite e inedite, registriamo un aumento di 63 siti pari a un incremento del 370%. In più circostanze, nel corso dell’indagine, si è riproposto il problema della visibilità delle emergenze di reperti mobili in superficie. A parte il caso già citato relativo ai terreni alluvionali, un altro dato interessante emerge dall’alta percentuale dei rinvenimenti sporadici, quantificabile in misura di uno ogni quattro evidenze ben leggibili; il rapporto risulta superiore a quello calcolato, ad esempio sui Comuni di Poggibonsi (1/7) e di Colle Val d’Elsa (1/5,5) ma anche per Castelnuovo Berardenga o Castellina in Chianti. La causa, anche in questo caso, è direttamente connessa a uno sfruttamento non intensivo del suolo e alla pratica agricola: un tipo di aratura poco profonda che arriva appena a intaccare il deposito conservato nel sottosuolo, provocando l’emersione non coerente del materiale. Solo il 20% degli sporadici sembra, invece, indicare depositi depauperati e si concentra nella parte sudorientale del comune, sottoposta da decenni a coltivazioni continuative di cereali; in questi stessi spazi, anche le concentrazioni sono spesso difficilmente definibili nelle loro reali dimensioni. Le evidenze più leggibili, sia nella loro pianta ipotetica che nella loro articolazione interna, ricorrono invece nelle aree sottoposte solo in tempi recenti ad aratura, per lo più dislocate nella parte occidentale del comune. Tempi di indagine più lunghi avrebbero permesso di stilare una casistica più articolata del grado di visibilità dei siti in rapporto ai sistemi di lavorazione del terreno. Nel corso del nostro intervento, la rotazione ciclica delle coltivazioni ha impedito di verificare durante la seconda campagna eventuali modificazione occorse alle presenze già accertate. L’unica conferma all’ipotesi di un aumento progressivo della visibilità delle emergenze dei reperti è stata offerta da una verifica fatta nell’estate 2001 sugli spazi antistanti l’abbazia di San Galgano. Si è infatti rilevato un incremento consistente nella raccolta del materiale in superficie e una maggiore articolazione dell’evidenza (peraltro già ben leggibile nel corso della campagna del 1994). 4. Categorie di lettura delle emergenze di reperti mobili in superficie Da tempo Valenti ha evidenziato la necessità di convergere verso criteri interpretativi comuni delle emergenze di materiali mobili in superficie per arginare i limiti soggettivi delle letture e per potere procedere a confronti attendibili fra le diverse ricerche. Per indirizzare tutti i ricognitori impegnati nel progetto Carta Archeologica della Provincia di Siena verso una metodologia interpretativa comune, e per dichiarare i criteri della nostra lettura dei contesti di superficie, si sono costruiti repertori casistici, al cui interno individuare gruppi di tendenze omogenee in relazione a due variabili: osservazione statistica di dimensioni e componenti della concentrazione. Contare i reperti mobili e misurare l’estensione dei depositi emergenti dal terreno diviene quindi indispensabile per una corretta lettura dei rinvenimenti; il computer, nella fattispecie i GIS e i fogli di calcolo, sono quindi vitali nella creazione di una casistica di categorie. Il risultato ottenuto attraverso questa procedura ha mostrato una scala dimensionale di strutture caratterizzate da diverso grado di complessità; rappresentano categorie interpretative e quindi modelli ipotetici la cui aleatorietà viene ridotta da una maggiore capacità di ammaestrare i dati prodotti dal rilievo empirico e osservando le regolarità delle manifestazioni archeologiche di superficie. Di seguito elenchiamo le categorie di lettura applicate ai contesti di superficie. La casistica risulta sostanzialmente corrispondente a quella stilata per il Chianti senese; sono però inferiori le dimensioni medie delle concentrazioni, si riduce la gamma tipologica delle forme insediativa mentre si articola quella relativa alle strutture produttive. – Abitazione realizzata interamente in materiale deperibile = restituzione di superficie caratterizzata da ceramica, scarsi (se non assenti) materiali edilizi e frequenti grumi di argilla concotta (intonaco di capanna). Dimensioni: variabile tra 232 m e 333 m; Cronologia: limitata al periodo etrusco. – Abitazione con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia = emergenza di superficie composta da ceramica d’uso comune e scarsi laterizi da copertura per lo più molto frammentati; più rari i grumi di argilla concotta. Spesso comprende scorie di fusione, probabile indizio di strutture per la lavorazione di metallo a uso domestico. Dimensioni: in media 634 m. Cronologia: dal periodo etrusco al Medioevo. – Abitazione con elevati in pietra e copertura laterizia = evidenza definita da ceramica (anche da conserva) pietre e laterizi da copertura. Talvolta presenta una suddivisione interna fra spazio abitativo (contrassegnato da ceramica d’uso comune) e magazzino (indiziato da frammenti di ceramica da conserva, scorie, talvolta frammenti di macine e grumi di argilla concotta). Dimensioni: variabile fra 738 e 938 m. Cronologia: periodo etrusco. Dimensioni: 738 m. Cronologia: età tardoantica. – Forgia = emergenza di superficie composta da scorie di fusione; molto raramente, associati anche scarti di lavorazione o frammenti di barrette di metallo non lavorate. Dimensioni: molto variabili. Le evidenze riferibili a tutto il periodo etrusco sono ridotte a semplice rinvenimento sporadico di alcune scorie di fusione. Le strutture riferibili al Medioevo hanno invece una maggiore articolazione e complessità in superficie, con dimensioni medie di 232-333 m. – Fornace da vetro = emergenza di superficie composta da scorie di produzione del vetro, in associazione ai laterizi refrattari (parti strutturali del forno). L’unico esempio individuato, riferisce ai secoli del basso Medioevo e ha dimensioni in superficie di 435 m. – Fornace da laterizi = evidenza di superficie caratterizzata da terra fortemente arrossata, scarti di lavorazione e laterizi refrattari. Dimensioni: non calcolabili. Cronologia: basso Medioevo. – Forno per la riduzione del minerale di ferro = concentrazione di superficie definita da una grande quantità di scorie di lavorazione del minerale. Le dimensioni sono estremamente variabili. – Tomba a fossa = restituzione in superficie di ossa umane non associate a materiale edilizio. Dimensioni non tipologizzabili. 5. Il trattamento delle foto aeree Gli spazi circostanti il complesso monumentale di San Galgano sono stati oggetto di esplorazione a terra ma anche di analisi attraverso il trattamento al calcolatore della foto aerea impiegando il software Photoshop della Adobe; si tratta di una procedura di lavoro che ha già fornito ottimi risultati nelle indagini preliminari sulla collina di Poggio Imperiale a Poggibonsi sino dal 1991 e che alcuni anni fa è stata definita impropriamente, e forse con eccesso di entusiasmo, da Forte come eidologia informatica. In breve si tratta di operare sui pixel di un’immagine raster per ottenere variazioni di colore che evidenzino forme geometriche interpretabili come tracce di depositi archeologici sepolti. L’occasione per impiegare questa tecnica di lettura su San Galgano è stata fornita di recente, grazie ai voli effettuati durante la Aerial Archaeology Research School svoltasi a Siena nella fine del maggio 2001 (promossa dall’Università di Siena con partner europei nell’ambito del progetto Culture 2000 della Comunità europea), in occasione della quale, con i recenti cambiamenti normativi, si è resa possibile anche in Italia l’acquisizione di fotografie aeree oblique. Le foto, scattate ripetutamente in questo periodo, sono poi state riprese nuovamente nel settembre 2001 grazie alla disponibilità di Stefano Campana ed Ermanno Betti collaboratori dell’area di Archeologia Medievale dell’ateneo senese. La tecnica di analisi delle immagini si basa essenzialmente su tre punti: a) digitalizzazione; b) taratura del colore e del contrasto; c) elaborazione del colore. a) La digitalizzazione corrisponde all’acquisizione tramite scanner dell’immagine. Sembra un passaggio banale ed elementare ma così non è; una corretta procedura risulta fondamentale per potere realizzare elaborazioni affidabili, basate su colori adeguati, fedeli al fotogramma originale e su risoluzioni tali da permettere di visualizzare il più piccolo particolare. Le risoluzioni molto alte generano chiaramente file di dimensioni estese e quindi difficoltose da gestire dalla memoria di molti computer di media portata (cioè i più diffusi); tuttavia non si può evitare di lavorare su tali scale poiché risoluzioni troppo basse potrebbero apparire, una volta caricate a video, frastagliate e confuse, e in tutti i casi non concedono un trattamento efficace bensì risultati scadenti se non inesistenti. Inoltre non è consigliabile usare uno scanner di basso livello; per trattare i fotogrammi sono infatti indispensabili acquisizioni tramite sistemi ottici affidabili e di una correzione del colore che garantisca nitidezza e precisione delle immagini. Se tali funzioni, in un recente passato, potevano essere assolte prevalentemente da service esterni, oggi l’evoluzione tecnologica e di mercato permette di accedere a tali attrezzature con uno sforzo economico non eccessivo. La scansione quindi dovrà essere indirizzata a ottenere quanti più pixel per pollice possibili: tanti più pixel potranno essere associati quante più informazioni e più dettagli saranno disponibili. Le foto di San Galgano, per esempio, in originale stampate in un formato standard di 15310 cm, sono state scansionate a 800 punti per pollice; il risultato è stato di file con un peso di 100-110 MB ma con una resa a video tale da permettere di osservare anche a occhio nudo molte delle variazioni nella crescita e nel colore della vegetazione. Queste immagini sono state trattate facilmente con un laptop di alta fascia (Apple G4 Titanium). b) Con il termine contrasto si indica la differenza tra aree chiare e aree scure dell’immagine, con brillantezza invece si intende il grado di luce che viene riflesso da un’immagine o che da essa viene trasmesso. Attraverso Photoshop sono due i metodi per effettuare una giusta taratura basata sul fotogramma originale e per mettere in uno stato ottimale di rilievo le differenze di luce-colore: lanciare il comando automatico di contrasto (auto contrast ) e poi sfumare il risultato ottenuto di pochi punti percentuale (in quanto spesso il contrasto viene ‘sparato’ all’eccesso); usare il comando manuale di ‘aggiustamento’ e basarsi sulla visualizzazione della stampa cartacea. Ambedue le operazioni forniscono già alcuni indizi su eventuali crop mark e talvolta, portare contrasto e bassa luminosità a valori limite risulta molto utile. Le tonalità più scure così evidenziate mettono già in un primo stadio di risalto crescite anomale di vegetazione soprattutto in coincidenza di strutture murarie. Il procedimento contrario (cioè agire con decisione sulla luminosità contemporaneamente a un contrasto molto forte) può invece portare in primo piano crescite anomale di vegetazione in presenza di resti in negativo (fossati, grandi buche, strade). Effettuate le operazioni di contrasto, si rende necessario passare a esaminare la gamma di ombre, mezzi toni, luci e aggiustarli attraverso i canali. Cambiando i valori relativi si rimappano i pixel dell’immagine e per ottenere elementi di evidenziazione di resti murari è preferibile scurire le zone già illuminate. A seguire si rende necessario agire sulle curve andando a correggere ulteriormente tonalità e colore; a questo riguardo la finestra “Curves” di Photoshop (una delle sue utility più potenti) permette l’aggiustamento di qualunque punto della curva dei toni. Ulteriori correzioni possono essere apportate trattando l’immagine attraverso il menù “Variazioni”, uno strumento che può essere usato solo da operatori già molto esperti nel trattamento delle immagini poiché, offrendo un modo rapido e semplice di regolare visivamente luci, mezzi toni e ombre, non concede grande precisione e si basa molto sull’intuito. Nella nostra personale esperienza, questo comando, una volta individuata la tonalità di visualizzazione delle tracce di probabili depositi archeologici, si è rivelato molto utile per il rafforzamento di visualizzazione e quindi nell’attenuare i rumori circostanti o di fondo. Finite queste operazioni si può tornare a effettuare alcuni dei passaggi descritti, secondo la propria sensibilità. Risulta spesso utile virare in negativo l’immagine e controllare il risultato; di fronte a crop mark ben visibili la loro trasposizione in negativo non può che aumentare la certezza sulla bontà del lavoro in corso. Agire anche sull’immagine in negativo con gli strumenti usati per il positivo è inoltre una strada da tentare per perfezionare la mappatura delle tracce individuate. c) L’elaborazione del colore è l’ultimo passaggio necessario per ripulire definitivamente le eventuali tracce di strutture o di depositi. Dopo avere provato le trasformazioni ottenibili da strumenti di grande utilità come la correzione selettiva del colore o il bilanciamento del colore (permettono di miscelare i colori stessi per dare maggiore equilibrio all’immagine), si agisce essenzialmente tramite operazioni sui canali. Questi ultimi sono simili alle lastre di una macchina per la stampa e permettono di visualizzare o modificare un’immagine attraverso la modifica di ogni singolo canale del colore. Su un’immagine in modalità RGB (quella più comunemente trattata) risulta utile e produttivo agire soprattutto sui canali del rosso e del verde; quello del blu raramente porta risultati apprezzabili. Il singolo canale richiede, prima di essere di nuovo sommato agli altri, un trattamento attraverso gli strumenti che agiscono sulla tonalità, sul contrasto e sui mezzi toni. Dopo avere completato le operazioni risulta infine molto utile procedere al mixaggio dei canali portandoli a valori in positivo o in negativo sulla base dei risultati che si materializzano a video. Nell’ultima versione di Photoshop (v. 6) è stato inoltre introdotto un nuovo strumento (la mappatura dei gradienti) il cui impiego sembra già fornire risultati di buon livello; in pratica virando l’immagine su un colore preselezionato, permette poi uno ‘strizzaggio’ delle sue tonalità di bianco e di nero. La sua sperimentazione richiede però altro tempo e un numero maggiore di esemplari trattati per poterne descrivere l’utilità reale. Alessandra Nardini 6. Analisi del deposito archeologico in elevato Premessa – Lo studio dell’edilizia storica presente nel territorio comunale di Chiusdino ha lo scopo di censire da un lato le principali tipologie edilizie, civili e religiose, presenti nel territorio indagato, dall’altro di individuare le tecniche costruttive e le apparecchiature murarie databili al periodo medievale. L’indagine si è inizialmente concentrata sull’analisi storicoarchitettonica delle emergenze in elevato presenti nei siti attestati dalle fonti documentarie nel periodo compreso tra X e XIV secolo. In un secondo momento l’incrocio tra fonti storiche ed evidenze archeologiche ha permesso uno studio delle diverse tipologie edilizie individuate, al fine di determinarne lo sviluppo e le possibili influenze reciproche. La campionatura delle tecniche costruttive in uso nell’ambito territoriale indagato, ha consentito inoltre di mettere a fuoco, in un costante confronto tra analisi dei resti in elevato emergenti nel castello di Miranduolo e analisi degli elevati individuati come più rappresentativi nell’area di indagine, una serie di problematiche che potranno essere almeno in parte chiarite dal proseguire dell’indagine archeologica. L’insieme di questi dati ha permesso di elaborare una tipologia delle murature attestate nel territorio di Chiusdino, in un arco cronologico compreso tra la fine dell’XI-inizi del XII secolo e la metà del XVIII secolo circa. L’indagine, messa in atto con una pratica che oscilla tra ricerche di tipo estensivo e analisi di tipo intensivo, ha consentito una strategia dell’intervento sul costruito con livelli di approfondimento diversificati. La strategia della ricerca – L’applicazione del metodo stratigrafico all’indagine degli elevati, sostanzialmente un metodo non distruttivo, ha permesso uno studio approfondito dei contesti analizzati. La metodologia adottata consente, infatti, da un lato di giungere a un livello di analiticità tale da scomporre lo spazio edificato fino all’individuazione delle singole USM, dall’altro permette di passare, in uno scambio costante di informazioni all’interno del singolo edificio analizzato, a un tipo di osservazione più generale, mirata all’individuazione delle singole parti della struttura (complessi architettonici, corpi di fabbrica, unità funzionali, ambienti) e all’individuazione della loro successione stratigrafica. In entrambi i casi il metodo adottato non inficia l’individuazione di campioni costruttivamente omogenei di muratura, riferibili a un contesto sequenziale più ampio. In presenza di complessi architettonici pluristratificati, la lettura degli elevati ha permesso, inoltre, di individuare sequenze di cronologia relativa tali da permettere di correlare ad attività edilizie datate, porzioni omogenee di muratura che altrimenti potevano essere datate solo in base ai rapporti fisici intercorrenti con il paramento murario circostante. Per questa ragione la classificazione degli apparati murari si basa, in linea di massima, sui parametri, presentati per la prima volta a Bressanone nel 1987, rappresentativi della muratura stessa, che, proprio perché applicabili in contesti e ambiti territoriali diversificati, hanno consentito la messa a punto di uno strumento d’indagine oggettivo. Ad esclusione di quello relativo alla composizione mineralogica delle malte, che contiamo di affrontare in un momento successivo, abbiamo, infatti, tenuto conto dei seguenti parametri: 1. materiali da costruzione (litotipi) e cave di provenienza; 2. caratteristiche dell’apparecchiatura muraria (posa in opera, spessore dei giunti e dei letti di posa) con un’attenzione particolare allo spessore dei conci al fine di individuare le dimensioni medie, e statisticamente trattabili, di ogni parte omogenea di muratura e di elaborare, se possibile, una mensiocronologia dei materiali da costruzione; 3. finitura superficiale dei conci e registrazione delle tracce degli attrezzi utilizzati per tale operazione al fine di stabilire una cronologia relativa e assoluta dell’impiego degli strumenti individuati. La descrizione di un paramento murario attraverso l’analisi di queste voci consente il suo inquadramento in una classificazione tipologica più vasta della tecnica costruttiva analizzata, la sua collocazione all’interno di un ambiente geologico, spesso non omogeneo come nel caso del territorio di Chiusdino, e il suo inserimento in un più vasto ambito socio-culturale. La registrazione del dato materiale si è avvalsa, oltre alle tradizionali tecniche di rilevamento, di un’accurata documentazione fotografica che, grazie anche all’utilizzo di un software per i raddrizzamenti fotografici (Nikon Planaris), ha permesso uno scambio continuo di informazioni nelle diverse fasi dell’indagine. Marie Ange Causarano 7. Il raddrizzamento fotografico Premessa – Nella fase di acquisizione dei dati per la lettura delle murature si è scelto di effettuare l’indagine conoscitiva utilizzando anche tecniche di fotogrammetria digitale non convenzionale, il che ci ha permesso di valutare sia l’aspetto quantitativo che qualitativo degli oggetti: il documento fotografico che descrive perfettamente il dato tematico, è diventato in questo modo uno strumento ancor più efficace con le immagini perfettamente ortogonalizzate, referenziate e archiviabili in forma digitale. L’evoluzione delle tecniche di rilevamento, dal punto di vista tecnico, è influenzata dai rapidi sviluppi dell’informatica. In particolare la fotogrammetria sta vivendo una fase di transizione che vede il progressivo abbandono della strumentazione analitica per passare alla cosiddetta soft-photogrammetry. Tra i metodi di rilievo e restituzione con carattere speditivo, quello che consente una restituzione metricodimensionale di facciate uniplanari (o con aggetti trascurabili) attraverso un unico fotogramma sta assumendo sempre maggiore rilevanza. Con tali metodi si è sviluppata una nuova concezione del rilievo, non più inteso come semplice rappresentazione grafica del manufatto, ma documentazione completa di dati descrittivi e di conoscenza dell’oggetto rilevato. Fino a non molto tempo fa l’“ortofotopiano” di un manufatto veniva prodotto con strumenti e mezzi, non solo molto costosi ma anche difficili da utilizzare; oggi invece si trovano sul mercato molti software di rapido apprendimento e di costo relativamente contenuto con cui è possibile ottenere lo stesso risultato. La documentazione raccolta in questo modo consente di svolgere indagini e ricerche in ‘laboratorio’ evitando i disagi del sito, ma soprattutto offre la possibilità di procedere a un esame conoscitivo dal particolare al generale, favorendo processi di sintesi e di globalità. L’immagine geometricamente corretta diviene contenitore di informazioni generali, estraibili in ogni momento, e la descrizione vettoriale eseguita con apposito software di editing, che può essere usata assieme all’immagine raster, consente di sovrapporre la documentazione specifica di settore. Il raddrizzamento delle immagini fotografiche altro non è che un metodo per la correzione della deformazione prospettica prodotta dall’inclinazione dell’asse della camera da presa. È applicabile nel caso di superfici piane, o assimilabili a un piano, e può essere effettuato con procedure geometriche oppure analitiche. Nel primo caso il raddrizzamento avviene utilizzando poche misure prese direttamente su alcuni elementi facilmente raggiungibili. Nel secondo è necessario conoscere almeno quattro punti di coordinate doppie, riferite all’immagine e all’oggetto: il software risolverà le equazioni per la determinazione delle otto incognite, raddrizzando quindi l’immagine. La scelta metodologica – L’utilizzo di tale metodologia di rilievo in questa campagna di documentazione è servito soprattutto per ottenere in tempi brevi prospetti raddrizzati in scala, allo scopo di agevolare l’analisi storico architettonica delle strutture indagate e facilitare la campionatura e la classificazione delle tipologie murarie individuate nel territorio. Per tale tipo di studi non si è ritenuto indispensabile una precisione millimetrica, quindi si è scelto di utilizzare la via più breve, ovvero di operare per via geometrica. Si sono acquisite in situ, oltre alle immagini da raddrizzare, solo le misure strettamente indispensabili. Per il rilievo sono stati utilizzati, in questo caso, tradizionali strumenti di rilievo, quali filo a piombo, una livella, un’asta metrica telescopica di 5 m, una fettuccia di 20 m. In alcuni casi, laddove non era possibile prendere misure su elementi facilmente raggiungibili o individuabili, si è applicato sulla superficie da raddrizzare un sistema di riferimento di dimensioni note (per esempio un quadrato di 131 m). Le fasi di lavoro – I momenti salienti di questo tipo di rilievo possono essere sintetizzate nei seguenti punti: 1. rilievo fotografico; 2. rilievo metrico (che può essere effettuato sia manualmente; che con teodolite o stazione totale); 3. scansione dei fotogrammi (quando non si utilizza una macchina; digitale); 4. regolarizzazione dell’immagine; 5. raddrizzamento fotografico con opportuno software; 6. eventuale mosaicatura dei fotogrammi raddrizzati; 7. eventuale vettorializzazione tramite appositi software di CAD. Per il rilievo fotografico si è fatto ricorso a una macchina fotografica semi professionale (Minolta x-300s) con obiettivo MD 28-70 mm, con pellicole a colori 100 ASA della Kodak e dell’Agfa. Non si è ritenuto indispensabile l’utilizzo di cavalletti. In questa fase del lavoro l’obiettivo principale è quello di ottenere dati il più possibile esatti riguardo alla qualità delle immagini, sia dal punto di vista della nitidezza che dell’inquadratura. I requisiti di presa ideali sono di difficile realizzazione in quanto influenzati dalle condizioni atmosferiche e di luce nonché da elementi di disturbo (vegetazione, automobili eccetera). Per il rilievo dei dati metrici indispensabili per il raddrizzamento si è fatto ricorso, come già detto, a tradizionali strumenti di rilievo. In genere, si sono prese, laddove era possibile, le dimensioni di larghezza e altezza delle porte, delle finestre o di elementi architettonici misurabili e alcune misure totali di controllo. La terza fase è stata quella di scansione delle immagini. Si è preferito infatti fare ricorso alla scansione poiché è importante che le immagini abbiano una definizione piuttosto alta, minimo 400 DPI. Le fotografie stampate su carta Kodak in formato 13319 sono state acquisite con Photoshop 6, tramite scanner Duoscan T1200 della Agfa in formato A4. I file sono stati salvati con estensione .bmp sull’hard disk di un PC. Per rendere qualitativamente migliori le immagini digitalizzate si è operato, tramite Photoshop 6, sulle variazioni della luminosità o del contrasto, l’aumento o la diminuzione dei contrasti locali, il ritaglio delle zone dell’immagine non interessate al raddrizzamento. Non essendo sempre stato possibile effettuare scatti in condizioni di luce ottimali, alcune fotografie a causa di un’errata esposizione (contrasto troppo netto tra zone in ombra e zone illuminate) sono state elaborate con trattamenti di image enhancement per migliorarne la qualità. Tali operazioni non sono da sottovalutare poiché influiscono sulla qualità dell’immagine digitale, la cui leggibilità è in funzione della sua risoluzione, la quale, a sua volta, ha effetto sia sulla precisione del raddrizzamento. Solo a questo punto si interviene con il software di raddrizzamento. Il programma utilizzato per questa ricerca è Planaris, prodotto dalla Nikon e in commercio da giugno 2001. Il suo funzionamento è estremamente semplice, ma, forse perché nuovo e poco testato, ha creato inizialmente alcuni problemi. Il programma consente il raddrizzamento di un singolo fotogramma sia per via analitica che per via geometrica. Come già detto, per la nostra ricerca si è operato il raddrizzamento di tipo geometrico. Con tale scelta, una volta aperta l’immagine da raddrizzare, è sufficiente individuare su di essa un certo numero (minimo due, massimo dieci) di rette che nella realtà sono orizzontali. La stessa operazione va ripetuta per le rette verticali. L’immagine aperta può essere anche molto più grande del monitor su cui stiamo lavorando, ma l’individuazione delle rette è facilitata dalla presenza di un ‘navigatore’, che consente di spostarsi rapidamente da un punto all’altro del fotogramma; inoltre un comando di zoom attivabile direttamente dal tasto destro del mouse ci dà la possibilità di operare con estrema precisione. Una volta individuate le rette un tasto permetterà di calcolare i punti di fuga delle rette verticali e quello delle rette orizzontali. Planaris, a questo punto, aprirà una tabella in cui sono indicati gli otto parametri della trasformazione e gli scarti (errori) ottenuti. Si seleziona la porzione di fotogramma che intendiamo raddrizzare e, quindi, si indica una misura verticale e una orizzontale per poter georeferenziare l’immagine e metterla in scala. Il software consente di vedere un’anteprima del raddrizzamento, se tutto va bene, dopo pochi istanti, l’immagine raddrizzata può essere salvata. Concludendo si può affermare che con tale metodologia si sono ottenuti risultati in generale validi sia sotto il profilo metrico (soprattutto in quei casi in cui l’ambiente presentava notevoli difficoltà operative) che dal punto di vista dei tempi di rilievo che, in questo modo, si sono notevolmente ridotti. Di contro vi sono alcune limitazioni, in quanto non è pensabile applicare il raddrizzamento per via geometrica quando è richiesta una precisione al centimetro. In questo caso è senza dubbio preferibile operare con il raddrizzamento di tipo analitico che prevede l’utilizzo di strumenti di rilievo indiretto (teodolite o stazione totale). Barbara Lenzi 8. Il progetto di scavo di Miranduolo e la gestione informatica Nel corso del 2001, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Chiusdino, è stato intrapreso un progetto articolato su indagini di scavo che prevedono di intervenire su tre poli principali: i due castelli di Serena e Miranduolo, le strutture produttive individuate dalla prospezione intorno allo stesso Miranduolo e l’area circostante San Galgano. Nel complesso intendiamo comprendere l’azione dei Gherardeschi sulla maglia insediativa e produttiva nel primo Medioevo e nei secoli centrali, inoltre le forme di sfruttamento del terreno legate alla presenza di San Galgano a partire dagli inizi del XIII secolo. Approfondiremo quindi la ricostruzione diacronica di un’area geografica nella quale l’insediamento pare caratterizzato oltre che dalle attività rurali anche dallo sfruttamento delle risorse minerarie sia locali che esterne, cogliendone così le trasformazioni e l’evoluzione anche in relazione allo sviluppo delle tecniche di produzione fra XII e XIV secolo. In tale prospettiva sarà molto interessante scavare l’impianto di riduzione del ferro, rinvenuto in località Castelluccio collegato alla vita economica del castello di Miranduolo e il grande opificio idraulico da ferro pertinente al monastero di San Galgano. Si tratta di due strutture poste a breve distanza, attive in periodi cronologicamente contigui, sottoposti a poteri di origine diversa, organizzati secondo tipologie produttive diverse. L’iniziativa (come per tutti gli interventi di scavo dell’area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena) dovrà essere finalizzata al recupero dei siti e alla loro destinazione ad area archeologica attrezzata, inserita all’interno di un piano di fruibilità pubblica nonché nel circuito museale senese. Per le aree intorno a Miranduolo e San Galgano, nel corso di questo anno, abbiamo approfondito sia la ricerca (battiture a terra e trattamento della fotoaerea obliqua) sia il rilievo. Serena, per motivi logistici, è stato rinviato ai prossimi anni, ben coscienti comunque dell’importanza di uno scavo su tale sito. Infatti, nonostante un ipotetico basso stato di conservazione dei depositi, scavare il castello di Serena avrebbe assunto un particolare valore per ricostruire e comprendere l’evidenza materiale di un’abbazia dei primi anni dell’XI secolo, di fronte a un contesto privo di rifacimenti posteriori e quindi tendenzialmente riconoscibile nella sua pianta originaria. Miranduolo offre l’occasione di indagare un castello, già in vita agli inizi dell’XI secolo (ascrivibile dunque fra i castelli toscani di prima fase); comprenderne le origini e le trasformazioni sino alla metà del XIII secolo, quando subisce un decastellamento; studiarne poi le forme di rioccupazione nel corso del XIV secolo (quando ormai era divenuto podere), cogliendo la corrispondenza materiale delle trasformazioni subite anche a livello giuridico. Lo scavo, iniziato nell’agosto 2001 sotto la direzione scientifica di Riccardo Francovich e Marco Valenti e con la direzione sul cantiere di chi scrive, è stato condotto per buona parte dai componenti del LIAAM (Laboratorio di Informatica applicata all’Archeologia Medievale), attivo all’interno del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. In questo intervento, il LIAAM ha applicato l’esperienza di gestione informatica sperimentata per lunghi anni nello scavo di Poggio Imperiale a Poggibonsi (SI). Nel corso delle sei settimane di scavo, il lavoro sul campo si è svolto parallelamente a quello in laboratorio raggiungendo una completa informatizzazione dei dati in tempo reale; in altre parole, abbiamo terminato la campagna di scavo producendo la piattaforma GIS del monumento, i database alfanumerici e multimediali completi, l’uscita in internet sia dei risultati iniziali sia delle giornate di scavo. Il nostro obiettivo era quello di rientrare in Dipartimento con la sola ceramica da schedare ed è stato raggiunto. La piattaforma GIS – La gestione della documentazione di scavo su piattaforma GIS costituisce ormai da cinque anni uno dei punti nodali dell’attività svolta dal LIAAM. Utilizzare un software GIS offre infatti la possibilità di tradurre l’informazione archeologica (dall’unità stratigrafica al singolo reperto in strato) in elemento base per ogni genere di elaborazione, dalla semplice visualizzazione tematica ai più sofisticati sistemi di trattamento del dato (analisi distributive dei reperti, spaziali e predittive). La definizione di uno scavo archeologico come strumento esaustivo di indagine impone la necessità di ripristinare l’integrità iniziale del contesto, riducendo al minimo (dove non è possibile annullarla) la soggettività del ricercatore. Per questo, l’immissione dei dati deve avvenire in forma globale e corretta, sia dal punto di vista geografico che archeologico, al fine di ottenere una macro pianta composita (continuamente aggiornabile), articolata in un insieme di strati, definiti nel loro rapporto spaziale e distinti univocamente dal numero di US. Nella loro forma grezza (cioè al momento dell’immissione) devono infatti essere svincolati da qualsiasi processo interpretativo; tutte le informazioni concernenti indicazioni soggettive e interpretative sono dedotte dal contenuto degli archivi alfanumerici (supporto indispensabile e imprescindibile per la base GIS), con i quali la piattaforma deve essere continuamente relazionata. In questo senso, il GIS di scavo può essere definito come un contenitore del dato archeologico stratigrafico integralmente e realisticamente riprodotto, dove ogni singolo oggetto individuato costituisce elemento di ricerca e strumento di elaborazione a vari livelli. Il complesso procedimento di riproduzione grafica del contesto stratigrafico orienta la scelta del software verso un prodotto non condizionato da un’architettura logica troppo rigida; a tal fine, si è optato per Mac Map (prodotto in Francia e distribuito in Italia da Step Informatica-Torino), un programma che, consentendo di costruire ex novo la struttura dei dati attraverso la creazione di un modello, permette di organizzare le informazioni secondo criteri conformi alle caratteristiche del dato immesso. Proprio tale peculiarità consente di comporre un’unica base di dati in cui vengono a convergere tutti i grafi vettorializzati, classificati, al momento dell’immissione, secondo gli schemi logici impostati dall’utente. Il modello dei dati di scavo è stato organizzato in modo da accogliere in maniera stratificata l’intero patrimonio di informazioni concernenti il sito indagato; il modello viene organizzato per tipi e sottotipi, definiti sia geometricamente (superfici, linee, testo e punti) che graficamente. Inizialmente, strutturato sulla base delle caratteristiche del sito di Poggio Imperiale a Poggibonsi (dal quale ha avuto inizio l’elaborazione della piattaforma GIS) ha subito continue revisioni mirate a ottenere una sempre maggiore estendibilità e adattabilità a contesti stratigrafici di natura diversa e con peculiarità di ricerca distinte; la semplificazione del modello a cui siamo approdati in questa ultima fase del lavoro, corrisponde all’esigenza di creare uno standard, valido sia per gli scavi urbani che per quelli rurali. L’ultima, e ormai definitiva, redazione prevede la distinzione dell’intera gamma di informazioni secondo quattro macroclassificazioni relative ad aspetti paesaggistici, dati provenienti dall’indagine intensiva di scavo, dati relativi alle indagini non distruttive e infine ai risultati delle analisi intra-site. Un’impostazione di questo tipo è stata studiata per poter gestire e organizzare gli innumerevoli oggetti che vengono catastati all’interno della piattaforma nel maggior numero di combinazioni possibili e con il maggior risparmio di tempo per la loro elaborazione. Le tre categorie destinate ad accogliere le informazioni non provenienti dall’indagine di scavo (“Paesaggio”; “Indagine non distruttiva”; “Analisi”) sono state impostate secondo una duplice forma, lineare e superficiale, per permettere una corretta riproduzione grafica delle caratteristiche geometriche dei diversi elementi. Ad esempio, all’interno del tipo “Paesaggio” dobbiamo inserire sia la viabilità che le aree edificate; l’una però ha una sua rappresentazione lineare mentre l’altra necessita di una riproduzione superficiale. Nel caso dell’organizzazione dei dati stratigrafici, coniugando distinzione tipologica e geometrica, è stato adottato un criterio perfettamente aderente ai principi dello scavo archeologico; le unità stratigrafiche positive e quelle negative infatti verranno distinte non solo sulla base delle loro differenze concettuali ma anche perché le une, descrivendo superfici, sono rappresentabili come poligoni mentre le altre, essendo superfici in sé, prive di consistenza materiale, corrispondono geometricamente a linee. Le caratterizzazioni delle unità stratigrafiche (le pietre di un muro, i reperti in strato e tutto ciò che serve a definire il reale aspetto dell’oggetto) sono state assegnate a un tipo distinto, sia per coerenza concettuale che per ragioni di ordine pratico; è infatti opportuno distinguere il grafo che definisce il reale ingombro dell’US dai numerosi vettori che descrivono l’aspetto dell’oggetto per non incorrere in difficoltà di gestione e in macroscopici errori nella consultazione matematica. I rilievi dello scavo di Miranduolo sono stati acquisiti tramite scanner A/0 e poi digitalizzati a video in scala 1:1; questa tecnica di catastazione, se applicata correttamente, permette di ottenere il grado di accuratezza e di dettaglio necessario per rilievi che non riproducono mai forme geometriche ma che devono invece restituire una descrizione ‘impressionistica’ della realtà. Non ha senso infatti realizzare rilievi visivamente perfetti a una scala ridotta, che però una volta portati a scale più ampie perdono qualsiasi corrispondenza con l’originale. Attualmente la piattaforma GIS dello scavo conta 13.510 oggetti, corrispondenti a 152 unità stratigrafiche, 59 curve di livello (importate in formato DXF dall’elaborazione a stazione totale) e 14 emergenze murarie in superficie. Ogni grafo inserito è stato corredato di specifici identificatori, importati dall’archivio alfanumerico. Il processamento del dato archeologico può avvenire a vari livelli e riguarda sia la produzione di carte tematiche che la formulazione di modelli interpretativi e predittivi tramite l’applicazione di tecniche statistiche e matematiche. Per il momento, l’unico tipo di elaborazione del dato prodotta per lo scavo di Miranduolo, concerne la creazione di tematismi per periodo, fase e struttura. Questo tipo di organizzazione del dato corrisponde senza dubbio al livello più elementare di fruizione della base GIS e consiste nella combinazione dei vari elementi presenti nella piattaforma, che rispondono ai diversi criteri di ricerca; gli oggetti vengono richiamati a video o definiti attraverso cromatismi secondo query impostate sui valori contenuti negli appositi campi, tramite semplici combinazioni di identificatori (ID). Le carte elaborate circa l’ipotetica topografia del castello di Miranduolo sono state ottenute sovrapponendo i diversi livelli contenuti all’interno della base e raccordando le diverse emergenze murarie in modo coerente con l’andamento morfologico della collina; non si sono ancora effettuati processamenti dei dati geografici e archeologici attraverso sistemi matematico-statistici. Questo genere di trattamento del dato rappresenta il grado di gestione più complesso e riguarda la realizzazione di analisi di tipo predittivo e la creazione di modelli distributivi dei reperti di scavo: in questa direzione verrà sviluppata l’implementazione della piattaforma GIS dello scavo di Miranduolo. Tali elaborazioni infatti richiedono tempi lunghi e operazioni tutt’altro che immediate; per far sì che la macchina possa processare automaticamente il dato, bisogna infatti fornirle strumenti tradotti in un linguaggio a essa comprensibile: dobbiamo cioè codificare (spesso in forma numerica) i dati a nostra disposizione per rendere possibile una loro elaborazione matematica o spaziale. È in corso di completamento inoltre una piattaforma GIS a scala territoriale più ampia destinata a contenere tutta la documentazione relativa ai tre poli inseriti nel progetto di scavo; i castelli di Miranduolo e di Serena, le aree produttive a essi connesse e l’area di San Galgano. I tre supporti GIS, già completati singolarmente, devono essere trasportate in una base unica; dobbiamo però attendere l’uscita, prevista in tempi brevi, delle sezioni CTR in scala 1:10.000 in vettoriale (distribuite dal SIT della Provincia di Siena) per poter definire il contesto geomorfologico dell’area. La piattaforma GIS del castello di Serena riproduce in vettoriale il rilievo planoaltimetrico effettuato nel corso del 1994; prevediamo di effettuare la mappatura del contesto con il grado di precisione ottenuto sul sito di Miranduolo nell’ambito dei prossimi mesi. La base GIS concernente gli spazi intorno l’abbazia di San Galgano contiene invece la planimetria del complesso, le ricostruzioni ipotetiche elaborate da Canestrelli, le perimetrazioni delle emergenze di reperti mobili in superficie individuate nel corso delle prospezioni degli anni 1983 e 1993-1995, le piante di scavo pubblicate da Cucini e Paolucci e i crop marks emersi dal trattamento delle fotoaeree. I database alfanumerici e multimediali – Il momento di analisi e progettazione della struttura di un database in ambito archeologico rappresenta un processo elaborato, che non sempre si risolve (come accade invece per l’analisi di tipo puramente informatico) nello step che precede linearmente la codifica e programmazione della base di dati. Si rende anzi spesso necessario ‘aggiustare’ la struttura degli archivi con il procedere della ricerca, l’immissione sul mercato di nuovi prodotti e tecnologie, la maggiore consapevolezza nell’uso del mezzo informatico. Il sistema degli archivi relazionali adottato dal LIAAM, denominato DBMS Scavo archeologico, ha subito notevoli (in alcuni casi radicali) trasformazioni; seguendo un metodo empirico, comunque segnato da momenti progettuali, si è giunti alla soluzione dei problemi per approssimazione successiva. Si tratta di una struttura ad albero gerarchico, quindi un prodotto di tipo ‘verticale’, con i vantaggi e le limitazioni che ne conseguono. Fra le principali caratteristiche ricordiamo una gestione ‘multiprogetto’ (il sistema di archivi è stato predisposto per la catastazione di dati provenienti da scavi diversi con vantaggi facilmente intuibili, soprattutto in termini di elaborazione statistica e di confronto tra contesti differenti), la realizzazione di routine scriptate tese a semplificare molti processi ripetitivi (ad esempio la quantificazione dei reperti), la programmazione dell’interfaccia utente e l’introduzione sistematica dei controlli sulla coerenza del dato. L’architettura del database si articola su quattro livelli: 1. Il progetto di ricerca contenente i dati fondamentali inerenti le indagini stratigrafiche (archivio Scavi), identificabile a livello territoriale con il concetto di sito archeologico. 2. Scendendo nell’albero gerarchico troviamo gli archivi relativi alle suddivisioni spaziali, temporali e interpretative dello scavo (archivi Aree, Settori, Quadrati, Strutture, Periodi). 3. Terzo livello nella gerarchia ma centrali ai fini della nostra analisi sono le tabelle relative ai dati stratigrafici (archivi Attività e US). 4. Al grado più basso dell’architettura si collocano infine tutte le tabelle o i sottosistemi dei reperti (archivi Reperti ceramici, Reperti vitrei, Reperti metallici, Reperti numismatici, Reperti osteologici umani, Reperti osteologici animali, Altri Reperti). L’utilizzo del database avviene attraverso un’interfaccia utente personalizzata. Si sono resi operativi tre diversi ambienti, corrispondenti a tre modi di utilizzo della base di dati: l’ambiente Singoli Archivi (per la creazione, modifica e ricerca dei dati relativi alle singole tabelle), l’Ambiente relazionale (per la consultazione dell’intero DBMS attraverso l’uso di indici relazionali tematici di scavo, area, periodo US eccetera), l’ambiente Manutenzione (per svolgere i principali compiti di manutenzione dell’archivio). I primi due ambienti, più propriamente operativi, permettono l’accesso alle tabelle attraverso layout composti da una parte centrale con i dati e circondata su due lati (in alto e a sinistra) da un’area di comando contenente l’intestazione dell’archivio e le pulsantiere per l’accesso alle operazioni previste dall’interfaccia. In particolare si sono realizzate funzioni per la navigazione lineare fra le schede, la navigazione relazionale fra archivi e record, l’automazione delle operazioni di creazione, duplicazione, eliminazione e ordinamento dei record, l’automazione delle query di ricerca, le operazioni relative ai task di stampa, funzioni di marking dei record, l’inserimento di caratteri speciali nel testo dei campi. Funzioni più propriamente analitiche riguardano la quantificazione dei reperti attraverso la specificazione di parametri stratigrafici (per US, periodo, struttura eccetera) e pertinenti al tipo di reperti (ad esempio nel caso della ceramica è possibile quantificare per classe, classe e forma, classe e forma e impasto eccetera); queste prevedono anche l’esportazione dei risultati in RTF, pronti per un’eventuale pubblicazione o comunque per un utilizzo all’interno di documenti di testo. Per quanto riguarda i dati del castello di Miranduolo sono state finora immesse 152 schede US; la schedatura dei reperti che si svolgerà durante l’inverno 2001-2002, aumenterà notevolmente la mole di dati catastati. Il sistema degli archivi grafici e multimediali vede l’uso di database appositamente creati per la gestione di immagini, filmati e suoni e rappresenta uno strumento utile solo se si lavora intensamente con grafica e file multimediali; alle immagini, rappresentate in una galleria di miniature (e visibili a grandezza naturale con un semplice doppio click), sono associabili uno spazio descrittivo e una serie di chiavi che permettono visualizzazioni per soggetti. Le keyword scelte per il nostro archivio corrispondono ai numeri delle unità stratigrafiche rappresentate, area, settore, quadrato, definizione US stratigrafica, definizione US interpretata, anno di scavo, struttura, periodo, fase; a queste si aggiungono categorie che identificano il tipo di documento (foto digitali, diapositive, filmati, modellazioni 3D, cartografia, elaborazioni interpretative eccetera). Il database multimediale del castello di Miranduolo contiene a oggi 1.133 documenti tra fotografie digitali, filmati e ricostruzioni tridimensionali. Il rilievo – Alla tradizionale documentazione di scavo abbiamo affiancato sistemi di registrazione informatica del dato grafico e fotografico. Il rilievo topografico del sito è stato ottenuto attraverso l’impiego della stazione totale ed è stato finalizzato alla riproduzione della morfologia e al posizionamento su carta delle emergenze, rintracciate nel corso della prospezione del poggio. In questa fase del lavoro, abbiamo deciso di sostituire la planimetria elaborata nel corso del 1994 ritenuta inadeguata alle attuali esigenze di lavoro; la restituzione delle isoipse era infatti troppo schematica e ottenuta sulla base di un numero abbastanza limitato di punti: se dunque forniva un’immagine verosimile della collina non costituiva una base di lavoro valida per modellazioni tridimensionali realistiche e neppure un complemento utile per la costruzione della piattaforma GIS. Dunque, dopo aver costruito una poligonale di stazioni celerimetriche, necessarie alla georeferenziazione del sito in coordinate Gauss-Boaga (sistema di coordinate adottato come standard per le piattaforme GIS, elaborate dal nostro Dipartimento nonché comune alle più diffuse cartografie prodotte dagli enti pubblici in Italia), abbiamo battuto circa 2.000 punti, fra i quali i picchetti utilizzati per il rilievo manuale, distribuiti su una superficie totale di circa 6.000 mq. Successivamente, tramite interpolazione, abbiamo proceduto all’elaborazione di DTM (Digital Terrain Model) e da questi alla creazione di TIN (Triangulates Terrain Network) utili a una restituzione altimetrica del poggio su base bidimensionale e alla visualizzazione di modelli tridimensionali del terreno. La risoluzione è variata in base al grado di dettaglio richiesto dal contesto specifico; la massima precisione (1 pixel = 1 cm) è stata adottata nella riproduzione delle aree di scavo mentre quella minore (1 pixel = 10 cm) è stata impiegata a scale più ampie, come nel caso del rilievo dell’intera sommità collinare. Dal DTM (formato grid), si è successivamente proceduto nella produzione delle isoipse (curve di livello a intervalli variabili fra i 10 cm per i settori di scavo e 1 m per il poggio) in formato vettoriale e delle carte di pendenza, anch’esse in formato grid. La mappatura delle curve di livello è stata poi esportata in DXF e inserita nella piattaforma GIS dello scavo. L’alto grado di precisione degli elementi topografici renderà possibile tutte quelle operazioni matematiche essenziali nell’elaborazione delle analisi predittive, per le quali è necessario applicare cliviometrie; sarà dunque possibile, formulare ipotesi del potenziale sviluppo topografico dell’insediamento, tenendo conto dell’andamento naturale del sito e dunque valutare in modo realistico la possibilità di occupazione degli spazi in relazione alle loro caratteristiche morfologiche. La registrazione dei vari livelli di scavo è stata ottenuta attraverso l’applicazione della videodocumentazione elettronica: ideata da Antonio Gottarelli, corrisponde a un sistema di rilievo zenitale attraverso videocamera o camera, che restituisce un’immagine oggettiva dello scavo sotto forma di raster. Sullo scavo di Miranduolo, abbiamo effettuato 10 fotomosaici dell’area di scavo, corrispondenti alle situazioni stratigrafiche di maggior interesse. La tradizionale documentazione fotografica è stata quasi esclusivamente compiuta utilizzando macchine digitali; l’ottima qualità degli ultimi prodotti permette di ottenere immagini con una risoluzione sufficiente per le normali operazioni di consultazione o stampa non professionale. L’utilizzo di questi sistemi digitali consente di contenere i costi e ridurre i tempi di catastazione dei dati nel calcolatore. Nel corso delle sei settimane di scavo, sono state scattate 875 fotografie. Situazioni particolari in corso di scavo o già scavate sono state filmate tramite videocamera, scaricate nella memoria e successivamente assemblate e montate all’interno del calcolatore; per questo tipo di elaborazione è stata utilizzata l’architettura QuickTime (impostasi come standard industriale multipiattaforma per qualsiasi tipo di produzione multimediale) che dà modo di effettuare montaggi video in modo estremamente intuitivo. Le riprese vengono dunque scandite in brevi filmati, di peso contenuto, concernenti o singole unità stratigrafiche o contesti di scavo. Questo metodo di registrazione del dato di scavo corrisponde essenzialmente a un’esigenza, forse ‘maniacale’ di non perdere informazioni: in un certo senso, intendiamo mantenere la memoria anche delle operazioni di rimozione della stratigrafia, nel tentativo di conservare una visione critica del nostro lavoro. Sullo scavo abbiamo effettuato 255 filmati. Per la documentazione dello scavo è stata utilizzata anche la tecnologia QTVR, attraverso la quale è possibile realizzare filmati a 360° di ambienti e oggetti. A Miranduolo, è stata applicata sia per riprodurre fedelmente il procedere dell’indagine stratigrafica sia per consentire anche ai non addetti ai lavori la visita virtuale del sito e del cantiere archeologico. In totale sono stati prodotti sedici filmati: la maggior parte ha interessato l’area di scavo mentre una serie di altre panoramiche documentano la cinta muraria del castello, il campo base, l’attuale percorso di visita del monumento medievale e il piano campestre sottostante al castello. Per la realizzazione delle immagini necessarie alla costruzione dei filmati sono state utilizzate una fotocamera digitale (Kodak 290 con lente fissa a 38 mm) e una macchina fotografica reflex (Nikon F4 con obiettivo grandangolare da 20 mm), montate su di un cavalletto Manfrotto dotato di testa QTVR. Ogni singolo scatto è stato effettuato con un incremento di 20° rispetto al precedente, ottenendo in questo modo un massimo di 18 scatti per 360° che risultano decisamente ottimali per panoramiche di questo genere. Il software utilizzato per il montaggio delle immagini e del definitivo filmato è QTVR Authoring Studio distribuito da Apple; il quale consente di creare inizialmente un’unica immagine PICT e in seguito di trasformarla in un filmato navigabile. Prima della realizzazione finale ogni singolo PICT, costruito dal software, è stato trattato con il programma Photoshop di Adobe, per l’inserimento delle informazioni prodotte nel corso dell’indagine archeologica (numeri di unità stratigrafiche), e infine riportato nel programma Authoring Studio per la produzione della panoramica finale. La costruzione del sito internet, aggiornato in tempo reale, dedicato alla campagna di scavo del castello e attualmente inserito nel portale dell’area di Archeologia Medievale del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università degli Studi di Siena, ha influenzato in maniera decisiva la qualità e le dimensioni dei filmati. Per consentire una visualizzazione veloce delle panoramiche tramite browser, senza troppo dispendio di tempo per chi si fosse collegato al sito internet, i filmati sono stati realizzati di dimensioni pari a 320 pixel per la larghezza e 240 pixel per l’altezza, e compressi in Cinepak a qualità media. Il sito internet – Con l’intera operazione di informatizzazione si è concretizzata quella ‘perdita di innocenza’ ricordata spesso da Valenti, secondo il quale l’utilizzo del mezzo informatico permette di rendere trasparente e valutabile, la ricerca archelogica svolta. La creazione del sito internet dello scavo, articolato in un quotidiano aggiornamento di risultati, ipotesi e documentazione, è forse l’immagine più nitida in tal senso. Il lavoro necessario ha imposto due operatori stabilmente impegnati nella redazione e uno sforzo di sintesi e di coordinamento nella compilazione della documentazione; in pratica tutto ciò ha portato il gruppo di lavoro a un continuo chiarimento e un’ininterrotta verifica dei dati. Inoltre, volevamo tentare di trasmettere i risultati del nostro lavoro ‘in diretta’, facendo vedere come e cosa scavavamo e documentavamo, lo sviluppo della ricerca e delle nostre ipotesi, ricercare quella ‘glasnost’ e quella immediatezza (anche a costo di ricevere critiche) che da molto tempo vediamo connessa all’impiego ottimale di tecnologia nell’indagine archeologica. Il sito si è articolato quindi in più sezioni all’interno delle quali viene presentato l’intero progetto. Innanzitutto si propone il lavoro di carta archeologica, l’inquadramento del territorio e l’indagine preliminare, mostrando anche le prime proposte di valorizzazione della zona. Viene poi reso scaricabile dalle pagine l’articolo già edito sui due castelli di Serena e Miranduolo, una rassegna delle fonti storiche su Miranduolo e si inserisce, avvicinandosi allo scavo, il castello stesso nel suo probabile territorio (di quest’ultimo, attraverso l’impiego del GIS, si è proposta un’ipotesi su estensione e sfruttamento economico). Seguono poi il primo rilievo effettuato della collina, le emergenze censite e la loro interpretazione nonché, ancora tramite GIS, un confronto con lo scavo di Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno), per ipotizzare consistenza e demografia dell’insediamento. La sezione “i giorni di scavo” è senza dubbio la più estesa. Si articola nel resoconto quotidiano delle operazioni di scavo (riportando ipotesi e idee progressive, discussioni, cambiamenti di strategie), la lista completa della documentazione prodotta, delle unità stratigrafiche indagate (le schede US sono inoltre scaricabili), inventari dei materiali, immagini dei reperti più appariscenti. A essi si accompagna il matrix (che è stato aggiornato ogni settimana), esempi del rilievo a stazione totale e delle modellazioni tridimensionali sulla sua base, e le prime elaborazioni interpretative, il diario di scavo, la documentazione stratigrafica, i materiali; sono state poi immesse tutte le elaborazioni delle battiture a stazione totale modellate in 3D o trasformate in carte di pendenza o con isoipse, filmati aerei e QTVR sull’evoluzione delle aree di scavo, le ricognizioni sul territorio del castello e quelle per la redazione dell’atlante delle murature di territorio e castello. Infine si sono inseriti i resoconti interpretativi di ognuna delle aree di scavo e delle strutture riconosciute, evidenziando anche problematiche aperte e punti non chiariti, il bilancio progressivo dell’indagine e lo sviluppo dell’ipotesi interpretativa. L’intera operazione, oltre come già affermato a rappresentare un’operazione di trasparenza assoluta, ha in realtà rappresentato un lungo momento di lavoro di squadra (come del resto nella tradizione del LIAAM) che ha imposto ai ricercatori una continua attenzione e riflessione su quanto stava emergendo. Con il mese di dicembre, inseriremo nelle pagine web anche la piattaforma GIS consultabile e interrogabile nonché gli archivi. Alessandra Nardini V - LA CERAMICA Il materiale ceramico rinvenuto nel corso della prospezione, pur raccolto in quantità consistente, presenta un numero limitato di frammenti tipologizzabili; si è ritenuto superflua dunque una trattazione specifica dei reperti. Questi sono stati invece riportati all’interno delle schede di unità topografiche, descritti secondo classe, forma, numero di frammenti e tipologia di impasto: lo scopo è quello di offrire la possibilità di un’immediata quantificazione della consistenza del deposito stesso. Per datare i contesti privi di confronti siamo ricorsi alla tipologizzazione degli impasti sia della acroma grezza che dei laterizi. 1. Tipologia degli impasti Acroma grezza Abbiamo distinto cinque diversi tipi di impasto, datati sulla base della loro frequenza in combinazione con tipologie ceramiche, rinvenute in contesti toscani ben datati. La tipologia formulata tiene conto delle macroscopiche varianti, determinate dalla consistenza (distinza in friabile, medio-dura e dura), modalità di trattamento e cottura dell’argilla (omogeneità e compattezza interna constatata in sezione), colore, dimensione e varietà degli inclusi, riscontrate in concomitanza del succedersi delle principali fasi insediative; ulteriori Impasto 1 - consistenza medio-dura, molto grossolano e poco omogeneo, di colore bruno, con inclusi di grandi dimensioni, spesso sporgenti: viene utilizzato sia per la realizzazione di grandi contenitori da conserva sia per la ceramica di uso comune. - consistenza dura, leggermente più raffinato ed omogene, di colore arancio o bruno, con inclusi più piccoli e meno evidenti: viene utilizzato solo per manufatti di uso comune, sia forme aperte (ciotole) che forme chiuse (olle), Riconosciuto in un totale di 9 siti, con la stessa differenziazione di utilizzo, associato a ceramica di VII-VI secolo a.C., e in solo due casi a elementi V-IV secolo a.C. Si sono datati per confronto 20 siti alla fase arcaica in presenza di materiale di impasto 1. Impasto 2 - consistenza friabile, abbastanza fine ed omogeneo, di colore bruno, con inclusi bianchi piccolissimi visibili in sezione e sporadicamente sulla superficie esterna. Riconosciuto in un totale di 7 siti, associato a ceramica di III-II secolo a.C.; se ne sono datati per confronto 3. Impasto 3 - consistenza dura e medio-dura, omogeneo e compatto, di colore marronebruno, quasi privo di inclusi (per lo più quarziti), presenti in sezione molto frantumati, molto raramente visibili sulla superficie esterna. Riconosciuto in tutti i siti che presentano ceramica riferibile certamente a contesti tardoantichi. Si è datato 1 sito per confronto. Impasto 4 - consistenza friabile, fine, molto omogeno, di colore bruno-nero scuro, con inclusi molto frantumati, quasi del tutto assenti. Riconosciuto in 5 siti associato alle ceramiche invetriate e smaltate basso medievali. Non si sono datati siti per confronto Laterizi Il materiale da costruzione mostra trasformazioni più lente, per cui alcuni tipi fra quelli riconosciuti, si trovano spesso associati a materiali pertinenti a diverse fasi di uno stesso periodo. Raramente (solo due casi), quindi, si è proceduto alla datazione per confronto di siti privi di ceramica senza comunque definirne la fase di appartenenza. Impasto 1 - molto grossolano, di colore rosa chiaro, con frequenti inclusi bianchi di grandi dimensioni molto sporgenti sia dalla sezione che dalla superficie esterna Riconosciuto in tutti i contesti datati al VII-VI secolo ed anche in alcuni di III-II in associazione con laterizi di tipo 2, e ceramica grezza di impasto 2. Sono stati datati per confronto solo 3 siti che, in quanto privi di ceramica, stati ascritti al generico periodo etrusco. Impasto 2 - meno grossolano del precedente, di colore rosso-arancio, con presenza molto sporadica di inclusi bianchi di grandi dimensioni e regolari, inseriti di piatto sulla superficie esterna. Riconosciuto in 3 siti da solo e in altri 4 in associazione al tipo 1 in contesti datati al III-II secolo Impasto 3 - abbastanza depurato, di colore variabile fra rosa scuro e rosso-bruno, con rari inclusi irregolari molto frantumati rosso-scuri e bruni, superficiali ma non sporgenti. Riconosciuto in tutti i contesti tardoantichi Impasto 4 - depurato, molto leggero, di colore rosa chiaro, con inclusi di grandi dimensioni Riconosciuto in un solo caso in associazione con maiolica arcaica. Impasto 5 - depurato, di colore rosa scuro, privo di inclusi, di spessore superiore a quello degli altri tipi. Riconosciuto in contesti basso medievali ben datati. VI – SCHEDARIO TOPOGRAFICO (1) Località La Selva (Q.120 III-4781/670) 430 m s.l.m.; versante poggio; argille; fosso Proticciano; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo non esteso, di forma vagamente triangolare, il cui lato lungo è delineato dalla strada a sterro che collega Chiusdino a Frassini, nel tratto antistante il podere La Selva. Confina a sud con il prato di fronte al podere e a est con un altro campo, dal quale lo divide un piccolo bosco. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie (dimensioni 835 m) posta nella parte alta del sito, in prossimità del confine con la strada; è composta da materiale ceramico grezzo e depurato in associazione a scorie ferrose (tra queste una riporta l’impronta in negativo della bocchetta del forno) e laterizi, presenti in modo sparso su gran parte della superficie arata. La consistenza reale del deposito conservato nel sottosuolo è, in effetti, difficilmente valutabile a causa delle pratiche agricole: la visibilità dei reperti è fortemente limitata da un tipo di aratura molto profonda e da lavori di scasso che hanno provocato una decisa dispersione del materiale, alterando le dimensioni dell’emergenza in superficie. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, omogeneo e di colore arancio scuro-bruno. Forma chiusa: pochi frustuli di parete, fra cui uno con decorazione a un unico solco a stecca, in corrispondenza della strozzatura del collo; 1 frammento di bordo, con orlo ingrossato e appuntito con leggera inclinazione verso l’esterno. Acroma grezza Impasto 3. Forma chiusa. Olla: 10 frammenti di parete; 1 frammento di bordo. Laterizi Impasto 3. Interpretazione – Casa realizzata con materiale deperibile e copertura laterizia; è dotata di una struttura per la riduzione e lavorazione del minerale per uso domestico. Elementi datanti Acroma grezza Olla tipo Chianti, tav. LXI nn. 4 e 8, simile al tipo Fiesole, tav. 45, n. 28 rinvenuto in contesti di fine IV-V secolo d.C. e al tipo Santa Maria della Scala, tav. IX, n. 187 trovato in stratigrafie di VI secolo d.C. Cronologia – VI-VII secolo d.C. Rinvenimento inedito (2) Località La Selva (Q.120 III-4781/670) 430 m s.l.m.; pendio; conglomerati poligenici; fosso Proticciano; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare posto in leggero pendio; confina a sud con l’abitazione antistante il podere La Selva, a ovest con una piccola oliveta e a est con la strada che collega Chiusdino a Frassini. Descrizione unità topografica – Nello spazio compreso fra il pilone della luce con centralina e l’edificio abitativo, si riconosce una concentrazione (dimensioni 634 m) composta da pietre di dimensioni omogenee, non lavorate, poste in allineamento; sono associate a pochi frammenti di ceramica e laterizio. Nel campo limitrofo, posto in forte pendenza, si reperiscono altri frustuli di ceramica, identificabili come spargimento della stessa emergenza. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, colore beige rosato. Forma chiusa: 7 frustuli di parete; 2 frammenti di fondo: uno piano apodo a sezione triangolare regolare; l’altro piano, apodo, a sezione triangolare con punto di attacco della parete (estremamente irregolare e sagomata dalla tornitura) molto marcato da una profonda linea di tornio. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete. Laterizi Impasto 2. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Ciotola riconducibile al tipo Chianti, tav. XXXVIII, n. 11/13, rinvenuto in contesti ellenistici. Cronologia – III-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (3) Località La Selva (Q.120 IV-4781/670) 426 m s.l.m.; leggero pendio; argille; fosso Proticciano; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Piccola porzione di seminativo confinante a sud-ovest con una vigna, a est con un fienile e a sud-est con la strada a sterro che collega Chiusdino a Frassini in corrispondenza della curva a gomito. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie, dimensioni 534 m, posta nella parte orientale del campo, a circa 15 m dalla vigna e 20 m dal fienile. È composta da laterizi e ceramica molto frammentati, associati a pietre disposte in modo disomogeneo. In linea con la concentrazione, in direzione del fienile, si raccoglie ceramica acroma depurata, pertinente alla stessa unità topografica, residua dal trascinamento dei mezzi meccanici. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile e colore arancio vivo. Forma chiusa: 18 frammenti di parete; 3 di fondo, piano, apodo a sezione triangolare, con angolo molto marcato. Laterizi Impasto 4. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Maiolica arcaica Ciotola decorata sulla superficie interna della carenatura con motivo a treccia irregolare in ramina (simile al tipo Francovich, 1982, S. 9.1) e sulla superficie esterna della parete con motivo a bande in ramina e manganese: 2 frammenti di bordo e di parete. Boccale in maiolica arcaica con decorazione a graticcio in ramina: 2 frammenti di parete. Cronologia – XIV secolo. Rinvenimento inedito (4) Località La Selva (Q.120 III-4781/671) 390 m s.l.m.; versante poggio; argille; fosso Proticciano; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma triangolare posto in pendenza verso sud. Confina a nord con la strada a sterro che collega Chiusdino a Frassini nel tratto rivolto verso il bosco e a est con un campo lasciato a pascolo; a sud-ovest guarda il podere La Selva, da cui lo divide il fondo valle. Vi si distinguono due unità topografiche, pertinenti alla stessa giacitura. Descrizione unità topografiche (4.1) Emergenza di reperti mobili in superficie presente nella porzione orientale del sito; ha dimensioni 634 m ed è composta quasi esclusivamente da frammenti ceramici (acroma depurata, acroma grezza e vernice nera) e scorie di ferro. Al margine dell’unità topografica, si riconosce una concentrazione abbastanza consistente di laterizi. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura, omogeneo di colore beige scuro. Forma chiusa: pochi frustuli di parete; un’ansa a nastro non sagomata, pertinente a grande contenitore. Acroma grezza Impasto 2, con variazione cromatica tendente al nero nei punti più sottoposti a cottura. Vernice nera Forma aperta non riconducibile a tipologie note. Laterizi Impasto 2. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia, dotata di una struttura per la lavorazione del ferro per autoconsumo. Cronologia – III-II secolo a.C. (4.2) Nell’angolo orientale del campo, si trova materiale pertinente all’unità topografica precedente, trascinato per 4 m in direzione sud dai mezzi meccanici; fra i reperti si raccolgono frammenti di ceramica datante e due scorie ferrose. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura, omogeneo di colore beige scuro. Forma chiusa: pochi frustuli di parete; 1 frammento di fondo piano, apodo, arrotondato nel punto di appoggio, senza distinzione dalla parete. Acroma grezza Impasto 2. Laterizi Impasto 2. Interpretazione – Spargimento di materiale pertinente all’unità topografica 4.1. Elementi datanti Vernice nera Cronologia – III-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (5) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia e Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare regolare posto nella pianura antistante l’abbazia di San Galgano. È delimitato a nord dal bosco sottostante Monte Siepi, a est dalla strada a sterro diretta all’eremo e a sud da quella che porta all’abbazia. La porzione occidentale del sito mostra una composizione geologica a prevalenza di pietrisco associato a un suolo molto friabile e secco. Descrizione unità topografica – Circa 40 m in direzione nord-ovest dall’angolo occidentale dell’abbazia, in linea orizzontale con il terzo palo della luce a partire dallo sterrato per Monte Siepi, si individua una fortissima concentrazione (dimensioni 634 m) di scorie di ferro, per lo più di fusione, associate a un numero consistente di laterizi refrattari con tracce evidenti di combustione; comprende anche scorie vitree, frammenti di vetro lavorato di piccole dimensioni e ceramica. Al di fuori dell’emergenza, nell’area compresa fra l’inizio del campo e l’area di pietrisco, sono presenti in forma sporadica numerosi frammenti di laterizio e di ceramica. Presenza, media per mq – Nove reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di media durezza, compatto e omogeneo, con varietà cromatica fra l’arancio brillante e il rosso scuro. Forma chiusa: 40 frammenti di parete; 6 frammenti di bordo non identificabili; 1 frammento di ansa a bastoncello a sezione ellissoide. Forma aperta: 9 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 4. Forma chiusa. Olla: 8 frustuli di parete; 1 frammento di bordo indistinto, con orlo arrotondato e parete estroflessa. Laterizi Impasto 5. Interpretazione – L’evidenza è interpretabile come traccia di due strutture produttive affiancate e di dimensioni medio-piccole, destinate l’una alla forgiatura dei pani di ferro e l’altra alla lavorazione del vetro. Data la loro posizione centrale rispetto all’ingresso principale dell’abbazia, è possibile ritenere che si tratti di due strutture semipermanenti in uso durante il periodo di attività del cantiere (1224?1341). L’assenza delle grosse scorie spugnose, risultato del primo processo di lavorazione del vetro, lascia ipotizzare che nella vetreria avvenisse la lavorazione dei pani già composti (verosimilmente importati) per la fabbricazione di elementi per vetrate e piccoli oggetti d’uso quotidiano. Elementi datanti Maiolica arcaica Ventisei frammenti riconducibili a 6/17 forme di boccale in maiolica arcaica: i motivi decorativi riconosciuti descrivono graticci in ramina e manganese racchiusi da bande in manganese, anelli in ramina, parzialmente riempiti da graticci e sbaffi in manganese, decorazione del tipo Francovich, 1982, p. 115, fig. 146. Otto frammenti di parete e 3 di fondo di maiolica arcaica riconducibili a 3/5 forme di ciotola. Nessun motivo decorativo riconoscibile. Cronologia – XIII-prima metà XIV secolo. Rinvenimento inedito (6) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia e Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare posto nel piano antistante l’abbazia; è delimitato a nord e a est dalle strade dirette rispettivamente all’abbazia di San Galgano e al chiostro. Il tracciato dello sterrato nel suo tratto finale in corrispondenza del portale divide il campo dal sito 5. Descrizione unità topografica – Ricca concentrazione composta da laterizi con tracce di combustione e scorie, disposta a occupare uno spazio pari a 734 m nell’angolo settentrionale del sito. Il materiale si estende anche lungo il lato nordorientale e in parte lungo quello nordoccidentale. Al di fuori dell’area di emergenza, risulta costante la presenza di laterizi e coppi in associazione a frammenti di maiolica arcaica e acroma depurata. Presenza, media per mq – Sei reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, compatto e omogeneo, di colore beige rosato. Forma chiusa: 15 frammenti di parete; 1 frammento di fondo, piano, apode, a sezione triangolare regolare molto sottile; 1 frammento di bordo, indistinto leggermente estroflesso, con orlo squadrato e piano; 1 frammento di ansa a nastro con scanalatura spostata sul lato; 1 frammento di ansa a bastoncello. Acroma grezza Impasto 4. Forma chiusa. Olla: pochi frustuli di parete. Maiolica arcaica Quindici frammenti di forma chiusa in maiolica arcaica riconducibili a 4/8 forme di boccale. I motivi decorativi variano fra quello a “colature” verticali in manganese e quello a bande circolari in manganese alternati a motivi in ramina. Nove frammenti di forma aperta in maiolica arcaica riconducibili a 5/6 ciotole con decorazione in ramina-manganese. Interpretazione – Struttura generica, pertinente all’abbazia, con funzione non interpretabile dal deposito in superficie. La presenza di scorie di fusione del ferro è verosimilmente da mettere in relazione all’attività di forgia, posta a 7-8 m di distanza e corrispondente al sito 5. Cronologia – Inizi XIII-XVI secolo. Rinvenimento inedito (7) Località La Poggiarella (Q.120 III-4781/672) 313-351 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni posto a occupare entrambi i versanti della collina. Confina con la strada a sterro che collega Chiusdino a Casette, a ovest con un campo arato, da cui lo separa una fila di alberi, e a sud-est con il fosso Gallessa. Nell’intera estensione del sito si individuano 11 unità topografiche, disposte lungo l’intera superficie del campo, tutte riferibili a un unico nucleo insediativo. Descrizione unità topografiche (7.1) Emergenza di reperti mobili in superficie riconoscibile a circa metà versante, lungo il confine occidentale del campo; ha dimensioni di 938 m ed è definita nelle misure dalla presenza di laterizi associati a una modesta quantità di pietre di medie dimensioni, poste in ordine sparso. La presenza di ceramica è rilevante lungo tutta la porzione inferiore del versante nordoccidentale, per un’estensione complessiva di 20 m in direzione sud-ovest e di altri 7-8 m verso nord. Il materiale ceramico è presente anche, in forma sporadica, lungo il sentiero di delimitazione del campo sul lato occidentale; tende a diminuire procedendo in direzione della pendenza in senso sud/nord. Presenza, media per mq – Sette reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata. Impasto di consistenza dura, omogeneo, di colore beige scuro. Forma chiusa: 24 frammenti di parete, di cui uno pertinente alla porzione del collo, molto svasato; 1 frammento di ansa a bastoncello, con marcata depressione centrale, che distingue due porzioni a sezione triangolare, poste speculari. Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 30 frustuli di parete; 1 frammento di ansa a nastro con depressione al centro e bordi rialzati poco sporgenti. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (7.2) Notevole concentrazione di grumi di argilla associati a pochissimi frustuli di laterizio, dimensioni 232 m, posta nell’angolo del campo delimitato dalla curva precedente il podere. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1. Forma chiusa: 1 frammento di fondo, piano, apodo a sezione triangolare. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Capanna di piccole dimensioni realizzata in materiale deperibile e probabile copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (7.3) Concentrazione di frustuli di laterizio e ceramica acroma grezza posta a circa 7 m in direzione sud dal podere. Ha dimensioni di 634 m; al di fuori di questo spazio è ancora presente materiale in forma diffusa per altri 2 m verso sud-est. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasti 1a e 1b con stessa distinzione di utilizzo. Forma chiusa. Olla: 1 frammento di fondo, piano, apodo a sezione triangolare, con spessore molto ingrossato in corrispondenza della base. Laterizi Impasto 1 e 2. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma depurata Ciotola riconducibile al tipo Pisa, tav. 15, n. 26, da cui si distingue solamente per l’assenza di una leggera depressione sull’orlo, datata fra la fine VII-inizi VI secolo a.C. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (7.4) A circa 8 m in direzione nord-est dal secondo dei pali Enel che attraversano il campo in direzione nord/sud, è riconoscibile una concentrazione (536 m), di laterizi e materiale ceramico, quest’ultimo in maggiore quantità. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, compatto e omogeneo, con colorazione variabile fra l’arancio vivo e il bruno. Forma chiusa: 22 frammenti di parete; 2 frammenti di ansa, di cui una a nastro privo di scanalatura e un’altra a bastoncello che tende a restringere verso il punto inferiore di attacco; 1 frammento di fondo piano e apodo, a sezione triangolare solcato nella superficie interna da una marcata linea di tornio all’attacco della parete; 1 frammento di bordo a mandorla leggermente estroflesso. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 19 frammenti di parete; 2 frammenti di ansa diversi per dimensioni ma riconducibili alla stessa tipologia a nastro con depressione centrale, più o meno marcata. 3 frammenti di fondo: uno piano, apodo con leggera solcatura sulla superficie esterna in corrispondenza dell’avvio della parete; uno apodo a sezione triangolare con diminuzione evidente dello spessore all’attacco della parete, da cui è distinto da un marcato solco interno; infine uno piano, apodo, a sezione triangolare irregolare relativamente all’interno del fondo. Grande contenitore: 3 frammenti di parete di impasto 1a. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma depurata Ciotola riconducibile al tipo Chianti, tav. XXXII, n. 13 e al tipo Poggio del Boccaccio, tav. X, n. 160 rinvenute in stratigrafie di metà III secolo a.C. Acroma grezza Olla molto simile al tipo Chianti, tav. XXVIII, n. 7, che trova confronto anche in Modena, tipo Aa, datato alla prima metà del II secolo a.C. Cronologia – III-II secolo a.C. (7.5) Concentrazione di forma rettangolare, dimensioni 334 m, composta da pietre poste in ordine non omogeneo con scarsa presenza di ceramica e laterizi; si trova in linea con l’unità topografica 7.4 ma spostata di 34 m in direzione ovest. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto simile a quello dell’UT4. Forma chiusa: pochi frustuli di parete riconducibili a forma chiusa. Acroma grezza Impasto 1b. Forma chiusa: pochi frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (7.6) Concentrazione di forma rettangolare, dimensioni 534 m, composta da pietre poste in modo non omogeneo, con scarsa presenza di ceramica e laterizi; è situata in linea con l’unità topografica 7.5 spostata di circa 4 m in direzione ovest. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (7.7) Concentrazione di forma rettangolare (634 m) di pietre di medie dimensioni, associate a ceramica e laterizi, disposta a circa 3 m dall’unità topografica 7.6. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto simile al materiale dell’UT3. Forma chiusa: 9 frustuli di parete. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa: 18 frustuli di pareti; 1 frammento di bordo, molto rovinato, con orlo arrotondato, breve bordo rettilineo ingrossato nella parte terminale all’esterno e rettilineo sulla superficie interna. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma depurata Forma chiusa riconducibile al tipo Chianti, tav. XXX, n. 16, datato sul confronto con Montereggi, forma 4 riferito a contesti di V-IV secolo a.C. Cronologia – V-IV secolo a.C. (7.8) Ricca concentrazione, dimensioni 334 m, di ceramica acroma grezza e depurata associata a pochi laterizi, riconoscibile a circa metà del versante sudoccidentale del poggio, nella porzione occidentale del sito. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, molto compatto, colore bruno-arancio. Forma chiusa: 14 frammenti di parete; frammenti di un’ansa a nastro, con marcata depressione interna e bordi molto sporgenti e rientranti. È attestato un unico esempio di impasto, di consistenza durissima, di colore beige molto chiaro, in un frammento di ansa a nastro con netta solcatura centrale. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 45 frammenti di parete; 1 frammento di fondo, piano e apodo, a sezione triangolare con una tendenza ad aumentare lo spessore all’attacco della parete. Colino: 1 fondo. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Ciotola tipo Piazza Dante, tav. 15, n. 25, datato a fine VII-inizi VI secolo a.C. Coperchio riconducibile al tipo Chianti, tav. XXX, n. 13, trovato in associazione a vernice nera di II secolo a.C. Cronologia – VII-II secolo a.C. (7.9) Emergenza di reperti mobili in superficie posta a una distanza di circa 60 m in direzione sud dal secondo palo Enel; ha dimensioni di 635 m ed è caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di materiale ceramico. Al di fuori dell’unità topografica è presente ancora materiale ceramico. Presenza, media per mq – Cinque reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto riconosciuto nella ceramica dell’UT4. Forma chiusa: 15 frammenti di parete. Forma aperta. Ciotola: 1 frammento di bordo con orlo leggermente arrotondato, bordo introflesso e parete con minima estroflessione. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 22 frammenti di parete. Forma aperta. Ciotola: 1 frammento di bordo indistinto e orlo piano. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizi. Cronologia – III-II secolo a.C. (7.10) Scendendo di 4-5 m dall’unità topografica 9, in corrispondenza del limite orientale del sito, si trova una concentrazione di dimensioni 538 m composta da laterizi e materiale ceramico. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura, compatto e di colore bruno. Forma chiusa: 18 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1b. Molti frustuli di pareti per lo più riferiti a olle. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma depurata Forma chiusa corrispondente al tipo Chianti, tav. XXX, n. 16 e Montereggi, forma 4, rinvenuto in stratigrafie di V-IV secolo a.C. Cronologia – V-IV secolo a.C. (7.11) All’interno di questa unità topografica, viene compreso tutto il materiale trovato al di fuori delle concentrazioni segnalate. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: numerosi frustuli di parete. Grande contenitore. Pithos: 1 frammento di bordo convesso e ingrossato rispetto all’orlo arrotondato. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico pertinente alle precedenti unità topografiche. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Interpretazione sito – Villaggio, costituito da un totale di 10 nuclei abitativi, rappresentati da diverse tipologie edilizie (casa in pietra e laterizi; in materiale deperibile e laterizi; interamente deperibile) collocabili in un contesto cronologico etrusco-arcaico. Le concentrazioni prive di materiale datante possono essere inserite nello stesso contesto cronologico, sulla base dei confronti degli impasti laterizi e ceramici. Le evidenze delle restituzioni delle unità topografiche 4 e 8 permettono di estendere la fase di frequentazione del sito a tutto il II secolo a.C. e, probabilmente, senza soluzione di continuità, come attestano i materiali pertinenti all’unità topografica 7, riferibili al periodo V?IV secolo d.C. Rinvenimento inedito (8) Località La Poggiarella (Q.120 III-4781/672) 342-415 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma triangolare posto in forte pendenza in direzione del fosso che lo delimita a ovest. Confina a nord con la strada a sterro che collega da Chiusdino a Casette e a ovest con un campo lasciato a prato. Descrizione unità topografica – Nell’estensione del campo si raccolgono pochissimi frustuli di ceramica di acroma grezza e di acroma depurata. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura e colore bruno-arancio. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Elementi datanti Acroma grezza Olla riconducibile al tipo Chianti, tav. IX, n. 12 datato sul confronto con Bassa Modenese, rinvenuto in stratigrafie di VI-V secolo a.C. Cronologia – VI-V secolo a.C. Rinvenimento inedito (9) Località Il Casino (Q.120 III-4782/671) 352 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare delimitato a sud dal campo lasciato a prato limitrofo al fosso Rigo e a ovest dalla piccola strada che partendo dalle case, separa questo seminativo da quello vicino. Descrizione unità topografica – Lungo tutto il campo sono presenti in forma sparsa piccoli frammenti di ceramica e laterizi; sono state inoltre rinvenute tre scorie di riduzione del ferro. Nel lato occidentale del sito, a 2 m dall’area di massima concentrazione dei reperti, si individua un’emergenza di superficie costituita da pietre di piccole e medie dimensioni, poste in allineamento a coprire uno spazio di 534 m. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, molto compatto e omogeneo di colore arancio brillante. Forma chiusa: 27 frustuli di parete. Forma aperta: 3 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 9 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Scorie Tre ferrose derivate da processo di riduzione. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia, dotato probabilmente di una piccola struttura per la riduzione del ferro. L’emergenza può essere datata al generico periodo etrusco per confronto di impasti ceramici e laterizi con altri rinvenuti in contesti ben datati. Cronologia – III-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (10) Località La Poggiarella (Q.120 III-4780/672) 337 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni e forma pressappoco rettangolare, confinante a est con il fosso che lo divide dal sito 8, a nord-ovest/sud-est con piccoli boschi e a sud-ovest con la strada vicinale diretta a un edificio abitativo.Il sito è prospiciente al podere La Selva. Descrizione unità topografiche (10.1) Concentrazione di frustuli di ceramica, associati a pochissimi laterizi molto frammentati, posta circa 10 m in direzione nord-est dal secondo albero lungo la strada vicinale. Per altri 10 m a nord-est e nord si raccoglie altro materiale ceramico, presente in forma sparsa, comunque riferibile alla stessa emergenza. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 2. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. L’emergenza viene datata sulla base del confronto degli impasti con quelli rinvenuti in contesti ben datati. Cronologia – III-II secolo a.C. (10.2) Presenza modesta di ceramica frammentata riconoscibile a circa metà dello spazio compreso fra il terzo albero e il primo pilone Enel, in corrispondenza del canale di scolo. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura, compatto e omogeneo, di colore beige scuro. 14 frammenti di parete, pertinenti a forma chiusa e uno di bordo ingrossato in prossimità dell’orlo piano. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 23 frustuli di parete. Interpretazione – Struttura realizzata interamente in materiale deperibile databile alla fase ellenistica sulla base del confronto dei materiali con l’unità topografica 10.1. Cronologia – III-II secolo a.C. (10.3) Materiale ceramico pertinente all’unità topografica 10.2 trascinato dai mezzi meccanici fino all’angolo settentrionale del campo (circa 7 m dal piccolo bosco che delimita il campo), per uno spazio complessivo di 1538 m. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura, compatto e omogeneo, di colore beige con tendenza al grigio verso l’interno. Forma chiusa: 6 frammenti di parete, uno dei quali riguarda la parte dell’attacco inferiore dell’ansa. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete. Maiolica arcaica Forma chiusa.Boccale: 1 frammento di parete con decorazione in manganese. Interpretazione – Materiale sporadico. Si tratta per la maggior parte di materiale pertinente alle emergenze riferibili all’età etrusca; i rari frammenti di ceramica medievale sono collegabili alle fasi di frequentazione del nucleo abitato adiacente il campo. Cronologia – Plurifrequentazione. Rinvenimento inedito (11) Località La Poggiarella (Q.120 III-4781/672) 369 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare allungata posto in forte pendenza in senso nord-est. Confina a sud con la strada a sterro che collega Chiusdino a Casette e a ovest e a est con campi arati. Descrizione unità topografica – Concentrazione di ceramica acroma, per lo più depurata, in associazione a pochi frammenti di laterizi, dimensioni 534 m, riconoscibile a circa 5 m a sud del pozzetto in mattoni posto al centro del campo. Altro materiale pertinente alla stessa emergenza di superficie è stato trascinato dai mezzi meccanici e disperso su quasi tutta l’estensione del campo. Il deposito, composto da reperti molto fluitati, si presenta danneggiato a causa dell’intensa attività agricola. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, colore rosa-arancio. Forma chiusa. 16 frammenti di parete; 1 frammento di bordo, pertinente a trilobatura, 1 frammento di fondo piano, apodo a sezione triangolare, con aumento graduale di spessore in corrispondenza dell’attacco della parete. Acroma grezza Impasto simile al 3. Forma chiusa. Olla: 10 frammenti di parete; 2 frammenti di fondo di cui uno con base d’appoggio arrotondata e indistinta e un altro piano, apodo a sezione triangolare regolare. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cronologia – Generica età romana. Rinvenimento inedito (12) Località La Poggiarella (Q.120 III-4781/671) 350 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni e forma rettangolare allungata, confinante a nord con la strada a sterro diretta al podere situato nell’angolo nord-ovest del campo, a est con il sito 13 e a sud con il bosco. Descrizione unità topografiche – Nella porzione nord-ovest del seminativo si individuano due unità topografiche attestanti la stratificazione insediativa del sito. (12.1) Emergenza di reperti mobili in superficie costituita da ceramica acroma depurata associata a una grande quantità di materiale da costruzione, riconoscibile nell’angolo nordoccidentale del sito a una distanza di circa 6 m dall’albero. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza durissima, omogeneo, compatto con colorazione bruno-arancio. Forma chiusa: 1 frammento di ansa a nastro e 3 di fondo: uno pertinente a grande contenitore, piano, apodo, con leggero arrotondamento esterno prima del punto di attacco della parete, che sale estroflessa; uno piano, apodo, a sezione triangolare, con spessore ingrossato nel punto di innesto della parete, mostra una lavorazione a tornio lento testimoniata dalle profonde solcature interne; uno piano, apodo, a sezione triangolare pressoché regolare. Maiolica arcaica Impasto simile al materiale depurato. Forma chiusa. Boccale: 4 frammenti di parete, di cui uno corrispondente all’attacco inferiore dell’ansa che mostra la tipica decorazione a bande regolari in ramina e manganese. Interpretazione – Casa realizzata con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Maiolica arcaica Boccale con decorazione a bande in ramina e manganese. Boccale con decorazione a treccia in ramina sul collo, incorniciato da due bande in manganese riconducibile per il motivo decorativo al tipo Francovich, 1982, fig. 124, n. 5. Cronologia – Metà XIV secolo. (12.2) Reperti ceramici presenti in forma sporadica al di fuori della concentrazione in uno spazio complessivo di 637 m. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto dura con colorazione bruno-arancio. Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 8 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Il materiale è traccia di un deposito presente nel sottosuolo molto compromesso in seguito alle pratiche agricole continuate. Cronologia – Generica età etrusca; sulla base del confronto degli impasti rinvenuti con quelli trovati in contesti ben datati. Rinvenimento inedito (13) Località La Poggiarella (Q.120 III-4781/672) 330 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: molto scarso. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni e forma irregolare confinante a nord-ovest con il sito 12: per i restanti lati è circondato da piccoli boschetti. Descrizione unità topografica – Presenza molto sporadica di materiale ceramico e fittile sparsa lungo tutto il campo. Presenza, media per mq – Un reperto. Interpretazione – Materiale sporadico. Elementi datanti Ingubbiata e graffita Ciotola con decorazione simile al tipo Mannoni, 1975, tav. V n. 84 delle ceramiche smaltate. Cronologia – XV secolo. Rinvenimento inedito (14) Località Casette (Q.120 III-4781/672) 311 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma irregolare definito a sud-ovest dalla strada a sterro che congiunge Frassini a Casette, a nord-est con un boschetto di delimitazione fra i seminativi e per i restanti lati con altri campi arati. Descrizione unità topografica – Nell’angolo sudoccidentale del campo, non molto distante dal fienile, si individua una concentrazione di materiale in superficie, dimensioni 637 m, composta da frammenti ceramici, laterizi e poche pietre. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 3. Forma chiusa. Olla: 12 frammenti di parete; 1 frammento di fondo piano apode. Laterizi Impasto 3. Interpretazione – Casa di medio-piccole dimensioni costruita con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Ceramica acroma depurata ingubbiata di rosso Boccale tipo Chianti, tav. LXXV, n. III. Cronologia – VI-VII secolo d.C. Rinvenimento inedito (15) Località Casette (Q.120 III-4781/673) 300 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma irregolare che occupa il versante collinare confinante a nord con la strada sterrata che collega Frassini al Tiro a Volo. È rivolto a sud verso Casette Burchianti ed è circondato, a ovest e sud-ovest, con un bosco; infine, a est e sud-est, con un campo arato. Descrizione unità topografica – Concentrazione di frammenti di ceramica acroma grezza, estesa a occupare un’area di 332 m; è posta a circa 7 m dal confine orientale, in corrispondenza della parte mediana del sito. L’emergenza è caratterizzata da una fortissima percentuale di grumi di argilla concotta interpretabili come tracce di intonaco di capanna: alcuni frammenti conservano l’impronta dell’incannicciato. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, omogeneo, colore arancio brillante. Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 36 frammenti di parete pertinenti a forme di varie dimensioni. Argilla concotta Interpretazione – Struttura realizzata interamente in materiale deperibile. Elementi datanti Acroma grezza Olla riconducibile a una forma rinvenuta nel sito 60 ben datato sulla base dei confronti ceramici. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (16) Località Casette (Q.120 III-4781/673) 300 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo rettangolare regolare ricavato all’interno di un altro, che presenta grandi dimensioni, parzialmente adibito a pascolo; è posto in pendio digradante in direzione sud-ovest verso il fosso Gallessa. Confina a nord-est con la strada a sterro che collega Frassini al Tiro a Volo, a nord con un campo a pascolo e a sud con il sito 15. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie posta a metà del lato lungo verso a nord, a una distanza di circa 30-40 m da due alberi posti lungo il bordo nord-ovest del campo; è estesa 534 m ed è composta da frammenti di laterizio e ceramica acroma grezza. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 19 frammenti di parete. Grande contenitore. Pithos: 10 frammenti di parete; 1 frammento di bordo, estroflesso indistinto dalla parete convessa di spessore uguale, con orlo piatto inclinato verso l’esterno; 1 frammento di fondo, sempre relativo alla stessa forma, piano, apodo, con la base d’appoggio arrotondata. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Pithos del tipo Murlo N3, n. 334; Pisa, p. 300, tav. 6, n. 10. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (17) Località Casette (Q.120 III-4781/672) 325 m s.l.m.; versante poggio; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma pressoché rettangolare al centro del quale è situato un bosco di piccola estensione. È delimitato a sud-ovest dalla strada che parte dal podere La Poggiarella, a sud-est e a nordovest da appezzamenti tenuti a pascolo e, infine, a nord-est da un piccolissimo bosco che divide il sito dal prato sottostante Casette. Vi si riconoscono due unità topografiche, disposte a poca distanza l’una dall’altra lungo il lato corto del campo. Descrizione unità topografiche (17.1) Piccola concentrazione di materiale di impasto grezzo, dimensioni 233 m, posta nell’angolo sud-est della porzione meridionale del campo. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa: 15 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Capanna di piccole dimensioni realizzata interamente in materiale deperibile. Cronologia – Generica età etrusca; sulla base del confronto degli impasti. (17.2) A circa metà del lato nord del campo, si individua una concentrazione di materiale ceramico grezzo associato a pochi frammenti di laterizi (dimensioni 336 m). Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa: 11 frammenti di parete. Interpretazione – Casa, di piccole dimensioni, con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cronologia – Generica età etrusca; sulla base del confronto degli impasti. Rinvenimento inedito (18) Località Poggio di Monte Siepi (Q.120 III-4779/674-675) 301-345 m s.l.m.; versante poggio; sabbia; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Versante collinare sottostante il poggio di Monte Siepi; è confinante a ovest con la strada a sterro che porta all’eremo e a est con un campo lasciato a prato. Lungo tutto il sito, e in particolar modo nella porzione superiore del poggio, sono presenti pietre di medie e grandi dimensioni, non lavorate e disposte in modo non coerente. Descrizione unità topografica – Ricca concentrazione, dimensioni 837 m, definita da laterizi, laterizi combusti e alcune scorie; il materiale ceramico è assente. L’area interessata è compresa fra la strada a sterro e il confine del campo in prossimità della cappella. Presenza, media per mq – Cinque reperti. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 5. Interpretazione – Fornace da laterizi. Cronologia – XIII-XIV secolo. Sulla base della tipologia dei laterizi. Rinvenimento inedito (19) Località Poggio di Monte Siepi (Q.120 III-4779/674-675) 301-345 m s.l.m.; versante collinare; sabbia; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Esteso campo posto in forte pendenza a occupare il versante nord-ovest del poggio di Monte Siepi. È delimitato a nord-ovest e a nord-est dalle due strade (una asfaltata e l’altra bianca) di collegamento all’eremo e a sud da una piccola area boschiva che divide il sito dal sito 5. Descrizione unità topografica – Sporadica presenza di laterizi, fra cui alcuni combusti, in associazione a pietre di grandi e medie dimensioni; i materiali si dispongono in forma sparsa nella porzione di campo allineato alla strada asfaltata diretta alla cappella. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 5. Interpretazione – Il deposito di superficie può essere letto come area di concentrazione, oppure di scarico volontario, di materiali di risulta delle ristrutturazioni o, infine, del degrado di alcune parti strutturali del nucleo. Cronologia – XIII-XIV secolo. Sulla base della tipologia dei laterizi. Rinvenimento inedito (20) Località Case Burchianti (Q.120 III-4781/673) 309 m s.l.m.; versante collinare; argille; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni posto in forte pendenza digradante verso il piccolo torrente che lo delimita a nord; a est confina con un’area boschiva e a sud con la strada a sterro che collega Casette con la provinciale per Prata. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie, di dimensioni limitate, posta nella porzione superiore del campo, in prossimità della strada a sterro. È estesa a coprire un’area di circa 334 m ed è caratterizzata da materiale di impasto (laterizi e acroma grezza) e pochi frammenti di ceramica acroma depurata. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, molto farinoso, di colore arancio scuro. Forma chiusa: 6 frammenti di parete; 1 frammento di fondo ad anello, con base d’appoggio a sezione triangolare leggermente arrotondato. Acroma grezza Impasto simile al tipo 3. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete. Laterizi Impasto con caratteristiche riconducibili al tipo 3. Interpretazione – Casa, di piccole dimensioni e pianta probabilmente quadrangolare, realizzata con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Ceramica acroma depurata ingobbiata di rosso 3 frammenti di parete. Cronologia – Fine VI-VII secolo d.C. Rinvenimento inedito (21) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 301m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; incolto. Ricognizioni effettuate: 1; terreno incolto; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Porzione di terreno pianeggiante, di forma triangolare, delimitato a sud da un grande incolto, a ovest da un bosco e a est da una piccola strada diretta al fiume Merse. Il campo è attraversato da un piccolo stradello. La visibilità è fortemente limitata dalla fitta vegetazione presente. Descrizione unità topografica – Nell’angolo definito dal sentiero diretto al fiume Merse e da quello di accesso al campo, emerge una concentrazione di frammenti di laterizi di varie dimensioni, grandi frammenti di refrattari con evidenti tracce di arrostimento e alcuni frustuli di acroma depurata e maiolica arcaica. La ripulitura del contesto, in un’area campione di 231 m, mette in luce un terreno di colore rosso (forse in seguito al disfacimento dell’argilla) ricco di frammenti di laterizio; anche la sezione, creata dall’apertura dello stradello in direzione est, presenta un deposito nel sottosuolo con identiche caratteristiche. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Forma chiusa: 3 frustuli di parete. Maiolica arcaica Forma chiusa: 4 frustuli di parete. Laterizi Impasto 4. Interpretazione – Fornace di laterizi, attiva nel periodo di vita del monastero di San Galgano. Cronologia – XIII-XIV secolo. Rinvenimento inedito (22) Località Pian di Feccia (Q.120 IV-4783/674) 278 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia; pascolo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 1; condizioni di luce: non riportate. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: non definibile. Descrizione sito – Campo pianeggiante circondato da boschi, raggiungibile percorrendo la strada vicino alla baracca Anas posta tra il Km 50 e il Km 49 della S.S. 73. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie individuata durante il survey anglo-italiano “Progetto Montarrenti”, nel 1983. Il deposito è descritto nella scheda di unità topografica come “concentrazione di frammenti di dolio (30 frammenti) e ceramica più fine”; sono riportate le dimensioni (pari a 5310 m) e la localizzazione è posta di fronte alla fine della strada vicino al grande traliccio della luce “tra il palo e la roccia”. Non è possibile verificare il rinvenimento né definirne ulteriormente le caratteristiche in quanto il campo è attualmente tenuto a pascolo. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Generica abitazione. Cronologia – Generica età romana. Nella scheda non vengono indicati i criteri di attribuzione di questa cronologia. Bibliografia – Scheda di ricognizione topografica F 77.2 (1983) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (23) Località Podere Ticchiano (Q.120 III-4781/675) 306 m s.l.m.; versante collinare; argille; fiume Merse; seminativo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 1; condizioni di luce: non riportate. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: non definibile. Descrizione sito – Versante collinare leggermente digradante verso il torrente che lo delimita a sud-est. Descrizione unità topografica – La scheda redatta durante la ricognizione anglo-italiana del “Progetto Montarrenti” segnala un rinvenimento sporadico di laterizi e ceramica (50 frammenti, di cui non vengono offerte specifiche). Attualmente il sito non è controllabile perché adibito a pascolo stabile: le aree limitrofe, indagate nel settembre 1994, non hanno restituito nessuna evidenza di reperti mobili in superficie. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Non definibile. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Scheda di ricognizione topografica C 7.2 (1983) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (24) Località Podere Ticchiano (Q.120 III-4781/675) 306 m s.l.m.; versante collinare; depositi alluvionali; fiume Merse; pascolo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 1; pascolo; condizioni di luce: non riportate. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Il campo, genericamente descritto nella scheda, può essere identificato con buona affidabilità in uno dei campi posti lungo la strada provinciale, a poca distanza dal bivio per Prata in corrispondenza del versante nordorientale del poggio di Monte Siepi. Descrizione unità topografica – La scheda compilata durante la ricognizione svolta nell’ambito del “Progetto Montarrenti” segnala il rinvenimento sporadico di materiale litico (per lo più selci), fra cui figura anche una punta di freccia. Il campo è adibito a pascolo e dunque l’emergenza di reperti in superficie segnalata non è verificabile; neppure la ricognizione del campo immediatamente limitrofo, parzialmente lavorato, non ha fornito alcuna indicazione utile a definire meglio le caratteristiche del deposito. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Generica preistoria. Bibliografia – Scheda di ricognizione topografica C 7.4. (1983) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (25) Località Monte Siepi (Q.120 III-4780/675) 345-298 m s.l.m.; versante collinare; argille; fiume Merse; pascolo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 2; pascolo; condizioni di luce:non riportate. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare allungata posto a ovest della strada provinciale in corrispondenza del Km. 31 dopo il ponte. A nord-est è delimitato dal corso di un affluente della Merse. Descrizione unità topografica – La scheda redatta dall’équipe impegnata nel “Progetto Montarrenti”, attesta un rinvenimento sporadico di rari frammenti di laterizio e una selce. Nel settembre 1993 è stata effettuata la ricognizione della parte meridionale del sito che ha restituito materiale litico di età preistorica (scheda sito 64); è plausibile dunque sostenere l’attendibilità del rinvenimento. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Generica preistoria. Bibliografia – Scheda di ricognizione topografica C 16.1 (1983) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (26) Località Podere Ticchiano (Q.120 III-4781/675) 268 m s.l.m.; pianura; argille; fiume Merse; pascolo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 2; pascolo; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Il sito corrisponde a uno dei campi posti sulla sinistra della strada diretta all’abbazia di San Galgano all’altezza del ponte al Km 30. Descrizione unità topografica – Rinvenimento sporadico di frammenti di selce e ceramica, molto probabilmente moderna, segnalato durante il survey anglo-italiano nel 1983. La seconda ricognizione, effettuata nel settembre 1994, ha restituito evidenze simili. Presenza, media per mq – Un reperto (II ricognizione). Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Generica preistoria. Bibliografia – Scheda di ricognizione topografica C 7.5 (1983) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (27) Località Poggio della Badia, castello di Serena (Q.120 III?4779/670) 410 m s.l.m.; sommità poggio; rocce silicee e argille; fosso della Badia; vegetazione stabile. Ricognizioni effettuate: 2; vegetazione stabile; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Poggio posto al Km 37 della S.S. per Massa Marittima, in prossimità del bivio opposto a quello diretto al Mulino delle Pile. È delimitato a est dal fosso (denominato appunto della Badia), a sud-est dalla strada e a nord e a ovest da superfici lasciate a pascolo; la sua sommità si raggiunge attraversando il campo in direzione nord-ovest e seguendo la strada che costeggia il poggio, tracciata in tempi recenti per il trasporto del legname a valle. Morfologicamente particolare rispetto alla superficie pianeggiante circostante, presenta una sommità spianata artificialmente, coperta da vegetazione boschiva a bassa densità. L’anomalia è stata rilevata anche tramite la lettura della foto aerea ed è descritta nella scheda n. 165 dello schedario relativo alle emergenze dei siti incastellati, curato da Marcello Cosci (consultabile presso il Laboratorio di Fotoaereointerpretazione del Dipartimento di Archeologia di Siena). Nel novembre del 1994 è stato effettuato il rilevamento plano-altimetrico con il teodolite tramite il posizionamento di tre stazioni, inquadrate in un sistema di assi cartesiani con origine nel picchetto centrale (P100; quota relativa di 100 m, quota assoluta circa 410 m s.l.m.), orientati con l’asse del campanile di Chiusdino. Sono stati battuti circa 250 punti necessari sia per la descrizione morfologica che per la ricostruzione delle evidenze materiali. La sommità del poggio, estesa per circa 800 mq, ha andamento ellissoidale allungato con una depressione al centro che determina la configurazione a sella d’asino; vengono disegnate quindi due piccole collinette (collina nord e sud), prospicienti l’una all’altra, poste alla quota massima del poggio: il dislivello definito dalla depressione è di 7 m. Entrambe le colline digradano lungo tutti i versanti del poggio fino a raggiungere il livello dell’area circostante (342 m s.l.m.). Descrizione unità topografiche – Nel sito si riconoscono due unità topografiche, corrispondenti al castello e all’abbazia, che necessitano trattazioni distinte per quanto riguarda l’inquadramento storico. (27.1) Notizie storiche – La prima attestazione del castello risale al 1004, quando viene donato da Gherardo II e Willa, della famiglia Gherardeschi, all’abbazia benedettina fondata al suo interno per volontà dei conti stessi. Rappresenta probabilmente un caso di “castello curtense”, fondato negli anni a cavallo fra la fine del X secolo e gli inizi dell’XI secolo. Nell’atto di dotazione viene infatti indicato come “castrum cum curte et pertinentia cum ecclesiis”. Inoltre, la presenza di una “casa donnicata iusto castello de Serina”, ricordata in un contratto del 1008, ricorda un’organizzazione di tipo curtense; dal momento che il signore in questo caso è rappresentato dal conte Gherardo II, è difficile sostenere la presenza di una sua residenza esterna al castello, se non come retaggio di un sistema insediativo precedente. Il castrum, passato sotto la tutela formale del monastero, nel 1116 diventa oggetto di contesa fra la famiglia e i religiosi; non conosciamo l’esito della diatriba. Negli anni 1125-1133 viene coinvolto nella lotta accesasi fra il Vescovato volterrano e i Gherardeschi ed è raso al suolo durante un’azione di guerra; fra le clausole poste da papa Crescenzio III per la stipula della pace si impone il divieto di riedificarlo. La scarsità dei documenti di XI secolo impedisce di elaborare certezze in merito al ruolo svolto dal castello all’interno della politica comitale; vari elementi concorrono però a definirlo residenza privilegiata e centro di potere. Innanzitutto la decisione di fondarvi all’interno l’abbazia, fondamentale per l’affermazione della loro signoria territoriale. Il lodo di pace poi, assegna un’assoluta preminenza nella trattazione alle sorti di Serena ed esplicita, attraverso il divieto alla ricostruzione, la volontà precisa di distruggere il simbolo dell’egemonia signorile; non ultima forse la necessità di interrompere la potente catena di fortificazioni (Serena, Miranduolo, Soveioli; in seguito anche Chiusdino) che incombeva in modo pressante sull’area mineraria di Montieri. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa, 1004: “Primum nominamus castellum de Serena cum curte et pertinentia cum ecclesiis [...] curtis et casis seu castellis et rochis sive ecclesiis et rebus donnicatis et massaritiis rebus”. Cavallini, 1969-1972: 1008: Gerardo fu Gerardo (“de genere longubardorum”) vende a Rollando fu Guidone vicecomes la metà di sei massaricie “infra plebem S. Ioannis sito Casale” rette già da Raco ora da Urso, Bonizo e Filbo in Pastina, in Perito, in Aquaviva, con case corti donicati orti vigne selve oliveti castagneti pascoli monti piani laghi paludi sorgenti e corsi d’acqua mobile e immobile, prezzo nappo uno de argento per lire 20 in prefinito, pena il doppio. La moglie Guilla fu Bernardo (“de genere francorum”) consente. “Voloterrense, in casa donicata iuxta castello de Serina, Rodilando giudice imp., testi Rozzo fu Ingilfredo detto Ingizzo, Teuzo fu Sigizo, Ildibrando e Guido. Eriberto not. imp. Copia di Raineri not. d. Frederici imp.”. ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene, 5, settembre 1133: “laudamus et precipimus ut Gena et omnes filii eius iurent quod non sint in consilio vel facto vel consensu quod castrum Serene ulterius edificetur”. Interpretazione – Castello. Cronologia – XI-XII secolo. (27.2) Notizie storiche – Il cenobio maschile di Santa Maria, vivente secondo la regola benedettina, viene fondato nel 1004 dal conte Gherardo II dei Gherardeschi. Non rimane l’atto di fondazione bensì una donazione con la quale i signori dotano il monastero del loro intero patrimonio; un totale di 18 castelli e nove chiese, dislocati in almeno sei contee della Toscana occidentale e meridionale, comprese a nord dall’Arno, a sud dal Lago di Bolsena, a est dall’Alta Val di Merse e a ovest dal mare. L’iniziativa si inserisce perfettamente nel quadro delle numerose fondazioni monastiche decise da ricche e potenti famiglie nei decenni compresi fra la fine del X secolo e gli inizi dell’XI secolo. In questa fase i monasteri venivano intesi come centri organizzativi di beni fiscali e allodiali e finivano così per rappresentare un elemento di coesione delle proprietà della famiglia e, contemporaneamente, un segno della riuscita della casata; divenivano infatti un punto di riferimento di larghi strati della società locale (dai coloni che ne coltivavano i campi, alle famiglie più ricche che ne prendevano le terre a livello o vi ponevano alcuni dei loro membri come monaci) e favorivano il radicamento delle famiglie fondatrici, in particolare di quelle che miravano a rendere dinastici i loro poteri di origine pubblica (come appunto i Gherardeschi); non svolgevano dunque un compito molto diverso dal castello nel facilitare la costituzione di signorie di carattere territoriale. In primo luogo il conte intendeva affidare all’abbazia una funzione di coagulazione dell’ampio e disperso patrimonio familiare e di coordinamento territoriale a beneficio dei nipoti; a questi motivi si affiancano obiettivi di stabilizzazione della casata all’interno degli equilibri politici più ampi. A pochi mesi dalla fondazione l’abbazia viene donata ad Enrico di Sassonia, sceso in Italia nella primavera di quell’anno per essere incoronato re a Pavia. Da parte dei signori, la mossa ha lo scopo di rendere chiara la loro scelta politica (sostenere Enrico contro Arduino) ma soprattutto mira a rafforzare se stessi e la casata grazie al nuovo legame con l’imperatore (permette ad esempio, di conservare l’ufficio comitale di Volterra fino a poco dopo il 1034, benché i vincoli con la città si stessero progressivamente allentando). Tali elementi mostrano la funzione prettamente politica svolta dall’abbazia. Non sono chiari invece i rapporti stabiliti fra i fondatori e il monastero soprattutto per quanto riguarda la gestione del patrimonio; entrambi compaiono come amministratori dell’intera proprietà, creando una situazione di ambiguità istituzionale, non priva di complicazioni. Vengono infatti operati numerosi tentativi di sopraffazione a danno della comunità monastica. Il 28 aprile 1100, la contessa Matilde presiede a un placito in favore dell’abate Ugo, che reclama il possesso su uno dei castelli donati nel 1004. Il 23 marzo 1111, Enrico V si pronuncia in merito alla liberazione dell’abbazia, nel rispetto dell’impegno contratto con il fondatore di salvaguardare il monastero dai soprusi dei discendenti; quest’ultima affermazione, non realmente contenuta nel documento del 1004, è invece strumentale alla volontà dell’abate di eliminare fastidiose interferenze dei conti nella gestione monastica. Alcuni documenti, datati 1116, riguardanti i castelli posti in aree strategiche (Val di Merse e Valdera) mostrano una parziale soluzione dei contrasti. Il 30 marzo dello stesso anno il conte Ugo garantisce, attraverso la vendita formale della sua quota sul castello di Capannori in Valdera, il rispetto dei patti relativi ai castelli di Serena e Sovioli: verosimilmente impegnandosi a non molestare il monastero. Pochi mesi dopo, il fratello Ranieri stipula un contratto simile per alcuni castelli in Valdera. Negli anni 1125-1133 l’abbazia viene coinvolta nel contrasto sorto fra i figli di Ugo di Guido II e il vescovo volterrano Crescenzio III. Gli accordi di pace del 1133 non tengono conto delle donazioni del 1004 e i castelli di proprietà della Serena vengono inglobati nel patrimonio del Vescovato, che li concede direttamente in feudo ai conti. Da questo momento, come rendono chiaro le vicende del castello del Miranduolo (sito 28), il rispetto dei patti del 1004, sarà puramente funzionale a una ulteriore espansione del vescovo sulle poche proprietà rimaste ai signori. Perde anche il controllo del castello di Chiusdino (sito 29), probabilmente fondato dagli stessi monaci, all’interno del quale riescono a mantenere solamente la cappella dei SS. Jacopo e Martino: nel 1165, il vescovo Ildebrando comunque si impegna a non costruire chiese nel castello e nel suo borgo e di non fare discussione in merito alla “ecclesiam SS. Iacobi et Martini iuxta muros de Cluslini”. Queste ultime vicende segnano di fatto l’inizio della crisi dell’abbazia che porta papa Celestino III, in data 13 gennaio 1196, a inserirla nell’ordine vallombrosano, riducendo a semplici diritti di patronato l’intervento dei conti. Privati oltretutto della protezione delle mura castrensi, distrutte durante la guerra, i monaci sono costretti a spostarsi in breve tempo all’interno di Chiusdino, trasferendo la loro clausura in San Martino (non si hanno date precise per il trasferimento da collocare verosimilmente nella seconda metà del XII secolo). Ricordiamo per cronaca che il Targioni scrive che il monastero viene abbandonato “per quanto dicesi a cagione dell’aria cattiva”; mentre Gigli sostiene che sia andato distrutto durante la guerra, sicuramente fraintendendo le vicende del castello. L’allontanamento dell’abbazia dalla sfera di influenza dei conti marca un altro passaggio drastico. Nonostante la conferma di Federico I ai diplomi proclamati dai predecessori (1167), alla protezione imperiale viene progressivamente a sostituirsi quella pontificia, secondo un processo comune a molti altri cenobi: in data 20 dicembre 1152, è infatti il papa Eugenio III a confermare all’abate Guido le cappelle dipendenti dall’abbazia e le decime del patrimonio monastico. Nel clima precario che si delinea a partire dal XII secolo per i monaci diventa difficile gestire un patrimonio così esteso e frazionato; si vedono quindi costretti a restingere la loro sfera d’azione in Val di Merse e nella bassa Val di Cecina, cedendo consistenti porzioni dei loro beni (nei documenti datati al 19 febbraio e al 24 novembre 1158 si registrano consistenti cessioni patrimoniali). Ad aggravare la già incombente crisi, sia economica che religiosa, si aggiunge la fondazione del monastero di San Galgano, che immediatamente diviene recettore delle donazioni dei privati: esemplificativo in tal senso, il lascito testamentario del 1233 (a soli 30 anni dalla fondazione cistercense) dove viene prevista una cifra pari a 100 soldi da destinare all’abbazia di San Galgano, mentre di soli 20 soldi per il monastero di Serena. Nella prima metà del XIII secolo si concentrano poi una serie cospicua di atti relativi ai contrasti fra le due abbazie relativamente alla proprietà di alcuni terreni; testimoniano il tentativo di Serena di sottrarsi alla sopraffazione del monastero cistercense, che le subentra nel controllo di importanti nuclei insediativi e di tutte le strutture produttive poste nelle sue immediate vicinanze. Nella seconda metà del XIII secolo è da collocare la definitiva scomparsa dell’ente ecclesiastico: compare infatti nell’elenco delle Rationes Decimarum negli anni 1275-1276 e 1276-1277 mentre non è ricordata in quelle del 1302-1303. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa, 1004: “Gherardus comes et uxor mea Guilla [...] providemus tibi omnipotenti Deo et Ecclesie et Monasterio Sanctae Mariae Matris nostrae, quod nos construimus infra Episcopatum Volaterranensis inter castellum de Serena [...] et faciat exinde tam ipsa Dei ecclesia et monasterio quam nos atque Boniperto abbas istius monasterii cum fratribus suis, qui in ipsa eclesia et monasterio nunc detinetur, aut alii successores sui, qui pro tempore fuerint, quidquid iuxta legem voluerint”. Stumpf Brentano, 1865-1883: 23 novembre 1111: “comes quondam Gerardus cum coniuge sua Guilla unanimi voto ecclesiam eandem construxerunt, ad quam omnia ipsorum bona et certas possessiones pro animarum suarum remedio tradiderunt et confirmarunt, quam etiam cum omnibus datis et dandis tirannicis potestatibus et a suis parentibus, ne post suum decessum potuissent invadere vel diripere”. RP, p. 298: 20 dicembre 1152: “Eugenius III [...] suscipit monasterium beatae Mariae de Serena sub Apostolicam protectione et concedit licentiam cappellas disponendi et ordinandi sub cenzu bisantii 1 apost sediannis singulis persolvendo”. RV, pp. 70-71: 7 maggio 1165: “Galganus Vulterranensis episcopus consensu canonicorum se obligavit Silvestro abbas S. Marie de Serena se non edificaturum ecclesiam in castro et burgo de Cluslino nec litem facturum de ecclesiam S. Iacobi et S. Martini iuxta muros de Cluslino”. ASS, KSG 161, c. 361v-362v: 8 gennaio 1220: “donnus Bonus, abbas monasterii de Serena, donnus Gualterius camerarius, [...]. Dederunt, cesserunt et mandaverunt donno Deodato, priori monasteri Sancti Galgani, recipienti pro ipso monasterio et conventu, presenti et futuro, totum et quidquid ipsius de Sirena [...]. Similis sicut trahit per Costaçenam, et vadit per Filicariam, et redit in fluminum Feccia et venit per Fecciam et redit in Mersem usque ad vadum ipsius, et quidquid habent in Tichianum et eius pertinentis. Et sicut vadit per eundem Camurlum supradicto et trahit Gallessam et recedit recte ad fontem Regineta et inde redit al molendinum in fluminum Merse. [...] medietatem pro indiviso totius terre citra et ultra Mersam, ubi constructa fuerunt molendina quondam Guaschi et construenda et rehedificanda sunt. [...] Renuntians exceptionis non numerate pecunie, et omni legum et iniurum auxilio sibi super hoc aliquatenus et futato, quae non lib. L expendende sunt in rehedificatione dictorum molendinorum [...] dictus donnus [...] mandavit dicto abbati et capitulo seu conventu de Sirena dictam medietatem pro indiviso totus dicte terre citra et ultra Merseam ubi constructa fuerunt molendina quondam Guaschi et costruenda et rehedificanda sunt eum omni iure et pertinentiis suis tam aque ducto quam sticcaria, gora et reditibus ad dictam terra ubi sconstructa fuerunt dicta molendina et construnda et rehedificanda sunt pertinentibus Ildibrandini”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri, 27 aprile 1257: Tedicingo del fu Gherardo, Lotterenga sua madre, Palmiera figlia del fu Tancredo da Frosini, sua moglie e Imilia sua sorella vendono ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone comprante e ricevente per sé e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo, alcuni terreni fra cui “quandam aliam petiam terre laboratoriam et aboscata dictam Aiam Becharelli cui de super Talomuccij et alii confines et de subter dictorum emptorum ab alio latere est monasterii de Serena ex alio quandam fossatum”; “quandam aliam petiam terre positam prope Cavallioni”; “quandam aliam petiam terre positam in Villicani prope Castrum Merse cui a duabus lateribus est dictorum emptorum et ex alio abatie de Serena et alii confines”; “quandam aliam petiam terre posite a Isora di Conia” confinante con il “cursus Mersem et cursus Piagiam [...] et viam da vado Pontorese”; un terreno detto Campo Gualandi, confinante con la strada del vado Cicianese e il “cursus Merse”; un terreno in contrada la Conia; un terreno nel piano di Filicaia; un terreno in Chiusurli, confinante con la Piaggia del Piano di Filicaia; un terreno al ponte al Frasso confinante con l’abbazia di Serena; un terreno alle Piaggie de’ Monti confinante con il “cursus Merse”. Inoltre, Ass, KSG 163, c. 132r; c. 238r. ASS, KSG 161, c. 346v; 346v347v; c. 347rv; c. 349r-350r; c. 365r-366r; c. 366v-367r; c. 361v-362v. Interpretazione – Abbazia. Cronologia – 1004-XIII secolo. Descrizione unità topografica – La cinta muraria si segue lungo tutto il lato sudoccidentale del poggio, dove se ne conserva traccia per 30 m, in corrispondenza dell’area morfologicamente depressa, e per altri 40 m nel lato sottostante la collina sud. Il primo tratto corre con andamento lineare lungo il lato a valle dello stradello. La tendenza a chiudere in direzione del lato nord-ovest sembra suggerire un andamento del circuito rivolto a escludere la collina nord. Il secondo tratto presenta una maggiore articolazione. Per 15 m segue perfettamente l’andamento del primo allineamento, poi mostra un lato posto obliquamente rispetto alla pendenza naturale del terreno; dopo circa 7 m, si congiunge a un altro segmento, proseguendo per altri 20 m, 4 m più a valle rispetto al primo. Questo lascia ipotizzare una variazione tenuta a ospitare la porta di accesso al castello; lettura confortata dalla presenza di due brevissimi allineamenti, posti ad angolo retto e di uno in orizzontale, interpretabili come labili tracce di una scalinata (attualmente lo stato di degrado del sito ha provocato la cancellazione di queste tracce). Sul lato nord-est, si continua a seguire l’andamento della cortina attraverso emergenze, appena intuibili sul terreno, che chiudono la collina in corrispondenza del declivio. Mancano invece indizi murari lungo il lato orientale, dove la funzione difensiva poteva essere svolta dalla forte pendenza naturale e dalla presenza del corso d’acqua, posto a delimitazione del poggio. Il castello doveva estendersi per una superficie di circa 450 mq e avere una pianta ellissoide allungata (adattandosi di fatto alla morfologia della collina). Sulla scorta dell’esempio di Miranduolo (castello con cui mostra chiare analogie per quanto riguarda la struttura materiale), possiamo ipotizzare che esistesse una distinzione interna fra l’area sommitale (collina sud), tipo cassero, connotata dalle strutture più imponenti e distaccata fisicamente dal resto dell’insediamento, in corrispondenza dell’area morfologicamente depressa (probabile fossato). La collina nord non restituisce per il momento emergenze in superficie; ma è comunque difficile pensare alla sua esclusione dall’insediamento fortificato. Nella collina meridionale, in corrispondenza dello sbocco della stradello, si distinguono due spezzoni di muro posti in direzione nordest/sud-est, pertinenti a una stessa struttura; perpendicolarmente a essi, a una quota superiore di circa 3 m, si riconosce un lungo tratto murario, lungo circa 7 m e orientato sud-ovest/nord-est. In direzione est, sono leggibili altri ruderi, perpendicolari al muro lungo e, con un dislivello di circa 3 m, un altro tratto di circa 2 m. Si tratta di un edificio rettangolare allungato, con dimensioni di 15,539 m e orientamento sud-ovest/nord-est. La differenza di quota fra le varie porzioni si spiega con una maggiore conservazione in elevato del lato nordorientale della struttura, che ha determinato una diversificazione del livello di interro; in altre parole, mentre del lato meridionale si conservano le fondazioni, dei lati opposti sono ancora visibili le interfacce definite dal crollo dell’ambiente. La costruzione presenta muri perimetrali con uno spessore di 90 cm; un campione dell’elevato, visibile in un tratto di parete crollato, mostra una tessitura muraria per filari paralleli in conci di travertino, ben squadrati e di piccole dimensioni. Quasi certamente si tratta dell’edificio abbaziale. L’assenza di altri monumenti con la stessa cronologia in ambito chiusdinese impedisce di proporre datazioni sulla base del confronto tipologico; la mancanza di analogie con i campioni murari, databili a partire dalla fine dell’XI secolo, può comunque confermare la datazione dei ruderi agli anni immediatamente intorno al Mille. L’interpretazione proposta viene sostenuta anche da fattori oggettivi come l’estensione e l’imponenza delle evidenze, decisamente superiori alle altre rinvenute sul sito; dal momento che l’abbazia è l’unico edificio che sopravvive alla distruzione violenta del castello è del tutto plausibile che conservi una maggiore consistenza in elevato. Nella parte sudorientale del sito, sono intuibili altre emergenze in superficie, pesantemente stravolte dai recenti lavori di disboscamento; restituiscono solo alcuni allineamenti non leggibili e una grande quantità di blocchi di travertino, più o meno lavorati, sparsi in modo non omogeneo sull’area. Le frequenti variazioni morfologiche del terreno (indizio di strutture nel sottosuolo) testimoniano la presenza di altri edifici, obliterati da un massiccio strato di interro. In prossimità della cinta muraria rimangono tracce chiare di murature poste in modo parallelo e perpendicolare a essa. Collegando i vari tratti, si individuano ambienti di forma rettangolare posti a sfruttare come parete la parte interna della fortificazione, forse funzionali alle opere difensive. Cultura materiale presente La ripulitura di una delle emergenze ha restituito pochi frammenti ceramici, rappresentati da un frammento di parete di olla e uno di bordo di coperchio, entrambi in acroma grezza di impasto 3 con filettatura a maglie strette sulla superficie esterna; due frammenti di testo, di impasto molto grezzo con inclusi di medie e grandi dimensioni, a orlo arrotondato, parete inclinata e fondo piano non molto marcato. Bibliografia – Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 307; Cappelletti, 1844?1870, XVIII, p. 261; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 47-75; Ciacci, 1835, II, n. 297; Cottineau, 1939, col. 3013; Gigli, 1974, II, p. 706; Litta, 1819, tav. 1; Kurze, 1989, pp. 295-316 (in particolare, pp. 314315); Muratori, 1745, III, pp. 1067?1068; V, pp. 745?747; Nardini, 1999; Pflugk Haritung, 1881-1888, n. 286, p. 271; Repetti, 1841, I, p. 26; Rossetti, 1973, pp. 312-317; RS, pp. 70-71, 164,. 200, 201; RV, pp. 74, 272, 273, 324. (28) Costa Castagnoli, castello di Miranduolo (Q.120 III-4776/669) 390 m s.l.m.; sommità poggio; rocce carbonatiche brecciate; fosso Gallosa; vegetazione stabile. Ricognizioni effettuate: 2; vegetazione stabile; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: discreto. Descrizione sito – I ruderi del castello sono stati rintracciati agli inizi degli anni Sessanta da Simonetta Bertini, nel corso di una ricerca incentrata sul riconoscimento delle sedi scomparse della Val di Merse. Fino ad allora, non si avevano informazioni valide per localizzare il sito; la letteratura infatti offriva indicazioni molto vaghe e talvolta prive di veridicità. Targioni Tozzetti proponeva una collocazione generica nell’esteso bosco della Costa Castagnoli; il Repetti invece, fraintendendo l’affermazione del naturalista circa la vicinanza a Castelluccio, localizzava erroneamente Miranduolo nei pressi di Castelletto Mascagni (nelle vicinanze di Chiusdino ma molto distante dalla Costa Castagnoli). Nel Repertorio di Cammarosano e Passeri, la struttura viene indicata “su una collinetta alla confluenza di due torrentelli”, senza fornire però coordinate utili all’individuazione del luogo. In realtà, il sito occupa le estreme propaggini occidentali della Costa Castagnoli ed è interamente coperto da una fitta vegetazione boschiva di castagno. È raggiungibile dalla statale per Massa Marittima, attraverso lo sterrato che costeggia l’edificio opposto al bivio per Colordesoli. Superato il corso del torrente Cona e, dopo pochi metri, quello del Merse, si prosegue fino ad arrivare a un esteso campo, che termina in prossimità del bosco; si accede alla macchia tramite una strada tracciata in tempi recenti dai mezzi meccanici e a sinistra dell’imbocco, si sale fino a raggiungere la sommità della collina. Nel 1994 è stata effettuata la prospezione del poggio, accompagnata dal rilievo plano-altimetrico dell’area con l’impiego della stazione totale (400 punti battuti). Nell’agosto 2001 è iniziato lo scavo del castello, sotto la direzione scientifica di Riccardo Francovich e Marco Valenti (docenti dell’Area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena) e con la direzione sul cantiere di chi scrive; in quest’occasione è stato fatto un nuovo rilievo topografico, più dettagliato, ottenuto battendo circa 2.000 punti, distribuiti su una superficie totale di 6.000 mq circa. La sommità della collina (estesa per 105 m lineari) presenta un andamento progressivamente digradante in direzione nord-est/nord-ovest con brusche pendenze su tutti i versanti (dislivello medio 4 m in 6 m lineari); sul lato nord-est e sud-ovest, in corrispondenza del tratto più alto dei corsi d’acqua, si calcola un dislivello di 9 m nello spazio di 6 m lineari. Notizie storiche – Di proprietà dei Della Gherardesca, nel 1004 il castello viene donato con la sua chiesa intitolata a San Giovanni Evangelista all’abbazia di Santa Maria, eretta all’interno del castello di Serena. Si tratta della prima attestazione di Miranduolo e non abbiamo notizie certe in merito alla sua fondazione; la citazione come “castrum cum curte cum ecclesia” lascia ipotizzare una preesistenza come centro curtense (nel documento la curtis sembra intesa proprio come struttura curtense e non come territorio di pertinenza castrense). Occupa sicuramente un posto centrale all’interno della politica dei Gherardeschi; si pone a controllo della viabilità principale verso la Maremma e Montieri, ma soprattutto domina un’area connotata da potenziale estrattivo. All’interno della sua corte si annoverano giacimenti di argento (ricordati nei documenti) e punti di estrazione di mineralizzazioni a solfuri misti (individuati durante la nostra ricerca); insieme al castello di Serena e di Soveioli (posto in corrispondenza di coltivazioni di rame) rappresentava di fatto il fulcro del potere familiare in Val di Merse. In ragione del suo ruolo, negli anni 1125-1133, viene pesantemente coinvolto nel conflitto sorto fra il vescovo volterrano e i conti, divenendo scenario almeno di un violento episodio bellico che causa agli assediati pesanti perdite in armi e cavalli: le clausole della pace del 1133 prevedono un cospicuo risarcimento in denaro per i danni subiti. Non sappiamo fino a che punto la struttura sia stata danneggiata, è però da respingere la tesi di Vatti riguardo a una totale distruzione avvenuta in questa circostanza; egli ritiene di potere attribuire l’indicazione contenuta nella pace “castrum Irene non ulterius edificetur” a Miranduolo mentre è inequivocabile il riferimento a Serena (il testo del documento oltretutto riporta “castrum Sirene” e non “castrum Irene”). A seguito degli accordi, il castello di Miranduolo rimane in pieno possesso dei discendenti di Ugo del ramo di Guido II; chiaramente non viene considerata la donazione del 1004, in base alla quale i diritti sul castello spettano invece all’abbazia di Serena. Valendosi dell’autonomia concessa, Ugo, per contrastare l’assoluto dominio della zona del presule volterrano, tenta nel 1178 un accordo con Siena, offrendole la metà del castello che riceverà poi indietro a titolo di feudo. Immediata è la risposta del vescovo che ora ricorre al possesso di Serena per esautorare i conti anche su Miranduolo; con una bolla del 1187 di papa Urbano III, il vescovo riesce a fare confermare alla Badia di Serena il possesso delle terre donatele nel 1004; di seguito, al vescovo Ildibrandino il possesso di tutte le proprietà inserite fra i confini di Sovicille e Tocchi, ivi comprendendo anche il monastero e quindi, tutto il suo patrimonio. Fiaccato dai primo contrasti con la Repubblica, nel 1193 Ildebrando però finisce con il rinunciare al controllo appena raggiunto; rescinde quindi il contratto del 1191 e restituisce tutti i diritti ai conti che nel 1202 si rivolgono ancora a Siena, rinnegando tutti i patti contratti con la sede volterrana dopo il 1178. L’espressione, contenuta nella cessione ai signori “si comites voluerint Mirandolum rehedificare, permittam eis”, palesa che la struttura del castello in questa data è fortemente compromessa se non addirittura distrutta. I Gherardeschi, estranei ormai da obiettivi politici in questa zona, si liberano progressivamente delle loro proprietà a favore della famiglia Cantoni di Montieri; come loro, anche il gran numero di proprietari della zona vendono quote fondiarie all’interno della corte del castellaris (definito in tal modo dal 1257). La famiglia Cantoni, a pochi anni di distanza, cede l’intero patrimonio ai Broccardi; questi a loro volta nel 1336-1337 trasferiscono tutto al Comune di Montieri che, dopo l’acquisto delle quote possedute da privati di Chiusdino e Greppoli, diventa unico proprietario dell’ormai podere e del suo distretto territoriale. Le cessioni di terre riguardano tutta l’estensione del territorio di pertinenza del castello (definito a sud da Fogari, a sud-ovest da Cusa, attualmente nel comune di Montieri e a nord dal castello di Serena). Dalle dinamiche dei primi atti di vendita possiamo ricavare alcuni indizi sul tipo di gestione economica esercitata dal signore: ha un controllo diretto sulla struttura materiale del castello e sul potenziale di risorsa, che egli cede in prima persona, ma non compare (o compare limitatamente) nelle vendite di quote fondiarie del territorio di pertinenza. Questo fenomeno testimonia forse gli effetti di una gestione della terra delegata a lavoranti a contratto; per il perpetuarsi degli accordi nel tempo, possono essere divenuti titolari di fatto del terreno, o per un allentamento del controllo del signore o addirittura per consuetudine. Per gli aspetti inerenti l’organizzazione economica del castello rimandiamo comunque al capitolo specifico all’interno di questo volume. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa, 1004: “Ecclesia sancte Marie de Padule medietatem cum curte castello de Miranduolo cum Ecclesia Sancti Iohanni Evangelista cum curte”. ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene, 5, 1133: “Laudamus etiam atque precepimus ut pro equis et armis in Miraldolo perditis triginta libras Lucensium monete Gene comitisse episcopum reddat”. CV, n. 17, I, pp. 29-30: 19 dicembre 1178-15 agosto 1179: “in integrum medietatem generaliter totius castri, quod vocatur Miralduolo et totius eiusdem territorii atque adstrictus et omnis curtis ipsius, cum omnibus rebus infra se existentibus [...] vel quam habemus nos et iamdicte persone in Monte Beccario et in eius pertinentiis et omnium argentariarum atque omnium generum metallorum infra praedictos fines [...]. Insuper promittemus vobis, quod si aliquo in tempore comune Senarum turrem vel palatium vel aliud hedificium in aliquo loco predicte donationis hedificare voluerit, sive hedificaverit eum, non impediemus”. Il documento è regestato in RS, n. 286, pp. 107-108, riportato di seguito. RS, n. 286, pp. 107-108: 19 dicembre 1178: “Nos Tedicius comes de Frosine f. Ugolini comitis pro Baviero, Tedicengo, Guerriero filiis et pro Ugolino de Strido, et ego Ugolinus Pepi similiter comes de Frosine donamus toti comuni Sene per manus Baruffe f. Gregori nunc existente consule et rectore electo et Rainerii Montonis electo consiliario nomine sociorum suorum med. castri Miralduolo vocati, hominum ibi manentium, totius iuris et actionis in Monte Beccario, argentariarum et omnium generum metallorum infra dictos fines; pen. L lib. arg. Recepimus remunerationis nomine C lib. den. et unum confalonem. Turrem ibi edificare Senenses non impediemus. Populum castri hoc totum iurare faciemus; defendemus Senenses et amicos eorum, nisi fuerint inimici nostri manifesti, prius requisitis consulibus, ne eos secum ducant. Defensabimus eos contra omnes homines exceptis quibus iuramento tenemur et inantea nulli iuramentum faciemus”. RV, n. 231, pp. 79-80: 5 gennaio 1191: “Ricoverus, abbas s. Marie de Serena per permutationem trado Ildebrando Vult. ep. med. castri de Mirandolo, patronatus ecclesie castri et alterius s. Cosme et Damiani”. RS, n. 364, pp. 143-144; ASS, Spoglio Conventi 161, c. 376t: 18 dicembre 1193: “Ego Ildibrandinus Vult. ep. [...] Rescindam comperam seu cambium que feci de Miranduolo ab abate de Serena: si comites voluerint Mirandolum rehedificare, permittam eis, et mobilia perdita in Miranduolo emendabo ad dictum Montanelli et Guaschi”. RV, n. 232, p. 80: 13 febbraio 1191: “Abbas s. Marie de Serena promisit (Ildebrando) ep. (Vult.) se aliam med. castri de Mirandolo nulli nisi episcopo velle vendere, pignorare, infeare”. CV, n. 71, I, p. 104: 1202: “Ego Ugolinus de Strido iuro [...] non vendidi nec permutavi nec aliquo modo alienavi vel obbligavi id quod habeo ad Frosinem vel in eius curte et id quod habeo ad Mirandolum vel in eius curte in totum vel in partem, nec aliquo ius quod in his habeo [...] Ildebrando episcopo Vulterrrano nec alteri persone pro eo aliquo modo”. RS, n. 410, p. 167: 1202: “Ego Ugolinis de Strido iuro, quod non alienavi id quod habeo ad Frosinem et ad Miraldolum vel in curtibus eorum Ildibrandino ep. Vulterr. nec concessi aliquod ius ex illis eidem et quod dicta non alienabo, nisi hoc facerem cum parabola omnium consulum vel potestatis Sen. cum accordamento consilii canpane Sen. Promitto vobis Sen. consulibus, videlicet Uguicioni Beringerii tunc priori, Guidoni Mariscotti, Guinisio et Bartalomeo Rainaldini presentibus, hec omnia observare. – Acta Senis in curia de s. Peregrino. – Baverio de Frosine. Phylippo Malavolte. Rainaldo Rain(erii). Rainerio Montonis. Uberto Gilii. Cristofano iudice. Orlando Codennacci. Trombecto Scricioli, aliis tt. – Scottus iudex et not.”. ASS, Ms. B.95: 7 gennaio 1255: Buonristoro del fu Burnaccio di Rustichino da Ciciano vende ad Arrigo del fu Gualtiero de Cantoni, e ai suoi fratelli Uberto e Maffeo, un terreno in parte vignato, posto in piano di Miranduolo in luogo detto “le Pincesche”, descritto nei suoi confini. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 14 luglio 1255: Buonristoro del fu Burnaccio di Rustichino da Ciciano vende ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone che compra per sé e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo: “quandam petiam terre aratorie posite propre castellare de Miranduolo cui a primo latere est via publica quam viam dicitur chiassus de Miranduolo a secundo de super est dicti emptoris et a tertio est Albertini Torelli et a quarto de subter est Ildini Bavini”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 24 gennaio 1257: Uguccio, Raniero, Ugolino del fu Bartolo da Frosini vendono ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone, che copra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo: “sextam partem pro indiviso nos pertinentes castellaris castri Miranduolo cum plateis, casalinis, muris, edificiis, appendiciis, carbonariis et fossis et cum omnibus iuriis”; “sextam partem pro indiviso curtis, districtus castellaris predicti cum ortas, casas, cultis et non cultis, vineis, silvis, nemoribus, pratiis, pascuis, erbis, lapidibus, riviis, aquiis castellare predicti”; vendono pure i propri villani, censuari, diritti d’albergaria, diritti d’arme; “medietatem pro indiviso patronatum ecclesie Sancti Jiacobi ville supradicte de Cusa”; “medietatem pro indiviso podii qui dictum Collebeccai positi in dicta curia de Miranduolo in contrata de Cusa [...ch]”; cedono inoltre i loro possessi “apud Fogali in loco dicto Gorgoli” e alcune terre “in loco dicto fonte Muccioli”; “medietatem pro indiviso terrarum et nemororum in loco dicto Scandolariam et Colledelolio et cum aliis vocabulis quibus ex uno latere est fossatus de Conia”; [...] unam petiam terre aboschate posite a le piagie di Colletechaio que sint marchesi de Lavaiano”; “unam petiam terre posite all’Aia Buona”; il documento non è originale, ma copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 24 aprile 1277. ASS, Ms. B.95: 29 febbraio 1257: Ildebrandino del fu Baverio, conte di Frosini, vende, per se e per Raniero suo fratello figlio del sudetto Baverio, ad Arrigo di Gualtiero de Cantoni, comprante e ricevente per se e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo, la sesta parte “pro indiviso” di tutto il castellare di Miranduolo con la sua corte, distretto, borghi, strade, e casalini, la metà di un terreno presso il bastione e il fosso di detto castellare, e altri appezzamenti di terreno che per essere la pergamena in parte lacerata e mancante non si possono leggere con sicurezza. Cede pure i diritti di giurisdizione sopra i villani e censuari, cede pure i diritti sopra le argentiere. Il documento non è originale, bensì copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 27 maggio 1267. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 5 marzo 1257: Ildebrandino del fu Baverio, conte di Frosini, vende, per se e per Raniero suo fratello figlio del sudetto Baverio, ad Arrigo di Gualtiero di Cantone, che compra per se e per i fratelli Uberto e Maffeo: “sextam partem pro indiviso totis casalinis, plateis, muris et carbonariis sive appendiciis et fossis et cum sexta parte pro indiviso totius curie et districtus dicti castellaris cum silviis, nemoribus, pratis, pascuis, rivis et aquis, lapidibus et paludibus”; “dimidiam pro indiviso unius petie pro indiviso posite subter dictum castellare cui ex uno latere et de subter est via et ex alio est fossus sive vallus dicti castellaris”; segue la vendita di una serie di terreni arativi e boscati posti tra il castellare di Miranduolo, la villa di Castagnuolo, i luoghi detti Cavallona e Fonte Miccioli e il corso del fiume Coina. Lo spoglio (Ms. B.95) riporta, erroneamente, la data del 25 febbraio 1257. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 27 aprile 1257: Tedicingo del fu Gherardo, Lotterenga sua madre, Palmiera figlia del fu Tancredo da Frosini, sua moglie e Imilia sua sorella vendono ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone comprante e ricevente per sé e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo: “medietatem unius petie terre pro indiviso laboratorie et aboschate posite a capite Culti da Conia cui ex uno latere est Martini Rustichini ex alio fossatum de Gallosa a tertio Guidocti de Castagnuolo et viam in medio”; “medietatem pro indiviso cuiusdam alteri petie terre dicte Culto Biancuccj posite in confinibus Miranduoli cui a primo latere de super est Gualfredi de Miranduolo a secundo la Coina a tertio Chiassus”; “medietatem pro indiviso unius petie terre dicte Vignali”, confinante con detto Chiasso e con la strada; un terreno lavorativo e vignato confinante con detto Chiasso; “medietatem pro indiviso cuisudam alterius petie terre posite infra Ortalis Miranduoli”; “quandam petiam quam dictam Campum al Ischiam”; “alia petiam terram dictam Ortale Buonamici”; te [...] de quactuor partibus terres posites [...] in loco dicto Campo al Pereto”; “terra dicta Vignali Buonamici”; “quandam aliam petiam terre posite in loco dicto Vigne Vecchie”; “quandam aliam petiam terre laboratoriam et aboscata dictam Aiam Becharelli cui de super Talomuccij et alii confines et de subter dictorum emptorum ab alio latere est monasterii de Serena ex alio quandam fossatum”; “quandam aliam petiam terre positam prope Cavallioni”; “quandam aliam petiam terre positam in Villicani prope Castrum Merse cui a duabus lateribus est dictorum emptorum et ex alio abatie de Serena et alii confines”; “quandam aliam petiam terre posite a Isora di Conia” confinante con il “cursus Mersem et cursus Piagiam [...] et viam da vado Pontorese [...]; un terreno detto Campo Gualandi, confinante con la strada del vado Cicianese e il “cursus Merse”; un terreno in contrada la Conia; un terreno nel piano di Filicaia; un terreno in Chiusurli, confinante con la Piaggia del Piano di Filicaia; un terreno al ponte al Frasso confinante con l’abbazia di Serena; un terreno alle Piaggie de’ Monti confinante con il “cursus Merse”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 29 dicembre 1257: Tedicingo del fu Gherardo, conte di Frosini, vende ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone comprante e ricevente per sé e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo: la sesta parte “pro indiviso” del Castellare di Miranduolo, con la sua corte, distretto, borghi, case, piazze, casalini, muri, fosse, carbonaie, dominio, giurisdizione, villani, censuari, diritti d’albergaria e d’arme; tra i confini segnalati “ex uno latere est curie castra de Bochegianum ex alio curie de Lugnianum ex alio curie de Clusdinum”; vende “unum petium terre aboschate positum in loco dicto a le coste Ulertelli [...] a capite est campus al Capitanie” e “unum aliud petium terre aboschate positum in contrata dicta Colle al Lupo” allineato a Buonfigliuolo di Mignone; vende un terreno boschivo, in luogo detto “Ligia” allineato a Giunta da Cusa; un terreno boschivo detto “L’aia bona” presso al fosso di Ricavolo; (i sopradetti terreni boschivi sono descritti nei loro confini). Inoltre la quarta parte “pro indiviso” dei seguenti terreni lavorativi: il primo detto “Le Latara”, il secondo “Vignale, positum in contrata terra Butignano, il terzo “Mocali”, il quarto “Ripacciano”, il quinto “Tassinaia del Ricavolo”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 4 settembre 1261: Talamuccio del fu Bonaccurso e sua sorella Erminia, che si dichiara minore di 25 anni, alla presenza e con il consenso di Donna Mabilia loro madre, vendono ad Arrigo di Gualtiero di Cantone da Montieri, che compra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo: “totum podere et tenimentum que habet [...] in curia et districtu de Miranduolo et [...] in castellari eiusdem cum homines et personas”; alcuni appezzamenti di terreni lavorativi e boschivi, posti nella corte di Miranduolo, in località dette “Colle della Selva”, “Colle dell’Olio”, “Scandolaia”; tra i confini è citato un “locus qui dicitur Mocali et ex alia parte silva de Miranduolo [...] usque ad flumen Merse”; ”medietatis unius petie terre laboratorie pro indiviso posite ubi dicitur Chisurli que ex una parte flumen Merse”; “unum petium terre laboratorie positum in plano de Miranduolo in loco qui dicitur Mazete”; “infine medietas pro indiviso terre et nemoris posite in Colle de Muschialia”. ASS, Ms. B.95: 11 gennaio 1263: Guido del fu Ruggerotto e Guidengo del fu Tancredi, che dimorano e stanno a Strido, e di Strido sono detti e chiamati, conti di Frosini, per loro stessi e come eredi di Ugolino di Strido, figlio di Guidengo, per prezzo di centodieci lire di denari senesi minuti, vendono ad Arrigo del fu Gualtiero de Cantoni da Montieri, stipulante e ricevente per Maffeo ed Uberto suoi fratelli, la sesta parte “pro indiviso” di tutto il castellare di Miranduolo e tutte le sue appendici e piazze, casalini, carbonaie e fossi, il dominio e giurisdizione; la sesta parte “pro indiviso” della corte o distretto di Miranduolo con le terre, selve, boschi, prati, paludi, pascoli, cave e argentiere; la selva detta del Miranduolo, in territorio di Cusa, un terreno detto “Colle Ugoli di Strindo”, in territorio di Cusa. Un terreno in parte lavorativo e in parte boschivo in luogo detto “Lignaia”, i sopradetti terreni vengono descritti nei loro confini. Cedono pure ogni loro diritto e giurisdizione sopra “hominum et villanorum, abscriptitiorum et servorum” aggiungendovi questa dichiarazione “Item dictos homines et villanos nostros cum servitutitus ipsorum nobis competentibus et competituris, videlicet urbanorum prediorum, et rusticorum, et cum lectis, albergariis, messaggiariis, operibus, omnibus quibuscumque nobis competentibus et competinturis et cum angariis, pro angariichis censitibus, abscriptitiatum, villanatus, colonatus, abscriptitiatus et censitus et cum datiis, colleptis, imponendis prodictis personis et locis omnibus et cum omni aliis servitus nobis e dictis hominibus et personis et locis, debitis et debendis in perpetuum”. Il documento non è originale, bensì copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 27 maggio 1267. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 3 febbraio 1263: Arrigo del fu Gualtiero Cantone da Montieri, in proprio e a nome dei i fratelli Uberto e Maffeo, per mantenere i diritti di giurisdizione e possesso sopra i beni che avevano nel castellare, corte e distretto di Miranduolo, prende possesso e corporale tenuta dei beni a essi venduti dai conti di Frosini: “hoc modo laborando et laborari faciendo ipsorum accipiendo de terra lapidibus fraschis et erbis ipsius [...]. Item [...] incidendo et incidi faciendo [...] per se et suis fratribus de lingnis et fraschis et accipiendo [...] lapidibus et ramis ipsorum arborum dicte contrade”. ASS, Ms. B.96: 24 febbraio 1263: I tre fratelli Arrigo, Uberto e Maffeo di Gualtiero vendono a Bonaccorso di Bencivenne tutto il legname mosso nella selva del Miranduolo. ASS, Ms. B.23: 24 febbraio 1263: Uberto del fu Gualtiero Cantoni da Montieri, per Arrigo e Maffeo, “omnia et singula ligna qua nuovo supersunt in Silva, dicta Silva de Miranduolo, ut ipsa ligna omnia debeat elevare et trabere de dicta silva, bene a unum sensum proximum completum”. ASS, Ms. B.95: 26 febbraio 1263: Uberto del fu Gualtiero Cantoni da Montieri, per se Arrigo e Maffeo suoi fratelli, per ritenere e conservare i diritti di giurisdizione e possesso sulla corte del Miranduolo. ASS, Ms. B.95: 2 marzo 1263: Uberto del fu Gualtiero Cantoni da Montieri, per Arrigo e Maffeo, per ritenere e conservare il diritto e il possesso della selva detta del Miranduolo, vi esercita atti di dominio, incidendovi e tagliandovi, e facendovi incidere e tagliare degli alberi. ASS, Ms. B.95: 3 marzo 1263: Uberto del fu Gualtiero Cantoni da Montieri, per Arrigo e Maffeo, per ritenere e conservare la possessione, il diritto e l’autorità, nella corte e nel castellare di Miranduolo, vi esercita atti di dominio lavorando e facendo lavorare, incidendo e tagliando, e facendo incidere e tagliare, nei boschi, rimuovendo e facendo rimuovere pietre delle mura del castellare secondo gli usi del tempo. ASS, Ms. B.95: 6 marzo 1263: Arrigo, Maffeo e Uberto fratelli, del fu Gualtiero di Cantoni da Montieri, per conservare e ritenere le possessioni e i diritti del castellare di Miranduolo, vi esercitano atti di dominio secondo gli usi dei tempi. ASS, Ms. B.95: 19 agosto 1263: Bruno del fu Maffeo di Colle Rotundo vende ad Arrigo del fu Gualtiero de Cantoni che compra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo: la metà “pro indiviso” di un terreno lavorativo in curia di Miranduolo in luogo detto “a piè le pallonete” descritto nei suoi confini, per il prezzo di lire 4 denari minuti pisani. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 4 ottobre 1265: Nuto di Viviano da Castagniuolo, per se e per Giovanni suo fratello e Irnigarda e Beatrice sue sorelle vendono ad Arrigo del fu Gualtiero Cantone comprante per se e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo: “duas petias terre positas in Plano de Miranduolo una quarum posita in loco dicto Culto Biancucci cui a primo latere est fossatus Conie et ex aliis est dicti emptoris et suorum fratrum [...] alia vero posita est in loco dicto Piano Fagiani cui desubtus est via et ex duabus dictis emptoris et fratrum eorum vel alterii[...]”; due appezzamenti di terreni nel piano di Miranduolo, detti uno “Colto di Brancaccio” e l’altro “Pian de Fagiani” descritti nei loro confini. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 4 giugno 1276: Arrigo e Maffeo del fu Gualtiero di Cantone vendono a Giacomo di Ranieri di Ricciardi: “castellare de Miranduolo que olim dicebat castrum de Miranduolo cum omni curte et districtu suo et cum omnibus iuribus [...] spectantibus et pertinentibus ad ipsum castellare [...] pertinente ad dictum castellare et curtem et districtum eius et cum omnibus terris cultis et incultis et egrestibus et cum omnibus silvis et nemoribus et cum omnibus aquis et aquarum al[...] et cum omnibus insulis et cum omnibus domibus [...] in dicto castellare et curte et districtu eius et cum omnibus poderibus et nominatim in villa de Cicioris, in villa de Cas(t)eldicçi, in villa de Castagnuolo, in villa de Cusa et in villa de Fogari et in quolibet alio loco de curte et districtu”. I terreni sopradetti sono descritti nei loro confini. ASS, Ms. B.95: 9 giugno 1276: Arrigo e Maffeo suddetti trasferiscono la giurisdizione e il possesso della corte e del castellare di Miranduolo a Giacomo di Ranieri di Broccardi che aveva da essi comprate, e nella medesima corte e castellare. Il documento non è originale, bensì copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 15 febbraio 1337. ASS, Ms. B.95: 17 agosto 1322: Michele del fu Nuti Lugli da Boccheggiano dona per nozze a Cheloccio e Giovanni del fu Tintarello della Villa di Fogari nel distretto di Cusa, ricevente e stipulante per donna Giovanna loro sorella e futura sposa di detto Michele, gli fanno esercitare gli atti di presa di dominio propri del tempo, per 100 di denari senesi minuti. ASS, Ms. B.95: 18 giugno 1336: Nerio del fu Giacomo di Raniero da Montieri, erede universale del detto Giacomo, in nome proprio e di donna Bartala figlia del fu Paganello fratello carnale di esso venditore, vende a Periniano, sindaco e procuratore del Comune e degli uomini di Montieri, ogni signoria e giurisdizione totale, su tutti i pascoli, gabelle e pedaggi del castellare del palazzo, del mantenimento delle carbonaie dette delle ore delle fonti, dei ponti di tutta la corte e distretto di Miranduolo, rinunciando a tutti i patti presi in passato tra Nerio suo padre e fratello con il Comune e uomini di Montieri, relative alla giurisdizione, signoria, pascoli e gabelle di Miranduolo, che con la presente vendita restarono cassati. ASS, Ms. B.23: 18 giugno 1336 “pascui, cabelle et predagiorum, castellaris, palatii, tenimenti, carbonariarum, foveorum, viarum, fontium et pontium et totius curte et destricta de Miranduolo”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 12 gennaio 1337: Camuccio di Convenevole da Chiusdino vende alla comunità di Montieri (“universitati castra Montieri”): la metà parte che aveva nel tenimento di Miranduolo fra Chiusdino, Cuniano, (Luniano), Boccheggiano e Montieri (vi sono riportati i confini); “unam partem trigenta sex partibus infrascripte partis distincte et confinante prout interus contineturi poderis et tenimenti de Miranduolo positi intra confines et territoria castrorum Chiuslini, Montieri, Boccheggiani e Luriani et aliarum terrarum circumstantium que par se flumen Mersis et cursus Cussam [...] totius terreni et tenimenti dicti poderem quod est et incipit a vado Mersis vocato el Ponte al Frasso quo transit veniendo de Monterio et eundo ad castellare de Miranduolo et facit sicut trahit et itur per viam quam itur ad dictum castellare usque fossatum Coniem et continuando per dictum fossatum Coniem usque ad pedem fossati de Kollelungo [...] ipso Collelungo cursus villam Castagnuoli quod quadam Collelungum non veniant neque venire intelligatur ad dictam venditionem et faciat trahat eundo cursum per Vallem ad Viti usque terram nostram de Cusa et transeundo dictam terram et eundo cursus Villa de Cusa recta linea deinde sicut trahat et eundo [...] per quemdam vallicellom seu fossatum que vocatur fossatum a la Lama que est inter terenum hominum de Fogari et dictum terrenum usque viam qua itur de Villa de Valacchio ad castrum Boccheggiani quam viam est subter ecclesia Ville de Cusa et facit trahit eundo per dictam viam usque terram del Collelungo et facit trahit continuando per dictam terram usque flumen S(F)armolle et deinde facit trahit eundo cursum [...] dictum flumen S(F)armolle usque fossatum Listignani que fossatum mictit in dictum flumen et faciat trahat veniendo cursum per dictum fossatum Listignani usque ad viam terre qua itur de Villa de Valacchio ad castrum Boccheggianum et faciat trahat”. Nello spoglio Ms. B.95 una parte delle 36 parti della corte e distretto di Miranduolo, e dei territori di Chiusdino, Montieri, Boccheggiano, Luriano. ASS, Ms. B.95: 14 gennaio 1337: Sampogna del fu Martinello da Chiusdino vende a Periniano del fu Rollando, Dote del fu Casino, Nerio del fu Cecco da Montieri, sindaci e procuratori del Comune e uomini di Montieri, la diciottesima parte di una parte del podere e terreno di Miranduolo, che detto Sampogna e i suoi consoci comprarono da Nerio del fu Giacomo di Ranieri da Montieri, e vende per il prezzo di 100 lire di denari senesi minuti. ASS, Ms. B.23: 14 gennaio 1337: “dictis Comunis, hominum et personarum de Monterii” la diciottesima parte di una parte “poderis et terreni de Miranduolo”, che detto Sampogna, et suis consotii et consorte, comprarono da Nerio del fu Giacomo di Raniero da Montieri. ASS, Ms. B.96: 14 gennaio 1337: Sampogna di Martinello della terra di Chiusdino uno dei compratori del podere, e terreni del Miranduolo venduti da Neri di Giacomo di Montieri di 18 parti ne vende una alla comunità e uomini di Montieri di là da la Mersa e verso Cusa. ASS, Ms. B.95: 14 gennaio 1337: Gualfredino del fu Mino da Chiusdino procuratore di Comuccio vende a Periniano del fu Rollandi, Dote del fu Casino, e Nerio del fu Cecco di Montieri, sindaci e procuratori di Montieri, una metà delle diciotto parti del podere di Miranduolo, che il detto Gualfredino e i suoi consoci comprarono da Nerio del fu Iacobo di Maniero da Montieri. ASS, Ms. B.23: 14 gennaio 1337: “decan et otto partibus una poderis terreni de Miranduolo, che a Comuccio di Condenevole et sui consocii, et consortes, vendi a Nerio del fu Iacobi Ranieri da Montieri, per ottantaquattro libre di denari senesi minuti”. ASS, Ms. B.96: 17 gennaio 1337: Donna Memma di Bene da Greppoli vedova di Forbino di Bonifazio di Chiusdino vende a Dota di Capino e Ceroncino di Rolando, sindaci e procuratori eletti dalla Comunità di Montieri, una metà di diciotto parti,una del podere di Miranduolo verso Collebeccajo e Cusa e come sono descritti nell’istrumento di compra che fece fare marito Forsini e suoi consorti da Neri di Giacomo di Montieri. ASS, Ms. B.23: 17 gennaio 1337: Donna Gemma figlia di Benno e vedova di San Brancaccio della Curia di Chiusdino vende “unam partem de decem et octo partibus [...] sicut Factinus vir anus predulo et sui consortes emerunt a Nerio olim Iacobi Ranieri per 85 libbre di denari senesi minuti”. ASS, Ms. B.23: 17 gennaio 1337: Benno del fu Monaldi da Greppoli contado di Chiusdino vende Dote del fu C(h)bsini e Perincino del fu Rollandi da Montieri sindaci e procuratori di detto comune “unam partem cum dimidis de decem et octo partibus poderis de Miranduolo, sicut pro et consortes sui emerum a Nerio olim Iacobi Raneri de Monterii per il prezzo di trentacinque denari senesi minuti”. ASS, Ms. B.96: 17 gennaio 1337: La comunità e gli uomini di Montieri per mezzo del suo sindaco Cerancino di Rolandi comprano da Benno di Monaldo da Greppoli di diciotto parti una e mezza di tutto il tenimento del Miranduolo, come egli e i suoi consorti avevano comprato da Neri di Giacomo di Montieri con tutti i terreni descritti nelle instrumento rogato da Benno e che sono di la da la Mersa in contrada Colle Beccajo e verso Cusa per il prezzo di 150 libre. ASS, Ms. B.96: 17 gennaio 1337: Duccino di Monaldo da Greppoli del Castel di Chiusdino vende a Dota di Capino, e Ceroncino di Rolando, sindaci e uomini del Comune di Montieri, una delle diciotto parti di tutto il podere del Miranduolo comprato da lui e suoi consorti da Neri di Giacomo con tutti i terreni di là dalla Mersa e vendo Cusa descritti nell’istrumento di compra . ASS, Ms. B.23: 17 gennaio 1337: Nuccio del fu Monaldi da Greppoli al pari di suo fratello Benno ricordato nell’istrumento di sopra uguale porzione di beni per prezzo di novanta lire di denari senesi, ai suddetti sindaci del Comune di Montieri. In ogni parte il documento è identico a quello precedente. Descrizione unità topografica Indagine di superficie 1993-1994 – La cinta muraria si conserva sul lato occidentale del poggio in due tratti di cui il primo segue per 25 m l’andamento curvilineo della superficie sommitale e l’altro corre per 32 m lungo l’estremità occidentale. Due spezzoni posti perpendicolarmente alla cinta delimitano un piccolo ambiente di circa 6 mq. Il lato meridionale del circuito si conserva molto frammentato per circa 50 m; il tratto più lungo (18 m) taglia obliquamente la pendenza naturale in direzione della superficie spianata, evidenziando la volontà di seguire l’inizio dello scosceso declivio naturale. Nella porzione orientale non si riconoscono evidenze relative allo sviluppo della fortificazione. Le murature sono realizzate in conci irregolari, con sbozzatura solo superficiale; la tecnica costruttiva e il tipo di apparecchiatura non sono comprensibili a causa del forte dilavamento del terreno che ha provocato in più punti lo slittamento dei filari e la dispersione della malta. Nella collina ovest, in corrispondenza del punto dove la pendenza inizia ad aumentare, troviamo un doppio ordine di muri, posti a circa 1,5 m l’uno dall’altro, con una variazione di quota di circa 1 m. Il tratto inferiore presenta andamento curvilineo, particolarmente marcato nell’estremità settentrionale, a seguire la morfologia del terreno; il tratto superiore, invece, si presenta più lineare. La tecnica costruttiva, simile a quella riconosciuta nei muri di cinta, potrebbe far pensare a un secondo circuito murario che cinge la parte sommitale dell’insediamento; nel resto della superficie però non si rintracciano altre evidenze a supporto di tale interpretazione. Nella collina orientale si concentrano i resti più consistenti dell’insediamento. Nel versante occidentale, si individuano tracce in elevato di un ambiente a pianta rettangolare, di cui si conserva l’angolo sudorientale, definito da due spezzoni murari posti perpendicolarmente (uno ha una lunghezza di 4 m e altezza di 2 m mentre l’altro è lungo 2,5 m e alto 2 m) e da un terzo (lunghezza 3,5 m, altezza 1,40) situato a nord immediatamente a ridosso dell’inizio del declivio. Sono realizzati con conci di travertino, sbozzati e non squadrati (dimensione media 25320 cm) posti in filari paralleli, spesso sub-orizzontali, e hanno uno spessore di 90 cm; dal tipo di apparecchiatura possiamo proporre una datazione nel corso del XIII secolo. Tre metri verso sud-ovest, troviamo un’altra emergenza di 2,5 m di lunghezza che si conserva in elevato per 1,30 m. Nonostante lo spanciamento dovuto al peso del grande muro che la oblitera (descritto in seguito), presenta una tecnica costruttiva più attenta. Realizzata con materiale uguale ai casi precedenti, mostra conci regolari, approssimativamente squadrati e perfettamente lavorati sulla superficie esterna; la messa in opera è definita da filari paralleli ottenuti con l’alternanza da corsi omogenei di blocchi squadrati ad altri con pietre più piccole e irregolari. Sul lato occidentale si conserva un lungo tratto di parete che, crollando, si è spezzato al contatto con il muro appena ricordato. All’interno dello spazio definito dalla parete e dal muro sottostante, si individua una concentrazione di mattoni legati, che si appoggiano alla parete; sono interpretabili come tramezzi divisori, previsti in successive modifiche all’originaria struttura. Il muro, realizzato a sacco e rivestito in pietre squadrate, presenta uno spessore di 1,40 m; nonostante l’impossibilità di vedere la faccia esterna della parete, dalla sua sezione possiamo, comunque, riconoscere un tipo di apparecchiatura regolare sul tipo del precedente. Su tutta l’estensione della collina, troviamo altre tracce di allineamenti, per lo più non visibili nel loro paramento esterno, che vanno a rappresentare piccoli ambienti di forma rettangolare forse pertinenti a un’unica struttura. Un altro probabile vano si individua nel versante meridionale. A due allineamenti paralleli, conservati a livello della rasatura, si associa un moncone di parete, addossata alla collina, crollata sul suo fianco esterno: la sezione, anche in questo caso, testimonia una messa in opera molto regolare, realizzata con conci perfettamente squadrati, posti a rivestire il sacco interno del muro. Nella parte sommitale del dosso, si conserva una profonda buca scavata nel terreno, definita nei lati da blocchi di travertino, legati fra loro, di dimensioni regolari, sbozzate e squadrate; su uno dei lati, si trova un’apertura, difficilmente interpretabile come buca pontaia, in quanto profonda più di 2 m. È problematico interpretare l’emergenza; possiamo comunque proporne in via ipotetica la lettura come punto di sbocco (pozzetto) di una cisterna per l’acqua. Ricognizione di superficie 2001 – La nuova ricognizione effettuata sul sito nell’imminenza dello scavo, dopo una parziale smacchiatura della collina, ha permesso di completare l’ipotesi preliminare sulla topografia del castello. L’ipotesi contempla un castello esteso in un’area di 4.650 mq, ripartito in un cassero che occupa circa 410 mq e un’area abitativa di circa 4240 mq. Il cassero era delimitato da due fossati (uno molto chiaro, posto sul lato est; l’altro ben marcato ma da chiarire attraverso una ripulitura, posto sul lato ovest) che raggiungevano i dirupi naturali tracciati da due fossi molto profondi oggi asciutti. Non è visibile ancora una cinta muraria, né sono rintracciabili gli indizi della chiesa attestata dalle fonti scritte. La cinta muraria dell’intero insediamento invece potrebbe essere doppia (ma non siamo ancora in grado di dirlo con certezza). Attraverso il confronto con Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno), il castello più vicino tra quelli scavati per ampia estensione (80% del complesso), abbiamo cercato poi di congetturare il numero di abitazioni possibili a Miranduolo. Applicando sistemi di analisi spaziale alle piattaforme GIS dei due castelli, si può ipotizzare la presenza di 27-28 edifici che attesterebbero una popolazione di circa 130 persone (nucleo familiare medio di 5 unità) esclusi i residenti all’interno del cassero. Dati considerati per Rocca San Silvestro. Estensione totale dell’insediamento: 7540 mq Estensione del cassero: 400 mq (esclusa l’area della chiesa e il grande piazzale aperto) Estensione dell’area abitativa e produttiva: 7140 mq Edifici presenti all’interno dell’area: 60 Edifici abitativi presenti all’interno dell’area: 47. Il calcolo è stato fatto dividendo l’area occupata (7.140 mq) per il numero di edifici presenti (60); l’estensione media di un edificio, (comprensiva di spazi non edificati e spazi aperti), risulta di 118 mq. Ipotesi sul territorio del castello – In contemporanea con l’inizio dell’indagine di scavo, lo studio sul castello di Miranduolo è stato incentrato sulla costruzione di un modello ipotetico concernente l’estensione del territorio di sua pertinenza e il tipo di uso, dal punto di vista dello sfruttamento economico, che ne veniva fatto. Per definire il territorio legato al castello è stata calcolata la maglia dei poligoni di Thiessen (intesi come territorio teorico di pertinenza) prendendo in considerazione tutti i castelli di XI e XII secolo compresi nella fascia degli attuali comuni di Chiusdino, Roccastrada, Montieri, Monticiano, Sovicille, Radicondoli e Casole d’Elsa. Il poligono di Miranduolo lascia ipotizzare un territorio di circa 12 kmq che, come provano i dati tratti dalle fonti archivistiche, racchiude tutte le località indicate come confini del suo comprensorio o in esso inserite. Il poligono ha come limiti a nord la strada Massetana e un corso d’acqua, ripercorre uno dei fossi affluenti della Merse sul lato ovest, comprende una grande anomalia mineraria a est e a sud-ovest la zona del Poggettone che le fonti archivistiche indicano come zona di localizzazione delle miniere d’argento controllate dal castello. Inoltre, il territorio ipotetico di Miranduolo, racchiude una miniera a solfuri misti posta a poche decine di metri dal castello (circa 50 m in linea d’aria) e riconosciuta attraverso ricognizione di superficie; comprende anche la collina detta del “Castelluccio”, dove ancora la prospezione ha mostrato la presenza di una ferriera. Il poligono comprende infine a nord-est le superfici individuabili come i piani del Miranduolo e sull’intera zona centro orientale quelle superfici riconoscibili come la selva del Miranduolo, ambedue citate dalla documentazione scritta. L’elaborazione dei dati permette di ipotizzare con un buon grado di attendibilità il tipo di economia in atto nel territorio del castello tra XI e XIII secolo. A nord-ovest, distanti circa 50-60 m da Miranduolo, su spazi pianeggianti, il terreno veniva sfruttato a uso agricolo. Le aree boschive a nord-est e sud dovevano essere destinate ad attività silvopastorali. La zona centrale, un’area di circa 200 ettari potenziali, doveva invece essere legata anche allo sfruttamento dell’anomalia mineraria (estraibili limonite, blenda, calcopirite e galena; individuata già una miniera sottostante il castello) e una delle località di lavorazione era posta nella collina del Castelluccio dove abbiamo riconosciuto la presenza di una ferriera (facilmente raggiungibile a piedi dai lavoranti residenti nel castello) in un raggio di 1.300 m in linea d’aria. Venivano infine sfruttate le miniere d’argento del Monte Beccaio, attuale Poggettone (anch’esse non difficilmente raggiungibili da eventuali maestranze residenti nel castello) in direzione sud entro un raggio di 2.300 m. Scavo 2001 – La prima campagna di scavi condotta, durante i mesi di agosto-settembre, sul sito di Costa Castagnoli, si è incentrata nell’indagine della parte sommitale del poggio, al fine di individuare i resti materiali delle fortificazioni pertinenti l’insediamento castrense. La collina, estesa per circa 500 mq, è delimitata a nord-est e sud-ovest dal tracciato di due torrenti di vasta portata, ora asciutti; nel lato orientale, dal punto di incontro con le pendici di Poggio Fogari. La ripulitura dell’area ha messo in evidenza un fossato di chiara origine antropica che corre con andamento parallelo a un’altra depressione: posta a occidente, marca una distinzione fisica tra questa parte del poggio, più elevata, e il resto della collina. In quest’area (area 1), interpretabile come cassero, l’indagine stratigrafica ha riportato alla luce un edificio con muri di forte spessore (1,6 m). Le sue dimensioni corrispondono probabilmente a 1239,5 m (i limiti est e ovest possono essere ipotizzati sulla base della presenza di muri e allineamenti di pietre parzialmente ripuliti dall’humus, ma non interessati dallo scavo). L’edificio, per dimensioni e tecnica edilizia, sembra identificabile come una struttura tipo palatium. Presenta una muratura formata da conci e bozze ben squadrate di calcare, posti in opera in corsi orizzontali e paralleli. L’apparecchiatura muraria regolare mostra le angolate non gerarchizzate e una lavorazione della pietra (il calcare “spugnoso” reperibile in zona), piuttosto accurata. Riguardo alla lavorazione dei materiali, i conci spianati presentano tracce di uno strumento a punta, non sempre ben leggibili, e, raramente, di “nastrino” (si veda il capitolo VIII, 2, Campione Ch 17). Parte dei muri perimetrali dell’edificio si sono conservati, al momento del crollo, in situ: è questo il caso della parete ovest crollata esternamente alla struttura con una rotazione verso nord-est (mantiene una lunghezza di circa 5 m) e di parte della parete est, collassata verso l’interno. L’indagine archeologica ha inoltre portato alla luce altri livelli di crollo (area 1, settore B) che hanno rivelato la presenza di strutture in mattoni in parte conservate (probabilmente riferibili a muri divisori interni e a volte di copertura) e, al di sopra, i resti della copertura in lastre di ardesia. La dinamica del crollo, evidenziata dalla sequenza stratigrafica, ha visto da principio lo sfondamento del tetto che, cadendo sulla volta e provocandone il cedimento, ha determinato il crollo degli elevati. Benché la fondazione del palatium sembri attribuibile alla fine dell’XIinizi XII secolo, la presenza di strutture in laterizio indica una fase tarda di utilizzo dell’edificio, da collocare probabilmente nel corso del XIII secolo. Privi di tracce di arrotatura o graffiatura superficiale, i laterizi hanno dimensioni medie oscillanti tra 27,9-28 cm di lunghezza, 12,1?12,6 cm di larghezza e 5,3-5,7 cm di profondità; questi dati, se confermati dal proseguimento dello scavo, attesteranno un utilizzo della struttura nei decenni centrali del XIII secolo. Dalla successione dei livelli di crollo si evince che il grande edificio, seppure in stato di degrado fin dal XIV secolo, ha subìto il crollo definitivo dei muri portanti solo in tempi recenti. L’indagine della collina, estesa a tutta la parte del cassero, ha inoltre evidenziato la presenza di ambienti addossati a nord e a est del palatium. A nord, nella parte sottostante (area 1, settore A), troviamo i resti di un edificio a pianta quadrangolare (6,5034,30 m), forse articolato in più vani, di cui si leggono i quattro lati (i lati est e nord si conservano in elevato). Le murature visibili, presentano un paramento in conci di medie e medio-piccole dimensioni, disposti a “filaretto” per orizzontale e faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. I conci sono squadrati e sommariamente squadrati, spianati a picconcello con tracce di finitura ad ascettino, non sempre ben leggibili (si veda capitolo VIII, 2, Campione Ch 19). L’edificio, databile al XIII secolo, registra nel tempo alcuni rimaneggiamenti che ne hanno cambiato decisamente la fisionomia. In origine mostrava muri “a filaretto” e copertura in lastrine d’ardesia di grandi dimensioni. Il tetto, allo stato attuale delle ricerche, sembra essere stato a un solo spiovente, orientato verso nord e poggiante sul muro perimetrale che, in questo punto, sembra aver riutilizzato un tratto di cinta muraria. Lungo il lato meridionale l’indagine stratigrafica ha portato alla luce i resti di una struttura annessa, di piccole dimensioni, probabilmente funzionale ad attività svolte quotidianamente nella casa; si tratta di un piano di appoggio, formato da terra coperta e impermeabilizzata tramite la stesura di una colata di malta, formata da calce e sabbie fini con aggregati di piccole e medie dimensioni. Il piano si impostava su uno zoccolo in muratura e aveva una lunghezza di circa 2,5 m e una larghezza di circa 1 m. I livelli d’uso interni all’abitazione hanno evidenziato la presenza di una pavimentazione realizzata attraverso la stesura di un battuto di terra spesso 50 cm circa e più sottile verso il punto di appoggio alla roccia. I materiali ceramici rinvenuti mostrano corredi composti da boccali in ceramica acroma depurata, uno o più grandi contenitori a impasto grezzo, olle e testi. Lo studio dei reperti osteologici animali (30 frammenti circa), offrirà un piccolo campione della dieta carnea del nucleo familiare ivi residente. L’abitazione ha subìto, alla fine del XIII secolo, pesanti danneggiamenti: è crollato interamente il tetto in lastrine e in parte anche i muri. Nel corso del XIV secolo la struttura viene in parte ricostruita con una pavimentazione in terra che copriva il crollo del tetto e parte del muro perimetrale nord-est (zona nella quale venne aperta una porta). In questo punto viene costruito un muro di consolidamento (con conci di reimpiego, murati a secco e regolarizzati tramite l’inserimento di laterizi nei letti e nei giunti di posa), reso necessario dallo stato di degrado in cui versava il muro perimetrale originario. Lungo il muro perimetrale est del probabile palatium (area 1, settore C) si colloca un edificio di forma trapezoidale; è riferibile al XIII secolo e si imposta su un piano di calpestio precedente. Nell’angolo sud-ovest si conserva la parte inferiore di una struttura in muratura quadrangolare, interpretabile come latrina (durante la prima ricognizione tale struttura era stata ipotizzata come cisterna), impostata, forse nel corso del XIII secolo, sulla parete esterna est del grande edificio. Funzionale al palatium, presenta all’interno un’apertura quadrangolare di 50350 cm con due imbocchi, nelle pareti nord e sud, per il sistema di canalizzazione. La parete interna ovest della struttura, a scarpa, è delimitata da una lastra posta in obliquo per consentire un miglior deflusso delle acque; a nord, una canaletta, rinvenuta nel versante settentrionale del cassero (area 1, quadrato C3), dotata di pareti in muratura e copertura a grandi lastre di ardesia, consentiva lo smaltimento delle acque. In questo punto la presenza di tre laterizi posti in opera con la muratura circostante, fa supporre un suo utilizzo a partire dalla prima metà del XIII secolo. La zona circostante la latrina (settore C), si caratterizza per una successione di livelli di calpestio esterni ascrivibili fra XIII e XIV secolo, attualmente non riconducibili ad alcuna attività. L’intera zona poggia su massicciate formate da pietre di varia pezzatura e scarti di lavorazione della pietra, sulle quali si impostano successivi livelli di frequentazione ancora da indagare. Questa sistemazione del lato nord della collina sembra riconducibile alla costruzione della canaletta fognaria collegata alla latrina, pertanto può ipotizzarsi una cronologia riferibile al XIII secolo. L’intera parte sommitale del poggio è stata probabilmente interessata, in questo periodo, da una ristrutturazione apparentemente generalizzata che investe il palatium e gli spazi esterni posti a est e a nord. La realizzazione di un edificio, forse adibito a uso abitativo, che sfrutta, riusandole, strutture in abbandono, è invece databile a un periodo di poco precedente la prima metà del XIV secolo; in questi anni è, infatti, collocabile l’abbandono del cassero, come sembrano confermare i reperti rinvenuti negli ultimi battuti di vita e nei livelli di crollo (maiolica arcaica in associazione a bicchieri databili a partire dal primo ventennio del secolo) delle strutture scavate. Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo è probabilmente collocabile la costruzione del circuito murario visibile lungo il versante meridionale del poggio (area 2). Individuato per una lunghezza complessiva di 60 m circa, dei quali 44 m ben leggibili nella tecnica muraria e nel tipo di paramento (si veda capitolo VIII, 2, Ch 18). Il muro ha uno spessore di 1,60-1,70 m e presenta fondazioni “a gradoni” in bozze di calcare cavernoso (spaccate e poste su filari orizzontali), elevato con nucleo a sacco e paramento in bozze di calcare cavernoso di medie dimensioni e forma irregolare, poste su corsi orizzontali e paralleli con frequenti zeppe in scaglie di pietra lamellari a regolarizzarne l’andamento. Le pietre risultano sommariamente spianate a picconcello. Una pulitura superficiale dei livelli di humus ha inoltre rivelato un edificio di forma quadrangolare (con probabili dimensioni di 5,7032,90 m) posto nella parte centrale del versante meridionale del poggio (area 3). I muri perimetrali sono orientati est/ovest e hanno spessore di 90 cm mentre quello meridionale ha uno spessore di 1,20 m e conserva solo parte del paramento esterno. Inserito nel tracciato del circuito murario, è preesistente e inglobato nell’innalzamento della cortina difensiva, che gli si appoggia. La tecnica costruttiva, dove visibile, è particolarmente accurata e formata da pietre squadrate poste in opera su corsi orizzontali e paralleli. L’indagine stratigrafica ha infine portato alla luce, nell’area 1 (settore A), stratigrafie probabilmente riconducibili o alle prime fasi del castello o a fasi anteriori. Sono stati evidenziati, infatti, resti parziali di una struttura tipo capanna di forma rettangolare, retta da un allineamento centrale di pali doppi (attestato da buche di grandi dimensioni) e definita in pianta da allineamenti di pali di dimensioni minori (attestati da tre buche con diametro di 15 cm, disposte a distanze regolari, probabilmente non portanti e funzionali agli elevati). Gli alzati, costruiti in materiali lignei e vegetali, avevano un’intonacatura in argilla concotta; ne resta un campione su cui rimane impressa l’impronta di una foglia. La capanna, ascrivibile per ora al generico alto Medioevo, è tagliata da un muro identificabile forse come un tratto della cinta muraria pertinente la prima fase di incastellamento, e databile, sulla base di un confronto tipologico con un’evidenza presente a Montarrenti (Sovicille, Siena), in un ambito di poco anteriore al Mille (950-1000). Allo scopo di censire le strutture ancora intuibili in superficie e formulare una prima ipotesi concernente la topografia del castello, è stata condotta, parallelamente allo scavo, un’indagine di superficie che ha interessato l’intero poggio. Sono stati rilevati frequenti allineamenti di pietre e crolli nella parte più orientale della collina, mentre nella porzione sudoccidentale del versante meridionale (area 4) è stato individuato un edificio (dimensioni 10,3037,20 m) al momento non interpretabile. Ipotesi al termine dello scavo 2001 – L’articolazione in un cassero di circa 410 mq e in un’area abitativa caratterizzata da 27-28 edifici resta ancora plausibile. Il cassero (delimitato da due fossati) risulta ora composto da una grande struttura probabilmente estesa 1239,5 m (misure provvisorie) e interpretabile come palatium; le tecniche murarie datano la sua edificazione fra la fine dell’XI secolo e gli inizi del XII secolo. La costruzione del palatium sembra quindi da collocare in quella fase di ristrutturazione di periodo romanico (connotata da un uso esteso della pietra) che caratterizza l’evoluzione topografica della grande maggioranza dei castelli toscani. In fase con l’edificazione del palatium possiamo mettere anche la probabile torre che si trova inserita sul tratto sud-est della cinta muraria. Rimangono ancora oscure le strutture riferibili all’impianto del castello attestato dalle fonti scritte sino dall’anno 1004. Si trattava di materiali deperibili o misti oppure già alcune strutture dovevano essere in pietra? La ristrutturazione di età romanica e le successive trasformazioni ne hanno cancellato o meno le tracce? Quanto era esteso il complesso di inizi XI secolo? A queste domande non siamo ancora in grado di rispondere; tuttavia, in via estremamente ipotetica, la delimitazione del cassero attraverso i due fossati sembra rimandare a un tipo di castello più antico, di dimensioni ridotte (750 mq), circoscritto alla parte sommitale della collina e quindi poco più di una residenza fortificata. Un ulteriore interrogativo di ricerca riguarda le origini del castello: si trattò di una fondazione ex novo oppure venne fortificato un insediamento preesistente, di origine altomedievale, come la precoce attestazione di Miranduolo (anno 1004) potrebbe fare pensare? Al momento preferiamo non sviluppare questa tematica poiché non abbiamo ancora indagato verticalmente i depositi stratigrafici; tuttavia il riconoscimento di un ‘orizzonte’ di vita altomedievale apre alcune prospettive. Se la successione troverà conferma nel proseguo dello scavo, potremmo ipotizzare che il castello nasca e si sviluppi su un villaggio di capanne preesistente. Nonostante questi primi indizi, rimangono comunque ancora aperte tutte le domande. Altri dati registrati nel corso di questa campagna riguardano la cinta muraria, la cui costruzione sembra coincidere con un nuovo momento di ristrutturazione dell’insediamento; la cronologia supposta (fine XIIinizi XIII secolo) trova apparentemente coincidenza con un documento del 1193 (RS, pp. 143-144) nel quale il vescovo di Volterra dichiara “si comites voluerint Mirandolum rehedificare, permittam eis”. Il castello, forse danneggiato nel corso della guerra fra il vescovo stesso e i conti Gherardeschi e probabilmente mai restaurato, può avere avuto un progressivo degrado nel corso del XII secolo. Gli interrogativi che si pongono adesso riguardano la topografia dell’insediamento: la cinta ripercorre il tracciato delle difese precedenti? Viene allargata a chiudere l’intera collina e quindi ha un andamento e un’estensione diversa e maggiore rispetto a quella più antica? L’unico dato certo è che ingloba un edificio preesistente, la torre sud. Quest’ultima ha una cronologia di fine XI-inizi XII secolo; inoltre, nel loro rapporto stratigrafico, la cinta gli si appoggia e lo stesso spessore dei corpi di fabbrica è diverso (lo spessore di quelli della torre è inferiore di 30 cm circa). Riguardo ancora la cinta, abbiamo riconosciuto una probabile porta sul lato sud; sulla base della sua posizione e della morfologia del sito, si propone una viabilità esterna (costeggia il fosso naturale seguendo il pendio) della quale resta un piano di calpestio esteso fra l’apertura e, per un breve tratto, l’esterno della cinta (strato attualmente in corso di scavo). I depositi della parte sommitale sottolineano poi ulteriori trasformazioni nell’urbanistica dell’insediamento; si assiste nel XIII secolo a una ristrutturazione apparentemente generalizzata che investe il palatium (modifiche interne e realizzazione della latrina), gli spazi esterni est (impianto del sistema fognario della latrina e forte rialzamento del piano di calpestio), gli spazi sottostanti a nord (costruzione di una struttura in pietra e copertura in lastrine). L’abbandono del cassero non sembra porsi oltre la prima metà del XIV secolo, preceduto dalla realizzazione di un edificio forse abitativo che sfrutta, riusandole, strutture in abbandono. Questa cronologia viene confermata dalla ceramica e dai vetri rinvenuti sui crolli e sugli ultimi battuti di vita. In questo caso le fonti archeologiche confermano le indicazioni delle fonti scritte che individuano ormai il castello come un podere. Documentazione nello scavo del Castello di Miranduolo (aggiornamento ottobre 2001) Rilievo tecnico: 37 piante, 4 prospetti, 7 sezioni Diapositive: 353 Fotografie digitali: 1.047 Riprese digitali: 124 minuti Videodocumentazione elettronica: 190 scatti Fotografie digitali per QTVR: 90 Animazione QTVR: 12 movies Produzione di filmati multimediali: analisi territoriale, rilievo dei castelli di Serena e Miranduolo Gestione GIS del territorio: 207 siti georeferenziati, applicazione poligoni di Thiessen alla maglia dei castelli Gestione GIS dello scavo archeologico: rilievo collina di Miranduolo e allineamenti murari; intera successione stratigrafica rilevata. Database relazionale US: 152 record Archivi multimediali scavo: 310 record Archivi multimediali atlante delle murature medievali del territorio di Chiusdino: 497 record Realizzazione pagine Web: 176 pagine Modellazione 3D: castello di Miranduolo (in corso), castello di Serena (collina, allineamenti murari, ipotesi) Interpretazione – Castello. Cronologia – XI secolo-XIV secolo Bibliografia – Bichi, III, pp. 139-140, III; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Cecchini, 1932, pp. 29-30; Ceccarelli Lemut, 1982, pp. 13, 19, 20, 23; Ceccarelli Lemut, 1993, p. 47; Giachi, 1796, p. 571; Muratori, 1738-1742, V, pp. 745-747; III, pp. 1067-1068; Nardini, 1999; Repetti, 1833-1843, III, p. 221; RS, pp. 107-108; Targioni Tozzetti, 1778-1779, IV, pp. 24-25; Vatti, 1931, pp. 124-127; Volpe, 1908, p. 384; <http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/MIRANDUOLO/MIR.html>. (29) Chiusdino (Q.120 III-4780/669) 564 m s.l.m.; sommità collinare; conglomerati poligenici; fosso Proticciano; area edificata. Notizie storiche – Nel lodo di pace del 1133 il castello di Chiusdino compare fra le proprietà gherardesche coinvolte nel conflitto con il vescovo di Volterra. La sua fondazione è oscura; la Ceccarelli Lemut ipotizza che sia stata intrapresa dai monaci di Serena, secondo uno schema già adottato dai Gherardeschi nel caso del castello di Piombino (fu fortificato dai monaci del vicino monastero di San Giustiniano di Falesia); a questo proposito, non si ha però nessuna certezza. È sicuramente più tardo degli altri castelli signorili, dal momento che non viene attestato nella donazione del 1004 all’abbazia di Santa Maria, eretta all’interno del castello di Serena (ASF, Diplomatico, Vallombrosa, 1004) nonostante l’estrema vicinanza. Nella pace del 1133 fra i conti e il presule volterrano, Chiusdino viene assegnato al vescovo che, pur concedendone la metà in feudo ai conti, si riserva il diritto di costruirvi una torre con l’antemurale e ulteriori fortificazioni; agli avversari viene negata qualsiasi iniziativa autonoma all’interno della cinta. L’intervento dell’abbazia di Serena è limitato al minimo come dimostrano gli accordi del 1165 e del 1191, che mirano a lasciare all’abbazia la sola proprietà della chiesa di SS. Jacopo e Martino, negandole poi ogni ingerenza nella giurisdizione ecclesiastica della comunità religiosa di Chiusdino; nel 1191 il vescovo, donando la chiesa di San Giusto a Colle Bifolcoli, esclude infatti la cessione dei diritti sulla pieve castrense, appartenuti a detta chiesa. Già dal 1137 Siena tendeva ad affermarsi su Chiusdino come base di avanzamento sul territorio della Val di Merse, partecipando così, attivamente e in prima persona, nelle trattative relative al possesso delle argentiere di Montieri. In tale data il vescovo volterrano Ademaro aveva ceduto, in cambio delle tre pievi senesi di Scorgiano, tre piazze e un edificio all’interno del castello, in più la metà del castello e delle argentiere di Montieri. Tale atto dà inizio a una lunga contestazione da parte dei successori di Ademaro e innesca in pratica il conflitto fra le due potenze. Nel 1181 Ugo riconosce ai senesi i diritti su Montieri e si impegna a far giurare fedeltà agli uomini di Chiusdino, Frosini, Travale e Gerfalco. Nel 1210, il vescovo Pagano riaccende il contrasto in forma di vero e proprio scontro armato; cinque anni dopo i senesi irrompono a Chiusdino, dove il Pannocchieschi si era rifugiato, prendendolo prigioniero; in cambio della libertà gli impongono il rinnovo del tributo annuo ed esigono a garanzia le rendite dei castelli di Frosini e Montalcinello e il riconoscimento dei loro diritti su Montieri e Chiusdino. Il vescovo, ormai del tutto esautorato, nel 1242 cede tutti i suoi diritti su Chiusdino all’abbazia di San Galgano; quest’ultima però, nonostante la stretta vicinanza, non riuscirà mai a giocarvi un ruolo attivo. La penetrazione cistercense, infatti, è decisamente frenata dalla composizione stessa della comunità castrense, economicamente attiva e vitale, decisa anche a conquistare la propria autonomia. Tale obiettivo è alla base del contrasto secolare con il Comune di Siena; poco dopo il giuramento del 1215, sfruttando una pretestuosa oscurità relativa all’elezione del podestà (non era chiaro se dovesse avvenire per imposizione da Siena o anche per elezione diretta della popolazione), i Chiusdinesi assegnano la carica a un residente del castello. I Senesi nel 1271 prendono le armi e intimano la scelta di un loro concittadino; ai temporeggiamenti oppongono la minaccia di favorire il reingresso dei Pannocchieschi; il rischio del ritorno della supremazia volterrana fa scegliere ai Chiusdinesi il male minore e accettano così per i successivi 30 anni un podestà del Comune. Nel 1303 si ripropone il problema ma, dopo una breve attesa di Siena, segue la scelta di confermarle di nuovo l’autonomia decisionale; negli anni successivi l’incarico viene affidato a numerosi esponenti delle sue migliori famiglie (come dimostrano gli elenchi dei podestà). Non mancano comunque ricadute dell’accordo se, nel 1361, il Consiglio dei Dodici riconosce l’annessione e obbliga il paese al pagamento di un tributo annuo di 100 fiorini. Dopo una lunga tregua, determinata forzatamente dal periodo di crisi demografica ed economica seguito alle decimazioni della peste, ancora verso la fine del XV secolo la comunità si ribella ma, dopo una prima vittoria, viene tradita dall’alleanza con le comunità di Montieri, Massa e Prata; Massa vende il paese ai Senesi che entrano a Chiusdino, devastandolo. Nuovamente nel 1510 i vincitori riprendono le armi e cinque anni dopo pongono decisamente fine alla questione stroncando i tumulti, con l’uccisione di tutti i rivoltosi. Nel periodo di massima espansione, collocabile fra la prima metà del XIII secolo e la fine del XIV, la corte di Chiusdino risulta delimitata a nord dalle proprietà di Ticchiano e Papena (che rappresentavano il limite ultimo della corte di Frosini), a est dall’abbazia di San Galgano, a sud dai villaggi di San Pietro e Greppoli e a ovest dall’attuale confine con Montieri (corrispondente al confine fra le due corti medievali). La sua pieve comprendeva le cinque chiese, attestate nelle Rationes Decimarum, di San Pancrazio, San Pietro, Sant’Andrea, Bossolino, Chiusdino. Aveva tre chiese castrensi: la pieve di San Giovanni, la chiesa di San Martino, e quella dei SS. Jacopo e Martino di proprietà dell’abbazia di Serena. Attestazioni documentarie ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene, 5, settembre 1133: “Laudamus atque precepimus ut Gena et omnes filii eius iurent quod medietatem castri Cluslini cum curte eiusdem castri, cum antemurali facto vel faciendo et donicatis et allodiis, que in predicta curte episcopatus Vulterranus in presentiarum habet, non imbrigabunt nec minuent, non auferent, non turrem vel munitionem ibi construent neque per se neque per aliquam submissam personam et, si ea omnia vel partem eorum episcopus perdiderit, ipsi per bonam fidem sine fraude adiuvabunt eum ea recuperare et recuperata retinere. Laudamus atque precepimus etiam ut hoc idem iurent omnes homines de alia medietate Cluslini, quam predictus episcopus filiis Ugolini in feudum tribuit”. CV, I, pp. 26-27: novembre 1137: “eodem modo do et trado et concedo permutationis nomine tibi prelibato Rainerio episcopo, tuisque successoribus, integram unam plateam cum edificio suo, quam detinet Marchisellus filius Guittoni in castello de Cluslino. Similiter do et trado et concedo duas plateas in burgo predicti castri in abiliori loco, una queque illarum sedecim brachiorum per amplum, triginta vero per longitudinem”. RV, n. 196, p. 70: 7 maggio 1165: “Galganus ep. Vult. consensu canonicorum se obligavit Silvestro abb. s. Marie de Serena, se non edificaturum ecclesiam in castro et burgo de Cluslino nec litem facturum de eccl. s. Iacobi et s. Martini iusta muros de Cluslino; [...] presentia Guidonis et Tedicii comitum qd. Ugolinus comitis”. RS, n. 304, pp. 117-118: settembre 1181: Ugo, vescovo di Volterra “iurare faciam omnibus hominibus de Montelio, Cluslino, Montalcino, Frosini, Gerfalco ad festum s. Michaelis, quos consules petierint”. RV, n. 231, pp. 79-80: 5 gennaio 1191: “Ricovero abbas s. Marie de Serena [...]. Recepi ecclesiam s. Iusti lanbardorum ad Colle Bifolcoli cum omni iure, excepto iure plebis de Cluslino, tres plateas in castello de Cluslino, duabus ante est via, retro murus castri, ex uno latere filiorum Rubavillani, ex alio Rainerii; tertio ex uno latere Bonaccorsi, ex alio hominum de Magrignano, retro murus castri, ante via, et quattuor plateas in suburbio castelli de Cluslino, ex uno latere episcopi, ex alio abbatie, de subtus murus burgi; preter hec duos villanos meos homines, Martinum Berguccie et Iohannem Bolge”. CV, I, p. 137: 2 marzo 1208: “Ego Riccius de Cluslino do, cedo [...] omne ius et actionem et petitionem mihi quoquo modo vel iure competentia adversus universos et singulos homines civitatis Senensibus pro dannis, iniuriis et expensis, que substinui et feci occasione guerre et pro guerrra que fuit inter Senenses et Florentinos et Aretina et promitto vobis, quod nulli alii dedi, cessi, concessi, manavi nec aliquo modo alienavi quicquam de prefato iure meo[...]”. RS, n. 530, pp. 233-234: 22 maggio 1215: “ego Paganellus ep. Vulterr. [...] pena eius, de qua re est instrumentum factum a qd. Rainerio iudice; qui fuerunt M. march. arg. Refuto tibi nomine comunis et hominum, quia fuerunt in exercitu cum Senensibus super castrum Cluslini, de comitatu Sen. vel aliunde iura et actiones meam, episcopatus et comunis de Cluslino contra Senenses et comune pro damnis, maleficiis, rapinis, arsionibus, incisionibus commissis comuni de Cluslino vel alii loco episcopatus Vulterr. Spontaneo voluntate promitto querimoniam motam in curia pape Innocentii contra comune Sen. non repetere de inquietatione possessionis castri de Montieli, castri de Frosine, Montis Alcini Vulterr. episcopatus et castri Montisregionis in territorio civitatis Sen. posit. [...] Actum extra portam de Cluslino prope carbonariam castelli”. Canestrelli, p. 142: 1242; “Nos Nicola vicarius in castro de Chiuslino, episcopus Vulterranus [...] nomine Communis dicti castri [...] damus, cedimus et mandamus, remictimus et refutamus vobis domino Forensi abbati Abbatie Sancti Galgani, nomine monasterii dicte Abbatie recipienti et in vos pro eo transferimus omnia jura et actiones et petitiones reales et personales, utiles vel directas, competentia vel competentes et competitura dicto Communi et nobis vel aliarum nostrarum (sic) in silva et nemora et plano et aliis rebus positis prope dictum Monasterium in loco qui dicitur Monte Sepi et Monte Sebio, cui ex una parte fluit flumen Merse, ex alias parte est Gallessa, et alia parte fossatum de Righineto et siqui sunt confines”. Descrizione unità topografica – L’attuale abitato di Chiusdino si è sviluppato attorno a un primo nucleo, a pianta ellittica, posto sulla vetta della collina. L’accesso al castello era garantito da una porta, ancora oggi conservata, presso la quale sorgeva la chiesa dei SS. Iacopo e Martino, definita dalle fonti storiche come “iusta muros castri Cluslini”. La porta ha subìto forti rimaneggiamenti, compreso un abbassamento del piano di calpestio che ne ha messo in evidenza le fondazioni. I prospetti interni mostrano resti di murature a grandi bozze sommariamente squadrate poste in opera con un’apparecchiatura muraria non sempre regolare. Dalla porta si diparte un vicolo lastricato, via San Martino, che, ricalcando in parte la viabilità esterna al castello di XII secolo, è delimitato a sinistra da un fronte di case costruite probabilmente sul primitivo tracciato del circuito murario. La chiesa dei SS. Iacopo e Martino, situata sul versante della collina che digrada verso la Val di Merse, ha un impianto ad aula unica ed è priva di terminazione absidale; di modeste dimensioni, presenta le caratteristiche dell’architettura religiosa romanica di fine XI-inizio XII secolo. La facciata, particolarmente interessante, è in conci squadrati di calcare posti su filari orizzontali e paralleli. Nella parte inferiore del prospetto sono visibili le fondazioni dell’edificio che, una volta abbassata la quota del piano d’uso, necessitò di una nuova sistemazione. In quest’occasione, infatti, fu tamponata la parte superiore della porta, già ampliata asportando la muratura sottostante, e fu aperta una finestra tagliando parte dell’archivolto del portale d’ingresso. La chiesa originaria presentava una facciata a capanna con portale d’ingresso concluso da un architrave, monolitico, sormontato da un arco a tutto sesto. Alcune irregolarità nella tecnica costruttiva, come la posizione asimmetrica del portale, denotano una non perfetta padronanza dei moduli compositivi caratterizzanti invece gli edifici religiosi romanici del XII secolo, come la vicina pieve di San Michele Arcangelo. Il prospetto laterale sinistro, coperto in gran parte dai fabbricati dell’annesso convento, presenta nella parte inferiore una muratura in bozze quadrangolari di calcare marnoso, databile al XIII secolo (si veda il capitolo VIII, 1, Campione Ch 14). Un’analoga cesura nell’apparecchiatura muraria si nota all’interno dell’edificio, oggi sconsacrato, dove i prospetti laterali presentano, a partire da circa un metro d’altezza, una muratura a filaretto (in fase con l’impianto dell’edificio e con il piano pavimentale originario), mentre al di sotto è visibile una muratura a bozze di calcare, più tarda. L’edificio retrostante la chiesa, inglobato nella sua struttura, ne amplia lo spazio interno, alterandone però l’aspetto. Situata all’interno del circuito murario più antico, in posizione sommitale e parte integrante del primo nucleo castrense, la pieve di San Michele Arcangelo (Propositura) rappresenta, con la torre scapezzata posta a breve distanza e la chiesa dei SS. Iacopo e Martino, una delle poche attestazioni riconducibili al castello di XII secolo. La pieve, a pianta rettangolare, è ad aula unica con terminazione absidale a scarsella. In buono stato di conservazione, ha il prospetto di facciata e il fianco occidentale ben leggibili. Il lato sinistro invece è inglobato nel cortile dell’adiacente canonica mentre edifici tardi si sono addossati alla parte absidale, impedendone la vista. La facciata, a capanna, presenta un’apparecchiatura muraria omogenea in conci ben squadrati disposti su filari orizzontali e paralleli. Il portale d’ingresso, di grandi dimensioni, è chiuso da un architrave monolitico sorretto da mensole concave e sormontato da un arco a tutto sesto con leggera estradossatura (aumento di spessore dalle imposte alla chiave). Non si conserva la lunetta originale, oggi tamponata in mattoni; il rosone è di epoca moderna. Il fianco destro, con evidenti tracce di rimaneggiamenti, presenta un corpo aggiunto, in mattoni, probabilmente costruito allo scopo di creare una nicchia all’interno dell’edificio (una costruzione simile è visibile, in posizione simmetrica, sul fianco sinistro della pieve). La porta laterale presenta gli stipiti e l’architrave opera di un recente restauro, mentre l’arco di scarico superiore, a sesto acuto, è l’unica parte originale conservatasi; di pregevole fattura è formato da conci di travertino perfettamente squadrati e spianati ad ascettino. La torre campanaria, visibile sul retro dell’edificio religioso e addossata alla scarsella, è posteriore al primitivo impianto della chiesa. A pochi metri di distanza emerge la parte superiore di una torre scapezzata che, circondata da edifici che la inglobano quasi totalmente, presenta una muratura in conci ben squadrati di calcare su corsi orizzontali e paralleli. Situata, insieme alla pieve, nel quartiere detto del “Portino” (dall’antica porta di accesso al castello posta nel primo circuito murario), è l’unico edificio civile conservatosi, attribuibile con certezza al castello di XII secolo. Il prospetto sud, l’unico libero da sovrastrutture, mostra numerosi rifacimenti in mattoni dovuti alla trasformazione in monastero della struttura in epoca rinascimentale. Di grandi dimensioni, non conserva aperture originali; il tipo di apparecchiatura muraria, particolarmente accurato, e la posizione dominante, rendono probabile una sua identificazione come residenza signorile. La Casa di San Galgano, il palazzo dove si presume sia nato, nel 1148, Galgano Guidotti, è situato tra la Propositura e la chiesa di San Sebastiano. Quest’ultima, costruita per accogliere le reliquie del santo portate a Chiusdino dall’abbazia di San Galgano, presenta sulla facciata, completamente intonacata, un bassorilievo con la data 1466. La Casa di San Galgano, profondamente rimaneggiata, presenta nella parte inferiore del prospetto laterale ovest e nella facciata, una muratura in bozze regolari di calcare marnoso poste su filari orizzontali e paralleli. È questa la parte dell’edificio che maggiormente conserva le caratteristiche costruttive medievali, genericamente databili al XIII secolo, come la stretta porta d’ingresso all’edificio, con arco di scarico parzialmente ricostruito, sorretto da mensole scolpite. L’apertura è inquadrata da tre finestre strombate, di epoca recente, delimitate alle estremità da due peducci in pietra. La parte superiore dell’edificio, profondamente rimaneggiata, fu adibita a carcere fino al XIX secolo, come mostrano le strette finestre strombate, chiuse da inferriate, aperte nei due prospetti visibili. Il borgo, sviluppatosi nel corso del Duecento e del primo Trecento intorno a questo primitivo nucleo sul versante occidentale della collina, conserva ancora una serie di stretti vicoli intorno ai quali si organizzarono piccoli isolati ben distinti. Attraversato da un asse viario, le attuali via Roma e via Mascagni, fu inglobato da un nuovo circuito murario che presentava alle estremità due porte, una verso Siena, detta Porta Bacucchi o Barlucchi, un’altra verso Montieri, detta Porta Piana e distrutta in epoca recente; una terza porta, detta Porta al Poggio, dava sulla Val di Merse. L’unica porta conservatasi è quella aperta verso Siena. Presenta gli stipiti formati da conci di calcare squadrati sui quali si imposta un arco a tutto sesto, in conci di travertino ben squadrati, privo del concio di chiave. Il paramento murario circostante presenta una muratura in bozze e conci sommariamente lavorati di calcare. La presenza di una porta situata tra via della Ruga e via dei Camperoni, inglobata nelle abitazioni del borgo e profondamente trasformata nel suo aspetto originario dal rifacimento in mattoni dello stipite sinistro e dell’arco superiore, ha fatto ipotizzare la presenza di un circuito murario che, inglobando nel castello il quartiere della “Buche”, si ricongiungeva alla Porta Bacucchi. L’analisi delle emergenze architettoniche di periodo medievale, unitamente a uno studio topografico dell’abitato, rendono difficilmente confermabile l’esistenza di un altro circuito, passante da Porta Bacucchi e diretto verso via della Ruga. In questo caso, infatti, il percorso delle mura cambierebbe bruscamente direzione proprio all’altezza della Porta suddetta, dove il tratto di circuito murario conservatosi, con andamento verso via delle Mura, smentisce tale ipotesi. La cinta attualmente conservata, che da Porta Bacucchi, passando internamente a via delle Mura, portava a Porta al Poggio, è ben documentato negli ampi tratti di mura che ancora circondano l’abitato di Chiusdino. Il paramento murario, in bozze e conci sommariamente lavorati su corsi sub-orizzontali e paralleli, è in genere ben conservato nella parte inferiore della muratura; la parte superiore del paramento mostra invece, nelle cantonate tuttora visibili e nei numerosi rifacimenti, l’attività edilizia delle abitazioni che vi si sono impostate. A partire dalla metà del XIV secolo, l’abitato aveva probabilmente raggiunto le dimensioni dell’attuale centro storico; colpito da una grave crisi socio-economica alla fine del secolo, tra XV e XVI secolo subì, a causa di una serie di conflitti e calamità naturali, danni ad alcuni edifici situati nel cassero. Interpretazione – Castello. Cronologia – Inizi XII-età contemporanea. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, pp. 104-105; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Canestrelli, 1993, appendice; Cappelletti, 1844-1870, XVIII, pp. 209-210; Ceccarelli Lemut, 1982, pp. 11, 16, 17, 19, 20, documenti in appendice; Ceccarelli Lemut, 1993, p. 63; Cecchini, I, pp. 26, 27, 137, 219; Felli, 1899; Conti, 1985; 1986; Davidsohn, 1965, I, pp. 614, 719, 875; Marrara, 1961, pp. 100, 249; Pardi, 1925, p. 6; Pecci, 1645; RDI, I, pp. 158, 162, 168; RDI, II, pp. 202, 218, 219; Redon, 1975, pp. 105-139; Repetti, 1839, I, pp. 707, 708; RS, pp. 70-71; RV, pp, 107, 181, 183-185; Volpe, 1908, pp. 342-343; Volpe, 1923, pp. 155, 242, 310; Constituto 1262, p. 314. (30) Argentiera del “Monte Beccario”, località Poggettone (Q.120 III4776/668) 476-502 m s.l.m.; poggio; flysh prevalentemente argillitici; fiume Merse; vegetazione stabile. Notizie storiche – Nell’atto di sottomissione al Comune di Siena stipulato nel dicembre 1178 i conti di Frosini, membri della famiglia dei Gherardeschi, si impegnano a cedere la metà del castello di Miranduolo e la metà “totius iuris et actionis in Monte Beccario, argentarium et omnium generum metallorum infra dictos fines”. Dichiarano inoltre il diritto del Comune senese di usufruire della metà dell’argento e di qualunque altro metallo venga eventualmente reperito o dalla famiglia, dal Comune o da chiunque altro in quella zona; confermano però che dovrà comunque rimanere sempre in loro possesso la metà del patrimonio minerario. I giacimenti argentiferi sono ubicabili nell’attuale località Il Poggettone (Comune di Montieri), identificata ancora nel Catasto Leopoldino nel toponimo di Poggio di Colle Beccajo (sezione U detta di Sambra-comunità di Chiusdino), specificato nei documenti di XIII secolo “in dicta curia de Miranduolo, in contrata de Cusa”; benché inseriti nella corte del castello di Miranduolo (estesa, secondo le fonti, fino a toccare Luriano, Ciciano e Boccheggiano) erano distaccati fisicamente dalle pertinenze immediate del castello. La presenza di emergenze di blenda e galena (minerali dai quali appunto si estrae l’argento) nella zona è confermata anche dalle analisi mineralogiche, effettuate in tempi recenti. I documenti non danno indicazioni ampie utili a definire la qualità e l’importanza dei depositi; la clausola finale imposta all’atto di sottomissione induce a pensare che l’area del Monte Beccaio potesse essere abbastanza ricca se si contempla l’eventualità di scoprire nuovi giacimenti (può comunque trattarsi di una semplice formula rituale). Ciò che emerge in modo innegabile (ma altrettanto ovvio) è che le miniere fossero sottoposte al diretto controllo del conte; nel 1263, figurano infatti fra le proprietà cedute direttamente dal signore alla famiglia Cantoni, insieme alla sesta parte del castellare e alle terre, selve e boschi: elementi sui quali tradizionalmente venivano esercitati i diritti di banno da parte del signore. I filoni arrivano all’esaurimento, con tutta probabilità, prima del 1337: nell’ultimo atto di cessione relativo all’ormai “podere” di Miranduolo, in favore del Comune di Montieri, non viene infatti espresso alcun riferimento alle aree minerarie. Attestazioni documentarie RS, n. 286, pp. 107-108: 19 dicembre 1178: “Nos Tedicius, comes de Frosine f. Ugolini comitis pro Baviero, Tedicengo, Guerriero filiis et pro Ugolino de Strido, et ego Ugolinus Pepi similiter comes de Frosine donamus toti comuni Sene per manus Baruffe f. Gregorii nunc existente consule et rectore civitatis et Fortearrigi Adelardi consule et rectore electo et Rainerii Montonis electo consiliario nomine sociorum suorum med. Castri Miralduolo vocati, hominum ibi manentium, totius iuris et actionis in Monte Beccario, argentariarum et omnium generum metallorum infra dictos fines [...] Adiuvabimus comune Sen. habere med. argentarie seu alterius generis metalli, que ibi nunc est vel quam nos vel comune Sen. vel quilibet alius ibidem inantea invenerit; aliam med. nomine nostro debemus habere. Volumus, quod Cactaneus de Monte Arrenti et Gualandus et Bonusaccorsus de Suvicille sint castaldiones argentarie.[...]”. CV, n. 17, pp. 29-30: 19 dicembre 1178- 15 agosto 1179: “in integrum medietatem generaliter totius castri, quod vocatur Miralduolo et totius eiusdem territorii atque adstrictus et omnis curtis ipsius, cum omnibus rebus infra se existentibus [...] vel quam habemus nos et iamdicte persone in Monte Beccario et in eius pertinentiis et omnium argentariarum atque omnium generum metallorum infra praedictos fines [...]. Insuper promittemus vobis, quod si aliquo in tempore comune Senarum turrem vel palatium vel aliud hedificium in aliquo loco predicte donationis hedificare voluerit, sive hedificaverit eum, non impediemus”. RS, n. 286, pp. 107-108: 19 dicembre 1178: “Nos Tedicius comes de Frosine f. Ugolini comitis pro Baviero, Tedicengo, Guerriero filiis et pro Ugolino de Strido, et ego Ugolinus Pepi similiter comes de Frosine donamus toti comuni Sene per manus Baruffe f. Gregori nunc existente consule et rectore electo et Rainerii Montonis electo consiliario nomine sociorum suorum med. castri Miralduolo vocati, hominum ibi manentium, totius iuris et actionis in Monte Beccario, argentariarum et omnium generum metallorum infra dictos fines; pen. L lib. arg. Recepimus remunerationis nomine C lib. den. et unum confalonem. Turrem ibi edificare Senenses non impediemus. Populum castri hoc totum iurare faciemus; defendemus Senenses et amicos eorum, nisi fuerint inimici nostri manifesti, prius requisitis consulibus, ne eos secum ducant. Defensabimus eos contra omnes homines exceptis quibus iuramento tenemur et inantea nulli iuramentum faciemus”. ASS, Ms. B.95: 29 febbraio 1257: Ildebrandino del fu Baverio, conte di Frosini, vende, per se e per Raniero suo fratello figlio del sudetto Baverio, ad Arrigo di Gualtiero de Cantoni, comprante e ricevente per se e per i suoi fratelli Uberto e Maffeo, la sesta parte “pro indiviso” di tutto il castellare di Miranduolo con la sua corte, distretto, borghi, strade, e casalini, la metà di un terreno presso il bastione e il fosso di detto castellare, e altri appezzamenti di terreno che per essere la pergamena in parte lacerata e mancante non si possono leggere con sicurezza. Cede pure i diritti di giurisdizione sopra i villani e censuari, cede pure i diritti sopra le argentiere. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 24 gennaio 1257: Uguccio, Raniero, Ugolino del fu Bartolo da Frosini vendono ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone, che copra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo: “sextam partem pro indiviso nos pertinentes castellaris castri Miranduolo cum plateis, casalinis, muris, edificiis, appendiciis, carbonariis et fossis et cum omnibus iuriis”; “sextam partem pro indiviso curtis, districtus castellaris predicti cum ortas, casas, cultis et non cultis, vineis, silvis, nemoribus, pratiis, pascuis, erbis, lapidibus, riviis, aquiis castellare predicti”; vendono pure i propri villani, censuari, diritti d’albergaria, diritti d’arme; “medietatem pro indiviso patronatum ecclesie Sancti Jiacobi ville supradicte de Cusa”; te [...] medietatem pro indiviso podii qui dictum Collebeccai positi in dicta curia de Miranduolo in contrata de Cusa”; cedono inoltre i loro possessi “apud Fogali in loco dicto Gorgoli” e alcune terre “in loco dicto fonte Muccioli”; “medietatem pro indiviso terrarum et nemororum in loco dicto Scandolariam et Colledelolio et cum aliis vocabulis quibus ex uno latere est fossatus de Conia”; “unam petiam terre aboschate posite a le piagie di Colletechaio que sint marchesi de Lavaiano”; “unam petiam terre posite all’Aia Buona”; il documento non è originale, ma copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 24 aprile 1277. ASS, Ms. B.95: 11 gennaio 1263: Guido del fu Ruggerotto e Guidengo del fu Tancredi, che dimorano e stanno a Strido, e di Strido sono detti e chiamati, conti di Frosini, per loro stessi e come eredi di Ugolino di Strido, figlio di Guidengo, per prezzo di centodieci lire di denari senesi minuti, vendono ad Arrigo del fu Gualtiero de Cantoni da Montieri, stipulante e ricevente per Maffeo ed Uberto suoi fratelli, la sesta parte “pro indiviso” di tutto il castellare di Miranduolo e tutte le sue appendici e piazze, casalini, carbonaie e fossi, il dominio e giurisdizione; la sesta parte “pro indiviso” della corte o distretto di Miranduolo con le terre, selve, boschi, prati, paludi, pascoli, cave e argentiere; la selva detta del Miranduolo, in territorio di Cusa, un terreno detto “Colle Ugoli di Strindo”, in territorio di Cusa. Un terreno in parte lavorativo e in parte boschivo in luogo detto “Lignaia”, i sopradetti terreni vengono descritti nei loro confini. Cedono pure ogni loro diritto e giurisdizione sopra “hominum et villanorum, abscriptitiorum et servorum” aggiungendovi questa dichiarazione “Item dictos homines et villanos nostroscum servitutitus ipsorum nobis competentibus et competituris, videlicet urbanorum prediorum, et rusticorum, et cum lectis, albergariis, messaggiariis, operibus, omnibus quibuscumque nobis competentibus et competinturis et cum angariis, pro angariis censitibus, abscriptitiatum, villanatus, colonatus, abscriptitiatus et censitus et cum datiis, colleptis, imponendis prodictis personis et locis omnibus et cum omni aliis servitus nobis e dictis hominibus et personis et locis, debitis et debendis in perpetuum”. Il documento non è originale, bensì copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 27 maggio 1267. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 4 giugno 1276: Arrigo e Maffeo del fu Gualtiero di Cantone vendono a Giacomo di Ranieri di Ricciardi: “castellare de Miranduolo que olim dicebat castrum de Miranduolo cum omni curte et districtu suo et cum omnibus iuribus [...] spectantibus et pertinentibus ad ipsum castellare [...] pertinente ad dictum castellare et curtem et districtum eius et cum omnibus terris cultis et incultis et egrestibus et cum omnibus silvis et nemoribus et cum onibus aquis et aquarum al[...] et cum omnibus insulis et cum omnibus domibus [...] in dicto castellare et curte et districtu eius et cum omnibus poderibus et nominatim in villa de Cicioris, in villa de Cas(t)eldicçi, in villa de Castagnuolo, in villa de Cusa et in villa de Fogari et in quolibet alio loco de curte et districtu” diritto di signoria su villani, livellari, boschi, selve e miniere d’argento. Interpretazione – Area di giacimento minerario. Cronologia – Anno 1178-anno 1276. Bibliografia – AA.VV., 1991, p. 105, scheda n. 76; Francovich-Farinelli, 1994, pp. 458-460; Lisini, 1935, p. 199; RS, pp. 107-108; Vatti, 1931, p. 125; Volpe, 1961, p. 331. (31) Località Costa Castagnoli (Q.120 III-4776/669) 370 m s.l.m.; versante poggio; rocce carbonatiche brecciate; fosso Gallosa; vegetazione stabile ad alta densità. Ricognizioni effettuate: 2; vegetazione stabile; condizioni di luce: cielo coperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Poggio posto sulle prime propaggini occidentali della Costa Castagnoli; fronteggia i ruderi del castello di Miranduolo; le due collinette sono distinte da una profonda incisione corrispondente al tracciato di un torrente, ora asciutto. Descrizione unità topografica – Galleria di estrazione a imboccatura ellittica con dimensioni 1,631,9 m, posta nel versante settentrionale del poggio a sud del sito di Miranduolo. Si tratta di una coltivazione a seguire il filone; il taglio corre parallelo in direzione sud-est. La profondità attuale (4-5 m) è falsata dal crollo della parete interna della galleria. Al centro della sala è individuabile un pozzetto, con diametro di 60 cm circa, utilizzato verosimilmente per la risalita del minerale. L’individuazione di un taglio di forma quadrangolare (dimensioni 232 m) di chiara origine antropica, posto nella parte sommitale del poggio, lungo il filone su cui è stata rilevata la miniera, evidenzia un’articolazione della coltivazione in almeno due gallerie. La mineralizzazione è rappresentata da un filone a solfuri misti associati a idrossidi di ferro nella zona di ossidazione superficiale (cappellaccio limonitico) mentre la roccia incassante è costituita da calcare cavernoso; nelle superfici interne rimangono tracce visibili di limonite. L’assenza di frammenti di minerale in superficie impedisce di individuare con certezza il tipo di minerale cavato. È noto però che, in presenza di solfuri misti, si tendeva sempre a cavare i solfuri di rame (calcopirite) e i solfuri di piombo (galena); l’estrazione dei solfuri di ferro, presenti in superficie, invece, era subordinata al raggiungimento dei giacimenti più profondi e più ricercati, dal momento che la limonite produce ferro di qualità scadente. In considerazione di questo, possiamo quasi certamente produrre l’ipotesi che si tratti di una coltivazione di calcopirite e galena, associate solo secondariamente a quella di limonite. Interpretazione – Coltivazione a solfuri misti, destinata all’estrazione di calcopirite, galena e limonite. Cronologia – XI-XII secolo. L’assenza di materiale datante sul sito impedisce di produrre datazioni certe. La tecnica di aggredire la massa mineralizzata seguendo il filone riporta comunque in ambito premoderno e la strettissima vicinanza con il castello di Miranduolo converge verso l’ipotesi di una contemporaneità con la fase di vita del centro castrense: oltre a ciò, il rinvenimento del forno per la riduzione del ferro, rinvenuto in località Castelluccio in territorio di proprietà signorile, conferma l’esistenza di un tipo di produzione siderurgica controllata dal castello. Nonostante il mancato reperimento di tracce in superficie riconducibili a strutture per la lavorazione di rame e di argento, possiamo sostenere l’estrazione dei minerali di calcopirite e galena. Rinvenimento inedito (32) Montesiepi (Q.120 III-4780/675) 345 m s.l.m.; sommità poggio; sabbie; fiume Merse; area edificata. Notizie storiche – “Le origini della cappella di Montesiepi sono legate alla figura di Galgano Guidotti da Chiusdino, eremita vissuto tra la metà del secolo XII e il 1181, che in tale località, sulla cima della collina che sovrasta il luogo dove più tardi fu edificata la grande abbazia di San Galgano, fondò una piccola comunità. Pochi anni dopo la morte del santo, il cui culto assunse subito forme popolarissime, gli eremiti vennero affiancati da alcuni monaci cistercensi, la cui presenza è attestata per la prima volta in un diploma di Enrico VI del 1191 con il quale l’imperatore accorda loro privilegi e protezione. In breve tempo i monaci, inizialmente organizzati in priorato e poi in abbazia, termine che ricorre solo a partire dal 1205, sostituirono la comunità eremitica, proponendosi come eredi della spiritualità galganiana. Un documento del 1196 attesta l’esistenza di una chiesa, sul colle di Monte Siepi, da poco tempo edificata, probabilmente da identificare nella cappella tuttora esistente, unica struttura ben conservata di un complesso edilizio profondamente modificato nei secoli successivi. Stando ai dati documentari la costruzione dell’edificio dovrebbe quindi collocarsi tra il nono e il decimo decennio del XII secolo, datazione verso la quale la critica si è prevalentemente orientata. Rimane tuttavia incerto stabilire se al tempo della sua edificazione l’insediamento fosse abitato solo dalla comunità eremitica oppure se a essa si fossero già affiancati i primi monaci cistercensi. Nel secondo caso questi ultimi avrebbero concorso alla realizzazione di un edificio estraneo alla loro tradizione, secondo una scelta che potrebbe essere spiegata sia con un ruolo ancora marginale all’interno dell’insediamento, sia con la lucida consapevolezza di farsi eredi di un culto che a livello locale si era già fortemente radicato. Non suffragata da documenti è invece la notizia, riportata da Antonio Libanori (XVII secolo), secondo la quale il vescovo volterrano Ugo Saladini, morto nel 1184, avrebbe promosso la costruzione della ‘rotonda’, poi consacrata dal successore Ildebrando Pannocchieschi. In ogni caso, a sollecitare l’arrivo dei Cistercensi a Monte Siepi e a consolidarne la presenza furono i vescovi di Volterra e in particolare Ildebrando, le cui ampie donazioni di terre furono determinanti per lo sviluppo iniziale della comunità. Non è da escludere che alla base di tale interessamento vi fosse la speranza di trovare nei monaci dell’Ordine di Citeaux un efficace punto di appoggio per arginare la progressiva perdita, sotto la spinta espansionistica di Siena, del controllo politico di una zona della propria Diocesi che la vicinanza alle principali miniere d’argento della Toscana meridionale rendeva strategicamente importante” (Gabbrielli, 1998a). Nel giro di alcuni anni la comunità cistercense, filiazione dell’abbazia laziale di Casamari, della linea di Clairvaux, raggiunse una condizione sociale ed economica di primo piano, al punto da creare le premesse, intorno al 1220, per il trasferimento della sede nella valle immediatamente sottostante, in un luogo più consono alle proprie esigenze, organizzato secondo i canoni architettonici dell’Ordine. La cappella, tuttavia, non è mai stata abbandonata, e ha continuato a esercitare, fino a oggi, la propria funzione. Descrizione unità topografica – L’edificio presenta un volume cilindrico, con piccola abside semicircolare di fronte all’ingresso e copertura a cupola emisferica, forse in origine con estradosso a vista. Il paramento murario della parte inferiore è a conci di calcare disposti secondo corsi orizzontali e paralleli, mentre quello della parte superiore, comprese le monofore e l’intradosso della cupola, è a filari di mattoni alternati a filari di conci. Al di sopra è una decorazione, coeva all’impianto originale, a ricorsi di mattoni disposti a dente di sega. Al centro della cappella è la famosa spada conficcata nella roccia, che recenti indagini hanno datato al XII secolo. Il portale di ingresso, con arco a tutto sesto, è preceduto da un atrio, probabilmente di poco posteriore all’assetto originale, con arco in pietre e laterizi e soprastante cornicione con teste scolpite. La parte inferiore dell’atrio è a conci di pietra, quella superiore in mattoni. Nel 1340 fu aggiunta una cappella a pianta rettangolare, con paramento murario in laterizi e basamento in pietra. Al suo interno si conservano affreschi di Ambrogio Lorenzetti e della sua bottega. In età moderna, probabilmente nel Cinquecento, il corpo cilindrico è stato soprelevato con una struttura in mattoni sormontata da una lanterna. “Se dal punto di vista planivolumetrico la chiesa rappresenta un unicum nel panorama dell’architettura romanica toscana, la cui interpretazione dovrà pertanto misurarsi con un raggio di relazioni internazionali nonché con il forte contenuto simbolico legato alla figura di Galgano e alla sua esperienza mistica, alcuni elementi architettonici rimandano, invece, all’architettura tardo-romanica locale. In particolare Italo Moretti ha ben evidenziato come la “rotonda” di Monte Siepi costituisca l’esempio più eclatante di un folto gruppo di chiese, situate in una fascia territoriale quasi interamente compresa tra Volterra e Siena, che adottano, in tutto o in parte, un rivestimento murario a fasce bicrome alternate di pietre e laterizi, secondo una tecnica costruttiva, ma con palesi risvolti anche sul piano estetico, che è stata interpretata come la versione ‘povera’ dell’analogo motivo, di ascendenza pisana, ottenuto con l’impiego di pregiati materiali lapidei. Si tratta di ben 18 edifici, 14 dei quali situati nella Diocesi medievale di Volterra. Il fenomeno è documentato anche per il tessuto urbano senese, soprattutto per l’edilizia civile, dove risulta associato ai caratteri tipici dell’architettura locale, in pietra o in laterizi, compresa tra la seconda metà del secolo XII e la metà circa del XIII. Del resto anche per altri elementi non è difficile trovare puntuali riscontri in varie zone della Toscana, soprattutto centro-settentrionale, come le decorazioni in cotto, a zig-zag e a denti di sega, degli estradossi dei portali di accesso all’atrio e al corpo circolare, gli archi rialzati, la bicromia a due diverse tonalità di pietre e la ghiera a spessore crescente dalle imposte alla chiave, motivo quest’ultimo diffuso nell’intera regione, a dimostrazione di come un progetto speciale sia stato tradotto in un linguaggio comune all’architettura locale del tempo. Interessante è inoltre la disposizione in senso radiale, indipendentemente dal motivo, delle decorazioni situate nell’arco del portale dell’atrio, realizzato entro il 1220 e restaurato nel Novecento, una soluzione che rimanda a Lucca, a Pisa e alla Val d’Elsa, ma che esclude Siena, dove risulta del tutto assente” (Gabbrielli, 1998a). Interpretazione – Eremo e cappella. Cronologia – 1180 ca.-età contemporanea. Bibliografia – ASS, KSG, 161, 162, 163; ASF, KSGF; Amante-Martini, 1969, pp. 51-85; Barlucchi, 1991; Bianchi, 1938; Borsook, 1969; Canestrelli, 1989; Cardini, 1994; Gabbrielli, 1998a; La spada, 2001; Moretti, 1982; Norman, 1993; Pfister, 2001; Rainini, 2001, pp. 23-40; Susi, 1993; Viti, 1977; Volpini, 1965. (33) Abbazia di San Galgano (Q.120 III-4779/675) 301 m s.l.m.; pianura; sabbia e detriti e discariche; fiume Merse; area edificata. Notizie storiche – Verso la fine del secondo decennio del Duecento i monaci cistercensi di Montesiepi (sito 32) iniziarono la costruzione di una nuova sede, situata nella valle immediatamente sottostante, nella quale trasferirsi. I lavori, iniziati intorno al 1218, si protrassero per tutto il secolo, interessando prima i locali monastici e una parte della chiesa e poi, nella seconda metà inoltrata, portando a compimento quest’ultima. Negli stessi anni vi fu un progressivo affrancamento dal Vescovato di Volterra, che era stato il promotore e il protettore della comunità, e l’inizio di una politica di avvicinamento alla città di Siena, che nel 1215 era riuscita a sottomettere definitivamente l’alta Val di Merse, sottraendola all’episcopato volterrano. A partire dagli anni Venti la stessa espansione patrimoniale dell’abbazia fu da un lato indirizzata verso Siena e gli immediati dintorni e dall’altro verso l’alta Val di Merse, dove i monaci misero in piedi un latifondo compatto e di enormi dimensioni. Per quasi tutta la seconda metà del secolo il patrimonio terriero, organizzato in grange, fu in continuo incremento, interessando sempre nuove zone del contado senese, come la Scialenga, la Val d’Elsa e la bassa Val di Merse, dove furono acquistati e impiantati mulini e gualchiere. Il periodo di massima espansione, attuata prevalentemente tramite acquisti, si ebbe tra il 1270 e il 1289, quando l’abbazia mostrò una disponibilità eccezionale di risorse finanziarie. Solo alla fine del secolo, negli anni Novanta, l’assetto economico della comunità entrò in crisi. E se anche nel primo ventennio del Trecento, a seguito di una ristrutturazione del patrimonio, vi fu una certa ripresa, i livelli di sviluppo del secolo precedente non furono più raggiunti. Ciò nonostante, nel 1316-20, quando venne redatta la Tavola delle Possessioni, San Galgano risultava ancora una grande potenza economica, paragonabile a quella del pur ricchissimo ospedale di Santa Maria della Scala e inferiore solo alle consorterie dei Salimbeni e dei Tolomei. A partire dalla metà del Duecento l’attrazione dell’abbazia verso Siena si trasformò in un forte legame reciproco. Grazie alla fama di cui godevano, a livello europeo, quali abili amministratori e tecnici specializzati, i Cistercensi furono incaricati dal Comune di svolgere delicate funzioni per la città. In cambio essi ottennero sgravi fiscali ed esenzione di pedaggi. Dal 1257 al 1376 furono così nominati, a più riprese, camarlenghi della Biccherna, e dal 1258 al 1295, e poi nel 1313, operai della fabbrica del duomo. Nel 1268 i Senesi affidarono a frate Agnolo l’incarico di studiare la deviazione fino a Siena delle acque del fiume Merse, un’impresa che risulterebbe enorme anche per i nostri tempi. Nel 1290, infine, il rapporto con la città venne suggellato con l’acquisizione, da parte del Comune, del patronato sull’abbazia, e la conseguente esenzione, per i monaci, di tutte le gabelle. Il XIV secolo fu l’anticamera di una recessione che portò a una decadenza irreversibile, con il conseguente semiabbandono dell’insediamento e degrado delle strutture. Segnali di una condizione sensibilmente mutata si ebbero già alla fine del secolo, quando il numero dei monaci presenti nell’abbazia scese a otto, contro i quarantasei del 1281, e l’abate riuscì a pagare le decime solo a condizione di vendere alcune proprietà. Il passaggio delle compagnie militari, che a più riprese, nella seconda metà del Trecento, sconvolsero la comunità e il territorio circostante, certamente contribuì ad aggravare la situazione. Una delibera del Concistoro del 1424 informa già di uno stato di degrado del complesso architettonico, denunciando la necessità di restaurare la chiesa e il convento poiché minaccianti rovina in più parti. Nel 1503, malgrado le resistenze delle autorità senesi, l’abbazia fu data in commenda da Giulio II al cardinale Federico Sanseverino, una scelta che, come per altre sedi cistercensi, determinò un ulteriore peggioramento della situazione. Alla metà del secolo una visita apostolica attesta la presenza di un solo frate, che doveva soddisfare gli uffici del monastero e delle sette chiese dipendenti. Nel 1652, nell’ambito delle soppressioni innocenziane, i Cistercensi dovettero abbandonare l’abbazia e l’anno successivo essa divenne un semplice beneficio di collazione del vescovo di Volterra. Nel 1693 l’ufficiatura della chiesa fu affidata ai Minori Osservanti e nel 1712 passò ai Vallombrosani di Santa Maria di Serena, presso Chiusdino. Nel 1729 furono di nuovo introdotti i Francescani i quali vi rimasero fino al 1787, anno di abbandono della chiesa. Successivamente il complesso edilizio divenne proprietà della famiglia Feroni, che dal 1727 aveva ottenuto di condurre i beni dell’abbazia in enfiteusi. Tra il continuo alternarsi di Ordini e di abati commendatari il comune denominatore è dato dalle notizie sempre più gravi in cui versavano la chiesa e i locali monastici, i richiami all’urgenza dei restauri e al tempo stesso l’assoluto immobilismo, salvo sporadiche eccezioni, degli abati e di coloro che ne detenevano la responsabilità. Nel 1786 la torre campanaria rovinò provocando notevoli danni alla chiesa e ai locali attigui. Il 31 marzo dello stesso anno Pietro Leopoldo dette la sua approvazione alla proposta del marchese Feroni di sconsacrare la chiesa, di demolirla insieme al monastero e con i loro materiali fabbricare una canonica presso la cappella di Monte Siepi, dove trasferire il curato. Nel 1789 giunse il consenso del vescovo di Volterra. A tale decisione seguirono il crollo di altre strutture e, all’occorrenza dei proprietari, lo spoglio dei materiali. Nel 1894, anno in cui San Galgano, anche grazie all’infaticabile lavoro di Antonio Canestrelli, fu dichiarato monumento nazionale, la chiesa era ormai priva del tetto e del pavimento, presentava le creste dei muri perimetrali rovinate e le volte in gran parte crollate. Gli attuali locali monastici erano utilizzati come stalle, cantine e abitazioni coloniche. Più nulla rimaneva del chiostro e dei fabbricati che ne delimitavano i lati sud e ovest. Qualche restauro fu eseguito nei primi del XX secolo ma solo nel 1922 fu stanziata una consistente somma per l’inizio dei lavori di consolidamento della chiesa, diretti dall’architetto Gino Chierici. Nel 1929 lo Stato acquistò l’intero complesso e nel 1932, a seguito di un nuovo finanziamento, ripresero i lavori che, con varie interruzioni, proseguirono per tutti gli anni Trenta. In tale occasione fu realizzata, su progetto dell’architetto Egisto Bellini, l’attuale porzione di chiostro, in parte con materiali nuovi e in parte con elementi rinvenuti durante uno scavo. I lavori continuarono anche negli anni Quaranta e nell’immediato dopoguerra, prima sotto la direzione del Bellini e poi dell’architetto Mario Moretti, interessando le strutture più deteriorate della chiesa ed estendendosi anche agli ex-locali monastici. Descrizione unità topografica – La chiesa presenta una planimetria a croce latina, a tre navate spartite in otto campate da archi a sesto acuto su pilastri cruciformi, coro quadrangolare e transetto con quattro cappelle sul lato orientale e una navatella su quello occidentale. In origine era coperta con volte a crociera costolonate, ora quasi tutte crollate o rifatte. Il paramento murario esterno è interamente formato da conci e bozze squadrate di travertino, a eccezione della parte inferiore del fianco sud del corpo longitudinale, in laterizi, e la parte superiore della facciata, anch’essa in mattoni ma priva di rivestimento. All’interno gli archi e i pilastri sono tutti in pietra, a cunei e conci di travertino ben squadrati e spianati, mentre il resto della muratura presenta soluzioni assai diversificate, a pietra, pietra e laterizi o solo laterizi. Riguardo all’evoluzione del cantiere, “tutti gli elementi convergono nell’individuare nei primi due livelli del braccio sud del transetto, dell’adiacente lato del coro e dell’ultima arcata sud del corpo longitudinale, le strutture corrispondenti alla prima fase, presumibilmente databile entro la fine degli anni Venti. I lavori dovettero quindi proseguire con la perimetrazione dell’intero edificio, facciata compresa, forse spingendosi, nel coro, fino al secondo livello ma senza i relativi capitelli. [...] A questo punto il cantiere della chiesa dovette subire un rallentamento o forse un’interruzione al fine di accelerare i lavori ai locali monastici, analogamente a quanto verificato per altre abbazie dell’Ordine. Nella seconda metà del Duecento il cantiere riprese con decisione, prima completando, in tutta la sua altezza, il settore orientale, comprese le ultime due campate verso la crociera del corpo longitudinale, e poi proseguendo con la realizzazione delle cinque campate della navata centrale verso la facciata” (Gabbrielli, 1998a). Da recenti studi sulla scultura e sulla stereotomia degli archi è emerso come il cantiere della chiesa abbia visto, in circa settant’anni, un continuo avvicendamento di maestranze, sia provenienti da altre abbazie dell’Ordine, e quindi da un circuito cistercense di reclutamento, sia di ambito toscano, in particolare pisane, senesi e volterrano-valdelsane, mentre il contributo di maestri lombardi sembra concentrarsi, e in modo non esclusivo, sui locali monastici. Di questi ultimi gli ambienti situati al pianoterra, corrispondenti all’armarium, la sacrestia, la sala capitolare, il parlatorio e la sala dei monaci, conservano ancora gran parte delle strutture originarie, mentre i locali situati al piano superiore hanno subìto pesanti trasformazioni. Interpretazione – Abbazia. Cronologia – 1218 ca.-età contemporanea. Bibliografia: Albergo, 1981; Amante-Martini, 1969; Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992; Bassi, 1975; Bianchi, 1938; Borsook, 1969; Canestrelli, 1989; Canestrelli, 1913; Cappelletti, 1844-1870; Cardini, 1994; Chierici, 1923; Chierici, 1924; Cortese, 1997, pp. 100-114; Cucini-Paolucci, 1985; Enlart, 1891; Enlart, 1894, passim; Fraccaro De Longhi, 1958, pp. 248256; Gabbrielli, 1998a; Gabbrielli 1998b; Gabbrielli 1999, pp. 18-20, 2627; Gabbrielli 2000; Gabbrielli 2001; Garzelli, 1969, pp. 57-61; Gigli, 1974; Giovannoni, 1922; Lambert, 1896; La spada, 2001; Libanori, 1645; Lisini, 1935; Marini, 1981; Marini, 1995; Moretti, 1982; Moretti-Stopani, 1981 passim; Moretti-Stopani, 1982, pp. 155-159; Negri, 1981; Neri, 199192; Norman, 1993; Pfister, 2001; Puglisi, 1978; Puglisi, 1979; Puglisi, 1980; Rainini, 2001; Remondini, 1995-96; Salmi, 1927, pp. 21, 53, 63; Schevill 1966, pp. 361-386; Schneider, 1914-24; Susi, 1993; Testi Cristiani, 1987, pp. 143, 151-152; Vismara, 1976; Viti, 1977; Viti 1988; Volpe, 1964; Volpini, 1965; Zdekauer, 1984; Wagner Rieger, 1956-57, II, pp. 226-229. (34) Località Luriano (Q.120 III-4775/673) 538 m s.l.m.; sommità poggio; conglomerati poligenici; fosso Grande. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: nullo. Descrizione unità topografica – Si ha notizia di rinvenimento di materiale archeologico non meglio precisato. Non vengono riportate informazioni utili a localizzare l’emergenza. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – ASAT, p. 310; SE XXXI, 1963, p. 494. (35) La Castellaccia (Q.120 III-4775/672) 545 m s.l.m.; sommità collinare; conglomerati poligenici; fosso Grande. Rinvenimento edito Descrizione sito – Poggio antistante Luriano, da cui dista pochi metri. La sua sommità è poco estesa ed è spianata artificialmente. L’anomalia della collina è stata segnalata anche durante la lettura dei voli regionali (scheda n. 157, schedario consultabile presso il Dipartimento di Archeologia di Siena). Descrizione unità topografica – Nel Repertorio di Cammarosano e Passeri sono indicate in località La Castellaccia “molte tracce di muraglie crollate” ritenute testimonianza di un antico castello. Nell’Atlante dei Siti Archeologici della Toscana viene invece riportata la notizia, proposta da Mazzeschi, relativa all’esistenza di cerchia di mura concentriche residuali di un castelliere (quindi attribuibile alla protostoria). Nel corso della nostra prospezione, abbiamo potuto esplorare solo parzialmente il poggio della Castellaccia, oggi compreso in un’area privata e recintata. La verifica ha permesso di constatare la presenza di grandi spargimenti di materiale edilizio lapideo in parte squadrato, non riferibile però ad alcuna struttura; fonti orali testimoniano la scomparsa delle tracce murarie, ricordate nei due testi precedenti. In assenza di altri dati, osservata la contiguità spaziale con la località di Luriano e infine l’assenza in quest’ultima di evidenze materiali riferibili a fortificazioni, ipotizziamo che le tracce di mura attestate dalle due notizie e i reperti mobili in superficie osservati durante la prospezione possano indicare la Castellaccia (toponimo peraltro sospetto) come sede originaria del castello di Luriano. È comunque da escludere con certezza una fase insediativa di età protostorica. Interpretazione – Probabile castellare. Cronologia – Generica età medievale. Bibliografia – ASAT, p. 310; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Mazzeschi, 1976, p. 86. (36) Località Palazzetto (Q.120 III-4779/672) 375 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse. Rinvenimento edito Descrizione unità topografica – Viene segnalato il rinvenimento di una tomba a camera; mancano dati georeferenziali utili alla sua localizzazione. Interpretazione – Tomba a camera. Cronologia – Generica età romana. Bibliografia – ASAT, p. 309 n. 99; CA, F. 120, 17 n. 1. (37) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; fiume Feccia e Merse; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Area posta a nord-ovest dell’abbazia di San Galgano (codificata come area A) sottoposta a indagine di superficie, durante settembre 1983, nell’ambito del Progetto Montarrenti. Descrizione unità topografica – Nel campo è stata rilevata una concentrazione di laterizi in associazione a scarsi frammenti di ceramica. Interpretazione – Non fornita. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Cucini-Paolucci, 1985. (38) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; fiume Feccia e Merse; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Area contigua al sito 37 in direzione ovest (codificata come area B), sottoposta a indagine di superficie nel settembre 1983, all’interno del Progetto Montarrenti. Descrizione unità topografica – Nel campo è stata individuata una concentrazione di pietre squadrate e laterizi; frammenti ceramici erano presenti in forma sparsa su tutta la superficie, con una maggiore concentrazione in prossimità del sito 37. Interpretazione – Non fornita. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Cucini-Paolucci, 1985. (39) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; fiume Feccia e Merse; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Area a nord e nord-est dell’abbazia (codificata come area C), sottoposta a indagine di superficie, nel settembre 1983, nell’ambito del Progetto Montarrenti. Descrizione unità topografica – Su tutta l’estensione del sito, è emersa una grande quantità di laterizi e pietre, queste ultime talvolta lavorate; la presenza dei reperti ceramici aumenta in prossimità della concentrazione di pietre (area che diventerà poi oggetto di un intervento stratigrafico; saggio II, 1). Qui, la classe maggiormente attestata è la maiolica arcaica, associata a numerosi frammenti di vetro di diverse qualità cromatiche (fra cui compare anche la parte di un fondo a calice con cavità conica e un frammento pertinente a un tappo di ampolla per funzioni liturgiche) e ad abbondanti scorie ferrose; queste ultime aumentano in corrispondenza dell’angolo sud-est in prossimità dell’area in cui sorge la ferriera (sito 47). In corrispondenza della concentrazione di pietre è stato aperto un saggio stratigrafico di dimensioni 636 m, compreso nello spazio retrostante lo scriptorium e l’abside. Immediatamente sotto l’humus, è stato messo in luce un banco di argilla molto pura e compatta di colore giallo brillante; si tratta di un deposito sicuramente artificiale (larghezza costante di 3, 60-3, 80 m) con una curvatura precisa a schiena d’asino. Al limite dello strato corre una struttura in mattoni legati da malta ricca di calce, disposti in modo abbastanza regolare a formare un allineamento in direzione est/ovest. Parallelamente a essa, si conserva un solo filare di un piccolo muro, formato da pietre di medie dimensione faccia a vista spianata, legate da calce e con pezzi di mattoni negli interstizi. Le due strutture conservano un allineamento preciso sulla fronte interna verso il banco di argilla; entrambe sono intaccate da taglio posteriori. Due strati composti da sassi, pietre di medie dimensioni e pezzi di mattoni slegati, ubicati lungo i due tagli paralleli, sono interpretabili come massicciate con funzione di drenaggio. Al di sotto di queste, sono state portate alla luce due canalette per lo scolo delle acque; si tratta di due semplici strutture, costruite a secco in pietra e laterizi lungo i due muri paralleli (sopra citati): sono costituite da due filari paralleli con andamento sinuoso di pietre sbozzate di medie dimensioni e pezzi di mattoni e coperte con grosse pietre rozze o mattoni interi disposti trasversalmente. La sequenza è stata letta secondo due fasi distinte di frequentazione. Alla piena età medievale risale l’impianto di una piattaforma di argilla impermeabile; ai due lati, le due strutture in muratura la delimitavano nel senso della lunghezza. Viene interpretata come strada: significativa la larghezza costante (3,70 m) e la sezione a schiena d’asino, per assicurare lo scolo delle acque. L’assenza di materiale impedisce di dare cronologia all’impianto e del primo uso. La strada è coerente all’impianto abbaziale; si trova in asse con il parlatorio (ambiente accanto alla sala capitolare, aperto sul chiostro) che costituisce l’elemento principale di comunicazione fra abbazia e mondo esterno: poteva collegare quindi il monastero al transito principale. A una fase successiva risale l’impianto delle canalette ai bordi della strada. Dal momento che intaccano le strutture murarie allineate alla strada, è evidente che in questo momento avevano perso la loro funzione. L’intervento è databile fra metà XIV e XV secolo; in quest’epoca si mantiene l’uso della strada ma non delle strutture a essa originariamente connesse. L’azione è stata collegata a un’opera di manutenzione, collocabile in una fase di decadenza dell’abbazia (prima comunque della fine del XV secolo quando i monaci si trasferiscono a Siena). Interpretazione – Strada. Cronologia – XIII-XV secolo. Bibliografia – Cucini-Paolucci, 1985. (40) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 298 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; fiume Feccia e Merse; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Spazio posto a sud dell’abbazia (codificata come area D), sottoposta a indagine di superficie, durante il settembre 1983, nell’ambito del Progetto Montarrenti. Descrizione unità topografica – Su tutta l’estensione del campo si raccolgono un frammento di pietra serpentina e ceramica riconducibile a un arco cronologico compreso fra XIV e fine XV secolo (fra questa ceramica ispano-moresca, italo-moresca, maiolica rinascimentale); la classe maggiormente attestata risulta comunque la maiolica arcaica. Si rileva anche una fortissima concentrazione di laterizi (mattoni ed embrici) soprattutto in prossimità del sito 39. In corrispondenza di questo spazio, è stato aperto un saggio di scavo, di dimensioni 536 m, in corrispondenza dell’angolo sud-est dello scriptorium (codificato nel progetto come saggio I,1). Immediatamente al di sotto dell’humus, è stato individuato uno strato di terra friabile mista a radici, laterizi spezzati e pietre. Il deposito, di spessore considerevole, contiene piccoli lacerti di muri e pochi frammenti ceramici (il materiale è eterogeneo e comprende acroma grezza e depurata, maiolica arcaica, ceramica smaltata monocroma, pentolame invetriato e ceramica moderna): costituisce la porzione estrema di un crollo di materiale da un livello superiore a quello dell’abbazia. Lo strato copre altri livelli ascrivibili genericamente all’età moderna. Al di sotto di questi, si conserva uno strato di crollo, di notevole spessore, esteso su quasi tutto il saggio, a eccezione dell’angolo nord. È composto per il 90% circa da laterizi, nella maggior parte mattoni, più rari frammenti di tegole e coppi e blocchi di malta. Fra i mattoni, anche qualche lacerto di muro: in totale sono stati rinvenuti quattro blocchi di mattoni legati da malta, molto raro l’uso di pietre e travertino o ciottoli fluviali (materiali utilizzati nello scriptorium e nell’ala est dell’abbazia). Il livello restituisce un numero consistente di frammenti ceramici, per lo più pertinenti a forme in maiolica arcaica e acroma grezza; si trova anche una moneta in bronzo databile al XIV secolo. Lo scavo si interrompe a una quota poco inferiore allo strato appena descritto. Tutti i livelli sono riferibili all’età moderna; possono essere interpretati come successione stratigrafica di smottamenti e depositi dovuti a fenomeni naturali di erosione e deposizione uniti ad attività antropiche e di accumulo rifiuti. Solamente il crollo, descritto sopra, può essere interpretata come tale. L’assenza di evidenze riconducibili a strutture è stata ritenuta una conferma dell’assenza di edifici, descritta nella pianta redatta dell’architetto Alessandro Galilei nel 1724; nel corso dell’indagine, si considera comunque l’eventualità che in quella data si fosse già verificato il crollo delle strutture eventualmente presenti. I lacerti di muro individuati sono stati interpretati come opera di contenimento (resa necessaria dalla ripidità del terreno), realizzata tramite un muro a retta, a secco, formato da filari irregolari di bozze di travertino, certamente di spoglio con mattoni in funzione di zeppe; è comunque possibile che si riferisca all’adattamento dell’area a scopo agricolo nel corso degli ultimi secoli. Il recente uso della zona come immondezzaio è indicato dalla massiccia frequenza di frammenti ceramici medievali, ossa animali e altro materiale di butto. Interpretazione – Muro di contenimento e area di scarico materiali. Cronologia – Età moderna. Bibliografia – Cucini-Paolucci, 1985. (41) Località Castelluccio (Q.120 III - 4777/670) 420 m s.l.m.; versante poggio; depositi alluvionali; fosso dei Rigoletti; vegetazione stabile. Ricognizioni effettuate: 2; vegetazione stabile; condizioni di luce: cielo coperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Area boschiva che occupa il versante occidentale della Costa di Rapaia. Posta a sud-est del podere Santa Pace, si raggiunge dalla strada a sterro per Fogari; all’altezza del bivio del Podere Case Sant’Agata, sul lato opposto a fianco di un piccolo laghetto, si trova una strada carraia, ora abbandonata, diretta a un ruscello che scorre in direzione nord-est/sudovest. Dopo averlo attraversato, circa 10-15 m sulla sinistra, si percorre un viottolo nel bosco fino ad arrivare a un campo lasciato a pascolo, con uno stagno al centro. Oltrepassando una recinzione in filo spinato, al termine del prato, si giunge a un piccolo poggio, coperto da vegetazione stabile, caratterizzato da una forte concentrazione di pietre, assenti altrove. Descrizione unità topografica – Forte concentrazione di pietre, molto sommariamente lavorate, disposte a definire evidenti accumuli di terra. È difficile studiare i rapporti fra le diverse emergenze: sono appena comprensibili tre allineamenti che, apparentemente, disegnano un ambiente rettangolare; si riconoscono anche tre brevi tratti murari che mostrano un tipo di messa in opera irregolare, realizzata con conci appena sbozzati. Ciò che identifica il deposito è il rinvenimento di grosse scorie di ferro, concentrate soprattutto in corrispondenza degli allineamenti perpendicolari, appena descritti; si tratta di grosse masse spugnose senza tracce di tapping, dunque non fuoriuscite dal forno allo stato liquido. Sono il risultato di un processo di produzione con una bassa resa in metallo (molto pesanti, mantengono un’elevata percentuale di metallo); mostrano inoltre tracce di lining (cioè tracce della parete interna del forno in argilla fusa nel corso della lavorazione e aderita dunque alla scoria). A distanza di circa 6 m dall’area di massima concentrazione si trova un buco con diametro di circa 4-5 m, scavato nella terra; fonti orali attestano che, durante la fase di sfruttamento del terreno, era utilizzato come abbeveratoio per gli animali, grazie ai costanti affioramenti di abbondante acqua. La visibilità del sito è fortemente limitata dalla fitta coltre di foglie e muschio che ricopre tutto il sito. Presenza, media per mq – Sei reperti. Interpretazione – Forno per la riduzione del minerale di ferro, alimentata manualmente. Le caratteristiche del sito impediscono infatti di sostenere l’impiego di energia idraulica; il torrente che scorre nei suoi pressi non poteva essere convogliato come forza motrice per i mantici in quanto troppo lontano, in posizione sfavorevole (è infatti a una quota più bassa) e troppo esiguo per trasmettere movimento alle ruote con regolarità. Sulla base delle numerose scorie a calotta rinvenute, possiamo ipotizzare un diametro medio della ciambella di 13 cm; potrebbe anche trattarsi di uno o più forni di piccole dimensioni, costruiti ad hoc per ogni lavorazione. In considerazione di ciò, è possibile proporre una datazione nell’ambito dell’XI-metà XIII secolo, antecedente cioè all’introduzione dell’energia idraulica in Val di Merse. È plausibile ritenere che l’attività della struttura sia da relazionare alla fase di vita del castello di Miranduolo; la zona doveva essere inserita nella sua corte e il toponimo stesso ricorda un contesto di stretta pertinenza signorile (perciò riferibile alla struttura produttiva). Cronologia – XI-prima metà XIII secolo. Rinvenimento inedito (42) Molino vecchio (Q.120 IV-4784/674) 270-280 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia-fosso Frelle. Descrizione sito – L’impianto si può genericamente collocare nel Piano di Feccia, non distante dallo sbocco del fosso Frelle. Notizie storiche – Nel periodo compreso fra il 1232 e il 1283 si hanno frequenti acquisti del monastero di San Galgano nel “loco dicto Molino vecchio”, compreso nella corte di Frosini. In base al toponimo, si deduce la presenza di una struttura molitoria, identificabile forse con quella collocata sul corso del Feccia, inserita nel patrimonio dell’abbazia di San Galgano e censita nella Tavola delle Possessioni nell’ambito della grangia di Valloria. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 318t: 17 giugno 1232: “loco dicto Molino vecchio, corte di Frosini”. Seguono numerosi atti di vendita e cessione di terre (in cui il toponimo è sempre definito come “loco dicto”) fino al 22 giugno 1283 (Spoglio Conventi 163, cc. 267t-268). ASS, Estimo 2, (Frosini), c. 267: “unam petiam terre laborate vineate et sode cum sex domibus cum claustris plateis et molendinum cum duobus palmentis positam in dicta curia loco dicto Vallora et piano de Feccia et Frelle cui ex una flumen Feccie, et ex tribus via”. Interpretazione – Le indicazioni documentarie collocano l’opificio nella corte di Frosini, sul confine con quella di Castiglion Balzetti, all’interno del Piano di Feccia a breve distanza dallo sbocco del fosso Frelle. Cronologia – Anno 1232-anno 1283. Bibliografia – Cortese, 1997, p. 310. (43) Ciciano (Q.120 III-4778/668) 506 m s.l.m.; sommità collinare; detriti e discariche; fosso Collicioni; area edificata; emergenze monumentali assenti. Notizie storiche – Villaggio attestato a partire dal 1229. Nel 1255 “Buonristorio del fu Burnacchio di Rustichino da Ciciano” compare come venditore di un terreno lavorativo presso Miranduolo. Ancora nel XIV secolo risulta privo di chiesa parrocchiale, eretta solo in seguito dai Chiusdinesi, che ne conservano a lungo il giuspatronato. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 346t: 18 marzo 1229: “Actum in Ciliano”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 25: 26 maggio 1229: “Actum in villa di Ciciano”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 15 luglio 1255: “Buonristoro del fu Burnacchio di Rustichino da Ciciano vende ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone che compra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo un terreno lavorativo presso Miranduolo in località Chiasso del Miranduolo”. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1229-età contemporanea. Bibliografia – Targioni Tozzetti, 1778-1779, IV, p. 44; Repetti, 1841, I, p. 731. (44) Località San Galgano (Q.120 III-4779/674) 301 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: non definibile. Descrizione unità topografica – Segnalazione del rinvenimento di un’industria litica di periodo musteriano: non vengono forniti dati georefenziali utili a una sua esatta localizzazione. Interpretazione – Industria litica. Cronologia – Paleolitico medio (cultura musteriana). Bibliografia – ASAT, p. 314. (45) Casa Ferriera (Q.120 I-4785/680) 210 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; vegetazione stabile. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Terreno pianeggiante di forma allungata, ricoperto da una fitta vegetazione boschiva. Confina a ovest con il corso del Merse e a est dal Poggio Ragnaia. Il sito è raggiungibile attraverso un sentiero che costeggia la riva sinistra del fiume, partendo da Brenna. A circa 50 m dal fiume è presente un podere, ora abbandonato, quasi totalmente nascosto dalla vegetazione. Notizie storiche – Corrisponde alla ferriera denominata di “Capo Strarchi” o “di Brenna”, di proprietà dei Saracini. L’attività della struttura è attestata a partire dalla fine del XVI secolo ma è retrodatabile, con ottima probabilità, alla prima metà del XV secolo: in questo periodo, infatti, si ha notizia di un commercio di partite di ferro provenienti da un impianto, posto a Brenna, identificabile con quello in oggetto. Attestazioni documentarie ASS, AVG, t. 69, fasc. 13: 6 aprile 1600: la moglie e gli eredi di Sallustio Saracini danno in affitto ad Alessandro Scaramucci e Astilio Vannini, entrambi fabbri di Siena, “uno edifitio da far ferro detto la ferriera di Campo Starchi in corte di Castiglion Balzetti et il distendino continuo al detto edifitio, la stalla, carbonili et ancho la casa et capanna che è solito servire per tale Edifitio a Brenna per anni tre [...]. Item li detti affittuari dover pagare tutte le masseritie che sono necessarie a detta ferriera cioè li ferramenti a peso di stadera et gli altri salvo che le ruote, albori, ciocchi, mantici et altri legniami et questi s’intendino pigliarli e rendergli lavoranti e no altrimenti la stima [...]. Item le dette Rede et sua tutrice sieno obbligati mantenere muraglie tetti e finestre [...]. Item le dette Rede sieno obblighati mantenere l’acqua al detto defizio talmente che possa lavorare del lor proprio senza pregiudizio di detti affittuari et lor possin lavorare”. ASS, AVG, t. 69, fasc. 3: 19 novembre 1610: Enea Saracini dà in affitto a Giovanta di Salustio Saracini la sua parte della ferriera di Campo Starchi per tre anni. ASS, AVG, t. 69, fasc. 13: 15 giugno 1612: la ferriera di Campo Starchi è presa in affitto da Ascanio Venturi che, alle stesse condizioni contrattuali, subentra a Giovanta di Salustio Saracini. Descrizione unità topografica – A ovest del moderno podere, emergono, in alcuni tratti di murature (conservate in elevato per un’altezza massima di circa 1,5 m) i resti consistenti di una struttura destinata alla lavorazione del ferro (obliterata da una costruzione più recente). Si tratta della parete a est, realizzata con pietre di varie dimensioni (solo in parte squadrate) messe in opera in modo molto irregolare: al centro del muro è ben conservata un’apertura ad arco con ghiera in laterizi, attualmente tamponata, probabilmente identificabile con la bocca del forno sulla base delle tracce di arrostitura ancora visibili sui laterizi dell’arco. Rimangono inoltre tratti degli angoli nord e sud e dell’altra parete, costruita con grosse pietre squadrate (forse in parte di riutilizzo) e un’apparecchiatura molto irregolare: su questo tratto sono poste due piccole aperture passanti, foderate in laterizio, con funzione non ipotizzabile. Un piccolo saggio di scavo (limitato alla ripulitura dell’humus) effettuato nell’area antistante la bocca del forno ha restituito frammenti di ceramica seicentesca, una grande quantità di carbone e concrezioni con inclusioni ferrose forse provenienti dalle pareti interne del forno. Un grande accumulo di scorie ferrose (larghezza 15 m circa), individuato circa 40 m a nord-ovest dell’edificio, ha permesso di effettuare analisi di laboratorio sui residui di lavorazione, arrivando a stabilire che all’interno dell’opificio avveniva la riduzione e la forgiatura di ematite. Lungo il sentiero che costeggia il fiume Merse rimangono alcuni tratti di un canale artificiale, forse identificabile con la vecchia gora; a circa 500 m a sud della struttura si trova uno sbarramento del fiume posto a formare un bacino abbastanza ampio che conserva memoria del punto di sbarramento delle acque, in fase con l’attività della ferriera. Interpretazione – Opificio per la riduzione e forgiatura del ferro. Cronologia – Inizi XV secolo-(?). Bibliografia – Cortese, 1997, pp. 245-247. (46) Mulino delle Pile (Q.120 III-4778/670) 328 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; vegetazione stabile. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Area pianeggiante delimitata a nord, est e nord-ovest dall’ansa del Merse, antistante il Poggio della Badia e a sud-ovest dalla strada per Luriano. Notizie storiche – Le prime notizie riferibili a questa struttura risalgono alla seconda metà del XVI secolo. In questo periodo il mulino appartiene alla comunità di Chiusdino, poi, probabilmente, viene ceduto ai monaci Vallombrosani: è infatti rappresentato in una pianta, redatta nel 1580 (ASS, Quattro Conservatori, Piante 205), raffigurante alcune proprietà, prossime al fiume Merse, forse devolute dalla comunità di Chiusdino all’abbazia di Serena al momento dell’arrivo dei Vallombrosani nella zona. Nel documento, compare in primo piano un mulino (indubbiamente identificabile con la struttura in oggetto) a corpo rettangolare allungato, con torre, gora di alimentazione e chiusa con saracinesca nei pressi del punto di presa dell’acqua. L’impianto è rimasto attivo fino al XX secolo: secondo i dati della Carta Idrografica del 1893, vi era ubicata anche una gualchiera. Attestazioni documentarie Gherardini, Ms. D.86, p. 107: 1676: “Molino della comunità: serve questo fiume (Merse) a tenere andante un Molino della Comunità oggi dato a linea a Michel Angelo Perrini per mog. 5 di grano et a tutte sue spese del mantenimento della steccaia posta in mezzo al fiume e costata di gran denaro della Comunità, e questo è stato il motivo dell’allinearlo. Serve questo molino non solamente per il bisogno di tutto il paese, ma ancora a molte terre, e castelli, che ne hanno bisogno quando l’estate va asciutta. Vi era di già poco lontano dal mulino un Ponte di sassi molti anni fa caduto né mai rifatto vedendone solo le vestigia”. Descrizione unità topografica – La tipologia architettonica della struttura è riferibile all’epoca medievale. L’edificio è stato comunque sottoposto in tempi recenti a pesanti rimaneggiamenti che ne hanno quasi totalmente stravolto l’originario impianto: acquistato dalla Barilla, è stato trasformato nel “Mulino Bianco” previsto dagli spot pubblicitari, con conseguente aggiunta di corpi di nuova costruzione (collocata ad hoc nel lato est la falsa ruota verticale in legno) e totale rivestimento con pannelli bianchi a simularne la copertura a intonaco. In tempi recenti, dopo l’interruzione della campagna pubblicitaria, è stato nuovamente rimaneggiato con opere di restauro tese a ripristinare e a valorizzarne l’antica struttura. Attualmente è sede di un agriturismo di élite ed è accessibile ai soli clienti. Si tratta di un mulino a ruote orizzontali. In adiacenza al ponte sul Merse nella strada per Luriano, si rintracciano resti della steccaia in cinque grossi pali in legno presso la sponda destra e due presso la sinistra infissi nell’alveo del fiume. Il canale di alimentazione è costituito da una gora a cielo aperto parzialmente colmata nel suo percorso e corre con andamento rettilineo lungo la strada di accesso al mulino. Interpretazione – Mulino da grano e gualchiera. Cronologia – XVI-XX secolo. È possibile anche proporre una retrodatazione della struttura: senza pretese di veridicità sulla base di indicazioni topografiche generiche, possiamo proporne infatti l’identificazione con uno dei mulini di proprietà dell’abbazia di Serena citati in un atto di cessione al monastero di San Galgano datato all’8 gennaio 1220 riguardante la metà delle terre “citra e ultra Mersam ubi constructa fuerunt molendina quondam Guaschi et construenda et rehedificanda sunt”. Bibliografia – Cortese, 1997, pp. 251-252. (47) Località San Galgano (Q.120 III-4779/675) 301 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; vegetazione stabile. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Piccola porzione di terreno pianeggiante, coperto da bosco; è delimitato sui lati nord ed est da un campo incolto e sul lato sud da un fosso quasi asciutto che scorre verso il fiume Merse in direzione ovest/est. Dista circa 750 m dall’abbazia di San Galgano. Descrizione unità topografica – Grandi ammassi di carbone misto a frammenti di minerale e scorie posti a occupare uno spazio complessivo di 50350 m circa. La concentrazione maggiore consiste in un cumulo alto circa 3 m posto al centro dell’area. Su tutta l’estensione, si raccolgono poche pietre e una notevole quantità di laterizi, per lo più con tracce di arrostitura. Al margine orientale dell’emergenza di reperti mobili in superficie, è presente un fossato artificiale che corre in direzione nord/sud, privo di acqua e quasi del tutto colmato da scorie nel suo angolo nordoccidentale. Interpretazione – Opificio ad alimentazione idraulica per la riduzione di ematite, probabilmente di proprietà dei monaci di San Galgano. Una notizia del 1278 informa, infatti, dell’acquisto da parte del monastero della diciottesima parte di due mulini, una gualchiera e una ferriera sul fiume Merse; nel 1369, poi, i religiosi concedono in affitto ad alcuni membri degli Azzoni (famiglia impegnata nella gestione degli impianti di Monticiano) due ferriere, sempre sul Merse (ASS, AVG, t. 102, p. 371). Inoltre Targioni Tozzetti (Targioni Tozzetti, 1786-1779, IV, p. 30) riporta che il Trattato legale de Mineralibus di Giovanni Guidi Seniori si scrive “consuluit Fed. de Senis in Consilio 207 pro Fratibus S. Galgani, qui venam ferri trahebant insula Ilvae, et illam eorum artificiis redigebant in ferrum purum, quod licite facerent, et non dicerentur negotiari et no tenerentur ad solutionem gabellae.” Cronologia – XIII-XIV secolo. Si segnala un parziale sfruttamento della zona nel XX secolo. Nel 1952 infatti il deposito di scorie viene parzialmente asportato per essere rifuso, come informa l’istanza di concessione per l’asportazione delle scorie di ferro contenuta in Corpo Minerario di Grosseto, 47-213, 888. Bibliografia – Borracelli, 1996; Cortese, 1997, pp. 249-251; CuciniPaolucci, 1985, p. 448; Enlart, 1891, pp. 230-231; Targioni Tozzetti, 1786-1779, IV, p. 30. (48) Località Podere Padule (Q.120 III-4780/671) 345 m s.l.m.; versante poggio; argille; torrente Gallessa; area edificata; emergenze monumentali assenti. Notizie storiche – La chiesa di Santa Maria di Padule, di proprietà dei Della Gherardesca, compare nell’elenco delle donazioni in favore dell’abbazia di Serena nel 1004. Nelle Rationes Decimarum del 1302-1303 è inserita nel piviere di Chiusdino. Nel Sinodo Belforti del 1356 viene citata la chiesa di Sant’Andrea di Padule; non conosciamo il motivo del cambio di intitolazione, sembra comunque improbabile la presenza di due chiese distinte. Non abbiamo notizie utili a sostenere l’esistenza di un nucleo insediativo corrispondente all’edificio religioso. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa, 1004: “ecclesia sancte Marie de Padule medietatem cum curte”. Descrizione unità topografica – La località citata dalle fonti come “Padule” è certamente da identificare con il Podere Padule, posto a breve distanza dai nuclei incastellati di Serena e Miranduolo e dalla stessa abbazia di Santa Maria di Serena. Interpretazione – Chiesa. Cronologia – Anno 1004-anno1356. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1993, p. 48; Giachi, 1786, p. 584; Muratori, 1745, III, p. 1067; RDI,II, p. 219; Repetti, 1833-1843, IV, p. 7. (49) Località Campora (Q.120 III-4778/674) 298 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; uso del suolo; seminativo e pascolo. Descrizione sito – Ampia porzione pianeggiante posta a cavallo del confine fra i comuni di Chiusdino e Monticiano, rappresentato in quel punto dal tratto mediano del Merse. Notizie storiche – La località è attestata dalle fonti a partire dagli inizi del XIII secolo per la presenza di alcune strutture molitorie. Nel 1216 il vescovo di Volterra, Pagano Pannocchieschi, con autorizzazione papale, concede all’abbazia di San Galgano i diritti su questi mulini e sui loro annessi; nel 1218 un altro contratto di vendita di terreni, dichiara i mulini di proprietà monastica. Dalla prima metà del XIII secolo, dunque, i religiosi vengono progressivamente allargando il controllo su queste strutture, anche a danno della pieve di Luriano, che vi vantava inizialmente diritti; nel 1221 il conte Bonifazio di Civitella elargisce all’ente plebano i suoi diritti sulle decime e nel 1223 acquisisce ulteriori percentuali dei mulini. La località viene sfruttata dai monaci cistercensi anche a scopo agricolo, almeno a partire dal 1273, data del primo contratto relativo a terre poste in “loco dicto Campora”. Nella Tavola delle Possessioni del 1318 risulta far parte della corte di Luriano: viene attestato un mulino di proprietà di non residenti. Gli opifici sono attestati fino a tutto il XVI secolo; in questa data infatti si ricorda la proprietà della “metà di un mulino guasto” da parte della famiglia Venturi (ASS, AVG, t. 40, fasc. 4). Attestazioni documentarie ASS, KSG I, c. 360: 21 febbraio 1209: Ranieri di Cielo, Raganella e Bernardino di Ugolino e Bonifazio di Guido vendono a Burgundione di Dono di Luriano “quattuor molendina et unam gualcheriam posita in curte et distictu Luriani que sic decernuntur: ex uno latere et desubtus labit fluvius Merse, de super via, ex alio latere planum de Campore [...] cum goris et casis et steccariis et terris et ad hedificatione et rehedificazione. ASS, Spoglio Conventi 162, cc. 129-130: 30 giugno 1216: donazione di Pagano Pannocchieschi, si veda scheda di Monte Siepi (sito 32). ASS, Spoglio Conventi 162, c. 130-130t: 30 giugno 1216: Pagano concede all’abate di San Galgano di poter fare acquedotti per condurre acqua ai mulini di Campora e in qualunque altro mulino del Vescovato. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 318: 30 novembre 1218: vendita al monastero di San Galgano di terre “positas in Campora super quas est gora cum steccaria quattuor molendinorum et unius gualchiere dicti monasterii”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 419t-420: agosto 1220: vendita di terra posta a capo della steccaia del molino di Campora. ASS, KSG I, cc. 359t-360: 11 novembre 1221: Bonifazio di Guido di Civitella in proprio e in nome del fratello Bernardino dona a Renaldo monaco e procuratore del monastero di San Galgano “totum ius decimarum de dictis molendinis(de Campora) michi concessum a donno plebano de Lugriano”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 345t-346: 1 giugno 1223: vendita al monastero di San Galgano della parte spettante di un mulino posto in piano di Campora. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 301-301t: 1 maggio 1273: “loco dicto Campora, in corte di Lugriano” cfr. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 301t302: 20 dicembre 1277. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 348-348t: 14 giugno 1296: vendita fra privati di terre “in corte di Luriano, loco dicto Campora”. Altri documenti: ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 379, 380, 380t, 381, 381t: 14 gennaio 1273; 17 gennaio 1273; 18 gennaio 1273. ASS, Estimo 118, cc. 292, 292v, 297v, 298: Proprietà del monastero di San Galgano in “loco dicto Campora in corte di Lugriano”. Interpretazione – Area di sfruttamento agricolo caratterizzata dalla presenza di strutture molitorie da grano. Cronologia – Inizi XIII-XVI secolo (?). Bibliografia – Canestrelli, 1993, p. 3; Cortese, 1997, p. 299. (50) Località Mocini (Q.120 III-4780/666) 593 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche; fosso Trisondola; emergenze monumentali assenti. Notizie Storiche – Nel 996 Willa, della futura famiglia dei Della Gherardesca, dona alla cattedrale di Volterra otto “casis et cassinis” fra cui una “casa et res massaricie a Mucina”. Attestazioni documentarie RV, n. 85, p. 31: 9 febbraio 996: ”Uuilla mulier Gherardi et filia b. m. Berardi consenziente viro, ubi interesse videtur notitia ad Johannes iudex inp. Interrogata sequenter edicti pagina, cum viro pro remedio anime nostre offero domo s. Marie fra mura civitatem Volot. in potestatem de canonica s. Ottabiani, que infra episcopio in corpore requiessci, octo inter casis et cassinis seu integris sortibus infra comitato et territurio Volot. in loco ubi nuncupantes [...]; casa et res mass. a Mucina”. Interpretazione – Unità agricola. Cronologia – X secolo d.C. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1982, p. 14; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 55-56; RV, pp. 31-32. (51) La Pieve (Q.120 III-4775/672) 476 m s.l.m.; versante collinare; conglomerati poligenici; torrente Seggi; area edificata. Descrizione sito – Località posta immediatamente a nord-ovest di Luriano, lungo la strada a sterro che si diparte dalla S.S. Massetana all’altezza del Mulino delle Pile. Notizie storiche – L’esistenza di una pieve intitolata a Santa Maria è documentata nel 1171 da un privilegio pontificio di Alessandro III a favore dei vescovi di Volterra. Ricordata ancora alla metà del XIII secolo come plebes Santa Maria de Lugriano, il suo titolo sarà successivamente modificato in quello di San Giovanni Battista. Officiata per tutto il XIX secolo, fu poi sconsacrata e trasformata in podere insieme all’adiacente canonica. Descrizione unità topografica – Dell’originaria pieve sono oggi visibili solo il prospetto di facciata, a ovest, e il prospetto est. Inglobata nelle strutture del podere di epoca recente (XVIII-XIX secolo), presenta in particolare il fianco sinistro coperto dagli annessi della struttura a conduzione poderale (la stalla, oggi trasformata in abitazione); al lato destro invece sono addossati i corpi di fabbrica formanti l’antica canonica. La pieve mostra nel prospetto di facciata tracce dell’originaria struttura romanica con un paramento murario, realizzato in filaretto, in conci di calcare ben squadrati disposti su filari orizzontali e paralleli; parzialmente nascosta da un rivestimento a intonaco, la muratura conserva le tracce delle trasformazioni subite dalla struttura quando, nel XIX secolo, fu rialzata e trasformata, insieme alla canonica, nell’abitazione del podere. Al posto dell’originario portale di ingresso, del quale è oggi visibile solo parte dell’archivolto a sesto acuto, fu aperta una porta di dimensioni minori e, al di sopra, una finestra. La chiesa, una semplice aula rettangolare priva di terminazione absidale, mostra nel prospetto est, la presenza di due fasi costruttive principali: a una muratura in pietra, nella fase inferiore, segue un rialzamento in mattoni e pietre, di epoca imprecisata, sormontato dal campanile. La parte inferiore del prospetto presenta una muratura in conci di calcare posti su filari sub-orizzontali e paralleli; in questo punto la parete, rinforzata da basi a scarpa laterali, ha come unica apertura originale una stretta monofora fortemente strombata, forse tamponata internamente da una muratura più tarda. Interpretazione – Pieve. Cronologia – Anno1171-età contemporanea. Bibliografia – Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Kehr, 1906, n. 9; Repetti, 1833-1843, II, p. 953. (52) Località Castelluccio (Q.120 III-4777/69) 347 m s.l.m.; lieve pendio; depositi alluvionali; fosso Gallosa; pascolo. Descrizione sito – Il toponimo, non più riportato nella cartografia attuale, compare nel Catasto Leopoldino del 1820 a indicare una località posta sulle pendici del versante della Costa Castagnoli, a una distanza di circa 250 m dal corso del fiume Merse. Notizie storiche – Targioni Tozzetti cita Castelluccio, insieme a Sambra, nell’elenco dei castelli distrutti compresi nell’attuale territorio comunale di Chiusdino. Le fonti non riportano alcuna notizia in merito all’esistenza di questo insediamento. Descrizione unità topografica – Fonti orali ricordano il rinvenimento nel campo, indicato appunto con il nome di Castelluccio, di “terracotte, ossa umane, grosse pietre squadrate”. Nel corso della nostra indagine, non è stato possibile verificare la notizia in quanto il sito è adibito stabilmente a pascolo. La battitura del campo adiacente ha permesso di individuare una struttura tipo ferriera (corrispondente al sito 41 di questo schedario) relazionabile alla fase di attività del castello di Miranduolo. È probabile che l’errore di Targioni Tozzetti sia originato proprio dal toponimo; in realtà secondo quanto abbiamo esposto in merito al sito 41 con il termine Castelluccio doveva identificarsi un’area di stretto controllo signorile. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Bertini, 1972-1973, p. 257; Targioni Tozzetti, 1779?1786, IV, p. 24. (53) Località Podere La Ripa (Q.120 IV-4785/674) 320 m s.l.m.; versante collinare; argille argille sabbiose; fosso della Badia; area edificata. Descrizione sito – È raggiungibile dalla strada a sterro che si diparte, immediatamente a valle di Frosini, in direzione del Podere La Ripa. Oltrepassato il cimitero, poche centinaia di metri prima di giungere al podere, sulla destra della strada è visibile il rudere. Descrizione unità topografica – L’edificio, allo stato di rudere, è orientato parallelamente alla limitrofa strada a sterro; di limitate dimensioni (9,4315 m ca.) si presenta composto da un unico ambiente, a pianta rettangolare, delimitato da muri portanti di spessore notevole (1,5 m ca.). Il lato est, l’unico che conserva un alzato di circa mezzo metro, presenta il paramento murario esterno formato da conci di calcare ben squadrati, di medio-grandi dimensioni, disposti su filari orizzontali e paralleli. All’interno e all’esterno della struttura sono visibili livelli di crollo formati da materiale lapideo di varie dimensioni e rari laterizi. La struttura, difficilmente interpretabile, è databile, grazie al paramento murario in filaretto conservatosi, ai secoli centrali del Medioevo. Interpretazione – Emergenza monumentale. Cronologia – XI-XII secolo. Rinvenimento inedito (54) Podere Greppoli (Q.120 III-4778/672) 347 m s.l.m.; pendio; depositi alluvionali; fiume Merse; area edificata; emergenze monumentali assenti. Descrizione sito – Podere posto a circa 500 m da Palazzetto lungo la strada provinciale per Prata. Notizie storiche – La frequentazione della località, compresa nella corte di Chiusdino, è attestata a partire dalla prima metà del XIII secolo; l’esistenza di un nucleo abitato, di consistenza indefinibile, è deducibile dalla citazione di un tale “Duccio del fu Monaldo da Greppoli”, in uno degli atti di vendita relativi al castello di Miranduolo (1337). Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 252: 6 maggio 1229: atto di vendita stipulato “in loco dicto Greppole, in curte di Chiusdino”. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 17 gennaio 1337: “Duccio del fu Monaldo da Greppini vende a Date del fu Cosimo, Nerio del fu Cecco da Montieri, sindaci e procuratori del Comune di Montieri, una diciottesima parte del podere di Miranduolo”. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – XIII-XIV secolo. (55) San Pietro in Vallicelloli (Q.120 III-4778/673) 341 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; area edificata; emergenze monumentali assenti. Descrizione sito – L’identificazione con il piccolo agglomerato rurale di Case San Pietro, vicino a Palazzetto, viene confermata dalla specificazione contenuta in un contratto datato al 1257, che ubica il sito in “Valle Serena”; l’attuale edificio è infatti compreso nell’area pianeggiante, definita dal corso mediano de Merse, sul quale domina il Poggio della Badia (sede appunto del castello di Serena). Nel Catasto Leopoldino del 1820 compare menzionato con il toponimo (attualmente ancora nell’uso popolare) di “Santo Pietro”. Notizie storiche – L’esistenza del villaggio, compreso nella corte di Chiusdino, è attestata con certezza a partire dal 1283, quando il toponimo viene specificato con la definizione di villa. La costituzione del nucleo insediativo va comunque probabilmente retrodatata almeno alla metà del XIII secolo; nel 1252 viene infatti attestata per la prima volta la chiesa di San Pietro a Cellole e allo stesso decennio, rimandano alcuni contratti di vendita in favore del monastero di San Galgano relativi a terre poste in “loco dicto San Pietro”. La chiesa viene ricordata ancora nelle Rationes Decimarum del 1302-1303: nel Sinodo Belforti, datato al 1356, compare fra le chiese dipendenti dalla pieve di Chiusdino. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 215t-216: 19 luglio 1253: vendita di vigna “in loco dicto San Pietro, in corte di Chiusdino”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 387-388: 2 febbraio 1257: vendita al monastero di San Galgano di terre in corte di Chiusdino “loco dicto San Pietro di Valle Serena”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 386-387t: 30 settembre 1283: privati cedono al monastero di San Galgano beni posseduti nella villa di San Pietro, distretto di Chiusdino. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 421t: 12 settembre 1229: vendita di terre in Val di Cellole. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 354-354t: 22 aprile 1252: atto di vendita stipulato nella chiesa di Val di Cellole. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 419-419t: 6 novembre 1264: Rettore della chiesa di San Pietro a Cellole vende con il consenso del pievano di detta chiesa al monaco di San Galgano terre poste a Cellole. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – XIII-XIV secolo. Bibliografia – Canestrelli, 1993, pp. 26-27; Giachi, 1786, p. 584; RDI, II, p. 218. (56) Podere Ticchiano (Q.120 III-4781/675) 306 m s.l.m.; sommità poggio; argille; fiume Merse; area edificata; emergenze monumentali assenti. Notizie storiche – Risale al 1143 la prima menzione del “loco dicto Teclano”, citato in un contratto di vendita di terre al monaco Martino dell’abbazia di Serena, ente religioso che possiede, per tutto il XII secolo, ingenti quote patrimoniali della zona. A partire dagli inizi del XIII secolo il monastero di San Galgano si sostituisce a Serena, attraverso una progressiva acquisizione dei terreni, nella gestione economica di tali spazi. Almeno a partire dal 1152 viene attestata la chiesa di San Giorgio a Ticchiano che fu annessa, insieme con la chiesa di Bossolino, alle proprietà dell’abbazia di Serena per decisione di papa Eugenio III. Sicuramente, nel 1231 il processo di espansione di San Galgano culmina nella costituzione di una grangia. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 81: agosto 1143: Alberto di Benetoso vende a Martino, prete e monaco e suoi confratelli della chiesa di Santa Maria Benedetto alcuni beni che aveva “in loco dicto Teclano” o in Meletolo e Arenario tra la Merse e la Feccia. “Actum in loco dicto Serena”. Ordina, inoltre, che qualora a cagione di tale vendita la propria moglie o il nipote molestasse detto compratore vuole che tutti i beni che aveva a Papena e nella corte di Frosini pervengano a detto convento. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 184-184t: 1149: Privati donano a Santa Maria di Serena terre a Tecchiano e Montescibio. Fatto presso la pieve di Sursciano. Canestrelli, p. 107: 1201: Donazione Ildebrando Pannocchieschi a Monte Siepi “et damus eis terras nostre jurisdictionis sibi perpetuo possidendas inter refinos istos positas, vidilicet, in Papena, et in Lupinare, et in Ticchiano”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 94: maggio 1214: vendita di 6 porzioni di terra, due delle quali poste sotto la chiesa di Ticchiano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 452-452t: 14 marzo 1220: il monastero di San Galgano acquista da privato metà podere a Ticchiano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 394-394t: 18 agosto 1231: atto di vendita stipulato nella “grangia” di Ticchiano. Descrizione unità topografica – Il nucleo, attualmente in stato di abbandono, è composto da tre edifici principali più i relativi annessi. È attraversato da una strada vicinale che lo collega con il vicino Podere Costarzena (sito 138). L’edificio principale, la fattoria, alloggiava al piano terreno le stalle, mentre al piano superiore vi risiedevano due famiglie. Il fienile è posto sul retro del complesso rurale, il forno nei pressi della fattoria. L’intero nucleo abitativo, difficilmente databile, ha oggi l’aspetto delle strutture a conduzione poderale di epoca moderna (con annessi adibiti all’alloggio dei materiali e magazzini per le macchine agricole). Non restano tracce riconducibili alla grangia di epoca medievale. Interpretazione – Loco dicto, chiesa, poi grangia. Cronologia – XII–XIII secolo. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992, pp. 56-57; Canestrelli, 1993, p. 35. (57) Località Casa Sala (Q.120 III-4779/669) 470 m s.l.m.; versante collinare; conglomerati poligenici; fosso Frella; seminativo. Descrizione sito – È raggiungibile dalla strada a sterro che si diparte a sinistra di Casa Sala; dopo pochi metri, un bivio a sinistra porta alla sommità di un piccolo poggio occupato da annessi adibiti a uso agricolo. Confina a sud-ovest con il sito 162. Descrizione unità topografica – Sono visibili i resti di due strutture in muratura che, disposte ad angolo retto, sembrano delimitare, a sud-ovest, ciò che resta di un edificio ormai completamente scomparso. Formate da bozze di calcare compatto disposte su filari orizzontali e paralleli, presentano a vista parte del paramento murario esterno (con un alzato di circa 1,5 m), lesionato in più punti e con la muratura del sacco interno a vista. Difficilmente interpretabili, sono databili, in base alla tecnica muraria individuata, al XIII-XIV secolo. A est, a pochi metri di distanza, si conserva un altro muro; costruito con una muratura mista in ciottoli di fiume e mattoni, è genericamente databile a un periodo posteriore l’epoca medievale. Interpretazione – Emergenza monumentale. Cronologia – Generica età medievale. Rinvenimento inedito (58) Luriano (Q.120 III-4775/673) 538 m s.l.m; sommità poggio; conglomerati poligenici; fosso Grande; area edificata. Descrizione sito – Piccolo poggio definito da una depressione sul versante del rilievo della Castellaccia; è antistante la sommità di quest’ultimo e domina verso sud-est la valle che decresce in prossimità del corso del fiume Merse. L’anomalia è stata segnalata durante la lettura dei voli regionali effettuata da Marcello Cosci (si veda scheda n. 149 dell’archivio consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena). Notizie storiche – Al 1171 risale la prima citazione della pieve di Santa Maria di Luriano: non si fa menzione dell’esistenza del castello che compare solo nel 1230 nell’elenco delle fortezze distrutte dall’esercito del Comune di San Gimignano durante le azioni di guerra rivolte al vescovo volterrano; pur non sapendo nulla riguardo alla fondazione, possiamo verosimilmente desumere che si trovasse sotto il dominio vescovile. Non sappiamo quando e come diventi proprietà dei conti Ardengheschi (ramo degli Aldobrandeschi), che ne detengono il controllo fino al 1317; in questa data avviene la cessione di tutti i loro diritti sul castello e corte di Luriano al Comune di Siena. Quest’atto rappresenta in qualche modo il momento finale del progressivo espandersi della città in questa zona, attestato sin dai primi decenni del XIII secolo: nel patto di alleanza con i conti Aldobrandeschi, infatti, la comunità di Luriano compare fra quelle vincolate al pagamento di tributi al Comune senese. Segue nel 1259 la cessione da parte dei signori di Torniella di tutte le loro proprietà nella corte del castello, sempre a beneficio della città. All’epoca della stesura della Tavola delle Possessioni, la struttura e il territorio pertinente risultano frazionati in proprietà di alcune famiglie, tra le quali prevale quella senese degli Incontri (gli altri proprietari sono Tollo di Giovanni da Monticiano e Salamone da Sassoforte) e, in misura più limitata, di enti ecclesiastici: scarsi i possedimenti del convento dei frati Agostiniani di Siena e strettamente rivolto al controllo dei mulini di Campora la presenza del monastero di San Galgano. Ancora dalla Tavola delle Possessioni sappiamo che all’interno del “borgo di Luriano” sono attestate otto case (delle quali una figura essere di proprietà di non residenti) e cinque casalini dei quali solo quattro sono proprietà di residenti; nel “castrum di Loriano” invece sono censite 11 case e 26 casalini, tutti di proprietà di residenti. Il processo di integrazione della comunità nell’amministrazione ordinaria del contado della città di Siena culmina nel 1438 con il passaggio a comune del contado. Nel corso del XV secolo l’insediamento decade, come dimostra la consistente cifra del debito con la città senese ricordata nell’elenco delle tassazioni del 1436 (Lugriano e Fulguri risultano avere un debito di 611 lire 13 soldi). La corte di Luriano si estende nella porzione sudorientale del comune di Chiusdino; è delimitata a nord e a ovest dal corso del Merse e doveva occupare buona parte dell’attuale comune di Monticiano e forse anche di quello di Roccastrada. Il paesaggio agricolo dell’area doveva essere molto più articolato e antropizzato rispetto a oggi; ne è prova la perdita della maggior parte dei toponimi contenuti nella Tavola delle Possessioni che rendono impossibile la ricostruzione dell’assetto territoriale trecentesco nella zona circostante l’agglomerato. La chiesa plebana, intitolata a San Giovanni Battista (San Gianbattista), nel XIV secolo aveva filiali fra cui compare anche la canonica di Monticiano. Attestazioni documentarie CV, n. 172, pp. 251-257: 2 ottobre 1221: I Senesi garantiscono aiuto ai conti Aldobrandeschi in qualsiasi azione di guerra eccetto quelle rivolte a “omnes terras et homines qui usque nunc sunt suppositi vel tenentur ad dandum tributum vel redditos comuni Senensi, videlicet civitatem Clusinam, Monte Latronem, Montem Pinzutum, Potentinum, Lugrianum et terras abbatie Sancti Antimi et Vicum”. RV, n. 472, p. 167: 24 gennaio 1230: “Petitiones Iacobi, procuratoris ep. et capituli Vult. contra potestatem et comune Sancti Geminiani. Pot. et comune S. Gem. cum arcais episcopum Vult. in castro Gambassi veteris obsiderunt, lapidibus, sagittis, igne, machinis leserunt; petit eos dampnari quattuor milibus marc. arg. et excommunicatos denuntiat.[...]. Petit satisfacionem dampnorum, incendiorum, rapinarum in curia castri [...]. Pro destructis castris [...] Luriani”. CV, n. 620: “Ego Ranerius quondam domini Ranerii de Torniella [...] remitto vobis domino Francisco Dei gratia Senensi potestati, recipienti pro comuni Senensis [...]. Et promitto non hedificare, vel hedificari facere vel permittere hedificari, aliquid in castro Tornielle, et non facere aliquam fortilitiam in curia et districtu de Tornielle nec in Lucriano vel eius curia”. ASS, Estimo 102, cc. 147v, 148, 200, 200v, 202v: Proprietà della famiglia Incontri poste “in burgho castri de Lugriano”, consistenti in alcuni terreni boschivi e coltivati e alcune strutture (“domus” 3; “casalini” 1). ASS, Estimo 109, cc. 1, 2v: Proprietà del convento dei frati Agostiniani di Siena conistenti in tre piccole porzioni di terreno “laborative positum in burgho Lugriane”. Descrizione unità topografica – Non rimangono tracce dell’originaria struttura castrense. Profondamente rimaneggiata e ampliata, attualmente ha l’aspetto di una villa-fortilizio, come denota il basamento a scarpa conservatosi nelle murature del lato a valle. Il complesso architettonico presenta un’impostazione plano-volumetrica articolata su tre volumi principali: a un corpo centrale, a pianta rettangolare, sono stati addossati due edifici laterali, aggettanti. La parte centrale del complesso, dunque, è la più antica; fortemente rimaneggiata, presentava in origine un’altezza maggiore rispetto a quella attuale, come dimostra l’odierna copertura che occulta in parte le aperture superiori del prospetto est. È questa la parte dell’edificio che più conserva i caratteri della residenza due-trecentesca, con una muratura in ciottoli e pietre spaccate di calcare impostate su filari orizzontali.Le uniche due aperture riconducibili a questa fase, monofore con arco a tutto sesto formato da cunei ben lavorati di arenaria, si trovano nella parte superiore del prospetto est. La villa-fortilizio, dotata probabilmente di poche aperture in questo periodo, tra XVI e XVII secolo fu oggetto di restauri e trasformazioni che videro, tra gli altri, l’apertura di una serie di finestre che, poste a intervalli regolari, conferiscono aspetto unitario all’edificio. A questo periodo va probabilmente riferita la costruzione del corpo laterale situato a nord; il portale d’ingresso, di fattura rinascimentale, è sormontato da due stemmi in marmo bianco, con le insegne della famiglia Chigi, proprietari del castello fin dal XVII secolo. Il corpo aggiunto a sud, invece, di epoca tarda, presenta una muratura in ciottoli di fiume e laterizi spezzati, spesso di riutilizzo, o scarti di lavorazione, come ad esempio mattoni semifusi. Ai piedi della struttura e lungo la strada di accesso, alcuni edifici formano un piccolo borgo. Le caratteristiche edilizie del nucleo rurale, come l’espansione volumetrica in orizzontale dovuta ad aggiunte, in tempi diversi e senza un preciso ordine costruttivo, di annessi rurali, non rende possibile l’individuazione di eventuali parti databili all’epoca medievale. Interpretazione – Castello. Cronologia – Inizi XII-XV secolo. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, p. 61; Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 157; Bowsky, 1970, p. 40; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Canestrelli, 1993, p. 27; Cappelletti, 1844-1870, XVIII, p. 211; Ciacci, 1980, II, 42; CV nn. 172, 620; Giorgi, 1994, p. 259; Kehr, 1906, n. 9; Pecci, pp.288-289; Redon, 1975, p. 131; Repetti, 1833-1843, II, p. 953; RV, n. 472, 673n; Verdiani-Bandi, 1926, p. 153. (59) Località Ciglierese (Q.120 III-4779/673) 327 m s.l.m.; versante poggio; depositi alluvionali; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Piccola porzione di seminativo, ritagliata all’interno di un campo di grandi dimensioni attualmente lasciato a pascolo; confina a ovest con un’area boschiva allungata verso la strada provinciale in prossimità della curva prima di Palazzetto. Descrizione unità topografica – Piccola concentrazione di grumi di argilla concotta, dimensioni 233 m, riconoscibile a circa metà del lato lungo del campo confinante con il bosco; del tutto assente il materiale ceramico. Presenza, media per mq – Due reperti. Interpretazione – Capanna. Cronologia – Dubbia; l’assenza di elementi datanti impedisce di proporre datazioni. Rinvenimento inedito (60) Località Ciglierese (Q.120 III – 4779/673) 327 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Porzione di seminativo di grandi dimensioni, pianeggiante con una leggera pendenza in direzione sud-est; confina a nord e nord-ovest con il bosco e sugli altri lati con campi lasciati a pascolo. Descrizione unità topografica – Piccola concentrazione, estesa a coprire uno spazio di 332 m, costituita da materiale a impasto grezzo e frustuli di laterizi; occupa la porzione alta del sito in corrispondenza del suo angolo sudoccidentale. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 8 frammenti di parete; 1 frammento di bordo non identificabile. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa di piccole dimensioni realizzata con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Olla tipo Murlo, tipo M1, con datazione fine VII-VI secolo a.C. Cronologia – Fine VII–VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (61) Località Le Segalaie (Q.120 III-4779/673) 337 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo pianeggiante di forma trapezoidale, confinante a nord-ovest con la vicinale per Ciglierese, a ovest e sud-ovest con aree boschive e a est con il tratto rettilineo della strada provinciale per Prata in prossimità di Palazzetto. Descrizione unità topografica – Lungo tutta l’estensione del sito sono presenti, in forma sparsa, frammenti di diaspro rosso, privi di tracce di lavorazione. Sul confine con l’area boschiva, in corrispondenza dell’angolo sudoccidentale del campo, si raccolgono invece numerose schegge sia ritoccate che di scarto; fra i materiali, anche uno strumento, interpretato come raschiatoio e databile, sulla base della tecnica di scheggiatura e ritocco, al generico paleolitico medio/superiore. In associazione al deposito troviamo anche numerosi frammenti di ceramica e laterizi, evidentemente moderni, provenienti dal nucleo abitativo. Presenza, media per mq – Un reperto. Interpretazione – Frequentazione. Elementi datanti Industria litica Tre schegge non ritoccate, 1 raschiatoio denticolato, 1 denticolato in forma di incavo, 2 nuclei subdiscoidali. Cronologia – Paleolitico medio-superiore. Rinvenimento inedito (62) Località Le Segalaie (Q.120 III-4779/673) 337 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo posto a occupare una porzione pianeggiante, con leggerissima pendenza verso ovest; confina a est con la strada provinciale per Palazzetto e a sud con la vicinale diretta a Ciglierese. Descrizione unità topografica – Lungo tutta l’estensione del campo, si raccoglie materiale sporadico associato a numerosi frammenti di diaspro, parzialmente lavorati (scarti di lavorazione) e uno strumento databile genericamente tra paleolitico medio ed età dei metalli. I manufatti litici aumentano in prossimità dell’estrema porzione nordoccidentale; i reperti ceramici si concentrano invece in corrispondenza dell’angolo nordorientale del sito. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Industria litica Sei frammenti di diaspro riferibili a scarti di lavorazione. Acroma grezza Impasto semidepurato non attestato in altri contesti. Forma chiusa. Olla: 6 frammenti di parete; 2 frammenti di fondo, piano, apodo, a sezione triangolare regolare. Maiolica arcaica Tre frammenti di parete. Interpretazione – Frequentazione. Elementi datanti Industria litica Scheggia laminare in diaspro. Cronologia – Plurifrequentazione. I manufatti litici riportano a una fase di occupazione del sito databile genericamente tra paleolitico medio ed età dei metalli. I reperti ceramici (maiolica arcaica e acroma grezza) indicano una frequentazione dell’area anche in epoca medievale: l’assenza di materiale da costruzione e la scarsità del deposito ceramico non offre indizi utili a definire le caratteristiche di utilizzo dell’area. Rinvenimento inedito (63) Località Ciglierese (Q.120 III-4779/673) 327 m s.l.m.; pianura; travertini e calcari organogeni; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Esteso campo pianeggiante leggermente digradante in direzione della piccola vigna, antistante il podere Ciglierese; è confinante a est con l’aia dell’abitazione e sugli altri lati da campi incolti. Descrizione unità topografica – Nella metà superiore del campo, in prossimità della strada vicinale, si ha una presenza sporadica di ceramica associata a pochi frammenti di laterizi e scorie ferrose. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, di colore arancio-brillante. Forma chiusa: 6 frustuli di parete. Ingubbiata e graffita Forma aperta. Ciotola: 1 frammento di fondo ad anello con superficie d’appoggio leggermente arrotondata e decorazione in ramina e manganese. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – XV secolo. Rinvenimento inedito (64) Località Le Segalaie (Q.120 III-4779/673) 337 m s.l.m.; pianura; sabbia; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo pianeggiante di forma allungata irregolare; è confinante a est con l’ultima curva della strada provinciale per Prata prima di Palazzetto e sugli altri lati con campi lasciati a pascolo. Descrizione unità topografica – Piccola concentrazione di schegge di diaspro (di queste due non sono ritoccate), associate a un grande raschiatoio, databile al paleolitico medio/superiore sulla base della tecnica di lavorazione. Presenza, media per mq – Un reperto. Elementi datanti Industria litica Due schegge non ritoccate, 1 raschiatoio profondo, 1 bulino su frattura, 1 nucleo subdiscoidale. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Paleolitico medio/superiore. Rinvenimento inedito (65) Località Ciglierese (Q.120 III-4779/674) 327 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Porzione di seminativo pianeggiante, leggermente digradante sul lato nordorientale in corrispondenza di un piccolo corso d’acqua. È confinante a est con un esteso campo, per metà boschivo e per metà arato, ed è definito dall’ultima curva della strada provinciale per Prata, prima di Palazzetto. Descrizione unità topografica – Presenza sporadica di materiale ceramico e frustuli di laterizio disposti lungo il lato nordoccidentale del sito. Si tratta di una giacitura fortemente danneggiata dalle arature; inoltre la visibilità dei reperti portati in superficie è limitata dalle infiltrazioni d’acqua che interessano questo tipo di suolo, particolarmente permeabile. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto simile al tipo 2. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età etrusca. Rinvenimento inedito (66) Località Il Caggiolo (Q.120 IV-4783/672) 330 m s.l.m.; versante poggio; argille e conglomerati poligenici; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di grande estensione di forma trapezoidale, posto in forte pendenza; è confinante a nord-ovest con la strada principale per Chiusdino, nel tratto antistante il casottino Anas e a sud-est con il fosso Rigo. Occupa parte del poggio che fronteggia a nord il podere Il Caggiolo e a sud Frassini. Nella porzione nordoccidentale del campo, si individuano tre distinte unità topografiche. Descrizione unità topografiche (66.1) Concentrazione, dimensioni 634 m, costituita da frammenti di ceramica acroma grezza e depurata associata a laterizi; occupa lo spazio immediatamente a nord del prato (a circa 150 m dal podere Il Caggiolo) e a ovest del laghetto, a 20 m dall’accesso al campo in direzione nord. Materiale pertinente alla stessa giacitura è presente anche in un’area estesa circa 2038 m verso sud. Nel prato antistante si trovano reperti ceramici in grande quantità; data la visibilità limitata dalla vegetazione stabile è però impossibile stabilire se questi appartengano a una diversa emergenza o siano spargimento della stessa unità topografica. Presenza, media per mq – Cinque reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto friabile e farinoso, colore rosa-arancio, con anima spesso grigiastra a seconda della cottura. Forme chiuse: 12 frammenti di parete; 3 frammenti di bordi, di cui uno non identificabile. Forme aperte: Ciotola. 4 frammenti di fondo: 2 sono ad anello, con attacco della parete poco inclinato rispetto al piano interno del fondo. Acroma grezza Impasto 1b e 2. Forma chiusa. Impasto 2. Olla: 9 frammenti di parete e un’ansa a bastoncello. Impasto 1b. Olla: 22 frammenti di parete; 3 frammenti di fondo, piano, apodo, con modesta espansione in corrispondenza della base. Un frammento di bordo con orlo a mandorla, privo dell’attacco della parete da cui si distingue per uno spessore molto maggiore. Grande contenitore: 10 frammenti di pareti, 4 frammenti di bordo. Dolio di medie dimensioni (24,5 cm di diametro esterno), a sezione sporgente squadrata. Dolio di 39 cm di diametro interno, a sezione sporgente squadrata. Forma aperta. Tegame: bordo rettilineo di modesto spessore a orlo indistinto, con presa semicircolare parallela al piano orizzontale dell’orlo. Laterizi Impasto 1. Spessore medio 3-4 cm. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Olla riconducibile al tipo Chianti, tav. IX, n. 1, datato alla metà del VI secolo a.C. in contesti quali Poggio Buco, fig. 70, n. 20, p. 145 e fra la fine del VI e il V secolo a.C., in Rubiera, tav. XX, n. 9, p. 89. Olla confrontabile al tipo Chianti, tav. VII, n. 9, con cronologia di VII-VI secolo a.C. (confronti Poggio Buco, fig. 47 nn. 94-96; Artimino, fig. 109, n. 240). Pithos tipo Chianti, tav. XV, n. 5, con cronologia di fine VII secolo a.C. sul confronto in Bassa Modenese, tav. LXXXIII, n. 7. Acroma depurata Ciotola che trova il confronto nel tipo Chianti, tav. III, n. 2, con datazione VII-VI secolo a.C. Coppa con carenatura netta tipo Chianti, tav. IV, n. 10, datata nel corso del VI secolo a.C. sul confronto di Rubiera, tav. XVII, n. 8, p. 86. Grande contenitore riconducibile al tipo Chianti, tav. IX, n. 4, datato al VII-VI secolo (Lago dell’Accesa, p. 145, n. 94, seconda metà del VI secolo; Pisa, tav. 6, n. 20, p. 300, VII-VI secolo). Cronologia – Fine VII–VI secolo a.C. (66.2) Emergenza di reperti mobili in superficie, dimensioni 637 m, caratterizzata da laterizi e pochi frammenti di ceramica acroma grezza; si dispone a circa 15 m dall’unità topografica 66.1. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Struttura con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Si tratta probabilmente di un annesso all’abitazione, descritta al 66.1, come annesso; converge verso tale interpretazione la presenza esclusiva di ceramica da conserva. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C.; la datazione viene attribuita sulla base dell’omogeneità delle forme e degli impasti (sia dei laterizi che dei reperti ceramici) con quelli individuati all’unità topografica precedente. (66.3) Concentrazione di forma pressoché quadrangolare (232,5 m) di grumi di argilla concotta di medie e piccole dimensioni, presente nel livello sottostante l’unità topografica 66.2 ma spostata di circa 30-40 m verso sud. Presenza, media per mq – Due reperti. Interpretazione – Struttura realizzata interamente in materiale deperibile. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. In via induttiva può essere proposta una contemporaneità con il nucleo indiziato dalle unità topografiche 66.1 e 66.2. Rinvenimento inedito (67) Località Piano di Feccia (Q.120 IV–4784/674) 274 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo pianeggiante di forma rettangolare allungata con orientamento est/ovest; è confinante a est con il corso del fiume Feccia, a ovest con un campo arato e a nord e sud con campi non lavorati di grande estensione. La visibilità risulta fortemente limitata dalle consistenti infiltrazioni d’acqua che determinano il compattamento del terreno, immediatamente dopo l’aratura. Descrizione unità topografica – Modesta presenza di laterizi, rinvenuti prevalentemente nell’angolo sud-ovest del campo a coprire uno spazio di 435 m, in prossimità del confine laterale esterno verso sud. Sporadici frammenti di laterizi sono presenti anche nella porzione occidentale del campo in associazione a pochi frustuli di ceramica acroma depurata. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 1 e 2. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età etrusca; sulla base della tipologia degli impasti. Rinvenimento inedito (68) Località Piano di Feccia (Q.120 IV–4784/673-675) 274 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Porzione pianeggiante di forma rettangolare, ritagliata all’interno di un campo di grandi dimensioni adibito a bosco. Confina a est con il fiume, che originariamente doveva bagnare anche la parte inferiore del sito; questa parte di campo è fortemente interessato da infiltrazioni d’acqua. È raggiungibile dalla strada principale che collega Frosini a Chiusdino, nel tratto antistante il bivio verso il capoluogo di comune. Descrizione unità topografica – Presenza sporadica lungo tutto il campo di laterizi, per la maggior parte superfici arrotondate e lisciate, assumendo l’aspetto di ciottoli di fiume. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età etrusca; sulla base della tipologia degli impasti. Rinvenimento inedito (69) Località La Battellona (Q.120 IV-4782/670) 390 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Trisondola, seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo molto esteso, di forma semicircolare (secondo l’andamento della curva di livello) posto in forte pendenza su un versante della collina di fronte al nucleo abitato La Battellona. È delimitato a sud-ovest dalla curva della strada per Montalcinello, prima del bivio per Castelletto Mascagni, a ovest da un ruscello derivante dal fosso Trisondola e a est da un campo lasciato a pascolo. Descrizione unità topografica – Concentrazione composta prevalentemente da frammenti di laterizi associati a pochi frammenti di ceramica acroma depurata e a una maggiore quantità di frammenti di acroma grezza. In questo caso, è difficile individuare una precisa concentrazione del materiale, che risulta sparso in modo esteso e costante su tutta la superficie arata, con una maggiore presenza nello spazio sottostante la curva: la dispersione dei reperti è collegata ai recenti lavori agricoli, che hanno finito per compromettere la buona conservazione della giacitura. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, omogeneo, di colore arancio brillante. Forma chiusa: 6 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1b. Forma chiusa. Olla: 18 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Olla tipo Chianti, tav. XIII, n. 10, in contesti etrusco-arcaici. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (70) Località Il Caggiolo (Q.120 IV-4783/672) 326 m s.l.m.; leggero pendio; argille e depositi alluvionali; fosso Cona; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare allungata, posto in leggera pendenza in direzione del fosso Cona che lo delimita a nord-est; i lati lunghi confinano a sud-est con la strada e con il bosco a nordovest. Descrizione unità topografiche – Si individuano due concentrazioni poste a distanza di circa 15 m l’una dall’altra, non ascrivibili alla stessa fase di frequentazione. (70.1) Forte presenza di laterizi molto frammentati, rinvenuti in modo costante ed esteso nella parte superiore del campo a sud-ovest, nella metà posta alla sinistra dell’ingresso; in associazione al materiale da costruzione si trovano anche frammenti di ceramica acroma grezza e depurata. In corrispondenza della parte mediana dell’area di spargimento si individua una concentrazione di 534 m. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forme chiuse. Olla: 9 frammenti di parete. Grandi contenitori. 3 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Olla: tipo Chianti, tav. XII, n. 9 datato al VII-VI secolo a.C. che ricorda Scarlino, tav. VI, n. 28. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (70.2) Vicino al limite orientale nella parte inferiore del sito (a destra dell’ingresso) è stato rinvenuto materiale litico in diaspro. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Interpretazione – Frequentazione. Elementi datanti Industria litica Schegge non ritoccate, 1 denticolato in forma di incavo, 1 nucleo discoidale. Cronologia – Paleolitico medio (?). Rinvenimenti inedito (71) Località Greppini (Q.120 IV-4784/672) 321 m s.l.m.; lieve pendio; argille argille sabbiose; fosso Cona; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare allungata di enormi dimensioni, digradante con andamento costante in direzione del fosso che lo delimita a sud. Confina a nord con la strada vicinale, che congiunge il podere Greppini al podere Papena, a ovest con un campo arato (sito 72) e a est con uno lasciato a pascolo. Nella parte meridionale del campo si rileva una forte presenza di minerale di quarzo allo stato naturale. Descrizione unità topografiche – Si riconoscono due emergenze di reperti mobili in superficie pertinenti alla stessa unità abitativa. (71.1) Concentrazione notevole, di dimensioni 334 m, composta da numerosi frammenti di laterizio e ceramica posta nella parte settentrionale del campo, a sinistra dell’ingresso dalla strada. La giacitura è comunque stata compromessa dall’impiego dei mezzi meccanici. Presenza, media per mq – Cinque reperti. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto friabile, farinoso e di colore rosa-arancio. Forma chiusa: 4 frammenti di parete; 1 frammento di fondo piano, apodo a sezione triangolare regolare leggermente assottigliato in corrispondenza dell’inizio della parete. Forma aperta: 1 frammento di parete. Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 19 frammenti di parete; 1 frammento di bordo, 1 fondo piano senza marcatura della superficie d’appoggio. Pithos: 1 frammento di fondo, piano, apodo con sezione regolare arrotondata, 1 bordo indistinto, estroflesso con orlo squadrato inclinato verso l’esterno e parete convessa. Laterizi Impasto 1. Elementi datanti Acroma grezza Olla tipo Chianti, tav. IX, n. 2 datata al VII-VI secolo (Pisa, tav. 6, n. 20, p. 300) e tra 525-450 a.C. (Bassa Modenese, tav. XI, n. 5). Pithos tipo Bassa Modenese, tav. LXXXIII, n. 7, fine VII-inizi VI secolo. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (71.2) Concentrazione, estesa in uno spazio di 534 m, composta da grumi di impasto associati a pochi frammenti di laterizi e ceramica grezza posta a nord-est, nella parte superiore del sito. L’unità topografica è stata individuata dopo il dilavamento nella sezione del fosso per lo scolo delle acque che divide il 71.1 dal campo arato a ovest. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1. Forma chiusa. Olla: 12 frammenti di parete. Grande contenitore: 3 frammenti di parete. Interpretazione – Casa interamente realizzata in materiale deperibile. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (72) Papena (Q.120 IV-4784/672) 313 m s.l.m.; pendio; depositi alluvionali-argille argille sabbiose; fosso Cona; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma triangolare, leggermente digradante verso il fosso che lo delimita a sud. Il lato lungo del triangolo segue l’andamento del tratto iniziale della strada a sterro, che collega il podere Papena con quello di Greppini dopo la prima curva partendo da Papena. Confina a ovest con il sito 71, a est con la strada e a sud-ovest con un terreno lasciato a stoppie. Descrizione unità topografiche – Si individuano tre unità topografiche, di cui le prime due, corrispondenti a depositi consistenti, sono poste a pochi metri l’una dall’altra, mentre l’altra raccoglie il materiale sporadico raccolto nell’intera estensione del campo. (72.1) A circa 8 m in direzione nord-ovest dall’albero posto lungo la strada poco prima della curva, si individua una concentrazione di blocchi di travertino lavorati compresi in un’estensione di circa 1038 m in associazione a ceramica datante. La giacitura si presenta in ottimo stato di conservazione, poiché le arature hanno intaccato solo i livelli superficiali del crollo. Rileviamo che l’abitazione si dispone in prossimità del tracciato della strada attuale così da far pensare a una sua contemporaneità con l’insediamento. Presenza, media per mq – Sei reperti. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 2. Pietra da macina Si raccoglie un frammento di pietra da macina e pochissimi grumi di argilla concotta. Interpretazione – Casa a pianta rettangolare con elevati in pietra e copertura in lastrine; la concentrazione sul lato sud di ceramica da conserva associata a frammenti di pietra da macina testimonia la presenza di un ambiente funzionale adibito a uso magazzino. Elementi datanti Acroma depurata Anfora tipo Keay, LII, T/6/649 (fig. 114, n. 3, p. 267) descritto con corpo a collo allungato, cilindrico con pareti molto convesse e orlo con un piccolo sporgenza, che si innesta immediatamente sotto il labbro. Nella maggior parte dei casi queste anfore, presentavano una copertura che variava dal camoscio al marrone chiaro. Prodotte nel Mediterraneo occidentale, trovano diffusione in contesti Catalani dal tardo V secolo d.C. mentre in Andalusia, vengono utilizzate fino agli inizi del VI secolo d.C. In Italia il primo caso, attestato negli scavi della Basilica Costantiniana in via Labicana (tav. V PM 78 34/80/85), riporta alla prima metà del IV secolo; altri esempi sono stati raccolti negli scavi di Cartagine e in quelle della Schola Praeconum (fig. 11, 154, 158) infine, in ambito siracusano sono stati trovati in associazione di sigillata africana (tipi Hayes 58, 61A, 61B, 67, 73, 76, 91B). Anfora tipo Keay, XLIII, T/1/113 (fig. 112, n. 1, p. 257), presenta larghe spalle, collo non molto allungato con leggera estoflessione del bordo, a sezione triangolare. Le anfore di produzione tunisina, vengono immesse nei mercati italiani fra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C e mostrano una continuità d’uso fino al terzo quarto del IVinizi V secolo d.C., come dimostrano i rinvenimenti i contesti di questo periodo di Via Labicana (tav. 11, PM 78.78). Per il III secolo sono attestate, invece, ad Ostia, mentre a Luni si trovano associate a materiale di IV secolo (Luni I, tav. 153.177, 166.177). Cronologia – III-V secolo d.C. (72.2) A distanza di circa 5 m verso est dal 72.1 si riconosce una fortissima concentrazione di ceramica acroma depurata e di frammenti di ceramica a vernice nera, dai quali si ricostruiscono parzialmente tre forme aperte; in associazione, si trovano alcuni laterizi e pietre appena sbozzate. Per altri 30315 m al di fuori del deposito, si raccolgono materiali, evidentemente pertinenti a esso, fatti slittare dallo spostamento dei mezzi meccanici. Presenza, media per mq – Quattro-cinque reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto colore arancio chiaro, farinoso e friabile. Forma chiusa: 35 frammenti di parete. 4 frammenti di fondi riconducibili a due tipi principali.Tipo 1: apodo, piano, con una marcata variazione dello spessore in corrispondenza immediata dell’attacco della parete, molto più sottile. Tipo 2: fondo ad anello convesso, con marcata solcatura nel punto di attacco della parete, che presenta il punto di appoggio leggermente arrotondato. Coperchio: 1 presa. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete. 2 frammenti di fondo: uno, apodo, arrotondato nel punto d’appoggio, senza distinzione né interna né esterna dalla parete; l’altro, apodo, a una sezione triangolare, con angolo d’appoggio molto marcato e leggera estroflessione in corrispondenza dell’inizio della parete, che va progressivamente diminuendo di spessore. Laterizi Impasto 2. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Vernice nera Coppa del tipo rinvenuta da Phillips (fig. 6 n. 28) nello scavo delle tombe di Papena, ricordate anche in Morel, 1262, a1) e in altri contesti (Malignano, Volterra, Siena, Chiusi e Montepulciano): sulla base della disposizione dei rinvenimenti è stata ipotizzata una produzione locale o regionale. Coppa simile al tipo Volterra, fig. 1, n. 179; è riconducibile alle coppette senza anse e con alto piede della forma Lamboglia 4, la cui cronologia in ambito volterrano rimane ancora incerta. Patera tipo Morel, 2256b1, Pl. 41; si tratta di un manufatto di produzione locale, come dimostra la modesta qualità della vernice di copertura, di colore bruno scuro, in cattivo stato di conservazione. Cronologia – III-II secolo a.C. (72.3) Si raccolgono in questa unità topografica tutti i frammenti, rinvenuti sporadicamente nella restante superficie. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 4 frammenti di parete. 1 frammento di bordo riconducibile ai tipi ascrivibili al VI-VII secolo d.C. Ingubbiata e graffita Un frammento pertinente a ciotola con carenatura marcata. Non si riconoscono motivi decorativi. Laterizi Prevalenti sono quelli di impasto 1 mentre più rari quelli di impasto 2. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Plurifrequentazione. Rinvenimenti inedito (73) Località Poggio al Monte (Q.120 IV-4784/669) 398-316 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Fonte Rossa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni, con andamento irregolare e molto articolato in forti pendenze, delimitato dalla prima curva dopo il ponte della strada per Montalcinello. Descrizione unità topografica – Materiale ceramico sporadico presente nella parte bassa del campo; nell’area prossima al podere Le Morane, si trovano frammenti di ceramica medievale associata a pochissimi frammenti di materiale moderno, pertinente alla fase di frequentazione dell’edificio. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, di colore arancio. Forma chiusa: 5 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 2 frammenti di parete. Maiolica arcaica Boccale: 1 frammento di fondo ad anello piano, con base d’appoggio leggermente arrotondata. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – XIII-XIV secolo. Rinvenimento inedito (74) Località Poggio al Monte (Q.120 IV-4783/670) 331 m s.l.m.; pendio; depositi alluvionali; torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buona. Descrizione sito – Campo di forma irregolare digradante verso il fosso Fonte Rossa (ora asciutto) che lo delimita a sud-ovest. Confina a ovest e a nord con la strada diretta a Montalcinello e a est con un boschetto. Verso il torrente il campo mostra una forte presenza di ciottoli di fiume che fanno pensare a una recente retrocessione della acque. Descrizione unità topografiche – Si riconoscono tre unità topografiche, concentrate nella porzione nordoccidentale del campo. (74.1) Concentrazione estesa in una superficie di 738 m, in cui sono presenti laterizi, ceramica acroma grezza e depurata in associazione a pietre da costruzione; è posta nell’angolo superiore del campo sul confine con il boschetto. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile e colore arancio brillante. Forma chiusa: 6 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 10 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (74.2) Al centro del campo, in direzione nord/sud, si riconoscono tracce di un muro di terrazzamento posto in corrispondenza della depressione della collina che la taglia a metà. Il muro è realizzato in pillole di fiume di piccole e medie dimensioni. Interpretazione – Terrazzamento, forse riferibile alla fase di vita dell’abitazione descritta al 74.1. Cronologia – Dubbia. (74.3) Reperti ceramici concentrati in uno spazio di circa 739 m, ubicati a circa 2-3 m lungo il confine con il boschetto. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza molto friabile e colore arancio brillante. Forma chiusa: 15 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 28 frammenti di parete; 1 attacco di ansa a bastoncello con diametro di 2 cm; 1 frammento di ansa a nastro con depressione centrale e bordi poco sporgenti e rientranti. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiali riferibili al deposito descritto al 74.1 che hanno subìto lo spostamento a opera dei mezzi meccanici. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (75) Località Poggio al Monte (Q.120 IV-4783/670) 331 m s.l.m.; pendio; argille e detriti e discariche; torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma irregolare posto in un pendio digradante verso il torrente che lo delimita a est. Confina a nord-ovest con la strada diretta a Montalcinello nel tratto immediatamente prima della curva lungo il bosco, a sud e sud-est con il bosco e a nord-est con un campo lasciato a pascolo. Descrizione unità topografiche – Si individuano due unità topografiche, poste a poca distanza fra loro, pertinenti alla stessa emergenza. (75.1) Concentrazione, dimensioni 735 m, costituita da pietre associate a ceramica e riconoscibile sul punto più alto del pendio; la giacitura appare comunque molto compromessa dai recenti lavori agricoli. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, di colore arancio. Forma chiusa: 7 frammenti di parete; 2 frammenti di fondo. Acroma grezza Impasto 1a. Forme chiuse. Olla: 10 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (75.2) Presenza costante di materiale disperso lungo tutta la collina fino a valle dal dilavamento. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, di colore arancio. Forma chiusa: 28 frammenti di parete; 3 frammenti di bordo; 1 frammento di fondo, apodo, di tipologia non identificabile. Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 19 frammenti di parete. Grande contenitore: 5 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Materiale pertinente al deposito descritto al 75.1 fatto slittare lungo il versante dallo spostamento dei mezzi meccanici. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (76) Località Poggio al Monte (Q.120 IV-4783/670) 316 m s.l.m.; versante collinare; depositi alluvionali; torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di enormi dimensioni di forma irregolare posto in forte pendenza in direzione del torrente che lo delimita a sud; a est è delimitato dalla strada per Montalcinello, nel tratto del ponte dell’Acqua Rossa, e a ovest da un grande campo lasciato a pascolo. Descrizione unità topografica – Presenza sporadica di frammenti di impasto grezzo e frammenti di ceramica acroma depurata, rinvenuti nella parte alta del campo lungo il confine con il bosco e il campo arato. L’emergenza in superficie è fortemente compromessa dai lavori agricoli. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, colore arancio. Forma chiusa: 4 frammenti di parete. Forma aperta. Ciotolina: 1 frammento di bordo indistinto lineare, lievemente marcato in prossimità dell’orlo. Acroma grezza Impasti 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 6 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (77) Località Poggettone (Q.120 IV-4784/669) 385 m s.l.m.; versante poggio; conglomerati poligenici e detriti e discariche; fosso Fonte Rossa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare posto in leggera pendenza in direzione sud; è confinante a nord con il Podere San Magno, a sud con la strada diretta a Montalcinello e a ovest con la strada a sterro che porta all’abitato. Descrizione unità topografiche – Si distinguono due diverse unità topografiche, di cui una articolata in quattro attività, pertinenti a uno stesso complesso abitativo. (77.1) Concentrazione estesa per uno spazio di 637 m caratterizzata da una notevole quantità di laterizi associati a un minor numero di frammenti di ceramica; è riconoscibile nella porzione inferiore del campo, compresa nell’angolo definito dall’incrocio della strada a sterro con quella asfaltata. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 3. Forma chiusa. Olla: 6 frammenti di parete, 1 frammento di bordo. Laterizi Impasto 3. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia; è forse precedente al nucleo abitativo descritto nel 72.2 anche se ha continuità di frequentazione nel periodo di attività di quest’ultimo. Elementi datanti Acroma depurata Ciotola: i due frammenti rinvenuti trovano un confronto generico nelle ciotole ingobbiate di rosso, attestate nel Chianti senese per la fase tardoantica. Cronologia – V-fine VI/inizi VII secolo d.C. (77.2.1) Emergenza di reperti mobili in superficie disposta al centro del campo ed estesa a occupare uno spazio di 938 m; è caratterizzata da pietre di piccole e medie dimensioni associate a frammenti di laterizi, ceramica acroma grezza e depurata in uguale proporzione. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto molto omogeneo, non friabile di colore beige rosato. Forma chiusa: 8 frammenti di parete; 1 frammento di bordo riferito a una piccola forma chiusa, con orlo piano che si estroflette nel punto di massima espansione della bocca e viene a salire perpendicolare; presenta l’ansa impostata immediatamente sotto la carenatura. 1 frammento di fondo, pertinente a un grande contenitore (diametro della base 22 cm); piano, apodo, con attacco della parete convesso e non distinto; 5 frammenti di ansa di diversa tipologia: tipo a nastro non sagomato, a cui si riconduce anche un altro frammento; a bastoncello (diametro 1,5 cm); a sella con scanalatura centrale; a bugna. Forma aperta. Ciotola: i frammenti trovano un confronto generico nelle ciotole ingobbiate di rosso, attestate nel Chianti senese per la fase tardoantica. Acroma grezza Impasto simile al tipo 3 dal quale si distingue per il colore, in questo caso, rosso-arancio: invariate rimangono la consistenza e la dimensione e il tipo degli inclusi. Forma chiusa. Olla: pochi frammenti di parete di piccole dimensioni; 1 frammento di bordo a tesa leggermente sporgente;1 frammento di ansa a nastro con scanalatura profonda non corrispondente all’asse centrale; 1 frammento di fondo piano, apodo, a sezione triangolare con una marcata riduzione dello spessore in corrispondenza dell’inizio della parete; 1 frammento di bordo, pertinente a una piccola olla, con orlo a tesa leggermente ingrossata e rientrante. Laterizi Impasto 3. Più rari esempi di impasto simile al tipo 2. Interpretazione – Casa a pianta rettangolare con elevati in pietra e copertura laterizia. Elementi datanti Acroma grezza Olla: tipo Chianti, tav. LIV n. 10, si data alla metà del VI-inizi VII secolo d.C. da contesti in cui si trova in associazione con ceramica ingobbiata di rosso. Cronologia – VI-VII secolo d.C. (77.2.2) Concentrazione posta a distanza di circa 5 m verso ovest dal 72.2.1, in direzione dei pali Enel, composta da ceramica, materiale da costruzione (pietre piccole e medie e laterizi), scorie, frammenti di pietre da macina e frammenti di laterizi da colonna. Presenza, media per mq – Tre/quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Forma chiusa. Olla: 13 frammenti di parete. Grande contenitore: 3 frammenti di parete. Scorie di lavorazione 5 intere Pietra da macina 3 frammenti. Laterizi Impasto 3. Interpretazione – Si può identificare il deposito come zona adibita a magazzino, pertinente all’abitazione riconosciuta al 72.2.1. Elementi datanti Nonostante l’assenza di elementi datanti, attraverso il confronto degli impasti sia della ceramica che dei materiali da costruzione, possiamo sostenere una datazione contemporanea a quella di 72.2.1. Cronologia – VI-VII secolo. d.C. (77.2.3) Cinque m a sud di 72.2.2 sono state rinvenuti reperti osteologici umani pertinenti a mano, braccio e gomito sinistro. L’interpretazione è stata formulata da Don Walker, antropologo che collabora nel progetto Poggio Imperiale. Interpretazione – Tomba a fossa relativa al nucleo abitativo descritto in 72.2.1. Cronologia – VI-VII secolo. d.C. (77.2.4) A circa 8 m da 72.2.2 verso ovest si rinviene una concentrazione di ossa umane craniali. Interpretazione – Tomba a fossa relativa al nucleo abitativo descritto in 72.2.1. Cronologia – VI-VII secolo. d.C. Rinvenimento inedito (78) Località Saio (Q.120 IV-4784/670) 355 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Fonte Rossa e torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: discreto. Descrizione sito – Campo di grande estensione di forma vagamente rettangolare, posto in pendio digradante in direzione del torrente che lo delimita a sud; a nord e a est confina con il bosco delle Segalaie e a ovest con il prato antistante il podere. Circa a metà campo si rileva una forte concentrazione di forma rettangolare allungata composta da ciottoli di fiume che corrisponde anche a un cambiamento del terreno, più friabile e di colore scuro. Descrizione unità topografica – Al centro e al confine del campo con il prato nella porzione settentrionale, è stato raccolto materiale ceramico per lo più depurato e due frammenti di acroma grezza in associazione a pochi frustuli di laterizi. Non è possibile individuare una vera e propria concentrazione in quanto la giacitura è stata fortemente compromessa dai lavori agricoli. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, omogeneo e colore arancio brillante. Forma chiusa: 7 frammenti di parete di cui una decorata, a stecca molto marcata, con motivi lineari sormontati da bande ondulate. Grande contenitore: tappo appiattito circolare, con diametro di 6,5 cm, e impasto dei laterizi. Acroma grezza Impasto simile al 2. Forma chiusa: 4 frammenti di parete. Laterizi Impasto 4. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età romana. Rinvenimento inedito (79) Località Le Morane (Q.120 IV-4784/669) 389 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Saio; pascolo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno incolto; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Il campo, attualmente adibito a pascolo, occupa il versante nella collina retrostante il podere Le Morane. Descrizione unità topografica – La segnalazione ci è stata fornita dal proprietario, che ha raccolto durante i lavori agricoli ceramica acroma depurata concentrata in un unico punto; afferma anche di aver visto affiorare laterizi e frammenti di acroma grezza in quantità abbondante. Presenza, media per mq – Non rilevabile. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto beige-rosato, di consistenza friabile, molto omogeneo. I frammenti sono probabilmente pertinenti a una o due forme chiuse, con orlo sottile e appuntito, estroflesso e fortemente inclinato verso l’interno; ansa a nastro con scanalatura centrale impostata in corrispondenza della strozzatura del collo (da cui ha origine l’estroflessione del bordo); fondo ad anello solo leggermente scavato, con base d’appoggio arrotondata e sporgente, distinta dalla parete da una marcata solcatura. Il materiale data genericamente all’epoca romana, ma la totale assenza di materiale da costruzione e di ceramica grezza impedisce di proporre datazioni più precise, attraverso il confronto degli impasti con altri contesti ben datati. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età romana. Rinvenimento inedito (80) Località Il Casino (Q.120 IV-4782/670) 379 m s.l.m.; versante poggio; argille; fosso Trisondola; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: discreto. Descrizione sito – Campo di forma trapezoidale che digrada verso il torrente ora asciutto; confina a ovest con un tratto di campo lasciato a stoppie confinante con il sito 69, a nord con il torrente e a est con un campo arato. Descrizione unità topografica – Emergenza di reperti mobili in superficie, costituita da pochi laterizi e frammenti di grande contenitore non circoscrivibile in una concentrazione; può trattarsi di un deposito compromesso per l’azione dei mezzi meccanici. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 8 frammenti di parete. Grande contenitore: 1 frammento di bordo. Pithos: 1 frammento di bordo. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa realizzata in materiale deperibile con copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (81) Località Podere San Magno (Q.120 IV-4784/669) 350 m s.l.m.; pendio; detriti e discariche; torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare posto in leggerissima pendenza sul lato opposto alla strada provinciale per Montalcinello che lo delimita a nord e a est; a ovest è invece delimitato da campi lasciati a pascolo e a sud-ovest dal bosco. Descrizione unità topografica – Concentrazione di ceramica acroma e laterizi, presenta dimensioni di 334 m; è posta nel punto più vicino alla strada a circa metà del lato corto del campo confinante con la strada, all’altezza di un paletto in cemento contrassegnato da una sigla. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza medio-dura, farinoso, di colore variabile fra arancio e rosa chiaro. Forma chiusa: 5 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1b. Forma chiusa. Olla: 7 frammenti di parete. Grande contenitore: 3 frammenti di parete; 1 frammento di fondo piano, apode, a sezione triangolare con diminuzione di spessore in corrispondenza dell’attacco della parete. Maiolica arcaica Forma chiusa. Boccale: 1 frammento di fondo piano, apodo, con leggera estroflessione della superficie d’appoggio: non si riconosce il motivo decorativo, mentre all’interno si conserva la vetrina neutra. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Il materiale medievale potrebbe provenire dai nuclei insediativi circostanti, senza indicare una vera e propria frequentazione dell’area. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (82) Località Le Morane (Q.120 IV-4784/669) 381-358 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Saio; seminativo. Ricognizioni effettuate: terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma semicircolare posto in forte pendenza verso ovest. Confina a nord con la strada provinciale per Montalcinello, a est con la vicinale per il podere Le Morane e a sud con un campo a pascolo. Descrizione unità topografiche – Distinguiamo tre unità topografiche, disposte a pochi metri di distanza, corrispondenti a una stessa unità abitativa. (82.1) Concentrazione di ceramica acroma grezza e depurata con laterizi molto frammentati, di dimensioni 334 m; è riconoscibile a circa 25 m a nord-est del III palo della luce (partendo dalla strada vicinale). Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Forma chiusa: 7 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 4 frammenti di parete. Grande contenitore: 3 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa realizzata con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cronologia – III-II secolo a.C. (82.2) Forte concentrazione di pietre di grandi e medie dimensioni posta a circa 15 m in direzione nord-ovest dal IV pilone della luce. Le dimensioni dell’area di massima presenza sono 633 m; le stesse pietre si trovano inoltre per circa 836 m in direzione nord-est verso la strada provinciale. Al materiale litico da costruzione si associano laterizi, ceramica in quantità rilevante e grumi di argilla concotta. Presenza, media per mq – Quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 18 frammenti di parete. Grande contenitore: 4 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia, con probabile annesso di piccole dimensioni realizzato interamente in materiale deperibile. Cronologia – III-II secolo a.C. (82.3) Materiale ceramico pertinente alle due precedenti unità topografiche disposto a ovest di 82.2 in uno spazio di 436 m. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, farinoso di colore arancio brillante. Forma chiusa: 2 frammenti di parete; 1 frammento di ansa a bastoncello. Forma aperta: 2 frammenti di parete; 1 fondo ad anello con superficie d’appoggio sottile e appuntita. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 9 frammenti di parete; 1 frammento di fondo piano, apode, a sezione triangolare regolare, leggermente sagomato in corrispondenza dell’attacco esterno della parete; 1 frammento di ansa a nastro con depressione centrale non marcata. Ceramica da fuoco. Tegame: 1 presa. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale pertinente a 82.1, fatto slittare dagli spostamenti a opera dei mezzi meccanici. Cronologia – III-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (83) Località Il Casino (Q.120 IV-4782/671) 361 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma irregolare delimitato a est dalla stradina a sterro che parte dalle case con la quale confina anche il sito 84; confina a ovest con l’allineamento di piante che lo divide dal sito 9, a nord dal prato antistante la casa e a sud dal grande prato delimitato dal Fosso Rigo. Descrizione unità topografica – Presenza sporadica lungo tutto il campo di ceramica grezza e laterizi. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 6 frammenti di parete. Ceramica da fuoco. Tegame: 1 presa. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Potrebbe trattarsi di una piccola struttura in materiale deperibile e laterizi le cui tracce sono state rese illeggibili dai lavori agricoli. Cronologia - VI-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (84) Località Il Casino (Q.120 IV-4782/671) 357 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottima. Descrizione sito – Campo di piccole dimensioni circondato da un allineamento di alberi comunicante nell’angolo nord-est con il sito 83. Descrizione unità topografica – Presenza modesta di frammenti di acroma grezza con una maggiore concentrazione nell’angolo nord-est del sito, dimensioni 332 m. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 11 frammenti di parete e 1 di fondo, apodo piano a sezione triangolare regolare. Interpretazione – Casa realizzata interamente in materiale deperibile, datata in base alla tipologia degli impasti. Cronologia – VI-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (85) Località Fonte al Bonichi (Q.120 IV-4781/671) 368-365 m s.l.m.; versante poggio; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma semicircolare posto in pendenza in direzione nord. Confina a ovest e a sud con la strada a sterro per Casette, a sud-est, est e nord-est con un boschetto e a nord-ovest con un prato. Descrizione unità topografica – Modesta concentrazione di frammenti di impasto grezzo e ceramica depurata, dimensioni 433 m, riconoscibile nella porzione inferiore del campo a nord-est, a circa 9 m a est di un boschetto e a circa 30 m a sud del boschetto che lo delimita nella parte inferiore. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, omogeneo, colore arancio brillante. Forma chiusa: 6 frammenti di parete; 1 fondo, piano, apodo, a sezione triangolare regolare. Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 9 frustuli di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa realizzata in materiale deperibile con probabile copertura laterizia (due frammenti raccolti), datata alla fase etrusco arcaica per confronto degli impasti. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (86) Località Frosini (Q.120 IV-4786/674) 362 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche-rocce carbonatiche brecciate; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma pressoché rettangolare delimitato a ovest dalla strada per Frosini, nel punto prima della curva, di fronte al castello e sugli altri lati da campi arati. Il campo attualmente si presenta diviso in piccoli appezzamenti, delimitati da piccole siepi. Si segnala su tutta l’estensione presenza di pietre naturali. Descrizione unità topografica – In ogni porzione di terreno si raccolgono materiali sporadici, per i quali non è possibile individuare punti di concentrazione; sono associati a notevoli quantità di ceramica moderna proveniente dal nucleo di case affiancato ai seminativi. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile e colorazione rosa-arancio. Forma chiusa: 1 frammento di bordo pertinente a trilobatura; pochi frammenti di parete, di cui due decorati (uno presenta decorazione marcata a pettine a sottolineare la strozzatura del collo mentre l’altro ha decorazione a pettine appena accennata, con gocce di ingobbio bianco sovrapposto). Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: pochissimi frammenti. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Elementi datanti Acroma depurata Ciotola con bordo leggermente ingrossato con orlo arrotondato riconducibile al tipo Chianti, tav. XXI n. 8 rinvenuto in contesti ellenistici. Cronologia – III-II secolo a.C. Osservazione – L’integrità della giacitura è stata compromessa dalle frequenti arature e dalla forte pendenza del versante che ha determinato lo slittamento a valle dei materiali. Non si esclude la possibilità di una frequentazione del sito in epoca basso medievale sulla base delle incerte informazioni fornite dalla ceramica depurata. Rinvenimento inedito (87) Località Frosini (Q.120 IV-4786/674) 344 m s.l.m.; versante poggio; rocce carbonatiche brecciate; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma semiellittica delimitato sul lato ovest/sud-est dalla curva antistante il castello e sul lato nord dal campo arato, sottostante il Bar di Frosini. Descrizione unità topografica – Concentrazione di laterizi e pietre di grosse dimensioni poste a delimitare uno spazio di 537 m; all’interno sono presenti reperti ceramici in quantità rilevante. L’emergenza è ubicata all’altezza dell’inizio del rettilineo dopo la curva nella parte nord-ovest/ovest (a circa 2-3 m dall’inizio del campo e a circa 5 m dall’albero sulla curva). Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, molto omogeneo e compatto di colore bruno scuro. Forma chiusa: 22 frammenti di parete. Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa: 10 frammenti di parete. Maiolica arcaica Forma chiusa. Boccale: 1 frammento di parete, su cui si riconosce un probabile motivo decorativo a foglia in manganese. Invetriata Forma aperta. Ciotola: 1 frammento di parete con invetriatura verde interna. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa realizzata con elevati in pietra e copertura laterizia. Riteniamo che i frammenti di ceramica rivestita, non debbano compromettere una datazione certa del sito al periodo etrusco; la ceramica medievale è da ricondurre, con tutta probabilità, alla frequentazione del castello di Frosini. Cronologia – Fine VII/VI secolo a.C.-XIV secolo. Rinvenimento inedito (88) Località Frosini (Q.120 IV-4785/674) 349 m s.l.m.; versante poggio; rocce carbonatiche brecciate; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma triangolare sottostante il castello di Frosini delimitato a nord, est e sud dalla curva della strada provinciale in direzione Chiusdino e a ovest dal boschetto del castello. Descrizione unità topografica – Il campo offre una presenza costante di materiali. Si sono individuate sul campo cinque unità topografiche, corrispondenti ai punti di massima concentrazione: non se ne è dato definizioni spaziali precise in quanto la disposizione si rivela abbastanza omogenea. È notevole la presenza di pietre, talvolta appena sbozzate. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza dura, compatto, di colore arancio bruno tendente al grigio nella sezione. Forma chiusa: 9 frammenti di parete, 5 frammenti di ansa a nastro senza scanalatura; 3 frammenti di fondo piano, apodo, con superficie d’appoggio lievemente arrotondata e uno piano, apodo con marcata solcatura in corrispondenza dell’attacco della parete; 3 frammenti di bordo di cui uno lineare indistinto leggermente estroflesso e un altro corrisponde ai tipici orli a mandorla di età ellenistica. Acroma grezza Impasto 2. Forma chiusa. Olla: 22 frammenti di parete, 6 frammenti di bordo non interpretabili, 1 frammento di fondo, piano e apodo. Forma aperta. Testo: 1 frammento di parete con bordo indistinto e orlo arrotondato. Maiolica arcaica Forma aperta. Boccale: 1 frammento di parete con motivo decorativo a foglia in ramina. Laterizi Impasto del tipo 1a e 1b, con inclusi più radi. Interpretazione – Unità abitativa composta da un nucleo centrale (riconoscibile nell’angolo meridionale del sito) e da altri annessi funzionali costruiti sia interamente in materiale deperibile che solo parzialmente con copertura laterizia. La ceramica medievale è proveniente dal castello sovrastante. Elementi datanti Acroma grezza Olla riconducibile al tipo Chianti, tav. XXX n. 20, con cronologia III?II a.C. Cronologia – III-II secolo a.C. Rinvenimento inedito (89) Località Piano di Papena (Q.120 IV-4785/674) 303 m s.l.m.; versante poggio; argille argille sabbiose; fiume Feccia; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: ottima; stato di conservazione del deposito: ottimo. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare posto su una porzione del poggio retrostante il piccolo nucleo abitativo in Piano di Feccia; è confinante a nord-ovest con un campo arato, a est con la provinciale per Frosini e a sud con le prime propaggini del Piano di Papena. Descrizione unità topografica – Concentrazione di ceramica acroma grezza e pochi laterizi, dimensioni 433 m, riconoscibile nell’angolo sudoccidentale, in prossimità della siepe di delimitazione del campo. Presenza, media per mq – Tre-quattro reperti. Cultura materiale presente Acroma depurata Impasto di consistenza friabile, colore beige-rosato. Forma chiusa: 1 frammento di parete con decorazione a stecca a linee geometriche. Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 15 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa di piccole dimensioni realizzata con elevati in materiale deperibile e probabilmente copertura in laterizio. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (90) Località Podere San Giovanni (Q.120 IV-4781/673) 300 m s.l.m.; versante; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: discreto. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare confinante a nord con la strada a sterro che parte da Frassini diretta verso al Tiro a volo, a est e a ovest con campi a pascolo e a sud con il corso del torrente La Gallessa. Descrizione unità topografica – Piccolissima concentrazione di ceramica acroma grezza posta a circa metà campo a occupare uno spazio di 332 m. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa: 9 frammenti di parete. Interpretazione – Casa di piccole dimensioni realizzata interamente in materiale deperibile. Viene datata alla fase arcaica in quanto presenta unicamente l’impasto 1a, tipico di questo periodo. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (91) Località Borgo Villanuova (Q.120 IV-4786/675) 409 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche; fosso Fonte Bomari; pascolo. Ricognizioni effettuate: 1; pascolo; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo antistante il podere Villanova lasciato a prato dove si rinvengono frammenti di impasto laterizio e pochi frammenti di ceramica grezza e depurata. Descrizione unità topografica – Raccolta sporadica di materiali visibili nonostante la tenuta a pascolo del terreno. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa: 6 frustuli di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – VI/V-III/II secolo a.C. Rinvenimento inedito (92) Località Il Casino (Q.120 IV-4782/670) 361 m s.l.m.; versante; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: discreto. Descrizione sito – Campo di forma trapezoidale posto in pendio verso sudest confinante a nord, ovest e sud con campi arati. È collocato in posizione sottostante il podere Il Casino. Descrizione unità topografica – Concentrazione (231 m) di modestissime proporzioni di ceramica acroma grezza e laterizi. Presenza, media per mq – Due reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a. Forma chiusa. Olla: 8 frammenti di parete. Laterizi Impasto leggermente più fine del tipo 1. Interpretazione – Casa di piccolissime dimensioni realizzata con elevati in materiale deperibile e copertura in laterizio. Cronologia – Fine VI/V-III/II secolo a.C. Rinvenimento inedito (93) Località Fonte al Bonichi (Q.120 IV-4782/671) 376 m s.l.m.; forte pendio; argille; torrente Gallessa; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma rettangolare con una pendenza marcata in direzione ovest; confina a est e a sud-est con la strada a sterro che collega Chiusdino a Frassini, a nord-est con il cimitero e con il prato antistante. A nord-est, nord, nord-ovest, a ovest è delimitato da con un altro campo arato e a sud/sud-ovest dal boschetto. Descrizione unità topografica – Piccola concentrazione di ceramica grezza, dimensioni 334 m, riconoscibile a metà del lato lungo il campo confinante con il bosco, a mezza costa. La giacitura è comunque molto compromessa dall’azione dei mezzi meccanici. Presenza, media per mq – Due/tre reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1b. Forma chiusa. Olla: 5 frammenti di parete; 1 frammenti di bordo ingrossato ed estroflesso con orlo squadrato. Impasto 1a. Forma chiusa. Grandi contenitori: 5 frammenti di parete; 1 frammenti di bordo, ingrossato estroflesso con orlo piano e squadrato, a parete leggermente convessa. Interpretazione – Casa di piccole dimensioni realizzata interamente in materiale deperibile. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (94) Località Frassini (Q.120 IV-4782/671) 376 m s.l.m.; versante; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Campo di forma pressoché semicircolare digradante in direzione sud e sud-est. Segue a nord, nord-est, nord-ovest l’andamento curvilineo di un poggio (sito 95) che si presenta in forte dislivello rispetto al campo. A ovest e a est confina con campi lasciati a prato. Descrizione unità topografiche – Si individuano tre emergenze di reperti mobili in superficie, disposte a coprire la metà orientale del sito. (94.1) Concentrazione di materiale ceramico, dimensioni di 534 m, posto a circa metà del lato corto verso sud; l’evidenza risulta danneggiata non ben evidenziata dai lavori agricoli che hanno operato un’aratura troppo superficiale. Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 10 frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa pertinente a 94.2 realizzata interamente in materiale deperibile. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (94.2) Concentrazione di materiale ceramico simile a 94.1 associato a molti frammenti di laterizio e alcune pietre disposte in modo non omogeneo, posta a circa 8 m da 94.1 in direzione nord-ovest. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 8 frammenti di parete;1 ansa a bastoncello. Laterizi Impasti 1 e 6. Interpretazione – Casa con elevati in pietra e copertura laterizia. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. (94.3) Procedendo da 94.2 di circa 15 m in direzione nord-est, si riconosce la presenza di frustuli dello stesso materiale delle altre unità topografiche; è diffusa in un’area molto estesa e copre la parte alta del campo, costituita da tutto il pianoro (circa 20310 m). Presenza, media per mq – Un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b. Forma chiusa. Olla: 10 frammenti di parete; 1 ansa a nastro con scanalatura. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale pertinente al deposito 94.2, che ha subìto il trascinamento dei mezzi meccanici durante le arature. Cronologia – Fine VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (95) Località Frassini (Q.120 IV-4782/671) 389 m s.l.m.; sommità poggio; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Poggio occupato nel versante nord, nord-ovest, sud dal bosco e in quello verso nord, nord-est, sud da un campo arato. Confina a sud-est con il sito 94, a sud-ovest con la vicinale, che parte dalla strada a sterro per Frassini proveniente da Chiusdino e costeggia il fienile posto sulla curva. Descrizione unità topografica – Scarsa presenza di materiale laterizio diffuso nella sola porzione pianeggiante, posta a coprire l’angolo meridionale per uno spazio di 738 m. La giacitura è molto incoerente e non evidente. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cronologia – VI/V-III/II secolo a.C. Rinvenimento inedito (96) Località Podere Arca (Q.120 IV-4790/675) 305 m s.l.m.; pendio; flysh prevalentemente argillitici; torrente Rosia; seminativo. Rinvenimento edito Ricognizioni effettuate: 2; terreno arato, pascolo; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo sottostante il podere, di forma irregolare ritagliato all’interno di una grande area boschiva; è confinante a ovest con lo spazio circostante l’edificio e sugli altri lati, appunto, con vegetazione boschiva. Descrizione unità topografica – L’emergenza di reperti mobili in superficie è stata individuata nel corso della ricognizione angloitaliana ed è costituita da materiale sporadico, per lo più ceramico; nella parte bassa del sito sono presenti anche schegge di diaspro (non viene specificato se ritoccate). Il campo non è verificabile in quanto è attualmente lasciato a riposo. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Plurifrequentazione. Bibliografia – Scheda F/730 (1985) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (97) Località Cotorniano (Q.120 IV-4790/673) 531 m s.l.m.; sommità collinare; flysh prevalentemente argillitici; fosso Parapanna. Notizie storiche – Nel 996 Willa, della futura famiglia dei Della Gherardesca, dona alla cattedrale di Volterra otto “casis et cassinis” fra cui una “casa et res massaricie in Cuturgnano”. Attestazioni documentarie RV, n. 85, p. 31: 9 febbraio 996: “Uuilla mulier Gherardi et filia b. m. Berardi consenziente viro, ubi interesse videtur notitia ad Johannes iudex inp. Interrogata sequenter edicti pagina, cum viro pro remedio anime nostre offero domo s. Marie fra mura civitatem Volot. in potestatem de canonica s. Ottabiani, que infra episcopio in corpore requiessci, octo inter casis et cassinis seu integris sortibus infra comitato et territurio Volot. in loco ubi nuncupantes: [...] casa et res mass. in Coturgnano, modo r. per Dominicho mass.; pen. dupli”. Interpretazione – Unità agricola. Cronologia – X secolo d.C. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1982, p. 14; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 55-56; RV, p. 31. (98) Località Le Cetine (Q.120 IV-4789/676) 342 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; torrente Rosia, pascolo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Sulla base delle indicazioni contenute nella scheda della ricognizione effettuata all’interno del progetto Montarrenti, il sito viene collocato genericamente nei campi sottostanti il nucleo abitato delle Cetine, in posizione di lieve pendio. Descrizione unità topografica – Viene segnalata una concentrazione (di cui non è riportata l’estensione) caratterizzata dalla presenza di materiale da costruzione (tegole e laterizi) e di una grande quantità di ceramica (54 frammenti) fra cui anche 6 frammenti di sigillata e uno di dolio. Il campo, non lavorato negli anni 1994-1995 (anni della nostra ricerca sul campo), non è stato verificato autopticamente. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Villa. Cronologia – Generica età romana. Bibliografia – Scheda F 18/107 (1986) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (99) Località Le Cetine (Q.120 IV-4789/676) 342 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche; torrente Rosia; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: buona; stato di conservazione del deposito: discreta. Descrizione sito – Campo genericamente localizzabile nelle vicinanze del sito 98. Descrizione unità topografica – Presenza sporadica di materiale romano, da mettere probabilmente in connessione con le evidenze di superficie individuate nel sito 98; l’emergenza è stata individuata durante il survey anglo-italiano. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica età romana. Bibliografia – Scheda F 18.15 (1986) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (100) Località Podere Arca (Q.120 IV-4790/675) 330 m s.l.m.; pianura; flysh prevalentemente argillitici; torrente Rosia; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Porzione di seminativo, sottostante il podere, parzialmente adibito a vigna; è posto in leggera pendenza e confina a ovest, sud, sud-est con campi incolti. Descrizione unità topografica – La scheda, redatta durante la ricognizione effettuata dall’équipe anglo-italiana, riporta la presenza di ceramica medievale e probabilmente romana, tegole e laterizi, ed è distinta in due unità topografiche: non vengono fornite coordinate né alcuna rappresentazione grafica per definire la loro disposizione nel sito. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Plurifrequentazione. Bibliografia – Scheda F7.10 (1984) consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (101) Località Podere Cerinalto (Q.120 III-4781/675) 303 m s.l.m.; versante poggio; argille; fiume Feccia; seminativo. Rinvenimento edito Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di modeste dimensioni, posto sopra il fiume Feccia, in corrispondenza del bivio presso il Km. 73 della strada provinciale per Prata. Descrizione unità topografica – Durante la ricognizione prevista nell’ambito del progetto Montarrenti sono state raccolte “selci sporadiche”, per le quali non si specifica la presenza di tracce di lavorazione. Presenza, media per mq – Non riportata. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – Generica preistoria. Bibliografia – Scheda F 77.4 (1983), consultabile presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. (102) Località Il Casino (Q.120 IV-4782/671) 383 m s.l.m.; versante collinare; argille; fosso Rigo; seminativo. Ricognizioni effettuate: 1; terreno arato; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: scarso. Descrizione sito – Campo di forma irregolare posto in forte pendenza; è delimitato a nord dalla strada diretta a Chiusdino, e a est e ovest confina con campi adibiti a pascolo. Descrizione unità topografica – Notevole concentrazione di laterizi e ceramica acroma grezza e depurata, dimensioni 335 m, ubicata nella parte bassa del campo e allineata con il palo della luce posto sul campo a pascolo. Gli stessi materiali sono presenti anche al di fuori dell’area di massima presenza. Presenza, media per mq – Tre reperti. Cultura materiale presente Acroma grezza Impasto 1a e 1b, 2. Forma chiusa. Olla: 12 frammenti di parete. Ceramica da fuoco. Tegame: 1 frammento di presa a corno. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Casa di piccole dimensioni con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia. Cronologia – Generico etrusco. Rinvenimento inedito (103) Montalcinello (Q.120 IV-4784/669) 378 m s.l.m.; sommità collinare; conglomerati poligenici; fosso Fiumarello; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Sommità collinare, interamente occupata dall’insediamento, raggiungibile dal bivio che, dalla strada provinciale per Chiusdino proveniente dal Piano di Feccia, porta a Radicondoli. Notizie storiche – Il “castrum Montis Alcini” compare citato per la prima volta nel lodo di pace del 1133 stipulato fra i conti Gherardeschi e il vescovo volterrano. Le origini del castello sono da rintracciare, con tutta probabilità, nel “castrum S. Magni”, fortificato per volontà vescovile negli anni fra il 997 e il 1005 (in proposito si veda il sito 104). In base agli accordi, Montalcinello (nella duplice variante Montis Alcini/Montalcino) rimane di proprietà assoluta del vescovo; non sappiamo però in quale misura fu coinvolto nel conflitto. I conti, da sempre esclusi nella gestione del castello, rimangono comunque proprietari di alcune terre comprese nella sua corte; in una vendita di terreni rogata all’interno delle mura, Tedice, figlio di Ugo di Guido II, si definisce eccezionalmente “conte di Montalcinello”. A partire dalla fine del XII secolo, la storia della struttura castrense si lega strettamente alle vicende della famiglia Pannocchieschi, i cui esponenti ricoprono l’ufficio vescovile dal 1150 fino al 1215, senza soluzione di continuità. Divenuto residenza privilegiata e sede di una delle zecche del Vescovato, negli ultimi anni del XII secolo subisce le pesanti conseguenze degli scontri sorti con il Comune di Siena in merito al controllo dei castelli di Val di Merse, di Montieri e Gerfalco. Il vescovo, gravemente indebitato, ricorre spesso alla soluzione di impegnare le rendite di Montalcinello per il pagamento delle ingenti somme di denaro dovute alla città; accade nel 1193 e ancora nel 1215 al termine della guerra che sancisce la supremazia senese sul territorio. Ugualmente, viene spesso offerto come garanzia ai finanzieri cittadini che intervengono a colmarne le difficoltà economiche, derivate dalla sudditanza politica a Siena; nel 1251 è occupato da due mercanti a titolo di pegno per un prestito e nel 1257 viene vincolato per altri sette anni ad Ildebrandino Tolomei. La grave recessione economica si palesa anche nelle leggi relative alla monetazione, datate al 1321 e 1323; viene deciso di ridurre la percentuale dell’argento in modo che mezza oncia d’argento, prima utile al conio di 55 soldi, sia sufficiente per la produzione di 58 soldi. Nel 1327, nell’impossibilità di pagare il censo annuo secondo accordi, Montalcinello viene occupato dai Senesi; cinque anni dopo, il governo dei Dodici obbliga tutti gli abitanti a versare 500 lire all’anno da consegnare alla festa di Santa Maria d’agosto. Inizia dunque la reale decadenza della comunità, schiacciata dagli oneri fiscali: quest’ultima, nel 1369, accetta la sottomissione alla Repubblica in cambio della riduzione del tributo a 250 lire. Fino al 1376 fu amministrata da rappresentanti del Comune; nel 1385, al fine di diminuire le spese di gestione, le viene concessa l’autonomia. Nel 1398 ottiene un’ulteriore riduzione delle tasse con l’esonero dal pagamento del sale e la concessione di altri privilegi, volti a ristabilire almeno in parte l’equilibrio sociale ed economico del castello; la comunità in soli 40 anni si riduce da 120 uomini ai 25 attestati nel 1420. Le ragioni dello spopolamento demografico sono da ricercare nella povertà del territorio che, per metà boschivo, era diviso nella parte lavorativa fra le proprietà del vescovo e quelle del Comune; condizione che, di fatto, penalizzava il formarsi della piccola proprietà, paralizzando così il dinamismo interno. Alla metà del XV secolo il provvedimento emanato da Siena riguardo all’esonero dal pagamento di qualsiasi imposta non serve ad arginare il declino. Secondo le descrizioni offerte da Gherardini e Pecci nel XVII-XVIII secolo il nucleo, completamente desolato, constava di poche abitazioni, poco più che capanne in pessime condizioni, occupate da un ridotto numero di persone; la totale assenza di strutture produttive determinava poi una dipendenza sempre maggiore dalle comunità di Elci e Monticiano. Nel periodo di massima espansione, XII e XIII secolo, il territorio compreso nelle pertinenze del castello non doveva essere esteso e popoloso: la sua corte, definita in base all’estensione delle corti di Chiusdino e Frosini di cui conosciamo i limiti, doveva spingersi poco oltre le mura castellane. La sua chiesa era annessa alla Pieve di Sorciano. Attestazioni documentarie ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene, 5: 1133: “laudamus et precepimus etiam quod Gena et filii eius omnes hoc iurent de castro Montis Alcini et curte eius”. RV, n. 203, p. 72: 29 dicembre 1171: Privilegio di Papa Alessandro III per il vescovo Volterrano, Ugo de’ Saladini. Tra l’altro gli conferma “il castello di Montalcinello con tutto ciò che gli appartiene e il popolo e i parrocchiani della chiesa di Sorciano”. RS, n. 304, pp. 117-118: settembre 1181: Ugo, vescovo Volterrano “iurare faciam omnibus hominibus de Montelio, Cluslino, Montalcino, Frosini, Gerfalco ad festum s. Michaelis, quos consules petierint. Possessionem castelli dabo Senensibus ad festum s. Michaelis”. CV, n. 22, I, pp. 35-36: gennaio 1193: Pronunciato dal Vescovo Ildebrando “Pro quibus, nomine pignoris, obligo vobis nomine Senensis comunis et vestris successoribus castrum de Fruosine et curtem eius totam et nominatim totum feudum quod habent ibi comites et tenent a me, et castrum et curtem totam de Montalcino”. RS, n. 364, pp. 143-144: 18 dicembre 1193: “Ego Ildibrandinus Vult. ep. iuro quod restituam comitibus Ugolino de Strido et filiis Baverio, Tedicingo, Tancredo, Beliocto Fruosinem et eius curtem, sicut ipsi, patres, avi habuerunt, et ubicumque per episcopatum aliquid habuerunt, vel ad Montalcinum vel ubicumque: feudum pro feudo, allodium pro allodio”. Descrizione unità topografica – L’abitato di Montalcinello, probabilmente a causa del generale stato di depressione socio-economica che coinvolse l’antico castello e il territorio circostante a partire dal XV secolo, ha conservato lo sviluppo dell’insediamento medievale, a eccezione di un recente ampliamento del nucleo abitato verso sud, di limitate dimensioni, e di alcuni interventi di ristrutturazione all’interno. Dell’antico circuito murario non restano tracce, ma in più punti l’andamento delle costruzioni poste al limite dell’insediamento denota la presenza di strutture più antiche, sulle quali si sono addossate, nel corso dei secoli, le abitazioni. La via principale che attraversa tutto il nucleo costituisce tuttora l’asse portante della struttura urbanistica insediativa; da questa si dipartono una serie di vicoli che conducono all’interno, fino al limite dato dal preesistente circuito murario. Nonostante alcuni discutibili interventi di restauro, si nota una particolare attenzione alla conservazione delle caratteristiche originali dell’abitato nel mantenimento dell’antica pavimentazione in pietra di molti vicoli e nella valorizzazione degli elementi architettonici originali degli edifici di più antica costruzione. All’estremità dell’insediamento, in posizione sommitale, si trova la chiesa di San Magno. Una lapide murata all’interno del’edificio religioso, sulla parete di destra, lo vuole fondato dal vescovo Ranieri degli Ubertini di Volterra nell’ultimo decennio del XIII secolo. Ad aula rettangolare, priva di terminazione absidale, presenta l’interno, a una sola navata e con copertura sorretta da capriate lignee, fortemente rimaneggiato. Esternamente la chiesa propone una semplice facciata a capanna, in bozze di arenaria e calcare di diversa altezza, squadrate e disposte a corsi sub-orizzontali e paralleli. La parte superiore del prospetto presenta un paramento in laterizi dovuto a un innalzamento della struttura; non originali sono inoltre la parte superiore del portale con lunetta e architrave monolitico sorretto da mensole concave, e il rosone superiore. I numerosi interventi subìti dalla struttura, che mostra il fianco sinistro coperto da edifici annessi, sono ben visibili nel prospetto laterale destro. I diversi tipi di tessitura muraria mostrano un utilizzo della pietra calcarea che va dalla lavorazione in conci squadrati, al paramento in ciottoli di fiume alternati a bozze irregolari. A un periodo tardo, va infine riferito l’intervento di tamponatura della porta laterale e i frequenti rifacimenti in laterizi, compresa l’apertura di due finestre monofore, visibili nella parte superiore del prospetto. Interpretazione – Castello. Cronologia – X secolo d.C.-età contemporanea. Bibliografia – AA.VV., 1994; Ascheri-Ciampoli, 1986, pp. 184-185; Ascheri-Ciampoli, 1990, pp. 171-172; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Ceccarelli Lemut, 1982, documenti in appendice; Cappelletti, 18441870, XVIII, pp. 207-208; CV, nn. 19, 22, 159; Gherardini, 1676, Pecci, c. 298; Schneider, 1914, p. 14; Repetti, 1841, II, p.288; RV, pp. 7-8, 31-33, 36, 69-70, 72, 74, 89, 209, 229; Targioni Tozzetti, 1770, IV, p.19; Visite Pastorali: anni 1436, 1440, 1508, 1550, 1565, 1574, 1599, 1625, 1663, 1678, 1717, 1784, 1811, 1851, 1884,1896, 1911, 1945. (104) Podere San Magno (Q.120 IV-4784/669) 393 m s.l.m.; sommità poggio; conglomerari poligenici; fosso Fiumarello; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Sommità collinare prospiciente Montalcinello, da cui dista circa 2 km in linea d’aria. Occupa la porzione meridionale della sommità del Poggettone; la superficie del poggio è parzialmente tenuta a vegetazione stabile e a seminativo. Notizie storiche – Nel 943-944 il vescovo volterrano Boso concede a livello una casa posta “in s. Magno”. Nel 996, la donazione effettuata dalla contessa Willa, dei Gherardeschi, a favore della canonica di Sant’Ottaviano attesta la presenza di un edificio religioso pertinente all’azienda curtense; nel documento, datato al 996, viene ricordata una “casa et res massarice a Canstagno prope ecclesia s. Magni”. All’anno successivo risale la prima attestazione della curtis s. Mangni. È fuori dubbio la sua appartenenza al vescovo volterrano, che riveste chiaramente il ruolo di dominus dell’azienda, a cui fanno capo alcune unità contadine (dislocate nello spazio compreso fra Montalcinello e Cerciano, nel Radicondolese), lavorate da massari, gestiti a loro volta da livellari incaricati dal vescovo stesso. Negli anni compresi fra il 997 e il 1005 la curtis viene incastellata; in un livello (in data 18 maggio 1005) si prevede che il pagamento debba avvenire “in curte et castello s. Mangni”. La formula della citazione mostra come in questa data il castello si affianchi in posizione di complementarietà all’organismo curtense, che costituisce ancora il centro principale; il nucleo fortificato non ha ancora assunto cioè una posizione predominante. Il castello viene citato per l’ultima volta nel 1064; dopo questa data, compare nei documenti il castello di Montalcinello. I due nuclei hanno punti di contatto per quanto riguarda l’assoluta gestione vescovile e la presenza intra moenia di una chiesa intitolata a San Magno; risultano però distinti relativamente all’ubicazione esatta, l’uno posto sul poggio di San Magno, sede di curtis, l’altro presso l’attuale paese di Montalcinello (circa 1,5 km in linea d’aria). Se esiste la possibilità che i due fenomeni (la scomparsa del primo castello e la creazione del secondo) siano del tutto autonomi, è comunque ipotizzabile che l’abbandono della prima struttura sia stato causato proprio dalla volontà di insediare un altro spazio, morfologicamente più dominante e adatto ad accogliere un insediamento di più ampie dimensioni (come poi diventerà lo stesso Montalcinello). Per quanto riguarda il castello di San Magno, non abbiamo alcun tipo di evidenza materiale; nell’antistante Poggio Castellare si conservano alcuni tratti murari, disposti in una situazione morfologica particolare di chiara origine antropica, genericamente riferibili all’età medievale. L’assenza di indicatori cronologici esatti impedisce di stabilire relazioni sicure fra le due manifestazioni; certo è che la presenza del toponimo non sembra essere casuale. In quest’ottica, potremmo dunque pensare a un’originaria forma insediativa dove il centro fortificato (sul poggio Castellare) si colloca in una posizione distinta ma contigua alla curtis (in località San Magno); l’acquisizione di un ruolo predominante del castello, a partire dalla metà dell’XI secolo (nel 1066 compare infatti citato solo come castello) può aver portato alla decadenza di entrambi i siti e al trasferimento della sede castrense a Montalcinello. Attestazioni documentarie RV, n. 24, pp. 7-8: 943-944: “Boso Volat. [ep. Terentino..] liv. ordine firmo in casa et res qui est [in loco.. et recta] fuit per Teudiprando mass. [at alia] in s. Magno pro ann. pens. XII den”. RV, n. 85, p. 31: 9 febbraio 996: “Uuilla mulier Gherardi et filia b. m. Berardi consenziente viro, ubi interesse videtur notitia ad Johannes iudex inp. Interrogata sequenter edicti pagina, cum viro pro remedio anime nostre offero domo s. Marie fra mura civitatem Volot. in potestatem de canonica s. Ottabiani, que infra episcopio in corpore requiessci, octo inter casis et cassinis seu integris sortibus infra comitato et territurio Volot. in loco ubi nuncupantes: [...] casa et res mass. a Castangno prope eccl. s. Mangni, modo r. per Iohanni mass”. RV, n. 88, pp. 32-33: 23 maggio 997: “Benedictus Volot. ep. lib. nom do Eriberto seu Ilditio qui Uuilo voc. gg. f. b. m. Iohanni qui Bonitio voc. seu Uuido et Reintio gg. f. b. m. Atitii adque Raineri f. b. m.; Teutii barbas et nepotes casa in loco et fundo Flabiano, que r. fuit per Iohanni qui Bonitio voc. et modo per vos germanis, barbas et nepotes, pertinens de curte s. Mangni pro annua pens. in fest. s. Marie in agusto ad curte San Manngni reddenda arg. den. duodeci b. exp. qualis per temp. o.; duo vicem in anno ad curte venire debetis; pen. arg. sol. LX., Act. loco Colletanuli territurio Volotenense”. RV, n. 97, p. 36: 18 maggio 1005: “Benedictus ep. Volt. lib. nom. dedi Petrus presb. f. Oriprande q. Oritia voc. med. de casa mass. in loco et fundo in Sursciano prope plebem, qui r. fuit per qd. Petrus mass. et modo per te Petrus presb. pertinens de curte s. Mangni, ut in festa s. Marie in agusto solvas ad ministerialem in curte et castello s. Mangni pens. arg. din. duodeci b. exp. qualis per temp. o.; decedente te res Anselmo, Grimaldo, Rainbaldo gg. f. Peturnille deveniant; pen. arg. sol. LX. act. Volot. Benedictus ep. ss. petrus arcipresb. ss. S. m. Ildibrandi qui Ilditio voc. f. b. m. Ildibrandi qui Ilditio voc. tt. Homitii f. b. m. Roitii tt. Fluritii f. b. m. Urse tt. Gherardus not. inp.”. Interpretazione – Curtis-castello. Data l’assenza di tracce archeologiche relative alla struttura castrense abbiamo formulato l’ipotesi di una sua realizzazione prevalente in materiale deperibile; la proposta non ha però pretese di veridicità. Cronologia – Anno 997-anno 1064. Bibliografia – RV, pp. 7-8, 31-33, 69-70, 72, 74, 89, 209, 229. (105) Frosini (Q.120 IV-4785/674) 346 m s.l.m.; sommità poggio; rocce carbonatiche brecciate-detriti e discariche-depositi alluvionali; fosso di Fonte Bomari; area edificata. Notizie storiche – Sottoposto al dominio gherardesco, compare, insieme alla sua chiesa, fra i castelli della Val di Merse citati nella donazione all’abbazia di Serena, avvenuta nel 1004: nonostante l’assenza di riferimenti precedenti, sulla base del testo, possiamo ipotizzare l’origine di Frosini dalla fortificazione di un centro curtense preesistente, avvenuta per volontà signorile, alla fine del X secolo. Il vuoto documentario impedisce di comprendere il ruolo svolto dal castello nel corso dell’XI secolo all’interno dei patrimoni dei Gherardeschi: nella lotta accesasi fra i conti e il vescovo negli anni 1125?1133, Frosini non viene investito dalle pesanti azioni di guerra rivolte invece alle proprietà comitali di Miranduolo e Serena. Non sappiamo se questo elemento vada letto come effetto di una diversa importanza dell’insediamento che, lontano dai punti focali della politica economica della famiglia comitale, sembra rivestire il ruolo di avamposto del potere gherardesco; è posto a controllo dell’ultima propaggine della Diocesi di Siena e per di più occupa uno dei nodi principali della viabilità verso il mare e verso l’area mineraria (a poca distanza dal castello si incrociavano il tracciato della strada maremmana e il diverticolo della Via Francigena, proveniente dalla Val d’Elsa). In base agli accordi di pace del 1133, contravvenendo alla donazione che lo vedeva di proprietà dell’abbazia di Serena, passa al vescovo, che lo concede in feudo ai conti, in cambio dell’omaggio ligio; si riserva però il diritto di rifugiarvisi o di usarlo in caso di guerra. Nonostante le ingerenze volterrane, Frosini rimane l’unico dominio saldo dei conti che nel 1178, in seguito alla divisione della famiglia in quattro rami distinti, ne assumono il titolo comitale; dopo la morte di Ugo infatti, i figli decidono di convogliare i propri possedimenti nella Val di Merse (tramite cessioni ai parenti delle loro quote in Val d’Era) concentrandoli intorno ai castelli di Frosini e Miranduolo, sotto la guida di Tedice, e intorno a quello di Strido, controllato da Ugolino. Negli stessi anni, i Gherardeschi si pongono come sostenitori dell’ingresso di Siena nella zona, a contrastare l’indiscussa egemonia dei Pannocchieschi (ormai stabilmente rappresentanti del potere vescovile di Volterra); si sottopongono immediatamente come vassalli del Comune, offrendo la metà del castello di Miranduolo e del loro patrimonio estrattivo posto sul Monte Beccario. La risposta del vescovo verte sul recupero dei patti del 1004: rinnega la concessione, contrattando con l’abbazia la permuta di Miranduolo e vi conferma poi il controllo benedettino, tramite l’emissione di una bolla papale. La mossa non ha comunque effetto: sceso in conflitto aperto con la città, Pagano è costretto, dopo una prima tregua, a dare in pegno i castelli di Frosini e Montalcinello a garanzia del pagamento del tributo impostogli; pochi mesi dopo si impegna con i conti alla restituzione dell’intero patrimonio, compreso il castello di Frosini e la sua corte. Quindi, nel 1202, il conte Ugolino conferma di non aver mai rescinto i patti del 1178 e giura di mantenersi fedele alla città di Siena. Anche sul castello in oggetto, il dominio indiretto del Vescovato si conclude formalmente con il riconoscimento da parte di Pagano dell’autorità cittadina sui propri possedimenti in Val di Merse (1215). Contemporaneamente a queste vicende, sull’intero territorio di pertinenza e all’interno del nucleo stesso, si allarga progressivamente il potere dell’abbazia di San Galgano, che qui trova il mezzo più efficace di penetrazione e affermazione territoriale. L’ingresso cistercense viene facilitato dalla classe dei Lambardi, ceto intermedio costituito da famiglie legate fra loro da vincoli parentali o consortivi; retaggio dell’organizzazione signorile, è lontana dall’accogliere i fermenti di dinamismo, riconosciuti negli altri grandi centri limitrofi. Pressati da pesanti difficoltà economiche, vendono quote fondiarie sempre maggiori ai monaci; lo dimostrano i frequenti atti di acquisto stipulati a favore di queste famiglie. Anche Siena arriva a scontrarsi con l’espansione monastica e nel 1274 è costretta a eleggere una deputazione specializzata che valuti la legittimità delle richieste dei religiosi per autorizzare il loro controllo assoluto sulla struttura: non conosciamo però l’esito della verifica. Frosini, comunque, combatte al fianco del Comune senese durante la guerra contro i conti Aldobrandeschi di Santa Fiora e riceve in cambio l’esonero di un terzo dell’imposta dovuta; pochi anni dopo, anche la dispensa dall’obbligo di visita del Podestà (già in precedenza, comunque, si era interrotto per brevi periodi l’invio di un cittadino senese con tale incarico). Nel 1364 subisce gravi danni a causa degli assalti delle Compagnie di Ventura inglesi; in questa circostanza, la città esonera la comunità dal versamento di qualsiasi tributo per i cinque anni seguenti. Alla metà del XIV secolo si verifica un tentativo da parte del vescovo volterrano di sfruttare la venuta dell’Imperatore Carlo IV in Italia, per riconquistare i suoi diritti su Volterra e su altri centri fra cui anche quello in oggetto: l’iniziativa fallisce per una netta opposizione della sua città e di Siena. Verso la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, Frosini, pur rimanendo in dominio del Comune, viene chiaramente gestito dall’abbazia di San Galgano: il 25 novembre 1409 viene pronunciata una deliberazione del governo senese in merito all’obbligo dell’abbazia di sorvegliare il castello e impedirne la decadenza e la distruzione. Sottoposto alla dannosa gestione degli abati commendatari, delegati all’amministrazione dell’abbazia a partire dal 1503, decade e viene trasformato in residenza privata degli eredi dell’ultimo abate commendatario, il cardinale Feroni. La corte di Frosini, estesa a occupare quasi interamente l’attuale Comune di Chiusdino, è delimitata a nord e a est dall’attuale confine, a sud dal podere di Ticchiano e a ovest comprende i poderi di Greppini e Papena. L’organizzazione interna del castello è definibile nelle tipologie abitative e nell’estensione, in base ai dati ricavati dalla lettura della Tavola delle Possessioni. Il nucleo, piuttosto consistente, annovera al suo interno numerose strutture organizzate intorno a vaste aree aperte e un solo edificio ecclesiastico, intitolato a San Michele Arcangelo; non sono ricordati impianti produttivi, collocati invece nei nuclei circostanti (come ad esempio nella vicina grangia di Valloria) o in aree più distanti, sempre, però, sottoposte al controllo castrense. La proprietà degli edifici è divisa fra il monastero di San Galgano, che vi possiede 14 abitazioni di cui nove dotate di piazza, due casalini e dieci spazi aperti, e gli abitanti del castello che possiedono una ventina di case, di cui dieci con piazza, tre casalini e 13 spazi aperti. Diseguale è, invece, la percentuale del patrimonio abbaziale sul territorio della corte che è squilibrato sia qualitativamente che quantitativamente a favore dell’ente ecclesiastico. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa: 1004: “castello de Frosini sexta parte cum ecclesia sancti Michaelis archangeli cum curte”. ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene 5: settembre 1133: “Laudamus etiam precipimus ut Gena et omnes filii eius episcopum et successores eius et homines eius in castro Frosine contra omnes homines refugium, quandocumque necessarium fuerit, habere permittant; similiter, si necessitas fuerit, ad guerram faciendam Vulterrano episcopo iamdictum castrum Frosine habere concedant. [...] laudamus autem et precipimus quod Gena cum omnibus filiis iuret quod castrum Frosine aut medietatem castri Cluslini, quam episcopus concedit eis, vel partem eorum nulli omnino hominum ad damnum Vulterrani episcopatus dabunt et, si factum est, infrigent”. RS, n. 364, pp. 143-144: 18 dicembre 1193: “Ego Ildibrandinus Vult. ep.iuro quod restituam comitibus Ugolino de Strido et filiis Baverio, Tedicingo, Tancredo, Beliocto Fruosinem et eius curtem, sicut ipsi, patres, avi habuerunt, et ubicumque per episcopatum aliquid habuerunt, vel ad Montalcinum vel ubicumque: feudum pro feudo, allodium pro allodio [...]. Et faciam pignus vobis consulibus Montalcinum et ius quod habeo in Frosine et dicti comites tenent a me”. RS, n. 410, p. 167: 1202: “Ego Ugolinis de Strido iuro, quod non alienavi id quod habeo ad Frosinem et ad Miraldolum vel in curtibus eorum Ildibrandino ep. Vulterr. nec concessi aliquod ius ex illis eidem et quod dicta non alienabo, nisi hoc facerem cum parabola omnium consulum vel potestatis Sen. cum accordamento consilii canpane Sen. Promitto vobis Sen. consulibus, videlicet Uguicioni Beringerii tunc priori, Guidoni Mariscotti, Guinisio et Bartalomeo Rainaldini presentibus, hec omnia observare. – Acta Senis in curia de s. Peregrino. – Baverio de Frosine. Phylippo Malavolte. Rainaldo Rain(erii). Rainerio Montonis. Uberto Gilii. Cristofano iudice. Orlando Codennacci. Trombecto Scricioli, aliis tt. – Scottus iudex et not.”. CV, n. 22, I, pp. 35-36: gennaio 1193: Pronunciato dal Vescovo Ildebrando “Pro quibus, nomine pignoris, obligo vobis nomine Senensis comunis et vestris successoribus castrum de Fruosine et curtem eius totam et nominatim totum feudum quod habent ibi comites et tenent a me, et castrum et curtem totam de Montalcino”. CV, n. 71, I, p. 104: 1202: “Ego Ugolinus de Strido iuro [...] non vendidi nec permutavi nec aliquo modo alienavi vel obbligavi id quod habeo ad Frosinem vel in eius curte et id quod habeo ad Mirandolum vel in eius curte in totum vel in partem, nec aliquo ius quod in his habeo [...] Ildebrando episcopo Vulterrrano nec alteri persone pro eo aliquo modo”. ASS, Estimo 2, cc. 15, 17, 18, 29, 39, 48, 48v, 55, 57, 58, 63, 75, 76, 78, 79, 81, 93, 109, 119, 132, 135, 137, 146, 151, 151v, 176. Strutture di proprietà dei cittadini della corte di Frosini: “Domum”: 1; “Domum cum platea”: 7; “Domum cum plateis”: 3; “Platea”: 13; “Casalini”: 3; “Domum cum cellario”: 1. ASS, Estimo 118, cc. 269, 269v, 270, 270v, 271, 271v, 272. Strutture di proprietà del monastero di San Galgano: “Domum” 5; “Domum cum platea” 6; “Domum cum plateis” 3; “Platea” 10; “Casalini” 2. Descrizione unità topografica – L’insediamento è strutturato intorno al nucleo castrense, la cui originaria struttura è oggi in gran parte scomparsa. Le alte mura di cinta che circondano il fronte principale (lato est) del complesso, sono opera del restauro che nel XIX secolo trasformò in gran parte la struttura di epoca medievale. Racchiudono un torrione centrale, forse il primitivo nucleo del castello; la struttura, visibile solo nella parte superiore, presenta un rialzamento della parte terminale, coronata da merli guelfi, riconducibile agli interventi ottocenteschi. La muratura sottostante ha subìto interventi di restauro tali da rendere difficile uno studio degli elevati. Gli edifici posti sul fronte ovest del complesso architettonico, organizzati intorno a una corte centrale, conservano le tracce dell’impianto medievale. In particolare la torre visibile a ovest, rinforzata alla base da un contrafforte a scarpa, presenta una muratura in bozze regolari di travertino poste in opera su corsi orizzontali e paralleli; la tecnica costruttiva, insieme alla tipologia delle aperture conservate, consente di datarlo al XIII secolo. Nella parte superiore infatti la torre conserva, nel lato est, un’apertura strombata con arco a tutto sesto, in fase con la muratura circostante; nel prospetto sud è visibile una finestra tagliata dall’attuale copertura dell’edificio. Si accede al fronte meridionale del castello attraverso una rampa in laterizi che delimita, a sud-est, il palazzo di epoca duecentesca, nucleo centrale dell’insediamento. L’edificio, con muratura in bozze di travertino di altezza regolare su filari orizzontali e paralleli, conserva un bel portale con arco senese (un arco acuto sbarrato da un arco ribassato) in conci di travertino compatto perfettamente squadrati a martellina dentata; è sormontato da una formella in marmo con l’immagine di San Galgano, a ricordo del controllo cistercense sull’insediamento a partire dalla seconda metà del XIII secolo. Nel pianoro antistante la rampa di accesso al castello sorge la chiesa di San Michele Arcangelo. L’edificio, realizzato in pietra calcarea, conserva ancora l’impianto romanico ad aula unica con terminazione absidale. La muratura del prospetto absidale mostra la presenza di due fasi costruttive principali: la prima fase, la più antica, conservatasi fino a circa 1,5 m d’altezza dal suolo, presenta una muratura in conci di calcare di medio-piccole dimensioni alternati a tre semicolonne. La seconda fase, databile al XII-inizio XIII secolo (si veda il capitolo VIII, 1, Campione Ch 2), occupa tutta la parte superiore dell’abside, ornata da una monofora strombata con archivolto formato da un unico blocco di calcare posto in opera con estrema accuratezza, e da una cornice di archetti pensili su peducci capovolti. La particolare attenzione rivolta agli elementi architettonici è visibile anche nella muratura, in conci di medie e medio-grandi dimensioni, perfettamente lavorati e spianati. A questa seconda fase costruttiva fanno riferimento anche la facciata e il fianco sinistro dell’edificio religioso. In particolare la facciata, a capanna, conservatasi per un’altezza minore di quella prevista in origine, presenta come unica apertura un alto portale concluso da un arco a sesto acuto. Nella parte superiore del prospetto sono visibili tre buche pontaie tamponate, indizio forse di una tettoia oggi scomparsa. La muratura, in conci ben squadrati disposti su corsi orizzontali e paralleli, mostra i segni dello scalpello nella resa del ‘nastrino’ e di uno strumento a lama, l’ascettino, per la spianatura della faccia a vista dei singoli pezzi. Il fianco sinistro, in peggiore stato di conservazione, ha subìto pesanti rifacimenti e un rialzamento, in laterizi, della parte superiore. L’inserimento, a intervalli regolari, di mensole modanate in pietra (di riutilizzo) indica la presenza di un corpo di fabbrica addossato alla struttura, oggi scomparso ma attestato nella cartografia del Catasto Leopoldino redatta nel 1820. Costruita in prossimità di un salto di quota, la parte terminale della chiesa ha subìto un progressivo cedimento, con evidenti lesioni nella muratura. Edifici pertinenti a un’abitazione colonica si addossano invece al fianco destro, il cui paramento, in parte visibile, testimonia l’esistenza di una fase più antica con caratteristiche simili, per apparecchiatura muraria e tipologia costruttiva, a quelle constatate nella zona absidale. Del castello originario, di XI-XII secolo, profondamente alterato dai rimaneggiamenti susseguitisi nei secoli, restano poche tracce, a eccezione della chiesa. La presenza di un abitato sviluppatosi intorno al nucleo castrense, è testimoniata da alcuni edifici colonici, di varia grandezza e dimensione, posti a nord-est. A sud invece l’imponente mole del castello è messa in risalto da uno spazio aperto, l’antico giardino, al quale si accedeva tramite una torretta in stile neogotico, decorata da sculture antropomorfe. Interpretazione – Castello. Cronologia – Anno 1004-età contemporanea. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, pp. 61, 225; Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 181; Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Canestrelli, 1993, pp. 25-27; Cappelletti, 1844-1870, XVIII, p. 259; Ceccarelli Lemut, 1982, passim; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 49, 63; Lisini, 1893, p. 203; Pecci, cc. 171-172; Repetti, 1841, II, pp. 347, 348; RS, pp. 107, 117, 143, 167, 307, 308; CV, pp. 29-30, 35-36, 104, 219-223; Constituto 1262, p. 314. (106) Macarro (Q.120 IV-4783/671) 353 m s.l.m.; sommità poggio; conglomerati poligenici; fosso Rigo; area edificata; emergenze in elevato assenti. Notizie storiche – Nel 996 Willa, della futura famiglia dei Della Gherardesca, dona alla cattedrale di Volterra otto “casis et cassinis” fra cui una “casa et res massaricie in Macarro”. Il conte Gherardo vi possedeva una curtis che il vescovo di Volterra Benedetto acquistò per poi donarla alla canonica di Sant’Ottaviano: la cessione fu poi confermata nel 1014 ai canonici dall’imperatore Enrico II. Non conosciamo l’evoluzione dell’azienda curtense; la notizia della presenza ancora nel XIII secolo di terre lavorative poste in località Macarro fa supporre il venir meno della configurazione giuridica dell’insediamento, senza però implicarne la desertazione. Attestazioni documentarie RV, n. 85: 9 febbraio 996: “Uuilla mulier Gherardi et filia b. m. Berardi consenziente viro, ubi interesse videtur notitia ad Johannes iudex inp. Interrogata sequenter edicti pagina, cum viro pro remedio anime nostre offero domo s. Marie fra mura civitatem Volot. in potestatem de canonica s. Ottabiani, que infra episcopio in corpore requiessci, octo inter casis et cassinis seu integris sortibus infra comitato et territurio Volot. in loco ubi nuncupantes [...]; casa et res in Macarro, r. per [...]; in eodem Macarro”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 14-14t: 26 dicembre 1282: Vendita di terra in corte di Chiusdino “loco dicto Macharo”. Interpretazione – Curtis poi loco dicto. Cronologia – Anno 996-1282. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1982, p. 14; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 55-56; RV, pp. 31-32. (107) Località Bovigliano (Q.120 III-4777/672) 392 m s.l.m.; sommità poggio (collinare); conglomerati poligenici; torrente Seggi-fosso di Cartonaia. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo è inserito all’interno della corte di Luriano con l’attestazione di quattro casalini di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (108) Località Collespecchi (Q.120 IV-4786/671) 320 m s.l.m.; sommità collinare; depositi alluvionali; torrente Saio; seminativo e pascolo. Descrizione sito – Il toponimo indica attualmente un’area molto estesa, posta a ovest del podere San Martino, lungo il corso del Feccia: non è possibile identificare l’esatta ubicazione del sito. Notizie storiche – Nel 1318 è ricordato uno sfruttamento seminativo, a coltura non specificata, posta “ex fluvium Feccie”. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 13, 48, 90, 116, 118, 123, 151. Estensione superfici: “Terra laborata” 10s 77t; “Terra sode” 1s 18t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (109) Località Vallone (Q.120 IV-4787/673) 386 m s.l.m.; versante poggio; argille; fosso Frella; pascolo. Descrizione sito – Il toponimo corrisponde alla valle definita dalle pendici dei poggi su cui si trovano i poderi di San Martino, Vesperino e il castello di Frosini: non è possibile definire l’esatta ubicazione del sito. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni vi è attestata una coltivazione non estesa a vite e cereali; il toponimo viene specificato “ex ecclesie Sancti Giusti” (non identificata). Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 101, 113v, 116v, 126v, 175. Estensione superfici: “Terra laborata” 6s 47t; “Terra vineata” 3s 25t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (110) Tamignano (Q.120 IV-4785/676) 339 m s.l.m.; versante collinare; rocce carbonatiche brecciate; fosso di Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – La località si trova nel versante occidentale della collina, la cui sommità è occupata dal villaggio di Pentolina. Attualmente inserita in proprietà privata, vi si accede (previo permesso dei proprietari) dalla strada a sterro che oltrepassa Pentolina, dopo il bivio nei pressi della chiesa di La Cura. Notizie storiche – Il casalis di Tamignano è ricordato per la prima volta nel 947 in un contratto di affitto a livello, concesso a un privato dall’abate del monastero di Sant’Eugenio di Siena. Nel 1000 si concedono altre terre poste “ubi dicitur Tamignanisi”; se si interpreta correttamente la località citata come Tamignano, dobbiamo riconoscere fra i proprietari di quote fondiarie, accanto a Sant’Eugenio, anche la chiesa di San Pietro di Siena e privati di Lucca (menzionati nel documento fra i confinanti). Nel XII-XIII secolo vi vanta diritti anche l’abbazia di Serena, che nel 1245 vende tutti i suoi beni posti in “loco dicto Tamignano” al monastero di San Galgano; da questo momento, registriamo molti atti di compravendita, stipulati dai cistercensi all’interno del villaggio, che testimoniano la non marginalità dell’insediamento. Nella Tavola delle Possessioni la “villa Tamignano” è caratterizzata dalla presenza di sei case, di proprietà di residenti; definisce una sua giurisdizione territoriale (alcuni toponimi citati nella Tavola delle Possessioni relativa a Tamignano, Pentolina e Palazzo ai Fichi, compaiono “in curia de Tamignani”). Il primo segno di decadenza si coglie nell’elenco delle tassazioni imposte nel 1444, ai comuni di villaggio del contado senese, di cui Tamignano fa parte dal 1239: la cifra modesta di 6 denari parla chiaro rispetto alla esiguità del nucleo abitato, se consideriamo che l’imposta veniva calcolata in base al numero di fuochi e alla ricchezza complessiva della comunità. Attestazioni documentarie RS, n. 13, pp. 5-6: novembre 947: “Constat me Deodatus, abbas s. Eugenii sito Pilasiano per consensum confratorum meorum monachorum, per hunc libellum et nostram convenentiam, ad pensionem dare vobis Guillieradi f. qd. Gerardi et Imize filia Petroni et Sigifredi et Gualhieri gg. f. tuis Imizech sortis et rebus iuris monasterii in casalis de Tamignano et in Castagno rectas per Martino et Andrea gg., et Ambrosio, excepto quod antepono terras et vineas q. Petrus f. Altiberti per libellum detinet da Litardo; aliis cum terris, arvis quam et cultis, vineis, silvis, rivis, pascuis odie ad sortem et masiam pertinentibus in vos dedi et confirmavi; tu Guillierado potestam habeas per libellum, talem personam firmare, q. tibi firmiter pensionem retdat et casam super ipsis rebus fieri faciat. Per omnia dedit mihi Deoti abb. successoribus, ad ministeriale nostro de mon. per singulos annos infra December X den., et non amplius superinponamus; pen. sol. quinquaginta”. Prunai, p. 217: novembre 1000: “Ego Uuido saligo [...] vi et Petro gg. ff [...] qua [...] quod libr. dichuo cento [...] pretium pro integro duo petie de terra iuris meo qui sunt in vocabulo Vico, ubi dicitur Tamignanisi et Sancti Abondi [...], et duo partis est terra regi, [...] ad terra q.dic. Tamignanisi de tertia terra San Petri et de quarta de. Sancti Eugenii, alia petis qui de uno latere terra Eriberti omo lucense, de alio latere terra Sancti Eugenii et tertia pars terra q.dic. Tamignanisi, de quarta pars de subdus decurrit fossato”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 58-58t: 2 settembre 1239: “Pentorina et Tamignano”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 389-389t: 14 ottobre 1242: “loco dicto Tamignano, in curte de Frosini” (cfr. 14 gennaio 1257 ASS, Spoglio Conventi 163, c. 385). ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 114t-115: 9 aprile 1245: Mauro Abate di Santa Maria di Serena vende a Matteo pisano, monaco e procuratore del convento di San Galgano tutti i beni che detta abbazia aveva nel distretto di Frosini “loci dicti Tamignano, Pentolina, Cotorniano e Papena. Actum in ecclesia santa Maria de Serena”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 271-271t: 23 aprile 1250; ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 61t-62t: 17 marzo 1251; ASS, Spoglio Conventi 161, c. 57: 22 agosto 1255; ASS, Spoglio Conventi 163, c. 270-270t: 18 giugno 1264; ASS, Spoglio Conventi 163, c. 87-87t: 3 maggio 1271: Atti di vendita stipulati “in villa de Tamignano”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 89-89t: 1302: Atto di vendita stipulato “in Tamignano”. ASS, Estimo 2, c. 183: 1318: toponimo citato “in curia de Tamignano”. Descrizione unità topografica – Dell’antico villaggio attestato dalle fonti non restano oggi tracce; il complesso di Tamignano mantiene tuttora nella torre scapezzata il fulcro principale dell’intera costruzione. Quest’ultima, costruita interamente in calcare cavernoso locale, doveva un tempo sorgere isolata; si caratterizza per l’altezza, per la base di dimensioni notevoli (13313,50 m ca.), e lo spessore delle murature. Questi elementi, unitamente al numero e all’esiguità delle aperture, tutte disposte a una discreta altezza, e alla presenza di un imponente basamento a scarpa che fodera su tutti i lati la struttura, ne identificano l’originaria funzione difensiva. Il fronte ovest della struttura conserva ancora l’antico sistema di accesso, formato da due aperture sovrapposte: la prima situata a una certa altezza dal livello del terreno e parzialmente tamponata per essere riutilizzata come finestra, la seconda, alta e stretta, posta al livello del suolo. La muratura, imponente e interrotta da poche aperture, presenta la parte inferiore, rinforzata dall’alta base a scarpa, dotata di due feritoie per lato. Le finestre monofore sono di medie dimensioni e di foggia particolarmente accurata: centinata quella nel lato ovest, architravate quelle presenti negli altri lati, con stipiti e arco a tutto sesto resi in conci ben lavorati di travertino compatto. Le soluzioni architettoniche adottate nella torre, databili al XIII secolo, denotano in generale una maggiore attenzione nella resa degli elementi architettonici rispetto al paramento murario circostante, risolto in bozze di calcare di altezze regolari (filaretto) su corsi orizzontali e paralleli (si veda il capitolo VIII, 1, Campione Ch 8). La base a scarpa, che risale al XIV secolo, presenta una tessitura muraria più irregolare con i conci delle aperture spianati a martellina dentata. Il contrafforte, visibile sui fronti ovest e nord, è occultato negli altri lati dagli annessi del nucleo abitativo che presentano lo sviluppo plano-volumetrico in orizzontale tipico delle strutture poderali. Il recente restauro dell’intero complesso ha valorizzato il corpo centrale del nucleo, rappresentato dalla casa-torre, liberandola, ad esempio, dalla presenza di un corpo annesso, il fienile, che, appoggiandosi al prospetto ovest, ne impediva la vista. La stratigrafia dei corpi di fabbrica ha infine messo in evidenza, insieme alla disposizione e alla funzione degli edifici annessi di epoca tarda, un antico ampliamento verso sud della torre. Nella parte superiore del prospetto ovest è, infatti, visibile nella muratura duecentesca un’azione di ‘cuci-scuci’, probabilmente operata in occasione della costruzione della base a scarpa. Terminata la sua funzione difensiva, la struttura vide l’apertura di una serie di finestre rettangolari in laterizi e la progressiva trasformazione del nucleo originario, inglobato negli edifici del podere. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 976-anno 1318. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, p. 61; Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 160; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 307; Canestrelli, 1993, p. 28; Prunai, 1966-1968, pp. 214-217, Passeri-Neri, 1994, p. 42. (111) Pentolina (Q.120 IV-4785/676) 421 m s.l.m.; sommità poggio; rocce carbonatiche brecciate; fosso di Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – Sommità collinare, interamente occupata dal villaggio, raggiungibile dal bivio lungo la S.S. per Frosini. Notizie storiche – La prima attestazione è relativa alla chiesa pievana di San Bartolomeo che compare fra gli enti religiosi confermati dal papa al vescovo Bono nel 1189, al momento del suo passaggio alla sede senese. L’assenza di notizie precedenti relative all’insediamento può far pensare che il processo di accentramento sia stato avviato proprio dalla pieve: non abbiamo però dati che permettano di asserirlo con certezza. Inserita nella Diocesi di Siena, nel 1241, figura nell’elenco delle chiese di pertinenza cittadina, riportato nel lodo che pone termine alla lite fra alcune abbazie del contado e i rettori delle varie chiese senesi, in merito al pagamento e raccolta delle collette pontificie e al mantenimento dei legati e missi papali. Come molti villaggi della zona, viene investito dagli interessi patrimoniali, prima dell’abbazia di Serena ed, in seguito, del monastero di San Galgano: emblematico in tal senso è il passaggio di proprietà di tutti i beni posseduti dai benedettini ai cistercensi, datato al 1245. Dai contratti conservati nel Caleffo, possiamo affermare che la comunità viene comunque solo marginalmente toccata dalla fervida politica di acquisti dei monaci; questi infatti limitano il loro intervento all’acquisizione di piccole quote di terreno, senza mai attuare un controllo diretto sull’area abitata. Abbastanza oscura è infine la presenza di membri della casata Pannocchieschi, certificata dalla menzione di alcune proprietà nel lascito testamentario di Nello Inghirami della Pietra redatto nel 1322: fra le clausole, egli vincola la cessione del castello di Tatti in favore dell’ospedale di Santa Maria alla costruzione di un piccolo ospedale a Pentolina. Non sembra comunque sostenibile la signoria della casata sul villaggio, ipotizzata da Repetti, priva di consistenza storica: è più verosimile ipotizzare una manifestazione isolata di interessi patrimoniali del testatore. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 58-58t: 2 settembre 1239: vendita di terre a Pentolina e Tamignano. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 114t-115: 9 aprile 1245: Mauro, abate dell’abbazia di Santa Maria di Serena vende a Matteo pisano, monaco e procuratore del convento di San Galgano tutti i beni che detta abbazia aveva nel distretto di Frosini nei “loci dicti” Tamignano, Pentolina, Cotorniano e Papena. Fatto nella chiesa dell’abbazia di Santa Serena. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 157t-158: 27 dicembre 1255: “Actum in villa de Pentoline”. Descrizione unità topografica – Il villaggio, recentemente restaurato e trasformato in residence, ha perso gran parte del suo carattere originario. Sono ancora riconoscibili i fabbricati colonici che, organizzati intorno a uno spazio aperto centrale e a un edificio posto in posizione preminente, conservano, nelle aperture e nelle finestre monofore architravate tardo medievali, tracce dell’agglomerato medievale. Il carattere rurale dell’insediamento è confermato dalla presenza di edifici con loggiati al piano terreno e forno esterno alla struttura. La disposizione degli edifici abitativi segue la morfologia del terreno e, specialmente nel fianco a valle, presenta un fronte compatto di costruzioni; è questa la parte del villaggio di più antico impianto. Al centro dell’insediamento è tuttora visibile un edificio, di notevoli dimensioni, formato da due corpi di fabbrica disposti ad angolo retto intorno a una corte interna “murata”. L’accesso alla struttura, posto sul fianco ovest, è garantito da un portone, con arco a sesto ribassato. Il muro che circonda la corte è dotato di una torretta mozza, circolare, adibita a forno e, sul lato meridionale, di un’apertura sopraelevata, con architrave monolitico in travertino. L’intero complesso conserva ancora le caratteristiche rurali della dimora di campagna ed è databile al XVXVI secolo; il corpo di fabbrica posto sul fianco orientale, di aspetto semplice e compatto, si sviluppa su tre piani e mostra una generale uniformità costruttiva nella sequenza delle aperture, poste a intervalli regolari. Un contrafforte a scarpa, frutto forse di interventi posteriori, rinforza infine l’angolo sud-est dell’edificio. Non è dunque confermabile l’interpretazione del nucleo come centro incastellato, proposta da Passeri (Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306). Gli elementi strutturali che ricordano la presenza di un antico impianto fortificato, come la disposizione degli edifici disposti lungo il fianco a valle della collina o la presenza della torretta semicircolare e del basamento a scarpa nell’edificio centrale, sono frutto di interventi e rielaborazioni posteriori al villaggio medievale. Tutto ciò, se confrontato con le notizie forniteci dalle fonti scritte, ci conferma l’esistenza a Pentolina, tra XI e XIV secolo, di un villaggio aperto. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1189-età contemporanea. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, p. 61; Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 158; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Cappelletti, 1844?1870, XVII, p. 455; Ciacci, 1935, II, n. 653; RDI, I, p. 109, 111; RDI, II, p. 152; Redon, 1975, p. 134; Constituto 1262, p. 314. (112) Monte Landi (Q. 120 IV-4784/676) 392 m s.l.m.; sommità collinare; rocce carbonatiche brecciate; fosso di Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – Poggio antistante Tamignano, raggiungibile seguendo in direzione ovest la strada a sterro che si biforca nei pressi della chiesa La Cura. Descrizione unità topografica – Complesso architettonico formato da un edificio principale a pianta rettangolare e da un annesso di epoca più recente, addossato alla parete est; un loggiato superiore, a doppia arcata, contribuisce ad alleggerire l’aspetto dell’intera struttura, costruita quasi esclusivamente in pietra di dimensioni variabili. Due angolate ancora in parte visibili, sul lato nord e sud dell’edificio principale, testimoniano un suo ampliamento verso ovest, in un periodo non ben precisabile. La struttura più antica, quadrangolare, è probabilmente riferibile all’epoca medievale come sembra testimoniare una mensola modanata in travertino, tutt’ora conservatasi nella parte inferiore del prospetto nord. Il recente restauro, attuato in concomitanza con la trasformazione di Pentolina in residence (vedere sito 111), ha in gran parte alterato l’aspetto originale della struttura impedendo, in particolare, la visibilità della tessitura muraria dell’edificio, che conservava ancora, fino a pochi anni fa, parti di muratura in filaretto. Interpretazione – Abitazione. Cronologia – Generica età medievale. Non abbiamo nessun elemento che permetta di collocare cronologicamente quest’edificio, a eccezione di generiche attestazioni di murature a filaretto che lo possono ricondurre ai secoli centrali del Basso Medioevo. È verosimilmente da collegare allo sviluppo del villaggio di Tamignano, dal quale dista solamente 400-500 m. Bibliografia – Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306. (113) Spannocchia (Q.120 IV-4788/678) 396 m s.l.m.; versante poggio; rocce carbonatiche massicce-rocce carbonatiche brecciate; fosso Rigomagno; area edificata. Descrizione sito – Sommità collinare, posta nell’estrema porzione settentrionale del comune di Chiusdino, prospiciente il poggio occupato dal castello di Montarrenti. Inserito nella tenuta di Spannocchia, vi si accede attraverso la strada privata indicata in prossimità della cava di marmo, sottostante Montarrenti. Notizie storiche – La prima menzione documentaria della località risale al 1200, dove si propone come riferimento topografico la “via que venit et vadit Spannocchiam”. L’esistenza di un nucleo abitato (di consistenza indefinita) è sostenibile sulla base di indicazioni, contenute in alcuni documenti di compravendita, relative a individui provenienti da Spannocchia. Un’evidente assonanza del toponimo collega il nucleo alla famiglia Spannocchi, attestata in questa zona già agli inizi del XIII secolo; supportano quest’affermazione i documenti dell’eremo di Santa Lucia, che vedono i membri della famiglia fra i principali patrocinatori dell’ente religioso. Gli Spannocchi rimangono comunque estranei alle vicende principali dell’area che è oggi compresa nel comune di Chiusdino; arrivati a Siena da immigrati, si affermano economicamente come banchieri, tanto da costruirsi alla fine del XIV secolo un palazzo “reggia” in città. Non dobbiamo escludere che il nucleo di Spannocchia possa aver rappresentato l’iniziale residenza della famiglia, conservandone poi la memoria toponomastica. Nella Tavola delle Possessioni del 1318, la “villa” Spannocchia figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: vi sono attestati due palazzi e dieci case di proprietà di residenti. Descrizione unità topografica – Un massiccio torrione e la villa che lo ingloba, strutturata attorno a un ampio cortile, forma un complesso architettonico di notevoli dimensioni, comprendente anche un insieme di quattro casali dal carattere prettamente colonico. La disposizione planovolumetrica degli edifici componenti la villa, come l’articolazione degli spazi, è tipica delle residenze rinascimentali. La torre, dotata su tutti i lati di un’alta base a scarpa, posteriore alla struttura originaria dell’edificio, presenta la parte superiore frutto di un rifacimento di epoca rinascimentale e terminante con un coronamento costituito da archetti in arenaria impostati su beccatelli in pietra, modanati, a sostegno di una merlatura superiore. Finestre ad arco, in fase con la muratura circostante, ornano l’ultimo piano dell’edificio. La torre, probabilmente mozza, doveva avere già subìto a quest’epoca una prima sopraelevazione come mostrano le tracce, parzialmente visibili, di rifacimenti e interruzioni nella muratura sottostante. A circa metà altezza la torre conserva tracce di coperture, a lastre di pietra, impostate su mensole squadrate adibite al sostegno di travicelli; tutt’intorno alla struttura, inglobandola e lasciandone visibile solo la parte superiore, sorgevano dunque una serie di edifici annessi, scomparsi forse al momento della costruzione della villa. L’impianto originario, a pianta rettangolare, della residenza degli Spannocchi è riconoscibile attualmente nella parte inferiore della torre, databile al periodo medievale (XIII-inizio XIV secolo). La struttura era dotata di finestre monofore con architrave monolitico sorretto da mensole convesse, inserite in una muratura, non sempre leggibile, formata da bozze di calcare cavernoso poste in opera con tecnica a “filaretto” e delimitate da cantonate ben evidenziate. La definizione di castello, data dal Passeri (Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 307), al complesso di Spannocchia risulta dunque, in un confronto tra analisi degli elevati e fonti scritte (nelle quali la località non è mai definita “castello”), di difficile conferma. Gli elementi spiccatamente difensivi di cui è dotata la torre, la base a scarpa e il coronamento superiore ad archetti su beccatelli, sono riconducibili al periodo rinascimentale quando ormai, privi della loro funzione originaria e di ogni utilità pratica, assolvevano solo a una funzione decorativa. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1200-età contemporanea. Bibliografia – Ascheri, 1993, p. 11; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 307; Donati, 1872, p. 29; Pinto, 1990, p. 90. (114) Causa (Q.120 IV-4787/677) 416 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; torrente Rosia; area edificata. Descrizione sito – Località posta in situazione di pianura, lungo la strada principale diretta a Pentolina, dopo pochi metri il bivio per la strada per Spannocchia. Notizie storiche – È attestato dal 1272 al 1300 come villaggio all’interno del quale l’abbazia di San Galgano aveva alcune proprietà fondiarie. Nel provvedimento di ripristino della strada passante dal Piano di Feccia diretta al monastero (deliberato dal Comune di Siena nel 1262) è ricordata la comunità di Causa fra quelle che potranno beneficiare del miglioramento della condizione di questa via, ormai in stato di forte abbandono (si ricordano anche i villaggi di Montarrenti, Pentolina, Frosini, Chiusdino e Monticiano). Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 173t-174: 19 aprile 1272: Atto di vendita rogato “in villa de Cavusa”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 106t: 7 gennaio 1295; ASS, Spoglio Conventi 163, c. 395t: 2 giugno 1295: Atto di vendita stipulato “in villa di Causa”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 395t-396: 26 dicembre 1296: “in villa di Chausa”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 183-183t: 4 maggio 1282: Vendita di una terra “in villa di Chusa loco dicto Al Solaio”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 185: 20 novembre 1300: Atto di vendita stipulato “in villa di Chusa”. Const. 1262, CXXVI: “Et viam, per quam itur ad partes Sancti Galgani in contrata de Feccia, bene actari et aperiri faciam et remundari et ampliari, de arboribus et stirpibus et machiis, que sunt iuxta dictam viam et in ipsa via; et arbores et stirpes et machie, que obturant seu impediunt dictam viam, facia incidi et extirpari, et ipsam viam explanari, ubi et sicut expedierit et oportebit. Et fossarellos, qui sunt in ipsa via et per eam, faciam repleri aut ponticellos fieri, sicut magis conveniens fuerit; et pontem super Fecciam reactari, ita quod homines et besties possint commodius et melius et securius transire. Et hec fieri facia per homines et personas de Montarienti et Pentorina et Gausa et de Frosini et Chiusdino et Monticiano et per illos de monasterio Sancti Galgani. Et ad hec exequenda et facienda faciam eligi per .IIII. provisores comunis duos legales operarios per totum mensem Marçii, quos iurare faciam predicta fieri facere et compleri per totum mensem Augusti et autea, si fieri poterit, ad hoc, ut homines et transeuntes non possint offendi a malefactoribus et latronibus, qui quandoque latentes morabatur in dicta contata”. Descrizione unità topografica – Il complesso architettonico, adibito a residence, consta di tre corpi di fabbrica in pietra: all’edificio centrale sono addossati, a nord e a sud, due fabbricati. Il nucleo più antico, a pianta rettangolare, è formato da una torre, probabilmente scapezzata, ampliata verso sud a formare una struttura a pianta rettangolare di grandi dimensioni. Parzialmente intonacata, la torre conserva tratti di murature originali in conci squadrati di travertino posti in opera su filari orizzontali e paralleli. Il paramento murario è delimitato da angolate risolte con conci dello stesso materiale, distinti dalla muratura circostante per la resa più accurata. L’intero complesso presenta sul lato est, posto lungo la strada, due loggiati sovrapposti. Il loggiato inferiore inquadra due aperture gemelle con archivolti a tutto sesto, in conci di travertino compatto perfettamente spianati. In buono stato di conservazione, i due portali sono decorati l’uno da mensole convesse, l’altro da mensole concave. Sono databili, per tecnica costruttiva e tipologia architettonica, al XIII secolo. In fase con la torre, formano, insieme a una finestra rettangolare con architrave monolitico sorretto da mensole convesse visibili nella parte superiore della struttura, le uniche aperture originali ancora leggibili. L’intero complesso mostra, nella stratigrafia dei corpi di fabbrica, la trasformazione da casa torre medievale a residenza di campagna. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Generica età medievale. Bibliografia – Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Constituto 1262, p. 314. (115) Località Buca delle Fate (Q.120 IV-4784/672) 330 m s.l.m.; sommità collinare; conglomerati poligenici; fosso Cona; pascolo. Rinvenimento edito Descrizione unità topografiche – L’ASAT riporta la scarna notizia del rinvenimento di tre tombe scavate nella roccia, prive di corredo; gli assegna poi anche il toponimo di Buca delle Fate (non presente nella cartografia IGM) senza specificare la sua localizzazione nei pressi del podere Greppini, peraltro esplicitata dalla schematica planimetria contenuta nel contributo di Rittatore del 1941. Non viene inoltre indicato lo scavo effettuato da Phillips nella necropoli, descritto dettagliatamente in “Notizie di Scavi Archeologici” del 1965. In realtà l’intervento sul complesso si articola in due fasi distinte. Rittatore agli inizi degli anni ’40 segnala la presenza della necropoli (individuata in base a testimonianze orali circa la presenza di tombe di età etrusca) e ne fornisce una brevissima descrizione. Ricorda anche il materiale rinvenuto occasionalmente qualche anno prima (un urna in pietra fetida, uno specchio in bronzo, alcuni vasi e un puntale di lancia in ferro), pubblicato da Riesch in “Studi Etruschi”, 1937: gli stessi reperti sono attribuiti da Phillips a una terza area necropolare, compresa fra le due appena menzionate (sito 116.2). (115.1) Il primo vano scavato nella roccia è un ambiente di ampie dimensioni (1,9030,85 m), in parte spaccato. È posto obliquamente rispetto al dromos della prima tomba a camera (115.2); gli accessi delle due stanze sono contigui. L’assenza di ceramica impedisce di sostenere una cronologia certa: su base deduttiva, Phillips ne propone una contemporaneità con le altre tombe. (115.2) Contigua al 115.1 si trova una tomba a camera, a doppio ambiente, composta da un piccolo corridoio d’accesso (231,5 m), la cui volta è caduta, e da una camera, leggermente più ampia (2,1532,05 m), con tetto a doppio spiovente. Lungo tre pareti di quest’ultima corre la banchina per le deposizioni. La tomba è stata aperta in tempi non recenti; nello strato di riempimento, rimasto sotto il crollo del tetto, sono stati trovato frammenti di ceramica medievale, forse provenienti dal vicino nucleo di Greppini. Secondo quanto sostiene Phillips, la struttura della tomba si avvicina a quella delle tombe di Magliano databili fra il VI e il V secolo a.C. Sono stati rinvenuti una punta di lancia in ferro, un frammento di ceramica attica a vernice nera, pertinente a una tazza databile forse al V secolo e un vaso, interamente ricostruibile e interpretabile come offerta funeraria deposta all’esterno della tomba; per forma e tipo decorativo dei reperti si può formulare un confronto con la ceramica di Magliano e del Casone e, di conseguenza proporre una datazione di tale tomba fra la fine del VI e il V secolo (si consulti l’articolo di Phillips per una descrizione più precisa delle tipologie ceramiche). (115.3) La terza tomba, molto più vasta, non ha più traccia dell’entrata, probabilmente franata; vi è una sala centrale con tre altre stanze laterali minori, disposte sui fianchi e sul fondo. Il tetto della camera è piano e non presenta particolarità di rilievo. Il primo vano è leggermente più stretto verso l’entrata (1,55 m) e si allarga poi nell’interno (1,70 m). La lunghezza è di 2 m; le camerelle laterali hanno misure che variano in larghezza da 1,90 m a 2,10 m, in lunghezza da 1,65 m a1,80 m. Nello strato di terra che la riempiva, Phillips ha rinvenuto poche ossa combuste, frammenti di tegole, un frammento di tazza attica a vernice nera del VI-V secolo a.C. e una fuseruola di impasto grigio di incerta datazione. Interpretazione – Tombe. Cronologia – VI-V secolo a.C. Bibliografia – ASAT, p. 313; Rittatore, 1941; Studi Etruschi, 1965; Phillips, 1965; Phillips, 1967, pp. 23-30. (116) Località Papena (Q.120 IV-4784/673) 330 m s.l.m.; sommità collinare; argille argille sabbiose; depositi alluvionali; fosso Cona; pascolo. Rinvenimento edito Descrizione unità topografiche – Per quanto riguarda le caratteristiche sommarie della descrizione contenuta nell’ASAT dell’intervento archeologico sull’area, rimandiamo alla scheda 115. Risalendo alle notizie contenute negli “Studi Etruschi” e ai resoconti del Phillips abbiamo tentato di chiarire i reali rapporti fra le diverse emergenze riconosciute nell’area di Papena e abbiamo deciso quindi di riunire le segnalazioni in uno stesso sito, distinguendo due unità topografiche (le due emergenze sembrano infatti essere ubicate molto vicine l’una all’altra). (116.1) In prossimità dell’edificio di Papena, Phillips ha effettuato saggi di scavo che hanno restituito materiale ceramico riferibile alla fase ellenistica (frammenti di tazze in vernice nera del tipo Lamboglia 48 Campana A; frammento di ceramica affine a quella del gruppo delle “philiai con tralci di vite”; un piatto derivante da forme campane, databile genericamente fra III-II secolo a.C.); riporta anche la testimonianza del proprietario del podere che dichiarava di aver rinvenuto durante gli scassi alcuni frammenti di ceramica e due oggetti in oro. Sulla base di questi elementi viene proposta un’interpretazione del deposito come piccola area cimiteriale, costituita da semplici tombe a pozzetto, molto probabilmente secondo il rito incineratorio. Interpretazione – Tomba. Cronologia – III-II secolo a.C. (116.2) Rittatore riporta la notizia del rinvenimento casuale durante i lavori agricoli di materiale di vario tipo (urna in pietra fetida priva di coperchio, specchio in bronzo in cattivo stato di conservazione, puntale di lancia in ferro e alcuni vasetti fittili), Phillips attribuisce i reperti a una tomba, localizzata genericamente fra le altre due necropoli (sito 115 e 116.1). La mancanza di materiale datante impedisce asserzioni certe in merito alla cronologia; Phillips propone una datazione compresa fra il VI e il II secolo a.C. Definizione – Tombe. Cronologia – Fine VI-inizi II secolo a.C. Bibliografia – ASAT, p. 307; Studi Etruschi, 1937; Studi Etruschi, 1939; Rittatore, 1941; Phillips, 1965; Phillips, 1967. (117) Località Costa Cavallona (Q.120 IV-4782/669) 437 m s.l.m.; versante poggio; conglomerati poligenici; fosso Girisondola; uso del suolo: raccolta del legname; vegetazione stabile. Descrizione sito – Area di enormi dimensioni coperta da fitta vegetazione boschiva, posto nella porzione occidentale del territorio comunale. È prospiciente a nord verso Montalcinello e a sud verso Chiusdino ed è raggiungibile dalla strada provinciale che collega i due paesi. Notizie storiche – Targioni Tozzetti ricorda un castello scomparso situato nel “Bosco o Bandita, detta anche il Cavallone, tra Chiusdino e Travale”: la località è identificabile certamente con la Costa Cavallona. Riteniamo difficile sostenere l’esistenza di un castello, data la totale assenza di notizie documentarie coeve; è probabile, invece, la presenza di un nucleo abitato. Descrizione unità topografica – Tracce di frequentazione si rinvengono nella collinetta presso l’attuale podere Le Loccaie (in località San Bastianino); ancora oggi sono visibili evidenze di muri e cumuli di pietre sbozzate. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Generica età medievale. Bibliografia – Targioni Tozzetti, 1778-1779, IV, p. 24; Bertini, 1972, p. 258. (118) Località Parapanna (Q.120 IV-4788/674) 330 m s.l.m.; versante poggio; flysh prevalentemente argillitici; fosso Parapanna. Descrizione sito – Il toponimo attualmente è conservato nel fosso Parapannino, che bagna le superfici estreme a nord del comune, posto non lontano dal podere Braccolina. Notizie storiche – La prima attestazione di una frequentazione dell’area risale al 1251 nella vendita di terre “in loco dicto Parapanna” da parte di privati all’abbazia di San Galgano. Seguono altri acquisti nel 1258 e nel 1285. Non sembra ipotizzabile la presenza di un nucleo edificato: anche nell’elenco riportato dalla Tavola sono ricordate solamente superfici agricole, a coltivazione prevalente di cereali. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 217-217t: 2 giugno 1251: Privati vendono al Monastero di San Galgano i beni che avevano in corte di Frosini, specificando, fra gli altri “in loco dicto Parapanna”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 350-350t: 4 settembre 1258: monastero di San Galgano acquista terre a Parapanna. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 147-148: 6 novembre 1285: Vendita di terreno “al vado Parapane alla valle”. ASS, Estimo 2, cc. 34, 35, 100v, 101, 114, 161, 170: estensione delle superfici: “Terra laborata” 45 s 86 t; “Terra sode” 17 s 05 t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1251-anno 1318. (119) Località Pian di Feccia (Q.120 IV-4783/673-675) 269 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia; seminativo. Descrizione sito – L’area di frequentazione è identificabile con l’attuale Piano di Feccia. Notizie storiche – A partire dal 1240 fino al 1292 figurano contratti di acquisto di terre “in plano Feccie” da parte del monastero di San Galgano. Si riportano i toponimi di “Feccia” e “Feccia vecchia”, dei quali non si conosce la distinzione. L’assenza di un nucleo abitato viene confermato dalla Tavola (citazione anche come Fecciano), che riporta una notevole estensione di spazi adibiti a coltivo, per lo più a grano; fa eccezione un unica capana interpretabile come struttura abitativa realizzata con elevati in materiale deperibile e probabile copertura laterizia (l’interpretazione del tipo edilizio deriva dall’individuazione di tracce in superficie pertinenti a strutture simili rinvenute nel sito di Tassinaiola, sito 131). Nel 1250 poi viene acquistato un podere presso la Feccia: non sappiamo però se questo interessi il tratto fluviale compreso nella piana omonima. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 331t-332: 29 gennaio 1240: vendita di un pezzo di terra in Pian di Feccia. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 45t-46: 1 marzo 1241: “loco dicto Feccia Vecchia, in curte de Frosine” (seguono carte con stesso toponimo c. 4546-47 dello stesso anno). ASS, Spoglio Conventi 163, c. 1254-254t: 3 settembre 1250: acquisto da parte del monastero di San Galgano di un podere presso la Feccia. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 37-37t: 30 agosto 1254: “loco dicto Feccia Vecchia, in curte de Frosine” (cfr. 11 giugno 1251: K I c. 23t). ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 161t-162: 6 agosto 1268: “loco dicto Feccia, in curte de Frosine”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 522: 8 agosto 1258: terra in corte di Frosini “loco dicto Feccia Vecchia”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 87-87t: 10 maggio 1271: terra posta nel Piano di Feccia “loco dicto Cava, in curte de Frosine”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 137t: 23 dicembre 1292: contratto stipulato in Pian di Feccia. ASS, Estimo 2, cc. 7, 21, 25, 34v, 38v, 43, 45, 46, 51, 52, 89v, 90, 118, 144, 147, 147v, 150, 151, 175, 184: Estensione della superficie coltivata: “Terra laborata” 148s 48t; “Terra vineata” 6s 5t. Strutture: “Capana” 1. ASS, Estimo 2, cc. 8v, 116v: “in loco Fecciano”: 15s, 91t. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1240-anno 1318. (120) Località Piano di Spagna (Q.120 IV-4785/670) 310 m s.l.m.; pianura; argille argille sabbiose; fiume Feccia; uso del suolo: pascolo e seminativo. Descrizione sito – Il toponimo si conserva nel piano di Spagna; è posto sul confine nordoccidentale con il Comune di Radicondoli ed è definito a sud-est dal corso del torrente Quarta e a ovest dalle pendici orientali del poggio sul quale si trova il podere omonimo. Notizie storiche – Nel 1318 il toponimo Spagna è attestato “in plano Quartae”, come area a sfruttamento agricolo non estesa, con coltivazione prevalente di cereali; vi figura anche una piccola porzione di terreno boschivo. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 108, 120, 126v. Estensione della superficie coltivata: “Terra laborata” 10s 24t; “Terra sode” 1s 56t; “Terra boscate” 1s 56t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (121) Località Saio (Q.120 IV-4784/670) 354 m s.l.m.; pianura; argille; fosso Fonterossa; area edificata: emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo è conservato nel podere Costa al Saio, posto nel poggio antistante il podere le Morane, non lontano da Montalcinello. Notizie storiche - Nel 1318 vi è attestata una frequentazione a scopo agricolo. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 150, 150v, 147. Estensione delle superfici coltivate: “Terra laborata” 15s 9t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (122) Podere Ripa (Q.120 IV-4785/675) 328-350 m s.l.m.; depositi alluvionali-argille, argille sabbiose; fosso Fonte Bomari; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Attualmente il toponimo sta a indicare un podere, posto nei poggi retrostanti il Piano di Feccia. Notizie storiche – Nel 1318 vi è attestata una modesta estensione di superfici coltivate, associata a zone lasciate a bosco. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 48v, 86v, 112v, 133. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 4s 85t; “Terra sode” 4s 20t; “Terra boscata” 9s 50t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (123) Località Paganico (Q.120 III-4777/674) 382 m s.l.m.; sommità poggio; sabbia; torrente Seggi. Descrizione sito – Il toponimo è generalmente identificabile con l’attuale poggio Paganico, inserito all’interno del comune di Monticiano. Notizie storiche – Il toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318 è compreso all’interno della corte di Luriano: sono censite due case e un casalino di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (124) Podere Corbaia (Q.120 IV-4787/670) 392 m s.l.m.; sommità poggio; argille; fiume Feccia; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo è rintracciabile nel podere Corbaia, posto immediatamente oltre il confine nordoccidentale del comune. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 è attestato una frequentazione a scopo agricolo nell’area, localizzata nel testo “ex ecclesie Cotorniano”. Non sappiamo se la chiesa ricordata sia interpretabile come pertinente al nucleo di Cotorniano, molto distante però dal podere Corbaia. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 100, 128: Estensione delle superfici: “Terra laborata” 26s 85t; “Terra sode” 2s 25t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (125) Podere Le Querci (Q.120 III-4779/668) 465 m s.l.m.; sommità poggio; conglomerati poligenici-flysh prevalentemente argillosi; fosso Trisondola; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo è riconducibile al podere Le Querci, posto immediatamente a sud-ovest di Chiusdino. Notizie storiche – Nel 1318 è attestata un’attività agricola di modesta estensione in località “Le Querci alle Valacchie”. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 85v, 113, 177. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 5s 30t; “Terra sode” 2s 75t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (126) Podere La Sala (Q.120 III-4779/669) 472 m s.l.m.; versante collinare; conglomerati poligenici; fosso della Badia; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo, ricordato nella Tavola delle Possessioni del 1318 come “Lasala”, è rintracciabile nel podere Sala, posto immediatamente a sud di Chiusdino. Fra i confini riportati nel testo, viene ricordato anche un fosso, interpretabile con il fosso della Badia, che scorre appunto nelle immediate vicinanze del podere. Notizie storiche – Nel 1318 vi è attestata una frequentazione a scopo agricolo dell’area. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 1v, 22, 27, 121. Estensione delle superfici: “Terra laborata”, 17s 24t. Interpretazione – Frequentazione. La presenza di edifici coevi nell’area è attestata dal rinvenimento di emergenze monumentali a breve distanza dal podere (sito 57) Cronologia - Anno 1318-(?) (127) Località Piano di Rigo (Q.120 IV-4787/675-676) 421 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche-argille; fosso Rigo; pascolo. Descrizione sito – La località è individuabile nella zona circostante il fosso di Rigo, che scorre nella parte centrosettentrionale del comune, non lontano dall’attuale paese di Frassini. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 viene ricordata una modesta frequentazione dell’area a scopo agricolo. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, c. 69. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 50t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (128) Località Frelli (Q.120 IV-4787/674) 317-364 m s.l.m.; versante collinare; argille e sabbia; fosso Frella. Descrizione sito – L’area è genericamente localizzabile in base alla persistenza del toponimo nel fosso Frella. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 vi è attestata un’attività agricola di dimensioni molto modeste. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 55, 150. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 6s 30t; “Terra vineata” 3s. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (129) Località Quarta (Q.120 IV-4786/669-670) 309-304 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fosso Quarta. Descrizione sito – Il toponimo è localizzabile in base alla presenza sulla carta del fosso Quarta. Notizie storiche – Nel 1318 vi si collocano spazi arativi. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 89v,175v. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 3s 83t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (130) Podere Caggiolo (Q.120 IV-4783/672) 324 m s.l.m.; versante poggio; depositi alluvionali-argille; fosso Rigo; area edificata: emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il sito è identificabile nel podere Caggiolo, posto non lontano dal podere Papena. Notizie storiche – La Tavola delle Possessioni del 1318 vi attesta uno sfruttamento agricolo di media estensione. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, c. 26. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 8s. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (131) Podere Tassinaiola (Q.120 III-4781/671) 360 m s.l.m.; versante collinare; argille; torrente Gallessa; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo, citato come “Tassiniano” (con segno grafico di abbreviazione posto sopra la n) è rintracciabile nel podere Tassinaiola, posto nella parte centrale del comune, nel Piano di Padule Notizie storiche – Nel 1235 si ricorda l’acquisto da parte del monastero di San Galgano di un appezzamento di terreno posto a “Taxinaiola”. Nella Tavola delle Possessioni, viene attestata una frequentazione a scopo coltivo; vi sono ricordate due strutture, definite come “capana”, interpretabili come strutture abitative realizzate in materiale deperibile per gli elevati e copertura laterizia; tracce materiali di queste abitazioni sono state individuate durante la ricognizione di superficie (siti 12 e 13). Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 223t-224: 31 giugno 1235: privati acquistano una terra posta a Taxinaiola. “Actum apud montanam”. ASS, Estimo 2, cc. 116v-117. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 6s 90t; “Terra vineata” 2s 30t. Strutture: “Capana” 2. Interpretazione – Abitazione e sfruttamento agricolo. Cronologia – Anno 1318-(?). (132) Località Poggio al Santo (Q.120 IV-4787/678) 410 m s.l.m.; sommità poggio; rocce silicee; fosso Ricausa; vegetazione stabile. Descrizione sito – Il toponimo, citato come “El Santo” è rintracciabile nel poggio denominato Poggio al Santo, situato lungo il confine orientale del comune, nei pressi dei nucleo abitato di Causa. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, viene ricordata una frequentazione agricola dell’area. Vi compare una sola struttura, definita “capana”, interpretabile come abitazione in terra e laterizio. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 7, 17. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 9s 5t. Strutture: “Capana” 1. Interpretazione – Abitazione e sfruttamento agricolo. Cronologia – Anno 1318-(?). (133) Molino “de Frilli” (Q. 120 IV-4786/674) 292 m s.l.m.; versante collinare; depositi alluvionali-argille; fosso Frelli; pascolo. Descrizione sito – Campo posto in leggera pendenza in direzione ovest/est; è confinante con la sponda sinistra del fosso Frelli, in corrispondenza della sua ansa: è posto a circa 500 m verso sud della strada principale per Frosini. Notizie storiche – La prima attestazione dell’opificio risale al 1245 nella cessione fatta dal pievano di San Giovanni a Monti (pieve alla quale la struttura apparteneva per metà) in favore dell’abbazia di San Galgano. Nel 1271, il monastero detiene i 3/4 dell’impianto mentre la parte rimanente appartiene al conte di Frosini e a messer Filiano della Suvera; la loro parte patrimoniale viene ceduta all’ente religioso due anni dopo insieme a tutte le loro proprietà pertinenti al castello di Frosini e alla sua corte. Non sono riportate notizie successive relative al mulino. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 346t: 15 settembre 1258: privati vendono terreno presso “Mulino de Frilli”. ASS, Spoglio Conventi 162, c. 258t: 31 gennaio 1270: Galgano abate del monastero di San Galgano conviene con Ugolino di Bargalo detto Moscone, proprietario della quarta parte dell’impianto di non vendere, alienare, concedere alcuna parte delle “tribus partes molendinorum tam incepti quam fiendi posita a La Lama al Bagno, iusta flumen de Frelle”. ASS, Catasto Toscano, Comunità di Chiusdino, sez. B di Frosini, part. 100 e 101: 1820: riporta la raffigurazione del mulino con gora annessa posto sul fosso Frelle, a sud di Frosini. Descrizione unità topografica – Il mulino è stato localizzato da Maria Elena Cortese in base alla mappa del catasto ottocentesco: consiste in un piccolo impianto molitorio a ritrecine, con capacità produttiva limitata dalla scarsissima portata del torrente. Attualmente la struttura originaria si presenta rimaneggiata per la ristrutturazione ad abitazione. La gora è stata completamente obliterata, mentre restano tracce del bottaccio delimitato da muri in laterizio. L’edificio, di piccole dimensioni, è rettangolare ed è addossato al versante sul lato settentrionale. I resti materiali della struttura non offrono identificatori cronologici; la datazione al XIII secolo viene dunque proposta in via ipotetica. Interpretazione – Mulino da grano. Cronologia – Anno 1258-anno 1270. Bibliografia – Cortese, 1997, pp. 274-275. (134) Località al Poggio (Q.120 III-4772/675) 492 m s.l.m.; sommità poggio (collinare); sabbia; torrente Farma. Descrizione sito – Il toponimo è identificabile con Il Poggio, attualmente inserito all’interno del comune di Monticiano. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo indica una casa di proprietà di residenti compresa all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (135) Località Rigualdo (Q.120 III-4776/673) 308-332 m s.l.m.; piede di collina-versante collinare; depositi alluvionali; botro Riguardo. Descrizione sito – Attualmente l’unico riferimento topografico è riscontrabile nel botro Riguardo. Notizie storiche – Con questo toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318, compare una casa, di proprietà di residenti, posta dentro i confini della corte di Luriano. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (136) Località Cetine di Cotorniano (Q.120 IV-4789/676) 342 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche; torrente Rosia. Notizie storiche – Il giacimento di antimonio è stato oggetto di coltivazione fra il 1800 e il 1900; nel 1914 viene abbandonato per poi essere riutilizzato negli anni subito precedenti al 1940. Descrizione unità topografica – Mineralizzazione antimonifera in piccole lenti allineate lungo fratture nel calcare cavernoso silicizzato interposto tra verrucano (ricco di solfati di alterazione) e liguridi. La località è nota per la presenza di minerali rari (onoratoite, cetineite) e di specie mineralogiche nuove qui riconosciute (sideronatrite, elpasolite, jurbanite), trovate per la prima volta in Italia. Altri minerali presenti: stibina, stibiconite, melanterite, cervantite, fibroferrite, valentinite, rostite, millerite, cinabro, realgar, marcasite, pirrotina, pirite, gesso, zolfo, calcite, dolomite e quarzo. Interpretazione – Mineralizzazione e miniera. Cronologia – XIX-XX secolo. Bibliografia – AA.VV., 1991, p. 114 n. 83. (137) Località Spannocchia-Camporedaldi (Q.120 IV-4786/677) 396 m s.l.m.; versante collinare; depositi alluvionali-rocce carbonatiche brecciate; fosso Rigomagno. Notizie storiche – Nei primi anni dell’Ottocento fu rinvenuta, presso Spannocchia, della galena argentifera piuttosto ricca insieme a baritina e iniziò una coltivazione per conto del governo imperiale francese; tuttavia già alla metà dello stesso secolo, come risulta dalla descrizione del Savi, la miniera doveva essere stata abbandonata. Descrizione sito – Mineralizzazione in masse filoniane e lentiformi concondanti con ganga gessosa incassate fra filladi, anageniti del Verrucano e Calcare Cavernoso triassico. Specie mineralogiche presenti: galena, blenda, pirite, marcasite, melanterite, celestina, barite (queste ultime due sono di particolare interesse mineralogico). Sostanze estratte: piombo e argento. Interpretazione – Miniera di piombo argentifero. Cronologia – XIX secolo. Bibliografia – AA.VV., 1991, p. 115, n. 84. (138) Località Costarzena (Q.120 IV-4781/674) 285 m s.l.m.; versante poggio; argille; fiume Feccia; area edificata; emergenze in elevato non verificabili. Descrizione sito – Il toponimo corrisponde attualmente a un podere isolato, posto sulla sommità di uno dei poggi antistanti il Piano di Feccia. Si raggiunge dalla S.S. Senese-Aretina; l’accesso è impedito dalla recinzione della proprietà privata. Notizie storiche – Si deduce una frequentazione di questa località nella prima metà del XIII secolo dalla menzione del toponimo in un contratto di vendita. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 411t-412: 27 febbraio 1235: vendita di terra posta a “Collezoro de Costarzena”. Descrizione unità topografica – Un fabbricato a pianta rettangolare forma il nucleo centrale del podere. La muratura, in gran parte intonacata, non è leggibile ma presenta cantonali in conci di travertino squadrati, secondo una tipologia edilizia attestata frequentemente nelle dimore rurali di epoca tarda presenti nel territorio (vedi scheda sito 147). La facciata, esposta a nord, presenta al piano superiore un loggiato a due arcate, con scale interne di accesso al piano. L’edificio mantiene inalterata la distribuzione planimetrica tipica delle strutture a conduzione poderale: al piano terreno le stalle e il vano destinato al forno, con solaio ligneo e porta di accesso direttamente sulla strada, al primo piano la residenza. In prossimità delle abitazione è situato il pozzo. Al lato ovest si addossa un corpo di fabbrica più tardo, in materiale misto, che, insieme agli altri annessi presenti a est, forma una corte rettangolare chiusa su tre lati. Attualmente in stato di abbandono, ha perso il toponimo originale di Podere Costarzena passato alla fattoria, di recente costruzione, situata a breve distanza dalla S.S. Senese-Aretina. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1235-(?). (139) Braccolina (Q.120 IV-4788/674) 431 m s.l.m.; versante poggio; flysh prevalentemente argillitici; fosso Parapannino; area edificata. Descrizione sito – Il toponimo corrisponde al podere Braccolina, posto a sud-ovest del podere le Cetine. Si raggiunge dalla S.S. per Frosini, imboccando la strada a sterro dopo Montebello. Notizie storiche – La località (inserita in corte di Frosini) a partire dalla prima metà del XIII secolo fa parte del patrimonio fondiario dell’abbazia di San Galgano. Dall’elenco conservato nella “Lira di Sant’Agnolo a Montone” risultano in proprietà dei cistercensi alcune appezzamenti di terreno e una “domum cum claustro et capana”. L’abitato (di dimensioni forse modeste) decade precocemente; nel 1318 la località non è infatti registrata nella Tavola delle Possessioni della corte di Frosini. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 114-114t: 9 agosto 1243: terra “loco dicto Bracculina, in curte de Frosini” in cambio di già date “loco dicto Pietra”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 114-114t: 20 dicembre 1243: “loco dicto Bracculina, in curte de Frosini”. ASS, 118, c. 260v: “terre laborate vieneate boscate sode et domum cum claustro et capana loco dicto Bracculina”. Descrizione unità topografica – L’edificio, oggi in ristrutturazione, conserva sporadici elementi di reimpiego inseriti nell’apparecchiatura evidentemente tarda. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – Anno 1243-(?). Bibliografia – Barlucchi, 1992, pp. 60-61. (140) Località Padule (Q.120 IV-4787/677) 350 m s.l.m.; versante collinare; rocce carbonatiche brecciate; fosso Ricausa. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: vi sono attestate sette case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (141) Podere Castellare (Q.120 IV-4784/670) 354 m s.l.m.; versante poggio; conglomerati poligenici; fosso Quartafosso Fonterossa; area edificata. Descrizione sito – Il toponimo è attualmente conservato in un podere, posto nelle immediate vicinanze del podere San Magno, nei pressi di Montalcinello. Notizie storiche – Nel 1274 si ha l’unica menzione della località, inserita nella corte di Chiusdino. Non si hanno informazioni utili a definire le caratteristiche dell’insediamento. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 322-322t: 20 gennaio 1274: “loco dicto Castellare, in curte de Chiusdino”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 298-298t: 3 giugno 1274: “loco dicto castellare, in curte de Chiusdino”. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – XI secolo d.C.-anno 1274. Osservazioni – Il toponimo Castellare, utilizzato per indicare un centro decastellato, può conservare la memoria del “castrum s. Magni”, risultato dell’incastellamento dell’omonima curtis, posta a breve distanza dal podere in oggetto. Sul sito sono assenti (o cancellate) le tracce materiali dell’eventuale frequentazione del sito in età medievale; rimangono invece indizi di occupazione in questa fase nel poggio antistante, descritto nel sito 161. (142) Località Cerbaiola (Q.120 IV-4782/677) 303-290 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Feccia; condizione del suolo: vegetazione stabile. Descrizione sito – Il toponimo, ancora oggi, corrisponde a un’area boschiva, detta Cerbaiola vecchia, che copre un esteso poggio, definito a sud dall’ansa del fiume Merse, retrostante il Piano di Feccia. Nelle immediate vicinanze del bosco si trova anche un podere moderno omonimo. Notizie storiche – L’unica notizia dello sfruttamento del bosco di Cerbaiola risale al 1248; evidentemente in questa data è già utilizzato (verosimilmente per la raccolta del legname), se alcuni privati cedono le loro percentuali dei diritti e delle azioni ai monaci di San Galgano. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 297-297t: 27 gennaio 1248: Privati donano a Forese, abate di San Galgano, tutti i diritti e azioni che avevano in Selva Cerbaiola. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1248-(?). (143) Podere Colleaperto (Q.120 IV-4785/672) 329 m s.l.m.; versante collinare; depositi alluvionali; fiume Feccia; area edificata. Descrizione sito – Area poco estesa posta a dominare una vasta superficie, adibita totalmente a pascolo, digradante progressivamente verso il corso del fiume Feccia. Si trova lungo la strada a sterro diretta al podere San Martino. Notizie storiche – Nella seconda metà del XIII secolo è attestata una frequentazione a scopo agricolo della località, inserita in corte di Frosini. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 106-106t: 11 gennaio 1271: alcuni terreni a Colleaperti. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 105t: 31 gennaio 1271: terra in corte di Frosini “loco dicto Colle aperti” cfr. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 277t-278: 31 gennaio 1271. Descrizione unità topografica – Podere abbandonato che mostra una muratura abbastanza recente, forse residuo di ristrutturazioni ottocentesche; nel paramento murario, sono evidenti sporadici materiali di reimpiego dell’antica struttura, quali blocchi di travertino, perfettamente squadrati, non omogenei con il resto dell’edificio. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1271-(?). (144) Castelletto (Q.120 IV-4783/671) 371 m s.l.m.; versante poggio; argille-conglomerati poligenici; torrente Saio-fosso Copa. Descrizione sito – L’insediamento è individuabile con certezza nell’attuale Castelletto Mascagni, posto lungo la strada che collega Chiusdino a Montalcinello. La struttura attuale, un castello di costruzione relativamente recente, non restituisce tracce di frequentazione anteriore all’epoca sei-settecentesca. Notizie storiche – La “villa” di Castelletto è ricordata per la prima volta dal Pecci; non viene comunque fatto riferimento a vicende anteriori al 1629, anno in cui viene eretta dal vescovo di Volterra la chiesa di San Lorenzo, della quale prenderà il patronato la Comunità di Chiusdino. Descrizione unità topografica – La strada di accesso al castello è delimitata da un muro di cinta in pietra e laterizi a chiudere l’edificio principale del complesso, oggi in gran parte abbandonato. La struttura presenta le volumetrie semplici e severe dei palazzi rinascimentali: a pianta quadrata ha paramenti murari in pietra, con cantonate evidenziate da conci squadrati. Le aperture visibili, poste a distanze regolari e frutto di un probabile intervento di restauro, occultano parzialmente quelle originali, in laterizio. Intorno all’edificio una serie di abitazioni, oggi in gran parte abbandonate e in avanzato stato di degrado, formano un piccolo nucleo rurale, anch’esso databile, come tutto il complesso, all’epoca moderna. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1629-età contemporanea. Bibliografia – Pecci, pp. 288-289. (145) Le Palazze (Palazzo ai Fichi) (Q. 120 IV-4788/677) 328 m s.l.m.; versante; depositi alluvionali; torrente Rosia; area edificata. Descrizione sito – Nonostante la scomparsa del toponimo è possibile risalire all’esatta ubicazione dell’insediamento sulla base delle precise indicazioni fornite dalle fonti; queste, infatti, confluiscono nell’indicare il podere, attualmente denominato Le Palazze, posto in una zona definita localmente “Piaggia a’ Fichi”. Occupa il poggio a nord-est di Spannocchia, posto a quota inferiore rispetto a quest’ultimo; si raggiunge attraverso la strada diretta alla fattoria, seguendo lo sterrato al bivio precedente l’ingresso al suo giardino. Notizie storiche – Non si hanno notizie anteriori alla citazione della “villa di Palazzo Affichi” in alcune carte degli inizi del XIV secolo, presenti negli archivi degli Agostiniani di Siena. Nonostante si sia conservata la Tavola (sotto il nome di Palazzetto) relativa alla sua giurisdizione territoriale, la ricostruzione del paesaggio è resa impossibile dal basso livello di antropizzazione attuale, che ha determinato la scomparsa quasi totale dei toponimi citati. Nei secoli del basso Medioevo, l’insediamento doveva essere abbastanza esteso, popoloso e, soprattutto, economicamente vitale; mantiene infatti ancora nella prima metà del XV secolo una notevole densità demografica come dimostra l’elevata tassazione imposta ancora nel 1444. Nel ’700-’800 è citato dal Gherardini e dal Pecci che riferiscono la presenza del “comunello” con una popolazione di circa 13 fuochi e 57 anime nel 1676. La località, priva di chiesa, è sottoposta alla pieve di Monti; nel 1777 viene riunito al Comune di Chiusdino. Attestazioni documentarie Le carte degli Agostiniani relative all’insediamento sono datate al 23 agosto 1343, 12 giugno 1347, 13 aprile 1383 e sono trascritte da Repetti. Descrizione unità topografica – Il nucleo attuale è composto da una casa colonica, con i relativi annessi agricoli, e da un edificio, formato da tre corpi di fabbrica, disposto con orientamento sud-ovest/nord-est a delimitare una piccola corte ancora in parte lastricata. Quest’ultimo complesso, il più antico, consta di una torre centrale mozza, riconducibile al periodo medievale, alla quale sono addossati, a nord e a sud, due edifici. Costruito interamente con il locale calcare verrucano presenta il prospetto principale, a nord-est, intonacato e rimaneggiato con l’aggiunta di una serie di aperture al piano terreno e la costruzione di un contrafforte a scarpa che, obliterando parzialmente una porta con stipiti in blocchi di travertino squadrati, fu probabilmente posto in epoca tarda a consolidamento della struttura centrale del complesso, databile al periodo basso medievale. Nella torre sono tuttavia visibili due aperture originali, in asse: la prima, forse un ingresso sopraelevato, è conclusa da un arco a tutto sesto e mostra una tamponatura della parte inferiore riferibile alla sua trasformazione in finestra, la seconda, una monofora rettangolare con architrave monolitico; entrambe sono risolte in conci ben squadrati e lavorati di travertino compatto. La particolare attenzione nella resa degli elementi architettonici è evidente se confrontata con l’apparecchiatura muraria visibile nel prospetto a valle, meglio conservato e libero da rivestimenti a intonaco. La torre, databile al XIII-XIV secolo, presenta una muratura in bozze di verrucano poste su filari orizzontali e paralleli. Da questo lato il complesso si presenta piuttosto imponente (la torre centrale ha tuttora un’altezza di quasi 7 m), e dotato di poche aperture originali. In particolare i corpi di fabbrica aggiunti, utilizzati fino a tempi recenti come annessi della struttura poderale, sono privi di aperture, a eccezione di quattro feritoie poste a circa 1,5 m d’altezza dal suolo. Sono dotati di apparecchiatura muraria simile, in bozze di verrucano e ciottoli di calcare posti su filari sub-orizzontali, e sono delimitati esternamente da cantonate in conci squadrati. L’uniformità costruttiva che contraddistingue questi elementi, induce a collocarli in una stessa fase edilizia, databile genericamente al pieno XIV secolo, quando l’originaria torre fu gradualmente trasformata in residenza di campagna. In questo periodo il nucleo abitativo doveva estendersi in direzione nord; rimangono, infatti, sul lato esterno del corpo di fabbrica situato più a nord, tracce di due muri paralleli, l’uno sporgente dall’angolo esterno dell’edificio e l’altro, completamente rasato, visibile a livello del terreno. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1343-XVIII secolo. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1986, p. 230; Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 158; Bertini, 1972-1973, pp. 241-242; Cammarosano-Passeri, 1976, II, p. 306; Gherardini, V, p. 133; Pardi, 1923, p. 20; Pecci, II, p. 283; Repetti, 1833-1843, IV, p. 33. (146) Montecchio (Q. 120 IV-4788/678) 350 m s.l.m.; sommità poggio; rocce carbonatiche brecciate; torrente Rosia; area edificata. Descrizione sito – Il toponimo si conserva nel podere posto sul poggio prospiciente verso nord al nucleo delle Palazze. Notizie storiche – Nel 1383 una carta appartenuta agli Agostiniani di Siena viene redatta nella “villa di Montecchio, nella corte di Palazzo ai Fichi”. Descrizione unità topografica – Unità abitativa abbandonata costituita da un edificio principale e altri piccoli ambienti annessi. I restauri novecenteschi rendono impossibile la lettura stratigrafica degli elevati. Originaria potrebbe essere, invece, la parete occidentale del piccolo edificio a nord; è realizzata con pietre non lavorate, di dimensioni variabili, disposte in filari paralleli, con un tipo di apparecchiatura non raffinata; il massiccio utilizzo dello stesso materiale nei muretti di contenimento, lascia supporre che possa trattarsi di elementi di reimpiego delle più antiche strutture. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1383-(?). Bibliografia – Repetti, 1833-1843, IV, p. 33. (147) Malcavolo (Q.120 IV-4787/675) 504 m s.l.m.; sommità collinare; flysh prevalentemente argillitici; fosso Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – Il nucleo abitativo medievale è da localizzare presso il podere Malcavolo, posto nel versante orientale del Poggio ai Massi, non lontano da Frosini. È raggiungibile dalla S.S. per Frosini ed è indicato nel bivio dopo Montebello; attualmente inserito in una proprietà privata, si presenta di difficile accesso. Notizie storiche – La prima attestazione del villaggio di Malcavolo risale al 1283. Nella Tavola delle Possessioni di Frosini, sono ricordate poche strutture abitative a controllo di una vasta estensione di terreno, adibita a coltivazione solo per metà dell’intera superficie e per il resto lasciata a bosco. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 431t: 22 ottobre 1283 “Actum in villa Malcavoli”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 179t-180: 12 ottobre 1316: vendita al monastero di San Galgano di una vigna posta a Malcavolo. ASS, Estimo 2, cc. 155, 155v, 172, 172v. Estensione delle superfici: “terra laborata”, 63s 63t; “terra vineata”, 31s 4t; “terra sode”, 105s; “terra boscata”, 67s 22t; “terra ortive” 30t. Strutture: “casalinum”, 1; “domus”, 1; “capana”, 2. ASS, Estimo 118, c. 260v: “terre laborate boscate loco dicto Malcavallo”. Descrizione unità topografica – Un fabbricato colonico, con murature in pietre di cava e laterizi legati con abbondante malta, forma l’edificio principale di un complesso poderale dotato di corte centrale. L’accesso alla fattoria è garantito da una scala in cotto con loggiato superiore, mentre a nord e a ovest la corte è delimitata da edifici di limitate dimensioni, utilizzati come ambienti di rimessa ma un tempo destinati ad alloggio degli animali. Fortemente rimaneggiato in epoca moderna, il podere conserva ancora nella sua articolazione nella planimetria degli edifici la struttura attestata dalle fonti storiche. Del resedio di epoca medievale non si conservano tracce; la presenza, nell’edificio principale, di cantonali risolti in conci di calcare e travertino ben squadrati fa supporre però un riutilizzo di materiale lapideo. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1283-anno 1318. (148) San Pancrazio (Q.120 III-4779/672) 351 m s.l.m.; versante poggio; argille; fosso La Gallessa; area edificata; emergenze monumentali assenti. Notizie storiche – La chiesa di San Pancrazio di “Cosini” viene annessa alla proprietà dell’abbazia di Serena grazie al privilegio proclamato da Enrico V in data 23 marzo 1111. Sappiamo che l’edificio religioso era pertinente a un agglomerato, del quale riusciamo solo parzialmente a definire le caratteristiche. L’unica attestazione documentaria della località, contenuta nel primo Caleffo di San Galgano e datata al 1270, riguarda la vendita di terre poste “a San Pancrazio, in corte di Chiusdino”: la citazione semplice del toponimo suggerisce che con questo si possa identificare una piccola area insediativa. A conferma di ciò citiamo il Sinodo Belforti che, alla metà del XIV secolo, lo indica come “casale con chiesa”. La chiesa, inserita nel piviere di Chiusdino, compare negli elenchi delle Rationes Decimarum del 1302-1303. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 324t-325: 17 aprile 1270: vendita di terre a San Pancrazio, in corte di Chiusdino. Interpretazione – Casale con chiesa. Cronologia – Inizi XII-metà XIV secolo. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 60-61, nota n. 52; Giachi, 1786, p. 584; Kehr, 1906, III, pp. 116-117, n. 111; RDI, I, p. 158; II, p. 218; Stumpf-Brentano, 1865-1883, pp. 94-95, n. 85. (149) Podere Greppini (Q.120 IV-4784/672) 354 m s.l.m.; versante poggio; conglomerati poligenici; fiume Feccia; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Il toponimo si è conservato in un podere posto su una collina, prospiciente il Piano di Papena, a circa 700-800 m dal podere omonimo. Verso nord-ovest è delimitato da superfici coperte da fitta vegetazione boschiva, mentre a sud-est confina con campi arati di enormi dimensioni, degradanti fino al corso del torrente Cona, che delimita a sud la collina. Notizie storiche – La prima attestazione del villaggio di Greppini risale al 1259. Annovera al suo interno strutture abitative di varia tipologia anche se è probabile che non si espanda a coprire un’estensione territoriale più ampia; ciò si evince dall’assenza totale di documenti che ricordino terre poste in “loco dicto” di Greppini. Nel 1233 la sua chiesa, intitolata ai SS. Jacopo e Cristoforo, compare in un lascito testamentario; sottoposta alla pieve di Sorciano, nel 1252 passa, per donazione del pievano di detta pieve, all’abbazia di San Galgano, insieme con le chiese di Papena e Scopergiano. Ricordata nelle Rationes Decimarum del 1302-1303, viene indicata nel Sinodo Volterrano del 1356 come una delle chiese più povere comprese nel territorio chiusdinese. Non sappiamo se anche il villaggio abbia continuato a vivere fino alla metà del XIV secolo; certamente, nel ’700 non doveva rimanerne traccia se il Targioni Tozzetti, pur essendosi trattenuto a lungo a Castelletto Mascagni (distante non più di 1 km da Greppini) non ne fa minima menzione. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 41-41t: 14 giugno 1242: “Actum in villa de Greppine”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 353-353t: 10 ottobre 1259: Privati entrano in causa per definire alcune questioni relative a beni mobili e immobili posti a Greppine. Stipulato in villa di Greppine. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 28-29: 18 agosto 1283: vendita al monastero di San Galgano un podere posto in Greppine, metà di un casalino e terreni a Greppine, terre a Piano del Sajo e boschi a Nelischieto. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 12t-13: 6 settembre 1252. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1229-anno 1356. Bibliografia – RDI, II, p. 220; Giachi, 1786, p. 583; Repetti, 1833-1843, II, p. 505. (150) Valloria (Q. 120 IV-4785/674) 381 m s.l.m.; versante poggio; argille argille sabbiose; fiume Feccia; area edificata. Descrizione sito – Sommità del poggio, posto immediatamente a sud-ovest di Frosini, delimitato a ovest dal fosso Frelli. È raggiungibile con la strada a sterro diretta alla Magione, voltando al primo bivio sulla destra, subito dopo l’imbocco. Notizie storiche – La frequentazione della località (loco dicto) di Valloria è attestata a partire dalla metà del XIII secolo. Nel 1271 compare come grangia cistercense; con tutta probabilità, questo rappresenta il primo centro edificato. Rappresenta l’azienda a economia specializzata più consistente, insieme a Papena e Ticchiano: il nucleo centrale era costituito da edifici di varie dimensioni sempre completati da spazi ortivi (claustrum), aree aperte (platee e aree, termini non sinonimi in quanto spesso associati, dei quali però non conosciamo il motivo di distinzione) e un edificio religioso, con intitolazione a Santa Maria Novella: eccezionale, rispetto alle altre grange, la presenza di due palmentaria. In prossimità dell’azienda dovevano certamente trovarsi alcuni mulini, interpretati sulla base dei documenti e qui schedati sotto il toponimo di Molino Vecchio (vedi sito 42). L’insediamento si afferma rapidamente dal punto di vista sia economico che giuridico; nel primo decennio del XIV secolo, infatti, abbiamo prova della definizione di una “contrada” facente capo a Valloria (con tale termine, nella documentazione medievale si indica una giurisdizione territoriale riferita a un nucleo abitativo di rilievo sia economico che amministrativo). Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 118-118t: 1249/1250: vendita di un pezzo di terra “in curte di Frosini loco dicto Valloria”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 105t-106: 31 gennaio 1271: atto di vendita stipulato “presso Santa Maria di Valloria”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 154-154t: 31 gennaio 1271: vendita a fratello Giunta, “granciere di Vallis Orie” e sindaco di San Galgano, di un pezzo di terra posta in corte di Frosini “loco dicto Colleprati”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 156t-157: 23 maggio 1272: atto di vendita stipulato “in S. Maria Novella di Valloria”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 119t-120: 21 agosto 1303: atto di vendita stipulato presso grangia di Valloria. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 11t-12t: 25 maggio 1311: vendita di un pezzo di terra “in contrada di Valloria loco dicto S. Maria”. Descrizione unità topografica – Attualmente il nucleo abitativo, in stato di abbandono, è composto da cinque edifici, articolati intorno a una piccola corte, su cui si aprono tutti gli ingressi. L’edificio principale, orientato parallelamente alla strada, presenta il prospetto nord, intonacato, solo in parte leggibile e parzialmente coperto da due strutture annesse, adibite ad alloggio degli animali. Dell’originaria struttura medievale si è conservato un portale a sesto acuto, in conci di travertino ben squadrati e spianati ad ascettino. Tracce di un altro portale, seminterrato e in parte coperto da residui di intonaco, sono visibili all’interno del corpo di fabbrica aggiunto, posto a nord-est. I due ingressi, simmetrici e simili per fattura e dimensioni, creavano il sistema di accesso all’edificio. Il prospetto meridionale presenta ampliamenti della struttura centrale a est e a ovest, dove si conservano edifici annessi quali la stalla e il pollaio. L’edificio principale conserva, nella parte inferiore, una muratura realizzata in bozze di calcare a “filaretto” databile, come tutto l’edificio, al XIII secolo. Nella parte superiore del prospetto è visibile una finestra tamponata; l’apertura, in fase con l’impianto originario, risulta in parte tagliata dall’attuale copertura, indizio che la grangia doveva avere in origine un’altezza maggiore rispetto a quella attualmente conservata. Di fronte e a breve distanza è situato il fienile; costruzione di epoca relativamente tarda, presenta una muratura con frequenti conci di riutilizzo, tra i quali si segnala, reinserito in uno dei pilastri di sostegno, un concio inciso. Intepretazione – Grangia. Cronologia – Anno 1249-anno 1311. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992, pp. 59-61; Canestrelli, 1993, p. 35. (151) Villanuova (Q.120 IV-4786/674) 409 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche; fosso Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – Sommità del piccolo poggio, posto a nord di Frosini, delimitato a nord-est dalle Cave di Travertino; si raggiunge prendendo il bivio al Km 54 della strada statale. Notizie storiche – Il nucleo di Villanova presenta una storia analoga a quello di Valloria. Attestato come loco dicto agli inizi del XIII secolo, acquista una fisionomia insediativa qualche decennio dopo, a seguito della costituzione a grangia cistercense; è probabile infatti che la prima edificazione dell’area si combini con l’ingresso dei monaci. L’abbazia di San Galgano vi possedeva consistenti quote sia di terreni coltivi sia, probabilmente, di edifici, come indica la menzione di una “domo abbatie”. Si hanno notizie di un frate Ugolino di Maffeo che, converso dell’abbazia e “magister operis”, vi dimorava fin dal 1275, occupandosi di dirigere l’attività di estrazione e di lavorazione delle pietre dalle vicine cave di travertino. La grangia di Villanova aveva infatti un ruolo particolare: la sua principale funzione consisteva nell’estrazione dei materiali destinati alla costruzione dell’abbazia. Il nucleo, con tutta probabilità abbastanza esiguo e privo delle articolazioni interne testimoniate invece negli altri centri, constava di pochissimi edifici. D’altra parte, la notevole estensione dei terreni a esso pertinenti chiarisce la funzione dell’abitato; privo di una connotazione prettamente insediativa, si pone invece di supporto e riferimento fisico di un’organizzazione economica di tipo specializzato. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 141t: 8 ottobre 1229: vendita di terra posta a Villanova. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 210t: 29 settembre 1299: “loco dicto Villanova, in curte di Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 35t-36: 5 agosto 1241: “Actum in Villanova, in domo abbatie”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 297: 25 agosto 1252: “Actum in grangia de Villanova”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 430-431: 16 dicembre 1288: Ranieri, abate di San Galgano decide di vendere, pignorare e permutare tutti i beni che l’abbazia aveva in corte di Frosini dalla Merse alla grangia di Villanova. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 10t-11: 205 giugno 1316: si vende a Pietro, granciere di Villanova, procuratore di San Galgano un pezzo di terra “a la Stalla”. Descrizione unità topografica – Nucleo abitativo di dimensioni mediograndi, composto da cinque edifici e, nella parte occidentale del complesso, da alcuni annessi che mostrano ristrutturazioni di epoca recente (XIX-XX secolo). L’edificio principale, in corso di restauro, ha un impianto planovolumetrico semplice, quadrangolare; fortemente rimaneggiato, sono riconoscibili, a nord-ovest, i corpi di fabbrica aggiunti alla struttura originaria, a pianta rettangolare. La grangia medievale è stata infatti ampliata con l’aggiunta di un fabbricato che, addossandosi al fianco nord delle murature medievali, ha chiuso un’apertura con arco a sesto ribassato ancora visibile all’interno dell’edificio. L’impianto originario dell’edificio presentava la facciata a ovest; su questo lato sono conservati alcuni tratti di muratura in conci di travertino compatto ben squadrati e spianati ad ascettino, posti in opera su corsi orizzontali e paralleli. L’apparecchiatura muraria, particolarmente accurata, si lega a un’apertura, con arco a sesto acuto, parzialmente interrata e tagliata per realizzarvi una delle porte di accesso al fabbricato colonico. Quest’ultimo, trasformando radicalmente la disposizione degli spazi interni, presenta l’accesso principale, con loggiato ad archi, nel prospetto a monte. A un periodo relativamente recente (XIX secolo) sono da ricondurre anche le case coloniche, in stato di abbandono, situate a est dell’edificio principale e il fienile, recentemente restaurato. Interpretazione – Grangia. Cronologia – Anno 1229-anno 1316. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992, pp. 55-58; Canestrelli, 1993, p. 35, Gabrielli, 1998b, p.18. (152) Vespero (Q.120 IV-4788/672) 426 m s.l.m.; sommità poggio; sabbia; fosso Foci; area edificata. Descrizione sito – Sommità collinare prospiciente Poggio Carnevale, è confinante a ovest con la strada ed è delimitata a sud dal fosso Foci. Si raggiunge seguendo la strada a sterro che parte da Frosini e si trova a distanza di circa 1 km dopo il bivio per San Martino. Notizie storiche – La prima attestazione del villaggio risale al 1272 e nel 1286 si menziona la chiesa di San Lorenzo, eretta al suo interno. Non è chiaro il rapporto fra questo nucleo e quello di San Martino, spesso definito “a Vespero”: è da ritenere comunque che i due insediamenti vadano tenuti distinti, anche in considerazione della presenza di due chiese con intitolazioni diverse. Per tutto il XIII secolo, fino al 1311, sono attestati frequenti acquisti, effettuati dal monastero di San Galgano, di terreni posti nella sue pertinenze: fra le proprietà dei religiosi anche una “domum cum claustro, capana et area”. La Tavola delle Possessioni del 1318 restituisce l’immagine di un villaggio composto da strutture abitative di varia tipologia, all’interno del quale sono presenti ampi spazi adibiti a uso ortivo; nella superficie agricola annessa è attestata una notevole percentuale di vigna, atipica rispetto agli altri villaggi compresi in questo territorio. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 21t-22: 14 febbraio 1272: atto di vendita stipulato “in villa di Vespero”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 75t-76: 25 maggio 1283: vendita di una terra “in loco dicto Vespero, in curte de Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 23t-24: maggio 1286: atto di vendita stipulato “in ecclesia S. Lorenzo in Vespero”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 298-298t: 13 maggio 1311: Graziano di Martinozzo della villa a Vespero vende a un privato un pezzo di terra “in curte di Frosini loco dicto La Ripa. ASS, Estimo 2, cc. 10, 14v, 34v, 35, 36, 37, 66v, 101, 113v, 116, 123, 128v, 129, 138, 139v, 144, 158, 158v. Estensione delle superfici: “terra laborata”, 45s 7t; “terra vineata”, 25s 55t; “terra ortive”, 63t. Strutture: “capana”, 3; “domum cum platea”, 2; “domum cum plateis”, 4; “domum cum plateis et capana”, 2; “domum”, 1; “casalini et capana”, 1. ASS, Estimo 118, c. 262: “terre laborate boscate et sode et domum cum claustro capanna et area in dicta curia (Frosini) loco dicto Vespero”. Descrizione unità topografica – Attualmente si conservano due nuclei distinti, definiti Vespero e Vesperino, verosimilmente collegati durante la fase abitativa del villaggio. Vespero corrisponde a un unico edificio, posto immediatamente sulla strada, che non conserva tracce in elevato di frequentazione medievale. La parte esposta a nord, dove si trova l’abitazione, è probabilmente di più antica costruzione rispetto al retro, adibito a magazzino per attrezzi agricoli. In particolare la facciata esposta a nord-est mostra, a ovest e a est dell’ingresso, due angolate in conci squadrati di travertino, testimonianza di un ampliamento del nucleo più antico. Questa parte dell’edificio presenta una muratura in bozze di calcare e raro travertino, legate da abbondante malta. L’apparecchiatura muraria, priva di corsi e con periodici filari di orizzontamento, è riconducibile a un periodo non anteriore al XVIIXVIII secolo. A breve distanza, situato su un rilievo immediatamente sopra la viabilità principale, si trova Vesperino, agglomerato di una certa consistenza, composto da un nucleo principale, con orientamento est/ovest, e da strutture annesse poste sul retro del complesso rurale; tra queste sono ancora riconoscibili il pollaio e la porcilaia, di costruzione relativamente recente. La struttura principale consta di tre corpi di fabbrica: a un originario edificio a pianta rettangolare si sono aggiunte due strutture, una a nord-est e l’altra, il fienile, a sud-est. Il nucleo abitativo è stato infine ampliato lungo tutto il fronte ovest, come attesta la presenza di un’angolata, ancora leggibile, sul fianco nord-ovest dell’edificio. Il lato nord-est conserva ancora in elevato le tracce del nucleo più antico, riconducibile al XVI-XVII secolo per la muratura mista in pietre di cava e mattoni e la presenza di un architrave monolitico in pietra, di forma quasi semicircolare (forse una pietra da macina), di probabile riutilizzo come i conci in calcare squadrati e spianati visibili nei cantonali dell’edificio. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1272-anno 1318. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992; Canestrelli, 1993, p. 35. (153) Podere San Martino (Q.120 IV-4786/672) 407 m s.l.m.; versante poggio; sabbia; fiume Feccia; area edificata. Descrizione sito – Sommità del Poggio Carnevale, posto a dominare verso sud-ovest l’ampia piana di Colle Specchi; si raggiunge dalla strada a sterro da Frosini, oltrepassando di circa 2 km il bivio per il podere La Magione. Notizie storiche – Citato come loco dicto a partire dal 1214, con tutta probabilità corrisponde già in tale data a un nucleo edificato, attestato comunque, con il termine di villa, solo dal 1246. È inserito nella corte di Frosini e presenta al suo interno una chiesa intitolata a San Martino a Vespero, che possiede una percentuale cospicua del patrimonio fondiario del villaggio. In quest’area, per tutto il XIII secolo, si concentra la maggior parte della piccola proprietà locale della corte di Frosini, relegata a zone marginali dall’espansione cistercense. Verso la fine del ’200 subisce la trasformazione a grangia, di cui possiamo tentare una ricostruzione materiale in base agli elementi descritti nella Tavola delle Possessioni del 1318. I tre nuclei abitativi, affiancati da due capanni da rimessa, con una piccola percentuale di terreno lavorativo, sostanzialmente restituiscono l’immagine di un nucleo produttivo mediogrande. Nei documenti, a partire dal 1300, il termine corte è sostituito al loco dicto per definire le pertinenze territoriali dell’insediamento; il passaggio testimonia un’ulteriore espansione delle proprietà del villaggio e, probabilmente, anche l’acquisizione di un’identità meglio definita a seguito della trasformazione in grangia. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 162, cc. 252t-253: 14 settembre 1214: “loco dicto S. Martino, in corte di Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 17-17t: 18 novembre 1270: Vendita di terre in corte di Frosini, “loco dicto S. Martino, Ala costa, Chanegrigole, Porcile”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 69t-70; 30 maggio 1246: “villa di San Martino”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 327t-328: 30 luglio 1317: “villa di San Martino in corte di Frosini”. La stessa definizione compare in 13 contratti compresi in questo arco cronologico (Spoglio Conventi 163, cc. 19t-20; 20t-21t; 25t-26; 69t-70; 155t-156; 186t-187; 307t; 278-279; 327t328; 269-269t; 268-268t; 223-223t; 253t-254). ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 61t-63: 9 maggio 1300: vengono vendute terre poste “nella corte di San Martino. Actum in grancia di San Martino”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 68t-69: 30 aprile 1284: viene fatta cessione presso la chiesa di San Martino a Vespero. ASS, Estimo 2, cc. 8, 38, 110, 126, 161v. Estensione dei terreni: “Terra laborata” 2s 66t; “Terra vineata” 3s 87t. Strutture “Capana” 2; “Domum cum platea” 3 (estensione delle “platee” 10t, 10t, 18t). Descrizione unità topografica – Sulla sommità del Poggio Carnevale si conservano tre edifici, articolati intorno a un’ampia corte costruita su un terrapieno artificiale, abbandonati nel corso della prima metà del XX secolo. La struttura principale, di grandi dimensioni, è orientata nordest/sud-est a delimitare il fianco occidentale del complesso rurale. L’ingresso principale alla corte era a sud-ovest mentre annessi di varia destinazione, un pozzo e un fienile allo stato di rudere, delimitavano rispettivamente a sud-ovest e a nord-est il nucleo rurale. L’edificio principale, attualmente in corso di restauro, mostra nei conci squadrati di un’angolata, ancora in parte visibile nel prospetto ovest, le tracce di un ampliamento verso sud. A una fase successiva va riferito l’innalzamento dell’intera struttura, come indica la netta differenza di apparecchiatura muraria tra parte inferiore del prospetto, in muratura mista di laterizi e pietre di cava legati con abbondante malta, e parte superiore, in bozze di calcare spaccate e poste in opera su periodici filari di orizzontamento. L’intero complesso non conserva tracce della frequentazione di epoca medievale. Interpretazione –Villaggio, poi grangia. Cronologia – Anno 1214-anno 1318. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992, pp. 61-62; Canestrelli, 1993, p. 35. (154) Pieve di Monti (Q. 120 IV-4786/676) 382 m s.l.m.; versante poggio; rocce carbonatiche brecciate; fosso Fiumarello; area edificata. Descrizione sito – Il sito è ubicabile nell’attuale toponimo La Pieve, posto nel versante sudorientale del Poggio ai Massi, a quota leggermente inferiore rispetto al podere di Malcavolo. Notizie storiche – Antica pieve della quale possiamo definire l’estensione territoriale in base a una bolla del 1300, spedita dal vescovo Rogerio di Volterra al pievano di Monti e al suo clero; con questo documento, si autorizza a possedere, governare e ritenere “come in passato i beni e le decime dei luoghi Ville o Masse” del piviere della Montagnola. Vi sono elencati più di 20 popoli, definiti con molti particolari (si citano torrenti, fonti e strade dei quali, in alcuni casi, si è conservato il toponimo) utili a ricostruire i limiti giurisdizionali della suddetta pieve. In questo periodo probabilmente si è già verificato l’inglobamento della pieve di Malcavolo (si veda sito 205) dato che, tra i luoghi nominati nella bolla, compaiono anche i villaggi di Vespero e Causa, verosimilmente sottoposti in origine alla più vicina chiesa. Viene citata nelle Rationes Decimarum del 1302-1303 e nel Sinodo Belforti con le chiese a essa pertinenti. Descrizione unità topografica – La chiesa, a pianta rettangolare, è priva di terminazione absidale. La facciata, esposta a ovest, è costruita interamente in conci di travertino perfettamente spianati ad ascettino e, in alcuni casi, a gradina. Databile, in base all’iscrizione incisa nella parte superiore della facciata, al 1870, non conserva tracce della chiesa attestata in epoca medievale. L’edificio religioso rappresenta, nella semplicità stilistica e nella resa dei materiali da costruzione, un tentativo di ritorno, tipico del XIX secolo, a schemi e volumetrie medievali. Una cornice geometrica in pietra delimita la parte sommitale della facciata, sottolineando la presenza di un rosone semicircolare, anch’esso in pietra. La copertura, a doppio spiovente, è decorata da una cornice in laterizio che contribuisce ad alleggerire, insieme al campaniletto a vela presente sul retro, l’aspetto severo della struttura. Parzialmente inglobata in un fabbricato rurale, attualmente allo stato di rudere, la chiesa è stata abbandonata nel primo trentennio del XX secolo. Attualmente è adibita a rimessa per attrezzi agricoli e, in avanzato stato di degrado, necessita di un restauro conservativo. Interpretazione – Pieve. Cronologia – Anno 1300-prima metà XX secolo. Bibliografia – Giachi, 1876, p. 583; RDI, II, p. 231; Repetti, 1833-1843, III, p. 324; RV, pp. 319-320. (155) La Cura (Q.120 IV-4784/676) 421 m s.l.m.; sommità poggio; depositi alluvionali; fosso di Fonte Bomari; area edificata. Descrizione sito – Versante del poggio occupato dalla tenuta di Pentolina. Si trova nell’ansa disegnata dalla strada a sterro in prossimità del bivio che porta a Tamignano. Notizie storiche – Il complesso di La Cura è identificabile con l’antica chiesa plebana di San Bartolomeo a Pentolina, della cui esistenza si ha menzione fin dal 1189, situata a circa 300 m a valle dell’abitato, e con l’annesso edificio adibito a “spedale”, edificato nel 1322 su volontà di Nello Inghiramo della Pietra (v. sito 111). Nel 1524 fu restaurata dalla famiglia Spannocchi, che ne aveva il patronato, e intorno al 1810, ormai in condizioni di semi-abbandono, fu restaurata per volere dei marchesi Ferroni, proprietari di Pentolina e del castello di Frosini. Le sue strutture subirono un ulteriore intervento nel 1939. Il nome della località ricorda oggi l’antica funzione ospedaliera del complesso. Restaurato di recente, attualmente è inserito tra le proprietà del residence di Pentolina. Descrizione unità topografica – La pieve di San Bartolomeo, attualmente sconsacrata, consiste in un’aula rettangolare coperta con tetto a doppio spiovente (frutto di un recente restauro), priva di abside. La parte superiore della facciata, con il rosone centrale, è frutto di un restauro; un ulteriore rifacimento è leggibile nell’inserimento del campanile a vela, a doppia luce. La parte inferiore della facciata, esposta a ovest, e la zona dei prospetti laterali vicina a questa, conservano la muratura originaria, databile al periodo romanico (XIIinizio XIII secolo). In conci di travertino perfettamente squadrati, posti su filari orizzontali, mostra nella tessitura muraria un’attenzione particolare alla resa delle angolate e alla lavorazione dei conci, spianati ad ascettino. Il portale, con piedritti in conci squadrati non distinti dalla muratura circostante, termina con una lunetta ad arco a tutto sesto, estradossato. L’apertura sembra avere subìto un intervento di restauro nell’inserimento di un architrave monolitico, di calcare compatto, su doppie mensole concave. Tracce di una rifinitura a gradina nella parte inferiore della muratura, in prossimità del portale, sono attribuibili a un restauro di epoca moderna dell’intera struttura. Posteriore all’impianto originario è il basamento a scarpa, in laterizi, aggiunto nella parete a valle. Il fianco meridionale dell’edificio religioso, intonacato, mostra due aperture, anch’esse frutto di interventi posteriori all’impianto originario: una, in mattoni, tamponata, l’altra, con architrave monolitico in travertino. Il fianco settentrionale è parzialmente coperto da un corpo di fabbrica, completamente intonacato, identificabile come la struttura ospedaliera annessa all’edificio religioso, edificata all’inizio del XIV secolo. Recentemente restaurata, ha perso il suo carattere originario; presenta un impianto plano-volumetrico semplice, quadrangolare, con cantonate lasciate a vista, in conci squadrati di travertino. Il fabbricato presenta, nell’angolo nord-ovest, lungo la strada, una lapide di calcare reinserita, recante un’iscrizione con il nome “Pentolina”. Interpretazione – Pieve. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Cappelletti, 1844-1870, XVII, p. 455; RDI, I, pp. 109, 111, II, p. 152. (156) Papena (Q.120 IV-4784/673) 330 m s.l.m.; sommità poggio; argille argille sabbiose-conglomerati poligenici; fosso Cona; area edificata; emergenze in elevato assenti. Descrizione sito – Sommità del poggio sovrastante il piano di Papena. Si raggiunge previo permesso ai proprietari, dal bivio a sterro subito dopo l’incrocio del Piano di Feccia della strada provinciale per Chiusdino. Notizie storiche – Nel 1007, “in loco Papina prope ecclesiam S. Felicis territorio Voloterranense” viene stipulato il contratto fra il vescovo di Volterra Benedetto e la contessa Willa relativamente al possesso di castelli in Val d’Evola. L’impostazione del riferimento topografico porta a pensare che la chiesa in quest’epoca non fosse incorporata in un villaggio, alla cui formazione può aver concorso proprio la spinta organizzatrice e accentratrice dell’ente ecclesiastico. Non possiamo sostenere una cronologia certa per la nascita dell’agglomerato che, definito per tutto il XII secolo loco dicto, trova la sua prima attestazione esplicita (villa) alla metà del XIII secolo. È però improbabile ipotizzare un lasso cronologico di oltre due secoli per la strutturazione dell’insediamento accentrato; più verosimile invece che l’impiego di tale termine non escluda la presenza del nucleo bensì ne stia a indicare la “località” in contratti di vendita riferiti a terreni, non direttamente compresi nelle vicinanze degli spazi abitati. Nella sua prima fase, Papena entra a far parte del patrimonio fondiario dell’abbazia di Serena, probabilmente a seguito di consistenti donazioni private; nel momento dell’affermazione del monastero di San Galgano invece rappresenta uno dei primi insediamenti, interessati dalle mire espansionistiche dei cistercensi. La frequenza di contratti rende evidente la volontà dell’abbazia di convogliare i propri investimenti verso un villaggio vicino, che permetteva di imporsi in modo significativo sul tessuto insediativo preesistente. Proprio per questo motivo, assistiamo alla sua precoce trasformazione in grangia, attestata per la prima volta nel 1271; assume immediatamente notevoli dimensioni tanto da rappresentare, insieme con Ticchiano, circa l’85% dell’intero patrimonio fondiario dell’abbazia nell’area a lei circostante. L’intervento cistercense sembra comunque aver contribuito al consolidamento del villaggio che, nel 1300, definisce una propria corte di pertinenza: corte, peraltro, verosimilmente molto estesa, data la varietà e la quantità dei toponimi citati nel Caleffo. Il nucleo doveva presentare un’articolazione interna in edifici di varie tipologia (case con orto e senza, casalini) e spazi aperti quali piazze, prevalentemente di proprietà monastica. Stesso destino delle proprietà fondiarie tocca alla chiesa di San Fabiano e San Sebastiano che, inizialmente dipendente dalla pieve di Sorciano, nel 1252, per donazione dell’abate Martino, passa sotto la giurisdizione ecclesiastica del monastero: l’intitolazione, apparentemente discordante con quella proposta dal documento del 1007, è frutto di graduali modificazioni di cui si trovano tracce nei documenti. L’originaria intitolazione si modifica nel 1246 in quella a “San Feliciano e San Fabiano e San Sebastiano” per poi cadere nella nuova dedicazione a “San Fabiano e San Sebastiano” attestata appunto nel documento di cessione. Il ricordo della chiesa di “Santa Felicita” è sicuramente da imputarsi a un fraintendimento di quella originaria (non si deve scordare che gli atti del Caleffo sono frutto di una trascrizione trecentesca) in quanto non abbiamo nessun indizio della presenza di due chiese distinte: nel 1233 infatti un lascito testamentario indica fra i beneficiari “la chiesa di Papena”, senza ulteriori specificazioni e così anche nelle Rationes Decimarum degli anni 1302-1303. Attestazioni documentarie Ciacci, I, n. 121, p. 43; RV n. 104, p. 38: 10 ottobre 1007: “Cartula Commutationis” con la quale “Willa, filiae bonae memoriae Landulfi qui fuit princeps Beneventanorum, et relicta bonae memoriae Rodulfi qui fuiti comes, una consentientes Ildibrando filio et Mundualdo suo et filio de praedicto Rodulfo comes” trasferisce in possesso del vescovo di Volterra, Benedetto, terre e cose “in loco et fundo ubi dicitur Stignano quae est justa fluivis Arno, insimul cum medietate de Ecclesia quae est in honore B. Sanctae Mariae quae ibi aedificata esse videtur” ne riceve in cambio la corte, la corte, la chiesa e pertinenza di Santa Maria “in loco et fundo ubi dicitur Spugnia que est juxta fluvis Elsa. Actum in loco Papina prope ecclesiam S. Felicis, territurio volaterranum. Gerardo not. Imp.”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 81: agosto 1143: Alberto di Benetoso vende a Martino, prete e monaco e suoi confratelli della chiesa di Santa Maria Benedetto alcuni beni che aveva “in loco dicto Teclano” o in Meletolo e Arenario tra la Merse e la Feccia. “Actum in loco dicto Serena”. Ordina, inoltre, che qualora a cagione di tale vendita la propria moglie o il nipote molestasse detto compratore vuole che tutti i beni che aveva a Papena e nella corte di Frosini pervengano a detto convento. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 2-2t; 6-6t; 17-18t; 20t; 21-21t; 22t-23; 26t; 35t-36; 37t-38; 38t-39; 41t-42; 42-42t; 44t-45; 46. Spoglio Conventi 162, cc. 265-266t; 260. Spoglio Conventi 163, cc. 5t-6; 9-9t; 68t; 74; 84t; 94t; 98-98t; 108t-109; 109-109t; 109t-110; 110-110t; 113t-114; 114t115; 115-116; 116-117; 153t; 477-477t; 477t-478; 206t-207; 207t-208; 167167t; 205t-206. Contratti compresi fra il 16 maggio 1229 e il gennaio 1311, in cui il sito viene definito “loco dicto, in curte de Frosine” o semplicemente “in Papena”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 282-282t; 342t-343; 339-339t; 228t. Spoglio Conventi 161, cc. 63-63t; 18t-19; 190t-191; 191-192; 27-28; 30; 34-34t; 41-41t. Contratti compresi fra il 1260 e il 1258, in cui viene definito “villa, in curte de Frosine”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 319t. Spoglio Conventi 161, cc. 43-44; 2829. Contratti compresi fra il 19 maggio 1278 e il 18 agosto 1283 cui viene definito “grangia”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 30-30t: 11 marzo 1271: granciere di Papena stipula un contratto a nome dell’abbazia di San Galgano. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 69t-70: 30 maggio 1246: donazione di prete Giovanni, rettore della chiesa di San Feliciano e San Sebastiano di Papena di alcuni beni che aveva in Papena”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 227-228t: 31 gennaio 1287: lodo pronunziato nella chiesa di San Fabiano e San Sebastiano di Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 44: 21 marzo 1219: vendita a prete Martino, che riceve per la chiesa di Santa Felicita, alcune terre a Papena”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 33-33t: 19 agosto 1258: atto di vendita di un casalino a Papena stipulato nella chiesa di Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 13t-14: 7 agosto 1300: 13-13t: 8 luglio 1330: “in corte di Papena”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 238t: 7 giugno 1233: lascito testamentario di V soldi alla chiesa di Papena (vi compaiono anche il monastero di San Galgano, l’abbazia di Serena e le chiese di Frosini, Greppine, Scarpignano e San Martino a Vespero). ASS, Spoglio Conventi 163, c. 476: 26 novembre 1264: acquisto da parte del monastero di San Galgano di una “domum cum cellario” con terre annesse poste a Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 12t-13, Spoglio Conventi 163, c. 177-177t: 6 settembre 1252. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 201t-202: 19 dicembre 1257: acquisto dell’abbazia di San Galgano di una “domum cum claustro” a Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 41-41t: 14 giugno 1242: vendita di una “plateam positam in villa de Papena”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 38-38t: 1 giugno 1248: acquisto di una casa con piccolo orto nel villaggio di Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 33-33t: 19 agosto 1258: vendita di un casalino posto a Papena. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 7t-8: 11 novembre 1268: vendita di una casa con orto annesso nel villaggio di Papena. ASS, Estimo 118, c. 268: si ricordano le proprietà del monastero di San Galgano riassunte nella formula “terre laborate, sode prative cum domibus cum claustro et plateis positi in curia de Frosini loco dicto Papena”. Descrizione unità topografica – Rimangono pochi edifici attribuibili al villaggio di epoca medievale, organizzati intorno a uno spazio aperto centrale. L’intero complesso, recentemente restaurato e trasformato in residence, ha perso nel corso dei secoli gran parte del suo carattere originario. Evidente a questo proposito è la trasformazione in rimessa per attrezzi agricoli prima, in abitazione ora, dell’antica chiesa del villaggio, dedicata ai SS. Fabiano e Sebastiano. L’edificio, orientato est/ovest, conserva ancora i caratteri dell’architettura romanica di XII-XIII secolo, anche se la copertura a unico spiovente attualmente visibile ne altera in parte l’aspetto. Ad aula unica, rettangolare, presenta nel paramento murario esterno della facciata e del fianco sinistro le tracce della struttura originaria. La facciata conserva, nella parte inferiore, una muratura formata da conci squadrati di travertino posti su filari orizzontali e paralleli, databile all’impianto della chiesa. Il portale, con piedritti in conci sovrapposti non distinti dalla muratura circostante, è ornato da un architrave monolitico su cui si imposta la lunetta superiore, tamponata. Quest’ultima presenta un restauro in cemento dei conci situati in prossimità della chiave dell’arco a tutto sesto, tagliati dall’inserimento di un’apertura rettangolare di epoca moderna. Il fianco sinistro, esposto a sud, si presenta in buono stato di conservazione. Le aperture presenti sono frutto di interventi tardi; al centro è ancora visibile la porta laterale di accesso all’edificio religioso, in parte tamponata. Opera anch’essa di un intervento posteriore all’edificazione della chiesa, fu aperta al momento della costruzione del corpo di fabbrica addossato al fianco destro dell’edificio. Il nuovo ambiente, infatti, attualmente adibito a rimessa per attrezzi agricoli, chiudeva completamente l’ingresso laterale della chiesa, un portale di bella fattura, con architrave monolitico impostato su mensole concave. Insieme alla stretta monofora tamponata, visibile nel prospetto est e al portale d’ingresso, è l’unica apertura originale conservatasi nell’edificio. Il corpo annesso, di forma triangolare, è di epoca recente e chiude lo spazio compreso tra la chiesa e il grande fabbricato a pianta rettangolare, orientato con andamento sud/nord, addossato all’angolo nord-est della chiesa. In questo punto, in parte nascosto alla vista, si apre il bel portale di accesso all’edificio, realizzato con conci spianati ad ascettino: di notevoli dimensioni presenta l’estradosso a tutto sesto e l’intradosso ribassato. Databile anch’esso ai secoli centrali del basso Medioevo, per tipologia delle aperture conservatesi e tecnica edilizia, forma, insieme alla chiesa, il nucleo più antico del villaggio. Della grangia attestata fin dal 1271, restano tracce nel grande edificio posto a pochi metri di distanza dalla chiesa: al primo piano, un’apertura con arco senese in mattoni indica il prospetto originario, occultato dall’ampliamento verso nord della struttura. Il corpo centrale della grangia, infatti, in parte rimaneggiato, presenta un alzato in laterizi impostato su uno zoccolo in pietra; il corpo di fabbrica aggiunto si presenta in pietre non lavorate, poste in opera senza regolarità su periodici filari di orizzontamento. Gli edifici che si affacciano sulla corte lastricata, con pozzo centrale, sono annessi agricoli adibiti recentemente ad abitazione. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1007-anno 1330. Bibliografia – Barlucchi, 1991; Barlucchi, 1992, pp. 57-59; Canestrelli, 1993, p. 27; RDI, II, p. 219; Repetti, 1841, IV, p. 56. (157) La Magione (Q.120 IV-4786/673) 355 m s.l.m.; versante poggio; argille; fiume Feccia; area edificata. Descrizione sito – Versante meridionale di Poggio San Piero, delimitato a sud-ovest dalla strada a sterro che, partendo dalla curva sottostante Frosini, dopo circa 600-700 m porta al podere. Notizie storiche – Alcuni riferimenti contenuti nel Caleffo di San Galgano attestano la presenza, nella prima metà del XIII secolo, di una Magione Templare situata nella corte di Frosini, nei pressi di Valloria; l’indicazione viene fornita da un contratto, datato al 1269, relativo alla permuta di alcuni terreni posti tra il monastero e la “magione di Frosini”: vi presiede il “frater mansionis templi et nunc preceptor domus d.ce Mansionis posita ad Valloriam in contrata de Fruosini”. Il riferimento alla grangia di Valloria rende individuabile la residenza templare nell’attuale podere La Magione. L’ubicazione è inoltre confermata dalla descrizione dei confini delle proprietà templari, fra cui compare il torrente Parapanna, che scorre alle pendici del poggio in questione. Solo apparentemente atipica rispetto alle altre magioni dell’Ordine, la posizione di quella di Frosini trova motivazione nel suo ruolo all’interno del tessuto viario: vi convergevano le strade principali di collegamento verso il mare e, soprattutto, verso l’area mineraria. In primo luogo la strada Maremmana che, passando dalla pieve a Molli attraverso la valle di Rosia, continuava di fronte alla Magione in corrispondenza dello sbocco della strada proveniente dalla Val d’Elsa; da qui, si dipartivano la Massetana diretta a Massa, attraverso Chiusdino e Montieri, e la Maremmana che passando Frosini e Pentolina, raggiungeva il bivio per Monticiano, nel punto di innesto della strada proveniente da Volterra. Risulta chiara quindi la finalità “ospedaliera” dell’insediamento (caratteristica di queste fondazioni) particolarmente motivata dalla necessità di strutture di conforto per i numerosi mercanti diretti ai principali centri minerari della Toscana. Le modifiche duecentesche, tendenti a facilitare il percorso, eliminarono il passaggio dalla pieve di Pentolina e resero possibile l’apertura della strada di fondovalle. Quest’ultima, dopo la costruzione del ponte sul Feccia nei pressi di Monte Siepi, diventerà il principale collegamento con l’abbazia di San Galgano. Il passaggio non più obbligato dalla Magione e la ‘concorrenza’, nella funzione di spedale e di albergo, della vicina abbazia, determinò la progressiva decadenza dell’insediamento. Il monastero, approfittando di tale cedimento, iniziò progressivamente a incorporare le proprietà fondiarie della Magione. Sono andati perduti gli atti relativi alle acquisizioni da parte dell’abbazia, sappiamo però che nel 1323 tra le sue proprietà si annoverava anche “terram laboratam, et vineatam, ortatam, sodam et boscatam, domos claustro cum area e cappanna in curia de Fruosine [...] la Magione, ex fossatum Parapanne”. Rimane sconosciuta la cronologia di fondazione; sappiamo invece che fu amministrata da un precettore rappresentato da un frate dei Templari, che dipendeva dal vicario in Toscana del Capo delle Case del Tempio di tutta Italia. In altri documenti compaiono figure definite come “oblati” e “conversi”, forse delegati alla gestione economica. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 308-309: 30 marzo-2 aprile 1269: documento citato nel testo. Fra i testimoni compare Fiorenzetto Ricci “conversus et oblatus eiusdem Mansionis”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 16v: 1298: la carta è relativa alla descrizione dei confini fra i possedimenti del monastero, compresi a sud del torrente Feccia e quelli dei Templari, a nord del torrente Parapanna. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 458t: frate Orlando de Sala “vicario in Toscana di frate Enrico teutonico”. ASS, Spoglio Conventi 162, c. 252-252v: 17 febbraio 1239: frate Ranieri procuratore della Casa del Tempio di Frosini, con licenza di Frate Orlando della Sala, vicario in Tuscia “domini fratris Enrighi Teutonici domorum militie Templi totius Italie”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 164-164t: 4 settembre 1242: Feriero de Uliviero “preceptor domus militie Templi de Fruosini” appare come procuratore di “Filippo preceptoris” dà in permuta alcuni terreni al monastero di San Galgano. ASS, Estimo 118, c. 510: documento citato nel testo relativo alle acquisizioni del monastero. ASS, Estimo 118, c. 266: “habet terre laborate et boscate in d.ca curia (Frosini) loco dicto ala costarina, cui ex foss. Parapanne ex via ex Mansionis templi. Quia coem ht. cum domo Mansionis Templ”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 221t-222: 17 dicembre 1258: “actum apud Magionem templi de Frosini. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 246-246t: 9 giugno 1290: “loco dicto La Magione, in curte de Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 16-16t: 26 ottobre 1298: atto di vendita stipulato presso La Magione. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 15t-16: 18 dicembre 1298: sentenza intorno alla vertenza tra il monastero di San Galgano e due cittadini senesi riguardo alla casa annessa al podere detto “La Magione” in corte di Frosini che i fratelli sostenevano il monastero avesse loro levato con la violenza. RD, II, p. 201: “Mansio Templi de Fruosina”. Descrizione unità topografica – Attualmente il complesso architettonico, situato lungo la strada, è formato da due strutture orientate sudovest/nord-est: l’edificio a nord, destinato ad abitazione, rappresenta il corpo centrale del complesso, mentre l’altro, di dimensioni ridotte e in corso di restauro, era in origine il fienile. L’abitazione, restaurata di recente, si presenta formata da due parti distinte, delle quali quella più antica, a pianta rettangolare, è disposta parallelamente alla strada di accesso al complesso rurale, mentre il corpo aggiunto, ampliando l’intera struttura verso sud, non è allineato al resto del complesso. L’edificio più antico, con ogni probabilità, era costruito interamente in pietra, il travertino compatto reperibile nelle cave situate nei pressi di Frosini. Sono ancora leggibili, infatti, nei prospetti sud-ovest e nord-est, porzioni di muratura attribuibili con ogni probabilità all’epoca medievale, come parte delle angolate originali del nucleo più antico, in conci in travertino squadrati e spianati. Nei punti in cui l’apparecchiatura muraria è ancora leggibile, si presenta formata da bozze di medie dimensioni in travertino, sommariamente spianate, poste in opera con una certa regolarità. Cronologicamente riferibile al XIII secolo, si differenzia nettamente, per tessitura muraria e posa in opera (si veda il capitolo VIII, 1, Campione Ch 7), dal corpo aggiunto; quest’ultimo infatti, databile non prima del XVI secolo, mostra un utilizzo di pietre di cava e laterizi posti in opera in modo irregolare. L’intera struttura conserva, nel complesso, tracce di numerosi interventi succedutisi nel tempo, come indicano i frequenti rimpelli visibili nell’apparecchiatura muraria e l’apertura, con successiva tamponatura, di finestre in mattoni. Il fienile, situato a breve distanza, mostra nel lato sud-ovest, tracce di un edificio più antico con copertura a unico spiovente; la struttura originaria fu successivamente ampliata verso sud-ovest. Interpretazione – Magione Templare. Cronologia – Inizi XIII secolo-anno 1330. Bibliografia – Borracelli, 1989, pp. 311-329; RDI, II, p. 201; Szabò, 1975, p. 154 sgg. (158) Eremo di Santa Lucia (Q.120 IV-4789/678) 368 m s.l.m.; versante collinare; detriti e discariche; torrente Rosia; area edificata. Descrizione sito – Nel versante del poggio posto sul confine dei territori comunali di Chiusdino e Sovicille, raggiungibile attraverso il ponte medievale “della Pia dei Tolomei”, si conservano ancora oggi tracce evidenti dei ruderi della struttura eremitica; dopo la distruzione del nucleo originario, l’edificio è stato adattato a casa colonica mantenendo, poi, una continuità di frequentazione fino all’epoca moderna (inizi XX secolo). Inserito nella tenuta di Spannocchia, negli anni Sessanta-Settanta (campagne 1967-1969; 1970-1972; 1974) del nostro secolo è stato fatto oggetto di campagne di scavo dirette dall’Etruscan Fondation di Detroit e patrocinate dal conte Cinelli, proprietario della tenuta. Dopo un primo lavoro di consolidamento e ristrutturazione delle rovine, si è proceduto allo scavo stratigrafico dell’intero complesso: sono state individuate tre diverse fasi di frequentazione corrispondenti a tre distinte strutture, databili in una arco cronologico compreso fra il X secolo e il XIII secolo. Notizie storiche – Stando alle informazioni deducibili dalla documentazione disponibile, la fondazione dell’eremo degli Agostiniani è da collocarsi genericamente nel corso del XII secolo; al 1200 risale la prima donazione a favore del “rumitorio de Rusia” a cui fanno seguito frequenti contratti, stipulati nel corso dello stesso secolo, che sembrano indicare in questo momento l’affermazione economica e religiosa della chiesa. Fra i donatori compaiono frequentemente membri della famiglia Spannocchi mentre, in misura minore, si ricordano la chiesa parrocchiale di Montarrenti e altri privati. Scarne sono le notizie relative alle principali vicende storiche: dai documenti si evincono dati rispetto a una duplice costruzione dell’edificio, l’una collocabile nel corso della seconda metà del XIII secolo e l’altra nella prima metà del XIV secolo. Nel maggio 1267, infatti, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, sia il vescovo di Grosseto che quello di Massa Marittima concedono indulgenza di 40 giorni ai loro diocesani in cambio di elemosine destinate alla riedificazione della chiesa; già l’anno precedente era stato preso un provvedimento simile da papa Clemente IV con identico scopo, compartendo indulgenza plenaria a chi avesse visitato la chiesa. La seconda ricostruzione viene desunta dal provvedimento del gennaio 1326 in cui il vescovo Ranuccio di Volterra concede indulgenze per chi avesse contribuito alla ricostruzione dell’edificio. Controversa è anche la data di abbandono dell’eremo: stando alla testimonianza di Landucci viene abbandonato in corrispondenza dell’ultima guerra fra Siena e Firenze, collocabile nel corso del XIV secolo, mentre Lopez Bardon Thyrsus nel lavoro relativo ai Monastici Agostiniani... ab anno 1620 usque ad 1700, riferisce dell’esistenza, in tale data, della chiesa in “Provincia Senesis”. Descrizione unità topografica – La prima fase corrisponde a un edificio ecclesiastico di modeste dimensioni (corpo rettangolare completato forse da un portico sul lato occidentale), datato fra la fine del X secolo e la prima metà dell’XI secolo, sulla base del materiale numismatico (una moneta di Enrico V e una del vescovo Ademaro di Arezzo) e ceramico (frammenti di boccale a orlo svasato di Forum Ware). Gli elevati, reimpiegati parzialmente come mura di terrazzamento, dovevano avere un’apparecchiatura irregolare, di tipo preromanico; più accurata invece la realizzazione delle fondazioni, ottenute con blocchi squadrati di travertino, associati a pietra locale parzialmente lavorata. È probabile una precedente frequentazione del sito, evidenziata dal rinvenimento di un’area cimiteriale, ricavata nello spazio retrostante la chiesa e delimitata su un lato dalle sue fondazioni e sugli altri da piccoli muri in mattoni: qui, secondo l’interpretazione dell’équipe americana, sono stati fatti confluire tutti i resti umani e animali, precedenti all’impianto, rinvenuti durante i lavori di costruzione. La seconda fase determina un ampliamento della struttura che viene così ad assumere l’aspetto dell’impianto di XIII secolo, sia per quanto riguarda le dimensioni della navata centrale che per la presenza di alcuni elementi strutturali; è pertinente a questa fase, un chiostro ampio, posto a sfruttare la pendenza naturale nella parte meridionale e interamente realizzato in mattoni di impasto identico a quelli impiegati nella costruzione del nucleo centrale. Vari elementi concorrono nella formulazione dell’ipotesi di un crollo omogeneo della struttura, quasi certamente causata da un incendio, che ha lasciato tracce evidenti negli strati di abbandono: dalla sezione del pavimento della navata inoltre sono stati rinvenuti due scheletri obliterati da frammenti di muri a conferma della distruzione totale e simultanea dell’eremo. Il tempo intercorso fra questa fase e la successiva è verosimilmente breve dato lo spessore limitato dello strato di abbandono. La terza fase corrisponde alla struttura finale, a pianta rettangolare a unica navata; le decorazioni rinvenute durante i lavori di scavo riguardano parti costitutive dell’altare, capitelli scolpiti con immagini fantastiche e piccoli frammenti delle vetrate. A ognuna delle tre fasi corrispondono distinte aree cimiteriali, che mostrano una continuità nelle sepolture fino agli inizi del XVIII secolo: usualmente prive di corredo, quelle di terza fase, invece, sono talvolta modestamente dotate. L’analisi antropologica degli scheletri ha attestato la frequenza di casi di morte per malattie epidemiche, quali ad esempio la peste: quest’elemento ha spinto l’équipe americana a ipotizzare che l’eremo abbia svolto nella sua fase più tarda una funzione di tipo ospedaliero. L’assenza di materiale datante impedisce di proporre cronologie precise per le due ricostruzioni: comunque probabilmente da collegare a quelle di metà XIII secolo e di inizi XIV secolo, desunte dalla documentazione scritta. Interpretazione – Eremo. Cronologia – Fine X-inizi XI/XVIII secolo. Bibliografia – Donati, 1872, p. 29; Etruscans, 1967-1969, 1970-1972, 1974; Repetti, 1841, II, p. 74. (159) Podere Le Cetine (Q.120 IV-4789/676) 342 m s.l.m.; pianura; detriti e discariche-rocce carbonatiche brecciate; torrente Rosia; area edificata. Notizie storiche – Nel 1318 vi è attestata l’esistenza di un villaggio per il quale non possediamo ulteriori notizie. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1318-(?). (160) Defizio (Q.120 II-4781/680) 227 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse; vegetazione stabile. Descrizione sito – Area pianeggiante di forma triangolare allungata delimitata a est dalla sponda sinistra del Merse, a ovest dal Masso degli Zingari e da Poggio Romitello. Il sito è raggiungibile dalla località Casa Vecchia attraverso un sentiero nel bosco o dal Podere Mallecchi, tramite un sentiero parallelo al Merse, oltrepassando il guado al fiume. Notizie storiche – L’ipotesi di un’attività di fonderia idraulica in epoca medievale viene formulata in base alla combinazione di indicazione fornite dall’istanza di concessione mineraria con la persistenza nel toponimo di un termine, indicante (nella documentazione medievale) strutture destinate alla lavorazione del ferro, soprattutto se alimentate da energia idraulica. Attestazioni documentarie M GR., 47/218, 907: 10 novembre 1952: “I cumuli di scorie in località Podere Defizio sono ubicati vicino a un’antica fonderia, di epoca etrusca, di cui rimangono tracce di muri in pietrame. Dalla visita dell’area richiesta è risultato che nel versante est della collina Masso degli Zingari esistono tracce di vecchi lavori minerari ed esattamente l’imbocco di due vecchie gallerie ormai franate e ricoperte da fitta boscaglia. Si suppone che con questi lavori si coltivò un giacimento di minerali di ferro, ematite e magnetite, che poi venivano fusi nel vicino forno”. Descrizione unità topografica – Dalle concessioni minerarie del 1952 è segnalata la presenza in questa zona di grandi cumuli di scorie e gallerie collocabili nel versante orientale del Masso degli Zingari, attualmente non localizzabili. Interpretazione – Ferriera. Cronologia – Dubbia. Bibliografia – Cortese, 1997, pp. 258-259. (161) Località Podere Castellare (Q.120 IV-4784/670) 380 m s.l.m.; pianoro; conglomerati poligenici; fosso Fonterossa; vegetazione stabile. Ricognizioni effettuate: 1; vegetazione stabile; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: discreta; stato di conservazione del deposito: buono. Descrizione sito – Poggio posto a 160 m circa a sud-ovest del podere Castellare, lungo la strada che lo collega al podere San Magno. Si tratta di una collina di forma ovale ricoperta da vegetazione boschiva, di circa 110365 m, orientata verso nord-ovest e sormontata da un pianoro. I versanti della collina appaiono molto scoscesi, particolarmente quello occidentale e la parte sud-ovest di quello meridionale, mentre la parte orientale del versante sud è stata alterata in tempi probabilmente recenti per facilitare la salita sul pianoro, dove è stato realizzato un pozzo. La collina è delimitata a nord e a nord-ovest dalla strada per il podere San Magno e sugli altri lati da un sentiero boschivo; questo circonda la collina e la separa dal versante collinare che prosegue verso sud ed est. Descrizione unità topografica – La morfologia della collina, evidentemente modificata in seguito all’intervento antropico, e la presenza di emergenze murarie indicano una fase di occupazione del sito. La sommità, definita da un pianoro di forma ovale, ha un’estensione di 35373 m circa, ha orientamento est/ovest ed è cosparsa di pietrisco e pietre di medie e piccole dimensioni non lavorate, difficilmente rilevabili a causa della fitta vegetazione; nella sua parte occidentale presenta un rialzamento spianato, evidentemente artificiale, che si allarga per circa 9 m dal limite del dirupo, per discendere in modo abbastanza brusco verso est confluendo nel pianoro principale. Un’altra variazione simile del terreno, posta a una quota leggermente più bassa, si allunga dall’angolo meridionale di questo rialzamento e corre sul bordo meridionale del pianoro, per una larghezza di circa 2 m e una lunghezza di 20 m. Sulla sommità del rialzamento ovest si possono osservare tracce di murature e situazioni di crollo, non facilmente leggibili; si tratta per la maggior parte di protuberanze nel terreno, associabili a crolli di murature posti immediatamente sotto l’humus, che sembrano circoscrivere un’area di 1539 m. Spargimento di materiale lapideo si rintraccia poi sui versanti della collina, in particolar su quello settentrionale, che risulta tagliato dall’allargamento della strada per il podere Castellare, e nella cui sezione è visibile una grande quantità di pietre e malta. Alla base del versante est rimangono le possibili tracce di un fossato, indicate da un piccolo ripiano avvallato prima di confluire nel viottolo boschivo che delimita i lati sud ed est del sito. Sono stati raccolti alcuni frammenti di ceramica acroma grezza e depurata insieme a frammenti di ossa animali, all’interno di uno scasso effettuato nella sommità del rialzamento occidentale e ripulito nel corso della prospezione. I materiali sono databili al Medioevo, ma la mancanza di forme tipologizzabili non permette di produrre attribuzioni cronologiche certe. La totale assenza di laterizi tra i reperti presenti in superficie lascia ipotizzare una contestualizzazione del sito nelle fasi anteriori al XIII secolo (momento di diffusione del laterizio nella zona chiusdinese). Presenza, media per mq – Non presenti in superficie. Cultura materiale presente Acroma depurata Ventisei frammenti di parete. Acroma grezza Due frammenti di parete, 1 frammento di bordo. Interpretazione – Castello (?). Le tracce individuate possono essere riferite in via puramente ipotetica (in assenza di dati più certi) al castello di San Magno (sito 104). Cronologia – Generica età medievale. Rinvenimento inedito (162) Località Casa Sala (Q.120 III-4779/669) 472 m s.l.m.; versante collinare; conglomerati poligenici; fosso della Badia; incolto. Ricognizioni effettuate: 1; terreno incolto; condizioni di luce: cielo aperto. Attendibilità identificazione: scarsa; stato di conservazione del deposito: indefinibile. Descrizione sito – Campo di medie dimensioni e forma irregolare, definito a sud e sud-est da una strada vicinale, sul lato nord dalla strada che collega Chiusdino alla strada Massetana e a nord-est dal sito 57. Descrizione unità topografica – Nella parte sudorientale del sito si raccolgono, in forma sporadica, frammenti di laterizio e di ceramica acroma grezza: questo materiale potrebbe essere indizio di un deposito conservatosi nel sottosuolo, non visibile a causa della tenuta a pascolo. Presenza, media per mq – Inferiore a un reperto. Cultura materiale presente Acroma grezza Cinque frammenti di parete. Laterizi Impasto 1. Interpretazione – Materiale sporadico. Cronologia – VII-VI secolo a.C. Rinvenimento inedito (163) Podere Fogari (Q.120 III-4775/670) 578 m s.l.m.; sommità poggio; flysh prevalentemente argillitici e detriti e discariche; fosso Gallosa; area edificata. Descrizione sito – Località, distinta in Fogarino e Fogarone, posta sulle pendici nordorientali del poggio di Fogari. Si raggiunge seguendo la strada diretta a Luriano, prendendo all’altezza del podere Santa Pace. Notizie storiche – La chiesa di San Vincenzo di “Fogali” viene annessa alla proprietà dell’abbazia di Serena grazie al privilegio proclamato da Enrico V nel 1111; è inoltre citata nelle Rationes Decimarum del 13021303 e nel Sinodo Belforti del 1356. Nel corso del XIII secolo (e presumibilmente anche in precedenza) è inserita nella corte castrense di Miranduolo. Il villaggio compare nell’elenco delle tassazioni del contado senese del 1444 in cui “Lugriano e Fulguri” vengono tassati per la cifra abbastanza contenuta di 21 lire, 15 soldi e 6 denari: l’insediamento dunque, almeno in questa data, doveva essere modesto e non molto popoloso. Nella Tavola delle Possessioni del 1318, la “villa di Fogori” si trova all’interno della corte di Luriano e vi sono censite tre case di proprietà di residenti e la chiesa di San Vincenzo. Attestazioni documentarie ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 24 gennaio 1257: Uguccio, Raniero, Ugolino del fu Bartolo da Frosini vendono ad Arrigo del fu Gualtiero di Cantone, che copra per sé e per i fratelli Uberto e Maffeo alcuni terreni compresi nella corte di Miranduolo; cedono inoltre i loro possessi “apud Fogali in loco dicto Gorgoli” e alcune terre “in loco dicto fonte Muccioli”; “medietatem pro indiviso terrarum et nemororum in loco dicto Scandolariam et Colledelolio et cum aliis vocabulis quibus ex uno latere est fossatus de Conia”; “unam petiam terre aboschate posite a le piagie di Colletechaio que sint marchesi de Lavaiano”; “unam petiam terre posite all’Aia Buona”; il documento non è originale, ma copia autenticata che venne trascritta dall’originale il 24 aprile 1277. ASS, Diplomatico, Comune di Montieri: 4 giugno 1276: Arrigo e Maffeo del fu Gualtiero di Cantone vendono a Giacomo di Ranieri di Ricciardi: “castellare de Miranduolo que olim dicebat castrum de Miranduolo cum omni curte et districtu suo et cum omnibus iuribus [...] spectantibus et pertinentibus a ipsum castellare [...] pertinente ad dictum castellare et curtem et districtum eius et cum omnibus terris cultis et incultis et egrestibus et cum omnibus silvis et nemoribus et cum onibus aquis et aquarum al[...] et cum omnibus insulis et cum omnibus domibus [...] in dicto castellare et curte et districtu eius et cum omnibus poderibus et nominatim in villa de Cicioris, in villa de Cas(t)eldicçi, in villa de Castagnuolo, in villa de Cusa et in villa de Fogari et in quolibet alio loco de curte et districtu”. ASS, Ms. B.95: 17 agosto 1322: Michele del fu Nuti Lugli da Boccheggiano dona per nozze a Cheloccio e Giovanni del fu Tintarello della Villa di Fogari nel distretto di Cusa, ricevente e stipulante per donna Giovanna loro sorella e futura sposa di detto Michele, gli fanno esercitare gli atti di presa di dominio propri del tempo, per 100 di denari senesi minuti. Descrizione unità topografica – Agglomerato costituito da tre edifici principale, abbandonati nel corso della seconda metà del nostro secolo. Sono costruiti con pietra locale, non lavorata secondo una messa in opera molto irregolare; non rimangono tracce, comunque, dell’abitato medievale. La struttura dalle caratteristiche più peculiari si trova a ovest del nucleo, lungo il versante del poggio: la presenza di un’unica apertura, di forma stretta e allungata (oltre quella di accesso sul lato meridionale, posta a circa 2,5 m di altezza del lato orientale), può rappresentare un indizio per una sua possibile identificazione con l’edificio ecclesiastico, attestato nel villaggio: siamo comunque nel campo della pura ipotesi. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Prima metà XII secolo-anno 1444. Bibliografia – Ascheri-Ciampoli, 1990, p. 157; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 60-61, nota n. 52; Giachi, 1786, p. 586; Pardi, 1923, p. 21; RDI, II, p. 219; Stumpf-Brentano, 1865-1883, pp. 94-95, n. 85; Passeri-Neri, 1994, p. 16. Siti non identificabili (164) Località al Piano 280 m s.l.m.; pianura; depositi alluvionali; fiume Merse. Descrizione sito – Attualmente il toponimo Il Piano è inserito all’interno del confini comunali di Monticiano. Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: è attestata una casa di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 26. (165) Località al Santo Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo è presente all’interno della corte di Luriano, con l’attestatazione di una casa di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (166) Località Casalino Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: sono censiti un palazzo e otto case, tutti di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (167) Località Caldanelle Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 Caldanelle figura nella corte di Luriano: vi è attestato un casalino di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (168) Località Casa Marçeschi Notizie storiche – Il toponimo è ricordato nella Tavola delle Possessioni del 1318 all’interno della corte di Luriano con due case, tre casalini e un forno di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (169) Località Coltora Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 Coltora è attestato con tre case e un casalino di proprietà di residenti, nella corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (170) Località Ferrioli Notizie storiche – Con questo toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318, è censita una casa, di proprietà di residenti, nella corte di Luriano. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (171) Località Fontacchione Notizie storiche – Nel 1318 si trova all’interno della corte di Luriano: vi sono censite tre case e un casalino di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (172) Località Fonte a Tassinaia Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, con quattro case di proprietà di residenti, il toponimo è menzionato all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (173) Località Fonte Guilgli Notizie storiche – Nel 1318 è ricordata all’interno della corte di Luriano: vi sono censite due case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 16. (174) Località Fonte Orsi Notizie storiche – Il toponimo, nel 1318, stava a indicare una pieve, due case e due casalini di proprietà di residenti, attestati all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (175) Località le Fosse Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 sono attestate, sotto questo toponimo, due case e due casalini di proprietà di residenti all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (176) Località Marzaiuolo Notizie storiche – Nel 1318, il toponimo è compreso all’interno della corte di Luriano: sono censite 11 case e tre casalini di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (177) Località Pilelle Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Luriano: vi sono attestati due casalini di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (178) Località al Poggiarello Notizie storiche – Sotto questo toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318, compaiono due casalini, di proprietà di residenti, nella corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (179) Località Ripa Notizie storiche – Il toponimo è ricordato nella Tavola delle Possessioni del 1318 dove figura all’interno della corte di Luriano: sono attestati una casa e tre casalini di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (180) Località Salceto Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo, attestato con due case di proprietà di residenti, compare all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (181) Località Sopra le Calta Notizie storiche –Nella Tavola delle Possessioni del 1318, si trova all’interno della corte di Luriano: è censita una casa di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (182) Località Tassinaia Notizie storiche – Il toponimo compare all’interno della Tavola delle Possessioni del 1318 nella corte di Luriano: sono attestate tre case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (183) Località Tramonte Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo (inserito nella corte di Luriano) indica una casa, di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (184) Località Valle al Pozzo Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo attesta la presenza di un casalino, di proprietà di residenti, presente all’interno della corte di Luriano. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (185) Località la Via Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo compare nella corte di Luriano: vi sono attestati un forno, cinque case e tre casalini di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (186) Località Vigne al Borgo Notizie storiche – Il toponimo è censito, con tre case di proprietà di residenti, nella Tavola delle Possessioni del 1318, relativa alla corte di Luriano. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 17. (187) Località Ancavaglioni Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: sono censiti due palazzi e due case, tutti di proprietà di non residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (188) Località il Botrio Notizie storiche – Il toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318, si trova attestato, con un palazzo di proprietà di non residenti, all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio. Interpretazione – Palazzo. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (189) Località Campo Grande Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 compare all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: sono censiti un palazzo e 14 case, tutti di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (190) Località Capeto Notizie storiche – Il toponimo, compreso all’interno della Tavola delle Possessioni del 1318, definisce una casa, di proprietà di residenti, inserita nella corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (191) Località a la Casella Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: sono attestate due case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (192) Località Corte Sagra Notizie storiche – Il toponimo compare attestato nella Tavola delle Possessioni del 1318 relativa alla corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio, con la chiesa e tre case di proprietà di non residenti. Interpretazione – Villaggio (?). Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (193) Località le Lame Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 si trova all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio ed è attestato con solo due case di proprietà di non residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (194) Località Lentile Notizie storiche – Il toponimo indica, nella Tavola delle Possessioni del 1318, una casa di proprietà di residenti, compresa all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (195) Località Mozzeto Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio: vi è attestata una casa di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (196) Località Pantaneto Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo attesta l’esistenza di una casa di proprietà di residenti; è posta all’interno della corte di Palazzo ai Fichi e Montecchio. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 25. (197) Località al Castellare Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 questa località figura all’interno della corte di Tamignano: vi sono attestate sette case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 42. (198) Sovioli Notizie storiche – La prima attestazione del castello risale al 1004: è infatti compreso, insieme alla sua chiesa intitolata a San Lorenzo, nella donazione fatta da Gherardo e Willa dei Gherardeschi in favore dell’abbazia di Santa Maria di Serena. Nel 1116 siamo informati di una disputa sorta fra i conti Gherardeschi e i monaci di Serena in merito alle proprietà dei castelli di Serena e Sovioli: non conosciamo l’esito del contrasto. Negli elenchi delle Rationes Deciamarum del 1302-1303 risulta la chiesa di Soviola nominata nel piviere di Montieri. Attestazioni documentarie ASF, Diplomatico, Vallombrosa: 1004: “castello de Sovioli cum ecclesia Sancti Laurenti cum curte”. Descrizione unità topografica – Il toponimo può essere ricollegato all’affluente del fiume Merse, proveniente dal fianco meridionale del Poggio di Montieri, denominato nel secolo scorso “Merse Sovioli” e attualmente “torrente Mersino”. In questa stessa area, Arduino segnala la presenza di coltivazioni di rame, sfruttate nell’antichità. Interpretazione – Castello. È compreso nell’area di massima espansione e affermazione dei conti Gherardesca; collocato a breve distanza castelli di Serena e Miranduolo, poteva avere parte attiva e rilevante all’interno dell’economia della famiglia, grazie alla sua posizione favorevole rispetto ai giacimenti di rame. Cronologia – XI-XII secolo d.C. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 48-49; RDI, I, p. 219. (199) Bossolino Notizie storiche – In data 20 dicembre 1152, la chiesa di Bossolino viene annessa (insieme con la chiesa di San Giorgio a Ticchiano) alle proprietà dell’abbazia di Serena per decisione di papa Eugenio III. Negli elenchi delle Rationes Decimarum del 1302-1303 è compresa nella pieve di Chiusdino. Attestazioni documentarie RV, n. 196, p. 70: 7 maggio 1165: “Galganus ep. Vult. consensu canonicorum se obligavit Silvestro abb. s. Marie de Serena, se non edificaturum ecclesiam in castro et burgo de Cluslino nec lite facturum de eccl. s. Iacobi et s. Martini iusta muros de Cluslino; pro quo abbas episcopo suas possessiones in Borsolino, Partena, Suvennano, Maccareto, Mozzetta in emphiteosin. pro censu annuo in fest. s. Marie de aug. cereo unius libre dedit; pen. dupli. Act. in eccl. s. Iacobi et s. Martini de Clusilino presentia Guidonis et Tedicii comitum qd. Ugolini comitis. Derate et Peldilupi qd. Ildibranducci”. Segue la conferma da parte della cessione da parte dell’abate di Santa Maria di Serena. Interpretazione – Chiesa. Cronologia – XII secolo d.C. Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1993, p. 61; Kehr, 1906, III, n. III, pp. 116-117; RDI, II, pp. 218-219; Repetti, 1841, I, p. 709. (200) Castagno Notizie storiche – È sede di una delle case donate da Willa alla cattedrale di Volterra nel 996. Nel documento viene localizzato in prossimità della chiesa di San Magno, antica pieve del castello di Montalcinello (vedi siti 103 e 104). Attestazioni documentarie RV, n. 85: 9 febbraio 996: ”Uuilla mulier Gherardi et filia b. m. Berardi consenziente viro, ubi interesse videtur notitia ad Johannes iudex inp. Interrogata sequenter edicti pagina, cum viro pro remedio anime nostre offero domo s. Marie fra mura civitatem Volot. in potestatem de canonica s. Ottabiani, que infra episcopio in corpore requiessci, octo inter casis et cassinis seu integris sortibus infra comitato et territurio Volot. in loco ubi nuncupantes: [...], casa et res mass. a Castangno prope eccl. s. Mangni”. Interpretazione – Casa. Cronologia – Anno 996-(?). Bibliografia – Ceccarelli Lemut, 1982, p. 14; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 55-56; RV, pp. 31-32. (201) Località Camporella Notizie storiche – Nel 1318 è attestato lo sfruttamento agricolo dell’area posta “ex ecclesie Cotorniano, ex fluvium Feccie”. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 4v, 5, 37v, 86v, 97, 102, 114, 117, 117v, 129, 161v. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 40s 6t. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (202) Fabbriche di Vespero Notizie storiche – La citazione di toponimi quali “fabrica” o “fabriche” nella Tavola delle Possessioni di Frosini nel 1318, lascia ipotizzare la presenza di strutture produttive da ferro (indicate spesso con tali termini nella documentazione medievale). Accettando tale ipotesi, possiamo pensare che la loro ubicazione in prossimità di corsi d’acqua indichi un tipo di alimentazione a energia idraulica. Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, c. 66: “terziam partem pro indiviso unius petie terre sode posita in dicta curia loco dicto Fabrica”. ASS, Estimo 2, c. 97v: terra “positam in curia Castri de Fruosine loco dicto le Fabriche cui ex duabus monasterii Sancti Galganii, ex una via”. ASS, Estimo 2, c. 261v: “unam petiam terre sode positam in dicta curia (di Frosini) loco dicto le Fabriche cui ex duabus dicti monasterii (di San Galgano) et ex una via. ASS, Estimo 2, c. 262: “unam petiam terre [...] positam in curia de Fruosine loco dicto le fabriche cui ex duabus fossatus”. Descrizione unità topografica – Per la descrizione di Vespero si veda la scheda di sito 152. Non è localizzabile la struttura produttiva, verosimilmente posta lungo il corso del fosso Foci, che scorre ai piedi della collina su cui si trova il podere; la ricognizione dell’area compiuta da Maria Elena Cortese non ha restituito alcun tipo di evidenza materiale. Interpretazione – Struttura produttiva da ferro. Cronologia – Anno 1318-(?). Bibliografia – Borracelli, 1989, pp. 320-321; Cortese, 1997, pp. 298-299. (203) Mulino di Filicata Notizie storiche – Nel 1228 Martino e Guglielmo del fu Giovanni donano a Pietro, monaco e sottopriore del monastero di San Galgano, alcune terre contigue da destinare alla costruzione della steccaia e della gora per il “Mulino di Filicata”, posto in corte di Frosini. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 65: 4 luglio 1228. Interpretazione – Mulino. Cronologia – Anno 1228-(?). (204) Località Casalina Descrizione sito – Il toponimo non si è conservato. L’indicazione della vicinanza con il Molino Vecchio, nonostante non sia specificata l’appartenenza alla corte di Frosini, permette la generica localizzazione nei pressi del Piano di Feccia, probabilmente nei poggi retrostanti la pianura. Notizie storiche – Nel 1221 si ha la prima notizia di quote patrimoniali di proprietà del monastero di San Galgano nei boschi di Casalina, presso “Molino Vecchio”: evidente è l’interesse su questa zona, data il contrasto sorto fra i monaci e i donatari nel 1302 riguardo al loro possesso. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 305t-306: 24 agosto 1221: cessione da parte i privati al monastero di San Galgano di un quarto dei “boski di Casalina” presso Mulino vecchio. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 306t: 6 giugno 1302: discordie fra monastero di San Galgano e privato intorno bosco di Casalina. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1221- anno 1302. (205) Pieve di Malcavolo Descrizione sito – Nonostante la vicinanza all’agglomerato di Malcavolo, non è interpretabile come la pieve a esso relativa; l’edificio corrisponde infatti della pieve di Monti (sito 154) che le si sostituisce nel corso del XIII secolo. Notizie storiche – La pieve, intitolata a Santa Maria viene ricordata al momento dell’unione con quella di San Giovanni a Monti in un unico edificio, che conserva entrambe le intitolazioni. Non sappiamo quando questo sia avvenuto è, comunque, certo che nel XIV secolo la pieve di Malcavolo è già distrutta. Nel Sinodo Volterrano del 1356 il villaggio risulta “sine Ecclesia, cum sit diruta in totum” e il suo popolo viene unito a quello della pieve di Monti, posta nel medesimo “sesto di montagna”. Interpretazione – Pieve. Cronologia – (?)-anno 1356 (terminus post quem). Bibliografia – Cappelletti, 1844-1870, XVIII, p. 211; Repetti, 1833-1843, III, p. 31. (206) Località Poggio Notizie storiche – Nel 1318 è attestata una frequentazione dell’area a scopo agricolo; vi era ubicata una capana, interpretabile sia come struttura di supporto ad attività agricolo sia come piccolo edificio abitativo in materiale deperibile (riteniamo comunque più plausibile la prima lettura). Attestazioni documentarie ASS, Estimo 2, cc. 37v, 50, 97, 126. Estensione delle superfici: “Terra laborata” 28s 5t; “Terra vineata” 50t; “Terra sode” 12s 60t. Strutture: “Capana” 1. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1318-(?). (207) Ferriera dei Lambardi Notizie storiche – Nel 1278 viene donata dalla famiglia Lombardi di Monticiano al monastero di San Galgano una ferriera, che corrisponde, con tutta probabilità, a uno degli impianti dati in affitto agli Azzoni nel 1369. In questa data, i monaci di San Galgano ratificano l’affitto di due ferriere poste sul fiume Merse, date precedentemente in affitto agli Azzoni (il documento è regestato in AVG, T.102, p. 371). Attestazioni documentarie ASS, KSG 162, cc. 5r-6v: 1 dicembre 1278: Giovanna, figlia di Giacomo Lombardi e moglie di Ruberto del fu Gioacchino vende a frate Giovanni medico, che riceve in nome dell’abbazia di San Galgano, insieme con altre proprietà “octavam decimam partem pro indiviso duorum molendinorum et unius hedifitii a ferro et unius Ghualcherie cum terris et lamis et nemoribus et arboribus et omnibus suis pertinentiis sitos in aqua fluminis Merse”. Interpretazione – Ferriera. Cronologia – Anno 1278. Bibliografia – Cortese, 1997, pp. 313-314. (208) Molino di Bonaccorso Notizie storiche – Nel 1223 è attestata la vendita al monaco di San Galgano di un mulino che un privato aveva in comproprietà con altri, denominato “Molino di Bonaccorso”; posto sul fiume Merse, è dotato di gora, steccaia e altre strutture accessorie. Descrizione sito – La localizzazione sul fiume Merse è troppo generica per permettere non solo l’esatta ubicazione dell’impianto ma anche solo il territorio comunale di appartenenza. Attestazioni documentarie ASS, KSG 161, c. 345rv: 9 marzo 1223: “molendina mea que habui cum domino Crivello Rainerii Bonacorsi et cum Bernardo in flumine Merse que vulgariter appellabantur molendina Bonacordi cum gora et steccharia et fuitu aque et cum omnibus suis pertinentiis que antiquitus habuerant et cum hiis que habent supra se et infra se ad dicta molendina spectantibus et cum omnibus iuribus et actionibus competentibus dictis molendinis”. Interpretazione – Mulino. Cronologia – Anno 1223-(?). Bibliografia – Borracelli, 1989, pp. 320-321; Cortese, 1997, p. 316. (209) Molino Bernardeschi Notizie storiche – La struttura molitoria compare in un contratto di acquisto, stipulato nel 1220 dal monastero di San Galgano, di alcune terre poste in “loco dicto Molino Bernardeschi” ubicato lungo il fiume Merse. In questa data viene prevista la riedificazione dell’opificio, evidentemente andato in rovina. Attestazioni documentarie ASS, KSG 161, c. 417rv: 9 gennaio 1220. “tertiam partem pro indiviso terre poste in loco qui dictum est Molendinum Bernardesarum in fluvio Merse in vado Bonacheta ad construendum et rehedificandum ibi molendinum [...]. Viene inoltre concessa al monastero di San Galgano “licentiam plenam et potestatem integram [...] hedificandi et construendi ibi molendinum cum acqueductu gora et sticcharia et redito suo”. Interpretazione – Mulino. Cronologia – Anno 1220-(?). Bibliografia – Cortese, 1997, p. 314. (210) Camporegi Notizie storiche – Dal 1232 al 1266 si concentrano 25 contratti di acquisto di terre poste nel “loco dicto Camporegi, in curte de Frosine” da parte del monastero di San Galgano. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 212t-213: 2 maggio 1232: attestato come “loco dicto, in curte di Frosine”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 263t-264: 15 giugno 1266: “loco dicto Camporegi, in curte di Fruosine”. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1232-anno 1266. (211) Località Solaio Notizie storiche – Dal 1236 al 1302 la località compare frequentemente nei contratti di acquisto di terre stipulati dal monastero di San Galgano. In un atto del 11 aprile del 1294 è attestata la vendita di proprietà poste “in contrada Solajo”. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, c. 38: 19 maggio 1236: “loco dicto, in curte di Frosine”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 89-89t: 1302: “loco dicto Solaio”. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 121t: 11 aprile 1294: privati cedono al monastero di San Galgano tutti i loro beni posti “in contrada Solajo”. Interpretazione – Frequentazione. Cronologia – Anno 1236-anno 1294. (212) Località Brumaldoli Notizie storiche – Nel 1236 viene attestato per la prima volta il villaggio di Brumaldoli, posto nella corte di Chiusdino. Nei Caleffi si conservano molti contratti di acquisto, datati nel corso della prima metà del XIII secolo, stipulati da parte di una famiglia proveniente da questa località. Non si hanno elementi per proporre una ricostruzione della struttura interna e dell’estensione del villaggio. Era comunque abbastanza esteso da definire, agli inizi del XIV secolo, una sua “contrada”; termine con il quale viene indicata una giurisdizione territoriale riferita a un nucleo abitativo di rilievo sia economico che amministrativo. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 397-397t: 6 settembre 1265: “actum in hospitio de Brumaldoli”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 399t-400: 4 dicembre 1236: “actum in villa de Brumaldoli”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 407-408: 1 gennaio 1241: affrancamento di Bonaguida di Giovanni da Brumaldoli da parte di Bonacolto da Chiusdino. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 411t-412: 15 agosto 1277: vendita di terra nei confini della villa di Brumaldoli. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 394-394t: 25 aprile 1307: terre poste in “contrada di Brumaldoli, corte di Chiusdino”. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1265-anno 1307. (213) Località Tinierle Notizie storiche – Nel 1273 si ha prova dell’esistenza del villaggio di “Tinierla” o “Tinierle”, inserito in corte di Chiusdino. Non possiamo definire le caratteristiche dell’insediamento. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 161, c. 415t: 6 settembre 1273: “actum in villa de Tinierla”. ASS, Spoglio Conventi 161, c. 403-403t: 19 maggio 1286: vendita di terre a “Tinierle, in corte di Chiusdino”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 415t-416: 19 dicembre 1298: vendita di alcune terre a Tinarle e Collenuncolo. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1273-anno 1298. (214) Scarpignano Notizie storiche – Dalla prima metà del XIII secolo viene attestato il villaggio di “Scarpignano” o “Scarpegnano”, inserito nella corte di Frosini. È dotato di chiesa, intitolata a San Pietro, che fino al 1252 è sottoposta alla pieve di Scorciano; in questa data, per donazione dell’abate, passa sotto il controllo del monastero di San Galgano. Un anno dopo vengono cedute alle abbazie ulteriori diritti sulla chiesa, precedentemente detenuti da privati di Frosini. Attestazioni documentarie ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 401t-402; 288: 1 marzo 1231: atto rogato presso la chiesa di Santa Maria di Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 347t: 9 novembre 1229: atto stipulato presso Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 238t: 7 giugno 1233: citata la chiesa di Scarpigiano in un testamento con un lascito di X soldi. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 238-238t: 13 novembre 1234: atto stipulato nella chiesa di San Pietro in Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 341t: 27 novembre 1235: atto stipulato nella chiesa di San Pietro a Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 140t-141: 16 novembre 1236: “loco dicto Scarpignano, corte di Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 311t-312: 17 febbraio 1239: atto stipulato nella villa di Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 169: 13 dicembre 1242: “loco dicto Scarpignano, corte di Frosini”. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 217-217t: 2 giugno 1251: privati vendono al convento di San Galgano beni che avevano in corte di Frosini specificando fra gli altri “loco dicto Scarpignano”. ASS, Spoglio Conventi 161, cc. 12t-13; Spoglio Conventi 163, c. 177-177t: 6 settembre 1252: Renaldo pievano della pieve di Sorsciano con il consenso dei suoi canonici, dona al frate e procuratore dell’abbazia di San Galgano la chiesa di San Fabiano e San Sebastiano di Papena, di Santa Maria e San Pietro di Scarpignano, di San Jacopo e San Cristoforo di Greppine. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 166-166t: 18 agosto 1253: Ranieri del fu Corrado da Frosini in proprio e in nome di Ugo, Alberto e Nero suoi fratelli rinunziano a favore del convento di San Galgano e per esso ad Ambrogio procuratore a tutti i diritti e azioni che avevano verso la chiesa di San Pietro a Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, c. 346-346t: 22 maggio 1258: atto rogato in villa di Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 290t-291: 17 novembre 1258: vendita di casa con piazza all’interno della villa di Scarpignano. ASS, Spoglio Conventi 163, cc. 147-148: 6 novembre 1285: “Santa Maria di Scapergnano, al Vado Parapana alla Valle”. Interpretazione – Villaggio. Cronologia – Anno 1231-anno 1285. (215) Località Campo della Porta Notizie storiche –Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo, inserito nella corte di Frosini, indica una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (216) Località Casa Burecci Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Frosini: vi è attestata una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (217) Località Collozzoli Notizie storiche – Il toponimo compare nella Tavola delle Possessioni del 1318 relativa alla corte di Frosini e indica una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (218) Località Cose Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 viene inserito nella corte di Frosini e indica una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (219) Località Filicaia Notizie storiche – Il toponimo indica, nella Tavola delle Possessioni del 1318, una casa di proprietà di non residenti collocata all’interno della corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (220) Località Fonte Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, la località figura all’interno della corte di Frosini: vi sono attestate quattro case di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (221) Località Frassineta Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo corrisponde a una casa di proprietà di non residenti compresa nella corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (222) Località Mocacocco Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 è attestata, sotto questo toponimo, una casa di proprietà di non residenti all’interno della corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (223) Località Montecasale Lagernai Notizie storiche – Nel 1318, il toponimo è compreso all’interno della corte di Frosini: vi è censita una casa di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (224) Località Montelinari Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 figura all’interno della corte di Frosini: vi sono attestate due case di proprietà di residenti e una di proprietà di non residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Barlucchi, 1992, p. 62; Passeri-Neri, 1994, p. 14. (225) Località Mozzeta Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 della corte di Frosini, il toponimo indica una casa, di proprietà di residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (226) Località Pilli Notizie storiche – Il toponimo è ricordato nella Tavola delle Possessioni del 1318 della corte di Frosini: vi sono attestate una casa e una fornace di proprietà di non residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (227) Località Ponte a Popolo Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo, attestato con una casa di proprietà di non residenti, compare all’interno della corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (228) Località Poggio di Montelinari Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 si trova all’interno della corte di Frosini: vi sono censite una casa di proprietà di non residenti e due di proprietà di residenti. Interpretazione – Addensamento demografico. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (229) Località Prato Arruta Notizie storiche – Il toponimo compare all’interno della Tavola delle Possessioni del 1318 nella corte di Frosini: vi è registrata una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (230) Località San Giusto Notizie storiche – Questo toponimo, nella Tavola delle Possessioni del 1318, indica una casa, di proprietà di residenti, che figura all’interno della corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (231) Località Sasse al Campo ai Frassini Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318, il toponimo sta a indicare una casa, di proprietà di residenti, compresa all’interno della corte di Frosini. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (232) Località la Stalla Notizie storiche – Nella Tavola delle Possessioni del 1318 il toponimo compare nella corte di Frosini: vi è attestata una casa di proprietà di non residenti. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. (233) Località Vignale Notizie storiche – Il toponimo è censito, con una casa di proprietà di residenti, nella Tavola delle Possessioni della corte di Frosini nel 1318. Interpretazione – Casa. Cronologia – 1318-(?). Bibliografia – Passeri-Neri, 1994, p. 14. * Tutte le schede sono di Alessandra Nardini, tranne le schede nn. 29, 56, 58, 103, 105, 110, 111, 112, 113, 114, 138, 144, 145, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157 di Alessandra Nardini e Marie Ange Causarano, nn. 51, 53, 57 di Marie Ange Causarano, n. 161 di Filippo Cenni, nn. 32-33 di Fabio Gabbrielli. VII – LA DIACRONIA DEL POPOLAMENTO 1. La preistoria Le prime tracce di antropizzazione dell’area chiusdinese risalgono al Musteriano (circa 70.000 anni fa) e si concentrano nella fascia alluvionale posta tra il corso inferiore del fiume Merse e la sua confluenza con il Feccia. I rinvenimenti si dispongono a intervalli regolari di 400-500 m gli uni dagli altri e riguardano esclusivamente la presenza sporadica di strumenti litici (raschiatoi e bulini) e prodotti di scarto della lavorazione del diaspro (nuclei e schegge non ritoccate). I materiali sono genericamente ascrivibili nell’ambito del Paleolitico Medio e Superiore (70.000-10.000 anni fa); l’assenza di elementi caratteristici dei due orizzonti non permette infatti di proporre cronologie più definite. Le segnalazioni indiziano una forma di popolamento seminomade interpretato da piccoli gruppi di individui, composti da cacciatoriraccoglitori, volti all’occupazione stagionale di sedi non stabili. La distribuzione dei depositi risulta del tutto coerente con la tendenza rilevata nel limitrofo comprensorio della bassa Val di Merse-bacino dell’Ombrone e rivolta a un’occupazione sistematica dei terrazzi fluviali nei pressi della confluenza Ombrone-Merse; le maggiori concentrazioni sono state registrate nelle località di Ponte a Macereto, Podere Gabriella, Molino Ornate e Piano delle Potatine. Il modello insediativo trova conferma nelle evidenze proposte dalla totalità dei territori provinciali sottoposti a indagine estensiva. Proiezione dei risultati dell’indagine e ipotesi predittive sul popolamento – La previsione del potenziale archeologico, nonostante la scarsità numerica dei depositi emersi, propone valori medio-alti. Tale considerazione muove essenzialmente da tre fattori: il valore percentuale di incremento dei siti nel corso dell’indagine (350%), l’ampia diffusione all’interno del territorio degli spazi ritenuti maggiormente idonei alla frequentazione di quest’epoca e l’esistenza di depositi in aree morfologicamente simili e fisicamente contigue (zone definite dal basso corso del Merse). Un elemento condizionante al reperimento di tracce più consistenti nel corso dell’indagine è sicuramente stata la scarsa visibilità dei suoli interessati da queste presenze: le esondazioni dei corsi d’acqua e la permeabilità del terreno impediscono fortemente l’individuazione delle emergenze, soprattutto per quanto riguarda il materiale litico. 2. Il periodo etrusco. La fase di colonizzazione VII-V secolo a.C. Con l’inizio della fase etrusco arcaica, registriamo le prime tracce di un’occupazione sistematica del chiusdinese. Le unità topografiche rinvenute sono 45; di queste, 43 vengono datate fra fine VII-VI secolo a.C., due fra VI e V secolo a.C. L’incremento rispetto all’edito è calcolabile in misura del 4.500%. Il rapporto rinvenimenti/superficie battuta conta 5,25 siti per kmq mentre, in relazione all’estensione complessiva del transetto, la percentuale scende a 0,94 siti per kmq; il dato comprova il basso grado di visibilità del territorio. In massima parte (35 unità) si tratta di emergenze di reperti mobili in superficie ben leggibili. Dei dieci rinvenimenti sporadici, sette sono interpretabili come spargimento dei materiali pertinenti a unità topografiche definite mentre gli altri sono causati dalle pratiche agricole in atto: in due casi si tratta di depositi nel sottosuolo appena intaccati da arature molto leggere, uno invece è stato depauperato da scassi troppo intensivi. Il complesso delle evidenze è riconducibile a tre diversi tipi edilizi: casa in pietra, in terra e capanna. Le abitazioni si articolano in strutture con elevati in pietra e copertura laterizia (11 casi; con dimensioni in superficie variabili fra 7x8 m e 8x9 m) e in costruzioni con elevati in terra e copertura laterizia (14 casi; con dimensioni della concentrazione oscillanti fra i 6x5 m e 4x5 m); queste ultime talvolta mostrano una partizione interna fra spazio domestico e zona magazzino. Spesso sono corredate da un ambiente di servizio (dieci esempi), posto a breve distanza: capanne (dimensioni in superficie 3x2 m) costruite interamente in materiale deperibile e alzati spesso rivestiti in argilla con funzione impermeabilizzante. Le restituzioni ceramiche, generalmente limitate ai tipi da conserva, indiziano una loro destinazione prevalente a rimessa; molto raramente, un’articolazione più complessa dei materiali le riferisce a piccoli spazi abitativi. La forma insediativa prevalente è l’abitazione sparsa, monofamiliare, con un tipo di economia incentrata essenzialmente su un’attività agricola di sussistenza; la composizione stessa del nucleo (abitazione + magazzino) e la forte incidenza di dolia e pithoi confermano la necessità di spazi destinati alla conservazione di derrate, legata a una gestione autonoma del surplus alimentare. Anche la dislocazione spaziale dei siti converge a indicare la vocazione rurale di queste strutture; si prediligono i versanti collinari in corrispondenza di una rete idrica di portata medioalta e di suoli adatti alla coltivazione (argille, travertini e sabbie). La sostanziale omogeneità tipologica degli edifici, ma anche le caratteristiche stesse dei corredi ceramici (costituiti per lo più da materiale acromo) indiziano un popolamento di tipo sostanzialmente egualitario; ciò non esclude comunque il determinarsi di forme di stratificazione sociale. La piccola necropoli in località Buca delle Fate testimonia in tal senso, attraverso una struttura monumentale e corredi funebri distintivi (ceramica d’importazione e una punta di lancia in ferro): la presenza di armi, sia che alluda a pratiche venatorie o a una carriera militare, rappresenta di fatto il simbolo di un elevamento sociale determinato anche solo da un tenore di vita più alto. Nel corso dell’indagine, non sono state reperite le tracce dell’insediamento correlato al sepolcreto. Le uniche due abitazioni, coeve, rinvenute a breve distanza (500-600 m) non possono essere messe in relazione alle tombe; si inseriscono sia per tipologia edilizia, dimensioni e dotazione domestica nello standard delle evidenze rilevate e dunque sono difficilmente riferibili all’espressione di un nucleo familiare più ricco. Mancano così elementi utili a definire i contorni di questo insediamento; certo è che, allo stato attuale della ricerca, interpretare la necropoli come traccia dell’esistenza di un ceto egemone equivarrebbe di fatto a una forzatura del dato: preferiamo dunque limitarne l’attribuzione a una famiglia semplicemente più agiata. Nessun indizio quindi della presenza di quei nuclei di potere microterritoriale, presentati dalla letteratura esistente quasi alla stregua di creazioni proto-statali, che restituiscono invece esempi a Murlo, Radicondoli, Castelnuovo Berardenga, Castellina in Chianti e forse, stando a recenti ricerche, a Monteriggioni; centri sorti in seguito a un allentamento del controllo esercitato sul territorio dall’organismo cittadino e rivolti ad affermarsi in corrispondenza di punti strategici, soprattutto in funzione degli itinerari stradali. All’interno dell’agro volterrano (a cui riferisce il nostro oggetto di indagine), tale fenomeno si colloca alla fine del VII secolo a.C. quando, forse in seguito a uno sfortunato intervento bellico contro Roma, la città tende a contrarsi e a limitare la sua influenza nella campagna. Proprio in questo periodo alcune famiglie, dislocate nel territorio, danno la spinta propulsiva all’occupazione delle aree più periferiche, ponendo le basi per uno sfruttamento organico della terra. La gestione del territorio viene a distribuirsi a più gruppi gentilizi, residenti in loco, che tendono a imporre il proprio status a livello locale; la città assume ora il ruolo di referente, soprattutto per quello che riguarda l’aspetto religioso, come prova la creazione del culto poliadico sull’acropoli proprio in questa fase. Il modello ricostruito per il chiusdinese si inserisce a nostro parere nella tendenza appena descritta. La rete insediativa è organizzata secondo un sistema di aggregazione di più nuclei indipendenti, distanti in media 767 m, e solo saltuariamente accentrati in villaggi; le unità abitative si dispongono lungo i medi versanti (a una quota media di 350 m s.l.m.) in corrispondenza di profonde incisioni vallive a dominio dei corsi d’acqua. La topografia stessa dei rinvenimenti restituisce l’immagine di un territorio punteggiato da piccole case, distribuite omogeneamente e secondo criteri apparentemente univoci; i vuoti insediativi corrispondono di fatto ad aree con visibilità azzerata e dunque non rappresentative. Emerge una forma di popolamento sparso ma organizzato, espressione di un’occupazione non casuale degli spazi rurali; ciò fa pensare che quest’area possa rientrare comunque nell’orbita di un ‘potentato’ che, in un certo senso, veicola la frequentazione e influisce sulle modalità di gestione della terra. Particolarmente importante è il dato demografico che propone una densità pari a 3,63 abitazioni ogni kmq (proiezioni di calcolo sui campi battuti): un valore alto soprattutto se rapportato alle medie calcolate sui territori limitrofi. Abbiamo scelto due aree, rappresentative di due diverse realtà: da un lato Murlo, come esempio di popolamento in qualche modo privilegiato dalla vicinanza a un organismo di rilievo come la reggia di Poggio Civitate; dall’altro, Colle Val d’Elsa come caso invece di un sistema insediativo di medio livello, con caratteristiche del tutto omogenee a quelle del chiusdinese: ebbene, il primo mostra un rete organizzata su 2,32 case ogni kmq e l’altro scende addirittura a 0,74 unità per kmq. Appare chiaro dunque che Chiusdino deve a ragione essere considerata come un’area di intensa frequentazione per tutta la fase arcaica; con tutta probabilità, può essere vista come modello dello sviluppo della campagna negli spazi meno direttamente coinvolti nelle dinamiche di potere strategico ed economico. In altre parole, la funzione di anello di congiunzione fra i centri dell’interno (soprattutto Volterra e Chiusi) e quelli della costa veniva svolta dai territori limitrofi, toccati dalle più importanti direttrici di percorso sia fluviale che stradale. A est, il tracciato dell’Ombrone costituiva un’importante arteria di comunicazione fra i centri marittimi di Vetulonia e Roselle e quelli interni, come Castelluccio di Pienza e Chiusi. A nord e nord-ovest, la direttrice di transito Ombrone-Merse-Rosia-Elsa permetteva il passaggio verso la Valle dell’Arno. A ovest, sfruttando il percorso fluviale del Cecina, veniva invece gestito il collegamento con l’Etruria interna e con le Colline Metallifere (specificatamente in direzione Montieri-GerfalcoPoggio Mutti) e, di conseguenza, con l’area mineraria; sono noti gli interessi economici di Volterra per i giacimenti cupriferi di Montaione e della Val di Cecina a sostegno della produzione dei bronzetti tipici di età arcaica: anche a Gerfalco sono state riconosciute attività estrattive riferibili a quest’arco cronologico. Manca ancora una viabilità diretta verso Montieri e Massa, probabilmente non resa necessaria a causa di uno sfruttamento ancora modesto dei filoni minerari di questo comprensorio; solamente lo sviluppo di un collegamento in tal direzione, coinvolgendo probabilmente Chiusdino, gli avrebbe attribuito il ruolo strategico che andrà poi ad assumere a partire dai primi secoli del Medioevo. Si tratta dunque di una zona che rimane fisicamente chiusa all’interno di un sistema insediativo che privilegia i punti nevralgici del sud-ovest della provincia; dunque non area marginale ma piuttosto di ‘confine’, all’interno delle pertinenze di uno o più ceti egemoni. L’applicazione dei modelli spaziali, materializza tale ipotesi. Il tipo di analisi che potevamo applicare con un buon grado di affidabilità, stando ai dati in nostro possesso, era quella relativa al calcolo delle buffer zone. Lanciando aree di buffer di 17 m intorno ai due centri aristocratici più vicini, Mollerata e Poggio Civitate (la misura del buffering corrisponde al valore medio della distanza fra i due centri), constatiamo come il punto di contatto venga a cadere proprio all’interno del comune, in corrispondenza della sua parte nordorientale. Questo conferma quanto detto: cioè che ci troviamo di fronte a un territorio posto sul limite di due sfere di influenza. Tale limite non è lontano dalla necropoli di Buca delle Fate; ciò potrebbe suggerire l’eventuale presenza di un nucleo di aristocrazia della terra, che in qualche modo possa essersi affermato proprio in funzione della distanza rispetto ai centri maggiori. Purtroppo lo scarso numero di residenze aristocratiche e la non contiguità fisica della maggior parte di esse, impedisce di utilizzare correttamente i poligoni di Thiessen; calcolando l’estensione delle aree di potere, avremmo potuto proporre un modello ipotetico riguardo alla disposizione dei centri egemoni, verificando quindi la plausibilità dell’esistenza di un potentato inserito direttamente nel territorio chiusdinese. Proiezione dei risultati dell’indagine e ipotesi predittive sul popolamento – Dal momento che il campione è stato coperto solo per il 6,25% del totale, si è deciso di fare una stima di quanta archeologia può non essere stata individuata. La procedura ha previsto la proiezione proporzionale della densità media dei siti per kmq battuto sui diversi habitat inseriti nel transetto, per ottenere il numero di rinvenimenti possibili su tutti i campi indagabili. Il risultato così posto, ripropone un calcolo meccanico e altrettanto semplicistico, poco coerente con la situazione variegata del territorio: si procede dunque alla taratura del dato (secondo criteri soggettivi), sovrapponendolo alla carta di probabilità archeologica elaborata sulla base delle evidenze di tutti i comuni del senese sottoposti a ricognizione. Proiezione sul transetto: Habitat di fondovalle (A): 2 siti rinvenuti su 2,3 kmq –> proiezione su 6,69 kmq = 5,74 siti possibili Habitat di media collina (B): 23 siti rinvenuti su 5,2 kmq –> proiezione su 16,9 kmq = 74,75 siti possibili Habitat dei primi rilievi (C): 1 sito rinvenuto su 0,5 kmq –> proiezione su 12,2 kmq = 24,4 siti possibili Totale: 26 emergenze rinvenute 105 emergenze proiettati 131 siti potenziali Taratura del dato sulla carta della probabilità archeologica: Proiezione su habitat A: attendibilità scarsa. I due siti rinvenuti non sono rappresentativi del fondovalle; sono infatti dislocati sul limite dell’area in una zona molto prossima a quelle di media collina (potenziale archeologico: alto). Per di più la superficie alluvionale (Val di Feccia e Val di Merse), pur sottoposta a ricognizione per 2/3, ha restituito una bassissima presenza archeologica (solo due sporadici ascrivibili genericamente al periodo etrusco) coerentemente con la griglia che individua in queste aree il più basso potenziale. La stima di 5,74 siti possibili deve dunque essere abbassato a 1?2 unità di incremento massimo. Previsione = 1-2 siti possibili. Proiezione su habitat B: attendibilità buona. L’altissima densità delle emergenze individuate conferisce un alto grado di affidabilità alla proiezione, confermata ulteriormente dalla griglia che colloca qui un potenziale elevato. La stima di 74,75 siti possibili per cautela viene abbassata di un 10% in considerazione delle variabili determinate dalla non rigida sistematicità dell’impianto insediativo e delle componenti geo-morfologiche. Previsione = 60-65 siti possibili. Proiezione su habitat C: attendibilità media. La densità di rinvenimenti sulla superficie battuta viene calcolata sulla base di un campione estremamente ridotto e decisamente poco rappresentativo; per di più, l’unica emergenza rinvenuta si colloca sul limite interno dell’habitat nel punto di contatto con la media collina. L’unico fattore in favore dell’attendibilità della proiezione risulta dalla carta della probabilità che isola in alcune porzioni di questo contesto ambientale le parti a più alto potenziale archeologico. In mancanza di dati più circostanziati, proponiamo di ridurre la previsione del 40%. Previsione = 6-8 siti possibili. Eludendo dalla naturale rigidità dei numeri, proponiamo al termine un semplice valore percentuale di incremento, calcolabile nell’ordine del 288%, riferito all’archeologia che, pur presente, non può essere colta per i limiti imposti dalle caratteristiche del territorio. IV-II secolo a.C. Le unità topografiche rinvenute sono nel complesso 21, di cui quattro databili fra V-IV secolo a.C.; le altre rimandano invece alla piena età ellenistica. L’incremento rispetto all’edito si calcola in misura del 2.000%. Il rapporto rinvenimenti/superficie battuta conta 2,38 siti per kmq (0,44 siti in relazione all’estensione del transetto). Lo stato di conservazione delle emergenze è sostanzialmente buono; dei cinque rinvenimenti sporadici, tre corrispondono allo spargimento dei materiali pertinenti ad altre unità topografiche, mentre due rappresentano depositi nel sottosuolo non leggibili a causa delle pratiche agricole in atto. Il panorama delle tipologie insediative subisce alcune variazioni rispetto ai secoli precedenti; le strutture privilegiate rimangono le abitazioni in pietra (sei casi) e quelle con elevati in terra e copertura laterizia (sette casi). Decresce fortemente il numero delle capanne (due), indizio di una mutazione del nucleo base, che non vede più lo spazio abitativo affiancato dalla struttura di servizio. Compare la categoria “casa ricca”, non attestata prima, riconoscibile in superficie attraverso dimensioni della concentrazione superiori a quelle standard, maggiore articolazione del materiale ceramico e migliore qualità degli elementi edilizi. Il tessuto insediativo si modifica invece sensibilmente.In seguito a un brusco calo demografico, si dirada e viene a organizzarsi ora per case sparse isolate, disposte a grandi intervalli fra loro e, in misura minore, abitati più complessi, tipo fattorie; decade totalmente il villaggio. Gli spazi di frequentazione tendono a rimanere gli stessi della fase arcaica. L’abitato insiste ancora sulle aree di versante, a quote variabili fra 300-400 m s.l.m., in corrispondenza di suoli leggeri e corsi d’acqua di piccola e media portata: si dispone sui terreni già occupati ma con un allontanamento costante di pochi metri dai nuclei più antichi. Nel complesso, il popolamento si distribuisce in edifici connotati da dimensioni ridotte, ad ambiente unico, destinate a nuclei monofamiliari, economicamente autosufficienti; frequenti sono i casi di piccoli forni per riduzione del minerale e/o forgiatura del ferro, posti a brevissima distanza dalle abitazioni. Si delineano, in modo più netto, gli aspetti socio-economici; attraverso l’individuazione di alcuni nuclei più articolati viene attestata la presenza di forme di stratificazione sociale ben definite. In località Papena, si riconoscono chiare tracce di un complesso tipo fattoria, collegato a una piccola necropoli. A pochi metri dal podere, emergono in superficie le tracce di una grande struttura (concentrazione di pietre e laterizi estesi in uno spazio di 10x8 m), completata da una seconda costruzione deperibile con funzione di annesso (evidenza di grumi di argilla concotta e ceramica da conserva). È probabile che il deposito conservato nel sottosuolo sia più articolato ed esteso; si ha infatti l’impressione di trovarsi di fronte a un nucleo molto più consistente, solo parzialmente leggibile perché appena intaccato dalle arature (condizione, d’altro canto, che ha permesso di reperire in superficie materiali in ottimo stato di conservazione). La maggior parte della cultura materiale presente, costituita in gran parte da forme di vernice nera, emerge appena frammentata o interamente ricomponibile. A breve distanza, circa 700-800 m, si colloca la piccola necropoli individuata da Phillips alla metà degli anni ’60, composta da un numero incerto di sepolture a incinerazione, con corredi ceramici assimilabili ai tipi rinvenuti in contesti ellenistici. La tipologia dei reperti collega strettamente abitato e necropoli. Si tratta per la maggior parte di materiale di imitazione volterrana, riferibile a centri produttivi di ambito locale (tipico l’utilizzo di una vernice di colore bruno marrone, non omogenea e di qualità scadente: causa di una scarsa conservazione del prodotto). Entrambe le unità topografiche restituiscono un esempio di kylix (l’esemplare rinvenuto in superficie, interamente ricomponibile) e pochi frammenti di manufatti di buona produzione (vernice di alta qualità, compatta e perfettamente conservata, traccia dell’empilement) che Phillips riconduce ai tipi riscontrati in alcune necropoli dislocate nella regione (Malignano, Chiusi, Volterra, Siena e Montepulciano): sulla base della loro diffusione sostiene, così, l’ipotesi della presenza di un atelier specializzato, attivo in ambito locale o sub-regionale. Un altro esempio di questo tipo insediativo ricorre in località Frosini, dove si colgono tracce di un’evidenza con dimensioni simili alla precedente, articolata secondo un edificio principale e alcune strutture accessorie in materiale deperibile, disposte su uno spazio complessivo di 400 mq. Sulla base di queste restituzioni è plausibile affermare l’esistenza di gruppi, caratterizzati dal vivere in complessi rurali di grande estensione, dal detenere il possesso di maggiori quote di terra e di un tasso di ricchezza superiore, con il quale possono accedere ai beni di lusso. Una sorta di ‘nobiltà della terra’ composta da individui privi di connotazione aristocratica che, forse per loro merito e capacità, assurgono a un tenore di vita migliore rispetto al resto della popolazione: in questo caso, famiglie contadine, dedite alla coltivazione del fondo in cui risiedono. Il processo di affermazione di questo tipo di organizzazione origina dallo sfaldamento dei potentati locali avvenuto alla fine del V secolo a.C.; l’inurbamento delle élite locali (nel caso di Volterra, dovuto alla ripresa economica della città in seguito al suo reinserimento nei percorsi viari principali), se inizialmente condiziona un abbandono della campagna (per tutto il IV secolo a.C.) innesca poi una redistribuzione del potere che si materializza proprio attraverso una diffusione capillare di fattorie 25. A partire dal III secolo a.C., il nuovo assetto socio-economico della campagna provoca dunque una vera e propria colonizzazione degli spazi rurali, segnando una forte ripresa demografica. A livello territoriale, il fenomeno diventa tangibile, seguendo la curva del popolamento; la punta minima viene toccata nel corso del IV secolo a.C. per raggiungere repentinamente nel secolo successivo il picco massimo; ciò si manifesta nel Chianti, nella Val d’Elsa, nella porzione occidentale del bacino dell’Ombrone (compreso fra le immediate vicinanze di Siena e il Comune di Murlo). Per il comprensorio chiusdinese, il trend si delinea sostanzialmente diverso. Dopo il brusco decremento di IV secolo a.C., che marca una perdita del 90% dell’insediamento arcaico, la ripresa in fase ellenistica si presenta estremamente modesta. Esemplificativo è il caso dell’unico villaggio di fine VII-VI secolo a.C.: delle dieci abitazioni, una sola continua a essere occupata nel IV secolo a.C. e poi solo per tre riprende la frequentazione in età ellenistica. La rarefazione della maglia insediativa viene quantificata in 1,5 abitazioni per kmq: quasi in rapporto di 1:2 rispetto alla fase precedente e un decremento pari al 43%. Di fatto si inverte la tendenza evinta dalle altre zone, dove il rapporto con l’insediamento arcaico è di due unità a una, con un incremento medio percentuale del 52%. Leggendo il dato in assoluto, cogliamo una decisa fase di decadenza; in realtà, tale sensazione viene parzialmente mitigata dal confronto con la densità insediativa registrata nelle zone caratterizzate da un’intensa colonizzazione. A Colle, ad esempio, la distribuzione di abitazioni e tombe (ritenute comunque indizio di popolamento) presenta 1,82 unità per kmq, con una media non troppo distante da quella riconosciuta per Chiusdino; nel comune valdelsano però l’incremento rispetto alla fase arcaica è alto, pari al 146%. D’altro canto, si marca fortemente la distanza con altre zone come ad esempio Murlo dove la distribuzione di strutture abitative e necropoli sale a 2,71 unità per kmq (dato il fitto popolamento arcaico l’incremento è in questo caso solo del 6,54%) o il Chianti stesso dove si segna un aumento pari al 145,7%; labili indizi di ripresa si hanno anche a Poggibonsi dove si sale da una sola attestazione arcaica a valori di densità ellenistica pari a 0,5 edifici per kmq. In definitiva, i numeri proposti forniscono una chiave di lettura più complessa rispetto a una valutazione puramente quantitativa dei siti rinvenuti. Sulla base di questi risultati, il territorio chiusdinese assume l’aspetto di un’area in una situazione di allentamento della maglia insediativa, dovuta a una parziale crisi demografica, ma che ancora mantiene livelli medio alti di popolamento. In questa fase però si avvia un lento processo di rarefazione del tessuto abitativo, che arriverà poi a toccare la punta più bassa in età romana, quando cioè si verifica un pressoché totale desertazione del comprensorio. La valutazione percentuale offre ulteriori spunti: i valori massimi si registrano sempre in concomitanza con le zone direttamente coinvolte nei processi economici e di scambio e con quelle connotate da un ruolo strategico. È il caso, ad esempio, del Chianti, la cui posizione di frontiera, viene sottolineata da una estesa fascia di oppida posti a definire il confine fra le pertinenze di Siena e Firenze. Oppure i comuni di Murlo e Sovicille ancora in stretto rapporto con la viabilità. Citiamo la necropoli di Malignano che insiste sull’arteria stradale per Volterra, non lontano dalla futura statio romana di Ad Sextum (concordemente identificata da Rosia); ma anche il ricco complesso in località Castello, presso Orgia, nuovamente a dominio del tracciato stradale. Evidentemente il crollo del potentato locale, cui faceva prima capo il territorio chiusdinese, non permette più di compensare la sua estraneità dai punti nodali dell’organizzazione del popolamento; ricordiamo, che in concomitanza alla decadenza dell’oppidum di Mollerata e alla perdita di importanza del tracciato fluviale del Cecina, anche Radicondoli inizia a registrare indici demografici molto bassi. Il caso chiusdinese, dunque, si configura come modello di sistema insediativo in un’area ‘periferica’ o di confine; dove, cioè, l’allentamento della maglia può essere interpretato come il risultato di un progressivo sfaldamento del tessuto, procedendo in senso opposto ai punti nevralgici. Proiezione dei risultati dell’indagine e ipotesi predittive sul popolamento – Per la descrizione della procedura riferiamo al paragrafo precedente. Proiezione sul transetto: Habitat di fondovalle (A): 1 sito rinvenuto su 2,3 kmq –> proiezione su 6,69 kmq = 2,87 siti possibili. Habitat di media collina (B): 10 siti rinvenuti su 5,2 kmq –> proiezione su 16,9 kmq = 32,5 siti possibili. Habitat dei primi rilievi (C): 2 siti rinvenuti su 0,5 kmq –> proiezione su 12,2 kmq = 48,8 siti possibili. Totale: 26 emergenze rinvenute 105 emergenze proiettati 131 siti potenziali Taratura del dato sulla carta della probabilità archeologica: Proiezione su habitat A: attendibilità scarsa. Per quest’area valgono le stesse considerazioni fatte riguardo alla fase arcaica. Data la bassa resa archeologica dimostrata e la scarsa idoneità all’insediamento di questa zona, proponiamo una taratura della stima, riducendo il potenziale a un’unità. Previsione = 1 sito possibile. Proiezione su habitat B: attendibilità buona. Anche in questa fase, come per la precedente, la densità delle emergenze individuate conferisce un alto grado di affidabilità alla proiezione, con la conferma dell’alta potenzialità dell’area. Coerentemente a quanto indicato per l’arcaismo, proponiamo una diminuzione percentuale del 10% alla cifra prevista. Previsione = 20-22 siti possibili circa. Proiezione su habitat C: attendibilità media. La densità di rinvenimenti è sicuramente falsata dal rapporto sbilanciato fra la limitata estensione della superficie battuta e il numero di siti rinvenuti. Un elemento di conferma viene dalla griglia che individua in questi spazi le aree a massima potenzialità archeologica. Previsione: 10-15 siti. Percentuale di incremento totale = 200% rispetto ai risultati della ricognizione. 3. Il periodo romano. La rarefazione della maglia insediativa I secolo a.C.-III secolo d.C. Per quanto riguarda il periodo romano, l’indagine estensiva ha conseguito risultati assolutamente insoddisfacenti; le emergenze individuate in superficie sono solamente tre, che vanno ad aggiungersi al già parco patrimonio delle quattro evidenze note. Oltre alla palese esiguità quantitativa, il panorama dei rinvenimenti presenta ulteriori problemi che impediscono elaborazioni riguardo alle dinamiche insediative del lungo periodo compreso fra il I secolo a.C. e il III secolo d.C. Un primo limite riguarda il carattere stesso delle fonti materiali mentre l’altro concerne la loro dislocazione: le poche evidenze si dispongono in aree distanti fra loro, non permettendo così di avere una visione coerente anche solo di un piccolo spaccato di paesaggio. La qualità della documentazione è troppo eterogenea e sommaria per essere sfruttata correttamente. La notizia di una tomba in località Palazzetto è scarnissima, priva di elementi georeferenziali e non offre minimi spunti per un’analisi anche solo del contesto specifico. L’utilizzo dei risultati del fieldwalking anglo-italiano (che corrispondono al 70% delle nostre informazioni) è condizionato dalla mancanza di linguaggio comune nella decodifica e nella descrizione dell’emergenza di superficie; a questo, si è aggiunta l’impossibilità di verificare direttamente le segnalazioni a causa della tenuta a pascolo o incolto di tutti i campi interessati. Infine, le nostre individuazioni hanno raramente superato la forma di sporadiche presenze di materiale acromo, solo genericamente ascrivibile nell’arco dell’intera epoca romana. Addirittura la più alta percentuale di ceramica proviene dalla raccolta effettuata da parte del proprietario del campo (operando ovviamente scelte selettive di carattere estetico) che riferisce di aver visto ‘sbucare’ molti frammenti di laterizio e acroma grezza; anche qui il controllo autoptico è stato impedito dallo stato del campo. Per quanto riguarda le forme insediative, sulla base della presenza di rari frammenti di laterizio in superficie ipotizziamo l’esistenza di case di terra e copertura laterizia, non definibili per dimensioni ed eventuali articolazioni interne. Una struttura tipo “villa”, in località Le Cetine, è stata individuata nel corso della ricognizione dei primi anni ’80; non viene fornita alcuna descrizione del deposito emerso, se non rispetto alla restituzioni di “54 frammenti di ceramica fra cui 6 di sigillata”: mancano indicazioni riguardo l’estensione della concentrazione, la disposizione del materiale, il tipo di componenti edilizi e informazioni più precise della cultura materiale presente. Ci troviamo sicuramente di fronte al periodo più problematico da ricostruire. Pur avendo constatato la tendenza a un depauperamento già in età ellenistica, appare incredibile una desertazione così massiccia e oltre tutto repentina del territorio; non trova inoltre paralleli in altre parti della campagna volterrana, dove la stentata affermazione dell’elemento romano e la permanenza del precedente sistema insediativo hanno provocato una tenuta, almeno parziale, del popolamento preesistente È il caso ad esempio del limitrofo comune di Radicondoli, per il quale i bassi indici demografici di III-II secolo a.C. marcano comunque una continuità per tutta l’epoca romana. Si verifica cioè una fase di sostanziale stallo, una sorta di ‘continuità in negativo’, esemplificata proprio dall’assenza di nuovi insediamenti fino a tutto il I secolo a.C. e provocata da una radicalizzazione delle tradizione ellenistiche contro le innovazioni provenienti dal mondo romano. L’esempio più esaustivo delle micromodifiche subite dal tessuto insediativo nei secoli successivi, viene offerto poi dalla documentazione archeologica sui comuni del Chianti senese. Gran parte dell’abitato sparso viene assorbito da organismi più complessi e si instaura un nuovo tipo di organizzazione della terra, che si conclude alla fine del II secolo d.C. con l’inglobamento delle case sparse più lontane; si concretizza la definitiva destrutturazione del modello tardoetrusco e la nascita di quello accentrato organizzato sul latifondo, tipico dell’età romana. In area volterrana il fenomeno è altrettanto chiaro. In contrasto con quanto succede nel sud dell’Etruria, permane inalterato fino al I secolo a.C. il tradizionale sistema di gestione per fattorie e villaggi mentre sono assenti le ville; queste ultime si distribuiscono invece nelle parti più periferiche, lungo le vie di comunicazione, l’Aurelia, la costa e attraverso la Val d’Elsa. Ciò è dipeso da un tardivo completamento del processo di romanizzazione. La città, schierata al fianco di Mario durante la guerra sociale e dunque investita dalle confische sillane, ha comunque subito l’ingresso dei veterani solo poco prima della morte di Cesare; questo ha mitigato le ripercussioni sull’assetto sociale della campagna. Parallelamente, la fase del passaggio fra due realtà politiche ed economiche così diverse e la crisi degli organismi centrali dello stato etrusco, hanno avuto come effetto immediato una contrazione del popolamento che ha investito quasi tutta la provincia; in corrispondenza dell’inizio dell’età augustea si colloca poi la ripresa demografica. Se però il trend generale segue un mantenimento sostanziale del paesaggio ellenistico, cosa può aver determinato in ambito chiusdinese una rarefazione così drammatica del tessuto insediativo? Primi segni di una progressiva perdita di vitalità della zona si erano manifestate già nel corso della fase precedente; nonostante i valori si mantenessero abbastanza nella media del senese, il calo, in controtendenza assoluta con il resto della provincia, era senza dubbio indicativo di un meccanismo di modificazione spontanea negli equilibri territoriali, rivolto sempre più a escludere il comprensorio. Tale fenomeno tende sicuramente ad aggravarsi in corrispondenza di un riassetto marcato dell’organizzazione degli spazi rurali. Dopo il declino di Volterra, il baricentro della politica romana in Etruria si sposta verso Siena. La città, dedotta colonia sotto Ottaviano, finisce per condizionare l’impianto di una nuova rete insediativa; la conseguenza è una riorganizzazione complessiva dell’abitato, teso in primo luogo a sottolineare proprio lo sviluppo cittadino in direzione del contatto verso Roma. Si privilegia dunque il versante nord-ovest di Siena (comuni del Chianti, Buonconvento e Murlo) in corrispondenza del tracciato della Via Cassia, l’area valdelsana, le zone limitrofe ai percorsi di Radicondoli e Sovicille: in questi due comuni, la maglia insediativa si ridistribuisce appunto in corrispondenza del passaggio dell’asse stradale Ombrone-MerseRosia-Elsa. È evidente che tale situazione si ripercuote pesantemente sulle vicende insediative del chiusdinese. Aggiungiamo che ad aggravare la crisi abbia concorso il decremento demografico dovuto alla precarietà del quadro politico. Se cioè una variazione del popolamento può provocare una limitata riduzione di una maglia ricca e articolata, ad esempio come quella chiantigiana, può invece apportare uno sconvolgimento più deciso su un sistema insediativo già in parte compromesso; ciò si rende ancora più chiaro se consideriamo l’assenza di indizi dell’intensificazione della frequentazione in età augustea. Citiamo come esempio il contesto archeologico in località Papena: dopo l’abbandono dell’abitazione ellenistica, la frequentazione riprende con l’impianto di una nuova struttura, posta a distanza di meno di due metri dall’altra, con indicatori ceramici non antecedenti alla fine del IV secolo d.C. Pensiamo dunque a una manifesta difficoltà a superare i momenti di crisi o di cambiamento da parte delle aree periferiche, escluse dal legame con gli organismi più vitali; una minore capacità di attutire gli sconvolgimenti conseguenti alle grandi modifiche e una minore elasticità nell’adattarsi alle innovazioni. Si verificano quindi processi di trasformazione più lenti che determinano esiti molto più marcati e modifiche più radicali. La lettura proposta, pur essendo più che plausibile, può spiegare comunque una fortissima contrazione del popolamento ma non una cesura così netta che interrompe la frequentazione per oltre cinque secoli. Intervengono a questo punto, cause connesse alla ricerca archeologica stessa. Problemi legati al fatto che spazi preferibilmente deputati all’insediamento in età romana coincidano in realtà con quelli connotati da una minore visibilità. Ovviamente non essendo in grado di individuare tendenze, non possiamo neppure collocare il potenziale archeologico di questa fase; possiamo comunque escludere la predilezione delle aree di media collina (quelle cioè più battute) e ipotizzare una diffusione prevalente nelle zone di fondovalle (indagate parzialmente, con bassa visibilità) e forse quella dei primi rilievi (non ricognite). IV-V secolo d.C. L’unico indizio di una frequentazione tardoantica è stato rintracciato in località Papena, a pochi metri dalla fattoria ellenistica. Si tratta di una struttura, a pianta rettangolare, costruita in blocchi di travertino parzialmente sbozzati per gli elevati e copertura in lastrine; ha una bipartizione interna fra spazio abitativo e magazzino/ambiente destinato alla conservazione e alla lavorazione dei prodotti agricoli (la porzione occidentale della concentrazione presenta una netta prevalenza di contenitori da conserva e da trasporto in associazione a due grossi frammenti di pietra da macina). Le tracce indicano un nucleo insediativo medio-grande, con elementi distintivi per quanto riguarda materiali da costruzione e corredo domestico; l’articolazione stessa di quest’ultimo attesta un tipo di economia mista, basata anche sullo scambio di prodotti nell’ambito, probabilmente solo, di mercati locali. Ovviamente, disponiamo di elementi troppo labili per sostenere la pertinenza di questa struttura a un sistema di gestione della terra di tipo latifondistico; l’assoluto isolamento del rinvenimento e l’assenza di una rete insediativa di età romana, rispetto alla quale cogliere l’evoluzione, impedisce di formulare ipotesi più certe. Ampliando lo sguardo al contesto senese, possiamo invece cogliere elementi per tracciare la diacronia di questo insediamento rispetto alle successive fasi di frequentazione. Le indagini estensive sugli altri territori provinciali confermano che durante il IV secolo d.C. vige ancora l’organizzazione tipica dell’età romana che inizierà a sfaldarsi solo alla fine del V-inizi VI secolo d.C. A questa, succederà poi una nuova rete abitativa, disposta sugli stessi terreni già oggetto di sfruttamento nell’età precedente, ma articolata in case sparse di piccole dimensioni (sia costruite ex novo sia impiantate sui ruderi delle ville). Termini di confronto sono rintracciabili anche in altri contesti della Toscana meridionale (soprattutto la zona di Roccastrada e la valle dell’Albegna). A pochi metri dall’abitazione tardoantica, il reperimento di frammenti sporadici di tegole e olle riconducibili ai tipi in uso tra VI-VII secolo (indizio di un deposito archeologico appena intaccato dalle arature) incoraggia a cogliere una certa omogeneità del chiusdinese con il modello insediativo ‘di passaggio’ appena descritto. Pur nella limitatezza delle testimonianze archeologiche, il contesto di Papena offre dunque un contributo essenziale per la ricostruzione delle modifiche della maglia insediativa occorse al chiusdinese lungo tutte le fasi di occupazione; possiamo sicuramente riconoscervi uno ‘spazio di successo’ a lunghissima frequentazione, che esemplifica tutte le fasi evolutive del popolamento. Vi trovano luogo le manifestazioni insediative di maggior rilievo per la fase arcaica (complesso sepolcrale di un nucleo di aristocrazia della terra) ed ellenistica (fattoria + necropoli) del periodo etrusco; vi si registra poi il vuoto d’età romana, la successiva ripresa con l’unico nucleo tardoantico estesa (complesso di tradizione romana), senza soluzione di continuità, fino alle fasi bassomedievali; di fatto, rappresenta uno spaccato, ben delineato, delle trasformazioni del sistema di organizzazione e gestione della terra. Proiezione dei risultati dell’indagine e ipotesi predittive sul popolamento – La mancanza di una modellistica di età romana impedisce qualsiasi valutazione di tipo predittivo sul potenziale archeologico per questo periodo. Probabilmente un’indagine più mirata alle aree non sottoposte a una battitura sistematica (a causa dei limiti imposti dall’uso del suolo) potrebbe fornire qualche elemento ulteriore di elaborazione. Riteniamo comunque di poter escludere con sufficiente certezza che il contesto di medio versante possa restituire una casistica troppo più ampia di rinvenimenti; l’alta percentuale di rilevazioni nella superficie battuta rende chiaro che “se c’è archeologia è sicuramente possibile trovarla”. Minori certezze possiamo esprimerle per le aree di fondovalle, dove le caratteristiche stesse dei suoli e delle pratiche agricole, lasciano dubbi in merito a un’equazione diretta presenza archeologica/resa archeologica. Dal momento che tradizionalmente le aree pianeggianti risultano anche le più insediate in periodo romano, possiamo supporre qui una maggiore probabilità della presenza di tali depositi: senza pretesa di veridicità, solo calcolando il rapporto tra numero di siti ed estensione totale dell’area, proponiamo dunque un’ipotetica percentuale di incremento pari al 10-15% rispetto al numero effettivo dei rinvenimenti. 4. Alto Medioevo VI-VII secolo Nonostante il numero modesto di rinvenimenti, il tessuto insediativo di questa fase appare abbastanza chiaro; coerente con le tendenze individuate nel contesto provinciale, offre suggestioni sufficienti per seguire il momento di transizione della campagna chiusdinese ai primi secoli dell’alto Medioevo. Le unità topografiche individuate sono complessivamente sette; l’incremento percentuale è assoluto dal momento che non disponevamo di alcuna informazione proveniente dall’edito. Corrispondono tutte a emergenze di superficie chiaramente leggibili, indizi di depositi presenti nel sottosuolo in ottimo stato di conservazione; riguardano edifici in pietra con copertura laterizia e case in materiale deperibile, con dimensioni in superficie di poco superiori alla media rilevata sinora (una media di 9x8 m per le prime e di 6x7 m per le altre). La disposizione delle evidenze definisce una rete insediativa a maglie larghe, organizzata esclusivamente per case sparse, secondo distanze molto variabili fra un minimo di 600 m e un massimo di 2,5 km. Riteniamo che le oscillazioni registrate descrivano un quadro abbastanza realistico del paesaggio chiusdinese di questi anni. L’immagine fortemente antropizzata di età etrusca, connotata da una serie pressoché continua di campi coltivati organizzati intorno ai singoli nuclei, è stata progressivamente modificata da un aumento costante del bosco; il processo di desertazione in età romana deve aver sicuramente accelerato lo sviluppo degli agri deserti, anticipando l’affermazione di un ambiente dominato dalla natura di alcuni secoli. Se infatti, negli altri territori, l’abbandono massiccio dei coltivi corrisponde alla crisi del modello gestionale di tipo romano, nel chiusdinese deve aver segnato un processo di costante incremento a partire almeno dalla tarda Repubblica-primo Impero: già allora, gli spazi agricoli dovevano presentarsi come manifestazioni episodiche quasi affogate all’interno di ampie aree incolte e boscose. In quella fase, il comprensorio di Chiusdino doveva riproporre un aspetto ben diverso da altre parti del contesto senese; diversamente, nel corso della tarda antichità, si allinea alla tendenza generale di un’incidenza forte delle superfici boschive che vanno a determinare l’aspetto ‘selvaggio’ tipico dell’immaginario comune riguardo ai secoli altomedievali. In questa fase, il territorio si punteggia di abitazioni che insistono su spazi già colonizzati, senza un apparente criterio bensì in forma disordinata; vengono privilegiate le aree di versante, su quote medioalte (comprese fra i 313 e i 431 m s.l.m.), in corrispondenza di suoli facilmente lavorabili e prossime a una fitta rete idrica di medio-bassa portata: ottimali dunque per la destinazione agricola. Le strutture sono molto semplici, forse a pianta quadrata, probabilmente senza articolazioni interne, frequentate da nuclei monofamiliari che sfruttano la terra e sopperiscono in modo autosufficiente ai bisogni quotidiani della pratica agricola; la presenza costante di concentrazioni di scorie e, in misura minore, parti residuali delle strutture produttive (in un caso, è stata reperita anche una concrezione ferrosa recante un’impronta di forma tubolare, interpretabile come traccia della colatura sulla parte terminale della bocchetta del forno), testimoniano un’attività autonoma di riduzione del minerale grezzo e di lavorazione dei pani di ferro. Talvolta, emergono tracce di agglomerati composti da più unità abitative, frutto probabilmente di un’aggregazione spontanea di più nuclei familiari; si tratta comunque sempre di gruppi economicamente omogenei, per i quali non esistono indicatori circa una loro distinzione sociale. È il caso del piccolo complesso emerso in località Podere San Magno. Si tratta di un nucleo rurale costituito da due unità abitative, di diverse dimensioni e tipologia, esteso a coprire uno spazio complessivo di circa 450 mq. La struttura principale, monovano, è realizzata in pietra e laterizio e ha destinazione abitativa (in superficie ceramica da fuoco e da conserva, reperti osteologici pertinenti ad avanzi di pasto). Al suo fianco, un piccolo ambiente indipendente, costruito in terra con copertura laterizia, sfruttato come magazzino per derrate alimentari; nello spazio compreso fra i due edifici, dovevano svolgersi attività di carattere artigianale come la macinazione del grano (in superficie grossi frammenti di pietra da macina), la fusione del minerale e la forgiatura dei pani (in superficie scorie di riduzione e di lavorazione). A breve distanza, un’area cimiteriale, composta da due tombe a fossa (in superficie resti osteologici umani relativi a due individui; di uno rimangono braccio e gomito sinistro, dell’altro l’intero cranio). Più a valle, nei pressi del limite sudorientale del sito, un’altra abitazione, consistente in edificio in terra, di dimensioni leggermente inferiori, coevo ai precedenti. La maggiore articolazione dell’insediamento si spiega nell’associazione di più abitazioni, come prima si è accennato, secondo una tendenza già rilevata nella Val d’Elsa; vi ricorrono spesso esempi di nuclei compositi, posti a dominare parti ridotte dei terreni già sfruttati dalle aziende latifondistiche. Il modello socioeconomico si delinea omogeneo e uniformato. La cultura materiale, relativa a tutti i contesti, è costituita per lo più da ceramica comune (acroma grezza per recipienti da fuoco e da conserva; acroma depurata per ciotole e boccali per lo più trilobati e con ansa a nastro) e da forme in depurata ingobbiata di rosso (con ingobbio parziale o totale per i tipi da mensa); sono assenti invece gli esemplari di importazione, come la sigillata africana e le anfore. Ciò che emerge dalla valutazione dei corredi domestici è un tipo di economia abbastanza chiusa, articolata per lo più in produzioni a carattere prettamente artigianale (o, forse meglio, familiare) destinato a soddisfare il fabbisogno interno; si ha poi una parziale apertura verso un tipo di mercato, alimentato da fornaci per la produzione di vasellame in serie e destinato alla diffusione a medio-largo raggio (estesa cioè almeno nell’ambito dell’intera regione) di manufatti locali e di minore costo (acrome grezze e ceramiche da mensa verniciate in rosso e grandi dolia). Cronologia e strutture materiali del tessuto insediativo desunto nella nostra zona si inseriscono nelle linee del modello ‘caotico’, redatto sulla base delle evidenze del territorio chiantigiano e verificato poi su quelle valdelsane; conferme ulteriori provengono anche da contesti territoriali esterni al senese e riguardano l’area del grossetano (Ager Cosanus-Valle dell’Albegna-Valle dell’Osa) e della Lucchesia (Versilia e bassa Valle del Serchio). Il termine ‘caotico’ viene assegnato proprio per identificare un processo di recessione economico-demografica, caratterizzato dall’assenza di organismi emergenti in grado di pianificare l’occupazione del terreno rurale; si colloca nella fase di transizione fra la scomparsa della classe dei medio-grandi possidenti romani e la diffusione dei nuovi poteri, laici e religiosi, che connoteranno i primi secoli del Medioevo. L’assenza dei ceti dominanti individua la popolazione contadina come interprete principale della riappropriazione dello spazio naturale, dotata di un certo grado di indipendenza nella scelta e nella gestione dei suoli. Qualunque affermazione si possa fare in contrasto con l’assenza di organismi dominanti nelle campagne non può essere suffragata da dati archeologici. È vero che tale rete insediativa si affianca a nuclei tipo piccoli villaggi dei quali sinora si sono riconosciute in Toscana alcune evidenze tramite scavo (soprattutto il contesto grossetano di Scarlino e quello senese di Poggibonsi) ma anche in questi casi l’archeologia non riesce a vedere indizi di differenziazione sociale. La natura stessa di questa presenza le attribuisce una durata brevissima e si limita a un arco cronologico compreso fra la fine del VI secolo e gli inizi del VII secolo; al termine di questo periodo, la comparsa di strutture di tipo ecclesiastico e di iniziative di carattere signorile condizionano nuovamente un meccanismo di accentramento intorno a poli di attrazione. In altre parole, pongono le basi per la progressiva riorganizzazione del popolamento sparso in complessi tipo villaggio strutturato, dando inizio alla definizione del nuovo modello di piena età altomedievale. In altre parole, sembra che un controllo delle campagne abbia nuovamente inizio dopo che le nuove aristocrazie si sono definitivamente assestate soprattutto all’interno delle città. La conseguenza pratica sulla rete insediativa si osserva nella scomparsa definitiva della casa sparsa (sia costruita ex novo sia ricavata sui ruderi di complessi tipo villa in abbandono) e nella sopravvivenza (con incremento numerico) dei soli villaggi accentrati. Due delle quattro abitazioni individuate nel corso della nostra ricognizione, offrono indicatori sufficienti a sostenere l’evoluzione della maglia insediativa di età ‘caotica’ nel sistema di organizzazione della terra di tipo altomedievale. Accenniamo, brevemente a vicende che tratteremo meglio nel paragrafo successivo. Il nucleo in località podere San Magno evolve in una struttura tipo curtis, dotata di chiesa e attestata dalle fonti a partire dalla fine del X secolo; nell’ambito degli anni a cavallo con l’XI secolo vede poi la fortificazione in castrum. Nuovamente il caso della località di Papena. Dopo la frequentazione tardoantica e di fase caotica diviene villaggio dotato di chiesa, citato per la prima volta nel primo decennio dell’XI secolo. La combinazione di fonti materiali e storiche permette di leggere le modalità di passaggio fra due diverse epoche. Dotazioni archivistiche più ricche hanno permesso elaborazioni su una casistica maggiore di esempi; i casi Chianti e Val d’Elsa, ancora una volta, hanno basi più ampie su cui articolare la comprensione di molti aspetti del popolamento. I nostri due casi, pur con soluzione di continuità, sottolineano comunque un preciso disegno dei nuovi organismi di potere che tendono a impiantarsi a brevissima distanza da strutture preesistenti. In conclusione, appare chiaro che l’organismo coagulante si colloca o si crea laddove esisteva già una forma di popolamento, dove cioè era disponibile forza lavoro: presupposto fondamentale in un momento nel quale gli indici demografici dovevano essere generalmente molto bassi (come attestano, le percentuali calcolate in tutti i contesti senesi studiati). Proiezione dei risultati dell’indagine e ipotesi predittive sul popolamento – Dal momento che i territori con maggiori segnalazioni ascrivibili a questa fase riconoscono come criterio principale per la selezione degli spazi insediativi quelli già occupati in età romana, non possiamo elaborare statistiche con scopo predittivo. È altrettanto impossibile utilizzare modelli di analisi spaziale (a parte l’esiguità numerica dei rinvenimenti) in quanto non si possono applicare sistemi di riproduzione matematica in un contesto, caratterizzato invece da un tipo di organizzazione casuale e priva di regole. Accettando come valida la riproposizione del modello caotico, potremmo trovare tracce dell’insediamento di fine VI-VII secolo in prossimità dei luoghi, che verranno attestati a partire dalla metà del X secolo, come sede di abitazioni, curtis o casali; purtroppo di questi luoghi, alcuni non sono più referenziabili topograficamente mentre gli altri sono immersi in fitte aree boschive o incolte, dunque non verificabili. In linea con quanto affermato per il periodo romano, ipotizziamo un 10% di incremento percentuale, collocabile nelle aree appena indicate e in prossimità dei pochi siti romani. VIII-X secolo Dopo i rinvenimenti di fine VI-inizi VII secolo, comincia per il chiusdinese un lunghissimo periodo di silenzio delle fonti archeologiche; se eccettuiamo le emergenze fortificate e lo scavo recentemente aperto sul castello di Miranduolo, sono totalmente assenti tracce materiali della frequentazione, verificatasi nel periodo compreso fra la fine del VII secolo e la prima metà del XIII secolo. La difficoltà di reperire indizi dell’occupazione medievale nel corso delle indagini estensive è concetto ormai consolidato; questa difficoltà diventa poi una ‘quasi impossibilità’ per quanto riguarda le manifestazioni insediative altomedievali. La non leggibilità dei siti di questo periodo è stata per molto tempo legata da un lato, in modo sicuramente semplicistico, alla larga diffusione di forme abitative di tipo deperibile (non troviamo forse capanne protostoriche, etrusche e romane?); dall’altro a un limite reale determinato dalla mancanza di indicatori cronologici univoci che permettessero di effettuare datazioni certe dei depositi: negli ultimi anni, l’intensificazione di indagini stratigrafiche su contesti altomedievali ha permesso di ampliare la conoscenza della cultura materiale di queste fasi e di disporre allo stato attuale di tipologie ceramiche sufficientemente esaustive. Se dunque si sta risolvendo il problema connesso alla leggibilità, non si trova una soluzione invece a quello della visibilità dell’alto Medioevo, che spesso rimane ‘schiacciato’ sotto le stratigrafie prodotte da una continuità di vita almeno fino al pieno Medioevo, se non addirittura fino all’epoca attuale. Si tratta dei cosiddetti ‘siti di successo’: siti nei quali la frequentazione ininterrotta degli stessi spazi ha portato come conseguenza la cancellazione o l’obliterazione dei dati, pertinenti all’originaria fase di occupazione. In questi casi, cogliere in superficie tracce dei depositi altomedievali è pressoché impossibile: emergono invece nel corso delle indagini stratigrafiche. Scavare castelli permette, ormai quasi costantemente, di rintracciare contesti di buche di palo che retrodatano i siti in modo del tutto inedito rispetto sia alle fonti materiali di superficie sia a quelle scritte. Limitando la rassegna ai soli scavi effettuati dal nostro Dipartimento, possiamo citare esempi dislocati in tutta la Toscana: Poggibonsi e Montarrenti in provincia di Siena, Scarlino nel comune di Massa Marittima (provincia di Grosseto), Campiglia Marittima (provincia di Livorno) e anche lo stesso castello di Miranduolo nel chiusdinese. Si evince dunque che le potenzialità dell’archeologia di superficie nei confronti delle evidenze medievali si limitano essenzialmente ai siti ‘fallimentari’, quelli cioè che hanno registrato una precoce fase di abbandono: dunque, castelli decaduti sui quali, e intorno ai quali, non si è sviluppata alcun tipo di urbanizzazione oppure abitati sparsi. In ogni caso, si tratta sempre di manifestazioni abbastanza isolate, non rappresentative nella proiezione del reale potenziale archeologico di un’area; avranno inoltre sempre un’incidenza numerica inferiore rispetto alle presenze classiche. La capacità di ricostruire il paesaggio medievale dunque si lega strettamente alla possibilità di integrare il dato archeologico con le fonti scritte; di fatto, la presenza di una dotazione archivistica, più o meno ricca, costituisce una grossa discriminante riguardo alla leggibilità di un territorio. Uno sguardo alle diverse realtà spaziali rende chiaro in quale misura il numero delle segnalazioni (e, di conseguenza, il grado di dettaglio dell’analisi del contesto) sia direttamente proporzionale alla disponibilità di archivi consistenti: ci riferiamo a quei fondi destinati a raccogliere le carte di importanti enti religiosi o, più raramente, di casate signorili. Il problema è che i dati storici e archeologici spesso convergono a indicare e definire le strutture di potere, penalizzando fortemente proprio le forme insediative minori; quelle manifestazioni che, pur essendo escluse da interessi strategici e politici, in realtà disegnano il vero tessuto insediativo. Utilizzando questo tipo di fonti, non analizziamo un ‘campione’ rappresentativo della variegazione di una realtà territoriale, bensì un suo aspetto che, anche se sicuramente predominante (come l’elemento signorile) non la rappresenta integralmente, in tutte le sue sfaccettature: il rischio è quello di interpretare l’espressione del potere nel territorio e di non leggere invece la maglia del popolamento. L’impossibilità di sfruttare a pieno le potenzialità dell’archeologia di superficie deve imporre cautela nella produzione di carte storiche sulla base della lettura dei documenti: legate quasi sempre agli organismi di potere restituiscono un’immagine decisamente parziale del popolamento reale; le uniche fonti ‘oggettive’ in tal senso sono quelle a carattere fiscale, molto più rare però e quasi sempre riferite a contesti di piena età medievale. Definizione della maglia insediativa – Nel caso del chiusdinese, disponiamo solamente di alcune carte redatte nel corso della seconda metà del X secolo, relative a una serie di contratti (sei) e donazioni (una). La sovrapposizione spaziale di due siti di ‘caotico’ con altrettante località attestate fa emergere l’aspetto diacronico e le modalità di passaggio dall’abitato sparso e disorganizzato (tipico della fase di transizione) a quello accentrato altomedievale. Laddove era posto il piccolo complesso rurale di fine VI-inizi VII secolo (nell’attuale località Poggettone), nel 954 viene citata per la prima volta la “curte S. Magni”, nel 996 viene ricordata la presenza della “ecclesia S. Mangni”; precedentemente, nel 943-944, si faceva riferimento a una casa et res posta “in S. Magno”. Una tale successione delle forme abitative trova analogie stringenti con le dinamiche rilevate nel resto della provincia; qui, il processo di accentramento viene innescato a partire da fine VI-inizi VII secolo da organismi, prima religiosi e poi laici, che assumono il ruolo di polo di aggregazione della popolazione rurale. Purtroppo nel nostro caso, il silenzio dei documenti fino alla metà del X secolo fotografa una situazione insediativa in un certo senso tarda, spostata già verso l’ulteriore momento di trasformazione nei centri incastellati; non abbiamo motivo però di dubitare che, tra VII e IX secolo, possano essersi affermate quelle forme demiche, che noi riusciamo a cogliere solo in una loro fase matura. Se la combinazione di dati archeologici e storici permette di modellizzare l’evoluzione diacronica del sistema di occupazione della campagna, la lettura isolata delle fonti storiche rende complesso il riconoscimento di alcuni aspetti peculiari del tessuto insediativo: la densità del popolamento, la reale incidenza delle diverse forme abitative e, di conseguenza, la loro interazione nella strutturazione del modello. I dati emersi circa la consistenza demografica del territorio non sono con tutta probabilità realistici. I documenti disegnano una rete a maglie larghissime, con distanze medie molto variabili (con larga approssimazione, data la localizzazione vaga di alcune delle località citate); nonostante l’estrema rarefazione, si distribuisce in modo quasi uniforme, desertando solo le aree di pianura. Il panorama offerto riguardo alle forme insediative presenti contempla due curtes, sei nuclei rurali (composti da casae, cassinae e sortes) e un casalis. A queste dobbiamo aggiungere i castelli e le curtis incastellate (quattro): attestati nel biennio 1004-1005 come entità già definite possono verosimilmente collocarsi cronologicamente negli anni a cavallo del millennio. Alcuni elementi inoltre suggestionano verso la retrodatazione dei siti incastellati in una fase di frequentazione di piena età altomedievale. Le evidenze descrivono una maglia insediativa organizzata secondo un sistema di aziende contadine gravitanti intorno a una struttura curtense; di queste unità agricole (che potrebbero anche essere contigue e rappresentare forme di habitat di tipo accentrato), alcune sembrano comprese nel massaricium della curtis, mentre le altre indicano una forma autonoma di sfruttamento della terra. L’evoluzione di questi spazi vede l’impianto di castra, alcuni dei quali risultanti dalla fortificazione della curtis. Se però è abbastanza chiara la relazione fra azienda curtense e unità massaricie, non lo è altrettanto il rapporto di questo sistema con la tipologia del villaggio aperto. L’unica attestazione di un casalis (proveniente, non a caso, da un fondo archivistico diverso rispetto agli altri documenti) testimonia una situazione isolata: non siamo in grado di capire dunque se rappresenti un elemento subordinato oppure alternativo alla curtis nella sua funzione di centro di riferimento. Le due forme di insediamento accentrato potrebbero di fatto indicare scelte diverse di gestione della terra da parte dell’organismo dominante. Può non essere irrilevante il fatto che curtes e casalis, siano espressione le une di poteri attivi nel volterrano e l’altra di un monastero senese; e inoltre che, la prima si collochi in una zona interna del territorio mentre l’altra sia invece prossima al confine delle pertinenze cittadine. Nell’elaborazione dei dati, dobbiamo tenere presente che non disponiamo di un campione di siti emersi da una ricerca oggettiva sul territorio, bensì di zone interessate da alcune azioni di cui si è conservata la memoria scritta. In altre parole, conosciamo le località di proprietà ecclesiastica o laica, che sono state affidate in gestione o cedute; anzi quelle di cui si è mantenuto il ricordo negli archivi che potrebbero però non corrispondere a tutte le proprietà ecclesiastiche o laiche concesse o affidate in gestione; non è certo poi che rappresentino l’intero patrimonio rurale laico ed ecclesiastico: inoltre, non è detto che non si siano verificate manifestazioni isolate, svincolate da organismi di potere o almeno da quegli organismi di potere di cui si conservano le carte. Il processo può andare all’infinito: il dato di fatto è che in presenza di informazioni così parziali, dobbiamo ragionare su tracce di tracce di tracce, più aleatorie dei risultati della prospezione di superficie. È ovvio che tentare di proiettare il risultato di elaborazioni su dati non rappresentativi non può che produrre conclusioni almeno in parte erronee. In un momento, in cui inizia a definirsi il frazionamento della campagna in seguito alla progressiva affermazione delle signorie territoriali, con modalità e dinamiche gestionali anche molto diverse, è rischioso applicare elaborazioni di tipo matematico-statistico; tanto più se si dispone di pochi dati e non proporzionati alla complessità dello spazio indagato. Allo stato attuale delle indagini, è dunque possibile tracciare i contorni del sistema di gestione/occupazione di questi spazi, senza però coglierne l’intera articolazione e la reale consistenza. Il sistema di gestione della terra e l’affermazione delle signorie sul territorio – Nel corso del X secolo assistiamo alla prime forme di affermazione di poteri laici e religiosi nell’alta Val di Merse, attuate attraverso modalità di gestione e organizzazione dello spazio rurale; si innesca cioè quel processo di definizione delle signorie sul territorio, che troveranno la loro massima espressione nelle fasi dell’insediamento incastellato: il Vescovato volterrano da un lato e la famiglia comitale dei Gherardeschi dall’altro. Raggiunta la totale egemonia sulla città nel corso del IX secolo, la Chiesa volterrana inizia a estendersi nella limitrofa area di Radicondoli; a partire almeno dalla metà del X secolo, si spinge poi entro i confini del chiusdinese intorno all’attuale Podere San Magno, dove collocherà il fulcro della sua signoria fondiaria sulla zona. L’area aveva una forte connotazione strategica; costituiva la propaggine del comitato volterrano in direzione dei confini con Siena e Roselle; ospitava inoltre la pieve di Sorciano, fino agli immediati inizi dell’XI secolo simbolo dell’Episcopato nella porzione più estrema della sua Diocesi. La scelta di penetrazione nel territorio operata dal vescovo sembra legarsi a un tipo di controllo basato sull’esercizio di diritti economici e sul vincolo della popolazione attraverso contratti di servizio. Costituisce una curtis, pone il caput curtis in località San Magno, e vi fonda una chiesa. all’azienda fanno capo alcune unità contadine (dislocate nello spazio compreso fra Montalcinello e Cerciano, nel radicondolese) lavorate da massari, gestiti a loro volta da livellari incaricati dal vescovo stesso. La consuetudine di affidare fondi a contadini, attraverso la concessione a livello in favore di soggetti non lavoratori, concorre a strutturare una prima forma di articolazione sociale; definisce infatti una categoria, quella dei livellari, che, ponendosi fra il dominus e il massarius, diviene intermediaria e garante di un costante controllo locale. Tale meccanismo non rappresenta un caso isolato; il confronto con altre realtà religiose lo conferma, a partire dalla fine del IX secolo, come tendenza diffusa a livello nazionale. Nel corso del IX secolo, molti dei mansi allivellati erano abitati e lavorati dal livellario stesso, quasi sempre diretto coltivatore del fondo; non compariva l’ereditarietà nella gestione della terra mentre era frequente il subentro di altri massari al momento del decesso o dell’abbandono da parte del precedente; dunque nessun diritto acquisito sulla terra ma anzi una forma insediativa molto discontinua. A partire dalla fine del IX secolo, tendono invece a distinguersi in modo netto le due figure del concessionario del livello e del lavoratore; la distinzione assume una tale valenza sociale da non permettere al massaro di elevarsi mai al ruolo di livellario, neppure in seguito alla perpetuazione dell’incarico per due generazioni. Aumenta progressivamente il numero di unità concesse al singolo livellario all’interno di un unico atto (anche sei, sette, otto nuclei) e in modo parallelo, diminuiscono i tempi che intercorrono fra una concessione e l’altra; scompaiono le clausole riguardo agli obblighi dovuti al dominus71. Viene a determinarsi una concentrazione fondiaria su alcuni elementi della società; essi, diventano quasi una sorta di ‘fedeli’ del signore, direttamente attivi sul territorio, in grado di assicurare, a fronte di accordi formali, la gestione materiale delle proprietà ma, soprattutto, di veicolare il radicamento della sua autorità nella campagna. Le linee fondamentali dell’amministrazione fondiaria attuata dalla Chiesa volterrana aderiscono a queste dinamiche; trascendono infatti la logica di produttività legata alla gestione di aziende rurali, in favore di finalità di carattere più prettamente politico. D’altra parte, l’incapacità di sfruttare in modo economicamente efficace il vasto e disseminato patrimonio, determina una propensione verso rendite a carattere monetario a scapito del ritorno in surplus di derrate agricole; un tipo di economia di questo tipo avrebbe richiesto una rete di aziende attive e perfettamente organizzate, operanti sul territorio secondo modalità evidentemente lontane dagli obiettivi vescovili. Viene attuata una rigida impostazione centralista che prevede forme di controllo, esercitate attraverso l’istituzione di rapporti vincolanti con la popolazione contadina; tale impostazione tende a farsi ancora più marcata a partire dalla metà del X secolo. I contratti, stipulati a partire da questa data, sono destinati soprattutto a personale non specializzato e a membri del clero; le cifre, irrisorie e standardizzate sui 12 denari, rappresentano una quota simbolica solo per stabilire il vincolo con il fondo stesso; non vengono imposte scadenze e spesso (soprattutto negli ultimi) si contempla il diritto di ereditarietà. La volontà di assegnare sine die le proprie terre a individui in grado di garantire un’occupazione continuativa del manso, sottende alla necessità di proteggere le proprietà rurali da pericolose intromissioni. Proprio nella seconda metà del X secolo all’interno di Volterra, infatti l’egemonia della Chiesa viene insidiata dalla comparsa di alcuni poteri laici, che iniziano a ricoprire cariche cittadine e a mostrare interesse verso un’espansione territoriale; fra questi, emergono nell’ultimo trentennio del secolo, i membri della futura famiglia gherardesca. La casata si costituisce intorno alla figura di Rodolfo, attestato per la prima volta nel 967 come titolare della prima carica pubblica riconosciuta a Volterra; da questo momento fino alla metà dell’XI secolo, tutti i membri della famiglia ricopriranno l’ufficio comitale senza soluzione di continuità. La loro presenza sul territorio volterrano è nota a partire dal terzo quarto del X secolo, attraverso alcuni documenti che ne attestano la proprietà di fondi nell’area dell’alta Val d’Era e nella zona delle attuale comune di Radicondoli (in prossimità del confine chiusdinese); nel corso della successiva generazione, si compie un’ulteriore tappa nell’espansione in questi spazi e verso la Val d’Era lucchese. Non sappiamo collocare il momento dell’ingresso nell’alta Val di Merse; il terminus post quem è rappresentato da una donazione compiuta nel 996 che attesta alcuni possedimenti, dislocati nella parte settentrionale del comune di Chiusdino, negli stessi spazi in cui vigeva il solido controllo volterrano. Si tratta di sette unità agricole, costituita da singole abitazioni con annessi, gestite da dipendenti specializzati. La data della donazione è significativa di un momento importante del processo di consolidamento dell’autorità della casata; sotto la guida di Gherardo (assunto alla carica di conte proprio nel 996) e di sua moglie Willa sembra prendere corpo una strategia patrimoniale, tesa a concentrare in Val di Merse uno dei punti nevralgici della politica familiare. La cessione delle proprietà limitrofe alla curtis di San Magno e, a seguire, la cessione della loro curtis di Macarro, sembrano esprimere la volontà di razionalizzare il patrimonio e rendersi autonomi dall’elemento vescovile, definendo sfere di influenza distinte. Vengono così cedute al presule proprietà che, costrette e frazionate all’interno di un solido blocco di possedimenti ecclesiastici, non avrebbero consentito l’allargamento e il radicamento del loro potere territoriale; da questo momento in poi, la parte nordoccidentale del comprensorio diventerà il centro pulsante degli interessi volterrani. I conti invece si concentrano nella porzione meridionale dell’attuale comune, a brevissima distanza dai primi rilievi delle Colline Metallifere, in un’area delimitata dal versante meridionale del poggio di Chiusdino, dal poggio della Badia e dall’intera estensione della Costa Castagnoli; trattengono (o impongono) una forma di controllo dell’estremità nord in prossimità del confine della Diocesi senese, attraverso il futuro castello di Frosini. La mancanza di documenti anteriori al Mille impedisce di antedatare la presenza gherardesca in questa zona rispetto al 1004 e di tentare di cogliere eventuali manifestazioni insediative legate alla famiglia, precedenti all’impianto dei centri fortificati. Questo limite non inficia quanto appena detto. È infatti chiara una scelta cosciente dei nobili di insediare in forma massiccia la parte sudoccidentale; al momento però, non è dato sapere in quale misura tale iniziativa si sia rivolta a potenziare strutture già esistenti o a crearne ex novo. Al termine del X secolo appaiono definiti gli organismi di potere che caratterizzeranno con le loro azioni le vicende chiusdinesi; due signorie distinte, che diverranno interpreti della fase di creazione e sviluppo della realtà insediativa negli anni centrali del Medioevo. Ne rimarrà esclusa una piccola parte dello spazio comunale, che seguirà processi evolutivi diversi e non assimilabili al resto del territorio. L’andamento dei confini diocesani trattiene la porzione nord-est del comprensorio (zona di Pentolina, Spannocchia, Tamignano) entro i confini della Chiesa senese; l’area, fisicamente contigua alle pertinenze cittadine sulla campagna, si contestualizza in vicende storico-economiche distinte da quelle occorse al chiusdinese. Questo impedisce di comprendere questo spazio nelle nostre elaborazioni di sintesi, rimandandone la trattazione a uno studio complessivo degli spazi rurali sottoposti all’autorità di Siena. 5. Medioevo XI-XII secolo Il lasso cronologico definito da questi due secoli è contraddistinto dall’azione dei poteri contrapposti dei conti Gherardeschi e del vescovo volterrano. L’impianto insediativo e le caratteristiche del popolamento si legano in modo così stretto alla loro stessa presenza e alle vicende connesse all’affermazione del loro potere, da rendere necessario l’inquadramento storico del territorio prima di affrontare gli aspetti più prettamente archeologici. XI secolo: l’affermazione gherardesca – Nel 1004, Gherardo II e Willa dei Gherardeschi fondano, all’interno del castello di Serena, l’abbazia benedettina di Santa Maria e la dotano di tutto il loro patrimonio, consistente in 18 castelli e nove chiese, dislocate tra la Toscana occidentale e meridionale: nell’elenco compaiono anche le loro proprietà in Val di Merse, “castellum de Serena cum curte et pertinentia cum ecclesiis, ecclesia sancte Marie de Padule medietatem cum curte, castello de Mirandolo cum ecclesia sancti Iohannis evangeliste cum curte, castello de Sovioli cum ecclesia sancti Laurentii cum curte, castello de Frosini sexta parte cum ecclesia sancti Michaelis archangeli cum curte”. L’iniziativa sancisce la definitiva affermazione della casata nel chiusdinese e assegna (o conferma) un ruolo nodale di quest’area nella loro politica territoriale; si inserisce infatti nella strategia attuata, negli anni a cavallo fra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, da alcune delle più potenti famiglie nobiliari toscane di farsi promotori di fondazioni monastiche, animati più da obiettivi politici e patrimoniali che da reale spirito religioso. Le motivazioni alla base della costituzione di questi monasteri si legano essenzialmente alla necessità di cautelare e proteggere l’integrità patrimoniale rispetto alla possibile dispersione a causa delle spartizioni per quote ereditarie; nel contempo, stabilire un vincolo che garantisca la compattezza della casata al di là dei rapporti instauratisi nel corso di ogni singola generazione. Tali istituzioni (tramite la donazione pressoché totale delle proprietà familiari) diventavano di fatto centri organizzativi di beni fiscali e allodiali e, dunque, referenti di larghi strati della società locale, con un valore non troppo diverso da quello rappresentato dal castello; in questo ruolo, risultavano perciò efficaci nel favorire il radicamento signorile delle famiglie fondatrici e, soprattutto, nel rendere dinastici poteri di origini pubblica (appunto il caso dei Gherardeschi). L’abbazia di Serena assume così il ruolo di status symbol della casata; molto più lontana da reali esigenze di spiritualità rispetto all’altra loro fondazione di San Giustiniano di Falesia (istituita nei pressi di Piombino nel 1022), chiarisce, nella formulazione stessa dell’atto, finalità più complesse. Nel secondo caso, i beni dotali (nettamente inferiori e limitati al solo territorio di pertinenza del monastero) vengono dati in gestione autonoma all’abate mentre ai signori è lasciato solo l’impegno di intervenire in qualità di tutori di una buona amministrazione e di garanti da eventuali violenze o soprusi; nel caso del monastero di Santa Maria, i conti non compiono invece una cessione definitiva ma mantengono una posizione paritaria con l’abate riguardo ai possessi donati, indicando una precisa volontà di conservare un ruolo attivo nella conduzione dei loro interessi patrimoniali. Se il primo esempio non è comunque svincolato da intenti di tipo politico, il nostro è invece nettamente connotato da motivazioni di tipo strategico; i coniugi, privi di eredi diretti, intendevano salvaguardare l’integrità dei propri beni, affidandoli alla tutela formale di un ente ecclesiastico, tenuto però soggetto a controllo. A un livello più ampio, la fondazione corrispondeva anche a esigenze di legittimazione della casata e della sua autorità. Schieratisi in favore di Enrico II contro Arduino di Sassonia nella lotta per il trono italiano, Gherardo e Willa proclamano regia la neo-fondata abbazia (la data di fondazione coincide per l’appunto con la discesa del sovrano) e assurgono così al ruolo di sudditi imperiali; cioè in una condizione paritaria rispetto ad altre potenti dinastie, come ad esempio, gli Aldobrandeschi (in questa circostanza loro alleati), già saldamente insediati in ambito cittadino (a Lucca, Pisa e, in misura minore, a Volterra) e anche attivi su larghe zone della Toscana meridionale. Assodata l’importanza di tale fondazione, è da chiedersi perché proprio in Val di Merse e cosa ha spinto i conti a sceglierla come fulcro della loro affermazione come casata. La risposta, a nostro parere, si collega direttamente alle peculiarità strategiche ed economiche della zona. Il chiusdinese rappresenta una sorta di interfaccia rispetto a realtà diverse per quanto riguarda gestione del potere e potenzialità di risorse. è sul confine fra due Diocesi (Siena e Volterra), è al centro di poteri forti (il Vescovato volterrano, gli Aldobrandeschi, il Vescovato senese), è collocata lungo direttrici viarie principali sia rispetto al mare che rispetto alle aree minerarie (strada Massetana e Maremmana), è posta a distanza brevissima dai giacimenti delle Colline Metallifere (argentiere a Montieri, depositi minerari di vario genere a Boccheggiano, Gerfalco, Massa Marittima) ed è, in parte, essa stessa interessata da fenomeni mineralogici. La figure 53 e 54 materializzano graficamente la geografia del potere nel periodo a cavallo dell’XI secolo. La disposizione delle sedi signorili segue pienamente tutti questi aspetti ed esprime in modo chiaro gli obiettivi della politica comitale. Tre dei loro quattro castelli (Serena, Miranduolo e Soveioli) sono posti a cavallo del confine con il comune di Montieri, in un ambito naturale rappresentato da una sorta di ‘anticipazione geografica’ delle Colline Metallifere; con tutta probabilità, il conte esercitava un controllo diretto sulla zona attraverso il castello di Serena, verosimilmente residenza privilegiata (non a caso viene scelta proprio questa struttura per ospitare l’abbazia benedettina). Geograficamente disposti a breve distanza fra loro, i castelli costituivano un’efficace barriera, che andava a incombere minacciosamente sulle proprietà vescovili nel montierino; più tardi, forse attraverso l’istituzione monastica, verrà fondato Chiusdino, rafforzando così la linea di demarcazione dello spazio privilegiato del potere gherardesco. Da questo nucleo compatto si distacca il castello di Frosini, posto nella porzione settentrionale del comune, a pochi chilometri dall’insediamento fortificato di Montarrenti; come una sorta di avamposto, marca l’inizio dello spazio di pertinenza signorile a contatto con il confine della Diocesi di Siena. Altrettanto chiara è la distribuzione lungo la viabilità principale sia verso il mare che verso l’area mineraria (si veda la fig. 76). Frosini si colloca all’incrocio fra un diverticolo della Via Francigena proveniente dalla Val d’Elsa e il tracciato Pieve a Molli-valle di Rosia e controlla la direttrice maremmana; Serena e, in modo meno diretto Miranduolo, dominano la Massetana. L’applicazione dei poligoni di Thiessen disegna le corti castrensi e chiarisce l’organicità della distribuzione spaziale delle fortificazioni. I centri gherardeschi si inseriscono all’interno di aree di influenza del Vescovato volterrano a ovest (territorio di Radicondoli con la pieve di Sorciano e aree circostanti il castello di San Magno) e a sud (Montieri), a nord-ovest della famiglia Aldobrandeschi (castello di Elci e di Tremoli). Il modello è però falsato sul lato orientale per l’assenza di informazioni circa l’esistenza di centri di potere nel Monticianese in questa fase; sulla base dei dati documentari riguardo alle pertinenze del Miranduolo, possiamo sostenere con certezza una dimensione media delle corti di circa 21 kmq. Emerge in modo chiaro la funzione strategica delle fondazioni gherardesche. Frosini si colloca in posizione coerente con i limiti dello spazio sottoposto al castello di Montarrenti e con l’inizio della Diocesi senese; in un momento successivo, lungo il confine orientale del territorio castellano, si colloca la pieve di Pentolina (attestata a partire dal 1189) a marcare proprio tale linea di confine. Le corti di Serena e Miranduolo insistono direttamente lungo il limite di quella di Montieri. Le fonti collocano in questa zona un’altra fondazione signorile, quella di Sovioli, di cui si è persa la memoria toponomastica, a eccezione dell’assonanza con il torrente Mersino Sovioli (nell’attuale comune di Montieri). La contiguità fisica fra le aree non lascia molto spazio per localizzare un ulteriore centro; una posizione plausibile potrebbe corrispondere proprio al tratto di demarcazione, rispetto al quale entrambi i castelli gherardeschi hanno una distanza variabile fra i 3-3,5 km: si definirebbe in questo modo un ‘gruppo’ organico di fortificazioni familiari, con sfere di influenza intersecate, e in parte sovrapposte, evidenziando un progetto comune. In corrispondenza della zona indicata dall’analisi spaziale (in grigio nella fig. 56), il repertorio di Cammarosano e Passeri riporta la notizia di emergenze murarie. Si tratta di un’ipotesi, senza elementi di conferma. Le evidenze inoltre sono distanti dal torrente indicato come probabile riferimento per l’ubicazione del castello e quindi le due indicazioni non convergono. Anche sostenere la presenza di una struttura castrense in prossimità del Mersino Sovioli pone però problemi circa il rapporto con la corte di Montieri, sulla quale verrebbe a premere in modo consistente. Dovunque si collochi il castello di Sovioli, il dato certo è la massiccia presenza dei conti in questa zona e la compattezza del loro intervento, articolata su tre nuclei compresi in uno spazio variabile intorno ai 2-3 km. Il blocco di fortificazioni signorili testimonia infatti una scelta ben precisa rivolta a costruire basi solide per una signoria territoriale con caratteri di egemonia; alcuni indizi storico-archeologici insinuano l’idea che effettivamente abbiano potuto agire indisturbati per almeno tutto l’XI secolo. In primo luogo, la stessa connotazione materiale dei castelli: la scelta di luoghi non difficilmente accessibili, ad esempio, mostra un carattere più spiccato di residenza signorile fortificata. Il numero stesso dei castelli indica come di fatto i conti siano gli unici protagonisti della storia chiusdinese in quest’epoca; il vescovo, pur presente, sembra avere un ruolo ancora marginale negli spazi in questione: o meglio, vi esercita ancora un controllo di tipo fondiario, relegato agli spazi contigui a quelli di sua pertinenza diretta. Il chiusdinese dunque si presenta come uno spazio politicamente omogeneo, sottoposto all’autorità di un’unica casata, priva di efficaci oppositori per circa un secolo. I conti in questo periodo poi detengono ampi poteri. Per quanto riguarda la cura delle anime, focalizzano tutte le istanze religiose e spirituali della comunità sull’abbazia di Serena; economicamente, controllano le risorse minerarie e coordinano le attività di produzione agricola attraverso i diritti sulle strutture molitorie da grano (di cui sono titolari i monaci) e la proprietà di terre lavorative. XII secolo: il declino del potere comitale e l’ascesa del Vescovato volterrano – Il XII secolo segna il processo di decadenza del potere signorile e l’abbandono della Val di Merse come centro strategico dell’affermazione della casata. L’unico strumento a nostra disposizione per valutare gli avvenimenti della prima metà del secolo, corrisponde al lodo di pace stilato nel 1133 fra il vescovo volterrano e i Gherardeschi, parte sconfitta nello scontro. La mancanza di documenti anteriori a questa data impedisce di formulare certezze riguardo le motivazioni sottese al conflitto; possiamo soltanto tentare di trovare punti di appoggio nelle vicende politiche di quest’epoca per spiegare e ricostruire, almeno in parte, le dinamiche di potere, attivate nel chiusdinese nel corso dell’XI secolo e gli inizi del XII. I primi segni tangibili della tensione fra le due parti si colgono all’interno di Volterra stessa, quando, proprio in seguito alla rottura definitiva dell’accordo con la Chiesa cittadina, i Gherardeschi abbandonano il titolo di conti della città. È probabile che a provocare la crisi abbia potuto concorrere la determinazione mostrata dalla famiglia nel radicarsi stabilmente nell’ambito della Diocesi volterrana. Risalgono a questo periodo, i primi tentativi del vescovo per contrastrare l’ascesa signorile; adotta cioè un sistema di gestione della terra rivolto a costituire un substrato sociale, che favorisse l’aderimento del suo potere nella campagna (si veda il paragrafo precedente). L’inizio del conflitto con la casata coincide con il periodo più alto della capacità politica, militare ed economica del vescovo. L’allontanamento dalla città degli antagonisti, segna il punto iniziale di una politica autonoma, finalizzata a creare un solido potere in ambito cittadino e, nel contempo, intraprendere un’azione di ampliamento e consolidamento nella circoscrizione di pertinenza. Datano a questo periodo, diplomi imperiali in cui vengono assegnati o confermati ai vescovi più di cento castelli (compresi per lo più nelle valli del Cecina, Sterza, Merse, Cornia, Era ed Elsa), con il diritto di costruirne dove desideravano; in realtà, la strategia attuata tenderà in modo preferenziale ad acquisire strutture preesistenti piuttosto che crearne ex novo. Il passaggio al XII secolo apre dunque un periodo di mutamenti nell’assetto insediativo della Diocesi volterrana, rivolto in particolar modo a una sua riorganizzazione complessiva; inizia cioè a delinearsi un piano organico di penetrazione del territorio più complesso rispetto invece all’occupazione puntuale di sedi strategiche, attuata nel corso del secolo precedente. Nella Val di Merse, l’attenzione del vescovo si collega strettamente ai suoi interessi economici verso le Colline Metallifere e si rivolge verso l’estensione della propria autorità sui centri circostanti: a partire dalla metà dell’XI secolo, prende il controllo del castello di Monticiano e rileva, o fonda, il castello di Luriano (non sono chiare le origini di Luriano; agli inizi del XIII secolo è inglobato comunque nel patrimonio vescovile). Nel chiusdinese, al di là delle proprietà acquisite nel X secolo, non registriamo altri interventi patrimoniali; l’obiettivo sembra rivolto essenzialmente a desautorare i conti e proteggere in tal modo il proprio dominio sul territorio di Montieri. Le prime acquisizioni su questo castello risalgono alla fine del IX secolo; è agli inizi del XII secolo, però, che si affermano i diritti ecclesiastici sul nucleo e sul libero sfruttamento delle argentiere. Il valore indiscutibile di Montieri attira numerose famiglie signorili, fra le quali gli stessi Gherardeschi, che vi acquistano quote fondiarie; viene infatti coinvolto nel lodo di pace del 1133, in cui si impone ai conti di non contenderne in alcun modo il possesso alla Chiesa volterrana. È evidente che la presenza comitale all’interno dello spazio fortificato unita a una signoria forte e solida sul territorio a esso limitrofo deve aver costituito per il presule un problema reale per la difesa del suo patrimonio. Sfruttando il casus belli della vertenza sorta fra Arezzo e Siena agli inizi del XII secolo, il vescovo (allineato con Arezzo e Firenze) e i signori (schierati invece con Siena) aprono le ostilità, sfociando in violenti scontri combattuti proprio nel chiusdinese; il castello di Serena viene raso al suolo mentre Miranduolo, scenario di una pesante battaglia (con forti perdite di armi e cavalli subite dai conti), rimane fortemente leso. La pace prevede condizioni molto dure per gli sconfitti; viene loro imposto il divieto di ricostruire il castello di Serena (“castrum Serene non ulterior edificetur”, forse manifestazione più eclatante della sconfitta della famiglia) mentre altri due loro castelli (Frosini e Chiusdino) entrano nel patrimonio dell’avversario; quest’ultimo, in cambio, si impegna a concedere in feudo ai conti l’intero castello di Frosini (riservandosi però il diritto di rifugiarvisi o di usarlo in caso di guerra) e la metà del castello di Chiusdino (mantenendo comunque i diritti sulla torre e sull’antemurale e, poi, la possibilità di costruire ulteriori fortificazioni). L’unica concessione riguarda il castello di Miranduolo, sul quale i discendenti di Ugo riescono a mantenere il dominio assoluto. Nella redazione dell’atto non viene fatto alcun accenno all’abbazia di Serena, in realtà proprietaria legale di alcuni dei castelli in oggetto (ciò conferma quanto detto in merito alle condizioni della donazione); da questo momento, i diritti formali del monastero sui beni dotali verranno considerati solo se funzionali alle mosse del vescovo. L’accanimento con cui si procede contro i castelli di Miranduolo e Serena (ci riferiamo sia alla distruzione fisica delle strutture nel corso della guerra sia alle dure condizioni della pace stessa) conferma il loro ruolo nodale nella politica signorile. Al termine degli scontri, il primo è probabilmente compromesso a tal punto da non rappresentare una potenziale base di ripresa per la loro autorità; stupisce altrimenti, che il vescovo abbia potuto lasciare completa autonomia proprio al castello più avanzato rispetto al territorio montierino e all’unico centro direttamente coinvolto nei processi produttivi di tipo minerario. Il secondo rimane un cumulo di rovine a cui sopravvive per altri due secoli l’abbazia, con una progressiva desautorazione sia come ente religioso che come nodo di attrazione territoriale. Quest’ultima, già pochi anni dopo il termine della guerra, mostra grandi difficoltà nella gestione del vasto e disperso patrimonio esterno agli stretti confini di pertinenza; le frequenti cessioni comprese fra gli anni ’50-’60 dello stesso secolo mostrano l’evidente necessità di restringere il raggio d’azione alla sola Val di Merse e bassa Val di Cecina. La comunità monastica, privata della protezione del castello ed esposta a frequenti incursioni, è costretta in breve tempo a rifugiarsi all’interno delle mura di Chiusdino con sede nella chiesa dei SS. Jacopo e Martino; nel 1196, a causa del grado di decadenza raggiunto, viene inserita nell’ordine vallombrosano. Il 1133 segna di fatto l’inizio del declino progressivo ma rapido della casata nel chiusdinese; nonostante questo, saranno i conti stessi a determinare la crisi del potere vescovile, offrendo a Siena le proprie terre come mezzo di penetrazione nella Val di Merse (permettendo di anticiparvi l’ingresso rispetto alla fase di massiccia espansione operata del Comune del primo trentennio del XIII secolo): contribuiranno cioè al progetto della città di un avanzamento graduale fino a conquistare il controllo sullo sfruttamento dei giacimenti argentiferi ai danni della Chiesa. Valendosi dell’autonomia concessagli dagli accordi di pace, nel 1178, Ugo dei Gherardeschi tenta un accordo con la città, concedendole la metà del castello di Miranduolo e ricevendola poi indietro a titolo di feudo (vi sono compresi anche i possedimenti minerari sul Monte Beccario, qui citati per la prima volta). Il vescovo ricorre immediatamente ai diritti patrimoniali dell’abbazia di Serena per impedire l’attuazione del patto ed esautorare i conti anche su Miranduolo; con una bolla del 1187, fa in modo che papa Urbano III confermi all’ente religioso il possesso delle terre donatele e, di conseguenza, assegna a Ildebrando tutte le proprietà inserite nei confini di Sovicille e Tocchi, ivi compreso il monastero stesso. In questi stessi anni, a Volterra si avvia un processo di trasformazione all’interno degli organi di potere. Il Comune cittadino e, in seguito, anche il Capitolo si dimostrano sempre più insofferenti verso gli atteggiamenti assolutistici del Vescovato, da circa un cinquantennio egemonizzato dalla famiglia Pannocchieschi; l’assunzione stabile del titolo da parte dei membri della famiglia aveva di fatto portato come conseguenza un tipo di gestione privata del patrimonio ecclesiastico. Dunque, a differenza di quanto successe agli inizi del secolo, i presuli si trovano ora ad agire in un clima di assoluto isolamento in città e sul territorio. Contrastati da Siena, oltre che per i già citati interessi minerari, anche per l’insofferenza delle immunità ecclesiastiche sui possessi inseriti nel senese; ma anche da Pisa, intenta da tempo a conquistarsi la Val d’Era, la Maremma e la costa a sud dell’Arno sia sul piano religioso che su quello politico. Da questo momento, il declino della Chiesa volterrana si fa rovinoso quanto rapido. Il vescovo Ildebrando ingaggia la lotta contro Siena, riportando gravissime conseguenze sia sul piano economico (crollo delle casse vescovili) sia sul piano patrimoniale (esautoramento su tutti i castelli acquisiti in seguito ai patti del 1133). Fiaccato nelle finanze, nel 1193, in una pausa dello scontro, rinuncia al possesso del castello di Miranduolo e ne restituisce tutti i diritti ai conti compresa la possibilità di ricostruirlo; inoltre, ripristina la loro autorità sul castello di Frosini e su quanto essi possiedono all’interno della corte di Montalcinello. Riacquistata l’autonomia patrimoniale, i Gherardeschi nel 1202 rinnovano le concessioni relative a Miranduolo nei confronti del Comune senese, rinnegando fra l’altro di aver mai contratto accordi che contravvenissero al precedente del 1178. Nel 1210, l’assunzione a vescovo di Pagano Pannocchieschi inasprisce ulteriormente il contrasto con Siena a tal punto da sfociare in un vero e proprio conflitto armato. Dopo alcuni contrasti, nel 1215 le milizie cittadine fanno irruzione a Chiusdino e prendono prigioniero Pagano, lì rifugiatosi; in cambio della libertà gli viene imposto il rinnovo del tributo annuo, offrendo a garanzia le rendite dei castelli di Frosini e Montalcinello e il riconoscimento dei diritti senesi sui castelli di Montieri e Chiusdino. Questa circostanza sancisce il crollo definitivo del potere ecclesiastico. I Gherardeschi, privati ormai di qualsiasi obiettivo egemonico, rimangono presenti nei castelli di Frosini e Miranduolo fino alla metà del secolo. Frosini, che sembra aver subito in modo più mediato e meno diretto le vicende di acme e declino della famiglia, rimane negli anni l’unico dominio saldo dei conti (nel 1178 ne acquisiscono il titolo comitale); alla morte di Ugo, i figli decidono di convogliare i propri possedimenti in Val di Merse (tramite cessioni ai parenti di loro quote in Val d’Era), concentrandoli intorno ai castelli di Frosini e Miranduolo sotto la guida di Tedice, e intorno al castello di Strido sotto il controllo di Ugolino. La maglia insediativa – La fonte principale a cui attingere informazioni circa la maglia insediativa di XI-XII secolo è la documentazione scritta: per l’XI secolo disponiamo di sette attestazioni (quattro castelli, due chiese e un villaggio) mentre per il XII secolo registriamo un incremento pari a otto unità, corrispondenti unicamente a strutture religiose. Il contributo dell’archeologia di superficie si concretizza in due evidenze riferibili all’ambito produttivo. Attraverso le informazioni disponibili, è solo parzialmente possibile cogliere la diacronia rispetto al periodo precedente: sia per quello che riguarda il fenomeno di incastellamento sia per ciò che concerne le modificazioni occorse alla maglia insediativa preesistente a seguito dell’impianto dei castra. La “curte et castello s. Mangni”, attestata per la prima volta nel 1005, esprime evidentemente la definizione di un processo di trasformazione insediativa che evolve da una struttura tipo curtis (attiva alla seconda metà del X secolo almeno) a una forma di tipo fortificato, in uno spazio cronologico compreso fra la fine del X secolo (l’ultima attestazione come curtis data al 997) e i primissimi anni dell’XI secolo (la prima menzione come castello risale al 1005). La formula della citazione mostra come in questa data il castello si affianchi in posizione di complementarietà alla struttura curtense, che costituisce ancora il centro principale; il nucleo fortificato non ha ancora assunto cioè una posizione predominante. Precocemente abbandonato (l’ultima attestazione risale al 1066), subisce probabilmente uno spostamento di sede. A partire dal 1133, compare negli atti il castello di Montalcinello (nelle varianti di Montis AlciniMontalcini), corrispondente all’attuale centro omonimo; le due realtà insediative, pur rimanendo distinte nell’ubicazione, mostrano elementi in comune quali l’assoluto controllo vescovile e una chiesa intra moenia intitolata a San Magno. Se esiste la possibilità che i due fenomeni (la scomparsa del primo castello e la creazione del secondo) siano del tutto autonomi, è comunque ipotizzabile che l’abbandono della prima struttura sia stato causato proprio dalla volontà di insediare un altro spazio, morfologicamente più dominante e adatto ad accogliere un insediamento di più ampie dimensioni (come poi diventerà lo stesso Montalcinello). Accettando questa lettura, è possibile collegare il momento dell’abbandono con il decadimento delle strutture materiali della fortificazione più antica, realizzata probabilmente per lo più in materiale deperibile (esempi di questo tipo non sono inusuali per il X-XI secolo nel Nord Italia). Per quanto riguarda il castello di San Magno, non abbiamo alcun tipo di evidenza materiale in corrispondenza dell’attuale località San Magno; nell’antistante Poggio Castellare si conservano però alcuni tratti murari, disposti in una situazione morfologica particolare di chiara origine antropica, genericamente riferibili all’età medievale. L’assenza di indicatori cronologici esatti impedisce di stabilire relazioni sicure fra le due manifestazioni; certo è che la presenza del toponimo non sembra essere casuale. In quest’ottica, potremmo dunque pensare a un’originaria forma insediativa dove il centro fortificato (sul poggio Castellare) si colloca in una posizione distinta ma contigua alla curtis (in località San Magno); l’acquisizione di un ruolo predominante del castello, a partire dalla metà dell’XI secolo (nel 1066 compare infatti come castello) può aver portato alla decadenza di entrambi i siti e al trasferimento della sede castrense a Montalcinello. In ogni caso, l’ipotesi che il complesso di San Magno abbia avuto una prima forma deperibile non è assolutamente da escludere. Indagini intensive sui siti incastellati (Scarlino e probabilmente anche Montarrenti), e anche ricerche territoriali (nel Chianti senese, si veda ad esempio il caso di Cerrogrosso) hanno sottolineato l’esistenza di una prima fortificazione lignea o a materiali misti (terra e legno), sostituita da un’edilizia in pietra a partire dal maturo XI secolo. Nel caso specifico, il passaggio può aver coinciso con l’impianto di una nuova struttura, forse più imponente ed estesa, e dunque con un radicale cambiamento della fisionomia. Riguardo ai castelli di Serena, Miranduolo e Frosini non abbiamo dati indiscutibili circa il processo di incastellamento; nel 1004, il primo viene ricordato come “castrum cum curte et pertinentia cum ecclesiis” mentre i secondi sono menzionati come “castrum cum ecclesia cum curte”. In assenza di altri elementi, le definizioni non provano l’avvenuta fortificazione di una curtis: si tratta infatti di formule standard, dove spesso l’accezione del termine rimanda alle pertinenze territoriali del castello stesso. L’unico avvallo a una sua lettura come centro curtense è dato dal fatto che nel periodo in cui viene redatto il documento questa forma insediativa rappresenta ancora una realtà tanto da mantenere chiara la distinzione fra i due significati.In tal senso, cogliamo elementi di distinzione fra la descrizione del primo castello rispetto agli altri: in una prospettiva di gerarchizzazione delle forme insediative, vediamo la curtis assumere un ruolo diverso e di maggior rilievo rispetto ad esempio alle strutture religiose nell’uno e negli altri casi. Inoltre, la presenza di una “casa donnicata iusto castello de Serina”, attestata nel 1008, ricorda un’organizzazione di tipo curtense; dal momento che il signore in questo caso è rappresentato dal conte Gherardo II, è difficile sostenere la presenza di una sua residenza esterna al castello, se non come retaggio di un sistema insediativo precedente. Tale interpretazione non è immune da critiche e non intendiamo proporre certezze in merito alla preesistenza curtense dei castelli gherardeschi. Per quanto riguarda il castello di Miranduolo, l’archeologia inizia comunque a fornire indizi di una frequentazione in materiale deperibile (probabilmente altomedievale). Nel corso dello scavo, è emerso infatti un contesto di buche di palo (tracce di una capanna rettangolare), tagliato da strutture murarie, databili a una fase anteriore all’XI secolo (sulla base del confronto con le tipologie costruttive riconosciute sul sito); mancano però, per il momento, indicatori ceramici utili a definire cronologie esatte. La situazione ha strette analogie con quella emersa sullo scavo di Montarrenti; qui, le analisi del C14 e la sequenza stratigrafica hanno permesso di ascrivere i livelli con le buche a un periodo compreso fra VIII-IX secolo e le murature che li intaccano agli ultimi anni del X secolo. Il confronto tipologico dei muri rinvenuti nei due scavi, farebbe ipotizzare le stesse cronologie anche per Miranduolo. Comincia dunque a delinearsi una successione articolata in una prima occupazione del sito con strutture in materiale deperibile a cui succede l’impianto del primo castello in pietra, coerente con quanto riportano le fonti. Non siamo in grado di stabilire però quale forma abitativa sia rappresentata dalle buche; ma neppure se queste costituiscano una fase insediativa distinta da quella del castello. Lo scavo comunque è solo all’inizio. Le origini dei castelli di seconda fase, Chiusdino (attestato per la prima volta nel 1133) e Luriano (terminus post quem 1230), assumono contorni ancora più sfumati; sembra però emergere una presenza signorile meno marcata e vincolante rispetto ai casi precedenti. Mentre i primi risultano strettamente legati a coloro che presiedettero alla fondazione, quelli più recenti mostrano invece uno sviluppo più autonomo. Sul territorio l’ubicazione degli spazi fortificati denota criteri selettivi diversi fra la prima e la seconda fase di incastellamento. Le sedi di prima fase, di dimensioni abbastanza regolari intorno al mezzo ettaro, privilegiano le parti sommitali di poggi, con altitudine compresa fra i 350-410 m s.l.m., definiti da pareti molto scoscese e da corsi d’acqua che creano una sorta di difesa naturale. Collocati nella zona d’interfaccia fra gli habitat collinare e montuoso, occupano colline non estese, poste a dominare visivamente un largo tratto di territorio; eccetto Serena, si pongono in posizione antistante a superfici montuose ben più elevate. Le peculiarità morfologiche dei siti non rivelano una scelta prioritaria verso zone di difficile accesso; contrariamente, gli esempi più recenti si dispongono in corrispondenza di alcuni inaccessibili speroni rocciosi, che punteggiano la fascia montuosa del comune. Intorno ai castelli, si organizza la rete insediativa a maglie strette articolata presumibilmente in forme di tipo accentrato. La cautela utilizzata deriva da un vizio di fondo della documentazione disponibile, concernente solo castra e chiese; la definizione dell’entità del popolamento e la qualità delle sue forme, come anche i tempi della sua formazione, non è dunque priva di difficoltà. Nel corso del XII secolo, la concentrazione di chiese extra castrum, in rapporto di 1, 2 per ogni castello, denuncia una presenza consistente dell’abitato aperto e una forte densità demografica; una rete di edifici religiosi così articolata non può prescindere dall’esistenza di comunità numericamente rilevanti. In qualche modo, dunque, l’incidenza delle strutture religiose sul territorio permette di colmare l’assenza di attestazione di nuclei abitativi; non sappiamo comunque in quale misura, le chiese siano già in questa fase espressione di centri definiti o se invece debbano ancora presiedere al processo di accentramento. La risposta più plausibile è che la spoporzione numerica delle attestazioni sia da imputare alla qualità delle fonti e non a una reale caratteristica insediativa; un confronto con le tendenze generali della provincia, colloca nel corso dell’XI secolo il processo di accentramento in strutture di tipo villaggio e la costituzione della rete insediativa, che si stabilizzerà poi nel corso del secolo successivo. L’applicazione del buffering (fig. 58) mostra una strutturazione dell’abitato perfettamente aderente alla rete dei castelli; le strutture del popolamento si dispongono, a distanze regolari, in modo organico intorno ai centri di potere (distano in media 2,5 km). Gli spazi di occupazione non mostrano scelte selettive in base alle peculiarità dei suoli: lo sfruttamento anche dei terreni più duri è sintomo dell’acquisizione di una maggiore capacità di lavorare la terra; vengono comunque desertate le aree di fondovalle dei fiumi Feccia e Merse, verosimilmente interessate da fenomeni di impaludamento. Le aree di pertinenza dei castelli di Serena e Frosini (per San MagnoMontalcinello non abbiamo dati in questo periodo) hanno elementi di similitudine; diverso il caso di Miranduolo, la cui corte comprende solo strutture funzionali. Mentre i primi si presentano dunque come poli di attrazione del popolamento rurale, il secondo si propone invece come centro destinato a presiedere alle attività produttive, gestite dalla famiglia signorile: non si attestano, in questa fase, nelle sue pertinenze, forme insediative. L’areale intorno Frosini conferma la sua connotazione di spazio di confine tra due realtà diocesane distinte; sul limite esterno del suo territorio, si colloca la pieve di Pentolina (Diocesi di Siena), sintomatica della necessità da parte della Diocesi senese di marcare e presidiare la linea di demarcazione delle due circoscrizioni. Questa coincidenza, sembra inserirsi nella tendenza individuata da Macchi per l’intera Toscana dove, analizzando la distribuzione spaziale della maglia pievana, si è identificato una correlazione fra confini diocesani e aree di alta concentrazione o prossimità di pievi. Dunque, l’organizzazione insediativa si configura intorno ai centri di potere; non potendo stimare se e in quale misura le evidenze del XII secolo possano essere retrodatate, non siamo in grado però di valutarne i tempi e le modalità. Le trasformazioni provocate dall’incastellamento sul tessuto precedente sembrano comunque escludere modifiche traumatiche e anomale rispetto al trend provinciale; l’unico caso di casalis attestato nel corso del X secolo continua a esistere, senza soluzione di continuità, fino al basso Medioevo (Tamignano). Non conosciamo l’evoluzione delle strutture curtensi; l’attestazione di XIII secolo della presenza di terre lavorative in località Macarro (sede di una delle curtis altomedievali) fa supporre il venir meno della configurazione giuridica del centro, senza però implicarne l’abbandono. Pur nella sua limitatezza, il quadro mostra uno spaccato esemplificativo di una linea di evoluzione dell’insediamento nella norma. Sicuramente, da parte degli organismi egemoni viene attuato un sistema di occupazione e gestione della terra rivolta a inglobare l’abitato preesistente dal punto di vista economico; attraverso cioè il rilevamento di quote fondiarie dei centri precostituiti, fra i quali ricorrono anche impianti molitori per la macinazione del grano. In questo, svolge un ruolo da protagonista l’abbazia di Serena; dal momento che la documentazione amministrativa riguarda una fase successiva alla crisi del potere gherardesco non sappiamo se questo modus operandi corrisponda agli intenti signorili oppure rappresenti una fase di parziale autonomia gestionale del monastero. La struttura materiale dei castelli – L’analisi di superficie mirata sui castelli di Serena e Miranduolo ha fornito elementi utili a una prima ipotesi ricostruttiva della loro struttura materiale; ha messo a fuoco alcuni parallelismi fra i due centri, sottolineandone un minimo comune denominatore nelle caratteristiche dello spazio da incastellare e nelle modalità di intervento sulle zone individuate. Per la scelta del sito, in entrambi i casi, si opta verso parti sommitali di poggi (altitudini comprese fra 350-410 m s.l.m.) definite da pareti molto scoscese, che determinano una netta sopraelevazione rispetto al terreno circostante; nonostante questo, non possono essere definite aree naturalmente fortificate, come invece sono quelle individuate per l’impianto dei castelli più tardi. Costante la presenza di corsi d’acqua, che scorrono alle pendici delle colline occupate. Nella ricognizione delle emergenze appariva in modo chiaro la definizione dell’area fortificata, attraverso la lettura del circuito murario, e alcune soluzioni insediative. Lo spazio incastellato, in entrambi i casi, si calcolava intorno ai 450?500 mq disposti su una pianta ‘elissoide’ (nel caso di Miranduolo, la forma è più compatta, nell’altro più allungata). Emergeva in modo chiaro una distinzione interna fra un’area sommitale, tipo cassero, connotata da strutture più imponenti e distaccata fisicamente dal resto dell’insediamento; la presenza di muri addossati alle mura suggeriva piccoli ambienti, probabilmente funzionali alle opere difensive. Già nella prima fase di indagine, i dati più consistenti si erano ottenuti dal castello di Miranduolo, per il quale una continuità di vita fino al XIV secolo aveva sicuramente consentito una maggiore conservazione delle emergenze in elevato (presenti in parte ancora sotto forma di imponenti ruderi); i risultati dello scavo, iniziato a partire dall’estate 2001, consentono ora di proporre ipotesi più ampie e di completare le prime ricostruzioni, secondo una scansione cronologica più estesa e un’articolazione insediativa ben maggiore. Per ragioni connesse alle sue vicende, le tracce del castello di Serena si sono ridotte (a parte rare eccezioni) a una serie di allineamenti, appena riconoscibili nella vegetazione del sottobosco; il progressivo degrado del contesto sta poi determinando un sensibile peggioramento delle già scarse evidenze visibili. Nella ricognizione sul sito effettuata durante la primavera 2001, si è potuto stimare una perdita di informazioni pari al 30% rispetto a sei anni prima; il decadimento delle strutture, determinato dall’incuria, è stato accelerato dal pessimo stato di conservazione delle murature, già compromesse dal dilavamento del terreno (causa dello slittamento dei filari e della disgregazione del legante). La parte più leggibile del castello riguarda il circuito murario, esteso a cingere la parte sommitale del poggio (molto più incerta la fortificazione dello spazio sottostante a sud-est). Si sviluppa lungo tutto il versante orientale e sudoccidentale per una lunghezza complessiva di circa 100 m, proseguendo poi sul lato nord-est con allineamenti di muri molto incerti; si interrompe sul versante meridionale, dove la funzione difensiva poteva essere svolta dalla ripida pendenza naturale. A circa 2/3 del lato meridionale, si trovava forse una porta a cui si accedeva attraverso una scalinata; degli elementi visibili nel 1994, si sono oggi cancellate le tracce. Nell’area sommitale si leggono due edifici, di cui uno, appena intuibile in superficie, ha orientamento sud-est/nord-ovest e dimensioni ipotizzate di 7,535 m. L’altro, posto nell’estremità occidentale, corrisponde agli unici ruderi di una certa consistenza ed è stato ipotizzato come edificio abbaziale. Ha dimensioni apparentemente pari a 15-1639 m, con muri perimetrali di 90 cm di spessore; il paramento esterno (visibile in un tratto crollato) mostra una tessitura muraria per filari paralleli di conci di travertino, ben squadrati e di piccole dimensioni. L’assenza di altri monumenti con la stessa cronologia in ambito chiusdinese impedisce di proporre datazioni sulla base del confronto tipologico; la mancanza di analogie con i campioni murari, databili a partire dalla fine dell’XI secolo, può comunque confermare la datazione dei ruderi agli anni intorno al Mille. L’interpretazione proposta viene sostenuta anche da fattori oggettivi come l’estensione e l’imponenza delle evidenze, decisamente superiori alle altre rinvenute sul sito; dal momento che l’abbazia è l’unico edificio che sopravvive alla distruzione violenta del castello è del tutto plausibile che mantenga una maggiore consistenza in elevato. Il castello di Miranduolo, grazie a una maggiore conservazione del deposito, proponeva (anche prima dell’intervento stratigrafico) una topografia interna più articolata e definita secondo una scansione cronologica, desunta in base alla complementarietà di fonti materiali e scritte. Le tecniche murarie visibili in superficie permettevano di riconoscere due distinte fasi di occupazione; l’una riferibile alla presenza signorile di XI-inizi XII secolo (connotata da strutture imponenti e di fattura raffinata) e un’altra pertinente al decastellamento della struttura, datata dalle fonti a partire dalla metà XIII-inizi XIV secolo (muri con tecnica più sommaria, materiali lavorati in modo più approssimativo, frequente impiego del laterizio). Lo scavo ha confermato, ampliandole, le ipotesi preliminari. L’intervento si è concentrato sullo spazio sommitale per un’estensione di 289 mq, indagati non completamente sia nel deposito orizzontale che verticale. I livelli più chiari risultano al momento quelli relativi alle fasi medievali del sito; ancora nebulosa l’ipotesi relativa ai primi anni dell’XI secolo mentre alcuni indizi indicano una frequentazione precedente, lasciando intuire, come abbiamo sottolineato in precedenza, possibili retrodatazioni del contesto. L’aspetto più incerto riguarda proprio la fondazione del castello e la sua struttura materiale originaria. Il primo impianto del centro castrense potrebbe circoscriversi allo spazio del cassero, delimitato a ovest ed est da fossati, che raggiungono i dirupi naturali tracciati dai due profondi fossi, ora asciutti; quello occidentale spezza la collina dalle pendici del Poggio Fogari mentre l’altro marca una distinzione fisica dal resto del poggio. Per estensione, calcolabile intorno ai 400 mq, assume più l’aspetto di una residenza fortificata. L’unica evidenza materiale riferibile a questa fase sembra essere un tratto di muro, di rozza fattura, rintracciato nel lato nord del cassero e coperto dal tracciato del circuito più tardo; potrebbe profilarsi come parte della prima cinta muraria e indicare in tal modo una prima edificazione del complesso tramite l’impiego almeno di materiali misti. Il muro, databile sulla base di un confronto tipologico con un’evidenza presente a Montarrenti (Sovicille, Siena) in un ambito di poco anteriore al Mille (950-1000), taglia livelli di vita precedenti, ascrivibili al generico alto Medioevo. Si tratta dei resti parziali di una struttura tipo capanna, di forma rettangolare; alloggiata nel suo lato meridionale in un taglio nella roccia, era sostenuta da un allineamento centrale di pali doppi (indiziato da buche di grandi dimensioni) e definita in pianta da altri di minori dimensioni (tre buche, con diametro di 15 cm, disposte a distanze regolari), probabilmente funzionali all’impostazione degli elevati. Gli alzati, costruiti in materiali lignei e vegetali, avevano un’intonacatura in argilla concotta; ne resta un campione su cui rimane impressa l’impronta di una foglia. Se il proseguimento dello scavo confermerà una tale successione, potremo ipotizzare che il castello nasca e si sviluppi su un villaggio di capanne preesistente; la sua precoce attestazione (risalente al 1004) e le strette analogie con altri contesti scavati (soprattutto con quello già citato di Montarrenti), spingono a sostenere un’origine di questo tipo. Nel corso dell’XI secolo, vengono edificate alcune parti del cassero. La struttura più imponente corrisponde a un palatium, con probabili dimensioni di 9,5x12 m (suscettibili a variazioni; il lato lungo per 2/3 è indicato solamente da un allineamento di pietre, coperto dall’humus) e muri perimetrali di uno spessore di 1,60 m; il loro paramento presenta una muratura omogenea per corsi orizzontali e paralleli, composta da conci e bozze di calcare ben squadrate e lavorate con uno strumento a punta sulla faccia a vista. Pochi metri a sud, a una quota inferiore rispetto al grande edificio, viene realizzata una probabile torre (non ancora scavata), a pianta quadrangolare, inserita nel circuito murario più tardo. Tali interventi edilizi si inseriscono nella fase di ristrutturazione di età romanica, che caratterizza l’evoluzione topografica della grande maggioranza dei castelli toscani; si colloca in questo momento il processo di definizione dell’insediamento, evidenziato spesso da un’occupazione programmata degli spazi e dall’impiego di tecniche costruttive dominate dall’uso della pietra. Per questa fase mancano evidenze riferibili al circuito murario; probabilmente la sua cancellazione va messa in relazione al violento scontro combattuto sul sito. La memoria materiale di questa battaglia si conserva, fra l’altro, nell’alta percentuale di armi da lancio rinvenute nel corso della raccolta di superficie (delle 15 punte di lancia e freccia raccolte, solo due si trovavano in contesti stratigrafici), lungo tutti i versanti del poggio. Nel 1193 (al termine del contrasto con Siena circa la donazione del castello, fatta dal conte in favore della città), il vescovo autorizza “si comites voluerint Mirandolum rehedificare, permittam eis”; veniamo dunque informati dello stato di degrado in cui doveva versare la struttura, probabilmente non ancora sanata dai danni subiti nel corso del conflitto. Negli anni compresi fra il primo trentennio e la fine del XII secolo, l’insediamento deve aver vissuto una fase di sostanziale stallo; secondo quanto indica l’archeologia, la ripresa di autonomia da parte dei conti segna una fase di ristrutturazione, riconosciuta per ora proprio nella ricostruzione complessiva del circuito difensivo. L’omogeneità della tessitura muraria lungo tutto il tracciato sud della cortina (messo in luce per una lunghezza complessiva di 60 m) indica un’unica fase costruttiva, databile appunto fra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII secolo. In posizione prossima all’inizio del cassero, si apre una delle porte del castello a cui si doveva accedere tramite una viabilità esterna che, seguendo il pendio, costeggiava il fosso naturale; del percorso rimane parzialmente visibile il piano di calpestio, compreso fra l’interno dell’apertura e un breve tratto esterno della cinta. La fortificazione corre lungo tutto il perimetro sommitale della collina, definendo uno spazio di circa 500 mq; nel lato sud, non ha andamento lineare anzi registra alcuni sbalzi di quota a tagliare le curve di livello, soprattutto in prossimità del cassero: è visibile un adattamento alla precedente struttura tipo torre, disposta secondo un orientamento leggermente diverso. La situazione apre alcuni interrogativi incentrati soprattutto sul rapporto fra questo circuito e quello precedente: essenzialmente, in che misura la ricostruzione ripercorre il tracciato delle prime difese e se la torre vi fosse già originariamente inserita. In questo caso, la direzione dell’edificio secondo l’isoipsa inferiore del cassero sembrerebbe suggerire l’ipotesi di una fortificazione limitata a quest’area; sembra però altrettanto strano che l’ampliamento dati proprio a un momento, in un certo senso, già di declino come centro incastellato. Si tratta comunque di ipotesi, in questo momento ancora prive di riscontri; non sappiamo l’evoluzione di Miranduolo nella prima metà del XIII secolo e l’evidenza materiale propone almeno per la fine del XII secolo, un centro consistente; un calcolo predittivo della distribuzione insediativa conta 27-28 abitazioni e una popolazione calcolabile nell’ordine di 100-110 unità. Di fatto, la decadenza istituzionale viene attestata dalle fonti a partire dalla metà del ’200. Nel 1257, i conti rinunciano alla loro proprietà e vendono alla famiglia Cantoni di Montieri, a più riprese, l’ormai “castellare di Miranduolo, con la sua corte e distretto, borghi, case, piazze, casalini, muri, fosse e carbonaie; dominio e giurisdizioni di villani, censuari, diritti d’albergarie e d’armi”; negli anni successivi, altri possidenti cedono agli stessi soggetti terre inserite nella corte castrense. Dal 1263, saranno poi i Cantoni a vendere di nuovo tutto ai Broccardi; infine, nel 1336-1337, il podere di Miranduolo passerà alla comunità di Montieri. Entrambe le famiglie rientrano nel novero di quelle assurte a un ruolo privilegiato rispetto al resto della popolazione cittadina, in seguito al radicamento di alcuni privilegi di cui erano stati investiti nel secolo precedente; successori, cioè, di quei fedeli dei ceti dirigenti attivi a Montieri (vescovo volterrano, Pannocchieschi, Gherardeschi, Vescovato e Comune senese), eredi dei loro signori nell’esercizio dei poteri e dei diritti sulla comunità. A partire dagli inizi del XIII secolo, questi gruppi si organizzano in modo autonomo rispetto ai loro patrocinatori, riproponendo però una certa spartizione interna della città: da un lato, compaiono i Broccardi (i Cantoni sembrano appartenere allo stesso ramo familiare), discendenti da un probabile vassallo dei Gherardeschi e dall’altro gli Ugorazi, fedeli ai Pannocchieschi e dunque al Vescovato volterrano. Alla luce di questi dati, il processo di vendite non si connota come evento traumatico. L’alienazione del patrimonio comitale (a cui si accompagna il decastellamento della struttura) si configura piuttosto come risultato di una politica rivolta a escludere le parti deboli del patrimonio. Non è da escludere che siano progressivamente decresciute le potenzialità di risorsa del castello, prime fra tutte quelle legate all’offerta mineraria (in proposito, rimandiamo al paragrafo successivo). Gli eventi indicati dalle fonti trovano conferma nell’archeologia; nel corso del XIII secolo, si assiste a un generale riassetto dello spazio del cassero, legato proprio al declassamento delle strutture di potere. Al perimetrale est del palatium viene addossata una latrina, annesso funzionale della struttura principale; in una fase successiva verrà collegata a un sistema fognario e poi racchiusa da un edificio insistente su un’area precedentemente aperta (forse area di rispetto). Nello spazio sottostante, viene costruita un’abitazione, a pianta quadrangolare con dimensioni di 6,50x4,30 m, articolata forse in più vani. Gli elevati erano costruiti con tecnica a filaretto mentre il tetto, forse a doppio spiovente, aveva una copertura in lastrine d’ardesia di grandi dimensioni. Lungo il lato meridionale della struttura, si poneva un piano d’appoggio per le attività quotidiane ancora da chiarire nella loro natura; formato da terra coperta e impermeabilizzata tramite la stesura di una colata di malta, si impostava su uno zoccolo in muratura. La pavimentazione in terra battuta aderiva in parte alla parete di roccia. Intorno alla fine del XIII secolo, pesanti danneggiamenti provocano il crollo del tetto e di parte dei muri; nel corso del secolo successivo, viene poi ricostruita (sfruttando come vespaio i livelli di crollo della precedente struttura) e consolidata sul perimetrale est con un muro di fattura molto approssimativa. Il palatium subisce alcune ristrutturazioni finalizzate alla realizzazione di tramezzature e, forse, volte in laterizio. Un utilizzo massiccio del mattone, in una fase precoce rispetto alle attestazioni urbane, si può forse collegare all’influenza esercitata dai Cistercensi di San Galgano; già dal primo ventennio del ’200 iniziano infatti a farne largo uso, impiantando anche numerose fornaci destinate a tale produzione. L’abbandono del cassero sembra potersi datare entro la metà del XIV secolo; nei livelli di crollo e negli ultimi battuti di vita sono stati rinvenuti frammenti di maiolica arcaica, in associazione a reperti vitrei con cronologia a partire dal primo ventennio del XIV secolo. Segue un degrado progressivo delle strutture, sicuramente per cause naturali. Le dinamiche di crollo evidenziano un collasso degli edifici in stato di abbandono terminato solo in tempi recenti. Le pareti del palatium cadono per grandi blocchi, mantenendo integri la compattezza del paramento. Tali emergenze costituiscono senza dubbio uno degli elementi di maggior fascino del sito; per questo si è deciso di effettuare un intervento di tipo conservativo, finalizzato a salvaguardare e monumentalizzare i ruderi stessi. Questi i dati al termine della prima campagna: un censimento preliminare delle evidenze di superficie lascia vedere un potenziale archeologico molto alto. Il sistema economico del castello di Miranduolo: l’attività di estrazione e lavorazione dei metalli – La connotazione mineraria del castello di Miranduolo emerge per la prima volta dal documento, datato al 1178, con il quale il conte Tedice, dei Gherardeschi, offre ai Senesi ciò che possiedono “in Monte Beccario et in eius pertinentiis et omnium argentarium et omnium generum metallorum infra praedictos fines”. Ulteriori riferimenti a possedimenti minerari sono contenuti nel contratto dell’11 gennaio 1263 quando, al termine delle cessioni relative ai terreni castrensi, Guido, conte di Frosini, vende ai tre fratelli Cantoni, la sua sesta parte del castellare, della corte e del distretto con “terre, selve, boschi, prati, paludi, cave e argentiere”; gli acquirenti, a pochi anni di distanza (4 giugno 1276) vendono ai Broccardi, loro concittadini, “castellaris de Miranduolo quod olim dicebatur Castrum de Miranduolo” con ogni sua corte e distretto, giurisdizione, diritti di signoria su villani e livellari, boschi, selve e miniere d’argento; si specifica che le terre cedute sono comprese fra Ciciari, Casteldicçi, Cusa e Fogari. Le risorse non vengono più ricordate nell’atto di cessione alla Comunità di Montieri che riceve, nelle date 18 giugno 1336-14 gennaio 1337, la giurisdizione totale sul castello, compresi tutti i pascoli, gabelle, pedaggi, carbonaie e terreni; è improbabile che i diritti sulle miniere siano stati trattenuti dai Broccardi, dunque la mancata menzione può essere indizio dell’esaurimento dei filoni. I giacimenti argentiferi del Monte Beccaio sono ubicabili nell’attuale località Il Poggettone (Comune di Montieri), identificata ancora nel Catasto Leopoldino con il toponimo di Poggio di Colle Beccajo (specificato nei documenti del XIII secolo “in curia de Miranduolo in contrata de Cusa”); dunque almeno parte del patrimonio minerario era distaccato fisicamente dalle pertinenze immediate del castello, benché inserito nella sua corte, estesa secondo le fonti fino a toccare Luriano, Ciciano e Boccheggiano. Dal punto di vista mineralogico, la zona, indicata come area di coltivazioni prevalenti di ferro, rame e pirite, presenta anche emergenze consistenti di galena (solfuro di piombo argentifero), dalla quale appunto si poteva procedere all’estrazione di argento. Questo aspetto dell’economia castrense si è in parte concretizzato con l’apporto della ricerca estensiva, tramite il rinvenimento di una piccola miniera a solfuri misti e di una struttura di riduzione del ferro (posta a poche centinaia di metri dai ruderi castrensi). Nel versante del poggio a sud prospiciente il castello, appena al di sopra del tracciato del torrente che distingue le due colline, è presente l’evidenza di una galleria, con imboccatura ellittica di 1,60 m di larghezza e 1,90 m di altezza. Si tratta di una coltivazione piuttosto irregolare a seguire il filone; il taglio corre parallelo in direzione sud-est ma la sua profondità attuale, di circa 4-5 m, è probabilmente falsata dal momento che la galleria è stata obliterata da una frana. Al centro della sala, si trova un pozzetto, di circa 60 cm di diametro, utilizzato per la risalita del minerale; tale sistema, qualunque fossero le reali dimensioni dell’escavazione, si rendeva necessario in quanto la fortissima pendenza della parete avrebbe altrimenti impedito la presa del cavato. La tecnica di aggredire la massa mineralizzata a seguire il filone rimanda a contesti premoderni, sia le coltivazioni antiche che quelle medievali procedono infatti in modo uniforme all’andamento del giacimento e assumono così dimensioni e forma irregolari; data la sua vicinanza al centro incastellato e l’assenza di altri insediamenti antichi, è da riferire con certezza al periodo di attività del Miranduolo. La mineralizzazione è costituita da un filone a solfuri misti associati a idrossidi di ferro nella zona di ossidazione superficiale (cappellaccio limonitico); la roccia incassante è il calcare cavernoso. Specifiche ricerche geologiche hanno permesso di riconoscere in tutta l’area di Poggio Fogari (immediatamente retrostante il sito) formazioni simili costituite da un’associazione di stibina (antimonio) con sporadica presenza di solfuri misti (solfuro di ferro-limonite; solfuro di ramecalcopirite; solfuro di zinco-blenda; solfuri di piombo-galena), determinate dalla sinergia di manifestazioni idrotermali con estese anomalie geochimiche; tali mineralizzazioni sono localizzate in aree molto silicizzate, argillificate e caolinizzare a carico del calcare cavernoso affiorante. Le anomalie sono state riscontrate a nord-est di Poggio Fogari in corrispondenza di una grande faglia che crea il contatto fra le argille (intercalate a bancate di gesso) e le Liguridi; nell’estremità occidentale (dove è situata la miniera), nel punto del contatto tettonico dei flysch con il calcare cavernoso; infine a est in una breve fascia di collegamento fra il calcare cavernoso silicizzato e la Scaglia Toscana. Parallelamente allo scavo, abbiamo ripreso la ricognizione degli spazi interessati dalle mineralizzazioni. Lungo il filone su cui è stata ricavata la miniera, si rinvengono frequenti tagli nella roccia, però di difficile identificazione dal momento che non restituiscono materiale caratterizzante del deposito (scarti di roccia incassante, frammenti di minerale eccetera). Fra questi, diamo un alto grado di affidabilità a un’emergenza corrispondente a un taglio di forma quadrangolare (dimensioni 2x2 m), di chiara origine antropica, dislocato lungo il filone, in linea con il pozzo della miniera per la risalita del minerale; l’ubicazione conferma la presenza di una coltivazione di maggiori dimensioni. Esistono dunque elementi che consentono di riconoscere un potenziale di risorsa (seppure di carattere locale) compreso nella corte castrense e non nominato dalle fonti; le tracce materiali rinvenute, anche se non provano ancora con certezza un’attività estrattiva intensa, attestano comunque l’avvenuta individuazione dei giacimenti e rendono almeno ipotizzabile un loro sfruttamento sistematico. In tal senso, è interessante la corrispondenza diretta fra l’anomalia mineraria di nord-est (riconosciuta come più ricca di mineralizzazioni) e la struttura di riduzione da ferro: quasi una scelta programmata da parte dei signori di collocare il forno nei pressi delle aree di estrazione. Posto in località Castelluccio, si conserva sotto forma di un’ampia concentrazione di scorie ferrifere di grandi dimensioni, associate a pietre non lavorate e disposte in modo omogeneo su tutta la superficie del poggio. Le scorie sono il risultato di un processo di produzione con una bassa resa in metallo (molto pesanti, mantengono un’elevata percentuale di metallo); mostrano inoltre tracce di lining (cioè tracce della parete interna del forno in argilla fusa nel corso della lavorazione e aderita dunque alla scoria). Sulla base delle numerose scorie a calotta rinvenute, possiamo ipotizzare un diametro medio della ciambella di 13 cm; potrebbe dunque trattarsi di uno o più forni di piccole dimensioni, costruiti ad hoc per ogni lavorazione. Non rimangono elementi materiali della ferriera: gli unici due muretti, ancora leggibili, realizzati con una messa in opera molto irregolare di conci appena sbozzati, sembrano di contenimento. L’impianto non è alimentato da energia idraulica; le scorie infatti si presentano come grosse masse spugnose e non mostrano tracce di tapping, dunque non sono fuoriuscite allo stato liquido (processo che avviene invece nei mulini da ferro idraulici). Inoltre, l’unico torrente presente nella zona non poteva certamente essere convogliato e utilizzato come forza motrice per i mantici; è infatti troppo lontano, in posizione sottostante il forno e non ha una portata sufficiente per trasmettere il movimento alle ruote con una certa regolarità. La presenza di corsi d’acqua (anche se non in grado di generare energia idraulica), come risulta da numerosi esempi toscani, era comunque essenziale e pregiudiziale nella scelta del sito; l’acqua era necessaria per il lavaggio del minerale, per impastare l’argilla con cui rivestire i forni e modellare le bocche dei mantici (tuyers), nonché per le necessità dei lavoranti. Sul sito, tali operazioni potevano avvenire a pochi metri di distanza, in una profonda buca scavata sul terreno (4?5 m di diametro) che, per i perenni affioramenti, costituiva una fonte stabile di approvvigionamento idrico (nel linguaggio locale viene definita appunto “sorgente dell’acqua perenne”). Le caratteristiche tecnologiche permettono di collocare la struttura in un ambito cronologico anteriore al XIII secolo quando, sia le fonti documentarie sia quelle archeologiche, indicano la comparsa dei primi opifici idraulici in Val di Merse. Da questo momento, la diffusione delle nuove acquisizioni tecniche, anche se non può escludere l’eventualità di un impianto manuale, la rende almeno altamente improbabile. Il periodo di utilizzo coincide con la fase di frequentazione del castello: per di più, il toponimo di Castelluccio sembra indicare un contesto di assoluto controllo signorile. Non disponiamo di elementi per riconoscere la provenienza del minerale lavorato, di cui non abbiamo reperito tracce sul sito. È probabile l’utilizzo almeno parziale delle mineralizzazioni locali, forse associato allo sfruttamento dei ricchi giacimenti di ematite di Boccheggiano (gli “omnium generum metallorum” del Monte Beccario, ricordati nel 1178). La limonite, infatti, anche quando è presente in grande quantità, non viene mai lavorata da sola ma sempre in associazione a ematite, anche più conveniente dal punto di vista tecnologico. In presenza di giacimenti a solfuri misti, quindi, l’estrazione della limonite non rappresentava un obiettivo primario bensì funzionale al raggiungimento dei più profondi depositi di calcopirite e galena. È dunque ipotizzabile che la miniera prospiciente al castello potesse essere finalizzata al loro reperimento e, solo in subordine, alla raccolta del minerale da ferro: in altre parole se, come attesta la miniera, avveniva lo sfruttamento dei filoni a solfuri misti, è improbabile che questo sia stato rivolto esclusivamente alla limonite, trascurando i giacimenti più ricercati. Il proseguimento dello scavo, potrà avvalorare l’ipotesi. È molto probabile infatti che le operazioni di lavorazione del rame e dell’argento avvenissero proprio nelle aree prossime o interne alla cinta del castello: la raccolta di alcune scorie sporadiche all’interno del circuito murario suggerisce la presenza di opifici interni. Alla luce di questi dati, Miranduolo acquista una valenza mineraria (e forse anche metallurgica). Non è possibile però, al momento, decifrare la reale consistenza del potenziale e, di conseguenza, comprendere quale ruolo abbiano giocato tali risorse nell’espansione gherardesca in Val di Merse. L’impossibilità di capire la reale portata dei processi estrattivi (ed eventualmente anche produttivi) impedisce infatti di capirne le implicazioni economico-sociali: in altre parole, dedurre in che misura Miranduolo possa definirsi castello minerario a tutti gli effetti. Sin dalla fine del X-inizi XI secolo, la Toscana meridionale viene a punteggiarsi di numerosi fondazioni di questo tipo, come risultato di un processo espansionistico delle grandi famiglie aristocratiche, che veniva guidato proprio dal desiderio di esercitare un controllo diretto su risorse e aree strategiche. Nel campo della metallurgia, l’attività estrattiva più forte era certamente rappresentata dai minerali monetabili (rame e argento); difficilmente reperibili e sfruttabili attraverso tecniche piuttosto complesse, venivano spesso posti al centro di vere e proprie organizzazioni economiche, rivolte alla centralizzazione della lavorazione e commercializzazione della materia prima. La produzione siderurgica invece veniva finalizzata alle esigenze interne della comunità locale; la diffusione del minerale e la sua facilità di estrazione condizionava verso una gestione usualmente più frazionata e non strutturata in forme di tipo centralistico. Solo i grandi giacimenti (di ematite o limonite) rivestivano un interesse strategico in un’ottica di produzione a larga scala e immissione in mercati più ampi. Il castello di Miranduolo sorge all’interno di due mineralizzazioni (a potenziale estrattivo di ferro, rame e forse argento) e comprendeva nella sua corte altre, e più estese, coltivazioni argentifere poste a una distanza non superiore ai 3-4 km; ancora altre risorse dovevano essere poi controllate dall’altro castello signorile, Sovioli (posto non lontano dal confine della corte), in un luogo dove Arduino individuava coltivazioni di rame, sfruttate sin dall’antichità. Ma fino a che punto, l’interesse verso lo sfruttamento di questi giacimenti può aver condizionato l’impianto stesso del castello? L’entità della risorsa disponibile poteva essere sufficiente per fondare un nucleo fortificato al suo interno? Né l’indagine di superficie né le fonti scritte sono del tutto efficaci nel rispondere a questi quesiti: solo l’intervento stratigrafico potrà fornire risposte più concrete. In primo luogo, l’individuazione di tracce materiali di possibili aree estrattive legate a Miranduolo presenta non poche difficoltà; ad esempio, se effettivamente il suo patrimonio argentifero più consistente è compreso nel distretto minerario di Boccheggiano (interessato da lavorazioni pressoché ininterrotte), su che base potremmo procedere all’attribuzione delle eventuali coltivazioni rintracciate? Oltre tutto, questa complicazione si aggiunge a una già grande difficoltà nel reperire, e soprattutto, decifrare i depositi di questo tipo. Neppure le fonti scritte, d’altronde, sono misura del reale potenziale di risorsa, di cui spesso non si sono dimostrate rappresentative. È il caso ad esempio del castello di Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno), la cui stretta connessione con l’enorme ricchezza mineraria non viene minimamente espressa dalle fonti. La prima attestazione risale al 1310 al momento della vendita della “Rocca a Palmento, con la rocca, le torri, il cassero e tutti i terreni coltivati ed incolti, i pascoli, i boschi e le miniere”: di fatto una formula sintetica e molto generica, non molto dissimile da quella riferita a Miranduolo. Eppure, l’esempio di Rocca San Silvestro costituisce un caso paradigmatico di castello minerario. Posto a dominio di ricchi giacimenti di solfuri misti, impianta la sua attività economica sullo sfruttamento delle coltivazioni di galena argentifera e calcopirite; di fatto proprio questa disponibilità dà l’impronta indelebile all’organizzazione socioeconomica del villaggio. Il potere signorile (espresso inizialmente proprio dai Gherardeschi poi dai Della Rocca), fortemente presente e radicalizzato nel suo ruolo egemone assoluto, costituisce il polo catalizzatore di una rigida centralizzazione dell’estrazione e della lavorazione di questi minerali. Tutti i membri della comunità, in questo caso, vengono assorbiti nelle attività collegate al processo produttivo; decisamente secondarie, le pratiche agricole, già penalizzate dall’aridità del luogo, che vengono rivolte esclusivamente a esaurire le esigenze di autoconsumo interno. La situazione di Miranduolo sembra, in parte, diversa. Al di là dei limiti attuali delle nostre conoscenze, esistono alcuni elementi utili a sostenere che, in questo caso, la volontà di esercitare il controllo sul potenziale minerario abbia giocato un ruolo complementare a più ampi motivi di carattere strategico e politico. In altre parole, riteniamo che lo sfruttamento dei giacimenti abbia rappresentato uno fra gli obiettivi primari per l’impianto del nucleo ma non l’unico; vi hanno contribuito il bisogno di imporre un controllo indiretto sui ben più rilevanti giacimenti montierini, la necessità di radicarsi in uno spazio nodale per il flusso viario, il bisogno di stabilire equilibri fra le potenze attive in un contesto, sicuramente fondamentale nella Toscana di questo periodo (motivi di cui abbiamo parlato nei precedenti paragrafi). Non sembra cioè che lo sfruttamento minerario abbia rivestito un ruolo egemone nell’ambito dell’organizzazione economica della comunità. Dalle informazioni deducibili dai contratti di vendita di XIII secolo emerge una gestione interna, articolata su diversi livelli di attività. La menzione di numerosi terreni “coltivati” o “lavorativi” testimonia una buona diffusione della pratica agricola, per di più, non riferita solo alle colture per autoconsumo bensì dedita anche a quelle più specializzate: risultano frequenti le terre vineate e toponimi attestanti le pratiche vinicole (Vigna vecchia, Vignali, Vigne Pincesche e altri). Molto diffusi gli spazi boschivi che dovevano rivestire un’importanza determinante sia all’interno del ciclo produttivo che, con tutta probabilità, per l’allevamento (solitamente molto diffuso in presenza del bosco). La carta presentata alla fig.68 propone una ricostruzione del territorio circostante il castello elaborata sulla base della documentazione scritta e riferisce un quadro relativo alla disposizione dei terreni alla metà del XIII secolo: riteniamo comunque che una tale organizzazione possa essere stata valida anche negli anni di gestione signorile. Vediamo un sistema economico variegato, dove l’attività minerariometallurgica, pur rivestendo un ruolo centrale (e forse primario) non arriva ad assorbire del tutto la forza lavoro presente all’interno della comunità castrense. Miranduolo dunque non sembrerebbe dominare una risorsa così massiccia da rispondere totalmente alle istanze imprenditoriali, espresse e attuate nel caso invece di Rocca San Silvestro: non appare cioè come un potenziale “villaggio-fabbrica”. La scelta stessa del sito da incastellare riflette forme gestionali meno specializzate; è organizzato al centro di un’area a potenziale minerario, ma anche di estesi spazi coltivabili, ricchi di acqua e dunque capaci di alimentare una buona produzione agricola. All’interno di una tale organizzazione, il signore certamente ricopriva un ruolo centrale ed esercitava il controllo diretto sia sulle attività estrattive sia su quelle produttive. Le cave ed argentiere risultano di sua proprietà esclusiva, come anche la “selva detta del Miranduolo” (con tutta probabilità l’area boschiva più estesa e ricca della corte) ed è infatti il conte in persona a trattarne la vendita. Poiché egli deteneva diritti anche sulla maggior parte delle superfici boscate, doveva operare controlli sulla produzione non solo attraverso la gestione delle strutture (della quale abbiamo come unico indizio la definizione di Castelluccio per lo spazio occupato dalla ferriera) ma anche attraverso la regolamentazione del consumo di legname, determinante per l’alimentazione dei forni metallurgici. D’altra parte il rinvenimento della ferriera, a 1,5 km circa dal castello, fa pensare che il controllo signorile potesse esprimersi non solo attraverso l’imposizione simbolica della sua presenza (collocando cioè la struttura all’interno o nei pressi immediati delle mura castellane), come invece succede a Rocca San Silvestro; qui, la rigida centralizzazione economica esigeva un inglobamento concreto di tutte le strutture di produzione, anche a fronte di difficoltà logistiche (come il trasporto del minerale e la disponibilità d’acqua). Una gestione simile, a nostro avviso, trae le radici nella situazione politica in cui si trovano ad agire i Gherardeschi. Nella fase di attività di Miranduolo, i conti sono di fatto gli unici detentori del controllo di tutta la porzione meridionale del comprensorio; tre loro centri di potere vengono contemporaneamente a insistere su uno stesso spazio, peraltro non particolarmente esteso. È probabile che non abbiano incontrato la necessità di concentrare rigidamente le strutture nelle loro immediate pertinenze; bensì abbiano potuto operare scelte di convenienza, tese, ad esempio, a privilegiare siti posti in posizione più favorevole per la risorsa idrica, per la disponibilità del minerale o del legname da combustione. I processi di coltivazione sembrano invece essere gestiti direttamente dai tenutari dei terreni. Quasi tutte le vendite del XIII secolo degli spazi coltivi sono effettuati da privati, spesso residenti nei paesi circostanti del castello; possediamo quindi un indizio di una sorta di fossilizzazione fondiaria dei diritti dei contadini sulle terre e di una loro progressiva alienazione dal patrimonio signorile. XIII-XIV secolo L’impianto del complesso cistercense – Durante la seconda metà del XII secolo, si assiste al progressivo fallimento dei poteri a carattere egemonico laico ed ecclesiastico, attivi negli anni precedenti. Nell’ultimo ventennio del secolo, nel tentativo di rivitalizzare il loro potere, i Pannocchieschi, stabili titolari della sede vescovile volterrana, si pongono come patrocinatori dell’ingresso dei Cistercensi in Val di Merse. Sfruttando il largo consenso raccoltosi intorno alla figura di Galgano Guidotti (nobile chiusdinese convertitosi a vita eremitica), insediano la prima comunità monastica nel luogo in cui si erano sistemati alcuni seguaci dell’eremita, a pochi anni dalla sua morte. Al momento della fondazione, il presule Ugo acquista dal comune di Monticiano i terreni di Monte Siepi “con tutto il piano e le collinette circondati dai fiumi Merse, Gallessa e Righineto” e ne fa dote al monastero; avvalla poi la venuta di monaci da Citeaux (ordine che aveva a quel tempo un’eco vastissima in tutta Europa), con il chiaro obiettivo di legittimare, sul piano religioso, un progetto territoriale ben più ampio di una semplice fondazione monastica. Nonostante le consistenti elargizioni e i benefici promossi in favore dell’ente (nel tentativo di trattenerlo nell’orbita volterrana), il Vescovato perde ben presto il controllo istituzionale sull’abbazia, questa, dotata dell’intraprendenza economica e imprenditoriale tipica dell’ordine, nei primi decenni del XIII secolo, avvia un processo di autonomizzazione rispetto ai fondatori, rivolgendo le proprie aspettative verso la più vitale città di Siena. In questi stessi anni, dà l’avvio a una politica territoriale ad ampio raggio, concentrata inizialmente nell’ambito di stretta pertinenza e ampliata, in seguito, al contesto provinciale. Rapida è l’espansione negli spazi cittadini (acquistano proprietà sia nelle Masse senesi che all’interno della mura); altrettanto rapida è l’affermazione di un rapporto di collaborazione stretta con gli organismi dominanti all’interno di Siena (rimandiamo a tal scopo all’appendice di questo volume). Lo sviluppo della comunità rende presto inadeguata la prima struttura abbaziale; negli anni intorno al 1218, inizia la costruzione del nuovo edificio a valle, intorno al quale si organizzerà l’imponente complesso monastico. È probabile che la pianura abbia subito in questa fase opere di bonifica; la sua connotazione morfologica, circondata dai fiumi Merse e dai fossi Gallessa e Righineto, lascia ipotizzare un impaludamento, almeno parziale. Con l’intervento di maestranze già impiegate per Casamari, il cantiere viene aperto da Donnus Joannes (anch’esso coinvolto nella realizzazione dell’abbazia laziale); nel 1229, ne cede poi la guida ad altri monaci, che seguiranno la costruzione dei mulini annessi. Una parte consistente del nucleo religioso è completata già nel 1224 (compare la menzione della “abbatiam novam Sancti Galgani”); nel 1227, viene distinta l’ecclesia superiore dall’ecclesia inferiore; nel 1288 avviene la consacrazione e l’inizio delle officiazioni. L’intero complesso non è comunque terminato prima del 1341; ancora l’anno precedente si registra la donazione di un cittadino senese, che destina le rendite di una sua proprietà, posta in Chiusdino, all’edificazione della cappella “juxta ecclesia Sancto Galgani”. L’imponenza a cui arriva il nucleo doveva essere notevole se nel 1742, di fronte agli edifici già in stato di forte degrado, Targioni Tozzetti afferma che “le rovine della Badia fanno conoscere che essa era piuttosto una mezza città che una Badia”. Purtroppo, l’abbandono avvenuto nel corso del XV secolo e la progressiva decadenza che investe il centro a partire da questa data, provocano la scomparsa di alcune delle sue strutture materiali; il fenomeno diventa più macroscopico nel corso del tardo XVIII-XIX secolo. Uno schizzo eseguito nel 1724 dall’architetto Alessandro Galilei testimonia il grado di conservazione del complesso; probabilmente già in stato di rudere, agli inizi del secolo è ancora visibile la distribuzione planimetrica del monastero, vi sono descritti il chiostro, le tre corti, l’edificio retrostante il refettorio. Alla fine del secolo successivo, la struttura è più compromessa. Antonio Canestrelli informa della perdita delle parti sud e ovest del chiostro, dell’ala che si dipartiva in direzione est dal refettorio (all’interno del quale si trovavano la cella abbaziale e la sua loggia) e delle infermerie. Rimanevano ancora visibili la sagrestia (ridotta a cantina), la sala capitolare (divenuta tinaia) e il refettorio, diviso in più parti e utilizzato per le stalle; i dormitori dei monaci, al piano superiore dell’edificio, erano stati trasformati in case in affitto “per coloni e pigionari”. L’architetto Canestrelli, nel suo studio, propone così un’ipotesi ricostruttiva del monastero, basandosi sia sulla pianta di Galilei che sul confronto con le altre abbazie appartenenti allo stesso ordine; dal punto di vista architettonico e di organizzazione spaziale, l’insediamento monastico riproduce uno schema comune alle più importanti fondazioni cistercensi, in un confronto stringente con le abbazie di Casamari (dalla quale essa si pone come filiazione diretta) e Fossanova (in ambito italiano), Clairvaux (in Francia). Sull’esempio di Clairvaux, ipotizza il cimitero nello spazio compreso fra la cappella (detta nel testo “dei Pannocchieschi”) e il lato settentrionale della chiesa; la posizione non è molto diversa da quella dell’impianto cimiteriale della parrocchia di San Galgano, ancora in vita ai tempi dell’autore. Secondo la disposizione presente a Casamari, pone le infermerie sul retro della chiesa e del cimitero; attestate per la prima volta nel 1228, vengono demolite nel corso della prima metà del XVI secolo; ci informa il rapporto della Visita Pastorale del 1576 in cui si dice “extra ecclesiam et prope Coemeterium adsunt reliquiae parietum supra terram ubi fertur fuisse hospitale et a 40 vel 50 annis citra demolitum fuit”. Dal punto di vista archeologico, l’interesse rivolto agli spazi circostanti l’abbazia ha riguardato l’individuazione di edifici connessi all’attività del complesso monastico; è infatti certo che una realtà insediativa di tali dimensioni prevedesse la presenza di numerose infrastrutture, necessarie nella fase del cantiere e di vita (ad esempio, stalle, granai, impianti produttivi eccetera). Già l’intervento stratigrafico, condotto da Cucini e Paolucci nel 1983, era stato mirato a verificare la presenza di fabbricati nello spazio retrostante il corpo centrale, sulla base di quanto ipotizzato da Canestrelli. Il saggio non aveva restituito tracce di edifici mentre aveva messo in luce un breve tratto stradale, in asse con l’abbazia; in un certo senso, l’evidenza negativa era stata ritenuta una potenziale conferma alla planimetria del Galilei, che non riportava in questo spazio alcuna struttura. Nel corso della nostra indagine (sia del 1993 che del 2001), la tenuta a incolto, non ha permesso di raccogliere dati in superficie; elementi interessanti sono invece emersi dalla lettura delle foto aeree, trattate al calcolatore. Nell’estremità nordorientale del campo retrostante l’abbazia, in linea con la piccola cappella, si rintraccia un’anomalia nella crescita della vegetazione che descrive una struttura di forma rettangolare allungata, di dimensioni pari a 83x28 m (fig. 70). La presenza di elementi murari in questo spazio viene confermata anche in una stampa del 1712 che descrive una corte recintata in corrispondenza dell’abside. L’immagine presenta un’evidente rielaborazione della struttura, proposta come integra e illesa; è possibile che nella ricostruzione grafica, i ruderi dell’edificio non siano stati interpretati e dunque riprodotti come semplice recinzione. Coerentemente con le indicazioni contenute nella visita pastorale del 1576, è del tutto plausibile interpretare l’evidenza come traccia delle infermerie; anche la distanza dal monastero, circa 50-60 m in media, è funzionale alla necessità di distaccare fisicamente, per motivi igienici, le strutture ospedaliere da quelle abitative. Circa 60 m in direzione sud-est, si legge un crop mark lineare, di una lunghezza pari a 21 m (sul lato sinistro nella fig. 70); deve essere sicuramente ricondotto alla viabilità rintracciata nel corso dello scavo da Cucini e Paolucci. Il tracciato messo in luce è ottenuto tramite un banco di argilla, di una larghezza costante di 3,70 m e con configurazione a schiena d’asino per assicurare lo scolo delle acque; il suo andamento, in asse con il parlatorio, è coerente con l’impianto abbaziale e forse assicurava il collegamento con la viabilità principale. Nella foto aerea, in prossimità dell’anomalia lineare se ne legge un’altra, di forma quasi quadrata (12315 m); la sua funzione è riferibile in modo generico a un edificio di supporto alle attività quotidiane del monastero. Altri crop mark riferibili a fabbricati vengono rilevati nel campo antistante la facciata abbaziale, in corrispondenza del suo angolo nordovest. Si tratta di allineamenti murari, disposti a definire una struttura forse rettangolare (è visibile solo per 1/3) con una bipartizione interna. Sul suo lato occidentale, la struttura presenta una traccia a “L”, indicando forse la presenza di un altro ambiente. Anche in questo caso, l’interpretazione può solo essere generica; la stessa raccolta di superficie (sia nel 1983 che nel 1993), restituendo solo concentrazioni di materiale edilizio (pietra e laterizio), non ha fornito ulteriori specificazioni (fig. 71). Nel campo compreso fra l’eremo e la chiesa, in prossimità di quest’ultima, emerge un’anomalia molto estesa che indizia un grande edificio, con numerose partizioni interne a definire piccoli ambienti di dimensioni variabili (fig. 72). I risultati della lettura delle foto aeree e quelli della ricerca estensiva danno indicazioni utili anche riguardo alla dotazione delle infrastrutture produttive del monastero. Dai documenti veniamo informati della presenza di almeno due fornaci da laterizi. Nel 1234 un instrumentum viene rogato “in platea fornacis predicti monasterii”; nel 1236, un’altra stipula avviene “juxta fornacem veterem predicti monasterii”. Nel corso della nostra indagine, abbiamo rilevato appunto due emergenze di superficie, riconducibili a impianti per la produzione dei laterizi. Una si colloca lungo l’attuale strada di collegamento con il fiume Merse, a sud-est del complesso; purtroppo l’evidenza è difficilmente leggibile nelle sue reali dimensioni, a causa della tenuta a incolto del campo. Il deposito, visibile invece in sezione, è comunque chiaro nella sua composizione: conserva frammenti di laterizi di grandi dimensioni e di refrattari, con evidenti tracce di arrostitura, e alcuni frustuli di ceramica depurata in associazione a un terreno molto arrossato (evidentemente a causa del disfacimento dell’argilla). Le tracce di un’altra fornace emergono nello spazio sottostante l’eremo di Monte Siepi, in direzione dell’abbazia. In fase di registrazione del dato di superficie, abbiamo avuto perplessità circa la natura del deposito; l’assenza di indicatori certi della presenza di una struttura (terreno arrossato, alta percentuale di refrattari), lasciava aperta una possibile interpretazione come area di scarico. Il dubbio è stato fugato dalla lettura delle foto aeree che evidenzia, in corrispondenza della concentrazione di materiale fittile, una struttura circolare di dimensioni approssimative di 3-4 m di diametro (le misure sono difficilmente valutabile data la non ortogonalità della ripresa fotografica). Compaiono dunque i due impianti attestati della fonti. In via ipotetica, per la sua collocazione, possiamo avanzare l’idea che la struttura sottostante Monte Siepi corrisponda alla fornace più vecchia; poteva funzionare in una fase di cantiere per la realizzazione dell’abbazia e degli ampliamenti dell’edificio superiore. L’altra potrebbe invece essere riferibile a una fase successiva; più distaccata dal monastero e prossima al grande opificio siderurgico, da cui dista circa 400 m; è possibile che i due forni operassero in una stessa fase e costituissero una sorta di complesso artigianale, fisicamente più distaccato, e forse anche nascosto, rispetto al nucleo monastico. L’esistenza di aree produttive negli spazi antistanti l’abbazia è stata accertata nel corso della nostra indagine; a differenza della ricognizione effettuata nel 1983, la prospezione del 1993-1995 ha messo in luce due concentrazioni di scorie di vetro l’una e di ferro l’altra, collocate nel campo prospiciente l’edificio; nel corso del 2001, una nuova battitura del sito ha definito in modo più netto le due emergenze. Nella metà occidentale, lungo il tracciato della strada che porta all’eremo, si sono raccolti frammenti di laterizi refrattari, combusti e vetrificati, associati a resti di parti strutturali di forno; a breve distanza, in direzione est, si rileva un’emergenza in superficie di scorie e scarti di lavorazione del metallo (per la disposizione delle emergenze di superficie si veda ancora fig. 69). In corrispondenza di queste unità topografiche, il trattamento delle foto aeree permette di collocare un’anomalia nella crescita della vegetazione, di forma circolare con diametro di 4 m (fig. 73). Le dimensioni non sono attribuibili a una forgia, la cui presenza è accertata invece da scorie di fusione del ferro; per di più, nella maggior parte dei casi, impianti di questo tipo consistevano in strutture molto semplici ed essenziali (spesso erano costituite da ciambelle in argilla), di piccole dimensioni, che difficilmente potevano lasciare tracce in superficie. Possiamo dunque solamente proporre una lettura di questo crop mark come area di fuoco, in cui il terreno, sottoposto per lungo tempo ad alte temperature, può aver mantenuto difficoltà a ripristinare la sua naturale composizione e dunque comportare una crescita più stentata della vegetazione; un’altra possibile interpretazione è quella di un punto di scarico (sia di scorie di lavorazione che di parti di altre strutture produttive) che per loro caratteristiche peculiari hanno impedite un normale rigoglio della coltura. In posizione arretrata rispetto alla precedente evidenza, più o meno al centro del campo, abbiamo rintracciato un altro deposito in superficie contraddistinto dalla presenza di elementi residuali della produzione vetraria (scorie di vetro e scarti di produzione); a essa corrisponde un ulteriore crop mark, che indica ancora una struttura circolare, con diametro di 4,5 m circa. In questo caso, le dimensioni e le caratteristiche dell’emergenza rendono quasi certa l’interpretazione di opificio per la lavorazione del vetro. Nelle foto trattate, davanti alla vetreria compare un secondo cerchio, di diametro di circa 11 m; di misure troppo ampie per un impianto produttivo, non è stato al momento interpretato (fig. 74). La consistenza dei depositi di scorie indica per tutte le strutture individuate un buon livello di sfruttamento; d’altro canto, le esigenze quotidiane di un complesso così esteso richiedevano una fabbricazione costante di attrezzi da lavoro, materiale da carpenteria, utensili eccetera; non è escluso, poi, che le fornaci siano state utilizzate anche durante l’attività del cantiere (durato circa 80 anni) per la realizzazione delle vetrate stesse dell’abbazia. Non deve stupire la posizione dell’area produttiva centrale rispetto alla facciata; la valutazione dell’organizzazione planimetrica delle altre abbazie cistercensi annulla l’idea di uno spazio di rispetto; a Clairvaux ad esempio, la stessa zona era occupata dalle scuderie. In questi esempi riconosciamo comunque gli indizi di un tipo di produzione a uso interno; le caratteristiche degli impianti non mostrano elementi utili per affermarne un utilizzo più esteso. L’unica struttura che corrisponde a canoni economici di più ampio raggio è la ferriera rinvenuta in prossimità del corso del Merse; questa è infatti destinata sicuramente a un processo di riduzione del minerale di ferro di stampo industriale. Il forno, del quale non si sono conservate parti in elevato, era alimentato da energia idraulica, deviata e convogliata dal fiume attraverso il canale, che lo delimita sul lato occidentale. La mole di scorie (a coprire un’area di 40350 m) indica l’alto grado di produttività della ferriera (per la collocazione dell’impianto si veda la fig. 69). I Cistercensi possedevano poi altri impianti siderurgici di questo tipo, dislocati sia nelle aree limitrofe che nelle zone più distanti: due sono posti nei confini comunali di Monticiano, due referenziabili genericamente lungo il Merse, uno presso Giugnano nel territorio di Roccastrada. Le caratteristiche produttive di questi opifici indicano un’attività ben superiore a quella necessaria alla normale conduzione del monastero. Anche la provenienza stessa del minerale indica una richiesta a più larga scala. Le analisi di laboratorio effettuate sulle scorie rinvenute nella ferriera di San Galgano evidenziano la loro derivazione dall’ematite elbana. L’importazione di questo minerale, pur non costituendo una rarità, procurava spese di trasporto, che venivano ammortizzate dall’altissima resa del minerale; investimenti di questo genere dovevano comunque essere motivati da una larga commercializzazione del prodotto finito. Considerando il ruolo rilevante, svolto dai Cistercensi nella vita pubblica senese, non è difficile pensare che essi siano intervenuti a soddisfare la richiesta di metallo di una città in crescita, con necessità sempre maggiori. Questo dato non esclude l’utilizzo anche dei filoni locali, secondo una tradizione diffusa rivolta ad associare spesso minerali di diversa provenienza. In ambito chiusdinese, comunque non abbiamo notizia di aree di estrazione di ferro nel corso di questi secoli. Non è ancora attestato lo sfruttamento della miniera di limonite di Spannocchia (utilizzata a partire dagli inizi del XIX secolo); alcuni punti di escavazione attestati in località Defizio da alcuni permessi minerari, non sono verificabili. È da escludere poi l’utilizzo dei filoni compresi negli spazi castrensi di Miranduolo; l’assenza dei monaci (negli anni di acme del loro potere), dalla campagna acquisti del castello chiarisce l’estraneità della zona dai loro interessi economici (probabilmente resa inaccessibile dalla forte presenza di Montieri). La maglia insediativa: la qualità dell’intervento cistercense – Il brusco incremento delle fonti scritte restituisce un quadro sufficientemente esaustivo del popolamento nei secoli del basso Medioevo. A partire dalla metà del XIII secolo, le attestazioni contano quattro castelli, un centro decastellato, nove villaggi, undici aree di frequentazione/sfruttamento agricolo, sei chiese extra moenia, nove strutture produttive; la disponibilità dell’archivio cistercense permette un aumento quantitativo pari al 340%. Per il secolo successivo, lo spoglio sistematico della Tavola delle Possessioni, comporta un aumento pari al 63% (distribuito su 26 aree di addensamento demografico, 16 case sparse e 25 di sfruttamento agricolo). L’archeologia fornisce altre otto emergenze di superficie; di queste, una metà si riferisce al tessuto insediativo mentre l’altra contribuisce alla definizione più ampia del complesso monastico. Dal punto di vista geografico, la concentrazione documentaria è sbilanciata in favore della corte di Frosini, dove convergono sia l’archivio cistercense che il censimento senese. La corte di Chiusdino è penalizzata in primo luogo dalla perdita della Tavola a essa relativa; inoltre, la sua estraneità dagli interessi patrimoniali del monastero di San Galgano riduce fortemente le notizie relative agli spazi castrensi. La corte di Luriano, investita solo parzialmente dall’attività cistercense, trova un forte limite nell’assenza della tavoletta preparatoria relativa al censimento senese del 1318: molti dei toponimi citati nella fonte non sono localizzabili (75% dei toponimi attestati). Sulle corti di Tamignano-Pentolina e Palazzoaffichi-Montecchio (attuale Le Palazze), in Diocesi senese, confluiscono alcuni documenti della città, altri del monastero e infine il resoconto fiscale delle Tavole; anche qui, la cancellazione dei toponimi corrisponde al 65-95%. La scomparsa della maggior parte delle località censite (provocata forse da un forte processo di desertazione, verificatosi progressivamente a partire dal tardo Medioevo), se non riduce la possibilità di valutare la consistenza demografica e la sua articolazione, impedisce però l’elaborazione di modelli territoriali esaustivi; per la loro applicazione, è infatti necessario disporre di una corretta localizzazione degli spazi insediativi. Nonostante l’enorme quantità di attestazioni, il numero di presenze coinvolte nelle tecniche di analisi spaziale corrisponde a una loro quota molto parziale e si concentra soprattutto all’interno della corte di Frosini. La ricostruzione del territorio chiusdinese si baserà in particolar modo sulla realtà della sua parte settentrionale; di conseguenza, data la convergenza su questi spazi dei principali interessi economici e insediativi del monastero di San Galgano, equivarrà a riconoscere il sistema di gestione della campagna da parte dell’ente cistercense. La rete insediativa si articola in castelli, villaggi, grange e case sparse disposti secondo una maglia molto stretta, estesa a coprire l’intero territorio, senza desertare alcun tipo di ambiente; si prediligono secondo una tendenza ormai frequente, gli spazi limitrofi a una buona rete idrica mentre non si evincono preferenze rispetto ai suoli da abitare; più selettiva la scelta delle aree a destinazione agricola, rivolta ovviamente ai terreni più adatti a seconda delle colture (prevalenti sono quelle di frumento e di cereali). È impossibile stabilire tempi e modalità di costituzione del tessuto abitativo.Le attestazioni più precoci (eccettuando quelle già presenti nei secoli precedenti) risalgono alla metà del XIII secolo e riguardano centri già formati; è ipotizzabile che, almeno in parte, tale impostazione possa essere retrodatata, forse addirittura al secolo precedente. L’esiguità documentaria per le fasi anteriori spinge nel campo dell’ipotesi qualsiasi proposta cronologica e rischia di cadere in proposte troppo meccanicistiche. La gamma tipologica delle forme insediative è ampia e variegata. Le strutture edilizie attestate sono la domus (anche nelle varianti “cum platea”, “cum plateis”, “cum platea et capana”), la capana, il casalino e il palatium. La loro combinazione definisce diversi tipi di agglomerati; i più diffusi (con differenziazioni quantitative) prevedono domus+casalino, domus+capana, domus+palatium; talvolta presenti le strutture produttive (concentrate in particolar modo nelle grange). L’organizzazione spaziale dell’impianto mostra indizi di continuità nei nuclei attuali, nonostante questi conservino solo rare tracce delle fasi medievali. Il villaggio di Malcavolo ad esempio, è oggi costituito da un edificio principale affacciato su una corte, delimitata a nord e ovest da piccoli annessi: non troppo diverso è descritto nelle fonti (una domus, un casalino e due capanae). Così anche il centro di San Martino, articolato in domus cum platea, platea, due capanae e una ecclesia, corrisponde oggi a un lungo edificio affacciato su una grande piazza, delimitata sul lato opposto da due costruzioni più piccole. La struttura ecclesiastica è frequente, ma non costante. Il dato quantitativo relativo agli edifici religiosi non può considerarsi definitivo; questi non sono infatti censiti nella Tavola delle Possessioni e dunque la mancata menzione non è probante della loro assenza. Questo non è l’unico limite posto dalla Tavola delle Possessioni. Si è parlato volutamente di agglomerati, intesi in senso generico, per la difficoltà di assegnare un’identità istituzionale corretta ai centri menzionati; il dettaglio della descrizione infatti non è mai corredato dalla alcuna apposizione. Laddove si disponga solo di questa fonte, dobbiamo chiederci se esiste un numero minimo di edifici necessari a identificare un villaggio; oppure se esiste una casistica di strutture essenziale alla sua definizione. Sulla base degli esempi certi (casi per i quali tale identità è esplicitamente riferita negli atti scritti), vediamo che il termine villa viene impiegato per complessi di vario tipo: dal semplice agglomerato composto da una domus e due capanae al ben più articolato dotato di quattro domus cum platea, due domus cum platea et capana, due domus cum platea, un casalino et capanae, tre capanae e una ecclesia. Evinciamo dunque quanto sia elastico il concetto di villaggio sia in termini dimensionali dell’insediamento sia tipologico; neppure la presenza dell’edificio ecclesiastico emerge come discriminante. Una valutazione statistica del campione contenuto nella Tavola lascia ipotizzare che sia da intendere come villaggio ogni concentrazione insediativa superiore alle tre unità. Al di là della caratterizzazione istituzionale, ai fini della ricostruzione della maglia del popolamento, rimane comunque inalterata la forte incidenza delle forme insediative di tipo accentrato; variano le dimensioni, l’organizzazione interna e le caratteristiche peculiari delle strutture edilizie presenti. La dislocazione topografica delle diverse tipologie di agglomerato chiarisce alcune linee essenziali delle dinamiche sociali ed economiche. All’interno delle corti di Frosini e Luriano predominano la domus e il casalino, mentre è assente del tutto il palatium; al contrario, nell’area di Palazzaffichi-Montecchio rappresenta una costante. È chiaro l’indizio di una differenziazione territoriale del nucleo accentrato come espressione di diverse realtà sociali; il palazzo è simbolo di una stratificazione sociale interna e può essere manifestazione o di un ceto cittadino insediato nella campagna o, altrimenti, di un gruppo cresciuto in ambito rurale divenuto poi emergente. In questo senso, non è un caso che si concentri nell’area compresa nella Diocesi senese e più direttamente coinvolta nell’orbita cittadina; è possibile che queste strutture si connotino proprio come residenze rurali di alcune famiglie economicamente predominanti in ambito cittadino. L’articolazione riconosciuta nei centri limitrofi alle Palazze rappresenta un unicum nel chiusdinese; negli spazi circostanti Frosini e Luriano, le caratteristiche interne degli agglomerati mostrano invece la loro destinazione a un ceto medio, residente della zona. Non riusciamo a stabilire se il tessuto insediativo trovi un riferimento istituzionale nel centro incastellato; verificando, però, il rapporto fra il castello e i nuclei accentrati, notiamo una tendenza a disporsi secondo distanze abbastanza regolari calcolabili in media intorno ai 2 km (minima 900 m-massima 3 km). Purtroppo il campione è troppo modesto per tentare elaborazioni attraverso l’applicazione dei poligoni di Thiessen o i central places; la valutazione della distribuzione del popolamento in rapporto ai centri fortificati è, di conseguenza, molto sintetica. I castelli sembrano aver perso in questa fase il loro ruolo di struttura fortificata; rimangono comunque centro politicamente egemone e polo di attrazione demografica e di ricchezza. Luriano diventa proprietà soprattutto della famiglia senese degli Incontri. Frosini è spartito fra abitanti del luogo e monastero di San Galgano. A Chiusdino è insediato invece un ceto mercantile, cresciuto grazie ai traffici dei metalli. Dal punto di vista della struttura materiale, si tratta di nuclei di medie e grandi dimensioni; annoverano al loro interno numerose abitazioni organizzate intorno a vaste aree aperte e un solo edificio ecclesiastico. La trama della maglia insediativa viene completata attraverso un sistema di case sparse, disposte sul territorio in proporzione di un’unità ogni due agglomerati. Gli esempi localizzabili indicano una loro ubicazione prevalente nelle aree più distanti dalla rete dei villaggi. Sono rappresentate da singole domus, casalini o capanae. L’accezione di quest’ultimo termine come struttura abitativa viene indicata dalla ricerca archeologica. Due delle capanae, attestate nel censimento del 1318 (in località Tassinaiola) corrispondono sul territorio a due abitazioni di piccole dimensioni (5x6 m), realizzate con elevati in materiale deperibile e copertura laterizia; sono dotate di corredi domestici, articolati in vasellame acromo e maiolica arcaica. Disposte in un loco dicto, indicano probabilmente modeste strutture destinate a ospitare il nucleo preposto alla conduzione dell’area agricola. La rete del popolamento sparso propone una tendenza verso il fenomeno dell’appoderamento in linea con quanto emerge nel resto del territorio provinciale; i valori della densità si mostrano infatti omogenei rispetto a quelli rilevati per il Chianti e la Val d’Elsa. Dunque, le tendenze insediative riconosciute nel chiusdinese mostrano le stesse dinamiche proposte dagli altri territori: tenuta dei nuclei incastellati, aumento delle unità di villaggio a cui segue l’impostazione di una maglia di case sparse. All’interno di una maglia insediativa sostanzialmente coerente con il trend mostrato nella provincia senese, cogliamo comunque alcuni aspetti peculiari, legati a doppio filo con la presenza dell’insediamento cistercense di San Galgano e con i sistemi da esso attuati nella conduzione della terra. A pochi anni dalla fondazione, l’abbazia avvia una politica di espansione sul territorio circostante, concentrandosi nell’ambito della corte di Frosini, a essa limitrofa; attraverso un sistema di acquisizione di quote fondiarie esprime una precisa volontà di imporsi in modo non traumatico, ma efficace, sulla rete insediativa precedente. Non segna dunque un periodo di rottura o di radicali trasformazioni sul paesaggio dei secoli prima, bensì una continuità negli elementi essenziali, pur ‘caratterizzati’ in termini di scelte gestionali ed economiche. Al di là delle donazioni, l’azione programmata di investimenti inizia proprio (e non è un caso) dalle proprietà dell’abbazia di Serena e riguarda terre, edifici (molte sono le cessioni di diritti sulle chiese) e soprattutto grosse quote fondiarie a Papena e Ticchiano. Assunto il controllo pressoché totale su questi spazi, i monaci trasformano in grangia il villaggio di Papena e ne impiantano un’altra a Ticchiano (sulle quali verrà in seguito a concentrarsi l’85% della produzione cistercense); ciò equivale a una sorta di personalizzazione dell’assetto precostituito. La principale manifestazione della loro prassi economica, rivolta a pianificare e migliorare la produttività della terra, è proprio la creazione di aziende agricole strutturate; attraverso di esse, svolgono infatti un’azione di coordinamento della produzione e della gestione delle risorse. Negli anni successivi, altri due villaggi, San Martino e Vespero, divengono grange. Dal punto di vista della struttura materiale, non riusciamo a cogliere eventuali modifiche all’impianto originario. Dalla descrizione riportata nelle fonti, non compaiono in questi nuclei strutture riferibili all’attività produttiva; diverse invece le due fondazioni ex novo, Valloria e Villanova. La loro articolazione interna e le loro caratteristiche le indicano chiaramente come centri di organizzazione economica di tipo specializzato. Villanova, costruito appositamente per la direzione dell’estrazione e della lavorazione del travertino (cavato negli spazi retrostanti), ha un’organizzazione essenziale; di dimensioni limitate, è privo delle strutture produttive necessarie per la trasformazione dei prodotti agricoli. Valloria, è un nucleo ampio e complesso per articolazione; è composto da edifici di varie dimensioni completati da aree aperte (platee e aree; i due termini non sono sinonimi in quanto spesso compaiono associati), un edificio religioso e due palmentaria. Da smentire l’ipotesi di una fortificazione, sostenuta sulla base della citazione di un claustrum; mancano infatti evidenze archeologiche riferibile a un circuito murario. È invece possibile che il termine indichi semplicemente o uno spazio aperto, magari a uso coltivo; oppure che la “domus cum claustro” citata nell’Estimo conservi la memoria della chiesa, forse sconsacrata e declassata ad abitazione. La fondazione di Valloria può essere vista in funzione di un coordinamento degli impianti molitori dislocati nelle sue immediate vicinanze; sono concentrati soprattutto lungo i corsi del fosso Frelli e del fiume Feccia (Molino “de Frilli” e “Molendinum veterem”). Nonostante le difficoltà opposte dalla documentazione nella localizzazione delle strutture (indicazioni vaghe e spesso limitate alla sola menzione del proprietario o del fiume), riusciamo a collocare genericamente gli otto opifici attestati nei Caleffi, nello spazio compreso nella parte nordoccidentale del comune; posti a sfruttare sia i corsi d’acqua principali che i loro affluenti, dovevano servire appunto alcuni dei centri più importanti come la stessa Valloria, Villanova e Frosini. L’esercizio del controllo sulla produzione prevede infatti forme di vigilanza sulle strutture molitorie da grano. Disporre di impianti da destinare alla trasformazione in proprio dei prodotti delle grange, con spese minime vista la possibilità di impiegare conversi ‘a costo zero’, costituisce di fatto una fonte inesauribile di guadagno. Nel giro di pochi anni dalla sua fondazione, il monastero si dedica al loro rilevamento. Come per le proprietà fondiarie, San Galgano procede inizialmente a desautorare l’abbazia di Serena che, fino all’arrivo dei Cistercensi, esercitava con tutta probabilità i diritti sui mulini; in un secondo momento, si impegna nell’acquisizione in toto o per grandi quote delle proprietà private. Anche in questo campo, ripropone una linea simile a quella individuata per la rete insediativa. Gli unici interventi ex novo sono rivolti a organizzare il proprio spazio e a costituire apparati produttivi, funzionali alle proprie esigenze interne. Sul piano dell’innovazione tecnologica non diffonde novità bensì razionalizza e ottimizza tecniche già presenti. Non introducono l’energia idraulica (già utilizzata in impianti a uso privato) ma praticano un sistematico investimento sulle strutture alimentate da essa in modo tale da determinare una loro diffusione capillare e massiccia. Nel giro di pochi anni, i Cistercensi si assicurano tutte le terre e i beni di maggior valore; respingono al margine la proprietà locale che viene a frammentarsi e a detenere le parti meno produttive e di minor pregio. All’interno dei villaggi, i religiosi possiedono un numero inferiore di edifici rispetto agli abitanti del luogo con un valore globale però decisamente superiore. Allo stesso modo, il loro patrimonio immobile compreso nelle mura di Frosini, corrispondente a 13 delle 45 case attestate, ha una stima complessiva maggiore. Alla luce di queste considerazioni, il modus operandi dei Cistercensi all’interno dello spazio rurale può essere sintetizzato in un sistema di centralizzazione rivolto alla pianificazione e all’ottimizzazione della produttività: si tratta di un atteggiamento di stampo imprenditoriale. L’attuale comprensorio comunale viene investito quasi globalmente dall’attività cistercense; l’unica eccezione è rappresentata dal territorio sottoposto al castello di Chiusdino. Nei Caleffi sono rari gli atti relativi a questo spazio; le poche località citate sono disposte nella fascia più marginale delle pertinenze castrensi, nel punto di confine con quelle di Luriano. È probabile che la comunità chiusdinese, spinta da forti istinti autonomistici, abbia frenato ogni ingerenza monastica dalla propria corte. La presenza dell’abbazia segna comunque un periodo di forte dinamismo sia dal punto di vista economico che sociale per tutto il territorio. La grande capacità tecnica e l’intraprendenza imprenditoriale, tipica dell’Ordine cistercense, pongono le fondazioni al centro di realtà economiche vivaci e attive; connotano inoltre questi insediamenti come centri promotori dei grandi processi economici. Negli anni compresi fra i primi decenni e la fine del XIII secolo, l’abbazia mette in atto una politica di espansione territoriale che le permette di raggiungere (intorno alla metà del secolo) un patrimonio fondiario valutabile nell’ordine del 51.000 fiorini; esteso a toccare ogni area del comprensorio senese, è distribuito in alcune delle sue parti più strategiche: quelle attraversate dalla via Francigena, la Maremma, le sedi di importanti mercati come Asciano e San Gimignano. Raggiunge una proprietà complessiva non paragonabile a nessun altro ente religioso cittadino ed è inferiore solamente ai beni di ricchissime famiglie come i Saracini e i Tolomei. Sullo scorcio del XIII secolo, il giro di affari è così consistente da determinare una sorta di congestionamento dell’attività patrimoniale, provocato dai notevoli investimenti e dal rapido aumento degli affari, legati alla produzione delle grandi aziende. Sono immediate le misure di razionalizzazione, nell’ottica di restringere la sfera d’azione, attraverso cessioni delle proprietà più distanti. Questi eventi non sono però segni di una reale crisi o decadenza del monastero.I dati contenuti nella Tavola delle Possessioni rendono evidente il potere economico che l’abbazia mantiene almeno fino al primo quarantennio del XIV secolo; dopo questa data, si manifestano invece i primi vacillamenti per l’ente monastico. A partire dal primo trentennio del XIV secolo, le vicende dell’abbazia rendono palese una fase di generale crisi del territorio. Le cause sono in parte connesse alle ripercussioni dell’annosa guerra fra Siena e Firenze (frequenti erano le offensive fiorentine alla città rivale a colpire il territorio), ma soprattutto agli effetti della peste e delle conseguenti carestie. La comunità religiosa, esposta al contagio a causa delle scarse abitudini igieniche, viene decimata dall’epidemia. In ragione del crollo demografico, il 22 agosto del 1348 le celebrazioni delle sacre funzioni vengono aperte ai laici; nel 1397, l’abate Galgano è costretto a cedere una proprietà per pagare le decime al papa: alla sottoscrizione del contratto sono presenti solo otto monaci. Il decremento è drastico, considerando che nel decennio 1278-1288, la popolazione monastica è calcolata in misura di 60-80 persone fra monaci e conversi; venti anni dopo scende a 36. Vessato dalle frequenti scorrerie dei mercenari fiorentini e delle compagnie di ventura, il chiusdinese viene supportato dall’impegno cittadino. Nel 1364, una drammatica incursione della Compagnia inglese sul castello di Frosini provoca danni così ingenti che Siena esonera gli abitanti da qualsiasi tributo per i cinque anni successivi. Vari sono i tentativi operati dai senesi per frenare la discesa dell’ente monastico, che termina inesorabilmente nel 1503 al momento della concessione all’abate commendatario. Da questo momento, la situazione precipita rapidamente; i monaci abbandonano il monastero e si trasferiscono in città presso il Palazzo di San Galgano, iniziato a costruire già nel 1474. Nel 1576, il vescovo di Rimini, in visita all’abbazia, trova il monumento in distruzione; è presente solo un monaco che non veste più neppure l’abito cistercense. La decadenza sembra essere generale. Frosini (affidato nel 1409 alla tutela abbaziale per deliberazione del Comune senese) decade fino a diventare residenza privata degli eredi dell’ultimo commendatario, cardinale Feroni. Purtroppo la mancanza di una documentazione autonoma dal monastero impedisce di valutare le micromodifiche occorse al paesaggio e di ricostruire la cronologia degli abbandoni. Certamente la crisi del monastero non può aver determinato un collasso istantaneo della rete insediativa; il percorso involutivo del popolamento segue infatti modalità più lente e graduali. A partire dalla metà del XIV secolo, la crisi demografica sembra provocare una generale contrazione dei villaggi, senza però determinarne automaticamente la scomparsa; le poche fonti a disposizione mostrano una sostanziale tenuta dell’abitato accentrato. L’elenco delle tassazioni imposte dal Comune di Siena nel 1444 mostra infatti il decremento consistente di alcuni centri ma non la loro scomparsa. È il caso di Fulguri o di Tamignano, che, pur rivelando un bassissimo indice demografico, non sembrano aver perso la loro identità giuridica. Contemporaneamente, sono attestati centri abitati che non sembrano subire decrementi, come ad esempio quello di Palazzetto o Palazzaccio o Palazzaffichi (attuale Le Palazze): sulla base dell’entità delle imposte, conferma ancora la sua natura di centro popoloso e ricco. Si riconosce invece un processo costante di rarefazione della maglia insediativa e di assestamento del popolamento verso un tipo di organizzazione articolata su centri abitati, di dimensioni medio-grandi. La maggior parte degli abbandoni deve aver riguardato le aree di fondovalle e di mezza collina, esposte lungo la viabilità; l’aumento di pericolosità della zona, spesso investita da violente scorrerie, doveva mettere a serio rischio l’integrità dei centri che si affacciavano su di essa: di fatto, può essersi attivato un fenomeno opposto a quello dei secoli precedenti. Inizia in questa fase il processo insediativo che porterà alla definizione dell’aspetto attuale della campagna chiusdinese. Alessandra Nardini VIII – ATLANTE CRONOTIPOLOGICO DELLE MURATURE Lo studio condotto sulle murature attestate nel territorio di Chiusdino, in un arco cronologico compreso tra fine XI-inizio XII secolo e XVIII secolo, ha portato all’individuazione di 6 Tipi murari principali. I Tipi individuati con una certa frequenza nell’area di indagine, tali da permettere confronti interni ad una stessa tipologia, sono stati a loro volta distinti in base alle principali varianti rintracciate. I dati raccolti nel corso della ricerca sono stati esemplificati nelle schede che seguono, dove sono prese in esame le USM ritenute più significative per la descrizione delle diverse tipologie murarie individuate. Per ogni campione è riportata l’ubicazione, la documentazione grafica (in scala 1:20) o fotografica, una descrizione della muratura, basata sui suoi componenti principali, e l’eventuale presenza di tracce di lavorazione. 1. I campioni Campione Ch 1 Frosini, Chiesa di S. Michele Arcangelo (scheda sito 105) Il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica all’esterno dell’edificio, nella porzione inferiore della facciata. In buono stato di conservazione, il paramento murario presenta un degrado superficiale minore rispetto a quello visibile sul fianco sinistro del tempio. Composizione: calcare, travertino compatto Posa in opera: paramento in conci di medie e medio-grandi dimensioni, disposti per orizzontale e faccia quadra su corsi perfettamente orizzontali e paralleli. I filari hanno un’altezza compresa tra 21 e 37 cm. Nella zona di raccordo con i prospetti laterali dell’edificio il paramento non presenta differenze nelle dimensioni dei conci impiegati nella definizione delle angolate. Lavorazione e finitura: conci perfettamente squadrati e spianati con l’uso del nastrino, per la definizione degli spigoli, e dell’ascettino per la faccia a vista. Le tracce della finitura superficiale sono conservate nella porzione inferiore della facciata e, sporadicamente, in alcuni conci del fianco sinistro. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,3-0,9 cm) e dei letti di posa (0,2-1 cm) è sottile e regolare. Campione Ch 2 Frosini, Chiesa di S. Michele Arcangelo (scheda sito 105) Il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica all’esterno dell’edificio, nella porzione inferiore del prospetto absidale. Conservato solo parzialmente, il paramento murario presenta profonde lesioni che, specialmente nella parte settentrionale dell’abside, hanno causato un distacco (da 0,7 a 1,5 cm) dei giunti della muratura. Composizione: calcare Posa in opera: paramento in conci di medie e medio-piccole dimensioni, disposti per orizzontale e, raramente, faccia quadra, su corsi generalmente orizzontali e paralleli. In alcuni punti il paramento presenta un andamento leggermente irregolare dei filari. I filari hanno un’altezza compresa tra 17 e 27 cm. Lavorazione e finitura: conci da bene a perfettamente squadrati, spianati con uno strumento a punta, di cui non sempre sono riconoscibili le tracce. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,3-1,1 cm) e dei letti di posa (0,4-1 cm) risulta abbastanza regolare e sottile. Campione Ch 3 Castello di Frosini (scheda sito 105) Il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica in scala 1:20, nel prospetto esterno sud del palazzo, in prossimità della portale d’ingresso ad arco senese. Composizione: calcare, travertino compatto Posa in opera: bozze di medie e piccole dimensioni disposte per orizzontale e faccia quadra, raramente per verticale, su corsi generalmente orizzontali e paralleli. La parte superiore del campione presenta bozze di piccole dimensioni disposte su filari più irregolari. I filari hanno un’altezza compresa tra 16 e 25 cm. Lavorazione e finitura: bozze sommariamente squadrate e spianate con uno strumento a punta (probabilmente picconcello) Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,3-1,6) e dei letti di posa (0,6-1,8) è variabile e irregolare. Campione Ch 4 Pieve di S. Maria a Luriano (scheda sito 51) Il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica all’esterno dell’edificio, nella parte inferiore della facciata, in prossimità del portale d’ingresso. E’ questo il punto dove è meglio leggibile la muratura originaria dell’edificio, in gran parte coperta dal rivestimento ad intonaco della parete. Composizione: calcare, travertino, e rara arenaria Posa in opera: paramento in conci di medie dimensioni posti per orizzontale e faccia quadra, raramente per verticale, su corsi orizzontali e paralleli. Nella zona inferiore della facciata si nota, in relazione all’impiego di alcuni conci di grandi dimensioni, uno sdoppiamento di corsi della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra18 e 27 cm. Lavorazione e finitura: conci ben squadrati e spianati. La finitura degli elementi lapidei è difficilmente individuabile a causa dell’erosione superficiale della faccia a vista dei conci; è ipotizzabile l’utilizzo di uno strumento a tranciante piano (ascettino). Giunti e letti di posa: lo spessore di giunti (0,4-1,2 cm) e dei letti di posa (0,3-0,9 cm) è abbastanza regolare ma si riferisce a pochi punti di verifica. Campione Ch 5 Papena, Chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano (scheda sito 72) Il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica in scala 1:20, all’esterno dell’edificio religioso, sul fianco sinistro; questo lato del complesso architettonico presenta un paramento in buono stato di conservazione, contrariamente a quello visibile nella facciata, oggetto di numerosi rimaneggiamenti. Composizione: calcare, travertino spugnoso Posa in opera: paramento in conci di medie dimensioni disposti per orizzontale e faccia quadra su corsi orizzontali e paralleli. Raro utilizzo di zeppe in scaglie di laterizio nei giunti della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra18 e 29 cm. Lavorazione e finitura: conci ben squadrati e spianati; la finitura delle superfici non è leggibile a causa dell’erosione superficiale degli elementi lapidei. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,4-1,2 cm) e dei letti di posa (0,5-1,5 cm) è variabile e si riferisce a pochi punti di verifica. Campione Ch 6 Chiusdino, Chiesa dei SS. Iacopo e Martino (scheda sito 29) Relativo alla muratura esterna della chiesa, il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica in scala 1:20, sulla facciata dell’edificio religioso, nel punto di raccordo tra questa ed il fianco destro. Composizione: calcare Posa in opera: paramento in conci di medie e grandi dimensioni disposti per orizzontale e faccia quadra, raramente per verticale, su corsi orizzontali e paralleli. In prossimità dell’angolata destra, è visibile la ”cesura” di un concio del pannello. La presenza di scaglie di laterizio nei giunti e nei letti di posa della muratura è da attribuire ai rimaneggiamenti subiti facciata. I filari hanno un’altezza compresa tra 17 e 35 cm. Lavorazione e finitura: conci squadrati e spianati con uno strumento a punta (subbia o picconcello). Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,2-0,8 cm) e dei letti di posa (0,3-1 cm) è abbastanza sottile e regolare. Campione Ch 7 La Magione (scheda sito 157) Il campione è stato rilevato, tramite una ripresa fotografica, nella parte centrale del prospetto nord-est dell’abitazione. Composizione: arenaria, travertino compatto Posa in opera: paramento in bozze di medio-piccole e piccole dimensioni disposte per orizzontale e faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli, in alcuni punti sdoppiati. I filari hanno un’altezza compresa tra 14 e 34 cm. Lavorazione e finitura: bozze sommariamente squadrate e spianate con uno strumento a punta (forse picconcello), di cui restano poche tracce Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,4-1,7) e del letti di posa (0,3- 1,5) è variabile e si riferisce a pochi punti di verifica. Campione Ch 8 Podere Tamignano (scheda sito 110) Relativo alla muratura esterna, a scarpa, della torre, il campione è stato rilevato, tramite una ripresa fotografica, nella parte inferiore del prospetto sud dell’edificio. Composizione: calcare cavernoso e rari laterizi Posa in opera: paramento in bozze di medio-piccole dimensioni disposte su filari generalmente orizzontali e paralleli; frequente impiego di zeppe in scaglie di pietra nei giunti e nei letti della muratura. Nella parte sud-est del prospetto si notano alcuni laterizi, forse di reimpiego, in qualità di elementi verticali. Nella zona di raccordo con il prospetto ovest, l’impiego di conci di grandi dimensioni e perfettamente squadrati nella definizione dell’angolata, impone, rispetto a questi conci, lo sdoppiamento dei corsi del pannello. I filari hanno un’altezza compresa tra15 e 23 cm. Lavorazione e finitura: pietre spaccate o sommariamente sbozzate, prive di finitura Giunti e letti di posa: il restauro in cemento dei giunti e dei letti di posa ne impedisce la lettura. Campione Ch 9 Le Palazze (scheda sito 145) Relativo alla muratura esterna della torre, il campione è stato rilevato, tramite una ripresa fotografica, nella parte inferiore del prospetto ovest dell’edificio. Composizione: calcare cavernoso, alberese, ciottoli fluviali Posa in opera: paramento in bozze e ciottoli di fiume di medio-piccole dimensioni disposti su corsi sub-orizzontali e paralleli, spesso sdoppiati nel punto di raccordo tra pannello e angolata; quest’ultima è risolta in conci squadrati di medie dimensioni. Utilizzo di zeppe in scaglie di pietra nei letti di posa. I filari hanno un’altezza compresa tra 16 e 23 cm. Lavorazione e finitura: pietre spaccate o prive di lavorazione. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,5-1,5 cm) e dei letti di posa (0,3-2 cm) è variabile. Campione Ch 10 Podere San Martino (scheda sito 153) Relativo alla muratura esterna dell’abitazione poderale, il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica nella parte inferiore del prospetto ovest del corpo di fabbrica centrale, in prossimità della porta di ingresso. Composizione: calcare marnoso, calcare cavernoso, laterizi Posa in opera: muratura irregolare con periodici filari di orizzontamento ogni 70-80 cm. Numerosi conci di reimpiego. Numerose zeppe in pietra e laterizio, anche di copertura. Lavorazione e finitura: solo le pietre di reimpiego, di medie e grandi dimensioni, sono squadrate e spianate. In generale la muratura presenta pietre messe in opera prive di lavorazione. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,4-2,8 cm) e dei letti di posa (0,2-3,2 cm) è fortemente irregolare. Campione Ch 11 Vesperino (scheda sito 152) Relativo alla muratura esterna dell’abitazione poderale, il campione è stato rilevato tramite documentazione grafica in scala 1:20, nella parte superiore del prospetto ovest del corpo di fabbrica centrale, in prossimità della porta di ingresso. Composizione: calcare cavernoso, laterizi Posa in opera: paramento formato da elementi lapidei apparecchiati su filari irregolari, in parte regolarizzati con l’utilizzo di laterizi organizzati su brevi filari di orizzontamento. Frequente uso di zeppe in scaglie di pietra e frammenti di laterizio. Lavorazione e finitura: pietre spaccate messe in opera prive di lavorazione con frequente utilizzo di bozze di medie dimensioni, squadrate, verosimilmente di riutilizzo. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti è irregolare, non verificabile. Campione Ch 12 Valloria (scheda sito 150) Relativo alla muratura esterna della grancia, il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica nella parte inferiore del prospetto sud del corpo di fabbrica centrale. Composizione: calcare cavernoso e marnoso Posa in opera: paramento in conci di medie dimensioni, disposti per orizzontale e, in misura minore, per faccia quadra, su corsi suborizzontali e paralleli. Utilizzo abbastanza frequente di zeppe in scaglie di pietra nei giunti e nei letti di posa. I filari hanno un’altezza compresa tra 20 e 34 cm. Lavorazione e finitura: conci squadrati e sommariamente squadrati, spianati con un ascettino di cui restano rare tracce. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,5-2,3 cm) e dei letti di posa (0,4-3,5 cm) è variabile. Campione Ch 13 Chiusdino, Casa di San Galgano (scheda sito 29) Relativo alla muratura esterna dell’abitazione, il campione è stato rilevato tramite documentazione grafica in scala 1:20, nella parte inferiore della facciata, in prossimità del portale d’ingresso. Composizione: calcare marnoso Posa in opera: paramento in bozze di medio-piccole e piccole dimensioni, disposte per faccia quadra e, in misura minore, per orizzontale su corsi generalmente orizzontali e paralleli. I filari hanno un’altezza compresa tra 12 e 21 cm. Lavorazione e finitura: pietre sbozzate e sommariamente spianate con un picconcello, di cui restano rare tracce nonostante le frequenti fratture concoidi del materiale lapideo, scarsamente gelivo, visibilili sulle superfici esterne delle pietre. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,3-1 cm) e dei letti di posa (0,2-1,3 cm) è abbastanza regolare. Campione Ch 14 Chiusdino, Chiesa dei SS. Iacopo e Martino (scheda sito 29) Relativo alla muratura esterna dell’edificio religioso, il campione è stato rilevato tramite documentazione grafica in scala 1:20 nella parte inferiore del fianco laterale sinistro. Composizione: calcare marnoso Posa in opera: paramento in bozze di medio-piccole e piccole dimensioni, disposte per faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Utilizzo di periodiche zeppe in scaglie di pietra nei giunti della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra 15 e 20 cm. Lavorazione e finitura: pietre sbozzate e spianate con un picconcello. Il materiale litoide, poco gelivo, mostra fratture concoidi che hanno in parte asportato le tracce superficiali di lavorazione Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,4-1,5 cm) e dei letti di posa (0,4-1,7 cm) è abbastanza regolare. Campione Ch 15 Chiusdino, Circuito murario, Via delle Mura (scheda sito 29) Relativo alla muratura esterna del circuito murario più esterno all’abitato di Chiusdino, il campione è stato rilevato, tramite documentazione fotografica a pochi metri di distanza dalla Porta Bacucchi ( o Senese), in Via delle Mura, nella parte inferiore del paramento. Composizione: calcare e calcare marnoso Posa in opera: paramento in bozze di medie e medio-piccole dimensioni, disposti per orizzontale e faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Utilizzo di frequenti zeppe in scaglie di pietra e frammenti di laterizio nei giunti e nei letti della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra 18 e 26 cm. Lavorazione e finitura: pietre sbozzate e sommariamente spianate con un picconcello. Alcuni conci di grandi dimensioni, squadrati e spianati, sono forse di reimpiego. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,5- 3,1 cm) e dei letti di posa (0,4-3,2 cm) è variabile. Campione Ch 16 Luriano (scheda sito 58) Relativo alla muratura esterna del complesso architettonico, il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica in scala 1:20 nella parte inferiore del prospetto a monte del corpo di fabbrica centrale. Composizione: calcare, ciottoli fluviali Posa in opera: paramento in ciottoli e bozze di medio-piccole dimensioni disposte, per orizzontale e faccia quadra, su corsi sub-orizzontali e paralleli. Periodicamente, ad intervalli di 1,20-1,40 m, filari formati da bozze lamellari (max. 9 cm. di spessore) indicano forse la fine della giornata di lavoro. La muratura presenta sdoppiamenti dei corsi in prossimità delle angolate. Utilizzo di zeppe in scaglie di pietra nei giunti e nei letti di posa. I filari hanno un’altezza compresa tra 14 e 24 cm. Lavorazione e finitura: pietre spaccate o prive di lavorazione. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,2-2,7 cm) e dei letti di posa (0,5-3,5 cm) è irregolare. Campione Ch 17 Miranduolo, Area 1, US 8 (scheda sito n. 28) Relativo alla muratura dell’edifico rinvenuto, durante la campagna di scavo condotta nei mesi di agosto-settembre 2001, nella parte sommitale del colle, il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica e fotografica nel paramento esterno dell’edificio. Composizione: calcare cavernoso Posa in opera: paramento in conci squadrati di medie dimensioni, disposti su filari orizzontali e paralleli. Sono visibili, allo stadio attuale delle indagini, solo quattro filari dell’alzato. I filari hanno un’altezza compresa tra 18 e 27 cm. Lavorazione e finitura: conci squadrati e spianati; rare tracce di finitura fanno ipotizzare che per la spianatura delle superfici sia stato utilizzato uno strumento a punta. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,4-1,6 cm) e dei letti di posa (0,5-1 cm) è abbastanza sottile e regolare. Campione Ch 18 Miranduolo, Area 2, US 2 (scheda sito 28) Il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica e fotografica nel paramento esterno del circuito murario del castello visibile nel versante meridionale. Composizione: calcare Posa in opera: paramento in bozze di medie e medio-piccole dimensioni disposte, per orizzontale e faccia quadra, su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Raro utilizzo di zeppe in scaglie di pietra lamellari (max. 3,5 cm di spessore) nei giunti della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra 17 e 22 cm. Lavorazione e finitura: pietre spaccate e sommariamente sbozzate con un picconcello. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,5-3,7 cm) e dei letti di posa (0,4-2,5 cm) è irregolare. Campione Ch 19 Miranduolo, Area 1, US 7 (scheda sito 28) Relativo alla muratura dell’edificio situato nel Settore A, il campione è stato rilevato, tramite documentazione grafica e fotografica, nel paramento murario interno del lato orientale della struttura. Composizione: calcare cavernoso Posa in opera: paramento in conci di medie e medio-piccole dimensioni, disposti per orizzontale e faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Utilizzo di zeppe in scaglie di pietra lamellari (max. 4,1 cm di spessore) nei giunti della muratura. I filari hanno un’altezza compresa tra e 16 e 25 cm. Lavorazione e finitura: conci squadrati e sommariamente squadrati, spianati con un ascettino di cui non sempre sono riconoscibili le tracce. Giunti e letti di posa: lo spessore dei giunti (0,3-1,3 cm) e dei letti di posa (0,5-2 cm) è variabile. Campione Ch 20 La Cura, Pieve di San Bartolomeo (scheda sito 155) Il campione è stato rilevato tramite ripresa fotografica all’esterno dell’edificio, nella parte inferiore della facciata, in prossimità del portale d’ingresso. Composizione: calcare, travertino Posa in opera: paramento in conci di medie e medio-grandi dimensioni posti per orizzontale e faccia quadra, raramente per verticale, su corsi orizzontali e paralleli. I filari hanno un’altezza compresa tra 22 e 34 cm. Lavorazione e finitura: conci ben squadrati e spianati. La finitura degli elementi lapidei, dove conservata, mostra tracce di uno strumento a tranciante rettilineo (ascettino). Giunti e letti di posa: lo spessore di giunti (0,3-1,4 cm) e dei letti di posa (0,3-1,4 cm) è abbastanza regolare ma si riferisce a pochi punti di verifica 2. Cronotipologia delle murature Tipo 1 Paramento in conci di rocce calcare e calcare cavernoso disposti su corsi orizzontali e paralleli, per orizzontale e faccia quadra. Conci di medie e grandi dimensioni, da bene a perfettamente squadrati. Le superfici lapidee sono finite con ascettino. L’altezza dei filari è compresa tra 17 e 35 cm. Lo spessore dei giunti ( 0,2-1,4 cm) e dei letti di posa (0,31,5 cm) è abbastanza sottile e regolare. Appartengono al Tipo i campioni Ch 4, 5, 6,17 e 20 Cronologia: fine XI-inizio XIII secolo Variante A: Simile al Tipo 1, ma realizzato in conci di travertino disposti su corsi perfettamente orizzontali e paralleli. I conci, perfettamente squadrati e spianati, presentano una finitura delle superfici con uso dello scalpello per la resa del nastrino e dell’ascettino per la superficie lapidea. Lo spessore dei giunti (0,3-0,9 cm) e dei letti di posa (0,2-1 cm) è sottile e regolare. Variante attestata dal campione Ch 1 Cronologia: fine XI-metà XIII secolo Variante B: Simile al Tipo 1, ma in conci di medie e medio-piccole dimensioni disposti per orizzontale e, raramente, per faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Variante attestata dal campione Ch 2 Cronologia: fine XI-metà XII secolo Tipo 2 Paramento in bozze di calcare marnoso disposte su corsi generalmente orizzontali e paralleli per faccia quadra e, più raramente, per orizzontale. Bozze di medio-piccole dimensioni, sommariamente spianate a picconcello. Utilizzo di zeppe in scaglie di pietra nei giunti e nei letti di posa. I filari hanno un’altezza compresa tra 12 e 26 cm. Lo spessore dei giunti (0,3-3,7 cm) e dei letti di posa (0,2-3,2 cm) è variabile. Appartengono al Tipo i campioni Ch 13, 14, 15 e 18 Cronologia: fine XII-inizio XIII/inizio XIV secolo Tipo 3 Paramento in bozze di calcare e ciottoli di fiume disposti su corsi suborizzontali e paralleli sdoppiati in prossimità delle angolate. Bozze di medio-piccole dimensioni non spianate. I filari hanno un’altezza compresa tra 14 e 24 cm. lo spessore dei giunti 0,4-1,5) e dei letti di posa (0,32 cm) è irregolare. Appartengono al Tipo i campioni Ch 9 e 16 Cronologia: metà XIII-XIV secolo Variante A: Simile al Tipo 2, ma con frequente utilizzo di zeppe in scaglie di pietra nei giunti e nei letti della muratura e di sporadici laterizi in qualità di elementi verticali. Variante attestata dal campione Ch 8 Cronologia: fine XIII-XIV secolo Tipo 4 Paramento in conci di calcare cavernoso disposti per orizzontale e, più raramente, per faccia quadra su corsi generalmente orizzontali e paralleli. Conci di medie e medio-piccole dimensioni, da sommariamente squadrati a squadrati. Finitura ad ascettino. I filari hanno un’altezza compresa tra 20 e 34 cm. Lo spessore dei giunti (0,3-2,3) e dei letti di posa (0,4-3,5) è variabile. Appartengono al Tipo i campioni Ch 12 e 19 Cronologia: XIII-inizio XIV secolo Tipo 5 Paramento in bozze di travertino compatto disposte per orizzontale e faccia quadra, raramente per verticale, su corsi generalmente orizzontali e paralleli, in alcuni casi sdoppiati. Bozze di medie e piccole dimensioni, sommariamente squadrate e spianate con uno strumento a punta. I filari hanno un’altezza compresa tra 14 e 34 cm. Lo spessore dei giunti (0,3-1,7 cm) e dei letti di posa (0,3-1,8 cm) è abbastanza regolare. Appartengono al Tipo i campioni Ch 3 e 7 Cronologia: metà XIII –XIV secolo Tipo 6 Paramento in pietre spaccate e laterizi, spesso spezzati, disposti su filari irregolari, con periodici filari di orizzontamento ogni 40-70 cm. Notevole riutilizzo di materiale da costruzione. Frequente uso di zeppe in scaglie di pietra e frammenti di laterizi. Lavorazione presente soltanto sulle pietre di reimpiego. Appartengono al Tipo i campioni Ch 10 e 11 Cronologia: XVII- metà XVIII secolo 3. Tecniche costruttive nel territorio di Chiusdino All’interno di uno studio diacronico delle tipologie murarie individuate nel territorio indagato per il periodo compreso tra fine XI secolo e metà XVIII secolo, emergono alcune linee di tendenza riscontrabili sia nell’evoluzione dell’apparecchiatura muraria e nella sua lavorazione sia nella scelta del materiale utilizzato. Il territorio di Chiusdino, geologicamente non omogeneo, è, in linea di massima, caratterizzato nella porzione settentrionale, zona delle ultimi propaggini della Montagnola Senese, dalla presenza di litologie riconducibili a formazioni calcaree (verrucano e calcari cavernosi); la parte centrale del territorio, caratterizzata dalla piana alluvionale del Feccia, è occupata da depositi alluvionali associati a depositi travertinosi. La parte sud-ovest infine, interessata dal sistema di rilievi collinari che costituiscono la base delle Colline Metallifere, presenta formazioni carbonatico-argillose-silicee e rocce calcareoconglomeratiche. In questo contesto l’indagine archeologica ha permesso di constatare come la distribuzione dei materiali sul territorio indichi in genere un utilizzo “locale” del materiale lapideo nel corso dei secoli: l’impiego diffuso di rocce calcaree, impiegate come materiale da costruzione e per la produzione della calce, è collegabile anche alla vicinanza della Montagnola Senese, ricca di cave di calcare cavernoso e di marmo; l’utilizzo del travertino compatto, presente in una porzione limitata di territorio, è attestato nella costruzione di edifici posti nelle immediate vicinanze delle cave, come Villanova, o a breve distanza da queste, come Frosini e l’abbazia di San Galgano. Il rapporto tra disponibilità dei materiali litoidi e loro utilizzazione, basato su condizioni che spesso guidavano la scelta dei costruttori medievali, come la distanza tra la cava e l’edificio, la facilità del percorso e la lavorabilità della pietra, sembra dunque essere confermato anche dal loro raggio di diffusione nel territorio. Gli edifici indagati mostrano un utilizzo quasi esclusivo della pietra come materiale da costruzione per tutto il periodo medievale. Il laterizio, ad eccezione del cantiere dell’abbazia di San Galgano, dotato di fornaci proprie, sembra non essere attestato prima del XIII secolo e limitato ad impieghi particolari quali pavimentazioni, stipiti e volte interne. I laterizi si trovano utilizzati nella costruzione delle aperture a partire dal XV secolo, oppure se usati, interi o spezzati, come zeppe nei giunti e nei letti di posa delle murature sono indicativi di consolidamenti di solito databili tra XVI e XVIII secolo. Rimpelli e rifacimenti in laterizi di murature in pietra sono in genere riferibili anch’essi ad un periodo tardo, non prima della fine del XV secolo. La messa in opera di paramenti realizzati in conci ben squadrati e spianati, disposti su corsi orizzontali e paralleli, mostra, negli edifici indagati, il buon livello tecnico raggiunto, nel periodo compreso tra fine XI secolo e XIII secolo, dalle maestranze operanti nel territorio. In particolare edifici quali la chiesa dei SS. Martino e Iacopo a Chiusdino e la chiesa di S. Michele Arcangelo a Frosini che, ricostruita quasi completamente nel secolo successivo, conserva, nella parte inferiore dell’abside resti della muratura più antica, presentano un’attenzione particolare nella resa delle superfici esterne dei conci. La lavorazione e la finitura degli elementi litoidi, dove conservata, attesta a partire dalla metà del XII secolo, in edifici religiosi quali la pieve di San Michele Arcangelo a Chiusdino e la chiesa di Frosini, l’utilizzo dell’ascettino. Tracce di questo strumento si ritrovano poi in alcuni edifici religiosi romanici del XII e XIII secolo, come le pievi di Luriano e di Pentolina e la chiesa di Papena. Se dunque è possibile datare l’introduzione di questo strumento alla metà del XII secolo, è forse ipotizzabile collegare la sua diffusione all’introduzione di un tipo di paramento che, come abbiamo visto, era particolarmente accurato e, richiedendo una buona finitura delle superfici, necessitava di strumenti di finitura raffinati. L’analisi di strutture abitative datate tra XIII e XIV secolo ci mostra invece un netto cambiamento sia nel tipo di paramento che nel tipo di finitura del materiale da costruzione. E’ possibile osservare, oltre alla tendenza delle maestranze a dedicare una cura maggiore nella realizzazione delle murature destinate alle facciate rispetto a quelle destinate ai prospetti laterali, un’evoluzione nella tecnica edilizia: strumenti a punta, quali la subbia o il picconcello, prendono gradualmente il posto dell’ascettino nella spianatura degli elementi lapidei della muratura. Nel paramento murario l’attenzione si concentra sempre più nella resa degli elementi architettonici; nella lavorazione dei conci, perfettamente squadrati, delle angolate, delle finestre e dei portali, si ritrova l’uso dell’ascettino e, a partire dalla metà del XIII secolo, i primi esempi di lavorazione a martellina dentata. La martellina dentata a punte fini, uno degli strumenti più diffusi nell’architettura medievale europea e, a partire dal XIV secolo, uno degli strumenti di finitura più usati in Toscana, è utilizzata intorno al 1220 nel cantiere dell’abbazia di San Galgano. Questo è probabilmente il primo utilizzo attestato nel territorio di Chiusdino. Presente sporadicamente già nella seconda metà del secolo precedente in Valdelsa, dove il suo impiego è documentato nella pieve di S. Salvatore a Colle e nella chiesa di S. Agnese a Poggio Bonizio, la martellina è, con molta probabilità, stata introdotta nella Toscana centrale dalle maestranze pisane che, utilizzando già da tempo questo strumento, lo portarono, nel corso del XIII secolo, nel contado volterrano e in Valdelsa. Al momento, le uniche attestazioni dell’utilizzo della martellina dentata rintracciate nel territorio di Chuisdino, riferibili alla seconda metà del XIII secolo, appartengono o ad edifici di committenza signorile come quello di Frosini, o a strutture pertinenti l’ordine cistercense, come le grancie di Valloria e Villanuova. Sebbene le attestazioni siano sporadiche, è comunque ipotizzabile, allo stadio attuale delle indagini, che la presenza sul territorio di maestranze specializzate abbia contribuito alla diffusione della martellina già nel corso del XIII secolo. Pertanto, in una fase ancora preliminare della ricerca, un filone d’indagine di particolare interesse potrebbe essere aperto dallo studio dell’influenza e del contributo apportato, nella diffusione di nuove metodologie e nello sviluppo di nuove tecniche, sul territorio circostante da un cantiere che, come quello di San Galgano, vedeva operare maestranze di estrazione monastica probabilmente a fianco di maestranze locali. Nel corso del XIV secolo persiste l’attenzione costante nella resa di tutti quegli elementi architettonici che caratterizzano la destinazione signorile dell’edificio, mentre la muratura, forse coperta da intonaco, presenta una resa sempre meno accurata del paramento, che passa da pietre sommariamente squadrate o solo sbozzate nella seconda metà del Duecento a ciottoli di fiume e materiale il più delle volte non lavorato nel Trecento. E’ questo il caso, ad esempio, delle Palazze, dove l’edificio principale del complesso, una casa-torre signorile, mostra nel “contrasto” tra il paramento murario, costruito con materiali disponibili “in loco”, e le aperture in conci spianati di travertino compatto, il gusto e le esigenze dei committenti. A partire dal XV secolo i laterizi compaiono sempre più frequentemente negli edifici rurali del territorio: le apparecchiature messe in opera con il mattone risultano irregolari, con un vasto ricorso ad elementi spezzati e a materiale lapideo non lavorato che, spesso di reimpiego, è ancora una componente fondamentale nella muratura. Numerosi nuclei rurali di epoca medievale si trasformano, a partire dal XV-XVI secolo, in strutture a conduzione mezzadrile che, caratterizzate da un insieme di annessi e corpi di fabbrica addossati all’abitazione principale, mostrano murature irregolari con angolate sempre ben definite e risolte in conci ben squadrati. In generale, la tendenza all’impiego di materiale eterogeneo è attestata, in numerosi edifici rurali presenti nel territorio, fino almeno alla metà del XVIII secolo. Murature in laterizio sono inoltre caratteristiche di tutta una serie di interventi di restauro che interessarono, a partire dal XVI secolo, numerosi edifici religiosi romanici, come nel caso della chiesa di SS. Iacopo e Miniato a Chiusdino. A questo proposito è interessante notare come i restauri condotti in altre chiese romaniche nel XIX secolo, in sintonia con il rinnovato interesse per il periodo medievale, siano invece caratterizzati da un utilizzo esclusivo della pietra. La pieve di Pentolina, ad esempio, mostra nella parte superiore della facciata, una muratura in conci ben squadrati e spianati, frutto di un restauro della seconda metà del XIX secolo. Improntati all’imitazione delle strutture romaniche, questi restauri si sono spinti a volte fino all’utilizzo degli stessi strumenti che, come l’ascettino, erano utilizzati per la finitura delle superfici nelle costruzioni del XII-XIII secolo. Marie Ange Causarano Appendice L’ABBAZIA DI SAN GALGANO E SIENA. Per una storia dei rapporti tra i Cistercensi e le città (1256-1320) 1. Premessa Il rapporto fra ideali e realtà della vita quotidiana dei monasteri cistercensi, che rappresenta uno dei filoni più interessanti degli studi cistercensi è stato recentemente oggetto di approfondite ricerche. In questa sede saranno analizzati un aspetto e un particolare periodo della complessa vicenda dell’abbazia di San Galgano in Val di Merse, quello dei suoi rapporti con la città di Siena e le sue istituzioni nel momento di maggiore intensità e vitalità. Le origini dell’abbazia di San Galgano si intrecciano con le vicende della comunità eremitica sorta in Val di Merse, nella diocesi di Volterra, intorno alla figura di Galgano Guidotti, nato intorno al 1147 a Chiusdino e morto nel 1181. La comunità cistercense delle origini – inserita tra 1181 e 1184 nel contesto dell’alta Val di Merse per volontà del vescovo volterrano, che curò e nutrì adeguatamente la reputazione di Galgano – utilizzò con ogni probabilità un culto e il luogo a esso deputato per dar luogo a una grande fondazione monastica e per giustificare e rafforzare le ragioni della propria esistenza in quel contesto. Tuttavia, le motivazioni dell’insediamento cistercense rimangono in buona parte da studiare: si è sostenuto che l’inserimento dell’Ordine nell’area senese-volterrana agisse da elemento di pacificazione e di equilibrio in quella turbolenta zona, dominata da conflitti interni alla feudalità locale e tra questa e l’episcopato volterrano. Alle motivazioni politiche si accompagnano ipotesi di altro tipo: è testimoniata la presenza di una ferriera – acquistata assieme a una gualchiera e a un mulino –, presso la Merse, in prossimità dell’abbazia, nel 1278. Di questo complesso abbiamo testimonianze archeologiche nelle scorie di ferro rilevate nell’area circostante il monastero: è possibile che i monaci avessero intravisto la possibilità di impiantare attività metallurgiche nella zona. Per dare un riscontro a quest’ipotesi attendiamo i risultati degli scavi archeologici in corso. Fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo apparve evidente l’inarrestabile crisi dell’episcopato volterrano, che ne determinò la perdita di ruolo economico e istituzionale all’interno della complessa situazione dell’alta Val di Merse e della zona mineraria, da tempo oggetto di contesa tra le maggiori forze politiche ed economiche della regione e contemporaneamente l’altrettanto forte ascesa della potenza di Siena; l’ampliamento territoriale di quest’ultima interessò aree molto distanti tra loro, non incluse nel suo dominio in età longobardocarolingia. Ai suoi primordi, l’istituzione cistercense di San Galgano si mosse dunque tra i due referenti senese e volterrano. Nell’ultimo ventennio del XII secolo, la piccola comunità si trovò in un contesto ancora largamente dominato dalle figure dei vescovi di Volterra, i Pannocchieschi: l’abbazia di San Galgano, nei suoi primi anni di vita, fu in larga parte debitrice all’aiuto di Ildebrando e Pagano, che assicurarono al monastero protezione, privilegi e proprietà. Nel 1215, con l’atto di sottomissione di Chiusdino al Comune di Siena fu sancita la supremazia di quest’ultimo sulla zona in cui sorgeva l’abbazia. Tuttavia, il legame tra Volterra e San Galgano non venne mai interrotto: anche negli anni successivi al 1215 vi sono testimonianze di incarichi e servizi prestati dal monastero al vescovo con evidente vantaggio per l’abbazia. Questa, a sua volta, rimase pur sempre proprietaria di terre e immobili e destinataria di donazioni e testamenti in molte comunità della diocesi volterrana. San Galgano, si trovava in un territorio di confine tra due potenze e alla fine orientò larga parte delle sue energie verso il Comune di Siena, che offriva spazi e prospettive di sviluppo ai depositari della tradizione cistercense. Se dal 1181 al 1215 – periodo della formazione del primo nucleo monastico – l’abbazia ruotava ancora nell’orbita del vescovo volterrano e sullo sfondo compariva la nascente potenza senese, negli anni dal 1215 al 1250 la tendenza si inverte.Si assiste a un progressivo avvicinamento di San Galgano a Siena, attraverso una programmata strategia di investimenti immobiliari e si scorgono segnali di favore e relazioni d’affari tra l’abbazia e privati cittadini ed enti religiosi senesi. Il crescente favore nei confronti di Cistercensi culmina nel “periodo d’oro” (dal 1250 al 1290) segnato da numerosi incarichi pubblici ricoperti dai monaci per conto del Comune e dell’Opera del Duomo. In questa fase il volume di affari con i senesi aumenta vistosamente. L’anno 1290 vede l’acquisizione del patronato del Comune di Siena sul monastero. Da quel momento in poi, fino al 1320 si assiste a una stabilizzazione del rapporto dei monaci con la città e al definitivo inserimento di San Galgano tra le maggiori istituzioni del territorio senese. È un periodo ancora contrassegnato da grande ricchezza e potenza dei Cistercensi, con le prime avvisaglie di crisi sullo sfondo. Di questi intensi anni dal 1250 al 1320 ci occuperemo nelle pagine seguenti. 2. I Cistercensi camarlenghi del Comune di Siena A metà del XIII secolo i Cistercensi di San Galgano risultavano dunque stabilmente insediati all’interno a Siena, dove erano giunti per gradi qualche decennio prima, mentre la città stava vivendo un’epoca di pieno fermento economico e sociale caratterizzata da una forte espansione demografica e territoriale. Negli anni in cui i monaci strinsero relazioni con l’amministrazione comunale, ricoprirono la carica di camerlenghi dell’ufficio finanziario della Biccherna, dal 1257 al 1262; nello stesso periodo divennero operai dell’Opera del Duomo. La presenza dei Cistercensi nell’amministrazione finanziaria senese era garanzia di trasparenza e di onestà, ma il conferimento di incarichi pubblici rifletteva anche la fiducia delle autorità nelle competenze dei monaci come revisori dei conti e amministratori. A sua volta il monastero trasse beneficio dall’attiva collaborazione con il Comune di Siena in termini di protezione esercitata da quest’ultimo sull’ente e i suoi beni e mediante sgravi fiscali su pedaggi e dogane. Nel novembre del 1256, il Consiglio Generale – su richiesta del podestà Uberto de Mandello – deliberò di mettere don Ugo, monaco di San Galgano e futuro camarlengo del Comune di Siena, in condizione di spendere a sua discrezione il denaro del Comune per sei mesi e di abitare presso la chiesa di San Pellegrino, oppure di scegliere per sé e un suo accompagnatore una sistemazione di suo gradimento. Don Ugo – proveniente forse dalla famiglia senese degli Ugurgieri – era già stato uomo di fiducia del Comune in alcuni investimenti immobiliari eseguiti nei mesi precedenti per conto del Comune di Siena a Monticchiello. Cionostante, don Ugo, pur avendo ottenuto dal monastero il consenso per accettare cariche comunali per l’anno 1257, si rifiutò di giurare perché, a suo dire, la Regola non glielo permetteva. Dopo l’intervento del priore che, in nome dell’obbedienza dovuta a un superiore, gli impose di ricoprire l’ufficio di camarlengo in conformità con gli Statuti senesi, don Ugo accettò il suo nuovo ruolo “virtute Spiritus Sancti et obedientiae”. L’episodio è di cruciale importanza: in questo caso il Comune richiedeva esplicitamente i servigi di un monaco e non di un converso – cui era istituzionalmente legata la funzione di intrattenere rapporti con il mondo esterno al monastero – senza che si dovesse derogare alla Regola. Non sappiamo perché la scelta delle autorità ricadde proprio su don Ugo: forse egli era in quel momento il massimo esperto in materia finanziaria, e perciò la sua presenza era considerata necessaria. Altrimenti non si spiega il fatto che invece per l’Opera del Duomo ci si appoggiò alla collaborazione dei conversi per gestire un’impresa di responsabilità di livello tecnico-amministrativo non inferiore, anche se politicamente meno elevato. In altre parole, la scelta del monaco rispetto al converso non sembra legata a una gerarchia di mansioni, quanto piuttosto a una diversità di competenze all’interno della stessa comunità monastica. Di fatto si pose una questione di principio molto forte: da un lato il rispetto per la Regola, dall’altro l’obbligo di rendere un servizio al Comune, protettore del monastero. L’abate risolse il problema richiamando il monaco Ugo all’obbedienza nei confronti di un suo superiore, come previsto nei voti dell’Ordine stesso. Ma che tipo di obbligo legava il monastero di San Galgano al Comune di Siena, perché si ammettesse una così vistosa eccezione alla Regola? La risposta potrebbe stare in una serie di favori concessi dal Comune all’Ordine relativamente alla protezione del monastero e dei suoi beni e allo sgravio fiscale su merci e prodotti dell’abbazia circolanti sul suo territorio senese. Già dal 1230 infatti papa Gregorio IX supplicava i podestà senesi di imporre a Ugolino Gualingi e ad altri abitanti di Campagnatico di mettere fine alle vessazioni perpetrate ai danni delle proprietà di San Galgano. Nel 1262, i Pannocchieschi, signori di Ravi, Lattaia e Monteleone, nell’atto di sottomettersi al Comune di Siena, s’impegnarono affinché “homines dictarum terrarum non debeant nec teneantur facere exercitum per comune a monasterio Sancti Galgani citra”. Nel 1270 il Comune, che doveva assegnare 55 soldati ai Pannocchieschi, li obbligò a non danneggiare la “Domus Sancti Galgani” né i suoi beni. Nel Costituto del 1262, già dalla prima distinzione si affermava che il Comune, a sue spese, doveva farsi carico di proteggere il monastero, la sua filiazione femminile di Montecellesi e le loro proprietà da chiunque tentasse di danneggiarle. Questa disposizione continuò a rimanere in vigore per i decenni seguenti negli statuti successivi fino al Costituto del 1309-10, che riportava la stessa norma evidenziando le ragioni per le quali il monastero era in pericolo: “Anco, con ciò sia cosa che lo monistero di Sancto Galgano sia fatto in tali parti, che per le guerre et per li malefattori, e’ quali in quelle parti dimorano et molto spessamente sostengano et patiscano molti e grandi gravamenti e danni”. D’altra parte in questo periodo si registrarono effettivamente episodi di violenza nei confronti di San Galgano: nel 1288 il monaco don Iacobo fece pace con Bindo di Lotterengo detto Biscazza e con i suoi compagni per alcune vessazioni commesse ai danni del monastero, in particolare per le violenze contro alcuni dei confratelli. Un caso particolare riguardava la grangia di Colle Sabatini, in Maremma. Infatti, nel febbraio del 1277, il Consiglio Generale, su petizione dell’abate di San Galgano, decise che fosse chiesto al figlio di Gherardo da Cotone di cessare le scorrerie e le ruberie ai danni della grangia e delle relative proprietà, appartenenti al monastero. Non conosciamo l’esito della richiesta, ma due anni dopo San Galgano, a causa dei debiti contratti con il Comune di Siena, cedette a quest’ultimo per 1.000 lire 2/3 della grangia, con l’obbligo di fortificarla e di amministrarla. Per quanto riguarda la circolazione di prodotti agricoli e i relativi sgravi, nel 1246, papa Innocenzo IV offrì al monastero la possibilità di non pagare alle autorità senesi pedaggi su granaglie, vino, lana e altre merci. Nel 1249, il Consiglio Generale – su proposta del podestà Bernardino da Faenza – consentì il trasporto di viveri – fino a 25 moggia di frumento – al monastero di San Galgano. Nel 1260 papa Alessandro IV emise una bolla con la quale supplicava il Comune di autorizzare i monaci di San Galgano a trasportare liberamente per il territorio senese frumento, legumi, sale e altri viveri dalle loro proprietà dislocate su tutta la giurisdizione comunale, nonostante le diverse prescrizioni statutarie. La supplica fu prontamente accolta nel Costituto del 1262. Nel 1277, il Consiglio Generale permise all’abate di San Galgano di far trasportare frumento e granaglie dal podere di Isola e dai mulini di Abbadia Ardenga al monastero, purché i carichi fossero ben riconoscibili. Nel 1282, i Quindici concedettero a San Galgano una scorta armata del Comune per difendere un carico di grano proveniente dalla grangia di Sant’Andrea e dal mulino a Istia d’Ombrone in Maremma, fino all’abbazia. Il trasporto di prodotti agricoli su un territorio vasto come quello senese, sul quale le proprietà di San Galgano erano assai diffuse era un problema cruciale. Il Comune contribuì a risolverlo e ciò costituì per l’ente religioso una sorta di obbligo a ricambiarne i favori. Un ulteriore esempio di benevolenza delle autorità senesi verso l’abbazia si ha nel 1276, quando papa Giovanni XXI impose alle capitudini dell’Arte della Lana di Siena di non molestare monaci e conversi di San Galgano che fabbricavano una certa quantità di panni di lana in una loro dimora urbana, per l’autosufficienza del monastero, senza che ciò pregiudicasse la produzione laniera cittadina. La questione degli incarichi pubblici ai monaci non si esaurì però nell’anno 1257, ma si ripropose periodicamente, anche se per ragioni diverse da quelle iniziali. Nel dicembre del 1280, allo scadere del mandato di don Guido, il Consiglio Generale, in seguito ad alcune lettere ricevute dall’abate del monastero, decise di inviare ambasciatori all’abbazia affinché venisse mandato un monaco a ricoprire il ruolo di camarlengo del Comune. La trattativa non ebbe esito positivo e il Comune dovette rassegnarsi a eleggere un camarlengo al di fuori dell’Ordine, nonostante che le disposizioni statutarie prevedessero esplicitamente che questo fosse un cistercense. Dopo il 1280 i monaci di San Galgano non ricoprirono la carica fino al 1283; da quella data in poi la collaborazione proseguì con una certa regolarità fino al 1375, con l’alternanza dei monaci bianchi a membri di altri Ordini. La Biccherna, la principale magistratura finanziaria senese, era retta da Quattro Provveditori e da un camerario, che restavano in carica per un semestre a partire dal gennaio e dal luglio di ogni anno. In qualità di camarlenghi, i Cistercensi avevano dunque essenzialmente un ruolo di amministrazione delle finanze comunali. Alla fine degli anni ’80 del XIII secolo, viste le esperienze positive al servizio della Biccherna, si procedette alla nomina di un camarlengo di San Galgano anche per la Gabella, in alternanza a un frate degli Umiliati. Il camarlengo aveva innanzitutto il compito di effettuare i pagamenti per conto del Comune con il consenso degli altri provveditori, mentre era di esclusiva competenza dei provveditori il ricevimento degli introiti, che poi erano girati al camarlengo. Questi era coadiuvato da notai e scrivani, come vediamo dai libri di Biccherna e dagli atti consiliari, che sono molteplici e offrono un quadro assai dettagliato della vita della città. Al solo camarlengo spettava il compito di erogare il denaro e di svolgere talvolta affari per conto del Comune. Il camarlengo contraeva anche mutui e ne riceveva le quietanze, inoltre si occupava di vendite di immobili per conto del Comune, gestiva gli affitti di beni demaniali e dava l’autorizzazione a trascrivere nei Caleffi del Comune alcuni atti pubblici di particolare rilevanza politica. Sembra che proprio don Ugo – raffigurato sulla più antica tavoletta di copertura a noi pervenuta, quella del volume del secondo semestre del 1258 – abbia introdotto l’uso di far dipingere le coperture lignee dei libri di entrata e uscita del Comune di Siena, le cosiddette “Biccherne”, che nel corso degli anni furono decorate dai più importanti artisti cittadini. Di notevole rilevanza, oltre al ruolo amministrativo, è quello politico dei Cistercensi all’interno del Comune. Nel febbraio del 1260, il monaco Guidotto, camarlengo della Biccherna, presiedette le sedute del Consiglio Generale unitamente al capitano del Popolo, in assenza del podestà e in qualità di suo vicario, di solito insieme a uno dei giudici del podestà stesso. Infatti, nel marzo seguente il monaco fu ufficialmente investito dal maggior consesso cittadino di tutti i poteri spettanti al podestà; don Guidotto condusse a tutti gli effetti la seduta, divenendo, sia pur temporaneamente, la massima autorità dell’esecutivo senese con il potere di convocare e presiedere la pubblica assemblea, redigendone l’ordine del giorno e moderandone il dibattito. Lo stesso fatto accadde anche circa trent’anni dopo quella prima esperienza, nel giugno del 1289, quando don Bartolomeo sostituì il podestà assente per impegni militari, come si stabilì nel corso della seduta. Il problema della scelta del vicario del podestà si ripresentò anche qualche mese dopo, quando don Bartolomeo guidò ancora il Consiglio Generale. Con l’avvento del regime novesco questo fenomeno, tuttavia, si ridimensionò. Da rimarcare inoltre il ruolo diplomatico dei camarlenghi cistercens in qualità di mediatori in questioni pubbliche e private. Del resto i monaci di San Galgano avevano preso parte negli anni precedenti – anche se non da camarlenghi – a numerose missioni diplomatiche per conto del Comune, avevano testimoniato in molti atti di cruciale importanza per la vita politica cittadina ed erano stati arbitri in contese pubbliche e private. I Cistercensi si misero al servizio del Comune, indipendentemente dalle parti al potere: introdotti nei ruoli amministrativi negli anni d’oro del ghibellinismo, continuarono ad adattarsi alle esigenze dell’esecutivo anche sotto i governi guelfi. Ancora, intorno al 1280 i monaci bianchi, insieme ai rappresentanti dei maggiori ordini religiosi della città di Siena, continuavano a partecipare, in qualità di testimoni o arbitri, a trattative di vario genere tra enti pubblici e privati cittadini. E il caso senese non è isolato nel panorama del monachesimo cistercense italiano delle’epoca. 3. I Cistercensi e l’Opera del Duomo L’istituzione dell’Opera di Santa Maria di Siena risale all’epoca del governo consolare della città, ed è menzionata per la prima volta nel 1196. La sua funzione consisteva nell’amministrare le entrate e le uscite per la costruzione della cattedrale di Siena e di organizzare e controllare i lavori mediante operai scelti dal Comune fra i cittadini senesi (originariamente tre, poi uno). Gli operai erano inoltre preposti alla raccolta e all’amministrazione dei fondi erogati dal Comune e di tutti i proventi dell’Opera e a fornire periodici rendiconti al Consiglio Generale. Dal Costituto del 1262 si apprende che la nomina degli operai doveva essere effettuata dal Comune, principale finanziatore dell’impresa. In origine la scelta cadeva tra i membri del Capitolo della cattedrale; nel 1226 ve ne era stato uno esterno, qualche volta invece, gli operai erano due e, dopo il 1258, si ridussero a uno solo e da allora i laici lasciarono il posto ai religiosi. L’operaio era affiancato da consiglieri laici e religiosi, a simboleggiare la duplice autorità civile ed ecclesiastica da cui egli dipendeva. Anche l’episcopato senese, infatti, partecipava all’impresa della cattedrale, fulcro della vita religiosa cittadina, sebbene il Comune si riservasse l’ultima parola, sia in materia amministrativa, sia nell’àmbito della costruzione e della decorazione dell’edificio. Il ruolo del vescovo era essenzialmente quello di attirare mezzi finanziari per il fabbisogno dell’Opera del Duomo, tramite i proventi derivanti dalle indulgenze pagate dai fedeli, i lasciti, le donazioni, le elemosine, il tributo di cera offerto per la festa dell’Assunta, riducendo così l’onere comunale nella fornitura della calce e nei finanziamenti di opere straordinarie. La contabilità dell’Opera era tuttavia tenuta dalla Biccherna, che effettuava anche i pagamenti, come dimostrano i relativi registri a partire dal 1226.Si trattava quindi di una struttura amministrativa con basi laiche, fondata sul sistema legale e amministrativo del Comune: la figura dell’operaio era la sintesi della collaborazione tra autorità civile e religiosa. Fino al 1258, la libertà d’azione dell’operaio era ancora abbastanza limitata: difficilmente, però, egli poteva prendere decisioni senza il consenso del vescovo e del Comune. Nel 1258 la responsabilità finanziaria e tecnica passò a frate Vernaccio di San Galgano, il quale tra la data dell’insediamento e il 1259 ricevette l’autorizzazione a trattare debiti, legati e ogni altro affare, sia dal vescovo sia dal Consiglio Generale. Anche il già menzionato frate Melano nel gennaio del 1260 ottenne la stessa procura del suo predecessore dai canonici della cattedrale, in rappresentanza del vescovo. Nel 1271 il Comune, nelle persone del podestà e dei provveditori della Biccherna, nominò operaio frate Melano per sovrintendere ai lavori della cattedrale e all’amministrazione finanziaria dell’impresa. Le modalità secondo le quali si dovevano svolgere i lavori dell’Opera, frutto di una lunga elaborazione, vennero fissate nel Costituto del 1262, che già dalla prima distinzione si occupava della materia. Le misure di controllo sull’efficienza, la sicurezza e la funzionalità della struttura tecnico-amministrativa che dirigeva la costruzione del Duomo dovevano garantire un corretto svolgimento dei lavori. Già dal febbraio del 1260, infatti, il Consiglio Generale nominava nove uomini (tre per ogni Terzo cittadino) che provvedessero a controllare l’andamento dei lavori. Nel Costituto era previsto che l’operaio – o gli operai –, fosse obbligato a giurare di consegnare tutti i proventi dell’Opera a tre “legales homines de penitentia”, che il vescovo eleggeva in accordo con i Ventiquattro e con i consoli della Mercanzia. L’operaio doveva anche giurare che si spendessero 10 lire “pro amanamento et facto Operis”, su ordine del vescovo e del podestà, i quali a loro volta ordinavano le murature. Inoltre, “qui acquirunt”, per l’Opera, dovevano giurare che qualsiasi provento sarebbe stato consegnato di settimana in settimana nelle mani dei responsabili dell’impresa. Il Costituto prevedeva anche che l’Opera facesse costruire, a proprie spese, in un luogo idoneo della cattedrale una cappella in onore della Vergine Maria, se i consoli della Mercanzia e i provveditori di Biccherna ne fossero stati richiesti dal vescovo. Dal 1258 in poi, i Cistercensi furono costantemente scelti come operai della cattedrale di Siena, ma non si trattò di un fenomeno solo senese. Tra XII e XIII secolo il rapporto tra i Cistercensi e le città si configura come un momento particolare in una larga presa di contatto tra l’Ordine e le contemporanee istituzioni sociali e politiche. I monaci uscirono dalle abbazie, si fecero uomini di Stato e impiegarono anche tutta la loro abilità di costruttori facendosi collaboratori e maestri di edilizia in edifici non destinati a loro. Alla base dell’azione rinnovatrice in campo architettonico non vi furono influssi di un’architettura di una regione più progredita in questo settore su regioni più arretrate; ai fenomeni di influsso cistercense corrispondevano precise realtà sociali, politiche ed economiche, in grado di condizionare le forme e i modi in cui quest’influsso si esplicò. Alla base di tutto ciò fu l’uso degli stessi cantieri da parte della committenza civica: i nuovi strati sociali emergenti e connessi alle vicende comunali utilizzano per le loro esigenze i cantieri-scuola delle grange monastiche. Verso la fine del XIII secolo si assisté a un declino dell’architettura cistercense vera e propria a fronte di un’ascesa della ricca serie di costruzioni non cistercensi edificate e progettate da maestranze dell’Ordine, che agirono anche da guida in campo edilizio. Molti sono gli esempi, in Italia e fuori, per interi centri o per singoli monumenti, in cui appare chiaro il ruolo rivoluzionario e decisivo dei monaci bianchi, in qualità di maestranze all’avanguardia, molto richieste dalla committenza laica. Nell’Opera della cattedrale di Siena, i Cistercensi, che nel 1224 avevano ultimato il complesso abbaziale di San Galgano, approdarono in una fase di grande fervore dei lavori. Vennero chiamati a dirigere la fabbrica nel momento decisivo, dandole un nuovo impulso, in armonia con le indicazioni della committenza civica. Tra il 1257 e il 1313 infatti furono realizzati l’ampliamento dello spazio contiguo al Duomo, la copertura della cupola e vennero scolpiti il pulpito e gli stalli del coro. Dell’ambizioso progetto di apertura di un’area intorno alla cattedrale si hanno riflessi normativi nel Costituto del 1262: il Consiglio generale infatti deliberò “de facienda platea”, cioè uno spazio ottenuto mediante l’allargamento di quello esistente, con l’abbattimento delle case e degli edifici da espropriare “circa Operam Sancte Marie ex parte posteriori”. In realtà, la strategia dell’acquisizione di immobili contigui alla fabbrica del Duomo era stata già intrapresa qualche anno prima e i Cistercensi operai avevano preso parte alle trattative e all’acquisto degli edifici; l’ampliamento degli spazi intorno al Duomo mise l’Opera anche in contenzioso con privati, proprietari degli immobili.Gli acquisti di immobili nei pressi del Duomo continuarono ancora nei decenni seguenti. Nel frattempo, però, il consiglio dei Quindici del Comune di Siena, nel gennaio del 1285, aveva deliberato che l’operaio frate Masio, insieme ai consoli della Mercanzia e ai suoi tre consiglieri nell’Opera, prendesse accordi con il vescovo per i lavori da eseguire davanti alla cattedrale, di comune accordo tra le due istituzioni. Non è chiaro, tuttavia, se si trattasse di quelli della facciata o di quelli delle scale di pietra sul sagrato del Duomo, commissionate dai nove rappresentanti del Comune proprio all’inizio del 1260; comunque sia, i lavori della facciata furono intrapresi già in quegli anni, a opera di Giovanni Pisano, che ottenne dal Comune di Siena la cittadinanza e l’“immunità”. I Cistercensi, in qualità di operai, avevano una precisa funzione nella selezione delle maestranze e degli artisti da tenere a disposizione dell’impresa della cattedrale. La loro competenza tecnica e i contatti che essi intrattenevano con ambienti culturali esterni a Siena li rendevano idonei per questo compito. Anche il Costituto del 1262 autorizzava il Comune – su richiesta dei Domini Opere – a dare all’Opera fino a dieci maestri per un anno. Questi dovevano giurare fedeltà all’Opera e promettere di lavorare “sine fraude, sicuti in proprio suo”, assiduamente e senza interruzioni, in ogni stagione, e di sottoporre i lavoranti (manovali, carpentieri ecc.) al gradimento del podestà; sul lavoro di tutti doveva vigilare l’operaio. Se i patti non venivano rispettati, l’operaio poteva deferire i maestri alla Biccherna. Nei primi anni di collaborazione con l’Opera di Santa Maria, l’operaio, nella persona di frate Vernaccio, incaricò maestro Mannello del fu Ranieri di intagliare i sedili del coro. Dal 1260 circa si ebbe una svolta nell’evoluzione della forma della cattedrale: da quel momento in poi sembra infatti che, optando per una copertura voltata, si fosse abbandonato il progetto – iniziato nel 1226 – di un edificio coperto a tetto. Questa decisione appare concomitante alla nomina dei monaci di San Galgano a operai. E se non è testimoniata un’influenza diretta del collegio dei nove consiglieri sulle scelte degli operai, la cooptazione dei Cistercensi – di provata abilità nel progettare e costruire speciali forme di copertura – fa pensare a una coincidenza di vedute sulla forma architettonica che la nuova cattedrale doveva assumere. Nel febbraio del 1260, infatti, la commissione dei nove cittadini a ciò preposti, incaricò frate Melano di far costruire una volta tra le ultime due colonne marmoree, affinché queste fossero più vicine al muro, dalla parte retrostante la cattedrale stessa e la volta doveva arrivare fino al muro suddetto. Era inoltre necessario aprire una porta dalla parte di San Desiderio – sul lato destro guardando la facciata – più elevata e ampliata rispetto a quella allora esistente. Il che significa che doveva essere stata già coperta tutta l’area retrostante la cupola fino alla muraglia nord, che forse era ancora quella della vecchia chiesa; inoltre, si stabiliva l’allargamento e l’aumento in altezza della porta posteriore dalla parte di San Desiderio, nell’attuale via Monna Agnese, e l’aggiunta di scalini. Il progetto era già stato probabilmente abbandonato nel maggio di quell’anno, se gli stessi nove rappresentanti chiedevano a frate Melano di far eseguire due serie di tre volte simili a quella già costruita, una delle quali dalla parte dell’altare di San Bartolomeo. Forse si trattava delle volte delle navate laterali del corpo anteriore. Tuttavia, emergevano dubbi sulla stabilità delle volte appena costruite, in cima alle quali nel frattempo si erano prodotte delle crepe. Infatti, pochi giorni dopo, fu dato un parere in tal senso a frate Melano da parte di alcuni maestri della fabbrica del Duomo, e da altri esterni, incaricati di verificare la stabilità delle volte stesse. Essi conclusero però che quelle “scissure” non si sarebbero ulteriormente allargate e che alle volte già costruite si potevano congiungere quelle ancora da costruire. Sembra dunque che la prima parte della cattedrale a essere ricostruita – tra 1259 e 1260 – sia stata quella della cupola, che all’epoca ne divenne il motivo dominante e che risultò ultimata pochi anni dopo. Infatti, agli inizi del 1263, frate Melano, insieme ad altri procuratori dell’Opera, contrassero un mutuo di 260 lire, destinate all’acquisto del piombo necessario “ad coperiendum metam eiusdem Operis”. Un altro prestito di oltre 578 lire, contratto per la fattura dell’“opus plumbei mete Maioris Ecclesie”, fu restituito da Melano al procuratore dell’arcidiacono Lorenzo. La palla ricoperta di piombo – eseguita da Rosso Padellaio fonditore –, è tutt’ora visibile al vertice della cupola. Da tutto ciò si deduce che erano i nove rappresentanti della città a formulare le decisioni che l’operaio doveva far eseguire, chiedendo anche pareri tecnici ai maestri che utilizzavano i lavoratori. In quegli anni di grande fermento prese vita anche il progetto di dotare il Duomo di Siena di un pulpito scolpito. Frate Melano aveva sicuramente ammirato il pergamo eseguito da Nicola Pisano e dal figlio Giovanni nel 1260 per il battistero di Pisa e forse era stato invogliato a crearne uno simile per il Duomo senese, ancora più grande e ricco. Melano si recò a Pisa nel settembre del 1265 per stipulare direttamente il contratto con cui affidava il lavoro a Nicola Pisano “magister lapidum”, il quale gli promise di fornire entro il 1° novembre successivo una quantità di blocchi di marmo da Carrara, specificandone la qualità, le dimensioni e la funzione, per il prezzo complessivo di 65 lire pisane, pagabili in due rate. Nicola si impegnava anche a venire a Siena a lavorare le pietre per il pulpito e a soggiornarvi senza muoversi – se non per brevi periodi, connessi alle necessità della cattedrale e del battistero pisano – a partire dal marzo del 1266, data d’inizio dei lavori. Egli era inoltre tenuto a condurre con sé i propri allievi e collaboratori Arnolfo di Cambio, Donato e Lapo nonché suo figlio Giovanni, al cui vitto, alloggio e salario si doveva provvedere per tutta la durata dell’incarico, mantenendo gli artisti esenti da qualsiasi altra prestazione nei confronti del Comune di Siena. In realtà, Donato, Lapo e un certo Goro continuarono a lavorare nella cattedrale anche dopo la conclusione del pulpito e, nel 1272, ottennero la cittadinanza senese. Fu ancora frate Melano a sostenere e motivare la richiesta davanti al Consiglio Generale affermando che, in assenza di abili maestri di intaglio a Siena, la loro presenza in città era di utilità per l’Opera. I patti tra Opera e maestri erano molto minuziosi e severi gli impegni reciproci, ma la prima trasgressione degli accordi si ebbe da parte di Arnolfo di Cambio, che non risultava presente all’inizio dei lavori; infatti nel maggio del 1266, Melano impose a Nicola di farlo venire a Siena, mentre Nicola lavorò assiduamente al pulpito per quasi tre anni, dal marzo del 1266 al novembre 1268. Il primo pagamento per il lavoro avvenne solo nel luglio del 1267 e fu fatto pervenire a Nicola a Pisa mediante due mercanti senesi, Ginattagio e Guccio; questa somma comprendeva anche il compenso per la fattura di quattro leoni e sette basi di marmo, su cui dovevano poggiare le colonne, che nel frattempo gli erano state commissionate. Esiste anche la registrazione degli altri pagamenti effettuati da Melano in favore di Nicola e della sua équipe tra il 1267 e il novembre del 1268, quando presumibilmente l’opera era ormai conclusa. In questo caso appare evidente il ruolo amministrativo-contabile e tecnico-artistico che Melano ricopriva nelle diverse fasi della committenza e della direzione dei lavori del pulpito. Notazioni tecniche così dettagliate non possono non indurre a pensare che Melano agisse con una cognizione di causa tale da poter agevolmente criticare i lavori e trattare senza problemi con gli artisti da lui stesso incaricati dello svolgimento di un’opera tanto prestigiosa. Infatti, non è da sottovalutare proprio quest’aspetto di selezione degli artisti, che Melano operò negli ambienti culturalmente più all’avanguardia del suo tempo, come quello pisano della cerchia di Nicola. Inoltre, è da rimarcare il fatto che sia Nicola che Arnolfo di Cambio avevano già avuto separatamente contatti con la cultura artistica d’Oltralpe e più specificamente con quella cistercense, da cui tuttavia entrambi avevano poi maturato una certa indipendenza stilistica, elaborando forme nuove e autonome. Arnolfo, nato a Colle verso il 1240, aveva avuto una prima educazione artistica e tecnica nell’ambiente dei monaci di San Galgano, agendo successivamente da mediatore in Siena dell’arte goticocistercense. Anche Nicola, originario dell’Italia del sud, ebbe probabilmente contatti con l’ambiente dei Cistercensi ancora prima di entrare in relazione con Arnolfo. Più complicato è il problema dell’impronta dei Cistercensi sul cantiere della cattedrale, e niente affatto studiato. Sembra infatti innegabile che la ripresa in grande stile dei lavori e delle opere artistiche del Duomo sia avvenuto in coincidenza con l’avvicendarsi di operai provenienti da San Galgano con laici o anche religiosi ma non cistercensi. È lecito chiedersi se si trattò della spinta innovativa che derivò dall’organizzazione amministrativa e del lavoro da parte dei conversi?operai – i maggiori esperti del settore – chiamati dal Comune ad assumere le responsabilità negli anni dell’emergenza, oppure, fu una forte volontà politica a utilizzare e indirizzare le competenze dei monaci bianchi verso opere di alto livello civico e religioso. Probabilmente questi due aspetti coesistettero e si intrecciarono. Infatti il Comune desiderava, in accordo con l’autorità religiosa, manifestare la propria crescente potenza e il proprio interesse per l’aspetto della città con una cattedrale di grandi dimensioni e di straordinaria ricchezza. L’autorità civica era disposta a ingaggiare il fior fiore dei tecnici nel settore dell’edilizia e dell’amministrazione per dotare l’impresa-cattedrale di qualificati direttori dei lavori. La comunità senese, con i suoi funzionari si riservava il ruolo di indirizzo e controllo sui progetti delegandone l’aspetto esecutivo all’operaio. Questi, a sua volta – nel momento in cui la carica fu ricoperta dai cistercensi di San Galgano – apportò tutto il suo bagaglio culturale, agendo da catalizzatore di energie vitali nel settore delle arti e dell’edilizia e sfruttando al meglio le risorse offerte dalla cittadinanza. Non sembra un caso che dal 1258 la funzione dell’operaio fu svolta da un solo converso, a fronte dei due o più uomini che avevano fino ad allora ricoperto l’incarico: il cistercense divenne allo stesso tempo direttore dei lavori e amministratore di risorse umane e materiali, il che comportò un notevole impulso per l’intera ‘macchina’ della cattedrale. Purtroppo però questo quadro, è destinato a rimanere lacunoso, a causa della scarsezza di documentazione, in quanto mancano le possibilità di raffronto, con l’epoca precedente, specie con la prima metà del ’200, epoca d’inizio dei lavori della cattedrale. 4. I Cistercensi amministratori dell’Opera La gestione delle risorse dell’Opera presenta aspetti molto diversificati. Molteplici infatti sono le operazioni che i Cistercensi furono chiamati a svolgere in qualità di operai: la figura dell’operarius si unì a quella del minister. Il suo compito iniziava dall’acquisizione di beni lasciati in eredità o donati all’Opera. Abbiamo alcuni esempi di beni devoluti all’Opera, talvolta anche congiuntamente all’Ospedale della Scala e alla Casa della Misericordia. Le somme di denaro erano di solito abbastanza modeste: nei lasciti avvenuti in questo periodo l’Opera ereditava piccole somme insieme a molti altri enti cittadini. In ogni caso, era sempre l’operaio in prima persona a raccogliere la beneficenza nei confronti dell’ente. Un altro delicato compito dell’operaio consisteva nel contrarre mutui per conto e per le necessità dell’Opera. Negli anni in cui i lavori della cattedrale erano in pieno svolgimento (tra il 1266 e il 1275) e anche l’attività di razionalizzazione dei beni dell’ente era in una fase cruciale, l’operaio contraeva un certo numero di debiti, per somme variabili dalle 50 alle 350 lire. Una buona parte di questo denaro, per il cui mutuo non era specificata la causale, doveva servire per le spese della fabbrica del Duomo, dato che proprio in questi anni si intrapresero le grandi opere al suo interno.Frate Melano stipulò otto contratti di questo tipo, tutti con termini molto stretti per la restituzione, dai 2 ai 5 mesi, il che fa pensare a momentanee carenze di liquidità – per esigenze speciali – che l’Opera era in grado di restituire agevolmente e in tempi brevi. Tra i prestatori alcuni personaggi famosi e altri meno noti della Siena dell’epoca. Nel 1275, Melano eseguì una ricognizione dei debiti dell’Opera nei confronti dei seguenti maestri che prestavano servizio nella fabbrica della cattedrale: Paganello Martini, Ventura di Dietisalvi, Gregorio di Gerardo, Toscanello, Ruggerino di Francesco, Iacobo Ugolini, Rustichino e Ildibrandino Marini; i pagamenti avvennero sulla base delle giornate di lavoro svolti. Tra il 1267 e il 1270, Melano si accollò, per conto dell’Opera, l’onere di contrarre mutui per l’acquisto – da Rosso di Gianni pizzicaiolo – di un complesso di immobili a San Matteo ai Tufi – alle porte di Siena –, comprendente una terra con vigna, una fornace e due case. Il complesso doveva essere di una certa importanza – per la sua vicinanza alla città e per la presenza della fornace –, se impegnò per oltre tre anni l’Opera con somme di tutto rispetto. Da segnalare che l’acquisto di immobili su cui si trovavano strutture utilizzabili per la fabbrica della cattedrale non furono infrequenti nel ventennio tra il 1260 e il 1280: nel 1261 Melano infatti acquistò una casa con una fornace piena di calcina, a Scorgiano, sulla Montagnola senese. A Tonni, sempre nella stessa zona, l’operaio Villa, nel 1278 comprò una terra, sulla quale, l’anno seguente i maestri di pietra Paganello Martini e Martino Ciurli, per conto dell’Opera, posero le confinazioni. Lo stesso giorno, i maestri vendettero a frate Villa e poi confinarono una casa a San Quirico a Tonni, dove nel 1281, l’operaio frate Masio acquistò una terra o petraia, insieme al diritto di passaggio per transitare con o senza bestie sulla strada detta di Castagneto – la proprietà era probabilmente vicina o contigua a quella già acquistata nello stesso luogo, a Valle Suvera, anni prima. Da queste testimonianze si può concludere che gli operai attuavano verosimilmente una serie di investimenti in località in cui vi erano materie direttamente utilizzabili per le necessità della fabbrica, senza passare da intermediari, per sfruttare risorse reperibili nelle vicinanze di Siena. Il Comune a sua volta agevolava il trasporto del marmo e dei materiali, accollandosi l’onere delle spese di trasferimento; l’operazione doveva essere espletata anche dai possessori di bestie da soma in Siena, che erano tenuti a mettere i loro animali a disposizione dell’Opera. L’Opera inoltre acquisì e amministrò per proprio conto o insieme ad altri enti anche alcuni immobili in città e nel contado, specialmente negli anni ’70 del XIII secolo. Per quanto riguarda la normale amministrazione dei beni dell’Opera, in molti casi l’operaio si occupava in prima persona degli affitti di immobili e dell’erogazione e riscossione dei relativi censi per conto dell’Opera soltanto, oppure anche di altre istituzioni con cui l’ente aveva beni in comune. Era compito dell’operaio anche la gestione dei rapporti con i dipendenti dell’Opera nelle varie proprietà fondiarie, degli affitti delle terre e della compravendita del bestiame. 5. La gestione dei mulini dell’Opera del Duomo a Foiano sulla Merse Per completare il quadro della gestione dei beni dell’Opera del Duomo da parte degli operai cistercensi, è necessario fare riferimento ai mulini. Già negli anni ’50 del Duecento, la “corsa ai mulini” da parte dei Cistercensi caratterizzò il progressivo avvicinamento dei monaci a Siena. La presenza di strutture molitorie di proprietà dell’abbazia permaneva nella zona intorno a Siena, sulla Tressa, ma nel corso del ’200 San Galgano allargò il proprio del raggio di azione sulla Merse e sull’Ombrone. Esistono testimonianze di società di Cistercensi con alcuni mercanti di Monticiano a metà del XIII secolo; mentre ad Abbadia Ardenga, sull’Ombrone, tra Montalcino e Buonconvento, presso la Via Francigena, i monaci erano giunti sin dai primordi della loro comunità. Dato che si trattava di un’impresa che necessitava di ingenti capitali e notevoli conoscenze tecniche, gli uomini d’affari senesi avevano interesse a coinvolgere i monaci nella gestione dei mulini. Dal canto loro, i monaci, possedendo proprietà molto estese e sparse sul territorio, dovevano appoggiarsi su strutture molitorie diffuse il più possibile nelle zone in cui si collocavano le loro terre. Col tempo il mulino divenne quindi il punto d’incontro privilegiato per le società d’affari tra monaci, cittadini e istituzioni senesi È significativo che i Cistercensi avessero stabilito mulini e gualchiere nella zona della Merse, tra Orgia e Foiano.Non lontana dall’abbazia e dalle sue terre, quest’area molto “senesizzata” rappresentava un nodo assai importante per la vita economica cittadina, con gli impianti dell’Arte della Lana, che sfruttavano per le operazioni di manifattura il corso d’acqua più ricco nelle vicinanze della città. Il Comune aveva già da tempo esteso il suo controllo sulla rete di mulini e gualchiere intorno a Siena, riconoscendo la necessità e l’utilità di avere a disposizione una quantità di strutture molitorie della cui efficienza e incremento si faceva garante. Col tempo i mulini passarono direttamente nelle mani del Comune e in quelle di enti ecclesiastici e di privati abbienti, a causa dell’alto costo degli impianti e del potenziale controllo sul territorio che un mulino offriva a chi lo possedeva. Gli anni ’70 del XIII secolo furono un’epoca di mobilità delle proprietà e di cospicui investimenti per l’Opera del Duomo. La zona in cui questi investimenti avvenivano era ancora una volta quella della Merse, ma in questo caso era una parte del suo corso più distante rispetto alla città, tra Foiano (l’attuale San Lorenzo a Merse) e Macereto, oggi rispettivamente nei comuni di Monticiano e Murlo, al confine tra i due comprensori. Le prime notizie risalgono al 1271, quando Melano acquistò – per la somma di 1.300 lire – da Iacobo del fu Ugolino de’ Balzi la sesta parte di un mulino a Sorleone, sotto il Ponte di Foiano, con tutta una serie di proprietà, case e terre, che Iacobo aveva insieme ai monaci di San Galgano, a Orlando Buonsignori, ad Andrea di Iacobo Incontri e ai figli e agli eredi di Errigo di Iacobo Incontri. Nel settembre dello stesso anno Iacobo vendette all’Opera anche un altro decimo della stessa proprietà per 900 lire. Due giorni dopo la prima transazione, l’abate di San Galgano nominò suoi procuratori frate Melano e il converso Giovanni per acquisire a nome del monastero tutte le parti dello stesso mulino e delle sue proprietà da Andrea di Iacobo Incontri e dagli eredi e i figli di Errigo di Iacobo Incontri, i quali effettivamente poco dopo vendettero per 2.500 lire a Melano, agente questa volta per conto di San Galgano, un terzo della loro parte di mulino e beni connessi, e si obbligarono a pagare al Capitolo e alla Canonica della cattedrale 40 soldi l’anno, come canone d’affitto della terra su cui si trovava la gora del mulino, che loro mantenevano insieme ai soci. Tuttavia, il complesso molitorio richiedeva per l’Opera un certo dispendio di denaro, dal momento che nel maggio del 1271 Melano doveva chiedere a tale Meo Ormanni, un prestito di 200 lire da convertire in utilità dell’Opera per l’acquisto di alcune altre parti del mulino di Foiano. Inoltre, dallo stesso Meo Ormanni Melano prese, nel 1274, una somma di 24 lire e 12 soldi come complemento di una somma di 215 lire, che si impegnava a restituire entro 7 mesi e che serviva a finanziare l’acquisto di altre parti del mulino del Ponte di Foiano. Nel marzo del 1272, Melano, per conto dell’Opera, dichiarava di avere ricevuto in conduzione per i successivi tre anni da Ranieri ed Errigo del fu messer Orlando (rispettivamente per due e cinque parti della metà) e da Martinuccio di Guglielmo e Armino del fu Armino (ciascuno per 1/4) le rispettive parti dei 16/60 di un mulino con gualchiere ed edifici sulla Merse a Sorleone, che Melano, a nome del Comune di Siena, insieme a Iacopo di Ugolino de’ Balzi, avevano in precedenza venduto ai suddetti locatori, impegnandosi a condurre correttamente le terre e a corrispondere un canone annuo di 12 moggi di grano. Dunque, Melano vendeva a nome del Comune e affittava per conto dell’Opera, gestendo per quest’ultima una parte del complesso. I legittimi proprietari mantenevano il possesso e ne delegavano la gestione. Tuttavia, lo stesso giorno, Martinuccio di Guglielmo e Ranieri ed Errigo del fu Orlando promisero a frate Melano di vendergli, a nome dell’Opera, per 1.400 lire, le rispettive parti dei 16/60 del mulino più la gualchiera, gli edifici e le attrezzature a Sorleone, sotto il Ponte di Foiano e le proprietà annesse; l’acquisto doveva avvenire entro i tre mesi seguenti con il pagamento immediato della somma. Nel mese di maggio del 1272 risulta che Melano, a nome dell’Opera, insieme a Iacopo di Ugolino de’ Balzi, avessero rivenduto a Martinuccio di Guglielmo e a Errigo di Orlando i 16/60 del complesso e delle parti suddette del mulino e dei suoi annessi, ancora in comproprietà con Orlando Buonsignori, Andrea di Iacobo Incontri e gli eredi di Errigo di Iacobo Incontri. Nell’ottobre, Martinuccio, Armino, Ranieri ed Errigo dichiararono di aver avuto da Melano, per conto dell’Opera, 2 moggi di frumento a titolo d’affitto per i 16/60 delle proprietà. Quindi Melano continuava a mantenere la gestione di quella parte del complesso. Lo stesso giorno, Melano acquistò dai predetti la quarta parte dei 16/60 del complesso per 350 lire, e di tutte le proprietà che essi possedevano con Orlando Buonsignori, Andrea di Iacobo e gli eredi di Errigo di Iacobo Incontri. Così, qualche anno dopo, nel marzo del 1278, il successore di Melano, frate Villa, acquistò dagli stessi ancora tre parti dei 16/60 del complesso e di tutte le proprietà che essi avevano in comune con Niccolò di Bonifazio Bonsignori e con il monastero di San Galgano (che forse avevano comprato nel frattempo le quote degli Incontri e di Orlando Buonsignori) al prezzo di 350 lire. Si colloca probabilmente in questa fase l’inizio dei rapporti d’affari dei monaci con Niccolò di Bonifazio Bonsignori, che tanta parte ebbe nella questione dopo il 1290. Pochi giorni dopo, frate Villa si dichiarò debitore verso Paganello di Martino, maestro di pietra e uomo di fiducia dell’Opera, per 50 lire che gli doveva “in recolligendo parte dicti Operis molendinorum positorum et constructorum in flumine Merse ad Pontem de Foiano”, cioè per confinare lo spazio e fare una ricognizione della proprietà. L’operazione di accorpamento di altre parti del mulino da parte dell’Opera, che fino ad allora aveva avuto un andamento poco lineare, procedette in modo più deciso e spedito e proseguì negli stessi giorni, quando Villa acquistò sempre dagli stessi proprietari ancora tre parti del mulino. Negli anni ’80 del XIII secolo l’Opera continuò, insieme al Comune e al monastero di San Galgano la progressiva penetrazione nella stessa zona del Ponte di Foiano. Infatti nel febbraio 1281, Melano, agente per l’Opera e per San Galgano, pagò al Capitolo di Siena il canone di affitto – anche per alcuni anni precedenti – per una terra contente la gora del mulino di Foiano, a Sorripa, presa in affitto insieme a Errigo di Iacobo Incontri, a Iacobo di Ugolino de’ Balzi e a Orlando Buonsignori. Nel dicembre del 1282, l’operaio Masio, a nome dell’Opera, di San Galgano e del Comune di Siena, acquistò tre serie di terreni dai proprietari della zona. A quanto pare, il mulino funzionava anche per la macinazione delle granaglie dei proprietari locali, infatti nel dicembre del 1283 i tre enti comproprietari dovevano riscuotere un credito di 30 lire da alcuni possidenti di Foiano che facevano macinare i prodotti nel mulino di Sorleone. Ancora, fra il 1284 e il 1285, Masio, a nome dei tre enti, acquistò alcune altre terre – di cui una a Foiano presso la gora del mulino – da proprietari locali e dal Capitolo della cattedrale. Talora l’operaio, per provvedere al mantenimento del mulino era costretto a contrarre mutui, come nel 1287, quando prese 50 lire per fare lavori allo steccato e alla gora. I Cistercensi, ai vertici dell’amministrazione dell’Opera ripercorsero il modello di gestione del patrimonio sperimentato con successo per le proprietà di San Galgano. In questo periodo infatti si registrò la tendenza ad accorpare terre e immobili per razionalizzare le proprietà, eliminando quelle meno utili; ad acquisire diritti su infrastrutture di immediata convenienza per l’Opera (cave di pietra, fornaci di calcina); a investire capitali in imprese redditizie, anche se impegnative, come quelle molitorie, in società con grandi proprietari ed enti senesi; e infine a dividersi le responsabilità del possesso e dell’amministrazione dei mulini e di altri immobili con soci di sicura affidabilità, come il Comune di Siena, il monastero di San Galgano, l’Ospedale della Scala, la Casa della Misericordia, tutti parte del circuito senese di enti di natura marcatamente pubblica. Così, abilità tecnica e amministrativa chiamarono nuovi incarichi. A partire dagli anni ’70 del Duecento, i monaci di San Galgano ormai saldamente inseriti nei punti-chiave del corso della Merse poterono dimostrare la loro abilità tecnica anche nella progettazione e nel mantenimento di infrastrutture, come ponti e canali. Proprio ai Cistercensi infatti il Comune di Siena si affidò per studiare e, fin dove è possibile, realizzare opere tecniche altamente sofisticate. È il caso della canalizzazione del piano della Merse, che era iniziato tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, contemporaneamente all’assetto dei mulini del Comune e alla regimazione delle acque del Padule di Orgia. Nel piano del torrente Feccia, affluente settentrionale della Merse, presso la quale sorgeva l’abbazia di San Galgano, sono state recentemente rinvenute tracce di una canalizzazione (comprendente anche alcune peschiere), operato dai monaci bianchi. Nel Costituto del 1262 i Cistercensi erano stati incaricati di rimettere in ordine le vie e i ponti sulla Feccia, assieme agli uomini delle comunità vicine. Nel 1268 il Comune, su proposta di Provenzano Salvani, incaricò l’esperto don Gnolo di San Galgano di condurre un sopralluogo sulla Merse per verificare la possibilità di canalizzare le acque per portarle fino a Siena. Tuttavia il progetto si presentò palesemente irrealizzabile per gli ostacoli geografici e gli scarsi mezzi tecnici disponibili all’epoca e rimase quindi soltanto allo stato virtuale. Al di là dei risultati, è però significativo il coinvolgimento dei Cistercensi in un’opera ingegneristica di portata immane e che doveva rappresentare la soluzione ai secolari problemi di approvvigionamento idrico della città. Un’ulteriore dimostrazione di tale perizia si ebbe nell’ultimo ventennio del ’200; il Comune aveva alcuni annosi problemi con il già menzionato ponte di Foiano sulla Merse. Il ponte era in rovina, e così, nel maggio del 1281, il Consiglio Generale in accordo con i Cistercensi decise di incaricarli di prendere le misure necessarie per scongiurarne il pericolo di crollo. In relazione a questa decisione, i Quindici governatori, nell’ottobre dell’anno seguente, deliberarono di eliminare la steccaia presso il ponte, che recava danno al ponte stesso e al Bagno di Macereto. Il ponte di Foiano subì ancora riparazioni e interventi pubblici nel 1295 quando, processando i colpevoli di un danno, il Comune impose loro di riattare a loro spese le parti rovinate. Infine, nel 1312, il Consiglio Generale deliberò di stanziare 52 lire per la riparazione del ponte che doveva essere attuata da frate Bencivenne, operaio del Duomo. Del resto, gli enti proprietari dei mulini avevano interesse al buon mantenimento dei ponti; il binomio “ponte-mulino” rappresentava una costante nella politica cistercense per gli impianti molitori. Vi era infatti uno sforzo collaterale di creazione di infrastrutture destinate a facilitare tutte le operazioni legate alla macinazione, ivi compresa quella dei trasporti, per evitare ulteriori investimenti in questo senso e agevolare l’immissione degli utenti in una fitta rete di scambi. Anche lo Statuto dei Viari, redatto intorno al 1290, prevedeva che la manutenzione dei ponti tra Siena e Petriolo, tra Siena e Asciano, tra Siena e Grotti e tra Siena e Monteriggioni dovesse essere affidata a due religiosi, che controllassero anche i fondi per le spese; la presenza dei religiosi, sembrava garantire così anche la trasparenza nell’amministrazione. Nel corso degli anni il Comune continuò a servirsi dei Cistercensi per progettare ponti: nel 1297 il Consiglio Generale elesse tre rappresentanti per ogni Terzo cittadino per decidere sulla costruzione di un ponte sul fiume Farma presso il Bagno di Petriolo, stabilendo le modalità di progettazione e di realizzazione e affidando l’impresa a un monaco di San Galgano in qualità di direttore dei lavori e di amministratore. Negli anni precedenti l’arrivo dei Cistercensi all’Opera del Duomo i movimenti delle proprietà dell’ente non avevano avuto lo stesso impulso né la stessa mobilità.Ancora intorno al 1250, infatti, si stipulavano livelli e il numero dei contratti era decisamente inferiore al periodo successivo. La spinta data dagli operai di San Galgano all’incremento e alla razionalizzazione dei possessi dell’Opera non fu dunque né superficiale né limitata. Gli operai cistercensi non interruppero le loro relazioni con il monastero d’origine, continuarono anzi ad agire per conto del loro ente anche in seguito e in occasione di affari con l’Opera del Duomo per il mulino di Foiano. I legami fra le due istituzioni, rappresentati da monaci e conversi non si recisero, semmai si rafforzarono. 6. San Galgano, casa del Comune di Siena Con il giugno del 1290 si chiuse una parabola. In quell’anno infatti il Consiglio Generale prese atto che San Galgano era casa propria e monastero del Comune di Siena, e lo pose pertanto sotto la protezione del Comune stesso. Ciò comportava che nessun cittadino senese potesse esigere dal monastero esazioni illecite, né acquisire diritti contro di esso. Il documento è di fondamentale importanza: anzitutto perché dimostra come in questi anni fosse portata alle estreme conseguenze la politica di tutela del monastero da parte del Comune di Siena, iniziata fin dagli anni ’50 del Duecento. In questo caso il patronato del Comune fu conclamato e ufficializzato, il monastero diventò la sua casa. Da sottolineare che il nuovo status di San Galgano fu sancito con l’avvento del regime novesco, che si attestò sulla linea impostata dai governi precedenti. In realtà la tendenza del Comune di prendere sotto la propria protezione gli enti più importanti della città, iniziata con San Galgano nel 1290, proseguì nel 1292 con l’assunzione del controllo sull’Ospedale di Santa Maria della Scala, sulla Casa della Misericordia e sull’Ospedale di Monna Agnese, i cui patrimoni si erano notevolmente accresciuti nel corso del XIII secolo, grazie a donazioni, testamenti e acquisti programmati. Questo fatto comportò per queste istituzioni l’esenzione dal pagamento di tutte le gabelle e le imposte sui beni a essi devoluti, con lo scopo di incoraggiare i donatori a offrire i loro averi, per usufruire di un vitalizio e godere dell’immunità fiscale. Un caso emblematico è quello dell’Ospedale della Scala, che, nato come ente religioso sotto l’egida dei canonici del Duomo, era riuscito a svincolarsi dalla tutela del potere ecclesiastico fin dalla fine del ’200, quando i frati del Capitolo dell’Ospedale avevano rivendicato il diritto di eleggere un rettore proprio. L’Ospedale, nel corso del Duecento, acquisì un peso sempre più rilevante nell’economia della Repubblica, agendo da prestatore dell’erario e da calmiere dei prezzi del grano in epoca di carestie, in cambio di privilegi, protezione, sgravi fiscali da parte del Comune, il quale dimostrò così una forte volontà di controllo sulla gestione finanziaria dell’ente, acquisendo al suo interno un notevole peso. Il processo di formale sottomissione dell’Ospedale al Comune si concluse nel 1309, con l’apposizione delle armi del Comune alla porta principale dell’Ospedale, anche se frequenti e decisi furono i tentativi dei vari rettori di mantenere una sfera di autonomia rispetto al potere pubblico anche nei secoli seguenti. Fin dal 1267, anche la Casa della Misericordia ottenne dal Comune vantaggi simili, per poi essere posta sotto la tutela dei Nove con l’esenzione fiscale e il privilegio per gli oblati dell’esonero dai servizi da rendere al Comune. San Galgano non sfuggì a questa logica: il Comune proteggeva gli enti per controllarne i poteri, le ricchezze e le professionalità che vi si andavano accumulando in quegli anni e quindi per limitarne in qualche modo l’autonomia che, teoricamente, avrebbe potuto agire da contraltare rispetto al regime novesco. Tuttavia la strategia comunale mirava in definitiva ad articolare il proprio potere in modo più pervasivo.Il Comune entrava progressivamente a far parte di enti che, come abbiamo visto, erano già da tempo nell’orbita pubblica. È forse riduttivo leggere la vicenda di San Galgano, così come quella dell’Ospedale della Scala nelle loro relazioni con il Comune di Siena e con il regime dei Nove in particolare, in chiave di pura sottomissionecontrollo, non foss’altro che per i larghi margini di autonomia e autodeterminazione che queste istituzioni mantennero, e per lo scambio di vantaggi che si instaurò tra essi e il Comune, che fa pensare piuttosto a un rapporto paritario. Certo che le conseguenze della pubblicizzazione del monastero non tardarono a manifestarsi: anche se non si trattò necessariamente di un cambiamento in negativo, né questo fu determinato in modo automatico dal nuovo e meglio definito rapporto con il Comune. Difficile fare ipotesi a riguardo, soprattutto in mancanza di studi specifici di riferimento sul problema di una marcata partecipazione pubblica nella gestione di istituzioni di origine religiosa. In ogni caso appare indicativo il caso di San Galgano: nato per attuare il più rigorosamente possibile l’ideale della Regola benedettina, attraverso un lungo cammino, si avvicinò alla città, ne godette i privilegi, vi prestò servizi e ne divenne parte, tanto da essere dichiarato proprietà comunale. 7. I Cistercensi e la vita pubblica tra il 1290 e il 1320 Gli anni dal 1287 al 1355 sono caratterizzati dal governo del regime dei Nove, “mezana gente”, che, una volta estromessi dall’esecutivo del governo cittadino i rappresentanti dei casati magnatizi – dopo i provvedimenti del 1274 e 1277 – assicurò un lungo periodo di stabilità di governo, dopo l’avvicendarsi di molti esecutivi nel corso del XIII secolo. Il regime mantenne larghi margini di supremazia rispetto ai magnati, con i quali tuttavia condivise molti poteri, specialmente nelle magistrature e negli uffici più importanti, pur detenendo il monopolio dell’organo più delicato di governo. Nessun campo di attività sfuggì all’esame, al controllo e alla regolamentazione dei Nove: in campo urbanistico, economico-fiscale, giudiziario, culturale. Tra il 1290 e il 1320 il rapporto tra i monaci di San Galgano e la città di Siena fu caratterizzato da un significativo diradarsi della prestazione di servizi dei monaci al Comune e all’Opera. Abbiamo operai cistercensi con una certa regolarità fino al 1296, dopodiché si dovettero attendere oltre sette anni prima di rivedere un monaco bianco alla guida dell’ente. In questo periodo – fino al 1350 – il ruolo di operaio – così come quello di camarlengo della Biccherna – fu ricoperto da laici e i Cistercensi si alternarono frequentemente con membri di altri ordini religiosi – Umiliati, Vallombrosani di San Donato e Servi di Maria. In questi anni si assisté all’ascesa degli Ordini Mendicanti, ai quali le città permisero di sviluppare nuove forme organizzative, diverse da quelle della vita religiosa monastica tradizionale. Vari conventi si erano impiantati a Siena con successo già nella prima metà del XIII secolo, erodendo in misura ancora non troppo evidente il favore riscosso fino ad allora dagli altri Ordini, fra cui gli stessi Cistercensi. A essi il Comune aveva accordato qualche compito, coinvolgendoli, seppure in misura limitata, nella cosa pubblica e offrendo loro aiuti e protezioni di vario genere. Nello stesso periodo si prospettò anche una più generalizzata crisi del numero dei conversi cistercensi, che decrebbe a partire dalla metà del XIII secolo. In questo periodo si fece imponente la propagazione dei Mendicanti specialmente nelle campagne – lamentata anche in un Capitolo dell’Ordine cistercense nel 1274 – in seguito al progressivo rallentamento demografico e allo sviluppo dell’economia monetaria ed entrò in crisi la struttura tradizionale della proprietà agraria monastica. Anche in questi anni, tuttavia, il monastero di San Galgano si rivelò bisognoso dell’aiuto e del sostegno del Comune di Siena. Già fin dall’inizio della pubblicizzazione dell’ente, nel 1292, il Consiglio Generale approvò una richiesta, in base alla quale i monaci erano autorizzati a trasportare liberamente cereali, sale e altri prodotti agricoli attraverso il territorio senese, purché venisse specificato alle autorità il luogo di destinazione delle derrate – debitamente marcate con simboli di riconoscimento – al fine di non incorrere nelle sanzioni previste dal Comune. Il Comune, a sua volta, continuò a richiedere i Cistercensi come camarlenghi e codificò questa prassi nello statuto della Biccherna del 1298, precisando che il camarlengo doveva essere un religioso e stabilendone le mansioni. Egli era tenuto a ricevere il denaro e a erogarlo per le pubbliche necessità, tuttavia ciò non poteva essere eseguito senza il consenso e la presenza di almeno due dei provveditori. La magistratura doveva dare un rendiconto mensile e uno semestrale della propria attività. Se il camarlengo proveniva dal monastero di San Galgano, era tenuto ad avere il consenso dell’abate per svolgere questo compito; con questa norma si sancì una consuetudine che era in atto già fin dalla nomina di don Ugo nel 1257. Inoltre il camarlengo percepiva i censi e conduceva in prima persona acquisti di immobili, compresi quelli che servivano al Comune per ampliare lo spazio per la costruzione il Palazzo Pubblico. Al volgere del XIII secolo la fortuna del monastero presso il governo era ancora intatta. I monaci, una volta ottenuto il prestigioso patronato comunale si trovavano in una sorta di stabilità, in una situazione in cui, esauritosi lo slancio della vitalità iniziale, che aveva portato San Galgano a compiere il salto di qualità che gli aveva consentito di trasformarsi da monastero del contado in ente cittadino a tutti gli effetti, i Cistercensi si attestarono in una posizione consolidata presso l’amministrazione comunale. Certamente quest’ultimo periodo segnò il passaggio a una situazione di stasi. Non si avverte alcuna novità significativa rispetto all’epoca precedente, i modelli di gestione del patrimonio e il modo di porsi dei monaci rispetto al Comune e agli altri enti pubblici non presentarono novità di rilievo. La presenza di norme e deliberazioni dei pubblici consigli nei confronti del monastero di San Galgano cessò di essere costante rispetto al quarantennio precedente, mentre aumentarono in misura esponenziale norme e delibere in favore di altri Ordini religiosi in fase ascendente. In questo periodo molte cose erano mutate e gli Ordini nati per la città risposero positivamente alla sfida, anche a parziale danno delle istituzioni tradizionali, che mostravano qualche difficoltà a reggere il passo. San Galgano restò una delle prime potenze economiche di Siena e del suo territorio, come risulta dalla Tavola delle Possessioni (1316-20) – la cui redazione è il nostro ultimo termine di confronto.A questo assestamento economico corrispose però una certa ripetitività dei ruoli: i monaci restavano camarlenghi di Biccherna e ancora per qualche tempo operai del Duomo, ma non vennero affidati loro nuovi compiti né mansioni diverse da quelle già ricevute; mancavano la creatività, la versatilità e le innovazioni che li avevano caratterizzati negli anni centrali del Duecento. L’ascesa dei nuovi Ordini non appare però strettamente e automaticamente collegata al “ristagno” del ruolo dei Cistercensi; piuttosto ci si muoveva su piani paralleli, dal momento che la posizione di San Galgano, acquisita nel corso del XIII secolo non era in discussione e i Cistercensi avevano responsabilità di gran lunga superiori a quelle di altri Ordini religiosi in seno al Comune, a sua volta orientato a responsabilizzare le nuove compagini religiose nell’àmbito della pubblica amministrazione. Anche le regole degli Ordini Mendicanti vietavano esplicitamente ai propri appartenenti di ricoprire ruoli pubblici, ma questo non impedì al Comune di Siena di coinvolgere i loro membri in compiti, come la custodia di documenti o le trattative diplomatiche o di pacificazione. 8. L’Opera del Duomo e i Cistercensi tra il 1290 e il 1320 Nel settembre del 1302 il podestà di Siena e il Consiglio Generale approvarono una richiesta di frate Martino di San Galgano, operaio del Duomo, in base alla quale l’operaio doveva essere delegato a incamerare lasciti e donazioni a favore dell’Opera. Fino ad allora infatti all’operaio veniva contestata questa facoltà e si doveva fare ricorso in ogni singolo caso alle autorità giudiziarie. Lo stesso giorno frate Martino ottenne la procura generale a nome del Comune. Tuttavia, non si trattava di una nuova regolamentazione, bensì di una riformulazione della prassi già in voga dal 1259 e dal 1275. Nel febbraio del 1293, infatti, frate Chiaro aveva assunto la procura generale del Comune per trattare gli affari dell’Opera, accordatagli dai Nove, dalla Biccherna e dal Consiglio Generale. Questi provvedimenti andavano nel senso di una più attenta ridefinizione del ruolo dell’operaio, per riportare ordine nell’amministrazione di un’impresa che negli anni precedenti aveva visto momenti di incertezza tali da danneggiare il buon andamento dei lavori della cattedrale. Infatti era passato da poco il 1297, anno in cui era stato affidato a Giovanni Pisano l’incarico di erigere la facciata del Duomo, e già si registrava un gran disordine nel cantiere in cui si lavoravano i marmi; occorreva quindi una maggiore razionalizzazione dell’impresa da parte dell’operaio. All’inizio del 1299, la cattiva amministrazione dell’Opera del Duomo fu oggetto di alcune querimonie al Consiglio Generale, il che fa pensare a una forte crisi della fabbrica della cattedrale. Si lamentava in particolare che con la quantità di risorse a disposizione della fabbrica si sarebbero potuti ingaggiare oltre 40 maestri e perciò si invocava la necessità di ripristinare a capo dell’Opera un religioso che guidasse i lavori come se agisse in proprio. Questo passaggio è di particolare interesse per diversi motivi. Infatti, nel 1299 erano già circa tre anni che i conversi di San Galgano non erano più operai del Duomo. I lavori della facciata e dello spazio antistante la cattedrale in questi anni procedevano alacremente; l’operazione, che proseguì per molti anni, vide impegnati, oltre a Giovanni Pisano, in qualità di direttore dei lavori, anche altri maestri senesi. L’interruzione di prestazioni da parte dei Cistercensi coincise probabilmente con la fase di cattiva amministrazione dell’impresa e del suo cantiere, il che fece invocare il ritorno dell’operaio religioso, chiaramente riconosciuto come portatore di buona conduzione dell’Opera. Ancora una volta i Cistercensi furono chiamati a fronteggiare un momento critico. Appena insediato, il nuovo operaio lamentò il dissesto delle finanze e chiese al Consiglio di porvi rimedio, pena l’interruzione dei lavori e la risposta fu positiva. Le autorità non restarono insensibili a questo appello: infatti, già dal 1302 venne insediato, anche se per un breve periodo, ancora un cistercense a capo dell’Opera, per prendere in mano la situazione di emergenza del proseguimento della facciata. Egli ripristinò ordine e razionalità, tanto che da qui partirono le richieste del 1302?1303 di dare la procura generale all’operaio per tutti gli affari dell’Opera, come era accaduto in precedenza. 9. I mulini sulla Merse e gli altri beni dell’Opera del Duomo Tra il 1290 e il 1320, l’Opera del Duomo continuò a condurre i mulini sulla Merse, a Foiano. Alla fine degli anni ’70 del Duecento l’Opera del Duomo era impegnata a spartirsi con San Galgano e con il mercante senese Niccolò di Buonifacio Bonsignori il mulino di Foiano e le proprietà a esso attinenti. Nel 1293, i tre proprietari, frate Matteo di San Galgano, frate Chiaro converso cistercense e operaio del Duomo, e il procuratore di Niccolò affittarono per 29 anni a un certo Mino di Giovanni detto Minella da Bagno di Macereto una terra “in capite pontis” di Foiano, che essi avevano in comproprietà, con il patto che vi fosse edificata una casa e impiantata una vigna per uno staio di sementa. Due anni dopo, nel 1295, lo stesso Minella rivendette ai tre l’edificio da lui costruito sopra la terra che aveva preso in affitto da frate Chiaro. Nel 1298 l’operaio laico Fazio de’ Fabbri, insieme ad Andrea di Bonaguida – procuratore di Niccolò Bonsignori e di San Galgano – affittarono a Baldo di Dietaviva da Siena un palazzetto, case, casamenti ed edifici contigui alla proprietà presso il ponte di Foiano per 30 lire annue di canone per cinque anni. Nel 1302 il Consiglio Generale approvò una proposta dell’operaio frate Martino che chiedeva di poter vendere gli 8/30 del mulino di Foiano competenti all’Opera – in comune con San Galgano e con Fazzino di Niccolò Bonsignori –, che l’ente aveva difficoltà ad amministrare. Tuttavia bisogna aspettare il 1305 per avere un contratto di divisione di beni tra le parti. Fazzino trattenne alcune proprietà fondiarie che facevano parte del complesso molitorio, dislocate nelle curie di Bagno di Macereto, Foiano, Tocchi, mentre Camaino di Crescentino – operaio del Duomo e agente per il Comune di Siena – che ne possedeva delle quote –, e don Niccolò di Guido Maizi agente per San Galgano, ottennero tutto il mulino, la gualchiera, alcuni immobili e i terreni a essi pertinenti. Questa divisione ebbe il valore di una riorganizzazione delle proprietà delle due parti. Il mulino era a questo punto completamente pubblico, mentre Fazzino si riservava di mantenere i propri investimenti in terreni. Pochi giorni dopo ci si accordò per spartirsi i lavori e la manutenzione dell’intero complesso: don Niccolò e Crescentino furono autorizzati a costruire e mantenere sui terreni di Fazzino la gora, lo steccato, i canali e le attrezzature del mulino per una superficie non superiore a 16 braccia, impegnandosi a pagargli 12 lire per ogni staio di terra a lui sottratta alla lavorazione, e di conservarne la servitù. La proprietà si ampliò ulteriormente nell’agosto dello stesso anno, quando Gabriello di Chigio Accarigi da Siena vendette a Iacopo di Giliberto Marescotti, nuovo operaio – agente anche per San Galgano – una terra boscata nella curia di Macereto, a Macchia del Prato. Tra maggio e giugno del 1306 però il monastero restituì all’operaio del Duomo una somma per la manutenzione della sua parte del complesso (20/36), gli concedette la facoltà di trattare la somma per le comuni spese di manutenzione e gli cedette due parti del suo possesso. Anche Fazzino si disfece nel 1308 di una terra presso il ponte di Foiano, a Sorleone, del valore di 50 lire, in favore dell’Opera e di San Galgano. Nel 1309 lo stesso Fazzino vendette per 200 lire alcune terre nelle curie di Foiano e di Tocchi ancora all’Opera e a San Galgano. Queste due istituzioni continuarono a pagare l’affitto della terra presso il Ponte di Foiano, su cui passava la gora del mulino, al nuovo proprietario del fondo, prete Mino di Giovanni, cappellano della cattedrale. Nel 1313 i monaci affittarono all’Opera la loro parte di mulino, forse a causa di un momento di temporanea difficoltà nella gestione del complesso. La proprietà del mulino e delle sue pertinenze continuò ad ampliarsi nel 1316 quando donna Margarita da Foiano e Minuccio di Neri da Montepescini vendettero all’Opera e a San Galgano una terra a Ponte di Foiano per 109 lire. L’acquisizione proseguì nel 1318 quando l’Opera e il monastero comprarono da alcuni abitanti di Foiano metà di una terra ivi posta, a Maggiorino (l’altra metà spettava a un senese) per 10 lire. Nel 1319 i due enti si spartirono, con alcuni proprietari locali, una terra a Tocchi appartenente stesso complesso e ne cedettero a loro volta in affitto alcune delle parti. Al di là delle singole tappe dell’assestamento patrimoniale, San Galgano e l’Opera tesero ad accorpare parti sempre più estese e a gestire in comune la proprietà, in modo da accentrare un crescente numero di beni anche di proprietari locali, formando un complesso ampio e consolidando la loro posizione, soprattutto dopo che i Bonsignori – forse in seguito alla crisi seguita al tracollo finanziario della loro compagnia – uscirono progressivamente di scena. Si delineava così una grande proprietà di carattere marcatamente pubblico nella zona di Foiano, in cui le strutture molitorie erano saldamente in mano ai due grandi enti e le proprietà contigue erano suddivise anche con altri proprietari, senesi e locali. La tendenza alla stabilità e al consolidamento faceva così seguito al dinamismo dell’epoca precedente. L’attività di accumulo e amministrazione dei beni dell’Opera da parte dei Cistercensi è testimoniata anche in zone diverse dall’area di Foiano e in particolare proseguì dal 1295 nei dintorni di Siena. In quell’anno, frate Chiaro d’Arduino (o Ardovino), operaio del Duomo, acquistò dal senese Feo di Bono fornaio una terra con vigna e casa, per 175 lire, a Piaciano, presso Sant’Eugenio. Nel gennaio del 1296 maestro Neri d’Ildibrandino, “magister mannarie in arte lignaminis”, vendette a frate Chiaro un’altra terra vignata nello stesso luogo. Nell’aprile dello stesso anno, frate Chiaro ricevette da un certo Nese del fu Grazia Benedicti tutti i diritti e le azioni su una terra a Piaciano. Nel novembre del 1308, Iacopo di Giliberto donò all’Opera una terra con casa a Monistero, in località Colto. Tuttavia, l’operazione condotta con successo da frate Chiaro alla fine del ’200, ebbe un’inversione di tendenza nel 1312, quando l’operaio Iacopo di Giliberto Marescotti donò al monastero di San Galgano i diritti su quella terra e questo a sua volta la cedette “ad medium” a un certo Buono di Bianco del popolo di San Marco, perché la lavorasse e la migliorasse. In questa fase, dunque, sembra che alcune delle terre del monastero non fossero più lavorate dai conversi, bensì da mezzadri. Infine, nel novembre del 1292 frate Chiaro, operaio del Duomo, prese in affitto una terra boscata a San Quirico a Tonni, a Piano di Lepre – per dieci anni – al canone annuo di 20 soldi; a questo affitto ne seguirono altri lo stesso giorno. Le terre, che in realtà avevano valori abbastanza modesti, servivano all’Opera “ad fodiendum et extraendum inde lapides et marmora que sunt in ea”, cioè per evidenti scopi d’utilità della fabbrica, mantenendo così l’attività estrattiva. L’operazione di acquisizione di terre con pietraie proseguì nel 1306, quando furono acquistati da proprietari locali anche altri appezzamenti a San Quirico a Tonni. Un caso particolare si verificò nel 1303 quando il nuovo operaio frate Iacobo di Bertuldo nominò una serie di persone di fiducia come custodi della Selva del Lago, concessa provvisoriamente in gestione dal Comune all’Opera del Duomo. 10. Conclusioni Gli anni intorno al 1300 videro una generalizzata fase di ristagno nell’espansione dell’Ordine cistercense in terra di Siena, il che preludeva all’inesorabile declino che sarebbe avvenuto dopo la metà del secolo. In questo periodo erano ormai profondamente mutate le strutture sociali e la religiosità, con la nascita di nuovi movimenti, più consoni alle rinnovate esigenze spirituali dell’epoca. I monaci possedevano ancora ingenti proprietà nel contado e in città – come testimonia la Tavola delle Possessioni del 1316-20, formidabile “fotografia” dello stato patrimoniale di cittadini ed enti di Siena e del suo territorio – e, insieme alle loro filiazioni femminili di Monntecellesi e San Prospero, godevano di grande fiducia da parte dei Senesi.Tuttavia lo status politico ed economico raggiunto, che implicava una moltiplicazione della ricchezza, mise progressivamente i monaci al riparo da nuove imprese: la storia trecentesca di San Galgano suggerisce una certa ripetitività di ruoli. Con la scelta del primo ventennio del Trecento come termine cronologico conclusivo della nostra indagine, si è deliberatamente lasciata la vicenda di San Galgano sospesa nella fase di stabilizzazione (ancora peraltro aurea) e di progressivo ritirarsi dal campo. Dopo il 1320, i Cistercensi restarono ancora camarlenghi di Biccherna per molti anni, ma a essi non furono più affidate opere pubbliche di rilievo, alle quali pure durante il regime novesco si dette grande impulso. Nei decenni successivi, la perdita della sicurezza e di protezione durante le burrascose incursioni militari di fine Trecento sul territorio dell’abbazia si accompagnarono a una più generalizzata crisi dell’istituzione. Ma questo era ancora un fantasma lontano. Laura Neri Bibliografia Abbreviazioni ASS = Archivio di Stato di Siena ASF = Archivio di Stato di Firenze Fonti inedite ASF, KSGF = Compagnie soppresse da P. Leopoldo, 475, n. 290 bis ASF, Deposito Della Gherardesca, Pergamene, 5 ASF, Dipl. 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