1 L’origine della cultura secondo l’antropologia mimetica tratto da G. Fornari, Da Dioniso a Cristo. I dilemmi del sacrificio nell’antica grecia e nella civiltà occidentale, Marietti, Genova-Milano 2005 (in corso di pubblicazione) L’antropologia mimetica che Girard ha iniziato ad elaborare è la prima ipotesi sull’origine dell’uomo e della cultura che cerchi di tener presenti gli aspetti del problema visti finora come non comunicanti e non confrontabili fra loro, quelli biologici e naturali, e quelli culturali1. Questo rifiuto del pensiero contemporaneo a vedere l’unità del problema dell’uomo ha condotto a una vera schizofrenia culturale: da un lato, le scienze come la biologia e l’etologia tendono a descrivere e spiegare la cultura umana in continuità con le forme e le leggi del mondo naturale, negandone la specificità e l’unicità; dall’altro lato, la tradizionale impostazione umanistica e le attuali scienze umane tendono a vedere nella cultura un dato irriducibile e a sé stante, che nasce improvvisamente dal nulla o che esiste ab aeterno, secondo quel platonismo culturale che inavvertitamente ci condiziona, dove il termine platonismo ha una connotazione imputabile, più che al grande pensatore greco, alle imitazioni pedisseque del suo pensiero che si sono avute in Occidente, soddisfacendo un bisogno di rassicurazione simbolica di cui finora la nostra cultura si è alimentata. La tendenza scientistica crede che spiegare l’uomo voglia dire distruggerne l’immagine e la diversità, in accordo col pregiudizio positivistico secondo il quale ciò che è scientifico dev’essere necessariamente qualcosa di più povero e privo di vita rispetto ai dati iniziali del problema. La tendenza umanistica nega invece che qualunque spiegazione possa essere data, stendendo un’effettiva censura contro qualsiasi sforzo di riconoscere un contenuto di verità, anzi un contenuto qualsiasi, dietro la superficie autosufficiente e intangibile delle forme culturali. A un riduzionismo cieco, che anziché spiegare distrugge i termini del problema, si contrappone così un relativismo vuoto se non terroristico, col risultato in ogni caso di cancellare l’essere umano e ciò che più profondamente gli appartiene. Nella terza parte di questo lavoro vedremo che il problema del rapporto fra natura e cultura, il problema dell’uomo, si pone al centro del pensiero greco, ma va intanto notato come tale questione sia sostanzialmente rimossa nel pensiero contemporaneo, per motivi che la presente indagine vorrebbe contribuire a chiarire. Una prima osservazione importante è che l’approccio introdotto da Girard consente di reagire a tale tendenza. Essa infatti rifiuta qualsiasi assolutizzazione o annullamento ugualmente mitici dell’anomalia culturale dell’uomo, e si addossa lo scandalo di una spiegazione antropologica e culturale in linea di principio unitaria, che per forza di cose scavalca gli schemi e, pur utilizzando gli apporti delle varie discipline coinvolte, non risulta classificabile in nessuna di esse. In base a quali argomenti un programma tanto ambizioso può sostenersi? Esaminiamone allora i fondamenti fattuali e teorici, che toccherà poi alla nostra indagine verificare e approfondire. *** 1 Come dice il termine, l’antropologia mimetica parte dall’imitazione, affermando che l’intero apprendimento umano si basa su di essa. Quest’imitazione o mimèsi non dev’essere intesa come una ripetizione meramente passiva, bensì come un processo dinamicamente attivo e generatore: la mente umana è una prodigiosa macchina di simulazione che, mediante un ininterrotto processo per tentativi ed errori, riproduce e per così dire rigenera dentro di sé la realtà. Tale riproduzione mimetica della realtà non è un processo astrattamente naturale bensì concretamente culturale e relazionale: non è possibile imitare senza dei modelli dell’imitazione, a partire dai quali strutturare capillarmente le conoscenze e i comportamenti. L’uomo apprende e si relaziona con i suoi simili prendendoli come modello, e costruendo su questo modello se stesso. È quanto avviene ad esempio nella scena dei «figli del sole», in cui i più giovani imparano a tirare con l’arco imitando i più vecchi che li istruiscono, ma si tratta in generale del processo di apprendimento immediatamente osservabile nei bambini, e che poi continua anche in età adulta in forme più coperte e complesse. Questi rapporti imitativi, di norma almeno in apparenza tranquilli, nascondono però terribili possibilità distruttive. L’imitazione, se controllata, è assolutamente indispensabile e positiva, e Girard l’ha più volte asserito nelle sue ultime opere, senza tuttavia dare la giusta enfasi a tale aspetto né spiegarne le precise modalità, così che la sottolineatura degli aspetti distruttivi della mimèsi che è contenuta nei suoi primi scritti non viene corretta, e lascia la non ingiustificata impressione che ai suoi occhi la mimèsi umana abbia in sé alcunché di violento. Non è questo il momento di sviluppare una critica all’unilateralismo mimetico girardiano, ma di intenderne le più vere ragioni. Il fatto è che il pensatore francese ha reagito a una millenaria tradizione che vuole che l’imitazione sia qualcosa di neutro e inoffensivo. È qui all’opera non solo l’inconsapevolezza che è logico investa ciò da cui la nostra esistenza strettamente dipende, ma anche un’antichissima censura culturale, che non vuole vedere i concreti pericoli dell’imitazione per il semplice motivo che se ne deve assolutamente difendere, ragione questa della censura che potremo osservare in Platone, che tematizza vari tipi di imitazione tranne quella più evidente e pericolosa, l’imitazione acquisitiva o per il possesso. Possiamo riscontrare quotidianamente la stessa censura nell’omertà che circonda un fattore pervasivo nei nostri rapporti come l’invidia. Alla conoscenza nascosta e insieme lampante delle cause dell’agire umano si mostrerà assai più sensibile, rispetto ai modelli di conoscenza ufficialmente riconosciuti, la grande letteratura, alla quale difatti Girard ha dedicato alcune delle sue opere più significative, e non è certo un caso se le pagine di Thomas Mann ci dicono di più sull’antica Grecia di intere montagne di bibliografia. Potremo osservare il primo delinearsi di questa dicotomia conoscitiva nel conflitto tra filosofia e tragedia nella Grecia classica. Nel descrivere i fenomeni legati all’imitazione acquisitiva nell’uomo, Girard usa il termine volutamente generico di desiderio, che egli definisce come il risultato dell’inserimento dell’ipermimetismo della mente umana sui condizionamenti e bisogni di origine biologica. Ma, tralasciando per un istante le definizioni più circostanziate, è sufficiente partire da una nozione intuitiva del desiderio che, prima di essere una nozione teorica, è un’esperienza, si potrebbe dire l’esperienza fondamentale dell’essere umano. E il rilievo essenziale che ci aiuta a effettuare Girard è che il desiderio umano, se non v’è dubbio che parta da una base animale, si determina e si sviluppa solo in relazione agli altri, cioè in relazione ai modelli seguiti, acquisendo così la sua tipica connotazione simbolica, psichica, sociale, in una parola culturale. La definizione del desiderio, in un certo senso, la raggiungiamo ripercorrendone e rivivendone il processo, facendolo emergere attraverso la nostra esperienza, e questa esperienza che si fa consapevole ci mostra che il nostro desiderio funziona secondo una tipica configurazione a triangolo:1) il “soggetto” o per meglio dire l’imitatore, che deve apprendere per imitazione come organizzare e orientare il suo desiderio; 2) il modello, che gli mostra cosa desiderare; 3) l’oggetto da desiderare che, oltre che materiale, può essere simbolico, psicologico, sociale e così via. Al contrario di quanto credono il senso comune e la concezione romantica, che vedono il soggetto come preesistente al suo desiderio e il desiderio come una relazione lineare e binaria fra soggetto ed oggetto, il 2 concetto di imitazione acquisitiva ci costringe a vedere la struttura ternaria del nostro comportamento e la sua dipendenza sociale dagli altri che ci fanno da modello. Nella reale situazione triangolare del desiderio è il modello che funge da mediatore fra colui che lo imita e l’oggetto dell’imitazione. Noi desideriamo soltanto ciò che ci viene consapevolmente o inconsapevolmente mostrato come desiderabile, ed essendo l’oggetto desiderato di necessità il medesimo, il mediatore che ce lo rende desiderabile tende facilmente a diventare il rivale, l’ostacolo da superare per impossessarsi dell’oggetto, che più risulterà irraggiungibile più apparirà desiderabile, indipendentemente dal suo valore reale. L’imitazione acquisitiva o per il possesso porta così alla rivalità per il possesso. Alcune osservazioni aggiuntive possono adesso far capire le implicazioni, e complicazioni, teoriche di tale schema esplicativo di grande efficacia. Per intendere meglio il passaggio cruciale dall’imitazione alla rivalità, passaggio che dopo le prime indagini Girard non ha più trattato in modo estensivo, va precisato che anche l’imitazione per il possesso può essere positiva, nel senso che per la nostra vita e la costruzione della nostra identità noi abbiamo bisogno di “possessi” di vario tipo. Il pensatore francese mostra la tendenza, fastidiosamente accentuata dalle rimasticature di alcuni seguaci, a identificare la radice del “male” nel desiderio per il possesso. Tuttavia il “male” non sta nell’oggetto del possesso, né nel fatto del possedere preso in sé, bensì nella situazione conflittuale col modello a cui l’imitazione acquisitiva può portare. Il desiderio che Girard ci ha insegnato a riconoscere, ma con alcune semplificazioni da cui è tempo di distaccarsi, non è in sé né buono né cattivo, ma può diventare l’una o l’altra di queste due cose a seconda di come lo usiamo. Esso non è un processo deterministico, anche se tende a diventarlo allorché degenera, né è deterministicamente legato a un “oggetto” di qualunque tipo, pur essendo funzionalmente destinato agli oggetti, che restano il suo obiettivo normale e primario, altro aspetto su cui Girard non si è mai soffermato1. Quella che ora va notata è però la forza potenziale di questo processo: profondamente dinamico e relazionale, il desiderio riguarda da ultimo l’essere del “soggetto” desiderante, aspetto che si può definire solo come ontologico, e che emerge con prepotenza quando il desiderio si focalizza sul suo ispiratore mettendo in secondo piano il suo oggetto iniziale. È questa la fase che si può far corrispondere al desiderio metafisico di cui parla Girard: dalla mediazione iniziale o esterna, in cui il mediatore è lontano o nascosto, si passa alla mediazione interna, in cui il modello si fa vicino e visibile. Siamo ormai entrati nella zona più pericolosa del desiderio. A questo punto è però necessario introdurre un’altra sostanziale modifica alla teoria girardiana del desiderio elaborata in Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) 2 e poi mai più rimessa in discussione, malgrado i vistosi limiti di formulazione di quella che resta pur sempre un’“opera prima”. La modifica da me proposta permette anche di comprendere meglio il peculiare dinamismo che lega il desiderio all’oggetto. Girard ha sempre identificato in sostanza il desiderio metafisico e la mediazione interna con la rivalità, ma è agevole dimostrare come tale identificazione sia troppo riduttiva e sommaria. Se è vero che la mediazione interna è in molti casi sinonimo di rivalità, non è meno vero che essa è, in altrettanti casi, un processo estremamente creativo, al punto da poter essere definita la più grande fonte di energia psichica, sociale e culturale a disposizione dell’uomo in senso vuoi individuale vuoi collettivo, come cercherò di illustrare lungo tutto il lavoro. A determinate condizioni, la mediazione interna può avere un utilizzo positivo e fecondo quanto necessario, come ci mostra il fenomeno dell’innamoramento, che da un punto di vista mimetico ha tutte le caratteristiche proprie della mediazione interna, ma in un senso di per sé assolutamente “benigno”, e osservazioni analoghe possono essere fatte per infinite altre forme di intenso 1 Ho presentato questa mia visione del desiderio in M. Ceruti, G. Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina, Milano 2005. Ad essa è dedicata una mia apposita ricerca in fase di ultimazione. 2 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, tr. it. di L. Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1981. 3 coinvolgimento psichico e affettivo degli esseri umani. Tale osservazione appare di grande importanza per un adeguato sviluppo delle idee di questo pensatore. Girard non si è mai occupato dell’aspetto positivo della mediazione interna certo per un’incompletezza della sua formulazione teorica iniziale, ma anche perché aveva anzitutto bisogno di capire gli straordinari problemi che il desiderio pone alla vita degli uomini, e di sfatare il luogo comune secondo cui il desiderio sarebbe esclusivamente buono e innocente. Agli eccessi dell’ottimismo romantico Girard ha reagito con gli eccessi di una visione troppo tenebrosa e antiromantica, con una di quelle contrapposizioni polemiche che rendono saporosi e stimolanti i suoi scritti, ma che vanno superate e integrate una volta che si è raggiunta una visuale migliore. Si sa del resto con quale facilità lo stesso innamoramento sia suscettibile di degenerare in comportamenti conflittuali o addirittura violenti. Il pensatore francese è stato colpito fin dall’inizio dall’estrema facilità con cui il desiderio ontologico diviene distruttivo precipitando nella rivalità, nella quale la polarizzazione mimetica accantona l’oggetto, l’obiettivo apparentemente naturale del desiderio, e si fissa solo sul modello, che viene gradatamente investito di una superiorità sovrannaturale e schiacciante, ed è trasformato nel modello-ostacolo che domina il campo cancellando ogni altra cosa. Il primo problema della vita e della sopravvivenza degli uomini è come fare i conti con questa forza presente dentro di loro, che con la stessa facilità con cui dà loro la vita, e per le medesime ragioni, gliela può sovvertire, gliela può addirittura distruggere. Tralasciamo quindi, per ora, la mediazione interna positiva su cui non mancherà l’occasione di tornare, e soffermiamoci su questo ulteriore passaggio, necessario per intendere la teoria e la sua reale portata. La rivalità fa emergere il paradosso profondo in cui vivono gli esseri umani: essi si invidiano e odiano non per ciò che hanno di irriducibilmente diverso, come crede una visione di tipo romantico, ma per ciò che hanno di simile, anzi di identico. Come ci mostrano tanti grandi scrittori, gli amici che si imitano in tutto e per tutto possono diventare rivali non a dispetto della loro amicizia, bensì in ragione di essa. Gli uomini sono condannati a vivere insieme per gli stessi motivi in base a cui si dividono. Per ricorrere a un’espressione prediletta dagli antichi, e contemplata come inspiegabile dal romanticismo: Nec sine te nec tecum vivere possum (Non posso vivere né senza di te né con te), frase che ciascuno di noi potrebbe applicare non semplicemente alle sue esperienze sentimentali, ma in generale ai rapporti con i suoi simili. Questa situazione di paradosso senza vie d’uscita è descrivibile con il sistema causale del doppio vincolo o doppio legame (double bind), una situazione in cui il soggetto deve scegliere fra due alternative contraddittorie e ugualmente impossibili («né senza di te né con te»), dilemma insolubile che può portare a conseguenze distruttive per le persone coinvolte. Il doppio vincolo è stato teorizzato da Gregory Bateson nei suoi studi sulla genesi della schizofrenia e in diversi altri scritti, che però ne hanno sempre affrontato aspetti particolari11. Dal canto suo Girard presenta il doppio vincolo come il paradosso tipico della sua mediazione interna rivalitaria. Il modello del desiderio lancia implicitamente all’imitatore il messaggio «Sii come me!», ma quando l’imitatore obbedisce a tale comando ciò provoca la rivalità, per cui il modello lancia ora il messaggio opposto «Guai a te se sei come me!»; siccome però nella relazione il modello è portato a sua volta a confermarsi in quanto modello, questo farà sì che, una volta che l’imitatore si allontana, il modello ritorni a lanciare il messaggio iniziale, con un esasperarsi della mediazione mimetica: più l’imitatore segue il primo comando più il modello gli lancerà il secondo divieto, ma più l’imitatore si conforma al divieto più il modello ribadisce il suo ruolo, ritornando all’ingiunzione iniziale. Comunque vada, il modello conferma sempre più la sua superiorità, mentre l’imitatore sarà dal canto suo sempre più disorientato, avvertendo la propria incapacità di soddisfare ai comandi contraddittori dell’altro come una colpa o inferiorità costitutiva. Il sistema formato dalle due persone tende al collasso: con tutte le possibili combinazioni intermedie l’imitatore arriverà a odiare il modello, oppure a odiare se stesso, come 4 avviene in molte patologie psichiche. Il modello, di solito, viene direttamente coinvolto e, non scorgendo le cause dell’intero processo, addossa all’altro tutta la colpa della situazione. Sotterranea o esplosiva, la rivalità si scatena, rendendo i due partner del rapporto mimetico i doppi l’uno dell’altro. Il doppio vincolo per Girard non è alttro che l’illustrazione del rapporto rivalitario di doppio. Anche su questo punto ci sarebbe molto altro da aggiungere. Girard ignora completamente gli studi di Bateson in cui questo grande studioso esplora le potenzialità creative del doppio vincolo nell’apprendimento animale ed umano, nelle attività ludiche e artistiche, e in approcci terapeutici come quello seguito dagli alcoolisti anonimi; mentre Bateson invece ignora la relazione strutturale del double bind con l’imitazione, la specificità culturale del doppio vincolo umano, e l’enorme importanza della sua versione ipermimetica e rivalitaria. La mia interpretazione del doppio vincolo permette di integrare queste due visioni, superando l’unilateralità di entrambe. Proprio la mediazione interna ci attesta come il doppio vincolo umano sia una struttura causale estremamente complessa ed elastica che, con la stessa forza con cui può essere distruttiva, può divenire straordinariamente creativa, a differenza di quanto ritiene Girard, per il quale il doppio vincolo non è che un modo di descrivere il rapporto di rivalità. Nella mediazione interna positiva il doppio vincolo è in grado di liberare, nelle condizioni favorevoli, la sua valenza creativa, che orienta e manipola i doppi che la mente dell’uomo imitativamente fa suoi in chiave rappresentativa, imitativa, simbolica. L’esistenza stessa dell’arte, non per niente sistematicamente e contraddittoriamente sottovalutata da Girard, presuppone questa sorgente generativa di doppi, senza la quale la rappresentazione umana non si sarebbe potuta mai costituire. Ma, riservando a un’altra sede questi interessanti sviluppi3, quello che ora più ci interessa è la struttura di doppio che la rivalità fa emergere. Il caso più paradigmatico di rivalità, come accennavo, si ha allorché la mediazione ostile è doppia e reciproca. Pure il modello infatti si riconosce nel modello dell’altro, poiché da esso gli giunge la sua conferma ontologica. Attraverso la polarizzazione mimetica la simmetria essenziale dell’imitazione si fa visibile: ognuno in realtà imita l’altro, ognuno è modello dell’altro, quantunque con ruoli iniziali apparentemente del tutto diversi. Le parti in gioco credono di accentuare e confermare sempre più le loro differenze, e invece manifestano sempre più l’identità dei loro desideri. Il momento finale in cui si realizza questa simmetria speculare è la violenza dei doppi, in cui la rivalità non ha più freni di sorta e diventa desiderio di distruggere in modo totale il nemico, situazione che si può sviluppare contagiosamente in un processo a catena suscettibile di coinvolgere un’intera collettività. È il pericolo latente nel sogno come nella vicenda reale de La montagna incantata: la crisi dei doppi, in cui ciascuno diventa l’immagine simmetrica e opposta della violenza degli altri, l’homo homini lupus di Hobbes. Il simbolo del doppio, diffuso in tutte le culture umane, ci ricorda la formula per così dire chimica di questo processo; il fenomeno potenzialmente inarrestabile delle vendette e delle faide ce ne dà l’esemplificazione concreta; il cannibalismo, che ci permette di divorare le carni del nostro nemico, magari ancora palpitanti come nell’omofagia, ci ricorda il sostrato selvaggio delle nostre rivalità. Questa è la faccia nascosta di ogni nostra rappresentazione di doppio. Il desiderio ontologico è già in sé un fenomeno culturalmente complesso12, tuttavia per comprenderne la portata esplicativa basta riferirsi ai meccanismi mimetici che ne stanno alla base, e che all’alba dell’uomo devono essersi presentati in una forma estremamente rudimentale quanto terribilmente 3 Ho fatto una prima sintesi della mia visione del doppio vincolo in rapporto al desiderio in G. Fornari, Il doppio vincolo del desiderio in Leonardo. Verso un’epistemologia dell’arte e della religione, in R. Trigona (a cura di), Imitazione creativa. Evoluzione e paradossi del desiderio, Moretti & Vitali, Bergamo 2004, pp. 77-120. 5 violenta. È con questo ardimentoso, temerario passaggio genetico che Girard si è impegnato in una teoria esplicativa dell’origine dell’uomo e della cultura, utilizzando la grande idea di Freud di un’origine dell’umanità da un evento cruento, da un assassinio collettivo. Negli stessi anni in cui è ambientata La montagna incantata e nella stessa temperie culturale, Freud aveva elaborato in Totem e tabù l’ipotesi che la cultura umana, col suo sistema di divieti, sia nata dall’uccisione del padre primordiale, divorato dall’orda dei figli che volevano impossessarsi delle donne. L’intuizione di Freud è straordinaria, anche se è limitata dalla sua visione oggettuale del desiderio come dipendente dalla libido, per cui egli continua a riferirsi al padre del triangolo edipico quale fonte dei divieti sessuali, mentre è invece l’uccisione del padre a porre in modo drammatico il problema dei divieti, dato che è dopo di essa che i figli devono spartirsi le donne. Per sfruttare il motore esplicativo da lui genialmente trovato, lo psicanalista avrebbe dovuto liberarsi del suo triangolo edipico, il quale, pur proponendo già potenzialmente il triangolo del desiderio, lo priva però della sua vera natura mimetica, che non dipende naturalisticamente dagli oggetti né dai rapporti di parentela. Come nel triangolo del complesso di Edipo Freud è obbligato a supporre già quella rivalità che non è in grado di spiegare, attribuendo al bambino il desiderio perverso di possedere la madre e uccidere il padre, così è costretto in Totem e tabù a presupporre già quelle differenze culturali che si è messo nell’impossibilità di giustificare. Pur di mettere in moto l’apparato esplicativo da lui stesso bloccato Freud è costretto a ricorrere a un escamotage, un’autentica seconda origine in cui i fratelli, per non cadere in rivalità dopo l’uccisione del padre, si accordano per spartirsi le donne, con l’inconseguenza tipica di ogni contrattualismo, che presuppone già quella capacità di accordarsi che può essere solo il risultato di un evento non oggetto di contrattazione. Come non si rende conto che la vera causa della crisi violenta non è un certo tipo di oggetto né un certo rapporto di parentela, così il fondatore della psicanalisi non realizza che l’essenziale è che venga ammazzato non il padre, bensì una vittima qualsiasi. L’assassinio fondatore di Freud rimane un evento unico e irrelato, incapace di spiegare alcunché e come tale liquidato dagli stessi freudiani; la vittima di Girard fornisce invece la causa efficace e coerente che, ripetuta attraverso un processo lunghissimo, è in grado di spiegare la soglia del culturale13. Secondo il pensatore francese un mutamento o una serie di mutamenti evolutivi ha portato una (o alcune) specie di primati a un incremento massiccio dei comportamenti imitativi, già molto sviluppati negli altri primati, fino ad una soglia critica in cui le gerarchie animali del gruppo non sono state più sufficienti a controllare l’imitazione acquisitiva. La rivalità mimetica è esplosa, coinvolgendo il gruppo nella crisi mimetica o crisi dei doppi. L’unica via per uscire dalla crisi era rompere in una qualunque maniera la simmetria mortale dei doppi, ed è a questo punto che si dev’essere verificato, in forma potenziata, un meccanismo già esistente nel regno animale per stornare l’aggressività fra due contendenti: quello in cui i due avversari colpiscono un “terzo”, e in tal modo si riappacificano (schema che è ancora riconoscibile nelle due streghe che si uniscono per divorare il bambino in Thomas Mann). Ma il meccanismo animale stavolta si è riproposto in forma imitativa e collettiva, secondo le modalità del linciaggio: un membro del gruppo, per un motivo qualsiasi (un difetto fisico o una qualunque diversità, ciò che Girard chiama segno vittimario), attira l’attenzione di altri, e questo è già sufficiente a rompere la simmetria. La polarizzazione mimetica si può ora rapidamente concentrare, in forza di un identico processo contagiosamente imitativo, sulla vittima prescelta, che diventa l’unico bersaglio della violenza di tutti. Ritorna l’unanimità, la vittima viene uccisa, il gruppo miracolosamente ritrova la pace. Si può concepire senza esagerare il primo momento dopo l’uccisione della vittima come un momento vertiginoso. Per visualizzarlo possiamo pensare alla scena iniziale del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, in cui gli scimmioni destinati a diventare l’uomo sono “visitati” da un misterioso monolito, dal quale nascerà la cultura insieme con l’uso controllato della violenza, e varrebbe la pena di riflettere sulla strana emozione che suscita tale scena, come se a parlarci, attraverso stratificazioni culturali vecchie di milioni di anni, fosse effettivamente qualcosa di vero. E non è qualcosa come un accento di verità a parlarci attraverso queste ricostruzioni, qualcosa a cui possiamo reagire con l’interesse 6 o il fastidio che può suscitare soltanto ciò che è realmente accaduto? Per completare la magnifica intuizione del film basta immaginare al posto del monolito la vittima, con l’aggiustamento ulteriore – e questo può essere un miglioramento della formulazione di Girard – che la scena dell’origine va immaginata non come una tranquilla disposizione a cerchio intorno a un cadavere: questa disposizione spaziale è fondamentale, ma quale premessa e risultato di un evento assolutamente parossistico, uno squartamento cannibalico, un’omofagia, che è in sostanza ciò che col suo intuito antropologico già postula Freud14. Freud acutamente comprende che il sacrificio del cammello descritto da Robertson Smith, in cui una tribù di Arabi si gettava su un cammello legato facendolo a pezzi e divorandolo crudo, ossia vivo, «testimonia di una remotissima antichità»15, e a torto non si sofferma su un particolare che Robertson Smith riprende più avanti e che la sua fonte, il cristiano san Nilo, precisa, e cioè che gli Arabi del Sinai quando potevano sacrificavano un giovane prigioniero di particolare bellezza16. È vero che in tal caso la vittima veniva bruciata e non era oggetto di omofagia, ma svariati indizi che il grande studioso inglese raccoglie puntano verso un sacrificio analogo a quello del cammello, in cui si sia deciso a un certo punto di bruciare le carni umane perché avvertire come troppo cariche di forza sacra4. Si è dubitato dell’attendibilità della fonte utilizzata da Robertson Smith17, che oltre tutto ha agli occhi di alcuni studiosi il grave difetto di essere cristiana, ma, al di là della vicenda in cui la testimonianza è inserita, appare chiaro che la sua precisione etnologica e la sua concordanza con altre testimonianze indipendenti su riti analoghi (che tuttora esistono nell’area mediorientale), non possono essere frutto di un’invenzione18. Non è questo l’unico caso in cui bisogna notare da parte di molti ricercatori una pericolosa disinvoltura nel valutare e scartare le fonti, anzi nel non rendersi nemmeno conto che di fonti si tratta, atteggiamento che nessuno, nell’epoca d’oro del positivismo, si sarebbe sognato di avere. Ben altri indizi comunque puntano in direzione di questo scenario. Il cannibalismo è attestato in tutte le culture più primitive e nei reperti paleontologici, e i miti sull’origine del mondo da qualche essere smembrato sono diffusi ovunque, come attesta Mircea Eliade, rappresentando una sorta di radiazione fossile della cultura. La prima differenza che rompe il mondo relazionale e concreto degli animali, la prima scintilla di quella che poi sarebbe divenuta coscienza si crea adesso, attorno alla vittima uccisa, o meglio attorno a quel poco che ne resta, evidentemente il sangue che ricopre tutti i membri del gruppo, e qualche osso, ed è infatti da qui che derivano, seguendo l’ipotesi della vittima, i due colori rituali più tipici delle popolazioni primitive: l’ocra rossa, presente in reperti antichissimi di cui parleremo più sotto e universalmente usata come simbolo del sangue, e il bianco, antico simbolo di morte. Ma è tutta un’antica simbologia corporea che possiamo reinterpretare alla luce di codesto scenario: ad esempio il cuore, visto tradizionalmente come sede delle emozioni o della memoria, non è la parte del corpo veramente più emozionante e memorabile, dato che continua a pulsare per un po’ anche dopo che è stato strappato? Osservazioni analoghe valgono per altri organi che, appena strappati, possono dare l’impressione di palpitare per la loro estrema ricchezza di vasi sanguigni, come il fegato e i reni. Anche in tal caso dobbiamo scegliere fra spiegazioni banali, che presuppongono già un’attenzione di tipo oggettuale, e una spiegazione “forte”, in grado di farci capire come interpretazioni di questo tipo siano potute sorgere. Verrebbe spontaneo aggiungere che è stato tratto da tutto ciò «una conseguenza ben fine e galante»! Vedremo come da procedimenti del genere si sia sviluppata in Grecia la simbologia della “parte divina”. L’essenziale da sottolineare adesso, in questo bagno di sangue, è il meccanismo del doppio transfert che secondo Girard articola l’intero processo: al transfert di aggressività subentra il transfert di riconciliazione, doppio passaggio che rappresenta la salvezza del gruppo dalla violenza mimetica. La terminologia girardiana, inaugurata in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del 4 Il grande semitista non capisce del tutto il ruolo sostitutivo del sacrificio animale rispetto a quello umano, ma arriva alla conclusione che il rito del cammello derivi da sacrifici preistorici che poi hanno cambiato natura in tempi più vicini (Lectures, cit., pp. 368 ss.); applicando la teoria vittimaria è facile completare la ricostruzione in base ai materiali da lui magistralmente raccolti. 7 mondo, risulta non del tutto perspicua, giacché l’aggressività non è necessariamente violenza (spesso è anzi finalizzata a impedirla), mentre il termine “riconciliazione” sottolinea esclusivamente l’elemento sociale, laddove è invece questione di identificare un fattore che è alla base della stessa socialità. Per queste ragioni preferisco parlare di transfert violento o persecutorio e di transfert di divinizzazione, divinizzante, o anche estatico, pensando alle caratteristiche fenomeniche di questo momento fondatore della cultura, che poi si svilupperanno in chiave più personale nei fenomeni di mediazione interna. Tutte le future differenze culturali – quella fra uomo e dio, fra vita e morte, fra dentro e fuori – nasceranno da tale esperienza, che non appare riducibile alla sola componente sociale. La simbolicità di cui è fatta la cultura dell’uomo trova nella vittima il suo primo segno, come ci potrà suggerire la stessa etimologia della parola greca symbolon. Il passaggio dal biologico al culturale non è stato però immediato. Ci dev’essere stata una lunga fase infraculturale ancora altamente instabile, per il motivo che non esistevano adeguati mezzi di controllo. Le risoluzioni violente si ripetevano allo stato spontaneo: ogni nuova unanimità vittimaria portava a un potenziamento delle capacità mimetiche e intellettuali degli animali in via di ominizzazione, questo portava a una nuova crisi e così via, in un processo a spirale che avrebbe prodotto l’uomo19. Si è raggiunta una nuova stabilizzazione quando sono state elaborate delle differenze sufficientemente forti da permettere un controllo simbolico e strumentale delle crisi mimetiche, ossia una loro ripetizione sotto controllo. Nasce la cultura, evento che coincide in tutto e per tutto con la nascita della religione, in cui la vittima è vista prima come responsabile della crisi finché è interna al gruppo, e poi come divinità salvatrice allorché viene uccisa e diventa esterna, consentendo la riconciliazione del gruppo. È ovvio che per descrivere questa situazione iniziale si è costretti a ricorrere a termini, quali “responsabile” o “divinità”, che per noi hanno un significato preciso e altamente evoluto, ma che allora dovevano corrispondere alle percezioni quanto mai elementari che abbiamo appena descritto, sintetizzabili nella nozione di sacro, definito da Girard come la percezione trasfigurata della violenza mimetica della collettività, malefica quando è all’interno, benefica quando è all’esterno. Anche questa definizione girardiana è riduttiva poiché, con una semplificazione analoga a quella della mediazione interna, non riconosce a sufficienza la valenza positiva e creativa del sacro, e la sua pervasiva presenza nella religiosità arcaica. Ma ciò che ora preme è di sintetizzare uno schema causale che poi spetterà a questa intera ricerca rivedere, modificare e arricchire. Quella che si forma attraverso il sacro è un’organizzazione in grado di tenere sotto controllo il mimetismo espellendolo a cadenze regolari. A queste due funzioni (sorveglianza/espulsione) corrispondono i due pilastri di ogni cultura umana: i divieti e i rituali. I divieti proibiscono tutti quei comportamenti, quegli oggetti, quei simboli che possono provocare o anche solo ricordare la rivalità mimetica. I riti ripetono sotto stretta sorveglianza ciò che è normalmente vietato, ossia la crisi mimetica e la sua risoluzione vittimaria, assicurando la rifondazione periodica della comunità per mezzo del sacrificio. Nasce la festa, la riproduzione rituale dell’evento salvifico, preceduta o seguita da un’antifesta in cui ci si purifica della violenza mimetica momentaneamente liberata. In tal modo la comunità difende le proprie differenze culturali dall’indifferenziazione contagiosa e mostruosa del sacro. Si crea un potente sistema antimimetico e propiziatorio la cui pietra angolare è la vittima sacrificale, che Girard chiama anche capro espiatorio20. L’ipotesi girardiana sull’ominizzazione non ha finora trovato vera accoglienza nel dibattito scientifico e, viste anche le informazioni incomplete che ancora abbiamo sull’argomento, il pensatore francese si è limitato a enunciazioni teoriche generali, e a tratti generiche, che come tali vanno valutate. Si potrebbe azzardare, allo stato attuale delle conoscenze, che la soglia del culturale e quindi del religioso sia stata varcata dalla prima specie a cui gli studiosi attribuiscono caratteristiche umane, Homo habilis, intorno a 8 due milioni di anni fa5. Ci sono dei reperti attribuiti a questa specie che diventano emozionanti se letti alla luce dell’ipotesi vittimaria. A Olduvai (Tanzania), in un sito riguardante Homo habilis, sono stati trovati dei cerchi di pietre risalenti a circa 1.800.000 anni fa, e la conclusione è che proprio il cerchio è la simbolizzazione spaziale più antica dell’umanità, il cerchio che riflette la disposizione del gruppo intorno alla vittima. Difficile dire a che cosa questi cerchi servissero, ma l’ipotesi più seducente, benché indimostrabile allo stato attuale delle ricerche, è che essi svolgessero una qualche funzione rituale: la spiegazione del paleoantropologo Fiorenzo Facchini che essi fossero «organizzati a scopo di protezione e per la spartizione del cibo fra i membri del nucleo familiare» 6 non è necessariamente in contraddizione con un valore sacro di questi luoghi (il quale a sua volta andrebbe contro la visione riduttiva che Girard ha del sacro), ma non può in ogni caso ignorare che, nella preistoria in genere e più ancora in una fase talmente remota, occorre prescindere da qualunque visione meramente utilitaristica e strumentale. Nella nebbia di testimonianze così lontane nel tempo è per ora impossibile giungere a conclusioni più positive, ma resta innegabile, e se vogliamo ancor più impressionante nella sua nudità documentaria, la constatazione che la più antica organizzazione spaziale conosciuta dell’umanità sia circolare, e che sia il comportamento del gruppo che circonda la vittima a fornirne la spiegazione più convincente e più illuminante. La nebbia si dirada per un attimo, e lascia intravedere qualcosa di assai più interessante delle solite tediose ricostruzioni di stampo naturalistico. E non mancano altri indizi rivelatori. Leggiamo che cosa scrive lo stesso Facchini a proposito dell’ocra rossa: L’ocra rossa è stata ritrovata in un antichissimo deposito antropico dell’Etiopia risalente a un milione e mezzo di anni fa e anche nel II strato di Olduvai in Tanzania; essa […] potrebbe essere stata impiegata per realizzare segni a carattere simbolico e decorativo (forse pitture sul corpo), anche se non pervenuti a noi, per cui si potrebbero vedere, nell’uso dell’ocra, le radici del simbolismo e dell’arte. 21 L’osservazione è senz’altro da condividere, ma è proprio l’ipotesi vittimaria che consente di leggere un simbolo tanto remoto, fornendo il supporto teorico per combinare i dati paleontologici con i dati etnologici in nostro possesso, che attestano come l’ocra rossa sia ovunque un simbolo del sangue umano. L’ocra rossa così interpretata va alle radici del simbolismo degli uomini in una misura che chi ha scritto queste parole certamente non immaginava. Come il cerchio è la più antica figura dell’uomo, così l’ocra rossa è il suo più antico colore, un colore che in origine doveva designare, in maniera estremamente fisica e simbolicamente intensissima (due caratteristiche che devono restare appaiate in contesti preistorici e arcaici), il luogo in cui si era uccisa la vittima. Se il cerchio ci restituisce la forma dello spazio più primitivo, l’ocra ce ne dà il contenuto. Benché sia troppo presto per tirare conclusioni definitive, queste mie letture, dichiaratamente congetturali ma nient’affatto infondate, mi sembrano già illustrare che ci troviamo dinanzi a una proposta di ricerca capace di unificare e spiegare dati finora 5 G. Fornari, «Alla ricerca dell’origine perduta», cit., pp. 171-76. La mia proposta viene accettata da Girard in R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João de Castro Rocha, Cortina, Milano 2003, p. 84. Inutile ricordare che simili collegamenti fra una teoria generale e precise scoperte paleoantropologiche sono condizionati dallo sviluppo delle nostre conoscenze in merito e valgono solo entro questi precisi limiti. 6 F. Facchini, Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della Paleoantropologia, nuova edizione, Jaca Book, Milano 1994, p. 99 (e fig. 22). 9 silenti o sconnessi, motivo che dovrebbe bastare da solo a farla prenderla attentamente in esame. Per rendere chiaro al lettore il procedimento esplicativo sin qui seguito, possiamo riassumere l’intero ciclo mimetico nel seguente schema: 1. Mimèsi acquisitiva () 2. Rivalità per il possesso () 3. Crisi mimetica o crisi dei doppi () 4. Transfert violento o persecutorio (scelta della vittima “interna”) Uccisione-espulsione Transfert divinizzante o estatico (trasfigurazione finale della vittima “esterna”) Divieti Rituali (ripetizione del ciclo/ rifondazione sacrificale) Come dovrebbe già risultare dal carattere non deterministico dei fenomeni mimetici ricordato sopra, questo schema non deve dare l’idea di una successione lineare e inevitabile, e ho cercato di evidenziare questo importante dettaglio mettendo le frecce che portano da una fase all’altra fra parentesi. Lungo le sue varie fasi il processo acquista un carattere di crescente necessità, ma solo alla fine c’è il bivio fondamentale, che può condurre a due esiti opposti, e a questo punto ugualmente necessari una volta che li si sia imboccati: o la vittima funziona e il gruppo si salva, o il gruppo si autodistrugge, come dev’essere successo in innumerevoli casi. In questa visione non c’è un meccanicismo di marca positivistica, né una necessità di tipo hegeliano, sebbene Girard non abbia tutti gli antidoti contro il primo pericolo, né tematizzi veramente il secondo. L’imitazione e il sacrificio sono faccende “pratiche”, prima che filosofiche o concettuali, nel senso che essi devono svolgersi in modo da consentire l’esistenza di tutte le articolazioni culturali e mentali successive con cui noi li descriviamo, e che non potrebbero prodursi né concepirsi se tale svolgimento non ci fosse stato. Quelle individuate nello schema sono le quattro grandi fasi del ciclo rituale, che dev’essere ripetuto, in parte o in tutto, dalla comunità con cadenza regolare o in momenti di particolare emergenza. L’intero processo può essere però sintetizzato nelle tre sequenze della fase finale: la selezione della vittima, che racchiude in sé le fasi mimetiche precedenti, la sua uccisione, e la sua divinizzazione. È attraverso il ripetersi delle rifondazioni rituali che si formano gradatamente tutte le categorie mentali e rappresentative, gli strumenti simbolici ed espressivi, nonché tutte le istituzioni religiose, sociali e politiche dell’uomo. Il sacrificio diventa un vero «strumento di esplorazione del mondo»22. In esso l’imitazione, potenziata al massimo grado, diviene metamorfosi23, capacità di impossessarsi della realtà tramite l’uccisione e la trasfigurazione della vittima, fenomeno mimetico talmente intenso da farci capire come il sacrificio, con la sua carica estatica e divinizzante, vada nettamente al di là delle limitazioni girardiane e stia alla radice di quella che Girard chiama mediazione interna. La capacità di utilizzo della mediazione interna da parte delle culture è essenziale, e deriva dal momento fondatore del transfert di divinizzazione, che altro non è che una sorta di proto-mediazione interna “buona” in cui il dio, la vittima 10 uccisa, ordina al gruppo che cosa deve fare. Senza questo comando misterioso e imperioso la ripetizione attenta del ciclo rituale e lo scrupoloso rispetto dei divieti sarebbero incomprensibili. Tutto questo presuppone un’imitazione non solo in negativo ma in positivo, un rapporto di imitazione assoluta descrivibile solamente come rapporto estatico di adorazione. L’idea di una mediazione interna ritualmente controllata, che porta a quell’imitazione particolarmente intensa che è la metamorfosi, può farci intuire come l’uomo abbia gradatamente colonizzato il mondo per mezzo del sacrificio. Anche a questo proposito la potente intuzione di Girard ci fornisce la modalità essenziale di tale passaggio. Poiché la vittima viene avvertita come proveniente dal sacro esterno alla comunità, l’organizzazione rituale del gruppo tende, sotto la spinta di un apparato sempre più imponente e soffocante di divieti24, ad allargarsi nella realtà circostante in virtù di un meccanismo già presente nel processo vittimario, che altro non è di per sé che una violenza sostitutiva: il meccanismo della sostituzione sacrificale. La vittima interna al gruppo comincia ad essere sostituita da un membro di un’altra comunità oppure da un animale: si sviluppano così, in un arco di tempo lunghissimo, le istituzioni culturali della guerra, della caccia, dell’addomesticamento degli animali. In tutte queste attività la comunità si procura nuove vittime già sacralizzate perché esterne, e assimilabili al gruppo mediante periodi di prigionia o effigi cariche di potenza: nei casi più fortunati queste metamorfosi sostitutive produrranno avanzamenti tecnici e materiali. La sostituzione sacrificale si attua anche a livello simbolico e interno, come avviene nell’interpretazione rituale della morte, in cui chi muore è assimilato alla vittima e come tale può venir mangiato e venerato. Si potrebbe anzi formulare l’ipotesi che il cannibalismo funerario, documentato presso molte culture tribali, sia la forma più arcaica di rito funebre, che riforniva fra l’altro il gruppo di preziose riserve proteiche. La vittima sacrificale è una funzione elastica in grado di generare significati e vantaggi sempre nuovi a seconda del modo in cui viene utilizzata, come dimostra la nascita della monarchia in cui il re era una vittima che per un incidente qualsiasi, come una sua resistenza, non è stata sacrificata subito. Girard individua la matrice causale della nascita delle istituzioni politiche, quantunque lo faccia con la sua tpica semplificazione di sottovalutare il transfert divinizzante7. Ad agire è invece il transfert di divinizzazione, in una forma temporanea e precaria che fa di questa vittima mancata una sorta di dio vivente, di guida sacrale della comunità, in attesa dell’occasione giusta per sacrificarla. Col tempo, in molti casi, il monarca sacro sarebbe riuscito a stabilizzare il proprio potere, grazie alle vittime sostitutive che devono comunque morire al suo posto. L’esempio del re ci fa vedere l’origine e l’evoluzione delle istituzioni politiche e più tardi giuridiche, che, apparendo sacre e perciò trascendenti rispetto all’universo dei doppi, sono capaci di arginare la violenza col sacrificio e la punizione ad esse delegati. Bisogna comunque evitare il pericolo di seguire una spiegazione evolutiva che proceda per stadi schematicamente distinti, poiché le forme sacrificali più evolute possono combinarsi o coesistere con quelle più arcaiche, in modi che si devono verificare di volta in volta. La scena eleusina di Mann, seguendo un procedimento assolutamente coerente con la realtà storica della religione greca, si riferisce al sacrificio di tipo più arcaico, conservato quasi a guisa di fossile all’interno di un apparato rituale molto più complesso e sofisticato. L’importante per le comunità umane non è fornire materiali per edifici teorici, bensì trovare un sacrificio che funzioni, e nessuna comunità rinuncia facilmente ad un rito che abbia dato buona prova di sé nel corso del tempo e a seguito di crisi angoscianti e mortali. Per mille strade diverse, ma con regolarità sempre osservabili, tutta la dimensione simbolica dell’uomo nasce e si sviluppa dal rito, come dimostra il carattere incontestabilmente rituale che hanno comportamenti e attività che siamo abituati a ritenere del tutto estranei alla religione. Il conservatorismo delle istituzioni culturali 7 Si veda su questo l’ultimo capitolo. 11 dell’uomo è formidabile, e testimonia da solo della potenza della loro struttura generatrice. Come osserva Girard riprendendo le analisi di Caillois, un esempio lampante ci è offerto dalle attività ludiche e artistiche, derivazione post-rituale delle quattro fasi del ciclo mimetico e rituale. Il teatro ad esempio riproduce l’imitazione da cui parte l’intero processo; i giochi di competizione ripetono la rivalità per il possesso (entrambi hanno inoltre – c’è da aggiungere - riferimenti diretti o indiretti alla vittima); la danza e la musica sono la ripetizione simbolica degli stati allucinatori della crisi dei doppi; i giochi d’azzardo, col loro indefinibile fascino, riproducono simbolicamente la scelta casuale e fatale della vittima25. Sarà interessante vedere che uso farà la civiltà greca di questi riti parzialmente deritualizzati a cominciare dal teatro. Questa rapida panoramica dovrebbe essere già sufficiente a mostrare come la teoria sacrificale permetta di leggere in filigrana i fenomeni culturali apparentemente più disparati, facendone emergere la derivazione genetica dai processi mimetici. La teoria va non solo contro il platonismo culturale per cui le nostre categorie culturali esisterebbero da sempre, ma anche contro quello che si potrebbe chiamare il nostro aristotelismo o fissismo culturale, in cui le diverse forme culturali sono viste come staticamente separate e irriducibili le une alle altre, similmente alle specie viventi nella biologia pre-evoluzionista. Questi atteggiamenti mentali non riflettono semplicemente un’insufficienza culturale, ma sono il risultato necessario del fatto che l’uomo non può vedere di per sé il processo che gli ha dato origine, e se ne deve anzi proteggere a livello cognitivo e rappresentativo. L’intero processo è possibile soltanto se rimane nascosta la sua origine dalla violenza del gruppo. Se il gruppo vedesse la propria violenza non se ne potrebbe salvare, non potrebbe interrompere la catena senza fine dell’imitazione contagiosamente violenta. La prima luce di quella che oggi chiamiamo coscienza è stata prodotta dal più prodigioso degli accecamenti. La comunità percepisce se stessa come assolutamente in balìa di una vittima “realmente” onnipotente, prima nel male e dopo nel bene. Soltanto la più completa mistificazione su quanto in realtà è successo permette la fondazione della cultura, che affonda le sue radici nel nascondimento della vittima, nell’occultamento vittimario. Girard chiama questa mistificazione, nel suo aspetto di illusione collettiva, inconscio o misconoscimento persecutorio. Tale occultamento della vittima ha trovato corrispondenza concreta dapprima nel suo divorarla cruda, o cotta quando è stata scoperta la domesticazione del fuoco, e alla fine nel grande avanzamento culturale della tomba, sviluppo simbolico delle pietre che coprivano le vittime lapidate (da qui le piramidi) o dei luoghi naturali (acque, grotte, burroni) in cui la vittima era gettata. Girard osserva il ruolo fondamentale della sepoltura, ma senza focalizzarne la posizione e funzione precisa all’interno della storia culturale umana. Le più antiche tombe identificate sinora, riconducibili a Homo sapiens8, sono state scoperte in Palestina e risalgono a circa 90.000-100.000 anni fa. Esse si collocano in una fase evolutiva importantissima, che precede di poche decine di migliaia di anni l’esplosione culturale di Homo sapiens, la sua piena conquista del linguaggio simbolico e figurativo, e la contemporanea fuoriuscita dalla combinazione di evoluzione somatica e culturale che ne aveva segnato previamente il successo: all’incirca fra 40.000 e 35.000 anni fa Homo sapiens imbocca con decisione la strada dell’evoluzione ormai esosomatica e culturale, mentre l’uomo di Neanderthal ci attesta il tentativo fallito di insistere sull’evoluzione somatica e l’aumento della massa cerebrale9 . La formula vincente d’ora in poi sarebbe stata quella di un sistema cerebrale estremamente agile e duttile, che concentrasse in sé tutte le potenzialità imitative dell’essere umano 8 P.V. Tobias, Paleoantropologia, tr. it. di A. De Lorenzo, Jaca Book, Milano 1992, p. 144. L’uomo di Neanderthal, che poteva raggiungere una massa cerebrale superiore a Homo sapiens, conosceva rudimentali riti di sepoltura ma non è riuscito ad accedere alle capacità rappresentative e simboliche di sapiens, restando inferiore anche a livello tecnologico. Oggi gli studiosi ritengono che l’uomo di Neanderthal sia una specie a sé stante, l’Homo neanderthalensis (mentre in precedenza molti autori, come Facchini, lo consideravano una sottospecie della specie sapiens); cfr. R. Lewin, R.A. Foley, Principles of Human Evolution, II ed., Blackwell, Malden 2004, pp. 397-98. 9 12 sviluppandone esponenzialmente la funzione di matrici simboliche e operative. L’invenzione della sepoltura ci permette di ricostruire la struttura interna, e concreta, di questo prodigioso passaggio. Se la vittima è il segno della cultura, allora la tomba è il segno del segno, un’enorme conquista sotto il profilo della simbolizzazione, giacché rappresenta la premessa, di massima intensità materiale e simbolica, di ogni futuro metalinguaggio. Non è esagerato affermare che ogni simbolo culturale complesso trova nella tomba un suo momento genetico di formazione, una sua condensazione concretamente metalinguistica, o meglio meta-sacrificale. Questo ci fa vedere come e quanto la cultura si basi sulla copertura della violenza collettiva, copertura che tende a aumentare man mano che le rifondazioni sono ripetute mediante simbolizzazioni vieppiù articolate e complesse. Il sacrificio de La montagna incantata non è più fatto sotto gli occhi di tutti, ma all’interno di una serie concentrica di delimitazioni sacre, che nascondono e isolano l’orrore della fondazione originaria. La comunità non vuole più vedere lo sparagmós, né tanto meno sporcarsi le mani. Il gruppo non percepisce la propria violenza, che attribuisce alla vittima, al volere degli dèi, a un’imperscrutabile necessità; occultamento talmente forte da condizionare ancora la percezione di Thomas Mann, per non dire dei suoi stessi lettori. Attraverso le varie metamorfosi e coperture del sacrificio ci si allontana dalla sua matrice iniziale, dalla vittima interna al gruppo, gradatamente sepolta sotto gli sviluppi culturali da essa resi possibili. La cultura si fa sempre più articolata e complessa; l’origine violenta, riprodotta nei riti, si fa un po’ alla volta incomprensibile e bisognosa di essere rivisitata, spiegata, purgata. È questa l’evoluzione subita dai miti, storie suggestive e spesso misteriosamente crudeli che ci narrano la fondazione sacrificale della cultura, ma nella versione inevitabilmente mistificata e alterata di questa cultura stessa, cioè nella prospettiva dei sacrificatori. Una parte consistente dell’opera di Girard è appunto dedicata all’interpretazione e demistificazione dei miti. Essi sono una testimonianza insostituibile, poiché riflettono le prime spiegazioni differenziali e simboliche che le comunità umane hanno dato di se stesse. I miti tuttavia, queste autentiche rifondazioni verbali della comunità, non possono che riflettere la trasfigurazione del doppio transfert rituale, e come tali vanno attentamente smontati nei loro meccanismi generatori, per isolare i segni della persecuzione dalle manipolazioni inconsce dei persecutori. Un simile metodo, che è l’acquisizione ermeneutica forse più innovativa che propone Girard, consente anche di sfatare le interpretazioni tradizionali del mito, che vedono in esso tutto tranne qualcosa di reale, di drammaticamente reale. Con la sua lettura dei miti Girard ha cercato di demolire le ultime difese mitiche della nostra cultura, ancora tenaci e diffuse come dimostra l’atteggiamento di coloro che, con una mitizzazione di secondo grado, vogliono vedere nei miti un dato originario non ulteriormente analizzabile. Esiste una meta-mitologia della cultura derivante in ultima analisi dalla funzione meta-simbolica della tomba, ed è appunto il platonismo culturale, che ha risposto evidentemente al bisogno di far apparire le differenze culturali come trascendenti rispetto all’indifferenziazione violenta, ma che ormai sta giungendo a una fase storica di sgretolamento senza cui la lettura girardiana nemmeno sarebbe stata possibile. Girard smonta i miti secondo un procedimento che è insieme strutturale e genetico o, per usare i termini dello strutturalismo da lui ampiamente criticato per il suo formalismo, sincronico e insieme diacronico. È proprio un’analisi degli elementi logici interni del testo mitico a evidenziare contraddizioni, reticenze, lacune che solo l’ipotesi vittimaria permette di spiegare fornendone il principio genetico e simbolico. In polemica col platonismo antropologico degli strutturalisti, questo metodo ricerca un referente extratestuale che lo stesso testo sollecita, e che, una volta individuato, permette di illuminare quest’ultimo dall’interno. Ma per arrivare al referente della vittima dobbiamo scavare attraverso le successive stratificazioni culturali che tendono a abbellire e infine a coprire l’evento originario. «Vi è una storia 13 della mitologia»26, in cui i miti più cruenti sono quelli più antichi e più vicini alle origini, offrendoci una chiave di lettura anche dei miti maggiormente mistificati. Il metodo girardiano certo riflette le semplificazioni e gli atteggiamenti riduttivi già riscontrati a proposito della mediazione e del sacro, e va ulteriormente sviluppato e arricchito. Come questa ricerca cercherà di mostrare, è infatti possibile ricostruire all’interno di un mito e di una serie di miti diverse stratificazioni e fasi evolutive, che si dispongono e combinano nei modi più vari rimanendo però rintracciabili. Tale metodo è già stato indicativamente applicato all’analisi dei sacrifici arcaici visti finora, il che mostra che la medesima chiave di lettura funziona col rito, di cui va sottolineata la fondamentale unità coi divieti. La cosa non ha nulla di strano, dal momento che il rito compie ciò che il mito racconta, non è altro che mito in azione, con l’elemento propulsivo del mimetismo più intenso ed estatico, quello che diventerà mediazione interna buona, che il sacrificio permette di orientare e utilizzare. Abbiamo all’inizio un unico evento di irruzione di un modello sacro e assoluto che viene imitato nel rapporto di adorazione in due direzioni successive e complementari, innanzi tutto la direzione del rito, coi divieti che rende possibili, e poi quella simbolico-verbale, dove la prima ovviamente conserva un maggiore realismo, che il racconto mitico cerca di spiegare in modo trasfigurato e confuso. A Girard è sfuggita l’unità dei riti e dei miti in sede di chiarimento metodologico, oltre che per la valutazione teoricamente ancora incompleta di tutti gli aspetti della fondazione sacra, probabilmente anche per il ruolo eccessivo che ha giocato nella sua opera la polemica contro lo strutturalismo imperante negli anni di elaborazione della teoria, polemica che si è svolta principalmente sul terreno comune dei testi. Ho chiamato il procedimento da me teorizzato e applicato, che è quello usato in modo parziale ma brillante da Frazer, metodo unificato di lettura dei ritie dei miti, metodo di cui Girard ci fornisce la causa esplicativa, la vittima10. Ciò che è più rimarchevole in questa lettura dei più antichi documenti culturali dell’umanità è il convergere che vi si realizza di indagine conoscitiva e consapevolezza morale. Esiste finalmente una verità da cercare, e una verità decisiva, la stessa che viene sepolta e che risorge alla conclusione dei Disastri della guerra di Goya, in un dittico che per la sua pregnanza simbolica ho voluto scegliere quale illustrazione introduttiva del libro. La verità è sepolta dagli uomini, ma per risorgere e rendere visibile la loro dipendenza strutturale dal male, evidenziata dalla metamorfosi in bestie dei persecutori che la stavano per seppellire, metamorfosi che non è in sé una ritorsione vendicatrice, poiché è il risultato del venire alla luce di una verità che non ha nulla da spartire con la violenza umana. L’interrogazione contenuta nel titolo della seconda incisione non esprime tanto un dubbio sulla realtà della resurrezione, quanto un ammonimento sulla risposta che dovremo dare al ritorno della verità dalla tomba in cui l’avevamo affossata, in cui l’avevamo dimenticata. La vittima sepolta e risorta non è una semplice ipotesi, è la Verità da cui dipendiamo. I Disastri della guerra di Goya sono un grande documento antropologico che mostra la violenza dell’uomo per quello che è, e mostra quello di cui l’arte è capace allorché si rende conto della vittima da cui anch’essa ha preso le mosse. Tutti noi siamo chiamati e tenuti a fare lo stesso. Non ci sono più i giochi linguistici e formali del relativismo contemporaneo, ma un contenuto appassionante e reale da ricercare, con un impegno che non può essere che personale e diretto. Ognuno di noi dovrà dare la sua risposta alla verità della vittima. Ma torniamo alla nostra discussione delle proposte di Girard, di cui dobbiamo ora esaminare il passaggio più clamoroso e controverso. Alle prevedibili obiezioni contro la sua lettura dei miti Girard ha replicato con l’esempio immediatamente verificabile di quelli che chiama testi di persecuzione, ossia le testimonianze relative alla persecuzione di vittime o minoranze vittimarie in epoca 10 G. Fornari, «Alla ricerca dell’origine perduta», cit., pp. 165-71. 14 medievale e moderna. Davanti all’apparente coerenza rappresentativa e testuale di un processo medievale per stregoneria, ad esempio, nessuno di noi penserebbe per un solo istante di rinunciare alla verità referenziale che ci rende consapevoli del carattere irreale e propriamente mitologico delle accuse per cui la strega verrà bruciata sul rogo. Eppure non c’è un solo indizio esplicito nel testo, a cominciare spesso dalle dichiarazioni della stessa accusata, a dimostrarci che si tratta di accuse infondate27. Il testo di persecuzione ci mostra una situazione che dev’essere alla base dei miti, ma che in essi è cancellata e trasfigurata, vale a dire un sistema di accuse da cui non c’è salvezza, e che con estrema facilità può influenzare mimeticamente anche chi lo subisce. Le accuse della folla chiudono la vittima all’interno di un doppio vincolo senza vie di scampo, qualunque cosa la vittima dirà o farà sarà vista come prova della sua colpevolezza. È una sorta di linciaggio cognitivo che sostituisce o precede quello fisico, un sistema chiuso che rovescia mostruosamente le parti e che ci manda segnali in una sola direzione, visto che il linguaggio è esclusivamente quello degli accusatori. Com’è possibile che noi oggi riusciamo a smantellare questa coerente e infernale macchina da linciaggio? Da dove ci viene questa consapevolezza, perfettamente razionale ma insieme rigorosamente extratestuale, extra-linguistica, verrebbe da dire anzi extra-culturale? La risposta di Girard è perentoria, quasi imbarazzante: la consapevolezza dell’esistenza di vittime innocenti ci viene dalla rivelazione antipersecutoria dei Vangeli, preparata e preceduta dall’evoluzione antisacrificale della Bibbia ebraica. Sono i Vangeli a attaccare per la prima volta in modo diretto i processi mimetici violenti, i meccanismi sacrificali su cui si fonda la cultura umana, prescrivendo un rimedio alla violenza mimetica che Girard non esita a definire di una precisione scientifica: l’unico vero modo di superare la violenza è quello di disinnescare la proliferazione dei doppi rifiutando la risposta simmetrica alla violenza degli altri, è quello di scoraggiare sul nascere la rivalità acquisitiva porgendo, al momento della provocazione, l’altra guancia. La logica del perdono e della non rappresaglia sostituisce la logica del desiderio e della rivalità, indicata con la parola skandalon, la pietra d’inciampo che è il modello-ostacolo posto sulla nostra strada, la fascinazione mimetica che conduce alla violenza e alla vittima. Il termine skandalon si dimostra di una profondità sconcertante, che va al di là di quanto evidenziano le stesse analisi girardiane. Si può infatti vedere come lo skandalon indichi le tappe fondamentali del processo mimetico: 1) il desiderio che diventa ontologico e rivalitario, focalizzandosi alla fine sulla “pietra dello scandalo”; 2) l’espulsione della pietra dello scandalo, ossia della vittima; 3) l’ipocrisia con cui gli scandalizzati pensano di affermare la loro assoluta alterità rispetto alla vittima, nel momento stesso in cui ne ripetono in forma aggravata le presunte colpe28. La cosa più impressionante è che siamo di fronte a un sapere sull’uomo che è rimasto in parte incompreso per duemila anni. Il messaggio ha agito ed è stato seguito fin dall’inizio, ma con una comprensione antropologica spesso incompleta che testimonia in modo eloquente della sua indipendenza dall’uomo. Una simile constatazione, come vedremo nei capitoli della seconda parte dedicati al cristianesimo, non solo non toglie valore alla tradizione, ma lo dimostra e lo fonda. L’incomprensione parziale quanto rivelatrice di tanti cristiani verso lo skandalon è forse ancor più evidente nei confronti della figura di Satana, che indica anch’essa il processo mimetico nel suo insieme, ma con maggior enfasi sul suo aspetto collettivo e fondatore. In ebraico Satana significa l’Accusatore (come del resto diabolos in greco11), e quale accusa è più letteralmente satanica di quella di una folla 11 Dettaglio su cui Girard stranamente non si sofferma. 15 scatenata, del doppio vincolo senza vie di scampo in cui viene intrappolata la vittima? Satana è il meccanismo fondatore di tutte le comunità umane, e di tutti gli individui che le seguono ciecamente, un meccanismo che viene intrepidamente messo a nudo e smontato nei suoi elementi costitutivi dalla parola e dall’azione di Cristo. Egli difende le vittime e smaschera i persecutori in nome di un amore non più basato sul desiderio violento, ma sull’imitazione del Padre che comanda il perdono, l’unico vero antidoto contro lo skandalon, contro Satana: «Misericordia io voglio e non sacrificio»29. Non quindi una negazione del desiderio mimetico, bensì un suo riorientamento completo basato sull’imitazione del Dio d’amore di cui Gesù si dichiara figlio, su un’obbedienza amorosa e totale, che da un punto di vista mimetico può essere definita solo come una mediazione interna e assoluta d’amore, a riprova della necessità di questa revisione teorica. Tutte le potenzialità positive del mimetismo umano sono riscattate e portate alla luce in una vera seconda creazione dell’uomo, che rovescia la sua origine violenta indicata nella Bibbia dalla disobbedienza di Adamo ed Eva e dal fratricidio compiuto da Caino. Questo messaggio, scandaloso nell’accezione originaria del termine, verrà pagato da Gesù con la sua stessa vita. Le forze di Satana, colpite in quella che è la loro causa generatrice, reagiscono col loro vecchio sistema, trasformando Gesù nell’ennesimo capro espiatorio. Ma la differenza fra il Dio di Gesù e le divinità violente concepite dall’uomo trionfa proprio nel momento della sconfitta terrena del Figlio di Dio. Il racconto della Passione ci mostra per la prima volta con una chiarezza agghiacciante il meccanismo collettivo della persecuzione di una vittima inerme, che rimane estranea fino in fondo allo skandalon dei suoi persecutori, dichiarando fino alla fine la propria innocenza e perdonando i suoi persecutori. È la prima voce di una vittima totalmente innocente: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno»30. Satana, il fondamento violento dell’uomo occultato «sin dalla fondazione del mondo»31, rimane sconfitto. La vicenda raccontata in modo deformato e confuso dai miti è per la prima volta chiarita, i doppi vincoli persecutori che non lasciano vie di scampo sono per la prima volta svelati. L’origine pienamente umana della violenza è rivelata. Soltanto qualcuno completamente estraneo alla logica violenta dell’uomo poteva compiere questa rivelazione – sostiene Girard –, un Dio esente dalla violenza che può raggiungere l’uomo solo nella veste di chi subisce la violenza fondatrice, lanciando un messaggio che può venir raccolto esclusivamente da chi è disposto a trascendere l’universo chiuso della violenza in cui vive. La Resurrezione rappresenta l’ultimo rovesciamento, la rivelazione finale: non più la divinità sacrificale che rinasce a garantire l’unanimità violenta del gruppo, bensì la vittima tradita e massacrata che ritorna a portare la sua verità e il suo perdono, recando ancora sul corpo i segni del supplizio subìto. A causa della violenza degli uomini, la vicenda cruenta del mito è ripetuta pure in quest’ultimo aspetto, ma da un punto di vista diametralmente opposto, e in un modo assolutamente reale, che rovescia completamente anche la logica dei rituali umani, secondo un dinamismo rivelativo che costituisce il vero modello di ciò che ho chiamato metodo unificato dei riti e dei miti, la sua vera pietra angolare, riprodotta da Goya nella sua emozionante allegoria. Anche qui non si può non rimanere colpiti dal significato antropologico inaudito che dimostra di avere l’avvenimento centrale della religione cristiana, un significato rimasto anch’esso in parte incompreso per duemila anni, e che non poteva essere certo l’invenzione di alcuni settari esaltati. Dopo essere risorto Gesù ritorna al Padre, e lascia a continuare la sua opera lo Spirito Santo, la terza persona della Trinità, che dà a chi lo vuole il dono sovrumano di distinguere e difendere le vittime, di non farsi ingannare dai doppi vincoli delle accuse di Satana. Lo Spirito Santo è chiamato in greco il Parakletos, che vuol dire semplicemente l’Avvocato della difesa. Tutti quelli che come Gesù imitano il Padre ricevendo l’azione dello Spirito Santo iniziano già dentro di loro il processo della Resurrezione, diventano figli di Dio non diversamente da Cristo. L’intera simbologia cruenta, l’intera storia violenta dell’uomo è utilizzata da un Dio che la trascende e redime, come dimostra il rito dell’eucarestia, o come mostra il simbolo, proprio della tradizione cristiana moderna ma non meno 16 significativo per questo, del Sacro Cuore di Gesù, che diventa terribilmente eloquente se lo confrontiamo col rito originario dello smembramento di cui il cuore pulsante era un climax emotivo, o con un rito come quello azteco in cui si estraeva il cuore ancora pulsante della vittima umana e se ne mangiava una parte. A questo punto, e solo a questo punto, il sacro antropologico esplorato da Girard può essere visto, grazie a quanto Girard ha scoperto e al di là di quanto egli sostiene, come una prima manifestazione, invertita e impastata di violenza epperò reale, dell’autentica trascendenza, come l’affacciarsi di una prima rivelazione “naturale”, non meno necessaria per il fatto di essere insufficiente: l’affermazione tradizionale secondo cui Satana è simia Dei è da prendersi come vera anzitutto in senso prolettico e storico, senza alcuna demonizzazione della cultura poiché questo processo risponde alle intenzioni nascoste di Dio e alla sua capacità di far emergere per mezzo del male il bene. Le semplificazioni di Girard vanno superate, come non mi stancherò di ribadire nel corso dell’opera proprio per la convinzione della loro importanza, ma sono servite a isolare un nucleo significante che è in buona misura sfuggito a sintesi filosofiche e teologiche assai più smaliziate e sapienti, circostanza che vorrà pur dire qualcosa, in una prospettiva cristiana. Grazie alla lettura girardiana Cristo si conferma chiave di volta dell’intera storia dell’uomo, come la tradizione ha sempre affermato, ma con in più l’impensabile ausilio di quella scienza che sembrava sfatare e distruggere siffatte pretese. Le migliori intuizioni di Teilhard de Chardin trovano così una clamorosa attuazione, lasciandosi liberare da quella patina un po’ troppo umanistica, quasi immanente, che ancora le ottunde. Al posto del monolito del film di Kubrick dobbiamo immaginare Gesù crocifisso, non più in forma mitica adesso, ma in forma riconoscibile e umana, in forma storicamente incarnata. *** La presenza di questo straordinario messaggio, unitamente al persistere della violenza dell’uomo, spiega perché i testi di persecuzione, che sono i resoconti di persecuzioni collettive ormai incapaci di trasformarsi in miti veri e propri, si trovino solamente nell’universo cristiano: i meccanismi vittimari continuano a agire ma il meccanismo di trasfigurazione mitica della vittima in divinità è oramai inceppato, reso inefficace dalla rivelazione evangelica. Funziona ancora il transfert demonizzante, l’odio contro la vittima di turno, più tenace perché radicato direttamente nella struttura dell’imitazione; ma il transfert di divinizzazione della vittima avrà una sempre minore efficacia diretta, manifestandosi invece in quella creatività culturale che Girard non ha mai voluto considerare. I miti si rivelano come testi di persecuzione funzionanti a pieno regime, i testi di persecuzione come miti funzionanti solo a metà. Il cristianesimo storico in parte coprirà la pienezza della rivelazione evangelica, per ragioni storiche e antropologiche che sarebbe a sua volta violento non considerare come oggi è costume, e spesso non è riuscito a percepire la differenza fra i persecutori e la vittima, attribuendo al Dio di Gesù anche tratti violenti, e compiendo in suo nome nuove violenze e persecuzioni. Ma il lascito indimenticato di Cristo verrà comunque custodito e seguito da molti, nei limiti delle capacità di ciascuno; l’azione dello Spirito Santo continuerà a farsi sentire condizionando, a dispetto di tutto e di tutti, la civiltà occidentale, che è arrivata nel nostro secolo a dominare culturalmente l’intero pianeta. La nostra storia è governata segretamente dalla desacralizzazione evangelica, la stessa che ha preparato il terreno, con la graduale caduta dei tabù conoscitivi e sociali, ai successi della concezione scientifica moderna e della rivoluzione industriale. Attraverso il crescente affrancamento dalle antiche forme sacrificali l’uomo ha gradatamente affermato la sua libertà di scelta, liberando le straordinarie valenze creative del suo mimetismo, cioè la sua capacità di utlizzare una mediazione interna creativa sempre più emancipata dalle antiche norme del sacro. Una nuova mentalità audace e pragmatica si è un po’ alla volta sprigionata dall’Occidente cristiano, e si è impossessata irresistibilmente di tutte le culture mondiali. In seguito a questa espansione abbiamo ormai in tutto il mondo società ed individui che sono coscienti dell’esistenza delle vittime, e capaci di demistificare i meccanismi mitologici e rituali che conducono ad esse. 17 Si tratta di enormi progressi, anche se è vero che la libertà che essi permettono espone a rischi direttamente proporzionati, a riprova delle profonde ragioni degli antichi interdetti, che Platone, a differenza dei tanti progressisti moderni, aveva perfettamente presenti. Non ci sono più vittime sacralizzate ma, attraverso il dominio della tecnica permesso dalla desacralizzazione del mondo, chiunque, l’intera umanità è suscettibile di diventarlo. Quella che abbiamo imboccato è una strada dalla quale non si può tornare indietro, ma che mai come ora ci chiama alla nostra responsabilità. Ogni tentativo nostalgico di tornare alla Kultur del passato, a una rifondazione sacrificale, si è rivelato un tragico errore, come dimostrano le ideologie del secolo che si è appena concluso: l’inefficacia del transfert divinizzante, cioè l’incapacità di trasformare le vittime in idoli pacificatori, non ha fatto che moltiplicare il numero delle vittime stesse. L’impossibilità di creare davvero attorno alla vittima ormai rivelata l’unanimità violenta di un tempo, unitamente al rifiuto di prendere coscienza di questo, porta a ripetere all’infinito tale violenza, nella speranza sempre frustrata che l’ultimo assassinio, l’ultimo capro espiatorio individuale o collettivo sia quello “giusto”. Il sogno sacrificale di Castorp può diventare soltanto la «festa mondiale della morte», il «malo delirio» della I guerra mondiale, eccidio di massa che squaderna la «sanguinosa ferocia» dell’uomo per quello che è, senza più nessuna Ellade trasfigurante. Ma nemmeno questa lezione sarà sufficiente, come ci attestano le ambigue riflessioni di Mann, il programma luciferino di rifondazione pagana attuato dal nazismo, il menzognero paradiso in terra del comunismo, le infinite violenze delle Kultur di ogni angolo della terra, che arrivano fino alle pulizie etniche in Iugoslavia e al terrorismo suicida che ha tristemente inaugurato il nuovo millennio12. È ormai l’intera umanità, dati i mezzi di distruzione militare e ambientale in suo possesso, per non parlare dei suoi mezzi di manipolazione genetica, a essere diventata l’ostaggio della propria violenza, vero sole nero di cui siamo tutti figli. Solo il messaggio evangelico mostra l’unica via di salvezza, pienamente nelle nostre mani, quella di riconoscere la nostra violenza e di rinunciarvi. L’alternativa è la morte, la distruzione collettiva rappresentata simbolicamente nell’Apocalisse che chiude il Nuovo Testamento. L’antropologia mimetica, secondo le intenzioni dichiarate del suo autore e al di là delle sue stesse intenzioni, non vuol essere che il tentativo, che non ha certo la pretesa di essere completo, di esplicitare in termini attuali l’antropologia evangelica. La verità dell’uomo e sull’uomo è contenuta nei Vangeli, è questa l’affermazione più antica e più scandalosa del cristianesimo, che il paradigma di ricerca inaugurato dallo studioso francese ci ripropone. Sarebbe una banalizzazione e un fraintendimento interpretare questa presa di posizione secondo l’alternativa angusta dell’appartenenza o del rifiuto confessionale. La prima cosa che i Vangeli vogliono non è una presa di posizione che, da sola, resterebbe facilmente ideologica o ipocrita; ciò che essi esigono è che riconosciamo la presenza potenziale del male dentro di noi e ce ne liberiamo perdonando i nostri fratelli, e perdonando attraverso di loro noi stessi. Chi fa questo e soltanto chi fa questo segue Gesù. Il problema non è più astrattamente di credere, ma di vedere. *** L’antica Grecia è un terreno ideale per verificare la tenuta e la capacità esplicativa delle idee appena esposte. Nessuna civiltà è stata altrettanto studiata e nessuna è rimasta, proprio per questa ragione, altrettanto enigmatica. Caricata di sensi e sovrasensi molteplici, la Grecia è stata per secoli al centro di una sorta di psicodramma collettivo, in cui ognuno voleva ritrovare se stesso attraverso la maschera di 12 Mi piace ricordare come una conferma della mia interpretazione della Kultur giunga dalle lucidissime analisi del fenomeno del totalitarismo sviluppate da Hannah Arendt nel suo The Origins of Totalitarianism: l’autrice infatti evidenzia come il totalitarismo non consista in una mera rivendicazione nazionale, razziale o di classe, ma nasca da un processo di indifferenziazione collettiva a cui le ideologie totalitarie reagiscono proponendo agli individui atomizzati e in preda alla disperazione un nuovo senso di appartenenza di massa (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004, pp. 435 ss.). Ma tale fusione collettiva è il tentativo di ristabilire in una nuova forma le antiche unanimità sacrificali, tentativo destinato a fallire in forza di quella stessa rivelazione cristiana che cerca di cancellare: l’aggiunta della dimensione sacrificale e fondativa fornisce un completamento essenziale all’ammirevole indagine della Arendt. 18 un’alterità affascinante, con l’esasperazione graduale che abbiamo visto essere propria del desiderio metafisico. Sarebbe facile ironizzare sugli aspetti eccessivi, a volte grotteschi, di quest’adorazione collettiva, ma quello che deve più interessarci è il motivo estremamente serio di tali atteggiamenti. Come dimostra l’episodio de La montagna incantata, la Grecia è stata per la cultura europea il simbolo implicito o esplicito della rifondazione pagana e della nostalgia che essa ha suscitato di fronte agli sconvolgimenti di una storia sempre più segnata dalla desacralizzazione cristiana. Per la sua importanza storica e per la sua ambigua posizione di vicinanza e lontananza da noi la Grecia è stata quindi per l’Occidente il simbolo del confronto con la propria componente cristiana, una componente che è stata gradualmente esorcizzata, nel tentativo di allontanare l’inevitabile resa dei conti con la propria violenza. È la differenza fra Dioniso e Cristo il vero filo conduttore di questa storia. Nell’antichità e nel medioevo cristiani tale differenza è energicamente affermata, ma non compiutamente compresa, il che fa sì che, dopo il momento di fragile e quasi miracoloso equilibrio verificatosi nel Rinascimento13, e man mano che l’Occidente si riappropria del patrimonio classico, tale differenza si sbiadisca sempre di più a vantaggio della cultura antica. Un punto critico di questo processo, dopo avvisaglie significative in tal senso fattesi sentire già durante il Rinascimento, è il classicismo del XVIII e XIX secolo che, contestualmente alle moderne concezioni razionalistiche e rivoluzionarie, inizia apertamente a vedere l’antichità come grande alternativa ideologica alla tradizione cristiana. Il cristianesimo viene criticato per la sua intolleranza e violenza, mentre la civiltà antica e soprattutto quella greca, sempre più isolata in una sua astorica perfezione, vengono viste come l’Alternativa Negata, come il simbolo della fondamentale innocenza e grandezza dell’uomo. Sono critiche che ricordano la struttura da doppio vincolo delle accuse mitiche, in una sorta di grande meta-testo di persecuzione il cui capro espiatorio era, e tuttora è, il nucleo centrale del messaggio evangelico, con le sue scandalose pretese di unicità: da un lato si rinfacciavano al cristianesimo le sue violenze, ma dall’altro, allorché queste e peggiori violenze erano documentabili nelle culture pagane, si negava che tali violenze esistessero o fossero qualcosa di straordinario, quando non si era addirittura disposti a ammirarle dando loro un nome diverso. Le giustificate proteste degli apologisti cristiani, di cui la polemica anticlassicista di Alessandro Manzoni è in Italia un esempio importante, sembrarono venir messe definitivamente a tacere dalla marea di riti e miti simili al culto cristiano e alla storia del suo fondatore che l’etnologia comparativista della seconda metà del secolo XIX andava scoprendo. Questa sorta di isomorfismo mitico-rituale, che qualche decennio prima non avrebbe minimamente impensierito un Joseph de Maistre, viene ora visto come obiezione risolutiva, dal momento che si ricerca una prova puramente immanente, concepita nei termini razionalistici e materialistici del positivismo. La desacralizzazione contemporanea sembra investire in pieno anche la più alta consapevolezza cristiana in materia, poiché rifiuta a priori le visioni ancora sacrali come quella che de Maistre perorava. La sfida doveva quindi essere affrontata anzitutto sul terreno del confronto immanente e etnologico, e appare questa la funzione storica che il pensiero di Girard ha voluto svolgere, mentre il presente lavoro ambirebbe a iniziare un recupero, chiarificato dal confronto con la scienza e coscienza moderna, della dimensione religiosa e sacrale dell’uomo. Ma per capire come si è arrivati a Girard, e alla stessa impostazione della mia ricerca, bisogna capire il momento critico in cui ci si è convinti che ogni pretesa di unicità del cristianesimo fosse completamente annullata dal sovrapporsi della storia del suo fondatore a infinite altre storie del medesimo tipo. Sono questi i termini del problema che Nietzsche affronta e riprende, sullo sfondo di una rievocazione nostalgica dell’antica Grecia che con lui rivela la sua più profonda natura14. Troppo consapevole e perspicace per accettare le idealizzazioni melense del classicismo del suo tempo, il pensatore tedesco non si accontenta nemmeno delle apparenze sublimanti e ideali che si era voluta già dare la Grecia 13 Di cui mi sono occupato nella monografia su Leonardo La bellezza e il nulla. L’antropologia cristiana di Leonardo da Vinci, Marietti 1820, Genova-Milano 2005. 14 Su Nietzsche si vedano sia R. Girard, G. Fornari, Il caso Nietzsche, cit., sia M. Ceruti, G. Fornari, Le due paci, cit. 19 classica, apparenze dietro cui avverte ben altro, e recupera la Grecia arcaica e preclassica, la Grecia del culto di Dioniso e della nascita della tragedia. Ai suoi occhi la Grecia non è più il luogo dell’innocenza senza violenza, bensì della violenza innocente, ossia del sacrificio che è legittimo e indispensabile fare, a cominciare dal sacrificio umano, senza più le ipocrite querimonie del cristianesimo, dei deboli che non vogliono essere sacrificati. Con la sua forsennata, ammirevole coerenza di pensatore isolato Nietzsche arriva a comprendere la differenza abissale fra Dioniso e Cristo, che si ha proprio in ciò che le due vicende hanno di simile, ma tenta di avvalorare una volta per tutte il rifiuto tipicamente moderno a esaminare la propria violenza, il proprio desiderio violento, rifiutando Cristo. Così esplicitata, la contraddizione gli esplode fra le mani, poiché Nietzsche riafferma nel modo più chiaro quello che poteva essere soltanto il risultato della rivelazione cristiana. Al filosofo sfugge che la premessa indispensabile al funzionamento del sacrificio è che la violenza non appaia più come tale, vale a dire che appaia come misteriosamente necessaria e voluta da qualche divinità. Il sacrificio, per non parlare del linciaggio da cui deriva, è la violenza che non è più percepita come violenza da coloro che la eseguono, così da interrompere la catena delle imitazioni violente. Esaltare quindi una violenza innocente è una contraddizione perfetta sotto il profilo antropologico e religioso, ed equivale a presentare i riti di Dioniso precisamente per quello che non sono mai voluti e potuti apparire, mentre non si vuole ammettere l’unica cosa evidente, e cioè che solo il cristianesimo rivela il sacrificio per la violenza interamente umana che è. Quella che doveva essere la vittoria di Dioniso contro il Crocifisso si risolve nella disastrosa sconfitta del suo aspirante profeta, crocifisso lui stesso a questa contraddizione insolubile. Il profeta di Dioniso troverà molti ammiratori e seguaci, ma tutti si tireranno indietro di fronte all’impresa folle del loro maestro. Nessuno oserà sfidare Cristo sul terreno di Dioniso, per non venire travolto dalla rivelazione di una verità che nessuna cultura sacrificale dell’uomo poteva concepire. Ancora una volta saranno gli scrittori più grandi a raccogliere l’eredità di Nietzsche, come Thomas Mann e d’Annunzio, che cercheranno di difendere a tutti i costi la Kultur rispettivamente germanica e italiana. Ma è indicativo che entrambi cerchino di attenuare la violenza palese di una rifondazione pagana utilizzando il distanziamento simbolico dell’invenzione letteraria, e non riuscendo a sottrarsi alla fine al richiamo del messaggio biblico e cristiano. Molto più tragico sarà il tentativo di rifondazione pagana attuato dal fascismo e poi, in forma ben più sistematica, dal nazismo, dove una romanità di cartapesta e un germanesimo ariano sinistramente carnevalesco sostituiranno la grecità modernamente isterica di Nietzsche15. Che ne è stato, fra questi sconvolgimenti, del sogno ellenico? Esso ha continuato ad essere coltivato, ma in forme rese più astute e sottili dal fallimento nietzschiano, come avviene con Martin Heidegger, che prosegue il recupero della Grecia arcaica in chiave speculativa, analizzando il pensiero dei presocratici e riconducendolo alla sfera numinosa dell’Essere, nel cui occultamento sarebbe vissuto poi l’Occidente. L’indagine acuta e a tratti grandiosa del pensatore tedesco esclude meticolosamente qualunque riferimento troppo religioso e antropologico. Heidegger non vuol rendersi conto che il suo Essere ha le medesime caratteristiche del sacro arcaico, come con intuito felice benché sommario ha colto Girard32, e che esso coincide con Dioniso, o meglio con la fondazione violenta che rende possibile Dioniso. Da vero sacerdote neopagano egli vorrebbe tornare a un altro occultamento, quello che permette il sacrificio, che dà sangue e carne al dio immolato e immolatore, ma l’operazione non poteva avere più successo per il fatto di essere ammantata di terminologie suggestive. L’idea heideggeriana di una rifondazione del pensiero tramite i presocratici del resto ha avuto 15 Non cogliendo a sufficienza l’aspetto rifondativo, la Arendt si lascia sfuggire alcuni legami strutturali di parentela tra fascismo e nazismo, pur restando valide molte delle differenze da lei rimarcate (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 358-61). 20 molti imitatori ma, come accade sovente, con un’accentuazione dei difetti del maestro. Immersa nelle acque gelide della speculazione teoretica la rifondazione di Dioniso si raffredda, si fa filologica, diviene elegante rito accademico. In quale frammento elusivo, in quale lacerto di papiro si nasconderà la soluzione dei massimi problemi speculativi, l’agognata rivelazione dell’Essere? L’attuale panorama è quello di uno smantellamento che sta giungendo alle sue ultime battute, coinvolgendo in pieno anche l’idea millenaria di educazione classica. L’Ellade come miniera di differenze mitiche dietro le quali nascondere la propria ansia di rifondazione si sta vistosamente esaurendo, variamente mescolata alle altre mille differenze illusorie della cultura contemporanea. Compiangere il crollo di un mito non rientra certo nello spirito di questo lavoro, eppure va ripetuto che l’attuale relativismo, con l’iperspecializzazione che favorisce, non è che l’ultimo e più pericoloso travestimento della meta-mitologia della cultura che rifiuta qualunque indagine sulla propria origine, non è che platonismo disposto a sacrificare anche il proprio modello pur di perpetuarsi. Quanto può emergere adesso è che l’antica Grecia, così a lungo idolatrata, e ora invece ignorata o appiattita, è stata fondamentalmente la vittima, invero complice nello stile delle migliori tragedie, dei bisogni storici, psichici e sociali di cui è stata l’oggetto o il pretesto. A nessuno sembra essere ancora venuto in mente che, rivisitata alla luce dell’opposizione fra Dioniso e Cristo, questa civiltà avrebbe qualcosa di molto più vitale e vero da dirci. L’assunto di fondo del presente libro è che in questa opposizione drammatica la Grecia non ha un ruolo passivo, quanto profondamente partecipe, e di una partecipazione conoscitiva che, nella sua intensità e ambivalenza, ho voluto indicare come sapienza sacrificale, nel duplice senso di sapienza sul sacrificio e di sapienza implicata nel sacrificio. La cultura greca è arrivata a vedere le vittime e la violenza che porta alle vittime, ma non è mai riuscita a distinguerle fino in fondo dai loro carnefici mediante il rifiuto dell’imitazione violenta. Rimangono sempre le coperture del rito, del mito, della finzione teatrale, della riflessione filosofica, delle leggi della storia e del cosmo, delle differenze che, per quanto approfondite o addirittura messe in discussione come nel caso della tragedia, impediscono di vedere per quello che è l’unica differenza che conti quando si ha a che fare col male dell’uomo: la differenza fra chi subisce violenza, normalmente con tutte le apparenze del torto, e chi la commette. La grandezza ed i limiti di questa civiltà possono essere toccati con mano nel processo a Socrate. Socrate è la vittima di una persecuzione ingiusta che si difende in modo emozionante davanti ai suoi accusatori e davanti a noi, attraverso le parole del più grande fra i suoi allievi. Il meccanismo universale e fondatore della persecuzione non è però rivelato. Il filosofo greco non è tradito e abbandonato da tutti quelli che lo circondano, come accade a Gesù. I suoi discepoli, coloro che sono toccati dalla differenza salvifica della filosofia, non lo abbandonano e non lo tradiscono. Non c’è in lui il perdono vero, il perdono che salva, quello che nasce dal fondamento rivelato dell’uomo, e che non può venire dall’uomo. È questo perdono, questa rivelazione dell’unica differenza che conti, quella fra Dioniso e Cristo, la «chiave della Scienza» (Luca 11, 52), che l’antica Grecia da sola, con la sua sapienza, non arriverà mai a possedere, ma di cui preparerà mirabilmente la ricezione e la diffusione. L’idea di Simone Weil di una Grecia dalle intuizioni precristiane può venire così in parte confermata, ma entro un quadro interpretativo ben più realistico e immune dalle idealizzazioni romantiche in cui anche questa grande pensatrice è caduta, equivocando gravemente sulla differenza fra Dioniso e Cristo, e ignorando con una sorta di autolesionismo spirituale il contributo essenziale della Bibbia ebraica. Sta a noi ricevere o rifiutare a nostra volta questa chiave, guardando al suo significato reale, alla sua verità che funziona e che salva le nostre vite, senza più le implicazioni mimetiche e rivalitarie che hanno trasformato sovente, e sovente purtroppo trasformano, il problema religioso in una meschina tenzone 21 politica, e senza più i fraintendimenti, certo anche necessari storicamente, che tendevano a trasformare i simboli della spiritualità occidentale, che sono e vogliono essere simboli dell’umanità tout court, in semplici insegne di appartenenza sacrificale. Proprio in questa apparente sconfitta, in questo suo sostanziale fallimento in termini umani, il cristianesimo può dimostrare una volta di più la sua verità invincibile, indimenticabile, la verità della vittima perseguitata, la verità di Gesù. Nulla potrà cancellare questa verità che l’antica Grecia ignorava ma alla quale inconsapevolmente anelava, perché i messaggi di Dio non giungono mai nel vuoto, bensì nel terreno preparato dall’agire e dal dramma dell’uomo. *** Cominciamo ora a percorrere alcune tappe di questo dramma, che ci faranno toccare, attraverso i culti di Dioniso, gli sviluppi della tragedia, e in particolare delle Baccanti di Euripide, e che troveranno in un esame più approfondito delle verità antropologiche e religiose del cristianesimo un momento centrale. Un confronto con la millenaria tradizione della filosofia potrà completare l’indagine, e precisare meglio i nuovi sviluppi del programma di ricerca che Girard ha messo in moto, e che è mia intenzione portare avanti criticamente. La speranza e l’intento è che tutto questo possa essere fatto senza più mitizzazioni di sorta, e sullo sfondo di un confronto costante e reale con noi. Ritorniamo adesso alla scena centrale da cui siamo partiti, quella del dramma dionisiaco, che si presenta a noi sotto travestimenti molteplici ma riconoscibili. 22 Note 10 Questo capitolo si riferisce soprattutto a quanto esposto da Girard nelle sue due opere teoriche fondamentali: La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1992 e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983; e ne Il capro espiatorio, tr. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987. Una sintesi della mia interpretazione delle idee girardiane e degli sviluppi che ne propongo è recentemente apparsa in G. Fornari, «Alla ricerca dell’origine perduta. Nuova formulazione della teoria mimetico-sacrificale di Girard», in C. Tugnoli (a cura di), Maestri e scolari di non violenza. Riflessioni, testimonianze e proposte interattive, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 151-201. 11 Bateson e in generale un’impostazione teorica di tipo “sistemico” possono essere una valida introduzione alla teoria mimetica, qualora se ne completi la prospettiva con l’approfondimento della specificità culturale dell’uomo e della specificità religiosa del cristianesimo. Cfr. su questo il cap. 18. 12 Cfr. R. Girard, “To double business bound”: Essays on Literature, Mimesis, and Anthropology, The Athlone Press, London 1978, p. 201. 13 Vedi il capitolo su Totem e tabù in R. Girard, La violenza, cit. 14 C’è nello stesso Girard la tendenza a concepire la scena delle origini come la contemplazione del cadavere della vittima, il che presuppone già un’attenzione oggettuale di tipo culturale, confusione che mi sembra confermare nel suo pensiero una mancata focalizzazione del vero ruolo dell’oggetto. Quello che in Girard è una palese falla teorica diventa una più vistosa contraddizione nella pur brillante opera di Eric Gans, che ispirandosi a Girard riconduce l’origine della cultura all’impedimento collettivo di ogni gesto di appropriazione verso il cadavere della vittima onde scongiurare ulteriori rivalità: Gans ritorna in tal modo a una teoria di tipo contrattualistico. 15 W. Robertson Smith, Lectures on the Religion of the Semites, A. and C. Black, London 1907, pp. 338 ss.; S. Freud, Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. 7, Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, Boringhieri, Torino 1992, pp. 142-43. 16 W. Robertson Smith, Lectures, cit., pp. 362; J.E. Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, Merlin Press, London 1980 (I ed. 1903), pp. 485-86. Girard, che nel riferimento dipende soprattutto da Freud, lo segue nell’ignorare il riferimento al sacrificio umano. 17 Vedi J. Quasten, Patrology, vol. III, Spectrum, Utrecht-Antwerp 1960, pp. 589-694. La questione dell’attendibilità della testimonianza è naturalmente indipendente da quella della vera identità dell’autore. 18 Durante la guerra in Kuwait è stato osservato e filmato un rito di smembramento collettivo di un cane. Un rito di smembramento collettivo di una capra è stato registrato in Marocco agli inizi del sec. XX (Euripide, Le baccanti, a cura di G. Guidorizzi, Marsilio, Venezia 1989, p. 41 nota 13 – abbr. ed. Guidorizzi). 19 Cfr. R. Girard, Delle cose, cit., p. 124. 20 Girard parla di vittima espiatoria per indicare la vittima del meccanismo spontaneo e di capro espiatorio per designare la vittima rituale, ma nelle sue ultime opere tende a usare quest’ultimo termine nel senso di vittima in generale. 21 F. Facchini, «Cercatori di infinito: da quando?», in AA.VV., La religiosità nella preistoria, Jaca Book, Milano 1991, p. 16; stessa osservazione in F. Facchini, Premesse per una paleoantropologia culturale, Jaca Book, Milano 1992, pp. 34-35. 22 R. Girard, Delle cose, cit., p. 95. 23 Un’acuta percezione del potere e dell’importanza della metamorfosi la si ha in Elias Canetti, Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Bompiani, Milano 1989, pp. 129 ss. e altrove. 24 R. Girard, Delle cose, cit., p. 103. 25 Vedi R. Girard, Delle cose, cit., pp. 130-31, dove l’autore nota la precisa corrispondenza con le quattro categorie di giochi stabilite da R. Caillois, Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1967. 26 R. Girard, Il capro, cit., p.123. 27 Sull’importanza metodologica dei testi di persecuzione nel pensiero di Girard v. in particolare “To double business bound”, cit., pp. 210 ss. 23 28 G. Fornari, «Apologia della Bibbia come apologia della vittima. La concezione antropologica e religiosa di René Girard», introduzione a R. Girard, La vittima, cit., p. 22. 29 Matteo 9, 13 e 12, 7 (da Osea 6, 6). 30 Luca 23, 34; R. Girard, Il capro, cit., p. 177-78. 31 Da Matteo 13, 35 che dà il titolo a Delle cose nascoste, cit. 32 Vedi R. Girard, Delle cose, cit., p. 333 e altrove. 24