SEMINARIO Il lavoro nella quotidianità La quotidianità del lavoro VENEZIA 18-19 APRILE Introduzione Abstract, interventi, relazioni 2 LA QUOTIDIANITA’ DEL LAVORO: QUALI CATEGORIE ANALITICHE? Silvia Gherardi Università di Trento Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Research Unit on Cognition, Organizational Learning, and Aesthetics via Verdi 26, I-38100 Trento. Tel. +39 0461-881311; Fax +49 0461-881348, e-mail: [email protected] Paper preparato per il convegno Lavoro e vita quotidiana, Venezia 18-19 aprile 2005. Si prega di non citare senza autorizzazione. 3 Introduzione Molte sono le etichette che nelle scienze sociali sono attualmente in uso per definire le caratteristiche della società contemporanea e coglierne il nucleo centrale di senso. Tra queste il termine società della conoscenza ben si presta, a mio avviso, a fissare e descrivere il lavoro nel mondo occidentale contemporaneo. L’accento sulla conoscenza simbolizza la de-materializzazione del lavoro, il principale e più prezioso prodotto del lavoro, nonché l’attività centrale che viene compiuta nel mentre che si lavora, cioè conoscere e mettere in pratica la conoscenza posseduta o creata nel corso dell’attività lavorativa. La società occidentale contemporanea mostra una crescita costante del contenuto di conoscenza dei lavori, di autonomizzazione dei saperi esperti (Beck, 1994, 2000; Luhman, 1984) e del valore economico delle risorse cosiddette “intangibili” come la conoscenza, il capitale sociale e intellettuale, il servizio, la fiducia o l’immagine. Tutto ciò pone una sfida agli scienziati sociali che cercano di comprendere e descrivere i mutamenti del lavoro con le categorie tradizionali ereditate dallo studio del lavoro industriale o aggiornate con lo studio del lavoro nella società dei servizi. In particolare la sociologia del lavoro, tradizionalmente, ha costituito il suo oggetto di studio mettendo a fuoco il lavoro come fatto “macrosociale” che si manifesta prevalentemente in relazione al mercato del lavoro (Reyneri, 2005), alle sue forme aggregate in professioni (Chiesi, 1995), alla sua regolazione contrattuale nelle forme del lavoro atipico e nella sua negoziazione sindacale (Magatti e Fullin, 2002; Borghi, 2000). L’analisi del lavoro in un’ottica “microsociale” non ha, soprattutto in Italia, una altrettanto radicata tradizione. Non mancano certamente gli esempi importanti e metodologicamente rilevanti come il tema della qualità del lavoro (Gallino) o nella creatività del lavoro (DeMasi). Tuttavia è proprio sul terreno dell’analisi “micro” che la sfida della “società della conoscenza” diviene più evidente. Infatti se assumiamo che il passaggio fondamentale nell’analisi e nella gestione del lavoro dipendente possa essere riassunto nella formula “dall’analisi delle mansioni all’analisi delle competenze” possiamo intuire come le tradizionali categorie di analisi delle mansioni non si applichino all’analisi degli skills in pratica. E’ su questo terreno che 4 le categorie di analisi della vita quotidiana possono dare un contributo significativo. Un confronto quindi tra chi studia il lavoro come attività situata e chi studia la quotidianità può arricchire la comprensione della quotidianità del lavoro. Nei paragrafi che seguono prenderò in considerazione gli aspetti metodologici connessi alla concettualizzazione del lavoro come attività situata proponendo ai colleghi che studiano la vita quotidiana un terreno di comune approfondimento. Il lavoro come attività situata Alcuni autori francesi definiscono l’azione situata come nuovo paradigma (De Fornel e Quéré, 1999) in relazione al contesto ed in contrapposizione alla razionalità oggettiva (o decontestualizzata). Questo filone di studi si inserisce nell’alveo della critica alla razionalità e dell’indebolimento dei modelli razionali per l’interpretazione dell’azione sociale. In questo senso si può dire che lo scopo dello studio del lavoro come attività situata sia costituito dal sostituire la razionalità oggettiva – rappresentata sotto forma di un insieme di compiti da eseguire in regime di “logica ottimizzante” – con la logica della situazione e quindi in regime di “razionalità contestuale”. In questa prospettiva il contesto nel quale il lavoro viene espletato non è “dato”, bensì attivamente “costruito” in tanti “quadri situazionali” che interpretano le situazioni ritagliandole dall’ambiente. Il lavoro è allora “situato” nel senso che è contestualizzato entro situazioni e che in tali contesti “agire” significa trattare una situazione . Il punto di partenza del cambiamento di paradigma consiste dunque nel considerare il lavoro non più come un insieme di compiti strutturati oggettivamente, bensì come un processo di definizione delle situazioni (Schutz, 1971; Berger e Luckmann, 1966) attraverso momenti di attenzione selettiva che attivamente incorniciano porzioni di realtà in funzione di un tema e che selezionano le conoscenze pertinenti alle situazioni. Definire il lavoro come attività situata significa focalizzare l’analisi sociologica del lavoro sulle pratiche lavorative quali modalità di azione e conoscenza emergenti in situ dalla dinamica delle interazioni (Gherardi 2005). Questa definizione affonda le sue radici teoriche nella fenomenologia sociale, nell’etnometodologia, nell’interazionismo simbolico, nella cognizione distribuita, nella 5 psicologia cognitiva culturale. La tabella 1 tratta da Conein e Jacopin (1994:500) riassume graficamente le radici teoriche del paradigma dell’azione situata e consente anche di delineare una distinzione in merito al significato di “situato” in relazione alla natura delle interazioni considerate (Conein e Jacopin, 1994:476): a) una prima concezione, che si ritrova in Goffman (1959; 1967), nell’etnometodologia e in Suchman (1987), mette l’accento sulla comunicazione e sulla capacità dell’attore di comprendere ed essere orientato all’azione altrui (all’incontro, nei termini di Goffman, orientato e dipendente dall’azione del destinatario) b) una seconda concezione, che si ritrova nei lavori di Lave (1988), mette l’accento su come negli ambienti popolati da artefatti e da oggetti, questi possano divenire delle guide che facilitano ed indirizzano l’esecuzione del lavoro. Per gli autori citati queste due concezioni hanno dato luogo a due programmi di ricerca diversi a seconda che venisse privilegiato il ruolo degli attori nel processo di “sense –making” delle situazioni e della comunicazione nel processo di cooperazione interattiva, o viceversa il ruolo delle tecnologie e degli oggetti nell’interpellare attivamente gli attori e suggerire loro risorse per l’interazione. A mio avviso tale distinzione è fuorviante se viene operata quale criterio per ribadire la preminenza dell’attore “umano” sul mondo materiale (non – umano nei termini di Latour), mentre acquisisce un senso più complesso se ridefinisce la natura delle interazioni sociali in contesti sociali abitati parimenti da umani e non umani o detto con i termini di Knorr – Cetina (1999) in situazioni di post socialità o entro sistemi sociotecnici (Law, 1987). Nel paradigma dell’azione situata è centrale la rivisitazione del concetto di contesto: non più contenitore dell’azione, ma situazione in cui gli interessi degli attori e le opportunità dell’ambiente si incontrano e si definiscono reciprocamente. Entro questo contesto teorico si situa la mia proposta di considerare l’attività lavorativa come attività situata in contesti di interazione umana e non umana ed informata dalla logica della situazione. In questa proposta la conoscenza pratica non è attività cognitiva che ha luogo nella testa delle persone che lavorano né solamente cognizione distribuita entro persone che cooperano allo svolgimento di un compito, bensì è un’attività sociale che non distingue tra il pensare ed il fare, che ha 6 luogo entro pratiche lavorative contestualizzate, che risente della specificità delle situazioni che cambiano a seconda degli altri presenti e che sono mutevoli (o polisemiche) anche per lo stesso attore in tempi diversi. L’attività lavorativa è dunque conoscenza-in-pratica (knowing-inpractice, Gherardi, 2005) e per analizzarla abbiamo bisogno di concetti e modelli interpretativi che si allontanino dalla visione del lavoro come attività di esecuzione e puntino invece al contenuto della progettazione, di ideazione e di mobilitazione di risorse in relazione al contesto e a strategie di flessibilità ed equifinalità. Il lavoro come pratica material-discorsiva Il concetto di pratica – che pur ha una lunga tradizione sia filosofica che sociologica – ha ripreso vigore nel dibattito contemporaneo (Gherardi; 2000; Schatzki et al, 2000; Strati, 2003). A mio avviso tale riscoperta è connessa alle potenzialità che questo concetto di poter contenere tanto gli elementi legati alla abitualizzazione (pratica come modalità abituale e ripetuta del fare e come conoscenza perfezionata nel fare) quanto gli elementi connessi all’azione intenzionale (pratica come modalità istituzionalizzata e considerata appropriata del fare) e tuttavia la pratica non coincide né con l’abitudine, né con l’azione orientata allo scopo. La logica della pratica è la logica dell’azione situata con l’aggiunta che nel concetto di pratica ritroviamo tanto la riproduzione quotidiana delle azioni che la compongono sostenute da un senso di normatività, quanto l’istituzionalizzazione di una modalità dell’agire. Partecipare ad una pratica è conseguentemente un modo di acquisire conoscenza in azione, ma anche di cambiare o perpetuare tale conoscenza e di produrre o riprodurre la società. Mente, cultura e società sono costantemente riprodotti in sistemi di attività che possono essere anche descritti nei termini di pratica come lavoro (per quel che riguarda la trasformazione di un dato processo di lavoro), pratica come linguaggio (per quanto riguarda il linguaggio professionale e l’interazione all’interno di un certo processo di lavoro) e pratica come moralità (per quanto riguarda la politica ed il potere dei differenti gruppi o classi sociali che sono coinvolti in un dato processo di lavoro). 7 L’ambito degli studi basati sulla pratica (i cosiddetti practic-based studies) è un filone di studi emergenti nel quale stanno confluendo una pluralità di programmi di ricerca che vanno dagli studi che nascono nell’alveo dell’apprendimento e della conoscenza nelle organizzazioni nella tradizione dell’activity theory (Engenstrom, 1987; Blackler, 1999), ai workplace studies (Heath e Button, 2002) che focalizzano l’interazione, agli studi sulla tecnologia come pratica sociale (Suchman et al, 1999) o agli studi sulla costruzione sociale e relazionale di reti sociotecniche nel filone dell’actor–network theory (Law e Hassard, 1999). Ciò che accomuna questi filoni è la non distinzione tra lavorare e organizzare e quindi l’essere a cavallo tra gli studi micro sia del lavoro che dell’organizzazione. Sebbene sia difficile dare un volto preciso ad un programma di studio emergente possiamo tuttavia contribuire ad identificarlo sia per ciò a cui esso si contrappone, sia per la centralità di alcuni temi, variamente presenti. Possiamo dire che gli studi basati sulla pratica nascono in polemica con le discipline dell’interazione uomo/macchina e dell’intelligenza artificiale (Human Information Processing e Human Computer Interaction) per via dell’influenza predominante in esse delle scienze cognitive e dei suoi modelli che si basano sull’elaborazione simbolica e computazionale di un insieme di informazioni ‘date’ (Carassa, 2000). Da questa polemica nasce la centralità della conoscenza come attività pratica e situata in contesti ‘tecnologicamente densi’ (Bruni, 2004). Possiamo infatti dire che una caratteristica che accomuna questi studi è la scelta di studiare contesti nei quali la tecnologia è una presenza importante, come nei centri di coordinamento, nel lavoro supportato dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Più precisamente dobbiamo dire che è la tecnologia-in-uso ciò che accomuna questi studi, cioè un modo di vedere la tecnologia come pratica sociale e non come artefatto tecnologico. Non si tratta infatti di porre attenzione a come la tecnologia possa essere progettata in modo facile da usare o quali siano le conseguenze dell’adozione di particolari tecnologie, ma come comprensione e l’uso delle tecnologie costituisca ‘un problema’ e diventi esso stesso una pratica sociale attraverso le modalità d’interazione di coloro che le usano e le interpretano nella quotidianità delle pratiche lavorative. Il fuoco dell’attenzione si sposta così dalle potenzialità della tecnologia in sé stessa o nel momento della sua progettazione al momento in cui gli artefatti tecnologici entrano in relazione con i suoi 8 utilizzatori in contesti lavorativi situati e prendono forma entro interazioni discorsive e materiali. Il lavoro che la tecnologia-in-uso compie è quello di allineare mondi sociali (del progettista, degli utilizzatori, dei non utilizzatori ecc.) e mondi materiali (la configurazione che l’artefatto assume attraverso il modo in cui viene usato ed i discorsi entro cui prende forma). Ad esempio quando Lucy Suchman (1987) studia la relazione tra una fotocopiatrice “interattiva” (sempre più sono le macchine che “ci parlano” avendo incorporato tecnologia informatica) e due suoi utilizzatori novizi ella osserva e descrive la cooperazione e la comunicazione tra i due novizi come modello d’interazione faccia a faccia, ma contemporaneamente tratta il sistema di aiuto incorporato nella fotocopiatrice come un insieme di domande poste all’utilizzatore e le sue risposte. In questo modo si giustifica il modello di interpretazione di una macchina in dialogo con il suo interlocutore e la ricerca in termini di etnometodologia sulla comunicazione verbale in quanto la cooperazione è una condizione essenziale per la comprensione dell’interazione con la macchina. Questo esempio ci è utile per sottolineare en passant come il parlare nel corso delle attività lavorative (ma non solo!) sostituisca una pratica situata e giustifichi quindi un approccio contestuale all’azione. Non basta infatti che i due novizi siano compresenti, ma è il fatto di entrare in comunicazione che fa sì che il contesto sia il risultato dell’interazione. Questa osservazione richiama i due concetti cardine dell’etnometodologia: indessicalità e riflessività. Le parole prendono significato nel loro uso contestualizzato e si ha riflessività allorché l’attività del parlare non è solamente ancorata alla situazione, bensì costituisce il contesto stesso del suo impiego. La situazione pertanto non circoscrive soltanto le circostanze dell’azione, ma le produce al tempo stesso per mezzo delle pratiche discorsive. Una analisi situata del lavoro mette in evidenza non solo come parlare sia lavorare, ma anche come il presupposto del parlare-inpratica e del parlare-sulla-pratica sia costituito dalla presenza di altri sul luogo di lavoro e quindi come il lavorare sia una attività cooperativa/conflittuale che coinvolge sia la relazione con altri umani che con il mondo materiale. Ad esempio quando Heath e Luff (1996) studiano la sala di controllo di una stazione della metropolitana londinese o Joseph (1994) studia quella della RER di Parigi o la Suchman (1996) studia il centro di controllo aereo di un aeroporto 9 metropolitano della West Coast mettono al centro dell’analisi la relazione tra l’ambiente lavorativo e la strutturazione delle attività. La cooperazione tra singoli operatori mostra come esista un continuum tra compiti individuali e collettivi e come mentre un operatore è assorbito in un compito con la coda dell’occhio o con un ‘orecchio distratto’ segua contemporaneamente ciò che gli altri fanno in una sorta di ‘equilibrio sempre instabile della partecipazione’ dove forme varie di coordinamento tendono alla cooperazione, mentre gli operatori sono impegnati in forme individuali di partecipazione. La distribuzione della conoscenza nella sala è prodotta anche attraverso il parlare ad alta voce, cosa che consente nei lavoratori di essere consapevoli degli eventi che possono essere rilevanti anche per il loro lavoro. La sala di controllo rappresenta il punto fisso verso cui i partecipanti distribuiti nello spazio si orientano, ma allo stesso tempo le persone all’interno della sala sono in relazione con i loro colleghi dislocati in altri luoghi. In questa situazione gli oggetti e le tecnologie che compongono l’ambiente assumono molteplici identità a seconda della loro rilevanza per la pratica. Gli spazi lavorativi, l’arredamento, le tecnologie e gli antefatti sono esperiti come più o meno focali o contestuali, negoziabili o fissi, che permettono o ostacolano il lavoro che deve essere fatto. In questi tipi di analisi del lavoro si vede molto chiaramente come le pratiche lavorative siano material-discorsive, come il lavoro sia contestualmente individuale(ogni operatore ha responsabilità formale per la comunicazione con altri luoghi rilevanti) e collettiva in quanto debbono coordinarsi per portare a termine in modo ordinato le operazioni di imbarco e sbarco e questo viene ottenuto tramite il mantenimento di un forte orientamento reciproco. Al contempo queste osservazioni consentono di ridefinire il significato di spazio lavorativo, visto non più come ambiente oggettivo o meramente fisico, bensì come ‘territorio situazionale’ (Goffman, 1959, Suchman, 1996) cioè campo di percezione ed interazione, attivamente costruito e continuamente mantenuto nel corso del lavoro quotidiano. Si pensi a come le ICT medino lo spazio in termini di coordinamento del lavoro a distanza e contribuiscano alla de-materializzazione del concetto di ‘posto di lavoro’ e quindi in scenari simili siano le relazioni sociali del lavoro che definiscono i confini visibili ed invisibili del luogo di lavoro e quindi come la costruzione di spazi (e tempi) di lavoro condivisi sia un processo di 10 convergenze, divergenze e allineamenti di molteplici linee di attività. Gli spazi di lavoro non solo sono un territorio situazionale, ma sono anche una materializzazione della memoria. Ad esempio Lave et al (1984) mostra come l’organizzazione spaziale dei supermercati configuri un’arena che mette in scena una situazione in cui l’ordine degli elementi sugli scaffali riproduca l’ordine con cui vengono messi nel carrello. Analoghe strategie spaziali sono descritte dalla Scribner (1984) in relazione ai librai che debbono trovare i libri o da Beach (1988) in relazione ai barman che utilizzano la forma e il posto dei bicchieri, nonché i colori dei liquori per aiutarsi a ricordare la preparazione di cocktails. In particolare David Kirsh (1999) ha studiato come l’organizzazione spaziale del luogo di lavoro venga predisposta in modo da facilitare il controllo dell’attività, da ridurre il carico di lavoro mnemonico o la quantità di calcoli richiesto, che semplifichino la ricerca visuale o la categorizzazione necessaria nel compito. Quando gli oggetti vengono dislocati secondo modalità opportune, essi ci interpellano attivamente: ci fanno ricordare di qualcosa, attirano la nostra attenzione, ci impediscono di pensare ad alternative non pertinenti come quando ci vietano qualcosa. Nuove categorie di analisi:coreografia, performance, estetica Mentre l’analisi tradizionale dell’attività lavorativa si è basata prevalentemente sulla divisione del lavoro in attività e compiti e quindi ha assunto prevalentemente l’ottica della progettazione delle mansioni e della loro valutazione, il portare l’attenzione sulle attività di esecuzione, sullo svolgimento di queste in ambienti tecnologicamente densi e che richiedono la manipolazione di oggetti e di simboli, consente di problematizzare le categorie di analisi tradizionali e di proporne di nuove. Abbiamo visto come il luogo di lavoro in quanto territorio situazionale venga disegnato dalle relazioni sociali, come lo spazio costituisca una struttura spaziale attrezzata per contenere/restituire informazioni, come le tecnologie siano sempre più in interazione con gli umani e come gli oggetti costituiscano degli scenari e dei supporti informativi per l’attività. Ebbene questi elementi ci consentono di pensare ed analizzare il lavoro come se fosse una coreografia e non una routine di compiti che formano un programma d’azione. L’analisi di un call centre (Whalen et al, 2002) di una grande azienda produttrice di macchine 11 per ufficio descrive come le azioni dei venditori richiedano che per mostrare la loro competenza essi debbano avere padronanza delle tecnologie e degli artefatti ed i loro metodi di condotta (per non lasciare tempi morti nella conversazione e per proporsi come professionalmente competenti) richiedano una coreografia improvvisata di varie azioni. Gli elementi coinvolti nella coreografia sono: un software di consultazione (elemento strutturato), carta e penna (elementi più flessibili), attività di conversazione e movimenti del corpo. Gli autori, analizzando il lavoro dell’operatore come una coreografia meccanica ne descrivono quattro forme: 1. la disposizione degli oggetti nello spazio di lavoro e del corpo in relazione a questi posizionamenti. Ad esempio sulla destra del monitor c’è la lista di tutti i clienti del venditore, a destra del desktop ci sono carta e penna, mentre i documenti cartacei sono a sinistra e tra questi c’è la guida in formato cartaceo che viene usata più frequentemente di quella on line perché l’operatore la può consultare senza modificare significativamente la propria posizione fisica. Il corpo infatti e la sua posizione sono parte integrante di questa condotta nello spazio e l’operatore ha imparato ad usare il mouse con la sinistra per avere la destra libera per immettere codici nel computer o per scrivere; 2. l’aggiramento dei problemi generati dall’inflessibilità del software. Ad esempio esso non prevede uno spazio dove inserire il nome di chi sta chiamando e quindi l’operatore deve scriverlo su carta perché questo è una risorsa importante nel gestire una conversazione, 3. l’anticipazione degli eventi, come ad esempio la richiesta dei clienti. E’ la conoscenza pratica che l’operatore ha accumulato la risorsa principale per questa operazione, 4. il coordinamento di molteplici strumenti e mezzi. Nel mentre che parla l’operatore deve usare il software sul PC e la guida cartacea senza interrompere la conversazione e quindi deve coordinare l’attività di ricercare le informazioni da dare facendo in modo di aver già trovato le risposte alle richieste successive prima di aver finito di rispondere alle precedenti, dando così l’impressione di padronanza dell’argomento. Gli autori concludono che ciò che sembrava una routine fatta di compiti da svolgere in successione è meglio interpretata come una 12 coreografia improvvisata, cioè un set di metodi pratici condivisi dai membri di questa comunità di lavoro e che richiede una notevole abilità in quanto la qualità del lavoro non è predeterminata, ma coinvolge il giudizio, la destrezza e la cura con cui l’operatore svolge il suo compito e la qualità del risultato è sempre a rischio durante il processo. Si noti anche come la tecnologia, che è pensata per ridurre l’incertezza, durante il singolo incontro è organizzata localmente ed è dunque contingente. L’idea della coreografia è illustrata bene anche dallo studio di Schmidt e Wagner (2005) sul lavoro degli architetti e sul come essi assemblano i materiali per un compito e lì ridistribuiscono rapidamente per quello successivo (coreografie effimere) e come in queste riconfigurazioni alcuni oggetti abbiano un forte carattere narrativo che li distingue da altri. Il concetto di coreografia può essere considerato interno ad un più ampio set di concetti raggruppabile nel termine “lavoro come performance”. La polisemia del termine performance comprende tanto l’oggetto finito, portato a compimento, quanto il processo del portare a termine. La performance, nel suo senso artistico, è poi effimera e contingente:qualcosa che crea un effetto e poi scompare lasciando una traccia dietro di sé. E’ quindi un concetto che richiama la contingenza e l’interattività. In sociologia ha una tradizione goffmaniana che non considera tanto la performance quanto la “performativity” cioè l’insieme di quei processi espressivi di “impression management” e di improvvisazione contingente con i quali gli umani normalmente articolano i loro interventi, le situazioni e le relazioni della vita quotidiana. Ad esempio sviluppare una identità professionale e, al suo interno, apprendere il relativo codice di comportamento di genere è stato analizzato come abilità situata del mettere in scena e di allineare elementi eterogenei, materiali e discorsivi (Bruni e Gherardi, 2001). Infine un contributo nella ricerca di categorie per l’analisi del lavoro come attività pratica viene dall’estetica e dal considerare sia la conoscenza acquisita tramite i sensi, sia le categorie estetiche come giudizio estetico condiviso e formantesi entro una comunità di pratica. Ad esempio Strati (2000: ??) definisce la conoscenza estetica come ‘quella forma di sapere che la persona umana consegue attivando 13 nella quotidianità organizzativa le capacità specifiche delle proprie facoltà percettivo-sensoriali e di giudizio estetico’. La dimensione estetica nelle organizzazioni, cioè, non è limitata al giudizio estetico, non è riferita solo a ciò che è bellezza, o che è brutto, grottesco o kitsch;, ma è pure, al tempo stesso, quello che i cinque sensi della vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto e del tatto fanno conoscere. Caratteristica, quest’ultima, che anche Michael Polanyi (1962) ha considerato proponendo la distinzione tra conoscenza esplicita, vale a dire il sapere formalizzato, e conoscenza tacita, ossia il sapere di saper fare senza essere in grado di fornirne una adeguata descrizione analitica. Nel descrivere un gruppo di carpentieri che lavorano al disfacimento di un tetto e nel descrivere la conoscenza tacita da essi posseduta ed attivata in situazione, Strati argomenta che le categorie dell’estetica ci consentono di: a) contrapporci alla spiegazione razionale cartesiana, grazie al valorizzare il mythos, l’immaginazione mitologica, il ragionare per metafore, ossia il pensare mitico degli individui ed il legame stretto e continuativo tra questo loro pensare ed il loro sentire basato sulle facoltà sensoriali e percettive dei loro corpi; b) considerare il giudizio sensitivo a cui si deve la facoltà di giudicare cose sulle quali il giudizio intellettuale, invece, non ha facoltà di comprensione. Si tratta di ciò che giunge ai nostri sensi e che fa parte della nostra esperienza sensoriale, ovvero del complesso delle rappresentazioni sussistenti al di sotto delle distinzioni analitiche che costituiscono la scienza; c) considerare il giudizio estetico che verte sulla perfezione o imperfezione di quella particolare cosa. Si tratta di un giudizio sensibile che non dà concetti, bensì formula un apprezzamento sulla perfezione o sulla imperfezione che viene percepita ed ha il carattere di sentimento e di gusto, ossia un giudicare in armonia con il sentire invece che con i concetti. Questi esempi di utilizzo di categorie non tradizionali per lo studio del lavoro ci consentono di osservare un tratto comune ad esse e cioè come s’inscrivano in una più generale rivalutazione del sapere narrativo in contrapposizione al sapere paradigmatico o analitico. Bruner (1986) scrive di due modalità cognitive, diverse e complementari: la comprensione paradigmatica e la comprensione narrativa e definisce la modalità paradigmatica della cognizione come finalizzata a puntualizzare il flusso dell'esperienza, a separare, ad individualizzare, a comparare, a calcolare e a dare valutazioni 14 comparative. Mentre la modalità paradigmatica consente solo una rappresentazione della realtà alla volta in quanto è tesa alla validazione secondo il criterio di verità (vero/falso), la modalità narrativa consente una pluralità di ricostruzioni/rappresentazioni contemporanee del mondo in quanto il suo criterio di validazione è la plausibilità (Poggio, 2004). Infatti è attraverso la narrazione che una situazione acquisisce senso per sé e per gli altri perché è attraverso il narrare che vengono costruite le categorie che danno un nome e un significato agli eventi narrati (Jedlowski, ). Lo straordinario potere della conoscenza narrativa risiede infatti nel legame che, attraverso le narrazioni, le persone stabiliscono tra l’eccezionale e l’ordinario quando tentano di stabilire delle spiegazioni, giustificazioni e interpretazioni dei comuni fatti quotidiani. La ricerca di categorie interpretative “alternative” è appena iniziata e le analogie con le attività artistiche può essere una via interessante da percorrere perché mette a fuoco sia la natura processuale di ciò che pur nella continua ri-produzione - è sempre una opera unica, sia la sua natura di esperienza compiuta e conclusa. In questa ricerca le categorie della quotidianità possono offrire un contributo rilevante? Un frame analitico per studiare il lavoro come quotidianità Così come il lavoro può essere definito ed analizzato in modi diversi a seconda dell’orientamento teorico del ricercatore, così il quotidiano è soggetto ad una pluralità di concezioni teoriche (Jedlowski, 1986;2003, Ghisleni, 2004) e non è questo il luogo di una accurata disamina degli approcci. Per trovare un ambito comune ai due termini propongo di considerarli entrambi entro un approccio fenomenologico e di definire ciò che li accomuna nei termini di una tensione tra opposti. Infatti se il lavoro viene considerato come esperienza soggettivamente e collettivamente significativa - e come pratica sociale situata nella quotidianità, allora il campo semantico entro il quale la quotidianità del lavoro può essere interpretata può essere delimitato dalla tensione tra le seguenti coppie di termini: produzione/riproduzione habitus/azione ripetizione/innovazione 15 tipico/unico convenzione/innovazione dato per scontato/riflessività Preferisco parlare di tensione e non di concetti che si definiscono per differenza ed opposizione per sottolineare come entrambi i termini siano necessari per descrivere le attività situate in un contesto spaziotemporale di interazioni significative. Un frame interpretativo che consenta di analizzare e progettare il lavoro come una pratica quotidiana potrebbe quindi essere basato sui seguenti presupposti: l’oggetto del lavoro, nel senso del suo prodotto e dell’attività compiuta (opus operatum), è emergente e prodotto collettivamente nel corso di interazioni situate e sostenute dal mantenimento di un orientamento comune e reciproco; il posto di lavoro (workplace e work space) è un territorio situazionale, costituito e ricostituito attivamente attraverso le pratiche lavorative quotidiane, il “fare” lavorativo non è attività separata dal conoscere, apprendere, organizzare ed innovare. Attraverso il “conoscere in pratica” si può cogliere analiticamente la complessità dell’intreccio tra le attività compresenti. L’insieme di questi presupposti delinea uno spazio interpretativo in cui è centrale il concetto di interazione situata e questa è mediata da: il corpo, sia come presenza fisica (co-presente o differita e mediata da tecnologie ICT) che come strumenti di lavoro, che come fonte di conoscenza sensibile, che come contenitore di conoscenza tacita incorporata negli schemi corporei per l’azione e per la memoria, le tecnologie, gli oggetti e la materialità del mondo circostante o del mondo virtuale intrecciato ad esso (mixed spaces, mixed objects). Il mondo materiale non è passivo, ma ci interpella costantemente, è “attante” (Latour, 1986) entro una ecologia di umani e non umani, è “protesi” tecnologica (Norman, 1990) delle capacità umane limitative, è “progetto che ha preso corpo” (Mantovani, 1995). Il linguaggio, sia esso nella forma del vocabolario tecnico che della semantica e pragmatica del suo uso, sai esso il medium di pratiche discorsive, cioè di un “fare” e “conoscere” che ha luogo nel discorso e per mezzo di esso, 16 - Le relazioni sociali, che si manifestano ed assumono forma tramite “l’ordine dell’interazione” (Goffman, 1956), sia esso dato dalla reciproca compresenza (faccia a faccia o differita) o da relazioni inscritte nella divisione del lavoro o nel sistema normativo (regolazione sociale del lavoro) o nel sistema sociale. Conclusioni Studiare il lavoro come attività situata assume particolare rilevanza nella società della conoscenza poiché in questo periodo storico si guarda alla conoscenza come ad una speciale risorsa produttiva. Lo studio dell’attività situata non è del tutto nuovo in quanto la tradizione etnometodologica aveva già etichettato questo ambito d’indagine del lavoro nei termini del “missing what” (Fele, 2002) per sottolineare come nello studio del lavoro mancasse proprio una focalizzazione sulle attività. Tuttavia rispetto alle ricerche etnometodologiche di ………… oggi sono cambiati gli elementi di particolare attenzione e, a mio avviso, la maggiore sfida è costituita dalla complessità dei contesti lavorativi tecnologicamente densi, nei quali le nuove tecnologie ICT hanno dissolto i confini spazio temporali tra la realtà on line e off line e le forme dell’interazione non sono limitate agli esseri umani ma anche agli umani e le macchine “intelligenti”. La conoscenza dettagliata del lavoro situato in questi contesti ha una immediata rilevanza pratica per la progettazione delle nuove tecnologie che dovrebbero essere di supporto alle attività lavorative, ma che nel supportarle vanno a cambiare le relazioni socio tecniche pre esistenti e quindi richiedono al progettista una capacità di conoscere l’oggi per disegnare il domani ed una capacità di coinvolgere gli utilizzatori nella progettazione perché i sistemi tecnologici incorporano gli script delle relazioni sociali e gli utilizzatori spesso possiedono la conoscenza necessaria allo sviluppo della tecnologia mentre i produttori non l’hanno. Un esempio di questo è il campo della bioinformatica o dello sviluppo delle tecnologie medicali. La nascita di un filone di studi che va sotto il nome di “participatory design” (Schuler, Namioka, 1993) si è sviluppato entro le discipline informatiche e spesso ha coinvolto sociologi con un background etnografico, tuttavia il mainstream della sociologia del lavoro ancora non ha recepito la rilevanza del tema. 17 Bibliografia Beach (1988) Beck, U. (1994). 'Self-Dissolution and Self-Endangerment of Industrial Society: What Does This Mean?' in U. Beck, A. Giddens, and S. Lash (eds.), Reflexive Modernization. Cambridge, Polity Press, 174–83. (trad. it. La modernizzazione riflessiva, Il Mulino, Bologna, 1995). Beck U., (2000) Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000 Berger, P.L. e T. Luckmann 1966 The Social Construction of Reality, London, The Penguin Press.; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1979. Blackler F. 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Cambridge: Cambridge University Press, , 35-60. 22 Suchman, L., Blomberg, J. Orr, J.E., Trigg, R. (1999) Reconstructing technologies as social practice, in American behavioural scientist, 43(3): 392-408. Paper preparato per il convegno Lavoro e vita quotidiana, Venezia 18-19 aprile 2005. Si prega di non citare senza autorizzazione. 23 Lavoro, organizzazione e vita quotidiana tra separatezza e scambio. Giovanni Gasparini Università Cattolica 1. Una premessa L’idea alla base del Seminario nel suo complesso è quella di mettere insieme e a confronto e di far interagire due diverse prospettive e tradizioni di studio sociologiche - quella della Sociologia del lavoro e dell’organizzazione da un lato, quella della Sociologia della vita quotidiana d’altro lato – che sembrano essere state finora non solo distinte ma scarsamente comunicanti tra loro. L’ipotesi generale sulla quale si articola l’intervento riguarda il passaggio da una situazione di separatezza di studio e ricerca (dagli anni 70-80 in poi) ad una nuova realtà, quella attuale, in cui diversi fattori sollecitano uno scambio attivo e proficuo tra le due tradizioni subdisciplinari. 2. Uno sguardo retrospettivo alla tradizione della Sociologia del lavoro e della Sociologia dell’organizzazione Si individuano gli ambiti prevalenti di sviluppo della Sociologia del lavoro e dell’organizzazione, alla luce di alcune opere-chiave su cui si sono formati e a cui hanno collaborato gli studiosi italiani del settore nel dopoguerra, a partire dagli anni 60-70. Ne emerge una forte centratura sulle tematiche tipiche dell’azienda e di riflesso del sindacato, con un’attenzione solo marginale e indiretta a problematiche caratteristiche della vita quotidiana. 3. Cenni alle tematiche della Sociologia della vita quotidiana Vengono richiamate, con riferimento anche ad altri interventi previsti nel Seminario, le tematiche principali oggetto della Sociologia vita quotidiana. I punti di incontro più evidenti con la Sociologia del lavoro, negli anni 80-90, sembrano essere due: il lavoro delle donne, con la problematica della doppia presenza e del lavoro di cura; il tempo di vita rispetto al tempo di lavoro, con riferimento ancora alla condizione femminile e con una proiezione più ampia sui servizi della città. 4.La situazione oggi: dalla separatezza alla convivenza e allo scambio 24 Una serie di trasformazioni in atto a cavallo del nuovo secolo e millennio nelle società postindustriali contemporanee sembrano spingere verso una convivenza mutuamente consapevole e uno scambio intellettuale tra le due subdiscipline sociologiche in questione. Tra tali fattori trasformativi si possono indicare in sintesi: - nuove tecnologie e strumenti della comunicazione (in particolare, con riferimento ai processi di disembedding, delocalizzazione, istantaneizzazione), che incidono fortemente sulle problematiche precedenti riguardanti il tempo di lavoro e il luogo di lavoro; - la molto maggiore esposizione del lavoro e delle organizzazioni produttive nei riguardi di fattori, fenomeni e variabili trasversali, esterne all’azienda e riconducibili – almeno in parte - alla vita quotidiana; - l’inserimento delle nuove realtà e prospettive del lavoro nel quadro di analisi sociologiche generali, globali; - la tendenza scientifica in atto a uscire dalle specializzazioni eccessive, ad allargare i confini tra subdiscipline e discipline, a lavorare e ricercare creativamente sulle intersezioni, gli interstizi disciplinari, le aree grigie. In conclusione, il binomio hardware/software viene utilizzato come possibile metafora della situazione e dei rapporti tra le due tradizioni subdisciplinari in questione. 25 Giuliana Chiaretti (Università di Venezia), Disagi giorno per giorno: resistenze, adattamenti, routine. 26 La narrabilità del lavoro e della quotidianità. Paolo Jedlowski Università “L’Orientale” di Napoli 1. "Fra le dimensioni dell'identità adulta, il profilo del Sè legato al lavoro professionale è fra i più significativi. In primo luogo perchè il tempo giornalmente dedicato all'attività professionale è quello più ampio. E in secondo luogo perchè, per una persona media, le chance di vita dipendono dall'attività professionale svolta". Scrive così Maurizio Ghisleni in un recente studio sulla Sociologia della quotidianità. Considerazioni come queste suggeriscono che il lavoro dovrebbe essere al centro dell’attenzione di chi studia la quotidianità. Per motivi che appartengono meno alla teoria che alla pratica della “divisione dei compiti” all’interno della comunità accademica, i sociologi che si sono occupati della vita quotidiana non si sono mossi spesso, però, in questa direzione. Piuttosto, se si sono occupati del lavoro, lo hanno fatto riconoscendo che la riduzione del termine “lavoro” al significato di “occupazione professionale”, che ha per contropartita un reddito, è a sua volta un portato specifico della modernità, e che una delle conseguenze di tale riduzione è che non vengono considerate “lavoro” le attività che non rientrano nella contabilità economica ufficiale, e soprattutto non vi rientrano le attività domestiche, di servizio e di cura, svolte prevalentemente dalle donne. Non mi occuperò qui, però, della storia di queste ricerche. Nel contribuire a costruire il quadro delle domande intorno a cui vorremmo che ruotasse questo incontro, proverò a mettere in gioco alcune nozioni della sociologia della vita quotidiana per affrontare la questione della “narrabilità” del lavoro e della quotidianità: della possibilità cioè di raccontare ciò che avviene nel corso di attività che, in una certa parte almeno, vengono date per scontate dai soggetti coinvolti. 2. Tanto la vita quotidiana quanto le modalità del lavoro sono costantemente mutate nel corso della storia dell'uomo. Ma la modernità, come già Benjamin notava agli inizi del Novecento, ha reso le abitudini sempre più brevi. Negli ultimi decenni questo è diventato ancora più vero, a tal punto che la percezione del mutamento sembra essere diventata il segno più caratteristico della 27 quotidianità stessa. La nostra è una quotidianità mobile e incerta: per quanto possa apparire un ossimoro, siamo immersi in quella che potremmo chiamare una quotidianizzazione del mutamento. Ma, per quanto possa mutare, la vita quotidiana ha un rapporto consustanziale con la routinizzazione. Il pensiero quotidiano tende incessantemente a "naturalizzare" le condizioni della nostra esistenza, cioè a considerarle sotto la specie dell'eternità. Una falsa eternità, un'eternità presunta, certamente, ma una presunzione che serve a sostenere quella che chiamiamo la nostra "sicurezza ontologica". Una presunzione che è del resto connessa alla nostra necessità di tipizzare le situazioni più ricorrenti e di rendere parzialmente automatici almeno i comportamenti che dobbiamo attuare più frequentemente con altri. Il pensiero quotidiano tende incessantemente a dare per scontato qualcosa. E non può farne a meno. 3. Ciò implica una tensione fra quotidianità e racconto. Questa consiste nel fatto che nella vita quotidiana, per definizione, non prestiamo e non possiamo prestare attenzione ad ogni cosa. Gran parte degli ambienti, delle relazioni, delle pratiche e degli universi di senso entro cui siamo immersi sono dati per scontati. Ma se non vi prestiamo attenzione, come possiamo narrarli? La risposta è che possiamo narrarli nella misura in cui mutano. Come spiega ogni narratologo, il racconto è una forma del discorso che ha essenzialmente a che fare con il mutamento, e la vita quotidiana ne può essere oggetto esattamente per il fatto che muta. Certo, il quotidiano ha una dimensione routinaria. Ma la routine non è ripetizione: è ripresa. Le stesse cose non sono mai fatte identicamente. Ed esistono d’altra parte imprevisti, eventi critici, processi di addomesticamento di oggetti o di situazioni nuove che, inserendosi nel quotidiano, illuminano per riflesso anche tutto ciò che non muta, poiché lo costituiscono come lo sfondo che permette di riconoscerli. Infine, ogni fase della vita di una persona corrisponde a una diversa organizzazione della sua quotidianità, ed il confronto tra queste diverse organizzazioni si presta a essere ordinato narrando. Certo, sappiamo che la caratteristica della situazione contemporanea è che la successione delle fasi biografiche tende a destrutturarsi: le fasi sono diverse per ognuno, possono allungarsi, comprimersi, differenziarsi ulteriormente, persino comportare ritorni all'indietro. Ciò comporta una sorta di crisi permanente. Ma non intacca la possibilità di raccontare e di raccontarsi: se mai, anzi, ne rende più 28 avvertito il bisogno, nello stesso momento in cui ne rende più difficile la realizzazione. 4. Al di qua di ogni riflessione sul quotidiano, sappiamo che raccontare e raccontarsi è reso difficile nel mondo contemporaneo dalla frammentazione delle esperienze e delle identità, che toglie plausibilità alla linearità di un racconto. La molteplicità delle appartenenze e delle possibili definizioni di sè apre ogni racconto alla critica di tutti gli altri racconti che, anche a proposito delle medesime cose, potrebbero essere svolti in linguaggi o da punti di vista diversi. Questa difficoltà ha un'importanza da non sottovalutare. Il punto è infatti che riconoscere una trama nella nostra esistenza è uno dei modi principali di cui disponiamo per attribuire a quest'ultima un senso e l'incapacità di narrare e di narrarsi, quando si manifesti davvero, è una seria minaccia alla nostra presa sulla realtà. L’esperienza e il racconto hanno un rapporto circolare. Senza qualcosa che si stagli come un’esperienza - un apprendimento, un incontro, una situazione di cambiamento o di rischio - la narrazione si attiva difficilmente. Ma il racconto a sua volta è ciò che rende un’esperienza propriamente tale: è un modo di appropriarsi degli eventi e dei vissuti, di attribuirvi significato ordinandoli. Come spiegava Walter Benjamin, l’atrofia dell’esperienza e quella della narrazione sono solidali. Benjamin pensava che la tendenza all’atrofia dell’esperienza e della narrazione fosse caratteristiche della condizione moderna. Ma le tendenze si accompagnano sempre a controtendenze. E i soggetti hanno più risorse di quante a volte non gliene attribuiamo. Il punto qui è riconoscere che la narrazione ha un posto di tutto rilievo nella quotidianità anche oggi. Ciascuno racconta qualcosa mentre vive ogni giorno. Lo fa spesso. Narrare è un aspetto ordinario delle pratiche di cui la vita quotidiana è intessuta. Un’infinità di conversazioni comprende passaggi in cui l’uno degli interlocutori mette l’altro a parte di avvenimenti occorsi a lui stesso, ad altri o a personaggi più o meno di fantasia (quelli di cui apprende dai media, ad esempio): in cui cioè viene raccontata una storia. Come ha scritto una studiosa americana, “quasi ogni espressione verbale, in realtà, è legata a una dose più o meno piccola di narrazione, che può andare dal resoconto frammentario e dall'aneddoto appena accennato fino a quei discorsi più definiti e contrassegnati da alcune 29 convenzioni linguistiche che tendiamo a chiamare propriamente ‘racconti’”. Si può raccontare con arte maggiore o minore (c’è chi è un buon narratore e chi non lo è). In ogni caso, la narrazione è un’azione che coinvolge almeno due attori. Si dispiega in una relazione sociale. E’ la pratica grazie a cui un narratore e un destinatario mettono in comune una storia. Quali storie, come e perchè vengano messe in comune dipende dalla relazione, la quale a sua volta può essere rafforzata o, in certi casi, modificata dalle storie che ospita. Non a tutti infatti si raccontano le medesime cose, e le funzioni della narrazione, nella vita quotidiana, possono essere tanto varie quanto sono varie le relazioni in cui ci troviamo implicati. Anche le complesse organizzazioni del lavoro di oggi prevedono spazi in cui i lavoratori più vecchi raccontano storie ai nuovi arrivati, narrazioni aziendali in cui ci si dispensa consigli su come comportarsi, ci si introduce alle dimensioni informali delle relazioni, si costruisce la "morale" del gruppo e si produce e riproduce la memoria del gruppo stesso. Ogni comunità di pratiche è anche una comunità di racconti. La narrazione è una parte di quelle pratiche di conversazione che hanno comunque, in ogni cultura, un ruolo decisivo nella costruzione di uno spazio di socialità. Narrare e scambiarci informazioni è un modo per coordinare le nostre attività ed orientarci praticamente nel mondo, per costruire e ricostruire incessantemente un’interpretazione della realtà condivisa. I sociologi hanno imparato da tempo che la costruzione sociale della realtà è un’operazione in gran parte linguistica, o più propriamente discorsiva: nei discorsi mediante i quali si definiscono i contorni della realtà e i nessi possibili fra gli avvenimenti, le narrazioni giocano un ruolo cruciale. 5. Se la questione è dunque la narrabilità del quotidiano, un primo elemento della risposta è questo: la narrazione è parte del quotidiano. E in parte ha il quotidiano come suo oggetto: un fatto, questo, probabilmente oggi vero più che mai, data la particolare attenzione che diverse agenzie prestano alla quotidianità e data l’accresciuta necessità di atteggiamenti autoriflessivi da parte di tutti i soggetti. Ma resta un problema. Non tutto, nella vita quotidiana, si presta facilmente all’autoriflessività. Ciò deriva in primo luogo dal ruolo che nel quotidiano giocano i saperi pratici. Come sa bene chi ha provato, ad esempio a cimentarsi con manuali di istruzioni per l’uso 30 di un macchinario, o per apprendere un’arte come la cucina il giardinaggio, i saperi pratici non si lasciano facilmente riprodurre in parole. Il sapere pratico si acquista con la pratica. Si possono raccontare storie esemplari, ma nessuna istruzione può mai risultare esaustiva. In secondo luogo, deriva da fatto che ogni discorso, per poter essere formulato e per venire compreso, deve appoggiarsi necessariamente su un insieme di presupposti di senso che non sono esplicitati. Come ha ben mostrato Garfinkel, il tentativo di rendere esplicito ogni presupposto conduce a una regressione infinita. Tutto ciò significa che non possiamo aspettarci che le narrazioni che si svolgono nella quotidianità, fra i soggetti che vi sono coinvolti, dicano tutto a proposito della quotidianità. D’altra parte, è lecito aspettarsi che proprio in ciò che gli attori danno per scontato nel corso delle proprie pratiche e dei loro discorsi si nascondano elementi importanti (se non gli elementi più importanti) per comprendere che cosa avviene di fatto. La dimensione quotidiana di ogni attività lavorativa comporta l’esistenza di routine e di “sensi comuni locali” che difficilmente possono essere esplicitati da chi vi è coinvolto, e non sono facili da percepire per chi ne è all’esterno. Per questo raccontarla è difficile. Ma senza la comprensione di questa dimensione non si comprendono neanche gli esiti concreti a cui il lavoro conduce, e non si comprende l’insieme dei significati che il lavoro riveste. 6. E’ all’altezza di questo problema che si situa a mio avviso il compito di chi fa sociologia. Questo non può limitarsi alla raccolta di narrazioni locali. Consiste piuttosto nel ricostruire l’universo di senso entro cui queste narrazioni si collocano, ma che non sono in grado di dire. Ricordando alcune ricerche recenti, Barbara Poggio ha notato che “le organizzazioni non possono essere rappresentate da una singola storia, ma contengono e si esprimono attraverso una pluralità di storie e di interpretazioni di storie, spesso in conflitto tra loro”. Ciò significa - scrive - che le narrazioni sono in fin dei conti “micropratiche di potere”, e che la storia cui la stessa indagine sociologica mette capo è una storia fra le altre. Sul piano del metodo, queste osservazioni sospingono verso una costruzione “riflessiva” dei materiali, in cui le voci dei soggetti narrati siano affiancate, senza venire negate, alla voce del ricercatore, in un “mettersi alla prova” reciproco. Penso sia giusto. Ma potremmo aggiungere che il compito 31 del ricercatore si spinge al di là della costruzione di una “propria” storia da affiancare alle altre: il suo compito consiste nel ricostruire gli universi di senso entro cui ogni singola storia proposta dagli attori coinvolti si situa. Svolgendo tale compito, il sociologo offre di fatto un “di più” di conoscenza: contribuisce cioè a rendere edotti gli stessi soggetti di ciò che sanno senza, per così dire, saper di saperlo. Per questo compito, disponiamo di diversi metodi. Si va dall’esame ermeneutico del testo delle interviste che realizziamo, finalizzato a scoprire nel testo le tracce di ciò che dà per scontato, fino al resoconto etnografico; si possono inventare metodi speciali come il shadowing o le “interviste al sosia”. Di questi metodi spero che in questo incontro si parlerà. La loro importanza è notevole. Non sono metodi che mettano capo a misurazioni della realtà sociale. Ma contribuiscono a permettere a ciascun soggetto studiato di trasformare ciò che vive in esperienza propriamente tale, cioè in vissuto compreso, e dunque passibile di valorizzazione o di critica. Sarà inoltre interessante mettere questi metodi a confronto con chi, da narratore, si è impegnato a raccontare il lavoro e la sua quotidianità. Il problema qui mi sembra sia quello di introdurre il lettore al gergo locale, alle prospettive implicite, al senso complessivo di cui il lavoro è investito, non potendo contare su una precomprensione di tutto ciò da parte del lettore. 7. La chiave della sociologia della vita quotidiana sta nella frase di Henri Lefebvre: "ciò che è familiare non è per questo conosciuto". Quello che è noto - che è saputo cioè in relazione agli scopi pratici della vita di ogni giorno, che diamo per scontato, che ci è familiare non è per ciò conosciuto, cioè compreso o fatto proprio nella sua logica e nelle sue conseguenze. Ciascuno di noi sa di più e di meno di quello che sa quotidianamente. Di più, perchè a molte delle cose che sappiamo non prestiamo attenzione e a molte altre non attribuiamo valore, e tuttavia senza di queste non saremmo in grado di vivere. Di meno, perchè di ciò che sperimentiamo restiamo in parte ignoranti. Vivendo, non possiamo che fare esperienze. E tuttavia possiamo non avere esperienza. Possiamo rimanere all'oscuro, o tacitare, o camuffare quello che sperimentiamo. Ma prendere atto di ciò che viviamo è riconoscere la situazione in cui stiamo, e solo questo apre uno spazio di libertà. E' quotidianamente 32 che produciamo e riproduciamo la nostra realtà, ed è da qui che si può modificarla. La vita quotidiana non è del resto soltanto la forma che assume ogni giorno la soddisfazione dei bisogni materiali dell'esistenza. Corrisponde sempre implicitamente anche a un'estetica e a un'etica: è il modo in cui ogni individuo (in relazione alle opportunità che gli offre la sua società, alle sue risorse, alla storia) articola le proprie risposte alla domanda di senso che la vita gli pone. Può darsi che solo negli spazi dell'"estraneità al domestico" possa sorgere una coscienza non mistificata, ma in questi spazi abitiamo di rado. Quotidianizziamo il mondo - per quanto la quotidianizzazione oggi possa farsi precaria - e nei modi in cui lo facciamo si esprimono le nostre preferenze concrete e la scelta dei fini ai quali, in fin dei conti, ci votiamo. Ai fini rispetto ai quali è organizzata la nostra esistenza pensiamo di rado nella vita ordinaria; ma non sono nascosti: si esprimono in ciò che facciamo quotidianamente. Lo stesso vale per le collettività: la forma della vita in cui si esprimono quotidianamente mostra i valori e le credenze fondamentali cui si riferiscono. La "vita quotidiana" è un'espressione linguistica che serve a rendere conto di certi aspetti della nostra esistenza. Gli aspetti che permette di illuminare consistono in ciò che nella nostra vita ci è prossimo e ricorre con maggiore frequenza, ma ciò che ricorre (ciò che facciamo e rifacciamo, gli ambienti a cui siamo più esposti, i pensieri e i sentimenti che ci abitano più di frequente, tutto ciò che diamo per scontato) costituisce il nostro essere molto più di quanto non lo costituiscano le esperienze eccezionali, i momenti straordinari o, per altri versi, le fantasie cui indulgiamo. Prendere atto della vita quotidiana è così avvicinarci quanto più è possibile alla determinazione della nostra esistenza e a riconoscerne “il senso”. 33 Relazioni Giorgio Vasta (Scuola Holden di Torino) Messe in scena del lavoro nella narrativa italiana contemporanea Pietro Basso (Università Ca’ Foscari di Venezia) L’ orario giornaliero: è questo quello che conta 34 Martedì 19 aprile, RICERCHE E TEORIE I Workshop (ore 9-16) Coordinano: Laura Balbo (Università di Ferrara) Marina Piazza (Gender, Milano) Bruna Bianchi (Università Ca’ Foscari di Venezia) La vita quotidiana, familiare e lavorativa, della gioventù operaia in Europa dal 1880 al 1933 L’intervento vuole mettere a fuoco i mutamenti intervenuti nella vita della gioventù operaia tra la seconda metà dell’Ottocento e la Grande crisi. Tra le classi popolari la gioventù è un gruppo relativamente facile da identificare: i giovani non vanno più a scuola, lavorano, non sono ancora sposati, vivono con i genitori e, in parte, sotto il loro controllo. Tra l’infanzia e la gioventù lo stacco è netto, almeno nei paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, in cui a partire dal decennio ’70 e ’80 dell’800 la legislazione sull’obbligo scolastico è in gran parte osservata. I conflitti generazionali sono rari; i ruoli sociali della gioventù sono fissati e riconosciuti, accettati perché transitori. I conflitti esplodono alla soglia della giovinezza, ad esempio al momento del ritorno dal servizio militare, quando essi esplicitamente rivendicano maggiore autonomia. Il tema della gioventù operaia è stato fino ad ora assai trascurato dalla storiografia. A differenza dei giovani di origine borghese infatti, i giovani di estrazione operaia non sono stati considerati una presenza storica significativa; quando essi fanno la loro apparizione negli studi sulla storia della famiglia, dell’educazione o del lavoro, restano sullo sfondo. Se infatti gli industriali consideravano i ragazzi una mano d’opera docile e a basso costo, gli operai vedevano in loro degli assistenti e degli aiutanti dai quali pretendevano rispetto, obbedienza e paziente sopportazione della fatica, in definitiva, silenzio. Esclusi dalla scuola, dominati dal sapere e dall’autorità degli adulti nei luoghi di lavoro e nella famiglia, i giovani lavoratori raramente sono riusciti a far sentire la propria voce. 35 Descrivere le condizioni di vita della gioventù lavoratrice inoltre si scontra con problemi di fonti, spesso insormontabili. Le rilevazioni statistiche rendono conto del lavoro infantile, mentre il lavoratore nell’età dell’adolescenza e della prima giovinezza è assimilato all’adulto e resta totalmente in ombra. Le fonti ufficiali (dibattiti parlamentari, inchieste ministeriali, rapporti consolari) spesso propongono rigidi stereotipi: l’immagine della “vittima innocente” dell’egoismo familiare e dell’avidità padronale nega a fanciulli e adolescenti la capacità di affrontare le difficoltà della loro condizione, quella del ribelle indisciplinato e irresponsabile occulta il suo desiderio di affermazione e autonomia. Più che descritta, la gioventù operaia viene rappresentata e tuttavia tali rappresentazioni, recando il segno dei timori collettivi, sono assai eloquenti di una condizione sociale. Mettere a fuoco le esperienze di vita e di lavoro dei giovani delle classi popolari, ricomporre un quadro complessivo dalla frammentarietà di informazioni richiede quindi l’analisi di un gran numero di fonti e la capacità di leggerle in controluce. Si aggiunga che raramente i giovani delle classi popolari raccontano o scrivono le loro storie di vita o semplicemente annotano le loro esperienze, se non in situazioni estreme (guerra, profuganza, persecuzione). Manca loro la consuetudine con la scrittura e soprattutto quel senso del passare del tempo che induce l’adulto a ripiegarsi su se stesso e riflettere sul significato della propria esistenza. Preziose per ricostruire la quotidianità della vita si sono rivelate le memorie e, soprattutto, le testimonianze raccolte e pubblicate negli ultimi decenni. L’intervento cercherà di ricostruire i mutamenti intervenuti nella vita dei giovani delle classi popolari (rapporti famigliari e lavorativi, forme della partecipazione politica e della protesta sociale) alla luce dei mutamenti del mercato del lavoro giovanile e si soffermerà più sui ragazzi che sulle ragazze, più su Gran Bretagna e Germania, i paesi in cui fu più intenso il processo di industrializzazione, che su Francia e Italia. Spero di poter fare un quadro più articolato nel corso della discussione. 1880-1914 Il declino del lavoro minorile e l’aumento dell’occupazione giovanile Negli ultimi decenni dell’800 il diffondersi dei processi innovativi nell’industria, la crescente specializzazione della produzione, lo sviluppo di nuovi settori quali la chimica e la meccanica leggera, 36 modificarono profondamente il mercato del lavoro e favorirono l’ingresso nelle fabbriche di un gran numero di adolescenti a cui venivano attribuite mansioni non qualificate. Nel corso di pochi anni mutarono sia le modalità di ingresso al lavoro, sia le tradizionali vie di trasmissione delle conoscenze legate al mestiere. Un percorso lavorativo sotto la guida morale dell’adulto venne gradatamente sostituito dal lavoro industriale non qualificato, ripetitivo, temporaneo. Il declino dell’apprendistato suscitò ovunque crescenti apprensioni: privi della guida morale dell’adulto – si affermò - i giovani lavoratori dimostravano eccessiva indipendenza, mancanza di previdenza e parsimonia e non nascondevano la propria insofferenza verso ogni forma di autorità. La società industriale non appariva in grado di garantire il controllo sulla moralità dei giovani lavoratori ed i loro comportamenti irrispettosi divennero il simbolo della rapida industrializzazione e del tumultuoso processo di urbanizzazione. Se nei decenni precedenti era diminuito il numero dei fanciulli lavoratori grazie alla legislazione sull’obbligo scolastico che ne innalzava i limiti di età (a 13 anni in Francia e a 14 anni in Germania e Gran Bretagna) e si erano quindi attenuate le forme più brutali di sfruttamento, si stava ora profilando un modo nuovo di abusare degli adolescenti: la drastica riduzione delle opportunità di un lavoro stabile e qualificato. Tuttavia per i giovani l’ingresso nel mondo del lavoro era un evento a lungo atteso. Poiché i guadagni dei figli, per quanto miseri, erano essenziali alla sopravvivenza famigliare, quando il ragazzo si poteva porre all’interno della famiglia come portatore di reddito, veniva trattato con maggior rispetto. La madre aveva per lui quelle attenzioni che fino a quel momento aveva rivolto solo al padre o ai fratelli maggiori, si allentavano i rapporti di autorità, poteva passare più tempo fuori casa e, al contrario di quanto accadeva per le ragazze, poteva trattenere una parte dei suoi guadagni. Una volta entrati nel mondo del lavoro ai figli maschi non si chiedevano più quelle attività domestiche che essi percepivano come servili e umilianti: caricare e scaricare legna e carbone, attingere l’acqua, disfarsi della spazzatura, scopare il cortile. Il ragazzo, fin dall’età dell’adolescenza, aspirava ad uscire dalla sfera del controllo materno ed essere assimilato ai maschi della famiglia, in particolare al padre, dispensato dai lavori domestici. 37 Nei luoghi di lavoro invece, sia nelle fabbriche che nei laboratori, sia per l’apprendista che per il non qualificato, i rapporti di subordinazione all’operaio adulto restarono molto accentuati. La dipendenza del giovane lavoratore nei luoghi di lavoro si rispecchia nella scarsa considerazione che il suo lavoro riceveva all’interno delle organizzazioni sindacali, tese a privilegiare l’operaio adulto e qualificato ed a trascurare, se non ad ignorare, le condizioni di salario e di lavoro della mano d’opera minorile e giovanile. Nel movimento operaio i minorenni ebbero sempre scarso peso numerico e la questione della gioventù operaia non entrò mai a far parte della strategia sindacale; anche sul piano rivendicativo infatti dai giovani ci si attendeva rispetto e ubbidienza. La gerarchia professionale infatti riuscì a lungo a contenere rivendicazioni autonome e quando queste si manifestarono in scioperi promossi e diretti esclusivamente da minorenni, si trattò di scioperi di breve durata che si svolsero nell’indifferenza e talvolta nell’ostilità degli adulti e si conclusero negativamente. Nell’impossibilità di identificarsi come gruppo all’interno delle organizzazioni sindacali, i giovani operai spesso esprimevano il proprio malcontento per le condizioni di lavoro e di salario con l’indisciplina o l’abbandono del lavoro. Ma è soprattutto alla strada, al mondo del gruppo e alle bande che i giovani lavoratori si rivolsero per compensare le ristrettezze e le umiliazioni della loro vita e trovare forme di autoaffermazione. Nel gruppo i giovani condividevano un senso di appartenenza generazionale, di classe e di quartiere e nelle testimonianze i ricordi dei rapporti di vicinato tra i coetanei sono colmi di nostalgia. Tuttavia, per quanto monotono e privo di gratificazioni personali, il lavoro permeava a tal punto la vita quotidiana, che anche le conversazioni all’interno del gruppo ruotavano attorno al lavoro. La condizione delle ragazze lavoratrici era decisamente peggiore di quella dei maschi: costrette al lavoro domestico e a quello domicilio fin dalla più tenera età, le ragazze sono colpite dalla tubercolosi in misura di gran lunga maggiore dei ragazzi. La loro situazione era aggravata dal fatto che non potevano né ribellarsi né fuggire. Non c’è un turn over femminile. “Le ragazze – ha scritto Michelle Perrot sono inchiodate al loro posto dal volere di tutti, in primo luogo dal padre”. 38 1914-1918 Le nuove opportunità di lavoro nell’industria bellica In tutti i paesi industrializzati coinvolti nel conflitto l’aumento straordinario della produzione nel settore dell’armamento, la diffusione della lavorazione in serie, la mobilitazione della gran parte della classe operaia, ampliarono grandemente le opportunità occupazionali per i giovani nell’età compresa dai 14 ai 21 anni. Le retribuzioni a cottimo, la semplicità delle mansioni, la condizione di debolezza della mano d’opera adulta maschile, costantemente sotto il ricatto di perdere l’esonero e di essere rinviata al fronte, favorì nei giovani lavoratori l’occasione per emanciparsi dal sapere e dal rispetto dovuto all’adulto e il maturare di una coscienza nuova della propria dignità e dei propri diritti. Nelle fabbriche, infatti, la protesta dei ragazzi, che nel passato era stata tante volte soffocata o guidata dagli adulti, acquista un rilievo nuovo. Furono i ragazzi che, insieme alle donne, presero l’iniziativa degli scioperi e nel corso delle manifestazioni si dimostrarono i più attivi e i più determinati. Anche all’interno delle famiglie la guerra portò mutamenti di grande rilievo: impose un continuo riadattamento delle modalità di convivenza, alterò le relazioni di dipendenza, ridefinì responsabilità e ruoli. In molti casi gli adolescenti divennero capifamiglia e il loro salario non rappresentò più una semplice integrazione del reddito famigliare complessivo, bensì divenne indispensabile alla sopravvivenza. Alle nuove, accresciute responsabilità tuttavia non venne conferita dignità, alle fatiche e alle privazioni non venne attribuito alcun riconoscimento né morale né sociale. Ai giovani inoltre fu negato il diritto allo svago e alla socializzazione al di fuori delle forme ufficialmente previste dalla mobilitazione e dalla propaganda ed essi reagirono valorizzando in modo ancora più accentuato rispetto al passato forme di socializzazione spontanea. Nel gruppo ricercarono sostegno morale e forme alternative di svago, praticarono forme di opposizione quotidiane ai controlli autoritari, ostentarono la propria estraneità al clima di lealismo patriottico e alla pressione ideologica che investì il fronte interno. Il tempo libero dal lavoro era trascorso per le strade dove si andarono moltiplicando le condanne per alcuni reati: aggressione nei confronti delle guardie, azioni irriverenti e ritorsioni violente nei confronti della classe media, dei “signori” che dimostravano disprezzo e indifferenza per le privazioni delle classi popolari. In ogni paese coinvolto nel conflitto aumentarono le condanne per questo tipo di reati. 39 L’atteggiamento di rivalsa, il desiderio di sfida appare una reazione esclusivamente maschile; il maggior controllo sulla vita e il lavoro delle ragazze, i limiti posti alla loro socialità, l’impegno nella sfera domestica, spiegano la minore presenza femminile tra gli imputati dei tribunali. In Italia, ad esempio, la maggioranza delle ragazze che comparvero di fronte ai giudici dovette rispondere di reati contro l’ordine pubblico: nelle manifestazioni collettive di protesta le più giovani sono alla testa dei cortei, urlano la loro rabbia contro la guerra e il loro disprezzo per le forze dell’ordine. 1919-1933 La disoccupazione Dopo il conflitto in tutti i paesi gran parte dei ragazzi impiegati nelle industrie di guerra furono licenziati e solo pochi trovarono occupazioni alternative in paesi investiti dalla crisi. Giovani che avevano contribuito al bilancio familiare soffrirono di un senso di umiliazione, anche rispetto ai fratelli più giovani (il lavoro minorile non diminuì, ma aumentò in quasi tutti i paesi). La demoralizzazione condusse ad un senso acuto di inutilità, alla noia, al fatalismo. Le difficoltà erano accresciute dal fatto che ai giovani disoccupati che continuavano a vivere in famiglia non spettava alcun sussidio. Nel 1923 in Gran Bretagna furono censiti 150.000 disoccupati tra i 14 e i 18 anni, ma di essi solo 6.500 ricevevano un sussidio. Accadde così che molti giovani si allontanassero dalla famiglia, andando a vivere in camere in affitto sovraffollate e tornando in famiglia di tanto in tanto, nei momenti di bisogno più acuto. E tuttavia l’affermarsi delle misure previdenziali per i lavoratori adulti ebbe ripercussioni favorevoli su un gran numero di adolescenti; in particolare si attenuò quel senso di insicurezza che nei decenni precedenti aveva condotto le famiglie ad esercitare un forte controllo sui figli e sui loro salari. Nella nuova situazione anche il padre disoccupato era disposto a rinunciare ad una piccola parte del suo sussidio per i divertimenti dei figli, rappresentati negli anni Venti e Trenta dal cinema e dal ballo. Soprattutto le ragazze si dimostrarono decise a difendere i loro piccoli margini di libertà, pronte a sostituire la cipria con la farina pur di andare a ballare, a cambiare con una certa disinvoltura “boy friend” pur di non rinunciare al cinema. Condizioni ben più drammatiche in Germania dove i giovani della classe di età compresa tra i 18 e i 23 anni furono i più colpiti dalla disoccupazione. Si trattava di giovani che avevano appena terminato la poro preparazione professionale o che avevano raggiunto l’apice 40 delle loro possibilità di guadagno, ma che nelle nuove condizioni non potevano fare alcun progetto per il futuro. Le inchieste condotte da osservatori e assistenti sociali descrivono giovani irritabili, depressi e instabili, dominati da un senso di fallimento personale. Il disorientamento che derivava dalla perdita del lavoro conduceva in primo luogo ad una dissoluzione dei ritmi della vita quotidiana, alla perdita della disciplina del tempo. In un primo momento essi si rinchiusero nella famiglia, nel mondo del vicinato o del gruppo, ma in seguito furono attratti dalle organizzazioni politiche più radicali: dal partito comunista, e soprattutto dal partito nazionalsocialista. Ai giovani disoccupati i nazionalsocialisti offrirono la possibilità di strutturare la propria vita quotidiana, di dare un senso alla propria attività. Al senso di inutilità contrapposero l’esaltazione della gioventù: solo i giovani avrebbero potuto plasmare il mondo. Si aggiunga che in Germania, in quegli anni cruciali, si era diffuso il timore di una pericolosa inversione nei rapporti tra i generi. Le ragazze infatti, tradizionalmente inserite in settori produttivi meno colpiti dalla crisi, erano considerate pericolose concorrenti degli uomini e le ansie collettive fissarono uno stereotipo di giovane operaia frivola, immorale, resa troppo sicura di sé dalla recente acquisizione del diritto al voto. In un paese in cui quasi 4 milioni di uomini, per lo più giovani, avevano perso la vita nelle trincee, e che presentava un grave squilibrio demografico, i comportamenti delle giovani lavoratrici erano percepiti in maniera sempre più accentuata come un grave problema sociale e morale. Vando Borghi (Università di Bologna) Lavoro e sfera pubblica. Appunti per una prospettiva di ricerca Vorrei proporre due direzioni di lavoro e di analisi, tra loro strettamente legate (e in parte sovrapposte) e tuttavia analiticamente separabili. Si tratta di due assi di sviluppo relativi ad un unico tema di fondo: il rapporto tra lavoro e sfera pubblica – cioè il rapporto tra una dimensione della vita sociale estremamente necessitata, in cui è forte la componente eterodiretta dell’azione, e la dimensione in cui dovrebbe invece esprimersi l’accesso alla cittadinanza, materiale e immateriale. 41 La prima direzione di riflessione riguarda il rapporto tra lavoro e sfera pubblica, laddove quest’ultima è intesa in termini di ‘proprietà sociale’ (Castel). Tale rapporto è quindi qui interpretato in modo da indagare come le trasformazioni della proprietà sociale incidono su lavoro. La profonda ristrutturazione del settore pubblico, in corso nel nostro paese così come a livello internazionale, implica un conseguente ridisegno dello statuto sociale del lavoro, storicamente fondato, dalla modernità, sul suo stretto rapporto con la proprietà sociale. Inoltre tali trasformazioni incidono anche sul lavoro (sulla sua qualità, sul suo significato) indispensabile alla stessa predisposizione e fruizione della proprietà sociale. La seconda direzione di approfondimento concerne invece le modalità attraverso le quali il lavoro istituisce sfera pubblica. I fenomeni di rimodellamento della natura del lavoro, dei suoi tempi e spazi, della sua conformazione istituzionale tendono a favorire crescenti processi di privatizzazione dell’esperienza lavorativa. L’individualizzazione del lavoro, che è in parte anche un processo di emancipazione dalla monolitica standardizzazione del passato, produce tuttavia anche frammentazione, impossibilità di narrazione significativa delle proprie esperienze di lavoro, etc. In ogni caso, queste trasformazioni impongono l’esigenza di un ripensamento delle forme in cui, attraverso il lavoro, è possibile istituire sfera pubblica (dentro e fuori i confini delle organizzazioni e dei luoghi di lavoro), ripensando quelle tradizionali ed prendendo sul serio le lezioni che vengono da esperienze di tipo deliberativo. Attila Bruni (Università di Trento) Piccole disuguaglianze quotidiane: uno studio etnografico delle traiettorie di accesso ai servizi sanitari nella città di Bologna L’intervento si propone di presentare i risultati preliminari di una ricerca avente ad oggetto i processi organizzativi che innescano (o che possono innescare) disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari a Bologna città. In particolare, ci si concentrerà sull’analisi della quotidianità organizzativa di un luogo particolare (e nevralgico) per le traiettorie di accesso a servizi sanitari: i Centri Unici di Prenotazione (CUP), dove i soggetti devono recarsi al fine di 42 prenotare la prestazione clinica che è stata loro prescritta. L’osservazione dell’attività quotidiana del CUP, infatti, permette di iniziare a cogliere come quelle che in via preliminare possono essere definite come “piccole disuguaglianze quotidiane” prendano forma all’interno di interazioni situate e si ripercuotano sulle traiettorie di accesso ai servizi. Banalmente, chi abita in alcune zone della città risulta privilegiato; chi può gestire autonomamente i suoi impegni lavorativi può avere più facilità nel far coincidere orari e appuntamenti; chi ha la possibilità di condividere (con parenti e/o amici) la gestione degli impegni quotidiani riesce a rendersi più flessibile; chi ha un buon rapporto con il proprio medico di medicina generale ha la possibilità di essere indirizzato meglio. Meno banalmente, però, si cercherà di mostrare come tali “piccole disuguaglianze” siano per l’appunto “quotidiane” e, quindi, non dipendano da fattori strutturali (senza per questo negare la rilevanza di variabili quali classe, genere, razza e livello di istruzione) ma siano a loro volta frutto delle dinamiche e dei processi sociali in cui i soggetti si trovano coinvolti all’interno della loro vita ordinaria. Sulla scorta di alcuni concetti derivanti dalla sociologia di stampo fenomenologico, interazionista ed etnometodologico (e, in particolare, i concetti di ‘rapporti di vicinato’ di Park, di ‘determinismo locale’ di Goffman e di ‘fiducia’ nella sua versione garfinkeliana) si mostrerà come i processi di disuguaglianza non solo siano situati nell’interazione quotidiana, ma come (proprio in virtù di ciò) quest’ultima si riveli una dimensione appropriata e ricca di spunti per lo studio dei processi che ‘fanno’ disuguaglianza. In questo senso, il presente contributo si prefigge di mantenere un doppio binario di lettura e discussione: da un lato, l’individuazione dei processi di disuguaglianza e del loro operare dinamico; dall’altro, una riflessione metodologica a proposito del come studiare (‘dal basso’ e sulla scorta di una metodologia etnografica) fenomeni sociali che si caratterizzano per la loro multiformità e policromia. Carla Facchini (Università Bicocca Milano) La vita di coppia sulla soglia del pensionamento e oltre 43 Manuela Naldini (Università di Torino) Tempi di lavoro e tempi di vita. Strumenti di genere per la conciliazione : alcuni dati e riflessioni a margine di uno studio di caso di alcuni spazi della casa in determinati momenti della giornata, ecc… Gli altri membri della famiglia entrano così a far parte del “lavoro”: ciò a volte avviene in modo diretto come quando il partner del telelavoratore si prende cura dei figli nei momenti di maggiore impegno o svolge commissioni per suo conto, in modo indiretto, dal momento che tutti debbono rispettare le nuove regole. Del resto, un altro aspetto dell’attenuarsi dei confini tra vita privata e vita lavorativa è la tendenza del tempo di lavoro a colonizzare gli altri tempi sociali, come il tempo familiare o il tempo libero. E, ancora, ciò che si produce è una perdita della sincronizzazione collettiva dei ritmi familiari. Ciò significa che non vi saranno più orari di punta in cui tutti vanno a lavorare o tornano dal lavoro, non andremo al supermercato tutti lo stesso giorno, con evidente sollievo per il traffico e per i trasporti pubblici. Nella pratica quotidiana, però, la perdita di sincronizzazione collettiva rende molto più difficile sincronizzare i tempi all'interno della famiglia: per esempio, spesso il tempo libero del lavoratore non coincide con quello degli altri membri della famiglia o viceversa. Il telelavoro non costringe a modificare solo le routine pratiche ma anche quelle cognitive, che abbiamo riassunto nel concetto di “senso comune”, cioè “l’insieme di tutto ciò che ciascuno considera ovvio all’interno di una data cultura o di una data società (e in un certo momento della storia)”. Orbene, utilizzando questo concetto abbiamo potuto costatare la difficoltà dei lavoratori a staccarsi da routine e "ovvietà" sedimentate nella formazione precedente all'esperienza del telelavoro: la necessità di avere in casa uno spazio, seppur piccolo, che rappresenti il lavoro esprime il tentativo di ricreare quella divisione spaziale e temporale tra casa e lavoro che era caratteristica del lavoro tradizionale. 44 Questo dimostra che il senso comune è dotato di una sua forza di inerzia. Per certi versi, esso è effettivamente una sorta di memoria sociale, che tende a proiettarsi sul nuovo e, almeno in una prima fase, a depotenziarne gli aspetti di rottura. Nella ricerca, inoltre, viene messo in evidenza come le caratteristiche strutturali del telelavoro, cioè la maggiore o minore libertà dei telelavoratori di combinare spazio e tempo, e gli accordi contrattuali a quali sono legati influenzano in modo decisivo il modo in cui il telelavoratore combina vita lavorativa e vita extra-lavorativa, cioè il modo in cui viene riorganizzata la vita quotidiana dell’individuo. Il telelavoro offre ai lavoratori un maggiore controllo su alcuni elementi del processo lavorativo, come il luogo, il ritmo, il numero di ore di lavoro. La possibilità di controllare questi elementi dovrebbe permettere al lavoratore di conciliare meglio vita privata e vita lavorativa. In realtà, dalla nostra ricerca è emerso che questa opportunità non si realizza, o si realizza solo in parte, perché entra in conflitto con quelli che sono gli interessi del committente. In concreto, uno dei principali fattori in cui si manifesta la difficoltà a conciliare le mutevoli esigenze dei datori di lavoro con quelle di autonomia del lavoratore è l’esistenza di scadenze per la consegna dei lavori svolti, quasi sempre a breve termine. Il committente, sia esso un privato o un’agenzia, attraverso i termini di scadenza riesce ad esercitare una pressione sui tempi del lavoratore, variando così secondo le proprie esigenze il confine tra vita lavorativa e vita familiare che il lavoratore definisce. Ciò capovolge la logica che vorrebbe il telelavoratore libero di pianificare i propri tempi lavorativi, adattandoli anche alle esigenze familiari. E’ questa indeterminatezza dei tempi che crea quell’allentamento dei confini tra vita privata e vita lavorativa cui si faceva cenno in precedenza. In definitiva possiamo dire che, al contrario delle promesse di autonomia ed indipendenza presente in molta della letteratura, la vita lavorativa del telelavoratore è sottoposta a pressioni ed è intensa forse più di quella di chi lavora in modo tradizionale. Resta vero che, come abbiamo costatato nelle interviste, i telelavoratori affermano in genere di godere di maggiore autonomia rispetto ai lavoratori tradizionali; ma in realtà l'autonomia di queste persone si limita alla mancanza di una diretta supervisione e ad un 45 limitato controllo altrui sulle ore di lavoro svolto. Questa contraddizione appare evidente agli occhi di un osservatore esterno; nelle parole degli intervistati, appare a volte sotto forma di una esplicita autocritica delle scelte e delle aspettative iniziali, più spesso sotto la forma dell’ambivalenza di alcune espressioni o della franca coesistenza di affermazioni contrapposte. La sua presenza mette in gioco di nuovo la nozione di “senso comune”. Il senso comune, oltre che come memoria sociale, opera anche come ideologia. I discorsi veicolati dai datori di lavoro, dalle imprese interessate alla diffusione del telelavoro e dai media esprimono la tensione di questi attori a promuovere, esplicitamente o meno, una rappresentazione sociale positiva del telelavoro: tendono cioè a rendere “ovvio” che esso abbia essenzialmente una valenza liberatoria, nascondendone gli aspetti problematici. In definitiva, ci pare di poter affermare che quello che emerge da questa ricerca è che le tecnologie informatiche e della comunicazione e lo stesso telelavoro sono davvero potenzialmente in grado di migliorare la qualità del lavoro e della vita quotidiana. Ma alla prova dei fatti i risultati della loro applicazione, entro i quadri contrattuali ed organizzativi che abbiamo esaminato, rischiano di essere diversi. La soddisfazione dei singoli lavoratori può essere varia, a seconda delle possibilità che essi hanno di venire a patti con questi quadri. Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria) Quotidianità mediatizzata, lavoro e artefatti tecnologici tra innovazione e routine I processi di appropriazione ed addomesticamento (Silverstone, 2000) di artefatti tecnologici costituiscono una parte sempre più rilevante della vita quotidiana di individui ed organizzazioni. La vita quotidiana (quella che si svolge nelle organizzazioni e nei luoghi di lavoro, e quella che va oltre essi) è sempre più mediatizzata, ovvero ha a che fare con processi di tipizzazione e di routinizzazione di innovazioni sociotecniche. Le categorie di innovazione e routine, “ponte” tra lavoro e quotidianità, costituiscono chiavi di lettura per de-costruire i processi di appropriazione della tecnologia in quanto artefatto organizzativo, oggetto e strumento di apprendimento nello svolgimento del lavoro. 46 D’altro canto, queste stesse categorie appartengono alla teoria della vita quotidiana e consentono di illuminare rotture e ricostituzioni del senso comune (Jedlowski, 2003) in riferimento ai processi comunicativi mediati dalle tecnologie, che accomunano lavoro e nonlavoro. La sociologia della vita quotidiana (Jedlowski e Leccardi, 2003) è sociologia di costruzione ed interpretazione della conoscenza, in particolare di quella conoscenza quotidiana che sospende il dubbio e che costituisce il “senso comune” (Schutz, 1979a). Il mutamento sociale può essere tematizzato, tra l’altro, come una continua messa in discussione di categorie, modi di pensiero e d’azione dati per scontati. L’alternanza e la combinazione di innovazione e routine, di fatto, è ciò che accomuna i processi di apprendimento e conoscenza dentro e fuori il lavoro, il lavoro nella quotidianità e la quotidianità del lavoro. Vi è tuttavia un terzo tipo di relazione tra lavoro e vita quotidiana, ed è il “lavoro” (o, meglio, lavorio) proprio della vita quotidiana, che gli individui compiono per dare senso al mondo passando attraverso molteplici organizzazioni con cui sono chiamati a confrontarsi e che da questo confronto emergono. Questo lavorio, che è talvolta simile a quello compiuto dallo “straniero” (Schutz, 1979b), talaltra a quello del “reduce” (Schutz, 1979c) è sempre più riferito ad una dimensione tecnologicamente mediata, che è da un lato “addomesticata” e resa quotidiana, dall’altro costituisce strumento dei modi in cui il mondo diviene dato per scontato. La metafora del “tessuto organizzativo” radicata nella tradizione della scuola socio-tecnica e portata alla ribalta da Emery e Trist nell’analisi dei rapporti tra organizzazione e ambiente (Emery e Trist, 1965), verrà adoperata per rappresentare la vita organizzativa come vita quotidiana in cui innovazione e routine si alternano. L’espressione “tessere l’organizzazione” descrive l’insieme degli atti interattivi posti in essere in un contesto organizzativo (Strati, 2004; Gherardi e Strati, 1990). Ma “tessere l’organizzazione” è anche la metafora di un lavoro (o, di nuovo, lavorio) quotidiano compiuto dai soggetti all’interno dell’organizzazione. Si tratta di un meta-lavoro e di un meta-livello costituito da “trame” più o meno fitte. Ipotizzando che la routine sia la trama più fitta e l’innovazione quella più larga del tessuto, si può cogliere il fatto che le trame “larghe” (l’innovazione) allentano la rigidità del disegno principale della trama del tessuto, in cui variazioni continue e minimali ricorrono, come nel genere del serial televisivo (Czarniawska, 2000). 47 Lungi dall’essere contrapposta al lavoro, la vita quotidiana è dunque un ambito unificante dell’esperienza: il tessuto è un continuum le cui separazioni sono, talvolta, artificiali o ritagliate ad hoc. Rispetto a questo tessuto, la (nuova) tecnologia può agire in molteplici modi, di seguito sintetizzati sulla scorta dei risultati di una ricerca comparata sulla costruzione sociale della tecnologia Intranet in due aziende (Pellegrino, in corso di stampa), e delle ipotesi relative ad un progetto di ricerca in corso di elaborazione. Sul fronte della ricerca comparata riguardante Intranet, emergono le seguenti relazioni tra tecnologia, vita quotidiana e routine nelle organizzazioni: - La (nuova) tecnologia è fonte di nuove routine: la quotidianità del lavoro è costruita su routine che sono spesso “incorporate” in (e rappresentate da) artefatti tecnologici; - La tecnologia è parte della routinizzazione come ripetitività della vita quotidiana lavorativa; - La tecnologia è contenuto del lavoro e strumento di esso; è oggetto di appropriazione ovvero di un processo di quotidianizzazione che la rende data per scontata. - La (nuova) tecnologia è rottura/interruzione della routine lavorativa. Per quanto concerne la ricerca in corso di elaborazione, essa si propone di indagare ambiti e campi di continuità/discontinuità nella vita quotidiana di individui ed organizzazioni, in quanto mediata da tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’esperienza della mediatizzazione (Schulz, 2004), e della comunicazione mediata che la costituisce, rappresenta un elemento di forte continuità nella vita quotidiana. Il luogo (di lavoro o di nonlavoro, pubblico o privato) è sempre più definito dalla (o contiguo alla) comunicazione mediata e complessità semplificata di artefatti tecnologici le cui dimensioni, funzionalità e potenzialità sono in rapporto inverso: più piccolo è il dispositivo, più sofisticate le sue funzioni. La miniaturizzazione, mobilità, portabilità, semplicità d’uso di tali artefatti rappresenta la materializzazione di tendenze di apertura (e ridefinizione) dei confini tra lavoro e non lavoro. L’enfasi sull’individualità e l’emergere dei cosiddetti “personal media” (in particolare tecnologie mobili di ultima generazione, basate sull’integrazione tra telefonia mobile e altri media) sono spie di una tendenza verso forme di relazioni sociali non solo più mobili e più 48 flessibili, ma anche in grado di accelerare la comunicazione e l’interscambio tra le “realtà multiple” (Schutz, 1979d) in quanto veicolate e vissute attraverso una mediazione tecnologica e culturale. Presupposto teorico-metodologico comune alla ricerca completata relativa ad Intranet ed alla ricerca in corso su tecnologie mobili di ultima generazione, è che la tecnologia costituisca un “punto di accesso” ed un osservatorio privilegiato della vita quotidiana di individui ed organizzazioni. Riferimenti bibliografici Czarniawska, B. (2000). Narrare l'organizzazione. La costruzione dell'identità istituzionale, Edizioni di Comunità, Torino. Emery, F.E. e Trist, E.L., (1965). "The Causal Texture of Organizational Environments," Human Relations, 18, 21-32. Gherardi, S. e Strati, A. (1990). “The Texture of Organizing in an Italian University Department”, Journal of Management Studies, 27 (6), 605-618. Jedlowski, P. (2003), Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, Intersezioni - il Mulino, Bologna. Pellegrino, G. (in corso di stampa). Il cantiere e la bussola. Le reti Intranet fra innovazione e routine, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli. Schulz, E. (2004), Reconstructing Mediatization as an Analytical Concept, European Journal of Communication, 19 (1): 87-101. Schutz, A. (1979a), Saggi sociologici, Utet, Torino. Schutz, A. (1979b), “Lo straniero”, in Saggi sociologici, Utet, Torino, 375-389. Schutz, A. (1979c), “Il reduce”, in Saggi sociologici, Utet, Torino, 390-403. Schutz, A. (1979d), “Sulle realtà multiple”, in Saggi sociologici, Utet, Torino, 181232. Silverstone, R. (2000). Televisione e vita quotidiana, il Mulino, Bologna. Strati, A. (2004). L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi, Carocci, Roma. Marita Rampazi (Università di Pavia) Giovani, tempo, vita quotidiana 1. L’incertezza biografica è un tema centrale nella riflessione sociologica contemporanea sul tempo dei giovani, stimolata dalla trasformazione delle coordinate spazio-temporali prodottasi nel passaggio dalla prima alla seconda modernità e dalla saldatura di questo cambiamento con il processo di individualizzazione in atto. Tale concetto è stato messo a tema negli anni ’80 in relazione alla contestazione delle certezze tipiche della prima modernità, emergente, come tratto trasgressivo, in talune frange giovanili. Oggi, 49 esso definisce una condizione che si va generalizzando al punto da proporsi come un dato normale dell’esperienza dei giovani. In estrema sintesi, gli aspetti costitutivi del concetto di incertezza biografica sono rappresentati da: a) reversibilità delle scelte e loro relativa de-connessione rispetto a forme consolidate di modelli di ruolo e di radicamento spaziale, in una prospettiva di crescente flessibilizzazione di percorsi e carriere, b) enfatizzazione della dimensione del presente rispetto a un futuro sempre meno prevedibile e ad un passato che sbiadisce sotto la spinta dell’accelerazione dei tempi dell’agire, che provoca una sorta di reificazione dell’atto in sé, entro una cultura dell’‘immediatezza’ potenzialmente distruttrice della cumulatività dell’esperienza; un fenomeno sotteso all’idea di presentificazione; c) dilatazione dei tempi di passaggio entro un gioco complesso di anticipazione/posticipazione delle esperienze che l’orizzonte culturale moderno associava a specifiche fasi della vita; d) progressiva centralità della dimensione biografica, associata allo sbiadire di quella storico-istituzionale e del ‘tempo lungo’ posto a fondamento delle identificazioni collettive ‘forti’ del passato; in tal senso, si sottolinea oggi non solo la perdita di memoria storica, ma anche l’affievolirsi dei confini fra pubblico e privato, che, per taluni, si risolve nella privatizzazione dell’esperienza. Per i giovani, questo insieme di fenomeni trae origine da e, insieme, alimenta un processo nel quale “le traiettorie esistenziali ricavano sempre meno luce (tendendo progressivamente ad autonomizzarsi) dalle relazioni con il mondo istituzionale, non più garante del loro ingresso nella sfera adulta”, come osserva Carmen Leccardi 1, illustrando gli orientamenti verso il futuro emergenti da una recente ricerca nazionale sul tempo dei giovani, dalla quale traggono spunto le considerazioni che vorrei proporre con questo intervento. 2. Il venir meno di garanzie istituzionali “certe” circa l’ingresso nella sfera adulta è particolarmente evidente e sofferto nel caso della progettualità connessa al lavoro. Si tratta di una ricerca PRIN coordinata da Franco Crespi, nell’ambito della quale chi scrive è stata responsabile dell’unità di ricerca pavese. Per quanto riguarda l’impianto teorico-metodologico e i risultati, cfr: F. Crespi, a cura di, Tempo vola, Il Mulino, Bologna, in corso di stampa 1 50 E’ quasi banale notare che, finché non si ha un lavoro che offra concrete e stabili prospettive di autonomizzazione dalla famiglia e qualche forma di riconoscimento sociale, non si può seriamente pensare né ad uscire di casa, né a stabilizzare il rapporto di coppia, né ad avere dei figli. Meno banale è il disagio identitario derivante dal non sapere se e quando si potrà uscire dal limbo in cui si è confinati a causa del protrarsi dei tempi di passaggio. Nel limbo, si può stare anche bene: la famiglia garantisce la sopravvivenza, la sostanziale de-responsabilizzazione tipica di questa condizione consente di sperimentare la molteplicità di percorsi, relazioni, interessi, che l’universo culturale contemporaneo propone come possibili. Tuttavia, si è socialmente “invisibili” (Diamanti, 1999). A lungo andare, tale invisibilità, che mette in dubbio il riconoscimento, può tradursi in un senso di perdita angosciante: “il tempo vola e io sono sempre qui: rischio di mancare all’appuntamento con tutte le tappe importanti della vita”, dicono i nostri intervistati. L’incertezza per il proprio futuro lavorativo e per il riconoscimento sociale ad esso collegato, può tradursi in un vissuto di precarietà, potenzialmente paralizzante ai fini della costruzione di sé come durata, vale a dire, soggetti capaci di raccontarsi in una prospettiva di divenire. In questo senso, ad esempio, Sennett (1999) denuncia le conseguenze distruttive delle “parole d’ordine del capitalismo moderno” – flessibilità, mobilità, rischio - sulla vita personale. L’“uomo flessibile” di Sennett è prigioniero di una sorta di paralisi temporale, appiattito su un quotidiano, talvolta caratterizzato da un iperattivismo frenetico, ma privo di significato per la biografia. Questa lettura, tuttavia, non è l’unica possibile. In alcuni casi, anziché all’idea di precarietà sembra più corretto riferirsi al concetto di provvisorietà (Rampazi, in corso di stampa) ed al suo statuto ambivalente. Da un lato, evoca il fenomeno visto sopra di sradicamento, disagio identitario, frammentarietà nella narrazione di sé, fonte di potenziale neutralizzazione affettiva. D’altro lato, la nonfissazione, implicita nell’idea di provvisorietà, rimanda all’autonomizzazione del soggetto favorita dal processo di individualizzazione. Da questo punto di vista, balza allora in primo piano ciò che Bauman (1999) definisce la «strategia post-moderna generata dall’orrore di essere legati e fissati», attualizzando le metafore del vagabondo, del turista, del flâneur e del giocatore. Fra queste metafore, quella del vagabondo sembra coniugarsi perfettamente con il senso di provvisorietà connesso alla de51 strutturazione delle carriere ed alla mobilità – spaziale e funzionale implicite nel modo con cui si tende a interpretare, oggi, la flessibilizzazione del lavoro. “Il vagabondaggio – nota Bauman - non ha alcun itinerario fissato – la sua traiettoria è messa assieme pezzo per pezzo, un pezzo alla volta Per il vagabondo, ogni posto è un luogo di sosta, ma egli non sa quanto a lungo rimarrà … Dovunque il vagabondo vada, egli è un estraneo …Vivere il sogno di diventare un nativo finisce solo per creare recriminazione reciproca e amarezza. E’ quindi meglio non ambientarsi troppo in un posto. E, dopo tutto, altri posti si profilano, posti non ancora sperimentati, magari più ospitali, sicuramente in grado di offrire nuove possibilità. Aver caro di «essere fuori posto» è una strategia ragionevole … Permette di lasciare aperte le opzioni. Permette di non ipotecare il futuro … Il primo vagabondo moderno vagava attraverso luoghi «organizzati»; egli era un vagabondo perché non riusciva a sistemarsi, come altra gente aveva fatto, in alcun posto. Coloro che erano sistemati erano tanti, i vagabondi pochi. La postmodernità ha invertito la situazione … Ora il vagabondo è tale non per la sua riluttanza o difficoltà a sistemarsi, ma per la scarsità di luoghi organizzati”. 3. Il vagabondare contemporaneo descritto da Bauman non riguarda scelte o sfortune dei singoli, ma il progressivo sbriciolarsi della strutturazione sociale dello spazio, l’assenza di luoghi «organizzati» in cui potersi stabilizzare. Si tratta di una condizione oggettiva di disancoraggio, che si coglie nei racconti di alcuni intervistati. Tuttavia, i casi puri sono molto rari. Più frequentemente, la provvisorietà si lega ad una situazione di nomadismo: una mobilità, nel quotidiano e/o nella dimensione biografica, caratterizzata da molteplici passaggi, e ritorni, entro luoghi che, agli occhi degli intervistati, mantengono precisi caratteri di «organizzazione». Nella ricerca in questione, il nomadismo emerge come un tratto normale dell’esperienza possibile agli occhi dei giovani, soprattutto in relazione alla necessità di saper cogliere, ovunque si trovino, le opportunità formative e lavorative prospettate dal mercato. A differenza del vagabondo, il nomade non gira a caso. Egli segue un percorso disegnato da una finalità precisa: trovare le risorse che consentano di “crescere” ed, eventualmente, imbattersi nel “posto giusto” dove potersi stanziare. Nella misura in cui gli scenari stessi del quotidiano sono mutevoli e imprevedibili, la risposta alla 52 domanda “chi e che cosa posso diventare?” - alla base del dilemma identitario – si può cercare solo per approssimazioni successive, attraverso una continua negoziazione interpersonale dei significati delle scelte. L’importante, dicono molti fra i nostri intervistati, è “attrezzarsi” per saper gestire questa negoziazione, sfruttando le opportunità che si presenteranno volta a volta, nell’immediatezza della vita quotidiana. 4. I caratteri della mobilità contemporanea profilano, accanto al vagabondaggio e al nomadismo, una terza modalità, che potremmo definire, con Beck (1997), poligamia di luogo, di particolare interesse, ai fini delle strategie di stabilizzazione di un’immagine di sé coerente, indipendentemente dalla frammentarietà del contesto. Si tratta di un fenomeno che sottintende una temporalità giostrata fra più “tavoli” fortemente organizzati e connotati dal punto di vista identitario: analoga, a ben vedere, a quella che caratterizza la doppia presenza femminile. Il tratto distintivo della poligamia di luogo non è tanto la provvisorietà, quanto la sovrapposizione di spezzoni di vita, ciascuno dei quali ha una propria logica temporale e una specifica valenza etica. Questo concetto è stato coniato da Beck in relazione alla fine dell’esclusività delle identificazioni territorialmente fondate – quella nazionale, in particolare. La non esclusività cui allude Beck deriva dall’accresciuta mobilità geografica fra stati e continenti diversi, innescata dalla globalizzazione economica, che ha spostato sino ai limiti del globo i confini dell’agire professionale di numerose categorie di soggetti e oggi produce i suoi effetti ben oltre la sfera dell’economia e del lavoro. Gli individui sono così in condizione di potersi costruire percorsi identitari che si alimentano di una pluralità di identificazioni con contesti culturalmente assai diversificati. Fra i nostri intervistati, abbiamo trovato alcuni casi di poligamia di luogo à la Beck, tuttavia, la declinazione più interessante e generalizzata di tale metafora riguarda il modo in cui si organizza la vita quotidiana: un patchwork (Balbo, 1982) che si compone e ricompone giorno per giorno, “tenendo insieme” la pluralità di contesti, tutti egualmente importanti, nei quali si vivono lo studio e/o il lavoro – spesso distribuito fra più “lavoretti” svolti contemporaneamente -, l’intimità con il/la partner, lo “stare con” gli amici e i familiari, l’andare in palestra – un appuntamento importantissimo, da non mancare! -, il volontariato e così via. La riduzione ad unità di questi frammenti è possibile, a condizione di 53 potersi ritagliare un po’ di tempo per sé, in cui “riannodare le fila”, “ritrovarsi” come dicono alcuni, in un processo di costante autoriflessione. Rieccheggiano, qui, i temi evidenziati da tempo dalle indagini sulla temporalità femminile moderna. La novità è che essi si stanno generalizzando. 5. Per concludere rapidamente, accanto ai noti fenomeni di dispersione e disorientamento, si vede anche emergere una strategia di governo dell’incertezza identitaria, che fa perno su un’immagine di costante costruzione/ricostruzione di sé, innescata e sostenuta dal farsi delle relazioni interpersonali. In questa prospettiva, non scompare la capacità di raccontarsi; si delinea piuttosto, un nuovo modo per farlo, che abbiamo definito strutturazione riflessiva della biografia. Raccontandosi, il soggetto si “costruisce”, costruendo contemporaneamente il contesto relazionale (Melucci, 2001) e riconducendo all’esperienza di vita i cambiamenti affioranti nell’orizzonte culturale del proprio ambiente sociale. Nelle parole dei nostri giovani, c’è una sottolineatura continua dei contenuti relazionali dell’esperienza, declinati prevalentemente in termini di “comunicazione emozionale”, tipica delle relazioni “pure” (Giddens, 2000), che vanno alimentate e coltivate nelle pratiche, anche minute, del quotidiano. Concentrando l’attenzione sull’intensità e la durata di queste relazioni, si può astrarre dagli effetti disgreganti prodotti dallo sradicamento spaziale e dall’istantaneità dell’agire funzionalmente orientato. In questo senso, va letta, ad esempio, l’enfasi posta sull’importanza di ritagliarsi quotidianamente un po’ di tempo “per stare con gli amici”; sul ruolo di alcune figure-chiave nello stimolare la “crescita personale e professionale” nel contesto di lavoro; sulla tendenza a collezionare oggetti – dalle foto, ai libri, ai fogli su cui si trascrivono gli sms ricevuti - legati al ricordo di persone significative per il proprio percorso di vita; sul recupero della dimensione collettiva del passato attraverso le memorie familiari. Si tratta di una strategia di recupero della progettualità – e della memoria – fondata sulla totale assunzione di responsabilità per le proprie scelte: una responsabilità che non tutti, come si è notato, riescono a maturare, o ad accettare, o per assumere la quale non vi sono per tutti risorse adeguate. Molti ne sono sopraffatti, paralizzati. Altri si danno al vagabondaggio, trasformando l’esplorazione del 54 presente nel progetto di vita, finalizzato a vivere compiutamente l’intensità di ogni attimo, finito in sé. Ciò che unisce le tre modalità di declinare l’incertezza biografica tratteggiate sin qui è il rilievo assunto dalla dimensione quotidiana. Per l’uomo flessibile di Sennett, il quotidiano è il contesto in cui l’angoscia del vuoto può trovare sollievo in un iperattivismo che non lascia spazio per pensare. Per il vagabondo di Bauman, è il terreno nel quale “andare a caccia” di esperienze (Jedlowski, 1989). Per chi persegue strategie di strutturazione riflessiva, è la dimensione nella quale costruire e mettere alla prova le proprie capacità di bricoleur, il luogo in cui si concretizzano le potenzialità di “innovazione, di creatività, di differenza”, di cui già parlava nel 1978 Laura Balbo a proposito della complessa gestione della doppia presenza femminile. Riferimenti bibliografici L. Balbo, “Patchwork”: una prospettiva sulla società di capitalismo maturo, in L. Balbo e M. Bianchi, Ricomposizioni. Il lavoro di servizio nella società della crisi, Angeli, Milano, 1982 L. Balbo, La doppia presenza, in “Inchiesta, n. 32, 1978 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1997 U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto della sicurezza e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000 I. Diamanti, a cura di, La generazione invisibile, ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 1999 A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna, 2000 P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Angeli, Milano, 1989 C. Leccardi, I tempi di vita tra accelerazione e lentezza, in F. Crespi, a cura di, Tempo vola, Il Mulino, Bologna, in corso di stampa A. Melucci, Su raccontar storie e storie di storie, in G. Chiaretti, M. Rampazi, C. Sebastiani, a cura di, Conversazioni, storie, discorsi. Interazioni comunicative tra pubblico e privato, Carocci, Roma, 2001 M. Rampazi, La costruzione della durata negli spazi del quotidiano, in F. Crespi, Tempo vola, cit. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999 55 Luca Salmieri (Università La Sapienza Roma) Lavori atipici, vita di coppia, tempi del quotidiano Il contributo presenta alcuni dei risultati di una ricerca condotta tra le coppie composte da lavoratori instabili della provincia di Napoli ed accenna ad una serie di analisi che approfondiscono i legami tra le forme del lavoro atipico ed i vari percorsi e aspetti della vita a due. Oggetto della ricerca sono state le persone con un’età tra i 20 ed i 40 anni, sposate o che convivono e coloro che non coabitano stabilmente. Nel campione rientrano diverse tipologie di lavoro atipico: collaborazioni coordinate e continuative, lavoro a tempo determinato, lavoro part-time, tanto a tempo indeterminato che determinato. Il lavoro interinale è stato scartato a causa dell’estrema brevità delle missioni lavorative. La scelta delle coppie è stata effettuata prendendo in considerazione un quadro composito: è stato infatti sviluppato un raffronto tra le coppie in cui entrambi i partner svolgono un lavoro atipico e flessibile, definite per comodità “totalmente flessibili” e quelle in cui tale condizione riguardava soltanto uno dei partner, definite, invece, coppie “parzialmente flessibili”. Tra queste l’altro partner poteva risultare disoccupato oppure occupato con un lavoro “standard” (contratto a tempo indeterminato e full-time). L’ipotesi di fondo che ha mosso la ricerca è che la società dell'incertezza alimenta nuove ed inesplorate forme di adattamento degli individui alle dinamiche, ai vincoli e alle opportunità della flessibilità e quindi delle strutturali condizioni di vita. Flessibilità del lavoro, destabilizzazione della vita quotidiana, formazione e consolidamento della coppia nella vita di tutti i giorni così come nella prospettiva di lungo periodo hanno costituito i temi e gli interrogativi dell’analisi. In particolare il contributo presentato si riferisce alle ricadute dell’occupazione instabile e del lavoro flessibile su alcuni degli aspetti della vita quotidiana, legati al rapporto e alla commistione tra tempi lavorativi ed extralavorativi. Non a caso questo tema è uno degli aspetti meno indagati nell’ambito delle ricerche sociologiche. In che modo le nuove coppie flessibili tentano di combinare i tempi del lavoro con il resto delle attività della propria vita ? Come ci si barcamena tra attività e cura di sé, lo stare insieme, le intimità, le attività comuni, gli impegni professionali, i compiti ed i servizi domestici e familiari, la cura e l’educazione dei figli ? Se più di un’analisi ha segnalato il venir meno della netta distinzione tra tempo lavorativo e tempo non 56 lavorativo, riscontrando un sovrapporsi tra tempi dedicati alla prestazione professionale e altri tempi di vita, poche ricerche hanno affrontato questo aspetto in relazione alla formazione della coppia e alla nascite delle nuove famiglie toccate dall’instabilità del lavoro e dalla continua variazione degli orari. I risultati della ricerca offrono alcuni primi spunti di riflessione: l’erosione del confine tra tempi-luoghi di lavoro e di non lavoro attiene al livello quotidiano della vita delle persone. Le difficoltà di pianificazione, l’instabilità e l’imprevedibilità della carriera professionale stravolgono le vita e ne distorcono la percezione secondo un continuo ricorrere all’analisi di rischi ed opportunità. La vita riuscita di una persona assomiglia sempre più al successo di un’impresa: nel senso che le traiettorie della vita sembrano dover rincorrere i tipici comportamenti delle imprese. In una frase, “vivere è quasi un’impresa”: i soggetti, come le imprese, si muovono tra le turbolenze delle richieste che emergono momento dopo momento nell’arena della quotidianità lavorativa, ponendosi spesso come minacce, a volte come opportunità tipiche delle situazioni instabili, precarie e discontinue. Da qui l’ormai ricorrente invito, quasi di carattere normativo, ad essere “imprenditori di se stessi”. La necessità di interfaccia tra domanda e offerta di servizi e la volatilità dei contenuti che sostanziano tali servizi presumono una totale adattabilità del lavoratore a tempi, compiti, procedure, informazioni e processi di lavoro. Un nuovo tipo di pressione della “domanda”, proveniente dalla competizione globale, dalla riduzione delle disponibilità economiche dei settori pubblici e dalla rivoluzione informatica, si caratterizza esprimendo la necessità di erogare servizi diversificati, mutevoli ed in tempo reale. Dato che le barriere che separavano i luoghi del lavoro dai contesti di non lavoro si sgretolano (si pensi all’influenza esercitata da internet, dalla telefonia mobile e dal lavoro a distanza) e lo spazio relazionale si confonde con quello produttivo, viene meno la tipica distinzione fordista tra spazio di produzione (la fabbrica), spazio di riproduzione (il nucleo familiare) e tempo libero (i luoghi dell’entertainment). L’era del post-fordismo poggia sull’osmosi tra questi spazi. Tale osmosi è resa possibile dall’economia della conoscenza, che ha disintegrato la fabbrica, frammentandola nel territorio, e dalla comunicazione a distanza, che ha trasformato la casa in ufficio, grazie all’impiego degli strumenti tipici dell’ufficio, e l’ufficio in abitazione, grazie alla presenza dei comfort tipici dell’abitazione 57 Un tempo istituzione monolitica nella quale si entrava per tutta la vita, la coppia è divenuta anch’essa, per forza di cose, un sistema flessibile, fatto di continui aggiustamenti. Non più scontata nella sua struttura, nei suoi rapporti interni ed esterni, la convivenza a due richiede una costante “manutenzione” e ricostruzione degli equilibri che appaiono sempre più legati al divenire irregolare della vita quotidiana dei singoli e all’importanza dei progetti e delle scelte di fondo. Al di là del tipo di condizione coniugale (convivenza, coabitazione, matrimonio, presenza di figli), la maggior parte delle testimonianze raccolte mostrano soprattutto la presenza di relazioni che, poco organizzate o stabili, appaiono imperniate su una percezione della vita quotidiana e dell’avvenire in cui i partner hanno accettato, chi deliberatamente e chi no, l’esistenza di una certa flessibilità, anzi di un livello di confusione ed indeterminatezza, nel sistema domestico, nello scambio reciproco e nelle attività comuni. Le giovani coppie basano la loro esperienza su un sistema già di per se flessibile, fatto di continui aggiustamenti. L’idea e la pratica dello stare assieme non sono più qualcosa di scontato. Esse richiedono una costante ricerca e ricostruzione degli equilibri. Mettersi assieme a qualcuno ed impostare una vita di coppia è ormai una sorta di impresa in progress e non solo in rapporto agli aspetti emotivi. Si tratta di saper continuamente abbinare istanze lavorative e fabbisogni della vita a due, verificando giorno per giorno che gli accordi su un certo numero di cose comuni permetta un’intesa, e che questa venga quotidianamente rispettata e alimentata. Mara Tognetti ((Università Bicocca Milano) Come cambia il lavoro di cura Il sempre più diffuso ricorso al lavoro di cura prestato da persone non appartenenti al nucleo familiare, ( fenomeno determinato fra l’altro da un welfare sempre più monetario, da un’offerta di tale lavoro a prezzi accessibili , dal persistere della permanenza del lavoro di cura al domicilio, dalla scarsa o nulla ripartizione del lavoro domestico fra i generi), oltre che produrre un welfare dai caratteri inattesi, determina nuove relazioni all’interno della famiglia del curato, ma anche una nuova idea dell’immigrazione al femminile. 58 Nel contributo oltre ad analizzare come e perché si diffonde questo lavoro di cura, descriveremo le caratteristiche e i suoi aspetti di “modernità”. Analizzeremo altresì gli effetti che tale lavoro produce sul welfare state per poi approfondire i cambiamenti che determina sia nella vita quotidiana della famiglia del curato che in quella di chi cura. Cambiamenti che riguardano lo stile relazionale fra i membri della famiglia, ma anche la cultura del tradizionale lavoro di cura svolto da qualche membro femminile della famiglia. Bibliografia di riferimento AA.VV, Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia dall’Ottocento ad oggi, in “Polis”, n. 1, 2004 C. Gori, ( a cura di) Il welfare nascosto, Carocci, Roma, 2003 M. Tognetti Bordogna, Fra le mura domestiche :sfruttamento e crisi del welfare nel lavoro di cura delle badanti, in M. A. Bernardotti, G.Mottura (a cura di) “Immigrazione e sindacato. Lavori, discriminazione, rappresentanza”, Ediesse, Roma, 2004 M. Tognetti Bordogna, Lavoro immigrazione femminile in Italia : una realtà in mutamento, in U.Melotti, M.Delle Donne,( a cura di) “Immigrazioni in Europa. Strategie di Inclusione - esclusione” , Ediesse, Roma, 2004 Rossana Trifiletti (Università di Firenze) Famiglie a doppia carriera e organizzazione del quotidiano 59 II Workshop (ore 9-16) Coordinano: Gabriella Paolucci (Università di Firenze) Ida Regalia (Università di Milano) Donatella Barazzetti (Università della Calabria) Donne sull’orlo di una crisi di cura: spunti per ripensare alcune categorie di genere Nella mia comunicazione vorrei provare a ragionare su alcune categorie (doppia presenza, lavoro di cura, conciliazione) che sono state centrali in questi ultimi 30 nell’analisi di genere in Italia. Vorrei riflettere su come esse vengano problematizzate dai processi di trasformazione che stanno frantumando la tradizionale separazione tra tempo di produzione e tempo di cura, tra spazio produttivo e spazio riproduttivo. In particolare vorrei mettere in luce gli interrogativi che pone il permanere della centralità della figura femminile nelle dimensioni della cura. La categoria di doppia presenza ha consentito di interpretare questa centralità come un aspetto cruciale della capacità femminile di attraversare registri temporali e culturali profondamente diversi:. Questa categoria presupponeva e rinviava però a una dimensione sociale attraversata da due sfere oppositive, quella pubblica e quella privata. E metteva in discussione questa duplicità non negandola, ma assumendola come frutto di una costruzione fondativa della modernità e delle rappresentazioni del femminile che le erano proprie. Il reitersi della centralità femminile nella cura si misura oggi con un processo di “fluidificazione” dei confini tra tempo di vita e tempo di lavoro, con la compenetrazione tra sfere e qualità temporali differenti, e con messa in discussione delle attribuzioni simboliche e dei significati stessi di tempo di cura, di tempo di non lavoro, di lavoro per il mercato. Richiede dunque di ripensare a molte categorie consolidate, e anche al senso e alle ragioni di questo permanere nei nuovi scenari che oggi attraversiamo. 60 Carmen Belloni (Università di Torino) L’Indagine Multiscopo sull’uso del tempo L'Indagine Istat Multiscopo sulle famiglie: Uso del tempo, è ormai giunta alla sua conclusione ed è quasi terminato il lavoro di pulizia dei dati. Facendo parte del ristretto gruppo di "esperti" (non necessariamente sociologi) chiamati a proporre letture dei dati e a realizzare elaborazioni degli stessi, in modo che questi abbiano una buona utilizzabilità sul piano della ricerca (per quanto ci riguarda, sociale, ma anche linguistica, psicologica ecc.), ho la possibilità di disporre fin da ora di un ampio sottocampione del campione nazionale di famiglie. Come dicono loro (staff ISTAT), i dati non sono ancora "validati", quindi sono per ora non divulgabili, ma sono a nostra disposizione solo per cominciare a impostare elaborazioni e ad avviare percorsi di analisi che rispondano a specifiche domande nei nostri rispettivi campi di studio. Verso la fine seconda metà dell’anno potranno essere immessi i dati corretti e i risultati potranno essere divulgati. Come probabilmente si sa, questi dati hanno una struttura particolare molto complessa, il cui trattamento comporta un lavoro non piccolo e una formazione specifica, soprattutto se si vuole andare oltre alla semplice fase descrittiva, che ha caratterizzato nei tempi passati questo genere di indagini. Aggiungo inoltre che, in quest'ultima rilevazione, si è verificato un accordo europeo, secondo il quale lo stesso protocollo di rilevazione è stato adottato da tutti i Paesi aderenti al Progetto (la gran parte dei Paesi europei), quantomeno rispetto a un livello "base", sul quale i singoli partecipanti - e l'Italia è tra questi - avevano la possibilità di realizzare livelli più analitici di rilevazione. Dal lavoro di censimento, che sto facendo, sulle indagini di questo tipo recentemente realizzate nel mondo, emerge che questo tipo di analisi (uso tempo), contrariamente a quanto si potesse dire alcuni anni fa, è ormai molto diffuso e costituisce una fonte preziosa e di riferimento per la comparazione internazionale. Come ho detto, su mandato dell'ISTAT, ho già avviato il lavoro di preparazione dei dati grezzi, su cui impostare poi analisi specifiche, grazie anche a un gruppetto di lavoro che - faticosamente, date le solite ristrettezze economiche in cui ci troviamo sempre, ma che per 61 fortuna sta raggiungendo un buon livello - comincia ad avere non solo la formazione sociologica di base ma anche le capacità tecniche per la gestione di questi dati. Il mio obiettivo è quello di arrivare in breve tempo a mettere in circolazione la maggiore quantità possibile di informazioni sulle caratteristiche della vita quotidiana degli italiani e delle italiane, confrontandole anche con quelle di altri Paesi europei. Come si può immaginare, questi dati rappresentano una vera e propria miniera di informazioni che il nostro campo di ricerca potrebbe, dopo il lavoro che stiamo facendo, utilizzare, quantomeno nell'ottica di avere una "fotografia" di partenza della struttura quotidiana di vincoli esistente (che passa ancora soprattutto attraverso la divisione dei ruoli domestici e attraverso il sistema degli orari) e delle scelte organizzative attuate dai singoli e dalle famiglie. Sulla base anche dei miei lavori precedenti su questo tipo di ricerche, posso indicare una serie di temi di riflessione che potrebbero interessare soprattutto la nostra sezione, ma penso che dai partecipanti potrebbero venire suggerimenti utili per l'impostazione del lavoro che mi accingo a fare. A titolo di esempio, posso indicare i seguenti temi, che meriterebbero, a parer mio, di essere ulteriormente sviluppati: 1. Quali sono le caratteristiche di questo metodo/strumento e quali possibilità ci offre? Queste considerazioni si basano sul fatto che spesso si è messa in discussione la reale capacità, da parte di questi dati, di permettere la comprensione dell'azione sociale, considerandoli utili solo a una semplice descrizione dell'esistente. In realtà, ferma restando, a mio parere, l'utilità della fase, naturalmente iniziale, della descrizione, il lavoro che sto facendo mi convince sempre più del fatto che è importante una seria riflessione metodologica e, ancor più, epistemologica, su alcuni aspetti fondamentali: a. come avviene la costruzione del dato su cui impiantiamo poi le nostre analisi b. come tenere sotto controllo l'operazione molto delicata della traduzione delle informazioni in categorie su cui applicare operazioni di data processing c. è necessaria una utilizzazione "composita" e non frammentata del dato, facendone una lettura non "puntiforme", ma "integrata" delle informazioni fornite; in altri termini, contestualizzando le 62 attività svolte con i dati di relazione, localizzazione, inserimento tra le altre attività d. i dati così ottenuti necessitano di essere integrati da informazioni di cornice e di essere confrontati con dati ottenuti attraverso altri metodi Detto questo, è possibile e necessario avviare procedure d’analisi di una certa complessità, non tanto con la pretesa di fornire un quadro generale, ma con lo scopo di rispondere a domande precise che emergono dalla teoria sociologica 2. Quali sono i meccanismi attraverso cui si definiscono o ridefiniscono i ruoli, soprattutto quelli legati al genere? Nella riorganizzazione delle attività quotidiane, soprattutto in relazione alle ridefinizioni degli orari o alla perdita di rigidità e/o di stabilità, normatività ecc. degli orari, in particolare di quelli lavorativi, come si ri-organizzano i soggetti: aumentano i gradi di libertà (in termini semplificatori, inteso come aumento del tempo per sé) o, contrariamente, aumentano i limiti, sotto forma di autolimitazioni, sovraccarico ecc.? Le prime impressioni sulla stabilità dei carichi lavorativi complessivi delle donne, insieme a una preoccupante tendenza al loro ritiro dal mercato del lavoro, sembrano indicare che l'allentamento della rigidità dell'orario tenderebbe a rafforzare i ruoli di genere, con forte cristallizzazione dei ruoli solitamente definiti “femminili” (naturalmente bisogna ancora andare avanti con l'analisi). Che cosa sta succedendo negli altri Paesi europei, in particolare in quelli del nord? Dobbiamo pensare che si tratti di una dato riconducibile a un "modello mediterraneo", con forte matrice culturale e legato a una carenza di politiche correttive? Sia l'indagine nazionale, sia l'indagine da me compiuta su un campione rappresentativo di bambini torinesi (su cui posso dare già alcuni risultati, essendo una ricerca autonoma dalla rilevazione ISTAT, pur rispettandone il protocollo e che quindi, a suo tempo, sarà con essa confrontabile) mettono in luce la precoce costruzione sociale del genere e dei ruoli ad esso correlati. I comportamenti quotidiani delle bambine e dei bambini (attività di tempo libero, uso degli spazi urbani, attività domestiche, uso delle nuove tecnologie della comunicazione, socialità) sono veramente differenti! Non è difficile pensare come. Un altro aspetto che sta emergendo da alcune analisi straniere sui dati di uso del tempo è la rilevanza delle attività multitasking (svolgere 63 più attività contemporaneamente). Spesso ciò si mette in relazione con effetti di stress. Fermo restando che l'aumento di densità del tempo è una tendenza generale delle nostre società, come si riflette ciò nella organizzazione del tempo richiesta alle donne, in rapporto anche alla fissità dei ruoli di genere? 3. Si può parlare di perdita dei confini tra tempi sociali o di ridefinizione degli stessi? Nelle nostre ricerche sulla vita quotidiana, bene o male continuiamo a usare categorie concettuali come lavoro, tempo libero, tempo di riproduzione. Tutto sommato, il seminario veneziano si fonda su questo principio e, nello stesso tempo, fa propria la consapevolezza di una sempre maggiore porosità di questi confini. I dati dei comportamenti quotidiani (rilevabili attraverso l'uso del tempo) mettono in luce la sempre crescente difficoltà a separare tra i vari ambiti. L'aspetto dell'attribuzione di senso tocca indubbiamente il cuore della questione e, in un certo modo, l'esito di una serie di passaggi, trasposizioni di finalità che si sono affermati (si stanno affermando) in primis nell'organizzazione sociale, con cui i soggetti hanno a che fare nella organizzazione delle loro vite. Un elemento di "confusione", e di scelta con finalità problem solving , come abbiamo visto, è quella del multitasking, in cui non solo si "sovrappongono" le attività, ma si mescolano gli ambiti di significato, rendendo spesso difficile, per gli stessi soggetti, cogliere il significato complessivo dei loro comportamenti. Altri aspetti di porosità dei confini vengono messi in luce dai comportamenti quotidiani, da pratiche diffuse, come ad esempio quella della sempre più spinta frammentazione delle attività, dal non tenere separati gli spazi temporali di pratiche destinate a tempi sociali differenti, dal processo, ormai più che avviato, di perdita del ritmo settimanale, dal mescolamento di pratiche festive e non festive ecc. Come vivono questa diversa velocità di ridefinizione dei tempi sociali le fasce di popolazione che solo indirettamente entrano in relazione con le regole dettate dal tempo di lavoro (che costituisce ancora un tempo centrale), come ad esempio i bambini? Ciò significa che si stanno mescolando i tempi sociali, e che non ha più senso far riferimento ad essi, oppure che se ne stanno creando degli altri, oppure ancora che attualmente stanno convivendo diverse concezioni degli stessi? 64 Inoltre, la presenza costante e crescente del viaggio (spostamento non a piedi, ma che noi viviamo come trasportanti o trasportati) nella nostra organizzazione quotidiana (tema che ritroviamo spesso in questo gruppo di indagini, in altri Paesi) si può pensare come un nuovo tempo sociale, o uno spazio di sospensione, o di depauperamento, nella nostra vita? Ho fatto solo un elenco di interrogativi e di temi che possono trovare un riscontro (non ho detto una risposta) nei dati provenienti dall’uso del tempo. Si tratta di partire da qualcuno di questi interrogativi e muoversi con analisi un po’ più raffinate al fine di ricostruire la struttura risultante dalle scelte (più o meno consapevoli) attuate dai diversi attori. Naturalmente sarebbe importante mettere a confronto questi dati con analisi più adatte a mettere in luce gli aspetti valoriali che ci permettono di comprendere i meccanismi che sottostanno a comportamenti collettivi che caratterizzano gruppi o società locali. F. Bergamante, R. Cavarra, A. Fasano, P. Rella (Università La Sapienza Roma) Famiglia e carriere lavorative instabili: una conciliazione sempre più difficile In un contesto di destrutturazione delle attività lavorative e delle traiettorie di vita, in cui l’incertezza e la paura connotano le biografie delle persone, armonizzare lavoro e famiglia risulta impresa difficile, oggi più di ieri in particolare per le donne. Nella ricerca appena conclusa (Il genere della Radio. Carriera, famiglia e pari opportunità, Franco Angeli 2004), ciò è apparso chiaramente. Allo stato attuale le differenze di genere sono apparentemente riconosciute, grazie anche al contributo offerto da numerosi studi su questo tema che vengono svolti da oltre trent’anni. Si direbbe che le discriminazioni di genere siano ormai molto attenuate e comunque in via di superamento. All’inizio di questo percorso di ricerca ci siamo chiesti se il superamento delle differenze di genere è stato reale o si parla solo in modo diverso del problema senza una sostanziale modificazione dei rapporti di potere. Possiamo rispondere che se sono state eliminate le differenze di genere più plateali, come la netta caratterizzazione 65 maschile o femminile di alcuni tipi di lavoro rimangono molte piccole differenze che si cumulano fra loro. Soprattutto emergono nuove disparità legate alla crescente instabilità del lavoro, anche perché le responsabilità familiari continuano ad essere mal divise. Eravamo pertanto interessati a scoprire se e in che misura permanesse una difficoltà femminile nel fare carriera, al di là dei pregiudizi e delle discriminazioni più grezze. Cercavamo una situazione d'eccellenza, un'azienda non pregiudizialmente ostile alle donne, che avesse una Commissione Pari Opportunità. Abbiamo scelto la radiofonia pubblica, un importante comparto della Rai. La Rai è un'azienda quasi pubblica che ha addirittura due Cpo. Non ci aspettavamo di doverci confrontare con il problema del lavoro precario. La ricerca ha utilizzato metodologie sia quantitative (questionari e analisi dei dati sulle carriere fornite dall’azienda) che qualitative (interviste in profondità ai dirigenti, sindacalisti e lavoratori). Negli uffici dove abbiamo somministrato i questionari abbiamo trovato numerosi precari/e che lavoravano gomito a gomito con i/le regolari e che abbiamo quindi deciso di intervistare. Non siamo però riusciti a fare loro qualche intervista qualitativa dato che, in seguito al cambio di governo, nessuno era più disponibile a parlare. D'altronde se si guarda ai mutamenti del mercato del lavoro sotto i colpi della sedicente globalizzazione, non si può ignorare che anche (e forse soprattutto) in settori molto valorizzati socialmente e culturalmente, si sta sempre più affermando una logica del precariato come funzionamento normale del mercato del lavoro. Se la segregazione e le maggiori difficoltà femminili di carriera, come mostrano altre ricerche, non sono un fenomeno peculiare della Rai, come anche comportamenti della dirigenza di fatto discriminatori, ciò che è specifico di tale azienda è il meccanismo di carriera basato sulla cooptazione e sulle conoscenze politiche e ciò danneggia di più le donne per la loro scarsa capacità di muoversi nel mondo della politica. Non si può certo mettere in dubbio che un nesso così stretto tra politica e carriera sia una specificità della Rai, ma non si può neanche ignorare che, specie laddove la carriera la si fa per cooptazione, la difficoltà delle donne di muoversi in ambito politico costituisca un handicap, in particolare a livello di alta dirigenza, dove comunque far carriera significa utilizzare reticoli sociali per entrare in una ristretta elite, di cui spesso fanno parte anche i vertici politici. 66 Un altro risultato della nostra ricerca, che conferma quanto emerge anche da altri studi è il ruolo che gioca la classe sociale d'origine sia sull'ingresso nel lavoro che nella carriera. Gli svantaggi di provenire da un ceto sociale medio basso si cumulano per le donne con le differenze di genere: l'entrata, specie nel lavoro regolare, avviene in età più avanzata e i percorsi di carriera risultano più difficoltosi. Altro aspetto comune ad altri contesti di lavoro è la difficoltà femminile di sfondare il soffitto di cristallo: d'altro lato un numero non irrilevante di intervistate svolge funzioni dirigenziali, in parte senza che ciò sia ufficialmente loro riconosciuto, e riceve una positiva valutazione da entrambi i generi. Ciò ci ha permesso di cogliere gli aspetti positivi delle differenze di genere, quelli meno scontati. In particolare il leader ideale viene dipinto da entrambi i generi con caratteristiche spesso ritenute femminili: la capacità di comunicare e soprattutto quella di cooperare con i suoi sottoposti. Inoltre uomini e donne, pur avendo (o quanto meno dichiarando) minor fiducia in capi del loro stesso sesso, riconoscono che la mancanza di solidarietà tra donne è tra le principali cause di una scarsa presenza femminile ai vertici aziendali. Il fatto di lavorare alla Rai è apprezzato dalla maggior parte delle e degli intervistati, perché si tratta di un lavoro interessante e che permette di realizzarsi dal punto di vista professionale. Significati ed atteggiamenti verso il lavoro sono però differenziati per genere: le donne vivono il lavoro come affermazione sociale, specie se si tratta di un lavoro prestigioso come quello di giornalista o appassionate come quello di programmista e affermano di porre molta attenzione (in particolare se impiegate) nello svolgere correttamente il proprio lavoro. Inoltre, a parità di qualifica, le intervistate hanno un più spiccato senso di responsabilità rispetto agli intervistati. Passione per il lavoro, peggiori condizioni retributive e di carico di lavoro e maggiori difficoltà di carriera determinano una più alta insoddisfazione femminile, che è conseguenza anche delle difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, problema di cui continuano a farsi carico soprattutto le donne. Tra le più giovani generazioni, dove la segregazione è più attenuata, stanno peggiorando le condizioni di lavoro, con l'incremento dei rapporti di lavoro precari. La crescita della precarietà ha effetti diversi per i due generi sulla possibilità di farsi una propria famiglia, dato che il lavoro di cura è ancora mal diviso tra uomini e donne. 67 L'aumento della precarizzazione dei rapporti di lavoro è un fenomeno non specifico dell'azienda da noi analizzata, tuttavia il fatto che si presenti per lavoratori e lavoratrici che fanno un lavoro “appassionante” (quello di giornalista e di programmista regista) ha negativi risvolti in ambito familiare: la strategia della doppia presenza diventa sempre più impossibile da praticare. Le difficoltà di essere assunti in pianta stabile sembrano colpire sia gli uomini, sia le donne, ma queste ultime subiscono maggiori contraccolpi in ambito familiare che si percepiscono nell’alta presenza di nubili in età avanzata, di separate e divorziate, o quantomeno nella quasi impossibilità di trovare un equilibrio tra ambito domestico e lavorativo che non sia a sfavore dell’uno o dell’altro aspetto. Giovanna Fullin (Università Bicocca Milano) Instabilità del lavoro e processi di definizione dell’identità Gli studi condotti in Italia sulla diffusione delle occupazioni instabili hanno generalmente dedicato scarsa attenzione all’analisi delle sue conseguenze sulla vita dei lavoratori. Il tema dell’identità, in particolare, è stato spesso trascurato, a differenza di quanto accade ad esempio nella letteratura francese sulla flessibilità del lavoro. Questo contributo intende prendere in considerazione i modi in cui l’instabilità dei rapporti di lavoro incide sui processi di definizione dell’identità professionale e sociale degli individui e, di conseguenza, sui modi in cui essi progettano i loro percorsi nel mercato. Il dibattito su questo tema si articola lungo linee contrapposte. Da un lato c’è chi sostiene che la diffusione di forme di lavoro instabili ostacola la costruzione dell’identità perché determina una frammentazione delle esperienze lavorative e rende difficile la loro ricomposizione in un percorso professionale e identitario coerente (cfr. ad esempio Sennett 1998). Dall’altra parte, visioni meno pessimistiche sottolineano il carattere di crescente “fluidità” delle identità individuali (cfr. ad esempio Bauman, 2000), che si adatterebbero alla mutevolezza del contesto divenendo a loro volta mobili. In questa prospettiva, l’instabilità lavorativa non è vista come un ostacolo al processo di costruzione dell’identità ma, al contrario, è considerata come una risorsa per i soggetti, che devono essere sempre 68 pronti a modificare i propri piani per inseguire le nuove opportunità che si possono presentare loro. La ricerca - condotta in Lombardia attraverso interviste in profondità a lavoratori interinali e collaboratori - mostra, da un lato, che non è possibile valutare in modo univoco le conseguenze della diffusione delle occupazioni instabili sui processi di definizione delle identità e, dall’altro, che tali processi sono strettamente interrelati con quelli relativi alla definizione dei percorsi lavorativi (che possono portare i soggetti a raggiungere posizioni di forza sul mercato o intrappolarli in condizioni di estrema vulnerabilità). Le situazioni dei lavoratori instabili, infatti, non si differenziano tanto sul piano oggettivo delle condizioni contrattuali e lavorative, ma piuttosto su quello soggettivo relativo al grado di soddisfazione che gli individui traggono dal loro lavoro e alle loro aspettative riguardo al futuro (il genere e l’età costituiscono a questo riguardo dimensioni cruciali dell’analisi). In particolare, si rileva una sostanziale differenza tra coloro che svolgono un’attività corrispondente alle loro aspettative e coloro che invece hanno un impiego instabile in attesa di trovare un lavoro migliore. I primi, infatti, riescono generalmente a costruire la propria identità professionale a prescindere dall’instabilità della posizione occupazionale, mentre i secondi, al contrario, vorrebbero evitare di identificarsi nell’attività svolta e spesso riescono ad usare l’instabilità dell’occupazione per mantenere su due diversi piani la concezione di sé e l’immagine di sé verso l’esterno. Le “strategie di attesa” di questi ultimi, tuttavia, paiono avere un senso se sono basate su un progetto chiaro di transizione ad un lavoro migliore mentre divengono più problematiche se le prospettive per il futuro sono vaghe. Inoltre, vi è il rischio che il protrarsi dell’attesa riduca le capacità strategiche degli individui e renda sempre più difficile ricomporre le esperienze di lavoro in un percorso coerente che abbia un senso, con evidenti conseguenze in termini di vulnerabilità sul mercato del lavoro. Il presente contributo costituisce una rielaborazione di alcuni risultati di una ricerca da me condotta tra il 2001 e il 2004, che ha portato alla pubblicazione presso Il Mulino del volume “Vivere l’instabilità del lavoro” (2004). Salvatore La Mendola (Università di Padova) Retroscena e paura della contaminazione: l’esperienza dello spazio nel lavoro quotidiano 69 Laura Parolin (Università di Trento) Le pratiche discorsive come pratiche di lavoro. Il caso del teleconsulto cardiologico Negli ultimi anni è emerso un corpus di letteratura che si è preoccupato di studiare il lavoro in setting tecnologicamente densi quali le sale controllo di aeroporti o delle metropolitane di grandi città. L´interesse di ricerca è focalizzato sulla natura contingente e situazionale dell’agire organizzativo preoccupandosi di fornire resoconti dettagliati delle attività che si svolgono nel work setting. Questo filone di studi, cosiddetti Workpalce Studies per l’attenzione allo spazio di lavoro come spazio ecologico dove sono in atti dinamiche collettive e sociali e relazioni con gli artefatti utilizzati, si concentrano sullo studio naturalistico delle pratiche di lavoro. Attraverso strumenti di registrazione e di video ripresa analizzano le pratiche di interazione dei soggetti presenti nel setting mettendo in evidenza il carattere sociale della conoscenza presente nel workplace. Vi è quindi un’attenzione al lavoro come attività sociale situata in un particolare setting composto da attori umani e tecnologie. I wokplace studies sono influenzanti dai filoni di studio che si richiamano alla scuola di Chicago valorizzando il carattere emergente delle azioni collettivo come prodotto del coodinamento reciproco. Anche il caso del teleconsulto cardiologico che presentiamo può essere letto attraverso gli strumenti che la letteratura dei Workpalce studies ci mette a disposizione. Nel caso che presentiamo l´attività lavorativa è svolta attraverso la mediazione di un infrastruttura tecnologica che mette in contatto il medico di medicina generale che invia il tracciato ECG e il cardiologo che lo riceve. Il contatto è poi stabilito telefonicamente tra i due medici attraverso la mediazione di un call centre. Attraverso l’analisi situata delle pratiche lavorative degli attori che lavorano al sistema di teleconsulto cardiologico possiamo vedere la produzione pratica del coordinamento e la creazione contestuale di senso che nell’interazione gli attori producono. Questo modo di osservare il lavoro ci permette di porre dei quesiti sulla applicazione nella pratica del sapere medico cercando di gettare luce su quel´area grigia esistente tra il sapere formalizzato nelle procedure organizzative quali i protocolli medici e la conoscenza tacita che permette la performance della pratica medica. 70 A. Maria Ponzellini (Università di Bergamo) Work life balance e relazioni industriali Di recente, molte indagini hanno messo in evidenza le esperienze positive realizzate in alcune aziende per migliorare la conciliazione tra lavoro e famiglia: asili-nido aziendali, flessibilità degli orari, supporti per la maternità e la paternità, etc.. Tuttavia, quando abbandoniamo il (consolante) approccio descrittivo delle “buone prassi”, il panorama che, soprattutto in Italia, ci offre la rilevazione quantitativa di tali esperienze appare estremamente preoccupante. Sono infatti pochissime - non oltre il 3%, secondo una stima avanzata da una indagine sulla contrattazione aziendale degli ultimi anni - le aziende dove sono state introdotte norme sul lavoro classificabili, anche in senso lato, come misure favorevoli alla conciliazione. Questo paper si propone di trovare spiegazioni al mancato, o comunque insufficiente, riscontro nella esperienza contrattuale – e, più in generale, nella esperienza delle relazioni tra organizzazioni sindacali ed imprese – di un bisogno sociale che pure, dal momento dell’ingresso di massa delle donne nel mercato del lavoro, è diventato evidente ed urgente. Una carenza che potrebbe addirittura costituire la ragione della scarsa propensione delle lavoratrici italiane – in controtendenza rispetto al resto d’Europa – ad iscriversi al sindacato. Per fare questo, il paper fa un’analisi delle oggettive difficoltà delle parti sociali a regolare contrattualmente e estendere all’insieme del mondo del lavoro esigenze differenziate, mutevoli nel tempo e “costose”, come quelle di cui sono portatori e portatrici i dipendenti con responsabilità familiari e di cura. Ipotizza però anche la possibilità che le relazioni industriali che conosciamo siano - per tradizione, cultura e struttura - inadatte a recepire e a tradurre in regole contrattuali questi nuovi bisogni, al di fuori di un percorso di reale innovazione. 71 Lorenzo Speranza e Angela Palmieri (Università della Calabria) Forme di costruzione dell’identità professionale: gli stili di vita dei medici di Ancona, Cosenza e Torino È possibile studiare l’identità di un gruppo professionale partendo da pratiche che attengono alla sfera del non-lavoro? Nelle società contemporanee, secondo molti autori, questo non solo è possibile, ma è anche auspicabile: al centro della vita degli individui contemporanei, infatti, non c’è più solo il lavoro (come avveniva nelle società industriali) e, conseguentemente, l’identità sociale si può strutturare anche su altre sfere. Ovviamente, i condizionamenti esercitati dalle appartenenze tradizionali (che attengono principalmente alla dimensione economica) non sono scomparsi dalle nostre società. Se l’obiettivo, però, è analizzare i processi (più che i prodotti) della formazione dell’identità sociale, gli aspetti economici devono essere affiancati da altri che hanno a che vedere con la cultura, con lo status. In una simile ottica, quindi, gli stili di vita (intesi come specifiche combinazioni di pratiche, o consumi, materiali e culturali, che hanno una certa coerenza fra di loro) rappresentano un’utile direzione cui guardare per capire come un gruppo professionale segni, metaforicamente, i confini di un determinato spazio sociale, attraverso scelte stilistiche che esplica nel quotidiano: in breve, come costruisca la sua identità nella sfera del non-lavoro. Il paper è basato su una ricerca COFIN condotta su circa mille medici di tre zone scelte a rappresentare le “tre Italie”: la provincia di Torino (Nord-Ovest), quella di Ancona (Centro-Nordest) e, infine, quella di Cosenza (Mezzogiorno). Maurizio Teli (Università di Trento) La presentazione di sé degli addetti alla vendita come resistenza quotidiana alla McDonaldizzazione I riferimenti teorici a Erving Goffman e a George Ritzer sono evidenti già nel titolo di questo intervento, con il quale vorrei mostrare come, da una ricerca sul campo condotta nell'estate 2003 in un supermercato della provincia novarese, emerga vividamente come la quotidianità lavorativa costituisca una forma di resistenza a 72 processi di razionalizzazione della contemporaneità che sembrano caratterizzare gli ultimi anni. Il contributo di Goffman è stato considerato precipuamente in riferimento al concetto di presentazione di sé, collegato all'idea che tale comportamento quotidiano influisca sui frame con i quali gli individui organizzano la propria esperienza e, in un meccanismo circolare che lega individuo e cultura, si colleghi con il più ampio framework di frameworks culturale. Ho guardato al concetto di McDonaldizzazione introdotto da Ritzer per cogliere elementi che ben rappresentassero le dinamiche presenti nei luoghi di lavoro, quelli del consumo, che mi accingevo ad analizzare. Ai fini di questa esposizione è utile scomporre il concetto nelle quattro dimensioni che l'americano ha individuato: efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo. Soprattutto quest'ultima, nei suoi elementi di spinta al controllo della clientela, risulta maggiormente messa in discussione dall'interazione quotidiana tra lavoratore e cliente, in un modo che discuterò in conclusione. La ricerca è stata condotta su un punto vendita Coop che, nel periodo considerato, annoverava 35 dipendenti, operanti su una superficie di vendita di 1500 mq. Il punto vendita oggetto di studio attraversava un periodo di crisi economica, culminato con il trasferimento ad altri punti vendita di sei dipendenti, legato all'apertura, a pochi chilometri di distanza, di un centro commerciale contenente un ipermercato. All'interno di un quadro metodologico di natura qualitativa, la tecnica che ho prevalentemente utilizzato è stata l'intervista non strutturata, orientata a approfondire due aree tematiche: il rapporto del singolo lavoratore con la clientela e l'immagine che l'azienda intendesse fornire di sé. La scelta dei soggetti è stata effettuata seguendo una metodologia di campionamento a scelta ragionata. Per approcciare l'analisi dei dati, in particolar modo per comprendere come si conformasse il rapporto tra quotidianità lavorativa e processi di razionalizzazione, ho utilizzato i concetti di idioma di servizio (centrato sul cliente) e idioma commerciale (con al centro gli aumenti di produttività oraria). Tutte le interviste, anche se con toni diversi, hanno evidenziato un conflitto tra i due idiomi precedentemente descritti, soprattutto nei termini di una diversa visione dell'aumento della produttività. Se dal lato aziendale si è constatata una preferenza per la riduzione del costo del lavoro, tramite la già menzionata riduzione delle ore di lavoro straordinario richieste, dal lato della forza lavoro si è notato un 73 maggiore accento sulla necessità di garantire un ottimo livello di servizio, precondizione per l'aumento degli incassi e conseguentemente della produttività oraria. Nella prospettiva teorica goffmaniana, ben applicabile ai risultati delle interviste, l'accento posto dai lavoratori sull'idioma di servizio trova fondamento nella presentazione di sé che il momento interazionale implica, presentazione mirante a soddisfare le esigenze della clientela, orientata all'ottenimento del servizio stesso. Contemporaneamente questa interazione condiziona il frame con il quale i lavoratori stessi concettualizzano la propria esperienza quotidiana, frame che, nel caso di una apertura a processi di partecipazione degli stessi alla gestione aziendale, con una effettiva comunicazione bottom – up, potrebbe esercitare un ruolo decisivo nell'orientare le politiche di vendita. Per quanto riguarda le dimensioni della McDonaldizzazione, per quanto le strutture fisiche dei punti vendita siano mirati ad aumentare il controllo ottenibile sulla clientela, il frame di servizio tipico dei lavoratori lascia pienamente spazio a una riduzione di tale spinta, evidenziando in tal modo il ruolo della quotidianità come elemento di resistenza verso le visioni totalizzanti dei processi contemporanei. 1 Questo intervento si basa sui risultati della mia tesi di laurea, “I lavoratori del consumo: un'analisi del consumo dal punto di vista degli addetti alla vendita”, discussa il 26 marzo 2004 presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Milano, con relatore la prof.ssa Luisa Leonini e correlatore il prof. Giampietro Gobo. 2 Dottorando in Sociologia e Ricerca Sociale – Information Systems and Organizations – Università di Trento Giovanna Vingelli (Università della Calabria) Intellettuali precarie. Donne e tempi di vita in un dipartimento universitario L’intervento in oggetto è parte di una più ampia ricerca, attualmente in corso, sul lavoro intellettuale precario all’interno dell’Università della Calabria. Nello specifico, oggetto del paper è l’analisi degli usi e delle rappresentazioni del tempo delle dottorande di ricerca/borsiste all'interno del Dipartimento di Sociologia e Scienze Politiche dell'Università della Calabria. La ricerca è stata condotta attraverso 74 una serie di interviste in profondità, la cui analisi intende problematizzare la relazione fra lavoro intellettuale e dimensione di genere in un contesto organizzativo in continua evoluzione, che si caratterizza per un’elevata esperienza e prospettiva di precarietà. Utilizzando gli approcci della sociologia del tempo, della vita quotidiana e degli studi di genere, la ricerca vuole analizzare come si intersecano prospettive temporali sempre più flessibili e frantumate con il contemporaneo perdurare della centralità della cura nella vita delle donne intervistate. L’ambivalenza nella strutturazione del tempo delle donne (difficoltà nell’organizzazione temporale quotidiana e nella proiezione biografica nel futuro) si coniuga, nell’analisi, alle contraddizioni del “lavoro intellettuale” contemporaneo. Il progetto di vita delle donne intervistate non si presenta coincidente con l'adesione a sequenze prevedibili e socialmente accettate di eventi; allo stesso tempo, tuttavia, emergono strategie temporali legate alla ricomposizione e alla continuità: il lavoro intellettuale si manifesta, in questo caso, come scelta di conciliazione per eccellenza, modalità-cerniera fra la realizzazione individuale nel lavoro per il mercato e la centralità sociale e culturale dell’istituzione familiare. Allo stesso tempo, il lavoro intellettuale è vissuto in maniera ambivalente: da un lato, la qualità stessa del tempo dedicato alla “professione” intellettuale assume le scansioni e le logiche di un tempo produttivo, collocato in un presente che si dilata nell’incertezza del futuro; d’altro lato diventa una dimensione interiore, creata dal soggetto, al di là e al di fuori del tempo istituzionale: un tempo generato, in contrapposizione al tempo normato dello spazio pubblico. Riferimenti bibliografici Balbo L., Bianchi M. (a cura di) (1982), Ricomposizioni. Il lavoro di servizio nella società della crisi, Franco Angeli, Milano. Balbo, L. (1987), «Crazy Quilts: rethinking the welfare state debate from a women’s point of view», in A. Showstack Sasson (Ed.), Women and the State, Hutchinson, London. Bimbi F. (1986), «Lavoro domestico, economia informale, comunità», Inchiesta, n. 74. Bimbi F. (1991), «Doppia presenza» in L. Balbo (a cura di), Tempi di vita. Studi e proposte per cambiarli, Feltrinelli, Milano. 75 Calabrò A.R., (1996), Una giornata qualsiasi. Il tempo libero delle donne: tempo per sé o tempo per gli altri?, Ripostes, Roma. Chiaretti G. (a cura di) (1980) Lavoro intellettuale, lavoro per sè: doppia presenza, FrancoAngeli, Milano. Leccardi C, (1996a), Futuro breve, Rosenberg & Sellier, Torino. Leccardi C. (1996b), «Re-thinking Social Time: Feminist Perspectives», Time & Society, 5(2). Paolucci G. (1993), Tempi postmoderni. Per una sociologia del tempo nelle società industriali avanzate, FrancoAngeli, Milano. Paolucci G. (1998) (a cura di.), La città, macchina del tempo. Territorio e politiche del tempo urbano in Italia, FrancoAngeli, Milano. Vantaggiato I. (1997), «Quel che resta del tempo», in Buttarelli A., Longobardi G., Muraro L., Tommasi W., e I.. Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche Editrice, Milano. Lorenza Zanuso (Studio L.Z., Milano) Il lavoro diviso, trent’anni dopo Retoriche neutre Il discorso pubblico sul lavoro e le sue modificazioni è oggi dominato dalla retorica della competitività globale: nel nuovo mondo globalizzato le economie occidentali potranno continuare a svilupparsi – potranno sopravvivere - se sapranno mantenere il primato sulla principale forza produttiva dell’era postmoderna: la conoscenza, il “sapere” incorporato non tanto o solo nelle macchine, ma nel lavoro vivo, cioè nelle persone che lavorano e nelle loro interazioni cooperative. Il sapere scientifico in primo luogo, ma anche le generali abilità linguistiche, di apprendimento, memoria e astrazione; di immaginazione e creatività; di relazione e comunicazione degli individui - si avviano a diventare la risorsa produttiva principale del modo di produzione post-fordista, quella su cui si gioca la sfida della competitività tra diversi paesi e aree del mondo. General intellect e intellettualità di massa nella versione di sinistra, capitale umano e risorse di eccellenza nella versione dominante sono i modi correnti di nominare le competenze cognitive e comunicative che sono e saranno sempre piu’ necessarie alle società della 76 conoscenza per competere, alle imprese per produrre, agli individui per lavorare. Nei nuovi mercati del lavoro piu’ flessibili e insicuri, ma anche piu’ mobili e aperti di un tempo, la nuova classe media postfordista è invitata a investire in capitale umano, ad assumere su di sé il desiderio e il rischio e del proprio progetto e percorso lavorativo, a cogliere le opportunità dentro e fuori le imprese di appartenenza. In cambio delle sicurezze perdute, nuovi ammortizzatori sociali e nuove opportunità di life-long learning dovranno essere messi in campo per proteggere gli individui dagli episodi di inoccupazione o sottoccupazione, scelta o subita. A questo livello di astrazione, il lavoratore è una figura sessualmete neutra, senza specificazioni di genere; lo scenario è quello della società del lavoro, con l’obiettivo dichiarato dell’aumento dei tassi di partecipazione e del pieno impiego di uomini e donne, impegnati a competere in un orizzonte lavorativo piu’ selettivo e incerto, ma anche piu’ ricco di possibilità di scelta, e in particolare di una maggiore possibilità modulazione dell’impegno lavorativo lungo il corso di vita. Ma qual è, in questo scenario, il posto delle donne? I lavori delle donne L’aumento della partecipazione e dell’occupazione femminile al lavoro retribuito è la tendenza piu’ importante di tutti i mercati del lavoro europei negli ultimi trent’anni. In Italia, tra il 1971 eil 2001 sono scomparse dai territori domestici centinaia di migliaia di casalinghe full-time, e centinaia di migliaia di nuove occupate hanno popolato i territori del lavoro retribuito (oltre un milione in piu’ negli ultimi 10 anni). Questa dislocazione di massa ha interessato donne di tutte le età, ha profondamente scompaginato l’ordine fordista del mercato del lavoro e delle forme familiari, si è accompagnata a un imponente cambiamento dei comportamenti demografici e dei rapporti tra generazioni. E ha suscitato - in Italia in modo prevalentemente discorsivo - nuove domande e proposte di riforma delle politiche sociali e del lavoro, in una prospettiva di pari opportunità tra donne e uomini e di migliore conciliazione, per donne e uomini, tra sfera lavorativa e sfera familiare. 77 Oggi, a trent’anni di distanza dall’inizio di questi processi, colpisce sia la difficoltà da parte istituzionale di immaginare, coordinare e finanziare interventi e misure concrete per sostenere gli obiettivi dichiarati, sia il permanere di una divisione del lavoro – familiare e non - asimmetrica lungo linee di genere. E colpisce, in senso piu’ generale, lo scarto crescente tra la retorica pubblica sulle pari opportunità e la promozione del lavoro femminile – a sua volta parte della piu’ recente retorica sulla valorizzazione del capitale umano bisex - e i processi reali di adattamento che sia i sistemi istituzionali che gli individui stanno mettendo in atto per far fronte al cambiamento. Al centro di queste strategie di adattamento – questa è l’ ipotesi – si intravvede negli anni recenti una nuova, massiccia e silenziosa “valorizzazione” e incentivazione del lavoro di cura, informale o sottopagato, svolto da donne autoctone e immigrate. Una valorizzazione implicita, sottaciuta nel discorso pubblico e priva di riconoscimento economico e culturale, ma che si sta ri-affermando di fatto nelle pratiche e nelle scelte quotidiane dei singoli, e nelle logiche di ristrutturazione dei sistemi di welfare. In una società che invecchia e in cui crescono tutti gli indici di dipendenza, la crescente incertezza e discontinuità dei percorsi lavorativi e biografici della popolazione giovane e adulta non riduce infatti, ma semmai aumenta il bisogno di un retroterra di lavoro di cura che sostenga e ricomponga il tessuto della vita quotidiana di individui e famiglie. Non solo per far fronte alle condizioni di routine, ma anche per fronteggiare i sempre piu’ “normali” episodi di precarietà e discontinuità lavorativa e familiare, o ancora i rischi di catastrofe esistenziale nel caso di inoccupazione protratta o presenza di disabilità croniche. In un quadro di sostanziale stabilità o contrazione dei servizi pubblici, sono e saranno ancora e soprattutto le donne a farsi carico di questo “backstage” del lavoro retribuito, con effetti già oggi ben visibili sui livelli di partecipazione, sulla distribuzione occupazionale e sulla differenziazione dei percorsi lavorativi di donne di diversa generazione e età, provenienza etnica e origine sociale. Le principali tendenze in corso in Italia, con diversa intensità a seconda dei diversi contesti territoriali ( cfr. ricerche Lombardia e Alto-Adige) sembrano essere: 78 Il rallentamento o l’ arresto dell’aumento di partecipazione femminile al lavoro per il mercato: l’offerta di lavoro femminile si sta esaurendo. La polarizzazione interna all’universo femminile in termini di redditi, continuità, tempi del lavoro retribuito, e di collocazione nella struttura professionale: aumentano le differenze tra donne, in particolare tra chi puo’ e vuole perseguire percorsi di carriera e chi non. La perdurante segregazione orizzontale nel lavoro retribuito, correlata con la concentrazione femminile nelle nuove forme di lavoro atipico, e in particolare nel lavoro a tempo ridotto: i mestieri, i tempi e i percorsi di lavoro della grandissima maggioranza delle donne continuano ad essere molto diversi da quelli degli uomini. La tacita redistribuzione tra donne, infine, del lavoro di cura non coperto dai servizi pubblici, giocata anch’essa tra donne di diversa generazione, provenienza e classe sociale: il lavoro informale di cura delle piu’ mature e/o meno istruite sostiene strutturalmente il lavoro per il mercato delle piu’ giovani e/o piu’ istruite; il lavoro sottopagato delle immigrate sostiene la doppia presenza e/o il caregiving a pieno tempo delle autoctone. Il lavoro diviso: disuguaglianza e resistenza In sintesi, anche se in condizioni molto mutate rispetto a trent’anni fa, sembra che la divisione del lavoro sociale lungo linee di genere ritorni ad essere un potente dispositivo di adattamento e compensazione, sia per i singoli che per la collettività, di fronte ai nuovi assetti demografici e ai nuovi rischi e incertezze dell’era postfordista. E’ vero che, nel frattempo, è anche aumentata la differenziazione tra donne: per molte sono cresciuti i margini di libertà, di decisione e di movimento nel mercato del lavoro. Ma è anche vero che il silenzio e la sordità sociale sull’esistenza del lavoro di cura, sulla sua natura e sulle sue modificazioni continua e continuerà a comportare una profonda diversità nelle opportunità, nelle scelte professionali e nelle biografie lavorative della grande maggioranza della popolazione femminile. Sia che lo si denunci come fenomeno di disuguaglianza e discriminazione subìta, sia che lo si interpreti come forma di 79 resistenza anche femminile di fronte all’incubo totalitario di una società –senza-cura, la responsabilizzazione delle sole donne verso i bisogni quotidiani “degli altri” continuerà a essere un inciampo imbarazzante per tutte le retoriche della parità femminile nel lavoro retribuito. Compresa la piu’ recente e piu’ accattivante, sul pieno impiego del capitale umano di entrambi i sessi nella “società della conoscenza”. 80