APPUNTI DI STORIA 3 media Frontini

annuncio pubblicitario
APPUNTI DI STORIA 3
Prof. Frontini
APPUNTI DI STORIA 3
Prof. Frontini
INDICE
1–Congresso di Vienna. Restaurazione. Santa Alleanza.
2–Sviluppi filosofici e culturali. Sviluppi dell’Illuminismo:
Kant.
3–Sviluppi delle concezioni filosofiche: Kant, Fichte,
Hegel.
4–Sviluppi della Sinistra hegeliana: Feuerbach.
5–Romanticismo.
6-Caratteristiche e sviluppi della Rivoluzione industriale.
7-Moti del 1820-1821 e del 1830.
8-Stati nazionali e Imperi.
9-Le soluzioni al problema dell’unità d’Italia: Mazzini,
Gioberti, Cattaneo.
10-Condizioni dei lavoratori e rivoluzione industriale.
11-L’idea socialista e Marx. Rapporti tra Stato e vita
economica.
12-Materialismo e lavoro umano nel pensiero di Marx, tra
filosofia ed economia.
13-Il 1848 in Francia.
14-Il 1848 in Europa.
15-Il 1848 in Italia.
16-Caratteri generali dello Statuto albertino. Concetto
ed
evoluzione
storica
generale
dello
Stato
a
partire dall’Assolutismo.
17-Politica di Cavour. Guerra di Crimea. Accordi con la Francia.
18-Vicende italiane dalla seconda guerra di indipendenza a Roma
capitale.
19-Unità della Germania.
20-Sviluppo industriale, ricerca scientifica e miglioramento
delle condizioni di vita nello sviluppo del XIX secolo.
Positivismo.
21-Innovazione scientifica, macchine e lavoro nello sviluppo
della rivoluzione industriale. Crisi di sovrapproduzione.
22-Caratteristiche
dello
sviluppo
dell’organizzazione
economica
capitalistica a partire dalla seconda metà del
secolo XIX.
23-Colonialismo ed economia.
24-Sguardo
generale
sulla
situazione
in
Asia
fino
al colonialismo.
25-Sguardo generale su difficoltà e contraddizioni degli
Stati asiatici.
26-Penetrazione europea in Asia. Situazione cinese.
27-Caratteristiche dello sviluppo giapponese.
28-Africa e colonialismo.
29-Colonialismo e America. Caratteristiche degli Stati Uniti.
30-Sviluppi degli Stati Uniti.
31-Affermazione degli Stati Uniti. Stati Uniti e America latina.
32-Oceania e colonialismo.
33-Problemi dello Stato italiano dopo l’unità.
34-Problemi e vicende dello Stato italiano da Depretis a
Giolitti.
35-Vicende economico-sociali e tendenze culturali: dal
Romanticismo al Futurismo.
36-Questione balcanica. Situazione precedente la guerra
1914-1918. Sistemi di alleanze.
37-Prima guerra mondiale.
38-Trattati di pace e situazione successiva alla guerra
mondiale.
39-Situazione economica capitalistica e sviluppi delle
organizzazioni socialiste da Marx alla rivoluzione in
Russia.
40-Rivoluzione
bolscevica
e
costruzione
dello
Stato
sovietico.
41-Situazione in Italia dopo la prima guerra mondiale. Sviluppo
del fascismo.
42-Situazione economica americana.
43–Risposta alla crisi economica: Keynes e il New Deal di
Roosevelt.
44–Sviluppi del regime fascista.
45–Situazione della Germania. Sviluppo del nazismo. Fascismo
e nazismo. Guerra di Spagna.
46–Sviluppi della seconda guerra mondiale.
47–Vicende della seconda guerra mondiale dal 1941 alla fine.
48–Dalla Resistenza alla nuova Costituzione. Situazione
italiana dopo la seconda guerra mondiale e Costituzione.
49-Costituzione. Costituzione e democrazia.
50–Cenni su organizzazione dello Stato e Costituzione del
1948.Possibilità di modifica della Costituzione e
Corte Costituzionale.
51–Caratteristiche
dell’Unione
Sovietica.
L’Urss
fino
alla guerra fredda.
52–Divisione del mondo nel blocco occidentale e in quello
sovietico. Caratteristiche generali dei due sistemi e
sviluppi del loro contrasto.
53–Sviluppo della scienza, equilibrio del terrore, rivalità
tra Stati Uniti e Urss.
54–Rivoluzione comunista in Cina. Decolonizzazione, marxismo
e guerra fredda. Altri sviluppi della guerra fredda.
55–Altri sviluppi dell’intreccio tra decolonizzazione e guerra
fredda: guerra del Vietnam.
56–Quadro generale della decolonizzazione, tra situazione
economica
mondiale
e
guerra
fredda.
Indipendenza
dell’India.
Movimento dei non allineati. Sviluppi della
decolonizzazione.
57-Vicende italiane dal 1948 allo Statuto dei lavoratori.
58–Sviluppi della situazione mondiale. America latina e Stati
Uniti. Rivoluzione a Cuba. Sviluppi del movimento
comunista. Vicende dell’Urss fino alla sua dissoluzione.
59-Vicende degli Stati Uniti: integrazione razziale
disuguaglianze. Attacco contro le Torri gemelle.
e
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
1- CONGRESSO DI VIENNA. RESTAURAZIONE. SANTA ALLEANZA.
Con le vicende napoleoniche l’Europa fu sconvolta da molti anni
di guerra. Inoltre, Napoleone era anche apparso, per molti
aspetti, come erede e continuatore dell’opera della Francia
rivoluzionaria. Egli, infatti, aveva diffuso, con le sue
conquiste militari, i nuovi principi giuridici, economici,
organizzativi della Rivoluzione. Principi, questi, che avevano
rappresentato e rappresentavano, tra l’altro, le esigenze vitali
della borghesia produttiva, di contro alla vecchia e superata
organizzazione
economico-politica
(feudale-assolutistica)
diffusa in quasi tutta Europa.
Sconfitto e costretto ad una prima abdicazione Napoleone, nel
1814 tornò al potere in Francia la dinastia dei Borboni. Salì
al trono Luigi XVIII (1755-1824), fratello di Luigi XVI, il
monarca francese decapitato nel 1793 durante il periodo
rivoluzionario.
Inoltre, dopo la prima abdicazione di Bonaparte, e il suo esilio
nell’Isola d’Elba, venne avviata una riunione dei rappresentanti
degli Stati europei (il Congresso di Vienna) per riorganizzare
la situazione politica dell’Europa. Le trattative vennero
guidate dalle potenze vincitrici più importanti (Austria,
Inghilterra, Russia, Prussia). Venne invitata al Congresso anche
la Francia, dove, come visto, avevano ripreso il trono i Borboni
(che si presentavano come vittime della Rivoluzione e di
Napoleone).
I lavori del Congresso si svolsero dall’ottobre 1814 al giugno
1815. Il breve ritorno al potere del Bonaparte, fino alla sua
definitiva sconfitta nella battaglia di Waterloo, nel giugno
1815, non interruppe questi lavori.
Principi ispiratori per la politica di riorganizzazione
dell’Europa furono il principio di legittimità e quello di
equilibrio e sicurezza generale.
Il primo principio richiamava il concetto di legittimità del
potere dei vecchi sovrani europei, in contrapposizione ai
cambiamenti rivoluzionari considerati non legittimi. Esso, tra
l’altro, servì da base al rappresentante della Monarchia
francese, principe di Talleyrand (1754-1838), per sostenere le
esigenze della Francia nei confronti degli altri Paesi.
In base al principio di legittimità tutti gli Stati dovevano
tornare alla situazione politica che avevano prima dello scoppio
della Rivoluzione francese. Dovevano, così, tornare al potere
le vecchie dinastie regnanti.
In questo orizzonte storico e ideale si sviluppò anche una forte
tendenza all’eliminazione completa delle innovazioni e delle
conquiste civili portate dalla Rivoluzione e da Napoleone.
Va sottolineato che generalmente si indica l’epoca storica
successiva alla caduta dell’Impero napoleonico con il nome di
Restaurazione, con lo scopo di richiamare l’attenzione sulla
volontà, diffusa in quel periodo, di “restaurare”, ossia di
ripristinare, le vecchie forme politiche pre-rivoluzionarie.
Il principio di legittimità venne accompagnato (e, in parte,
limitato) dal principio di equilibrio.
Per il principio di equilibrio nessuno Stato doveva essere tanto
grande da minacciare l’equilibrio, appunto, delle potenze
europee. In questo quadro politico si può anche ricordare
l’esigenza
di
limitare
le
eventuali
nuove
volontà
espansionistiche della Francia mediante una serie di Stati,
sufficientemente forti, posti ai suoi confini (cosiddetti Stati
cuscinetto). A quest’ultimo proposito va richiamato il Regno
dei Paesi Bassi (nato dalla fusione dell’Olanda con il Belgio,
già facente parte dell’Impero austriaco) nonché l’aumento
territoriale del Regno di Sardegna (che inglobò il territorio
della vecchia Repubblica di Genova). In Germania, ad est della
Francia, venne rafforzato il Regno di Prussia.
Peraltro, è ancora all’interno della politica dell’equilibrio
europeo che, anche, si scelse di non umiliare troppo e di non
smembrare la Francia, per non rafforzare troppo le altre Potenze.
Non venne ricostituito il Sacro Romano Impero. Gli Stati tedeschi
vennero notevolmente diminuiti di numero: da circa 350 a 39 (tra
essi fu sensibilmente importante il Regno di Prussia). Questi
Stati formarono tra loro una Confederazione germanica,
presieduta dall’Imperatore d’Austria.
L’Impero austriaco, in Italia, riprese la Lombardia e, in
compenso del Belgio (confluito nel Regno dei Paesi Bassi), ebbe
il Veneto. Si formò così il Regno Lombardo-Veneto, di cui era
sovrano l’Imperatore d’Austria.
Accanto al Regno di Sardegna e al Regno Lombardo-Veneto, altri
Stati significativi dell’Italia dopo il Congresso di Vienna
furono il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa e il Regno
delle Due Sicilie (Italia meridionale con la Sicilia).
Il Granducato di Toscana venne restituito agli Asburgo-Lorena
(famiglia imparentata con la casa regnante austriaca), che lo
ebbero nel XVIII secolo, all’estinzione della famiglia Medici.
Il Regno delle Due Sicilie tornò ai Borboni.
Stati minori italiani furono il Ducato di Modena e Reggio e il
Ducato di Parma e Piacenza.
L’Impero d’Austria, per la sua importanza e per la sua
organizzazione, ebbe forte influenza su tutta la penisola
italiana.
Di fronte alla politica del Congresso di Vienna gli storici hanno
potuto sottolineare la completa mancanza di interesse per le
esigenze di unità dei popoli. Si cita ad esempio di questa
mancanza di interesse il caso della Polonia, sostanzialmente
smembrata tra l’Austria, la Prussia e, per una grande parte,
la Russia.
Dal punto di vista ideologico e religioso si deve ricordare come
il 26 settembre 1815 Russia, Austria e Prussia firmassero un
trattato istitutivo tra loro di una Santa Alleanza (poi
sottoscritto anche da altri Stati, ma mai dall’Inghilterra) in
cui si impegnavano ad aiutarsi reciprocamente, nel nome e per
la difesa dei principi del Cristianesimo. Si poneva in questo
modo
il
fondamento
e
la
giustificazione
religiosa
dell’intervento di ogni Stato dell’Alleanza per reprimere
eventuali rivoluzioni (principio di intervento).
Tra gli ispiratori e protagonisti del Congresso di Vienna e della
Restaurazione va ricordato uno statista austriaco: il principe
di Metternich (1773-1859).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
2-SVILUPPI FILOSOFICI E CULTURALI. SVILUPPI DELL’ILLUMINISMO:
KANT.
Considerando l’Illuminismo si trova che caratteristica
fondamentale di questo movimento culturale è la valorizzazione
della Ragione umana e delle sue possibilità di favorire il
progresso sociale. In questo contesto si ricorda anche la forte
portata antiassolutistica del movimento e, quindi, la sua grande
influenza sulla Rivoluzione francese.
Il valore innovativo del richiamo illuminista alla Ragione ha
il proprio culmine e la propria maggiore espansione nel filosofo
tedesco Immanuel Kant (1724-1804). In Kant, infatti, la Ragione
stessa è chiamata a stabilire fino a che punto essa può arrivare
a conoscere il Mondo.
Si trova così il problema del fondamento e dei limiti della
conoscenza umana, un problema essenziale nella storia del
pensiero. Un problema, ancora, che, nell’epoca moderna, ha
origine e incentivo nella rivoluzione scientifica del XVII
secolo. A tal proposito possono ancora ricordarsi gli
orientamenti scientifico-filosofici di due gruppi di pensatori:
razionalisti (come Cartesio, Spinoza, Leibniz), empiristi (come
Locke).
Tra i razionalisti il fatto osservato (il fatto di cui si fa
esperienza) viene inserito in un quadro di principi logici
generali. In tal modo la spiegazione del singolo fatto viene
ricavata (dedotta) da considerazioni logiche generali.
Gli empiristi, invece. sottolineano l’importanza essenziale dei
fatti, alla cui osservazione devono costantemente far
riferimento tutte le teorie.
Il fondamento della conoscenza del Mondo per i razionalisti sta
nella verità e nell’immutabilità di Dio. Per gli empiristi, al
contrario, la conoscenza (e, con la conoscenza, le stesse idee)
esce dall’’osservazione umana dei fatti e non ha una base di
certezza assoluta.
Di fronte a queste due opposte posizioni, Kant, come accennato
e come egli stesso scrive, nella Critica della ragion pura, porta
davanti al tribunale della Ragione l’accertamento delle
possibilità e dei limiti del conoscere umano.
Con l’analisi del conoscere umano il filosofo tedesco cerca di
individuare ciò che viene dall’esperienza e ciò che, invece,
non dipende da essa.
I dati del mondo esterno che raggiungono la sensibilità (i sensi)
dell’uomo sono organizzati nelle forme dello spazio e del tempo
e in vari concetti, come quello di causa. Spazio, tempo e concetto
di causa non fanno parte del mondo esterno e neanche sono prodotti
in noi dall’esperienza. Nel linguaggio di Kant si applica loro
il termine di “trascendentale”. Essi costituiscono modalità di
funzionamento della conoscenza umana e sono presenti nella mente
umana prima di ogni esperienza (a priori). In vario modo
organizzano il materiale dei dati forniti dalla esperienza e
sono, dunque, condizione indispensabile per il conoscere umano.
Essi, ancora, nella loro natura di elementi necessari della
conoscenza, precedenti all’esperienza, danno garanzia di
generalità e di certezza alle leggi scientifiche.
Peraltro il percorso della conoscenza tracciato da Kant ha come
punto di partenza esclusivo e necessario il mondo dell’esperienza
sensibile. Di conseguenza le leggi scientifiche non esprimono
la realtà in sé ma solamente il suo rapporto con l’uomo. Per
Kant non possiamo conoscere gli oggetti nella loro interna e
reale natura (noumeni) ma solo nel loro modo di apparirci
(fenomeni).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
3- SVILUPPI DELLE CONCEZIONI FILOSOFICHE: KANT, FICHTE, HEGEL.
Il pensiero di Kant, nella sua complessità e nella sua fecondità,
ha avuto una forte influenza sulla filosofia e sulla cultura
del suo tempo.
Si può sottolineare che, in Kant, il soggetto pensante, l’Io
che pensa, non può mai raggiungere la perfetta conoscenza delle
cose in sé (dei noumeni), ossia della realtà naturale nella sua
autonomia. Si può, inoltre, sottolineare che, tuttavia, questo
stesso soggetto viene pure ad essere, a suo modo e nei suoi limiti,
organizzatore (e, come dice Kant, “legislatore”) del mondo
naturale. E’, infatti, tale soggetto che, nei suoi caratteri
e nel suo funzionamento trascendentali, organizza la massa dei
dati della realtà naturale giungente alla sensibilità.
La riflessione filosofica che prende spunto dal pensiero critico
di Kant (espresso in tre opere fondamentali: Critica della ragion
pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio) tende
a cambiare e a superare tale pensiero in vari modi.
Così si provvede a eliminare la distinzione tra il noumeno (la
cosa in sé, non conoscibile dall’uomo) e il fenomeno (invece
conoscibile). Questa distinzione viene eliminata attraverso lo
sviluppo della tesi della piena coincidenza tra pensiero (idee)
e realtà. Tutta la realtà, dunque, viene riassorbita nel
pensiero, nel movimento delle idee. Tale movimento è
essenzialmente dialettico, ossia consiste nell’incontro-scontro
di elementi opposti (tesi e antitesi) e nel superamento di questi
opposti in un superiore, e più completo, accordo (sintesi).
Il movimento filosofico appena presentato si sviluppa a iniziare
dalla Germania, patria di Kant, e prende il nome di Idealismo.
Già con il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), l’Io
pensante di Kant si scioglie dal suo collegamento funzionale
con i dati della sensibilità e si trasforma in un Io assoluto,
superiore ad ogni individuo, che crea se stesso e che, nel creare
se stesso, crea anche gli oggetti e il mondo, suoi limiti. L’Io
diviene, in questo modo, soggetto creatore e simbolo di una libera
attività che si sviluppa e si esalta proprio a partire dalle
sue difficoltà e dai suoi doveri.
Punto più alto della scuola idealista è Georg Wilhelm Friedrich
Hegel (1770-1831). Con Hegel si perfeziona il metodo dialettico
e il sistema dell’Idealismo raggiunge la sua completezza.
Gli studiosi hanno sottolineato alcuni caratteri di incertezza
(di duplicità di significato) nel pensiero del filosofo. Infatti
Hegel, da una parte, è giunto a valorizzare, come significativa
espressione dello Spirito, lo Stato e, più in particolare, il
Regno di Prussia; da un’altra parte, tuttavia, con il metodo
stesso da lui usato e sviluppato, il metodo dialettico,
caratterizzato
dalla
valorizzazione
del
movimento
e
dell’opposizione anche nella storia, oggettivamente rafforza
le esigenze rivoluzionarie e di cambiamento sociale.
La presenza contemporanea
di caratteri conservatori e di
caratteri rivoluzionari all’interno del sistema di Hegel appare
anche nell’atteggiamento dei discepoli del filosofo, divisi in
una Destra e in una Sinistra hegeliana.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
4- SVILUPPI DELLA SINISTRA HEGELIANA: FEUERBACH.
Si è già considerato, all’interno della scuola hegeliana,
l’inizio di una differenziazione di posizioni teoriche.
Questa differenziazione divenne sempre più accentuata, fino ad
investire gli elementi fondamentali stessi della concezione di
Hegel e dell’Idealismo; concezione basata, come visto, sul
riassorbimento di tutta la realtà all’interno del pensiero.
E’ significativo, in tal senso, il caso di un pensatore: Ludwig
Feuerbach (1804-1872), appartenente alla Sinistra hegeliana.
Feuerbach, infatti, giunse a contestare radicalmente la visione
teorica idealistica come non produttiva e fuorviante, sostenendo
la necessità di portare l’attenzione della ricerca sulla vera
natura e sui reali bisogni umani. Ciò in una riflessione centrata
sulla considerazione del pensiero non quale fattore essenziale
e creatore della vita (come nell’Idealismo) ma quale conseguenza,
elemento di essa. In tal proposito appare utile ricordare come
Feuerbach stesso abbia affermato che Hegel aveva messo l’uomo
sulla testa e che, pertanto, bisognava rimetterlo diritto sui
piedi.
In questo medesimo orizzonte, Feuerbach portò avanti anche una
profonda critica della religione (famosa una sua opera: L’essenza
del Cristianesimo, del 1841). Il filosofo, dunque, presentò la
religione come proiezione in cielo di situazioni e di bisogni
nati e radicati sulla Terra, in un discorso in cui ideali,
speranze e bisogni sociali trovano un’espressione, imperfetta
e distorta, e un illusorio soddisfacimento nel mondo dell’Al
di là.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
5- ROMANTICISMO.
Considerando lo sviluppo filosofico dei secoli XVIII e XIX si
è incontrato Fichte e, più in generale, l’Idealismo. Si è, così,
potuto sottolineare il ruolo importante rivestito dalla libera
affermazione della creatività del soggetto. L’analisi della
Ragione, che, ancora con Kant, si ricollegava alle tematiche
dell’Illuminismo, si trasforma, con l’Idealismo, in esaltazione
della potenza creatrice dello Spirito.
Il
movimento
filosofico
idealistico,
con
queste
sue
caratteristiche, si collega strettamente ad un movimento
culturale e artistico che, nel XIX secolo, ebbe vastissima
diffusione: il Romanticismo. Un movimento, questo, che, anche
per la sua diffusione, ebbe una grandissima varietà di
manifestazioni, pure, a volte, contrastanti tra loro.
L’esaltazione della capacità creatrice dello Spirito e dell’uomo
(che può giungere, nella letteratura romantica, all’esaltazione
di chi si ribella alle regole della società) si affianca alla
valorizzazione dell’individuo, con i suoi sentimenti e le sue
passioni. Così, dunque, viene valorizzato e posto a modello
l’individuo. La valorizzazione delle passioni va in contrasto
con la razionalità illuminista, sentita troppo arida e
schematica.
In collegamento con l’importanza data al sentimento intimo e
all’emozione e con la svalutazione del principio razionalista
dell’Illuminismo si sottolinea, nel Romanticismo, il significato
della religione e della religiosità.
I romantici stessi evidenziarono come la rilevanza data alle
passioni e ai contrasti caratterizzi la differenza della loro
arte e della loro visione del mondo rispetto all’equilibrio e
all’armonia dell’antichità greco-romana e del classicismo che
ad essa si ispirò.
E’ da ricordare che si può trovare esaltato nel Romanticismo
anche il vincolo di sangue che lega tutti insieme gli appartenenti
ad un gruppo etnico, ad un popolo.
Così la valorizzazione dei legami di sangue e di cultura di un
popolo, con il loro rimanere fissi nel tempo, e la valorizzazione
dell’ elemento della religione spingono gli autori romantici
a rifarsi alla Storia e ad apprezzare l’epoca medioevale, tanto
caratterizzata, tra l’altro, dalla fede.
Peraltro il senso della storia e delle tradizioni comuni ed il
vincolo di sangue che contribuisce ad unire una popolazione si
combinano ugualmente bene sia con esperienze rivoluzionarie e
di liberazione sia con la Restaurazione.
Tra i più vicini precedenti del Romanticismo in Germania, se
non, direttamente, tra i primi romantici, gli storici della
letteratura pongono, poco dopo la metà del secolo XVIII, i poeti
del movimento denominato Sturm und Drang (che può tradursi con
Tempesta e assalto).
Come accennato, la diffusione del movimento romantico avvenne
in diversi Paesi. Anche a seconda delle diverse situazioni
sociali e delle diverse tradizioni letterarie dei vari luoghi
il Romanticismo si presentò con aspetti diversi.
Tra gli scrittori più importanti si possono ricordare George
Byron (1788-1824), in Inghilterra; Victor Hugo (1802-1885)),
in Francia.
In Italia il movimento romantico venne pubblicizzato dallo
scrittore Giovanni Berchet (1783-1851), con un’opera del 1816:
Lettera semiseria di Crisostomo.
Ispirato al Romanticismo fu il periodico il Conciliatore,
pubblicato a Milano e fondato, tra gli altri, dal patriota
Federico Confalonieri (1785-1846), giornale a cui collaborarono
anche Giovanni Berchet ed il letterato Silvio Pellico
(1789-1854). Per la sua tendenza patriottica questo giornale,
che iniziò le sue pubblicazioni nel 1818, venne chiuso
dall’Austria nel 1819.
Principali scrittori italiani romantici furono Alessandro
Manzoni (1785-1873) e Giacomo Leopardi (1798-1837).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
6- CARATTERISTICHE E SVILUPPI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Con la rivoluzione industriale i progressi e le invenzioni della
scienza cominciano ad essere utilizzati nel mondo della
produzione.
Si comincia così a meccanizzare le lavorazioni, prima svolte
dalla mano dell’uomo.
Con la rivoluzione industriale, e con i progressi della
meccanizzazione della produzione, quindi, gli oggetti da
commerciare non vengono più realizzati nelle case o nelle
botteghe degli artigiani ma in fabbriche, dove sono in funzione
molti macchinari.
Le origini della rivoluzione industriale si hanno in Inghilterra,
nella seconda metà del XVIII secolo.
Lo studio dello sviluppo della produzione inglese consente, tra
l’altro, di individuare l’importante ruolo avuto dall’industria
tessile. Ancora strettamente collegato all’utilizzazione delle
macchine nel processo produttivo è l’affermarsi, ed il
perfezionarsi, dell’industria metallurgica. Fonte principale
di energia è il carbone (di cui l’Inghilterra è ricca). Invenzione
di grande importanza è la macchina a vapore.
Per un grande numero di anni l’Inghilterra fu praticamente sola
ad avanzare sulla strada della meccanizzazione della produzione.
Nel corso della prima metà del secolo XIX seguirono Francia e
Belgio.
Successivamente il processo di industrializzazione si avviò in
Germania, in Olanda e, in America, negli Stati Uniti.
Solo tra la fine del secolo XIX ed il principio del secolo XX
paesi come la Russia e l’Italia cominciarono la loro
industrializzazione.
E’ importante sottolineare che ci fu, dunque, uno sviluppo
diverso, più o meno grande, più o meno veloce, tra i diversi
Stati.
Elemento di grande significato è stato costituito nel corso del
XIX secolo, e a partire dal 1830 circa, dal sempre più grande
sviluppo della ferrovia, entro l’ambito di un generale
miglioramento del sistema dei trasporti.
L’affermarsi della ferrovia, per la velocità dei treni, ha
condotto anche ad un’espansione dei mercati per gli imprenditori.
Inoltre, in naturale e stretto collegamento con la richiamata
affermazione della ferrovia, si è potuta avere una forte
incentivazione delle industrie siderurgiche e meccaniche.
Con la fine del secolo XIX ci fu un notevole perfezionamento
della industria siderurgica, ossia legata alla produzione del
ferro. In questa industria Stati Uniti e Germania superarono
l’Inghilterra nella produzione di acciaio. Si ebbero molte
scoperte e innovazioni, anche legate alla chimica. Per quanto
riguarda le fonti di energia si cominciarono a utilizzare
elettricità e petrolio. Si mettevano così le
basi per il
superamento dell’utilizzazione del carbone.
Davanti alle innovazioni che si sono ora considerate si è anche
parlato di nuova fase della rivoluzione industriale, oppure di
seconda rivoluzione industriale.
Va anche detto che l’importanza dell’innovazione scientifica
per gli imprenditori non si è soltanto vista nell’introduzione
di macchine nella produzione. L’innovazione scientifica ha avuto
importanza pure perché con essa si sono inventati nuovi prodotti
da fabbricare. Come esempi si possono ricordare la lampadina
elettrica (con Thomas Alva Edison, 1847-1931), la macchina
fotografica e l’automobile.
Appare necessario ricordare adesso che dentro la popolazione
di ogni Stato si può vedere, nella storia europea, una divisione,
molto importante, in tre gruppi, o classi sociali. Si trovano
così: la nobiltà, o aristocrazia; la borghesia; il proletariato.
La borghesia ha avuto un’importanza decisiva per far nascere
e per far crescere il capitalismo e la rivoluzione industriale.
Tra gli appartenenti a questa classe sociale si trovano, fino
dal Medio Evo, anche coloro che si dedicavano all’attività di
produzione e di commercio. Sono così da evidenziare gli
imprenditori, ossia coloro che, utilizzando capitali propri
oppure presi a prestito, organizzano e dirigono un’attività di
produzione di merci per venderle e avere, quindi, un guadagno.
Appare da dire subito che è interesse di ogni imprenditore quello
di avere un ampio mercato nel quale vendere i propri prodotti.
E’ anzi da richiamare come uno dei punti più importanti della
filosofia economica della classe borghese sia stato costituito,
già nel XVIII secolo, dalla convinzione della necessità di un
libero commercio, di un libero scambio di tutte le merci, senza,
tra l’altro, dazi doganali fra Stato e Stato.
Con la rivoluzione industriale, e con la riorganizzazione delle
campagne che la ha preceduta, coloro che si sono trovati
completamente privi di ricchezza sono stati costretti, per
vivere, a lavorare nelle fabbriche dirette dagli imprenditori.
Così, per esempio, molti piccoli artigiani e contadini, dopo
aver perso il loro lavoro in seguito all’accumulazione dei mezzi
di produzione operata dal capitale e alla diffusione delle
innovazioni scientifiche, hanno dovuto mettersi a lavorare come
dipendenti degli imprenditori, in cambio di un salario.
Queste persone completamente prive di ricchezza sono state
chiamate proletari.
Questo proletariato di fabbrica è nato, quindi, con la
rivoluzione industriale.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
7- MOTI DEL 1820-1821 E DEL 1830.
Si
è
richiamata
l’importanza
del
ruolo
della
borghesia
nell’affermazione
della
rivoluzione
industriale
e,
conseguentemente, nell’affermazione del sistema di produzione
moderno.
Si è già visto, pure, che l’industrializzazione non si è
sviluppata contemporaneamente nei vari paesi, europei e non
europei, ma con velocità ed in tempi diversi.
Si può, a questo punto, ancora mettere in luce e sottolineare
lo stretto collegamento esistente tra diverso, maggiore o minore,
sviluppo
dell’industrializzazione
nei
diversi
paesi
e
affermazione, economica e politica, della classe borghese.
Vanno ora anche ricordati i principi universali portati avanti
dalla Rivoluzione francese del 1789 come quelli della libertà
e dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Principi, questi della
Rivoluzione di Francia, che erano stati teorizzati e difesi dalla
borghesia (nel quadro di un sistema di pensiero politico detto
liberalismo) pure in collegamento con le esigenze economiche
di questa classe, e per il soddisfacimento di dette esigenze.
Con il Congresso di Vienna, con la restaurazione dei principi,
opposti a quelli rivoluzionari, dell’assolutismo, pure la
borghesia vide limitate, o addirittura cancellate, le proprie
libertà.
Nacquero per queste ragioni, economiche e politiche, i moti
europei degli anni 1820 e 1821.
Moti, questi, in generale finalizzati alla concessione, da parte
del monarca, di Costituzioni.
Scopo di dette Costituzioni era limitare il potere assoluto del
re.
Si trovano così insurrezioni dapprima in Spagna, successivamente
anche in Italia, nel regno delle Due Sicilie e in Piemonte.
I liberali spagnoli, appoggiati dall’esercito, ottennero dal
re Ferdinando VII (1784-1833) il ripristino della Costituzione
di Cadice, la carta costituzionale promulgata nel 1812 per legare
alla monarchia il maggior consenso popolare possibile, al tempo
delle lotte contro Napoleone, e, successivamente, ritirata.
Concesse la Costituzione anche il re Ferdinando I di Borbone
(1751-1825), nel Regno delle Due Sicilie.
Dinanzi ai moti, nel Regno di Sardegna, il re Vittorio Emanuele
I di Savoia (1759-1824) rinunciò al trono in favore del fratello
Carlo Felice (1765-1831). Essendo quest’ultimo momentaneamente
assente divenne reggente del Regno il principe Carlo Alberto
di Savoia (1798-1849), disponibile a concedere la carta
costituzionale. Peraltro Carlo Felice fu totalmente contrario
e, anzi, chiamò in suo soccorso l’Austria.
In Italia si registrarono cospirazioni anche nel Regno
Lombardo-Veneto. La repressione austriaca di queste cospirazioni
portò, tra l’altro, in carcere Silvio Pellico (che trasse da
questa sua esperienza un libro famoso: Le mie prigioni).
In tutti gli Stati in cui fu concessa la Costituzione ebbe breve
durata.
La sostanziale arretratezza della base economica delle regioni
interessate e i contrasti sorti all’interno stesso delle forze
liberali (come, nel caso del Regno delle Due Sicilie, la volontà
di secessione dell’isola, repressa militarmente) contribuirono
a negare ai moti un vero e non solamente momentaneo successo.
Così, tra il 1821 ed il 1823, si restaurò il precedente regime
politico in Italia, con l’intervento di truppe austriache, e
in Spagna, con l’intervento di truppe francesi.
Va anche ricordato un limite importante legato alla base e alla
preparazione stessa delle rivoluzioni del periodo ora in esame.
Si parla del limite costituito dalla segretezza delle
associazioni rivoluzionarie, come, in Italia, la Massoneria (una
società molto antica, di origini tedesche medioevali) e la
Carboneria. Una segretezza, dunque, che, da un lato, è necessaria
per sfuggire alle indagini delle polizie, ma, da un altro lato,
obbliga anche ad una separazione rispetto al popolo, e alle sue
esigenze.
Può dirsi subito come sia stata pure la vicenda dei moti del
1820 e del 1821 a spingere Giuseppe Mazzini (pensatore e patriota
italiano, 1805-1872) ad una riflessione sulla necessità vitale
per le rivoluzioni di un profondo e sentito coinvolgimento
popolare.
Se, come appena visto, in regioni non economicamente sviluppate
gli scoppi rivoluzionari contro il potere assoluto erano falliti,
in un paese industrialmente più forte come la Francia, nel 1830,
la classe borghese ha potuto difendere e affermare i propri
interessi anche di fronte allo Stato.
Così quando re Carlo X (1757-1836) tentò di orientare la vita
politica nazionale in senso più segnatamente assolutista e meno
moderato di quanto non avesse fatto il suo predecessore Luigi
XVIII e, in questo orizzonte, tra l’altro, anche eliminò la
libertà di stampa e restrinse il diritto di voto, le proteste
della borghesia vennero affiancate e sostenute da un grande
movimento popolare in armi.
Nell’arte questo scoppio rivoluzionario diede vita ad un famoso
quadro del pittore Eugene Delacroix (1798-1863): La Libertà che
guida il popolo.
L’orientamento politico generale di questa rivoluzione fu dato
dalla borghesia, e non dalle masse popolari. Venne scelto un
altro re, Luigi Filippo d’Orleans (1773-1850). Entrò anche in
vigore una nuova Costituzione, maggiormente rispondente alle
esigenze della classe borghese.
Conseguenza notevole degli avvenimenti del 1830 sulla politica
estera francese e sulla situazione europea fu l’uscita della
Francia dal sistema di interventi di repressione internazionale
delle rivolte iniziato con la Santa Alleanza.
In questo orizzonte si comprende anche il movimento
rivoluzionario che, nello stesso 1830,permise al Belgio di
raggiungere la propria indipendenza dall’Olanda, con la forma
di monarchia costituzionale.
Di fronte ai risultati della rivoluzione del 1830 in Francia
non può non ricordarsi ora, per contro, il fallimento dei moti
liberali del 1831 in Emilia Romagna, facente parte dello Stato
Pontificio, stroncati dall’esercito austriaco.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
8- STATI NAZIONALI E IMPERI.
Considerando la situazione europea dell’intero secolo XIX e anche
quella degli inizi del secolo XX si possono sottolineare alcuni
temi e problemi importanti.
Si deve, dunque, parlare subito della tendenza alla formazione
in Europa di nuovi Stati a base nazionale. Una tendenza, questa,
secondo la quale ogni nazione, ogni insieme di persone aventi
in comune vari elementi come una cultura, una lingua, una
religione, un nucleo di legami di sangue e di derivazione
genetica, ha il diritto di avere, deve avere un proprio Stato.
Così, per questa tendenza, ogni popolo ha il diritto di governarsi
da solo.
Si può anche considerare come, con lo sviluppo del XIX secolo,
e delle vicende rivoluzionarie, la lotta della borghesia, delle
forze liberali contro l’assolutismo si sia pure combinata in
alcuni paesi con la lotta per l’indipendenza nazionale.
Paesi, questi, soggetti a dominazione straniera, inseriti in
grandi Stati multietnici.
Entro il quadro dell’Impero Ottomano si può citare la Grecia.
A tale proposito va ricordato come i patrioti greci, insorti
nel 1821, poterono infine conquistare l’indipendenza, dopo
lunghe lotte, con il 1830. Si deve mettere in rilievo come il
nuovo Stato, che prese la forma di Stato monarchico, nacque anche
in conseguenza della forte crisi dell’Impero Ottomano e sotto
il controllo di grandi Stati come Russia, Inghilterra e Francia.
La corona di Grecia fu affidata ad un principe tedesco: Ottone
I (1815-1875), che, peraltro, venne deposto in conseguenza di
un colpo di stato militare, nel 1862.
Con il 1831, di fronte alla repressione dello zar, caddero le
aspirazioni della Polonia all’indipendenza dalla Russia.
Si ricorda ancora che la situazione politica italiana,
all’indomani del Congresso di Vienna, era caratterizzata da molti
piccoli Stati.
A settentrione, re del Regno Lombardo Veneto era l’imperatore
d’Austria.
Dietro le aspirazioni e le richieste per unità ed indipendenza
nazionale (che, in Italia, diedero origine al complesso fenomeno
del Risorgimento, ossia del risorgere del popolo italiano e del
suo raccogliersi in un solo Stato nazionale) si possono trovare
molte cause, economiche ed ideali.
Se ne accennano alcune.
Abbiamo già considerato il ruolo molto importante rivestito nello
sviluppo economico dall’ampliamento dei mercati. Si è pure visto
il grande significato spettante, sempre ai fini dello sviluppo,
ai trasporti ferroviari.
Come ben dimostra lo studio della situazione economico-politica
italiana, il frazionamento di un territorio in tante entità
statali ostacola, anche attraverso il moltiplicarsi di dazi alle
frontiere, la crescita della produzione e del commercio.
In generale, poi, in uno Stato multinazionale la politica
tributaria può anche colpire duramente fino ad impedire le
attività produttive di una regione, magari esercitate da un
gruppo etnico.
Va inoltre ricordato come in Italia la situazione di molteplicità
di Stati abbia ritardato ed ostacolato, per varie cause, lo
sviluppo complessivo della rete ferroviaria.
Da un punto di vista ideale si deve almeno accennare al forte
impulso che l’idea di nazione ha avuto dall’ambiente culturale
del Romanticismo.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
9- LE SOLUZIONI PROPOSTE AL PROBLEMA DELL’UNITA’ D’ITALIA:
MAZZINI, GIOBERTI, CATTANEO.
Di fronte alla necessità, economica ed ideale, dell’unificazione
e dell’indipendenza dell’Italia vari pensatori ed uomini
politici hanno proposto e cercato di mettere in pratica vari
progetti.
Dietro questi progetti si trovavano concetti molto diversi tra
loro.
In linea generale può ricordarsi la divisione tra pensatori ed
uomini politici democratici e pensatori ed uomini politici
moderati.
I primi erano interessati ad un’affermazione più completa dei
principi democratici.
Si nota che democrazia è termine che vuol dire potere del popolo
(in greco demos significa popolo).
Per la corrente di pensiero democratica punto di riferimento
è la sovranità popolare.
Per l’orientamento democratico di Giuseppe Mazzini l’Italia
doveva essere una, libera, indipendente, repubblicana.
Si è già avuto modo di accennare alla critica mazziniana contro
la segretezza e contro i limiti fondamentali della Carboneria.
Una critica, questa, che si è sviluppata anche a partire dalla
riflessione sui moti rivoluzionari del 1820-1821 e del 1830-1831
e sulle cause dei loro fallimenti.
Davanti, dunque, alla richiamata politica di segretezza Mazzini
pone, per contrasto, la necessità che l’unità, l’indipendenza
nazionale siano esigenza e sentimento di tutto il popolo.
Studiosi di storia e di letteratura hanno potuto sottolineare
l’importanza e l’influenza del pensiero romantico nell’opera
mazziniana. Si può così trovare traccia romantica nella visione
del popolo, della nazione, come elemento fondamentale nella
storia umana. Una visione, questa, che anche presenta aspetti
di sentimento religioso. Il pensiero mazziniano ha come elementi
più significativi Dio e popolo e al popolo italiano, per Mazzini,
la Divinità ha dato il compito, la missione di riscattarsi, di
risorgere, per aprire un’era di progresso.
E’ il popolo, dunque, il popolo nella sua interezza, che deve
compiere la sua missione. Da questo ragionamento discende bene
che ci deve essere accordo e non lotta fra le classi sociali.
In questo stesso ragionamento può trovare anche spiegazione
un’altra scelta fondamentale di Mazzini: quella della forma
statale repubblicana, e non già monarchica.
Ancora in questo stesso pensiero, nell’azione politica il momento
dei moti, delle insurrezioni armate deve essere preceduto e
accompagnato da una vasta opera di educazione. E nello statuto
della Giovine Italia, l’associazione fondata da Giuseppe Mazzini
(nel 1831), il fine dell’insurrezione viene espressamente
precisato come preceduto e seguito da un percorso di educazione.
Se il Mazzini individuava la forma repubblicana per un’Italia
unita ed indipendente un altro pensatore, Vincenzo Gioberti
(1801-1852), che era stato un suo discepolo, doveva sviluppare
una concezione politica molto diversa.
Infatti, in un quadro di concetti moderato, il Gioberti, in un
libro pubblicato nel 1843, Del primato morale e civile degli
Italiani, espose come soluzione al problema nazionale quella
(definita neoguelfa) di una federazione di Stati presieduta dal
Papa. Così Gioberti, moderato, rifiutava la possibilità e la
convenienza di una rivoluzione popolare e preferiva fare
affidamento sugli accordi tra le varie dinastie che regnavano
in Italia.
Al contrario di Gioberti, nel campo democratico, per Carlo
Cattaneo (1801-1869), pensatore e uomo politico che anche prese
a modello gli Stati Uniti d’America, il ricorso al federalismo
doveva essere condizione e garanzia per una maggiore autonomia,
una maggiore libertà delle popolazioni. In questo senso lo Stato
federale diviene in Cattaneo strumento, per tutte le popolazioni,
di autogoverno, e, quindi, di maggiore democrazia.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
10- CONDIZIONI DEI LAVORATORI E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE.
Alcuni tratti essenziali delle origini e dello sviluppo della
rivoluzione industriale si sono già tracciati.
Si è anche cominciato a vedere il sorgere ed il crescere di un
proletariato di lavoratori di fabbrica, legato in modo stretto
alla rivoluzione industriale.
Ancora si sottolinea che questo proletariato era composto da
persone prive di ricchezze e costrette, per vivere, a lavorare
alle dipendenze degli imprenditori.
Le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche erano estremamente
dure. Infatti il salario era molto basso. La giornata di lavoro,
inoltre, era molto lunga (giungeva sino alle sedici ore). Anche
le donne e i bambini erano sottoposti ad un lavoro durissimo.
Va ancora ricordato che il nuovo sistema di produzione
industriale richiedeva la divisione del lavoro. Nel sistema di
produzione precedente alla rivoluzione industriale un artigiano
poteva anche arrivare a completare da solo la fabbricazione di
un intero oggetto. Nel nuovo sistema di produzione, con la
divisione del lavoro, invece, ogni lavoratore esegue soltanto
una operazione nella fabbricazione dell’oggetto, e sempre
quella. In questo modo il lavoratore diventa sempre più bravo
e sempre più veloce nell’eseguire questa operazione. Nello stesso
tempo, però, egli smette di saper fare tutto l’oggetto e,
considerando le cose, la sua bravura totale e le sue capacità
umane diminuiscono invece di aumentare. Il lavoratore, dunque,
ripete meccanicamente sempre una stessa operazione. In questo
modo, però, egli non guida e non comprende più, con la sua
intelligenza e con la sua bravura, l’intera produzione degli
oggetti. Egli, invece, con l’operazione meccanica, semplice e
ripetitiva che deve sempre eseguire, dipende dalla produzione,
senza poter decidere nulla.
Si è, dunque, vista la difficile condizione dei lavoratori con
la rivoluzione industriale.
Proprio la difficoltà delle loro condizioni ha anche spinto i
lavoratori ad aiutarsi gli uni con gli altri e ad associarsi
insieme per cercare di difendere i loro diritti contro gli
imprenditori. Nascono in questo modo le associazioni sindacali,
o sindacati.
Va detto che queste associazioni furono all’inizio proibite dalla
legge. Così, in Inghilterra, vennero proibite nel 1799, per poi
essere ammesse nel 1824.
Fu proibito dalla legge anche lo sciopero, ossia l’interruzione
da parte dei lavoratori del loro lavoro nella fabbrica allo scopo
di interrompere la attività produttiva, facendo così danno
all’imprenditore.
Malgrado tutto questo il movimento sindacale riuscì ad avere
un grande sviluppo.
Già la considerazione delle vicende dei lavoratori e dei loro
sindacati permette di cominciare ad individuare, nel percorso
storico, l’allargarsi di un’altra divisione, di un altro
conflitto sociale. Così, oltre lo scontro tra borghesia e
assolutismo, si può iniziare a vedere quello tra borghesia e
proletariato.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2001/2002
Prof. Frontini
11- L’IDEA SOCIALISTA E MARX. RAPPORTI TRA STATO E VITA
ECONOMICA.
Si sono viste le condizioni dei lavoratori. Si è pure visto il
sorgere delle associazioni sindacali.
Collegata con la rivoluzione industriale e con la situazione
dei lavoratori è la nascita e lo sviluppo anche dell’idea
socialista.
Può ancora ricordarsi il significato universale dei diritti
dell’uomo proclamati con la Rivoluzione francese del 1789.
Ancora, dunque, si debbono ricordare i principi fondamentali
della libertà e dell’uguaglianza. Questi principi hanno
costituito le idee centrali dell’azione della borghesia contro
il sistema assolutistico. Si può ripetere che questi principi
sono in realtà universali, ossia corrispondono alle esigenze
e alle richieste fondamentali di tutti gli uomini.
Nel nome dei detti principi la borghesia ha potuto chiamare in
aiuto, per la sua lotta contro l’assolutismo, vaste masse
popolari.
Ma, nel momento stesso in cui la classe borghese prendeva il
potere e, in modo collegato, nel momento in cui si ampliava e
diffondeva il sistema industriale moderno, sempre più si apriva
un contrasto tra le affermazioni generali e ideali e la realtà.
Così, nella vita dei lavoratori dipendenti degli imprenditori,
con la sua durezza, il richiamo alle idee di libertà e di
uguaglianza poteva apparire soltanto formale, privo di ogni
efficacia concreta.
Di fronte a questa situazione molti pensatori e molti uomini
politici hanno seguito e hanno sviluppato l’idea socialista.
Molto importante storicamente è stato Karl Marx (nato a Treviri,
in Germania nel 1818; morto a Londra nel 1883). Per Marx, come
per il suo amico e collaboratore Friedrich Engels (1820-1895),
difetto principale, fondamentale, del sistema economico
capitalista nato dalla rivoluzione industriale è quello di essere
un sistema nel quale la crescita sempre più grande della ricchezza
non è destinata al soddisfacimento dei bisogni di tutti ma
soltanto al soddisfacimento degli interessi degli imprenditori.
In altre parole, si rimprovera che la produzione economica,
gestita dai singoli imprenditori privati, è regolata non sulle
reali esigenze della società ma sulle attese di guadagno degli
imprenditori stessi.
Da una parte, con i bassi salari dati ai lavoratori e con lo
sfruttamento di questi lavoratori, si creano vaste sacche di
povertà e di disperazione; da un’altra parte, il lavoro umano
(elemento essenziale, per Marx, nella fabbricazione dei
prodotti) è potenzialmente sprecato per la produzione di oggetti
inutili o, comunque, non vendibili.
Entro questo discorso, elemento molto importante è costituito
dalla lotta di classe. Così, per il marxismo il proletariato
industriale si troverà ad essere il soggetto storico principale
di una rivoluzione sociale che spezzerà ogni catena di
sfruttamento.
Una rivoluzione, dunque, che eliminerà la proprietà privata degli
strumenti della produzione (come terra e fabbriche), condizione
di oppressione dei lavoratori. Strumenti, questi, che, invece,
dovranno essere affidati a tutti (alla collettività) per essere
utilizzati, secondo un piano, per soddisfare gli interessi di
tutti.
Ciò entro una concezione politica e filosofica materialistica,
per la quale, anche, la religione si presenta come droga dei
popoli, strumento per far tollerare agli oppressi, con la
speranza del Paradiso, la loro oppressione.
Il pensiero economico di Karl Marx troverà più matura espressione
in un’opera, non compiuta, Il Capitale, di cui, mentre era in
vita l’autore, fu pubblicata soltanto una prima parte, nel 1867.
Già, comunque, nel Manifesto del partito comunista, scritto su
incarico della Lega dei Comunisti, con l’aiuto di Engels,
pubblicato nel 1848, si metteva con forza in evidenza la lotta
delle classi ed il ruolo del proletariato.
Si deve ora considerare, con un discorso generale, la discussione
che è nata e che è cresciuta, davanti alla rivoluzione
industriale, sui rapporti tra Stato ed economia.
Si può dire che per una serie di studiosi di economia chiamati
liberisti (sorti antecedentemente a Marx, in parallelo al primo
sviluppo della Rivoluzione industriale), lo Stato non deve
intervenire nella vita economica. Lo Stato che non si interessa
della vita economica viene chiamato Stato liberale. Per i
liberisti, dunque, la migliore e la più efficace utilizzazione
delle ricchezze si ha quando si affida l’intera vita economica
ai privati e alla loro iniziativa. Occorre ricordare, a questo
proposito, come l’economista scozzese Adam Smith (1723-1790)
sostenga che, nella concorrenza, l’incontro degli interessi
egoistici individuali, guidato da una specie di mano invisibile,
produca la più conveniente situazione economica sociale, senza
bisogno di altri interventi.
Chiaramente opposta a questa concezione dei liberisti è l’idea
socialista di Marx, di cui si sono appena cominciate a vedere
le linee essenziali.
Appare anche interessante premettere, fin da ora, come le idee
di Marx abbiano pure ispirato la politica della rivoluzione in
Russia del 1917, da cui prese inizio l’Unione Sovietica. Così
l’Unione Sovietica ha avuto le caratteristiche di uno Stato ad
economia socialista, senza proprietà privata dei mezzi di
produzione.
La Cina, stato ad economia socialista dopo la presa del potere
da parte di Mao Zedong, nel 1949, sta ora dando sempre più spazio
all’iniziativa economica privata.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
12- MATERIALISMO E LAVORO UMANO NEL PENSIERO DI MARX, TRA
FILOSOFIA ED ECONOMIA.
Studiosi ed uomini politici hanno potuto sottolineare come il
pensiero di Marx sia partito da precedenti teorie filosofiche,
politiche ed economiche e come le abbia creativamente rielaborate
e superate.
Dal punto di vista filosofico si deve almeno mettere in rilievo
come il rivoluzionario tedesco, di fronte al pensiero di Hegel
e al materialismo di Feuerbach, abbia sviluppato una compiuta
concezione materialistica della società e della storia. Una
concezione basata sull’osservazione della centrale importanza
dell’attività produttiva umana, del lavoro, per tutti i fini
della vita sociale, anche nei suoi aspetti culturali.
In questo quadro generale, Marx, alla fine di un suo scritto
del 1845, le Tesi su Feuerbach, rileva che se i filosofi hanno
da sempre spiegato il mondo, giunge nel presente, piuttosto,
il momento di cambiarlo.
Il significato dato all’attività produttiva conduce, in Marx,
alla rielaborazione delle ipotesi degli economisti Adam Smith
e David Ricardo (1772-1823) sulla misura del valore dei prodotti
in base al lavoro necessario per la loro fabbricazione. Ciò per
sottolineare nell’attività lavorativa umana il fattore esclusivo
della produzione.
In questo contesto economico Marx può, tra l’altro, evidenziare
che, appunto per la capacità produttiva del lavoro umano, e per
la situazione di necessità a cui è socialmente costretto il
lavoratore, il dipendente, nella sua giornata lavorativa,
fornisce all’imprenditore capitalista più prodotto e più valore
(plusvalore) di quanto gliene venga pagato con il salario (un
salario che l’imprenditore stesso cerca di portare al livello
minimo di sopravvivenza).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
13- IL 1848 IN FRANCIA.
Si è già cominciato a considerare anche il conflitto che ha diviso
la classe borghese e il proletariato.
Si osserva che nelle rivoluzioni europee scoppiate nel 1848 è
possibile vedere tutto l’insieme, e l’intreccio, dei conflitti
economici e politici: dallo scontro tra borghesia e assolutismo,
che può presentarsi anche come lotta per l’indipendenza e l’unità
nazionale, allo scontro tra proletariato e borghesia.
Nello studiare la situazione francese si è già trovato che nel
1830, in seguito ad una rivoluzione nella quale il popolo appoggiò
la borghesia, divenne re Luigi Filippo. Si è pure ricordata la
prevalenza avuta, con questa rivoluzione, dalla classe borghese.
Va detto ora che il tipo di Stato realizzato in Francia dopo
il 1830, maggiormente rispondente alle esigenze della borghesia,
era tuttavia tale da non soddisfare pienamente tutti i gruppi
di questa classe. Tra l’altro, anche nella nuova situazione
politica, il diritto di voto era legato al reddito e si aveva
così una partecipazione alle elezioni necessariamente limitata
ad un ristretto numero di persone più ricche.
La condizione delle classi popolari era molto difficile (anche,
tra l’altro, in seguito ad una carestia che stava colpendo molti
Stati d’Europa).
La situazione di difficoltà che si è appena riassunta ha prodotto
in Francia, nel febbraio del 1848, un altro scoppio
rivoluzionario.
Abbattuto dai moti popolari il regime monarchico di Luigi
Filippo, si formò un governo provvisorio, direttamente e
fortemente influenzato dal popolo parigino, nel quale entrò anche
l’uomo politico socialista Louis Blanc (1811-1882).
Venne scelta la forma statale repubblicana ed il diritto di voto
venne esteso a tutti i cittadini di sesso maschile (suffragio
universale maschile).
E’ importante segnalare l’attenzione del governo provvisorio
per le necessità dei lavoratori. In tal senso venne proclamato
il diritto al lavoro e si cercò di risolvere il problema della
disoccupazione. Venne inoltre ridotta la durata della giornata
lavorativa.
Occorre però dire che le elezioni per l’Assemblea Costituente,
svoltesi nell’aprile dello stesso 1848, diedero la maggioranza
all’elemento politico conservatore.
Una insurrezione, scoppiata a giugno, per contrastare la nuova
linea di riduzione dei diritti del lavoro, venne repressa con
durezza.
Come è stato anche osservato dagli storici, la nuova
Costituzione, prevedente, tra l’altro, un presidente della
Repubblica, eletto a suffragio universale, con vasti poteri,
poteva condurre al controllo dello Stato da parte di una singola
personalità.
Entro il discorso conservatore che si stava sviluppando in
Francia, nel dicembre del 1848 venne eletto presidente Luigi
Napoleone Bonaparte (1808-1873), figlio del fratello di
Napoleone, Luigi.
Luigi Napoleone poté così portare avanti una politica di
affermazione personale che lo condusse, nel 1852, a farsi
proclamare imperatore, con il nome di Napoleone III.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011-2012.
14- IL 1848 IN EUROPA.
Il 1848 fu caratterizzato da movimenti rivoluzionari in tutta
Europa.
Se, come visto, in Francia la situazione rivoluzionaria si
presentò sotto il segno dello scontro di classe tra borghesia
e proletariato, in altre regioni apparve come lotta per la
Costituzione, e, anche, per l’indipendenza nazionale.
E’ significativo quanto avvenne nell’Impero Asburgico, dove
erano presenti molte etnie, e conflitti etnici.
Nel biennio 1848-1849, e a partire dal marzo 1848, quando Vienna
si sollevò una prima volta chiedendo, e ottenendo, la
Costituzione (e l’allontanamento dalla vita politica del
principe di Metternich, simbolo della Restaurazione), le
esigenze e le richieste liberali si combinarono, e dovettero
tenere conto della volontà di indipendenza dei molti popoli
dell’Impero.
Così nell’Ungheria, guidata da Lajos Kossuth (1802-1894), si
giunse, nel 1849, a proclamare la repubblica.
Va comunque sottolineato che la stessa Ungheria, nel biennio
ora in esame, dovette affrontare, e reprimere, le richieste di
indipendenza di minoranze serbe e croate.
L’intreccio delle questioni nazionali, e le rivalità e le lotte
tra i vari gruppi etnici giocarono anche a favore degli Asburgo,
e, fondamentalmente, contro le esigenze liberali.
La resistenza liberale a Vienna fu stroncata nell’ottobre del
1848 con l’intervento dell’esercito.
Nell’agosto del 1849 venne anche vinta, con l’aiuto delle truppe
russe dello zar Nicola I (1796-1855), la resistenza ungherese.
Il biennio rivoluzionario 1848-1849 e i moti liberali in
Germania, dove, accanto ad uno Stato forte come la Prussia,
coesistevano molti altri piccoli Stati, furono caratterizzati
anche dall’esigenza dell’unità nazionale.
Accanto alle Assemblee Costituenti dei vari Stati anche ebbe
vita, con il maggio 1848, un Parlamento, a Francoforte, che doveva
operare per la riunificazione della Germania.
Complessivamente,
tuttavia,
le
richieste
liberali
si
svilupparono in questo paese in modo moderato, pure per il timore
della borghesia di dare innesco a moti rivoluzionari troppo
spinti in senso democratico.
Per la stessa questione dell’unità nazionale tedesca il
Parlamento di Francoforte non andò sostanzialmente oltre
l’offerta della corona di Germania al re di Prussia Federico
Guglielmo IV (1795-1861), che, peraltro, la rifiutò, anche per
evitare di far derivare il proprio potere dalla investitura
popolare.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
15- IL 1848 IN ITALIA.
Anche nella situazione italiana il periodo rivoluzionario che
si sta considerando fa vedere un intreccio di esigenze e di
richieste. In questo intreccio, così, alle richieste per la
costituzione, nei vari Stati nei quali allora era divisa
l’Italia, si accompagnò quella per l’unità nazionale.
Fin dal 1847 le richieste per un orientamento politico più
liberale cominciarono a trovare ascolto. Venne, tra l’altro,
concessa in vari Stati la libertà di stampa.
Si può anche ricordare il progetto di una lega doganale che doveva
unire Toscana, Piemonte e Stato Pontificio (dove, nel 1846, era
stato eletto Pio IX).
In particolare va notato che molte speranze dei patrioti e dei
liberali si appuntarono, in un primo tempo, proprio sul
pontefice, Pio IX (1792-1878). Parve quasi che potessero
realizzarsi il pensiero ed i desideri del Gioberti.
La pressione popolare per ottenere la Costituzione sfociò, nel
gennaio del 1848, in un’insurrezione nel Regno delle Due Sicilie.
Re Ferdinando II (1810-1859) concesse la carta costituzionale.
Successivamente, tra febbraio e marzo 1848, concedettero la
Costituzione i sovrani della Toscana, del Piemonte, dello Stato
Pontificio.
La Costituzione piemontese, nota anche come Statuto albertino,
venne data da Carlo Alberto il 4 marzo 1848.
Nel frattempo, nello stesso mese di marzo 1848, scoppiò, come
visto, la rivoluzione a Vienna.
Dentro i confini dell’impero asburgico si unirono alla rivolta
anche i territori italiani. Così, nel marzo 1848, si ribellarono
Venezia e Milano.
Le insurrezioni di Venezia e di Milano portarono avanti un
discorso politico indirizzato in senso democratico. Tra i
protagonisti della rivolta milanese si deve richiamare Carlo
Cattaneo, che proprio nell’esperienza del 1848 poté organizzare
meglio e approfondire i temi della sua riflessione su democrazia
e federalismo.
Di fronte all’orientamento appena considerato, un’altra parte
politica, più moderata, individuò nel re di Sardegna Carlo
Alberto la possibile guida all’unità d’Italia.
Carlo Alberto dichiarò, così, dopo esitazioni, la guerra
all’Austria (prima guerra di indipendenza), il 23 marzo 1848,
quando i milanesi, da soli, avevano già cacciato gli austriaci.
Lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, il Regno delle
Due Sicilie mandarono propri contingenti militari ad affiancare
le truppe piemontesi.
Lo schieramento antiaustriaco era reso fragile da molte e gravi
contraddizioni. La politica del Regno di Sardegna poteva anche
apparire più indirizzata ad un espansionismo territoriale che
all’effettiva realizzazione dell’idea italiana, mentre gli altri
Stati che avevano inviato soldati erano in realtà pronti a
ritirarli, sia per il timore dell’Impero asburgico che per le
esigenze della propria politica.
Accadde così che Carlo Alberto, abbandonato dagli altri sovrani
regnanti in Italia, venne dapprima sconfitto a Custoza e
costretto ad un armistizio, poi definitivamente battuto a Novara,
il 23 marzo 1849. In seguito alla battaglia di Novara Carlo
Alberto abdicò, lasciando il trono a Vittorio Emanuele II
(1820-1878).
Con l’abbandono da parte dei sovrani italiani e la condotta
infelice della guerra delle truppe piemontesi parve, in un primo
momento, ampliarsi la possibilità di una realizzazione
dell’indipendenza italiana attraverso la via rivoluzionaria e
repubblicana.
Così nel febbraio 1849 vennero spodestati tanto il papa che il
granduca di Toscana.
A Roma si instaurò una Repubblica, nella quale ebbero posizioni
di rilievo Mazzini e, in campo militare, Giuseppe Garibaldi
(1807-1882).
Tuttavia, entro l’anno 1849, tutti i centri di resistenza
italiani vennero sopraffatti.
Roma cadde sotto l’assalto delle truppe francesi che il
presidente Luigi Napoleone Bonaparte aveva inviato, per
compiacere le forze conservatrici che lo appoggiavano in patria,
a rimettere sul trono il papa.
Venezia, invece, finì occupata dalle truppe austriache,
nell’agosto del 1849.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
16- CARATTERI GENERALI DELLO STATUTO ALBERTINO. CONCETTO ED
EVOLUZIONE STORICA GENERALE DELLO STATO A PARTIRE
DALL’ASSOLUTISMO.
Si è già considerato il movimento generale di richiesta delle
Costituzioni.
Più in particolare si è appena vista la concessione delle
Costituzioni in Italia nel 1848.
E’ importante sottolineare che in seguito agli avvenimenti
politici e militari del biennio 1848-1849 l’unica Costituzione
scritta italiana rimasta effettivamente in vigore è stata lo
Statuto concesso da Carlo Alberto, chiamato, appunto, Statuto
albertino.
Si può dire subito che, anche in seguito alle vicende storiche
del Risorgimento e all’importante ruolo avuto per l’unità
d’Italia dal Regno di Sardegna e dalla dinastia dei Savoia, tale
Statuto è stato la carta costituzionale, ossia la Costituzione,
italiana sino a dopo la fine della seconda guerra mondiale.
L’attuale Costituzione, infatti, è entrata in vigore a partire
dal gennaio 1948.
Si deve dire che la Costituzione è una legge. Come tale essa
si presenta divisa in articoli. Si può ora anche aggiungere che
ogni articolo, a sua volta, può essere diviso in commi.
La Costituzione appare come la legge principale. In essa sono
disciplinate le caratteristiche più importanti, fondamentali
di uno Stato.
A questo punto, per ben focalizzare i concetti di Stato e
Costituzione, appare da ricordare che uno Stato è una forma,
abbastanza perfezionata, di organizzazione sociale. Secondo le
concezioni attuali si possono individuare tre elementi che
costituiscono uno Stato moderno: un popolo; un territorio (sopra
il quale questo popolo è stanziato e vive); un’autorità, o
sovranità (l’elemento del potere, che, in vario modo, disciplina
e organizza il popolo, e l’intero Stato).
Percorrendo, a grandi linee, con uno sguardo generale, la storia
dello Stato moderno nella sua evoluzione incontriamo dapprima
lo Stato assoluto.
Lo Stato assoluto è quello Stato nel quale tutti i poteri
appartengono ad una sola persona (monarchia assoluta) o ad un
ristretto gruppo di persone.
Già nel XVIII secolo contro questa concezione pensatori e uomini
politici individuarono la necessità di una divisione dei poteri
tra vari organi. Già allora vennero individuati, distinti il
potere legislativo, quello esecutivo, quello giudiziario.
Si ricorda che lo Stato organizzato con il sistema della divisione
dei poteri si chiama Stato costituzionale.
Nella storia, dunque, dietro il sorgere dello Stato
costituzionale si trova l’esigenza di una limitazione dei
poteri del monarca assoluto. Una limitazione, questa, che si
cerca di realizzare con il sistema della divisione dei poteri
e che, ancora, si appoggia e si garantisce su una carta
costituzionale scritta.
L’esigenza che si è vista sta dietro anche le richieste delle
Costituzioni italiane nel 1848 e, quindi, anche dietro lo Statuto
albertino.
La Costituzione concessa da Carlo Alberto riservava notevole
influenza al monarca.
Il potere legislativo apparteneva al re e al Parlamento. Il
Parlamento era diviso in Camera e Senato. I membri del Senato
erano nominati dal monarca; quelli della Camera venivano eletti.
Il potere esecutivo doveva appartenere al monarca. Secondo
diffuse interpretazioni del testo dello Statuto i ministri del
governo dovevano avere la fiducia del re, e non anche quella
del Parlamento (cosiddetta monarchia costituzionale pura).
Comunque il sistema di governo si orientò nella pratica in senso
parlamentare (con rapporto di fiducia anche tra Parlamento e
Governo).
Va detto che la base elettorale della Camera elettiva era
estremamente ristretta.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
17- POLITICA DI CAVOUR. GUERRA DI CRIMEA. ACCORDI CON LA FRANCIA.
Si è già accennata la ristrettezza del suffragio popolare per
le elezioni della Camera.
Conseguenza di una tale ristrettezza veniva anche ad essere,
sotto certi aspetti, una sostanziale omogeneità sociale della
base elettorale degli schieramenti parlamentari.
In tal senso può dirsi subito che mancavano, nel primo periodo
di vigenza dello Statuto albertino, veri e propri partiti
popolari di massa, come successivamente sarebbero apparsi nella
storia d’Italia.
In base a queste premesse si può anche capire l’accordo, il
cosiddetto “connubio”, tra i liberali moderati e la sinistra
moderata di Urbano Rattazzi (1808-1873) che, nel 1852, poté dare
al liberale Camillo Benso di Cavour (1810-1861) sufficiente base
parlamentare per portare avanti, come Presidente del Consiglio,
una significativa opera di rinnovamento e di affermazione dello
Stato piemontese.
Si è notato da parte degli storici che con Cavour, e con la sua
politica, si è sempre più affermato e rafforzato il sistema
parlamentare.
Dal punto di vista della vita economica lo statista fu favorevole
al libero scambio. Egli incoraggiò il progresso economico del
Regno di Sardegna. Nel periodo che vide la sua supremazia politica
si moltiplicarono le ferrovie.
Cavour portò pure avanti in modo significativo il problema
dell’unità italiana. Anche grazie alla sua opera il Regno di
Sardegna si confermò sempre più essenziale soggetto attivo del
Risorgimento.
Lo statista vide il problema dell’unità d’Italia inserito in
un più ampio contesto internazionale. E, in questo più ampio
contesto, egli lavorò da un lato per mettere costantemente al
centro dell’attenzione la questione italiana, da un altro lato
per mostrare che soltanto quella moderata e liberale
rappresentata dal Regno di Sardegna sarebbe stata la soluzione
migliore per il problema. Una soluzione, tra l’altro, che sola
avrebbe potuto evitare un ripetersi di rivolte e di attentati
potenzialmente pericoloso per tutto l’ordine sociale europeo.
Per dare, dunque, visibilità alla causa italiana, Cavour
partecipò, in appoggio a Francia e Inghilterra, ad una guerra
contro l’Impero russo, la cosiddetta guerra di Crimea, inviando,
nel 1855, un contingente di 18.000 soldati.
Il contesto generale internazionale era segnato dal tentativo
della Russia di espandersi a spese del decadente Impero ottomano,
tentativo contrastato da Francia e Inghilterra. L’Austria fu
esitante, anche in considerazione dell’aiuto fornitole
dall’Impero zarista nella repressione della ribellione
ungherese, ma, poi, si avvicinò, con accordi diplomatici di
alleanza, all’Impero francese e a quello inglese. Anche se nella
guerra di Crimea non vi furono scontri armati tra Impero austriaco
(rimasto neutrale) e Russia, gli avvenimenti diplomatici citati
segnarono un rilevante peggioramento nel rapporto tra i due Stati
e, tra l’altro, la fine di quella politica della Santa Alleanza
che su tale rapporto essenzialmente si basava.
Dopo un lungo assedio alla città russa di Sebastopoli, nella
penisola di Crimea, l’Impero zarista venne sconfitto.
Il Regno di Sardegna non ebbe contropartite territoriali per
il suo intervento, ma poté partecipare, con la fine della guerra,
al Congresso di Parigi, nel 1856, dando rilievo internazionale
alla propria posizione politica e alle esigenze dell’autonomia
italiana.
Successivamente Cavour, anche richiamando, come già si è
accennato, la paura di rivolte e attentati, rafforzò un
orientamento teso all’alleanza con la Francia.
Napoleone III, che aveva acquistato prestigio con la guerra di
Crimea, aveva interesse ad una diminuzione del rilievo politico
dell’Impero austriaco. Aveva inoltre interesse ad un’espansione
dell’influenza francese nell’Italia centrale e meridionale.
Dal canto suo Cavour, dinanzi alla situazione italiana, poteva
porre come suo primo obiettivo fondamentale la formazione di
un forte Stato occupante l’Italia settentrionale. Uno Stato che,
per la sua forza, la sua organizzazione e la sua ricchezza, si
sarebbe posto come punto di riferimento, centro di attrazione
per il rimanente popolo italiano.
La politica di avvicinamento di Piemonte e Francia ebbe un suo
momento decisivo nell’incontro, segreto, a Plombieres, nel
luglio 1858, tra Cavour e Napoleone III. Venne, tra l’altro,
deciso l’intervento francese a fianco del Regno di Sardegna
contro l’Austria, purché, peraltro, per il Piemonte fosse una
guerra difensiva, in seguito ad attacco austriaco.
Venne, inoltre, stabilito che Nizza e Savoia passassero alla
Francia.
L’Austria finì con il favorire i disegni di Cavour, che desiderava
la guerra.
Così, nell’aprile del 1859, l’Impero austriaco prima invitava
il Regno di Sardegna, con un ultimatum, al disarmo, e,
successivamente, quando Cavour, il 26 aprile, rifiutava tale
ultimatum, iniziava il conflitto.
Ebbe, pertanto, inizio la seconda guerra di indipendenza.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2001/2002
Prof. Frontini
18- VICENDE ITALIANE DALLA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA A ROMA
CAPITALE.
La seconda guerra di indipendenza italiana iniziò, come visto,
il 26 aprile 1859.
Già il giorno successivo scoppiò un’insurrezione popolare in
Toscana che spinse il granduca, Leopoldo II (1797-1870), a
fuggire.
I successi dell’esercito franco-piemontese (con le battaglie
di Montebello, Magenta, Solferino e San Martino), affiancato
validamente da un corpo di volontari guidato da Giuseppe
Garibaldi, si intrecciarono con insurrezioni popolari. Si ebbero
così rivolte anche in Emilia, nelle Marche, in Umbria. Peraltro
in queste due ultime regioni la rivolta venne sconfitta.
La presenza di questi scoppi rivoluzionari rappresentò un
elemento nuovo rispetto ai piani e alle previsioni di Napoleone
III. Infatti la nuova situazione creatasi anche nell’Italia
centrale con queste insurrezioni aggiungeva pure difficoltà al
progetto di una forte influenza francese nell’Italia
centro-meridionale.
Gli storici hanno inoltre richiamato, tra le varie ragioni di
perplessità della Francia, la paura di un intervento armato della
Prussia in aiuto dell’Austria.
Così si giunse ad un armistizio tra Francia ed Austria, a
Villafranca, nel luglio 1859, in base al quale l’Austria avrebbe
ceduto solo la Lombardia alla Francia per poi essere la stessa
Francia a cedere questa regione al Regno di Sardegna.
Per il resto della penisola si prevedeva il ritorno alla
situazione politica originaria.
In seguito agli accordi austro-francesi, pur sentiti da Cavour
e dai patrioti come un vero tradimento degli accordi di
Plombieres, il Regno di Sardegna acquistò, dunque, la Lombardia.
Il ritorno alla situazione precedente alla guerra del 1859 si
dimostrò nell’Italia centrale impossibile. Infatti i governi
provvisori che qui si erano formati in conseguenza dell’azione
dei patrioti resistettero nella loro volontà unitaria,
organizzando anche un esercito comune.
Considerando l’orizzonte internazionale, gli storici hanno anche
messo in evidenza che l’Inghilterra non poteva essere favorevole
ad un rafforzamento dell’influenza francese in Italia, mentre
Napoleone III, con l’acquisto alla Francia di Nizza e Savoia
cedute dal Regno di Sardegna, poteva anche consentire la
realizzazione di plebisciti nelle regioni dell’Italia centrale
per decidere l’unione delle stesse con lo Stato piemontese.
In questo modo, dopo i fatti del 1859, si ebbe in primo luogo
l’unione al Regno di Sardegna di Toscana, Emilia Romagna.
Lo sviluppo dell’unità politica italiana interessò pure il Regno
delle Due Sicilie.
Così, anche in seguito ad una situazione insurrezionale in
Sicilia, nell’anno 1860, Giuseppe Garibaldi guidò una
spedizione, appunto, in Sicilia (la cosiddetta spedizione dei
Mille). Grazie, tra l’altro, al malcontento del popolo e alle
notevoli doti militari e politiche di Garibaldi i Borboni
dovettero abbandonare l’isola.
L’esercito garibaldino sbarcò quindi in Calabria e, dopo aver
liberato Napoli, sconfisse le truppe borboniche in una battaglia
al fiume Volturno.
Con la spedizione dei Mille parve svilupparsi il movimento
democratico.
Nei progetti garibaldini poteva individuarsi, dopo la sconfitta
del Regno delle Due Sicilie, l’attacco allo Stato Pontificio,
la liberazione di Roma.
Il raggiungimento completo di questo obiettivo avrebbe condotto,
tra le altre conseguenze, ad un contrasto con la Francia di
Napoleone III, che proteggeva il papa.
Dopo accordi tra Cavour e l’imperatore francese, intervenne
l’esercito piemontese che, occupando Umbria e Marche (annesse
con plebiscito),impedì a Garibaldi di raggiungere Roma.
Anche il Regno delle Due Sicilie veniva annesso con plebiscito.
La soluzione moderata al problema italiano apparve realizzata
quando, il 17 marzo 1861, in Parlamento venne proclamato Vittorio
Emanuele II re d’Italia, con la formula “per grazia di Dio e
volontà della Nazione”.
Il 6 giugno 1861 moriva Cavour. L’intuizione, che era stata sua,
di porre e di iniziare a risolvere il problema italiano in un
orizzonte di attenzione alla scena diplomatica internazionale
venne utilizzata, per completare l’unità, anche dai suoi
successori.
Così, nel 1866, si può trovare l’Italia alleata alla Prussia
contro l’Austria (terza guerra di indipendenza italiana).
La preparazione militare prussiana, che fu decisiva ai fini della
sconfitta dell’Austria, era notevole. Al contrario l’Italia
venne battuta nella battaglia di Custoza e nella battaglia navale
di Lissa (unica vittoria italiana la ebbe Garibaldi, a Bezzecca).
Essendo comunque stata sconfitta, l’Austria cedette il Veneto.
Non reputandosi battuta dall’Italia, cedette questa regione a
Napoleone III, che la passò al nuovo Regno italiano. Anche il
Veneto fu annesso con plebiscito.
Ancora venne dalla situazione internazionale l’occasione
favorevole al ricongiungimento all’Italia di Roma e del Lazio.
Il Regno italiano approfittò infatti della sconfitta di Napoleone
III, protettore, come visto, dello Stato Pontificio, in una
guerra tra Francia e Prussia scoppiata nel luglio 1870.
Il 2 settembre 1870 Napoleone III venne battuto a Sedan; il 20
settembre 1870 le truppe italiane entrarono a Roma.
Così, dopo Torino e Firenze (proclamata capitale, nel 1864, per
tranquillizzare l’imperatore francese sull’assenza della
volontà di attaccare lo Stato pontificio), Roma divenne capitale
del nuovo Stato italiano, secondo l’idea tradizionale dei
patrioti del Risorgimento
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
19- UNITA’ DELLA GERMANIA.
Si è già richiamato, trattando del 1848 in Europa, che i moti
tedeschi furono anche fortemente caratterizzati dall’esigenza
della Germania unita.
Si può, così, ricordare ancora, in questo orizzonte unitario,
il ruolo del Parlamento di Francoforte.
Si è pure visto che, entro gli Stati in cui era divisa la Germania,
particolare importanza aveva il regno di Prussia.
Va messo in rilievo che, dopo il Congresso di Vienna, l’Impero
austriaco aveva la presidenza della Confederazione germanica,
nella quale erano riuniti 39 Stati tedeschi.
L’Impero asburgico aveva dunque una posizione di rilievo in
Germania.
Una posizione, questa, che doveva condurre ad una situazione
di contrasto tra Austria e Prussia.
E’ anche da ricordare che, dinanzi a questo stato di cose, coloro
che, per motivi economici e politici, desideravano per la
Germania una soluzione unitaria potevano avere come punto di
riferimento o l’Impero austriaco (secondo un programma chiamato
grande-tedesco) o il regno di Prussia senza Impero austriaco
(programma chiamato piccolo-tedesco).
Va detto che in Prussia il progresso economico stava avendo un
grande sviluppo (e, trattando la rivoluzione industriale e le
sue tappe, si è già considerato come la Germania, ad un certo
punto, abbia superato nella produzione di acciaio anche la Gran
Bretagna).
Così, ancora, è ad impulso della Prussia che si costituisce,
già nel 1834, un’unione doganale, lo Zollverein. Un’unione
destinata a toccare, e ad unire economicamente, i paesi dell’area
tedesca, con la rilevante esclusione dell’Austria.
Allo sviluppo della forza economica si è accompagnato
l’accrescimento e la valorizzazione della forza militare.
Forza economica e forza militare misero in grado lo Stato
prussiano di concludere il processo di unificazione politica
della Germania.
Fu Ottone di Bismarck (1815-1898) l’uomo politico che, anche
in modi contrapposti a quelli suggeriti dagli ideali
rivoluzionari-democratici del 1848, si adoperò per questa
unificazione.
Dietro l’unificazione tedesca gli storici hanno anche potuto
individuare un’alleanza tra classe borghese, interessata allo
sviluppo economico, e vecchia nobiltà prussiana.
Bismarck portò avanti una politica antiaustriaca. Si giunse così,
nel 1866, ad una guerra nella quale la Prussia, alleata
all’Italia, combatté e sconfisse l’Austria.
In seguito a questa guerra (con la quale, si ricorda, il Regno
d’Italia
acquistò
il
Veneto)
la
Prussia
procedette
all’annessione di alcuni Stati tedeschi settentrionali e della
città di Francoforte. Inoltre la Prussia ebbe posizione
preminente tra gli Stati riuniti nella Confederazione tedesca
del Nord.
La sempre maggiore potenza prussiana non poteva non preoccupare
la Francia di Napoleone III. Va anche detto, sotto un altro
aspetto, che Bismarck stesso desiderava una guerra con la
Francia. Una guerra che, tra l’altro, gli avrebbe permesso di
completare e consolidare l’unità tedesca, sotto il dominio
prussiano.
Effettivamente il conflitto franco-tedesco scoppiò, nel 1870.
Si risolse, come già visto, con la sconfitta di Napoleone III
(e si è pure già considerato come questa sconfitta consentì alle
truppe italiane di entrare a Roma).
In seguito alla vittoria prussiana, il 18 gennaio 1871 fu
proclamato l’Impero tedesco, nel quale confluirono anche gli
Stati della Germania meridionale, oltre ai territori
dell’Alsazia e della Lorena sottratti alla Francia. Il re di
Prussia, Guglielmo I (1797-1888), divenne così imperatore della
Germania unita.
Se, come abbiamo visto considerando lo Statuto albertino e la
sua applicazione, in Italia la forma di governo si sviluppò in
senso parlamentare, in Germania, invece, i ministri dovevano
avere la fiducia del monarca, non del Parlamento. Si è, comunque,
osservato che il Primo Ministro (detto Cancelliere) poteva anche
avere, come è stato nel caso di Bismarck, notevolissima autonomia
ed influenza.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
20- SVILUPPO INDUSTRIALE, RICERCA SCIENTIFICA E MIGLIORAMENTO
DELLE CONDIZIONI DI VITA NELLO SVILUPPO DEL XIX SECOLO.
POSITIVISMO.
Nel corso del secolo XIX, come visto, si è potuto assistere ad
un crescente sviluppo della scienza, legato e amplificato dal
sempre più stretto legame tra ricerca scientifica e crescita
dell’industria.
Le scoperte della scienza e della tecnologia e lo sviluppo
industriale hanno indubbiamente portato grandi e importanti
benefici alla società umana.
Si può così pensare, ad esempio, alla celerità delle
comunicazioni e dei trasporti. Ma anche, e soprattutto, sono
da ricordare le applicazioni della chimica a nuovi concimi per
l’agricoltura e a nuovi farmaci per la salute. Inoltre la ricerca
chimica ha contribuito alla diffusione di un sempre maggiore
grado di igiene.
La considerazione della ricerca scientifica e dei suoi benefici
effetti ha spinto ad una visione ottimistica, diffusa nella
società (in maggior misura nella classe borghese), nella
sicurezza di poter risolvere, prima o poi, i principali problemi
della vita umana. In questo quadro, la considerazione della
ricerca ha pure spinto la nascita di un movimento culturale e
di pensiero: il Positivismo. Un movimento, questo, che richiama
e valorizza, fin dal suo stesso nome, la necessità di rivolgere
lo studio a fatti reali e concreti (appunto “positivi”) e
l’efficacia della scienza.
Con il Positivismo si sottolinea e si dà valore, nella ricerca
scientifica, allo studio attento, sperimentale, dei fatti;
studio da applicare, oltre che alla natura, pure alla società
umana.
Fondatore del Positivismo fu il pensatore francese Auguste Comte
(1798-1857). In Inghilterra sono da ricordare John Stuart Mill
(1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903).
Anche ai fini dello studio dei rapporti tra scienza e filosofia,
appare significativo richiamare la teoria scientifica di Charles
Darwin (1809-1882) sull’evoluzione (e, quindi, mutabilità nel
tempo) delle specie animali. Un’evoluzione, secondo Darwin,
orientata, sulla base di una variabilità naturale degli
organismi, da un principio di selezione, ossia di adattamento
degli esseri viventi alle condizioni naturali e al mutare di
queste
(maggiore
successo
degli
animali
aventi
le
caratteristiche fisiche più adatte all’ambiente). Va rilevato
come il modello evoluzionistico sia stato ripreso e utilizzato
per spiegare aspetti della psicologia e della vita in società
degli uomini. Tra gli autori che hanno sviluppato questa
estensione dell’evoluzionismo alla vita sociale si trova il
filosofo positivista Spencer.
Sotto un altro punto di vista, la corrente ottimista di cui si
parla trova una propria particolare accentuata espressione in
Francia, con la cosiddetta Belle époque (bella epoca), tra la
fine del secolo XIX e lo scoppio del primo conflitto mondiale
(1914), un periodo contrassegnato dalla diffusione delle
comodità, dalla ricerca del divertimento, dalla fiducia nel
valore dello sviluppo dell’industria.
Di fronte al quadro di ottimismo appena tracciato, va rilevato
che, come bene evidenziato da Marx, nella società della seconda
metà del XIX secolo erano presenti anche gravi difficoltà e
contraddizioni laceranti.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
21- INNOVAZIONE SCIENTIFICA, MACCHINE E LAVORO NELLO SVILUPPO
DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE.
Si è già parlato, considerando il sistema di produzione moderno,
della necessità della divisione del lavoro. Una divisione che
ha contribuito ad aumentare la dipendenza dei lavoratori dalle
macchine, in maniera tale che il lavoratore stesso finiva con
il diventare, pure lui, quasi una macchina, una specie di
appendice di essa.
Lo scopo di fondo appare, chiaramente, quello di far raggiungere
all’imprenditore un guadagno (profitto) sempre maggiore.
La dipendenza del lavoratore dalle macchine, sviluppatasi nel
secolo XIX, è cresciuta ancora nel secolo XX.
Così, in questo senso, nascono e si diffondono le ricerche di
un’organizzazione scientifica del lavoro (è rimasto famoso il
contributo dell’ingegnere Frederick Winslow Taylor, 1856-1915).
Si adotta il sistema della catena di montaggio, un nastro che
può portare il lavoro davanti ai lavoratori senza farli spostare.
Si può ricordare un film del 1936, Tempi moderni, di Charles
Chaplin (1889-1977), che è anche una illustrazione in senso
satirico di questa catena di montaggio e dei suoi costi umani.
Il sistema della produzione moderna (nei secoli XIX e XX) è così
molto diverso dal sistema della produzione artigianale nel Medio
Evo. Nel sistema del Medio Evo, infatti, un artigiano, che sa
fare da solo tutto il lavoro, provvede alla completa produzione
dell’oggetto.
Appare interessante accennare che il sistema artigianale, in
cui è molto importante il lavoro fatto a mano, è anche collegato
alla personale bravura artistica del lavoratore. Mentre si
osserva ancora che l’introduzione delle macchine nella attività
produttiva sempre più ha causato la fabbricazione di prodotti
in serie, tutti uguali tra loro.
Riassumendo: i progressi della scienza hanno contribuito ad
aumentare i profitti degli imprenditori anche aumentando la
produttività del lavoro, ossia facendo produrre maggiormente
il singolo lavoratore e, conseguentemente, rendendo inutile
l’opera di altri operai.
Subito molti studiosi di economia notarono che una riduzione
del numero dei lavoratori utilizzati e, contemporaneamente, il
salario molto basso di quelli che rimanevano occupati poteva
provocare grandi difficoltà nella vita economica. Infatti il
lavoratore non soltanto è colui che lavora alle dipendenze
dell’imprenditore ma è anche un compratore, con i soldi del
proprio salario, dei prodotti fabbricati. Ora, se molti
lavoratori perdono il posto e rimangono senza salario essi
diminuiranno i loro acquisti e tanti prodotti fabbricati
rimarranno non venduti. Si è così in presenza di crisi di
sovrapproduzione, nelle quali l’offerta di prodotti da parte
dell’imprenditore è superiore alla domanda di questi prodotti
che, quindi, non vengono acquistati.
Appare necessario ricordare che la innovazione scientifica, la
sempre più vasta e completa applicazione della scienza al mondo
della produzione richiedeva ricchezze sempre più grandi. Questa
necessità di grandi ricchezze, o, come si può dire meglio, di
grandi capitali, ha avuto varie conseguenze.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini.
22CARATTERISTICHE
DELLO
SVILUPPO
DELL’ORGANIZZAZIONE
ECONOMICA CAPITALISTICA A PARTIRE DALLA SECONDA META’ DEL SECOLO
XIX.
Si è già parlato della necessità di grandi capitali per la vita
delle imprese.
Si può dire che molti economisti hanno individuato, e hanno
sottolineato, le varie esigenze, tecniche ed economiche, che
sono alla base della crescita della dimensione delle imprese
e della crescita dei capitali ad esse necessari.
Si dice subito che la produzione, anche in considerazione dei
grandi capitali necessari, tende sempre più a concentrarsi in
poche grandi imprese.
Va detto inoltre che, in collegamento con il richiamato bisogno
di risorse, nella seconda metà del secolo XIX hanno una grande
diffusione le società per azioni.
Infatti un solo imprenditore, un imprenditore individuale può
anche non avere capitale sufficiente. Un soggetto, allora, può
accordarsi con altri soggetti formando con loro una società.
La società diventa così un altro tipo di imprenditore.
Bisogna, quindi, ricordare che i tipi di imprenditore,
fondamentalmente, sono due: l’imprenditore individuale e la
società.
Con la società più parti si accordano tra loro per mettere insieme
un capitale (che viene ad essere più grande di quello su cui
potrebbe contare ogni singola persona) destinato all’attività
imprenditoriale. Nelle società per azioni questo capitale viene
suddiviso in tante piccole quote, che sono definite, appunto,
azioni.
E’
necessario
ricordare
inoltre
la
possibilità
per
l’imprenditore di richiedere prestiti al sistema delle banche,
che nella parte finale del secolo XIX stava avendo un grande
sviluppo. Va anche fatto presente l’intreccio che, in questo
modo, si veniva a creare tra attività industriale e attività
di raccolta e prestito del risparmio esercitata dal sistema
bancario. Va così anche rilevata l’influenza del sistema bancario
sull’attività industriale.
Si è accennato alla concentrazione della produzione in poche
grandi imprese. In maniera collegata la maggior parte dei
capitali tende ad essere accumulata nelle mani di queste poche
imprese.
Si è avuta, dunque, una tendenza all’affermazione di poche
imprese sempre più forti, e all’accordo tra queste imprese per
tenere sotto controllo le situazioni legate al mercato, ossia
le situazioni legate alla domanda e all’offerta dei prodotti.
Gli storici hanno notato come la tendenza di cui si è appena
parlato abbia registrato un sostanziale e decisivo sviluppo in
collegamento con un periodo di crisi economica, iniziato nel
1873.
Così, in questo periodo, le piccole e medie imprese non hanno
avuto la forza di resistere alla crisi e alla concorrenza delle
grandi imprese e sono fallite.
Si può anche ricordare, in questo stesso discorso, la possibilità
per le imprese non grandi di fondersi insieme, diventando, in
tal modo, un soggetto unitario con più grandi dimensioni e più
grandi risorse.
E’ importante sottolineare come con l’affermazione della
tendenza generale che stiamo considerando sia cambiato, come
già accennato, anche l’aspetto delle situazioni di mercato.
Dunque, dopo lo sviluppo della concorrenza, della gara tra molti
imprenditori che ha caratterizzato fin dal secolo XVIII la
filosofia economica della classe borghese e che ha avuto un
momento di più forte affermazione generale tra il 1850 ed il
1870, si ha ora, a questo punto, o un mercato controllato da
poche imprese (situazione di oligopolio) oppure da una sola
impresa (situazione di monopolio).
Le crisi economiche, da una parte, e, da un’altra parte, la
considerata evoluzione dei mercati in senso contrario ai principi
puri della concorrenza e dei liberisti hanno portato anche gli
Stati ad intervenire, riutilizzando il sistema di imporre un
dazio (ossia un’imposta, il pagamento di una somma di danaro)
sui prodotti fabbricati all’estero che vengono importati
(protezionismo). In questo modo il prodotto fabbricato
all’estero costa di più (prezzo del prodotto più il dazio) e
gli imprenditori che lavorano nel territorio dello Stato vengono
aiutati a vendere il loro prodotto.
Appare significativo, a questo punto, mettere in rilievo il
collegamento tra i fenomeni ora visti ed altri fenomeni
dell’ultima metà del XIX secolo, già considerati prima, quali
l’organizzazione scientifica del lavoro e la cosiddetta seconda
rivoluzione industriale. Tutti questi fenomeni rappresentano
modi di sviluppo del capitalismo ottocentesco e tentativi di
soluzione dei suoi motivi di crisi.
Il periodo finale del XIX secolo, caratterizzato, fra l’altro,
dall’affermazione dei monopoli, viene anche definito età
dell’imperialismo.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011/2012
23- COLONIALISMO ED ECONOMIA.
Abbiamo già parlato delle crisi di sovrapproduzione. Abbiamo
così visto che nel mercato l’offerta dei prodotti da parte degli
imprenditori può essere maggiore della richiesta.
Nasce così la necessità di far diventare più grande la domanda
dei prodotti.
Questa necessità è una delle ragioni del colonialismo.
Si dice ‘colonia’ un territorio che si trova fuori dei confini
di uno Stato, anche in un altro continente, e che, nello stesso
tempo, dipende da quello Stato, a causa, per esempio, di una
occupazione militare.
Si sono detti ‘potenze coloniali’ quegli Stati ricchi e potenti
(come l’Inghilterra e la Francia) che hanno avuto colonie.
Guardando la Storia, ed anche la Geografia, si può ora ricordare
e considerare che già tra XV e XVI secolo formarono loro imperi
coloniali Portogallo e Spagna. Va detto che le vicende storiche
di questi due Stati, sostanzialmente caratterizzate dal
prevalere dell’assolutismo e dalla sconfitta delle esigenze
economiche borghesi, hanno condotto ad una situazione di
arretratezza anche i loro territori coloniali.
Successivamente sviluppò un proprio sistema di colonie,
caratterizzato da una maggiore efficienza economica, l’Olanda.
L’Inghilterra, dove, come visto, ebbe inizio la rivoluzione
industriale, creò un vasto impero coloniale.
Con l’età dell’imperialismo, caratterizzata dal superamento,
per molti aspetti, dei principi della concorrenza, la formazione
di sistemi coloniali, da parte dei vari Stati, ebbe una forte
accelerazione.
Con le loro colonie le potenze coloniali cercano di garantirsi
un mercato dove vendere i propri prodotti. Cercano di garantirsi
anche un rifornimento continuo di materie prime e una
utilizzazione più vantaggiosa del capitale da impiegare.
Può anche dirsi che le potenze coloniali hanno protetto gli
interessi delle loro imprese con gli eserciti.
I Paesi europei hanno anche parlato di un colonialismo necessario
a portare la civiltà ai popoli degli altri continenti.
Molti hanno rilevato in questo atteggiamento un sostanziale
razzismo .
Storici ed economisti sostengono che, ancora in tempi recenti,
in Africa e in Asia, si sono viste le conseguenze negative della
politica coloniale. Così si sostiene che nelle colonie le potenze
coloniali non hanno permesso la nascita di industrie,
contribuendo a provocare danni e ritardi economici.
Sul finire del secolo XIX Africa e Asia vennero sostanzialmente
spartite tra gli Stati europei.
Così, con la fine del secolo XIX, la lotta economica diviene
pure lotta politica tra i maggiori Stati d’Europa, e si profilano
anche rischi di guerre.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011/2012.
24- SGUARDO GENERALE
COLONIALISMO.
SULLA
SITUAZIONE
IN
ASIA
FINO
AL
Il territorio asiatico si presentava diviso in vari grandi Stati.
Si ricorda che già nel VII secolo dopo Cristo, nella penisola
araba, il sorgere di una nuova religione monoteista, quella
musulmana, fece da spinta ad una nuova organizzazione sociale.
Va annotato che per l’Islam la rivelazione data da Dio al profeta
Muhammad (noto, in Occidente, come Maometto) rappresenta il
completamento ed il perfezionamento di verità già contenute
nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. Così la religione musulmana
considera come profeti anche Abramo, Mosè e Gesù Cristo.
Maometto (570 circa-632), ricevuta la rivelazione divina
(esposta nel Corano, il libro sacro della religione islamica),
riuscì a convertire e a riunire le popolazioni arabe (popolazioni
nomadi e popolazioni sedentarie) politeiste. Per ottenere questo
risultato ricorse pure ad una politica di espansione militare,
anche aiutandosi con il concetto di guerra santa contro gli
infedeli. La politica di espansione militare venne continuata
dai suoi successori. Gli eserciti arabi giunsero in Africa
settentrionale, occuparono quasi tutte le sponde del
Mediterraneo e, in Asia, conquistarono la Persia e giunsero sino
all’India settentrionale. Va detto, inoltre, che la religione
musulmana si espandeva anche ad opera dei mercanti.
E’ importante tener presente che il libro sacro dell’Islam
(Corano) è anche un testo normativo, sopra il quale si costruisce
il sistema del diritto musulmano.
Fino circa al IX-X secolo i territori conquistati dagli Arabi
erano governati da un unico califfo.
Successivamente nei vari territori, che pure rimanevano
musulmani, si fecero strada spinte e tendenze ad una maggiore
autonomia.
Inoltre, nella direzione del movimento di espansione dell’Islam,
al gruppo etnico arabo finì con il sostituirsi un altro gruppo,
quello dei Turchi, affini ai Mongoli.
Così, a partire dal XIV secolo, dall’Anatolia, i Turchi Ottomani
diedero forte impulso militare all’espansionismo islamico.
L’Impero Ottomano, che prende il proprio nome dal fondatore,
Othman, tra XVI e XVII secolo si estendeva su tre continenti.
Oltre ai territori asiatici tale impero comprendeva infatti
l’Africa settentrionale e l’Europa orientale. Si può vedere in
Geografia che, ancora oggi, l’attuale Turchia occupa anche una
piccola parte d’Europa, nella penisola Balcanica.
Procedendo verso est, dopo l’Impero Ottomano veniva quello
Persiano e, quindi, l’Impero Moghul, nella Regione Indiana.
Elemento comune significativo di questi tre imperi era
rappresentato dalla religione musulmana.
Peraltro si può ricordare la rivalità politica e militare tra
Impero Ottomano e Impero Persiano. Una rivalità che ha anche
radici religiose.
Occorre richiamare, a questo punto, una divisione importante
ancora presente nel mondo islamico: quella tra Sunniti e Sciiti.
Una divisione che trova la propria origine nelle questioni sorte
sulla successione di Maometto e nella quale si riflette un
intreccio di problemi politici e religiosi.
Gli Sciiti, che rappresentano una minoranza dei musulmani, si
differenziano dai Sunniti perché danno particolare rilevanza
religiosa alla figura del califfo Ali ibn Abi Talib (602-661),
genero del profeta (marito della figlia Fatima) e suo quarto
successore, morto assassinato nell’ambito delle lotte per il
potere avvenute dopo Maometto.
A partire dal XVI secolo la religione in Persia è musulmana sciita
e ciò, come accennato, ha contribuito a produrre ed aggravare
i contrasti con l’Impero Ottomano, sunnita.
Nella Regione Indiana l’impero detto Moghul, con un nome che
riecheggia la provenienza mongola dei sovrani, a partire dal
XVI secolo procedette ad un’opera di unificazione dei vari Stati
presenti nel territorio. Cominciò dunque il fondatore, Babur
(1482-1533), proveniente dall’Afghanistan, con la zona indiana
settentrionale, che era stata già toccata dall’espansione
musulmana.
Successivamente questa politica di unificazione si sviluppò
ancora, fin quasi a completarsi con la fine del secolo XVII.
E’ necessario ricordare, comunque, come il rafforzamento
dell’impero musulmano Moghul non significò la fine delle altre
religioni della regione, a cominciare da quella induista. E’
stato detto che proprio la tolleranza mostrata dai sovrani in
materia religiosa ha facilitato l’unificazione.
Più ad est, nella carta dell’Asia, troviamo l’Impero Cinese,
un impero vasto e potente che già con il XVIII secolo tese ad
isolarsi limitando le influenze e i commerci europei.
Politica, questa, che venne seguita anche dal Giappone.
Complessivamente tra XVIII e XIX secolo l’Asia si presenta divisa
in vari Stati, grandi e di antica civiltà ma anche, per vari
motivi, in decadenza e afflitti da varie difficoltà e
contraddizioni.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
25- SGUARDO GENERALE SU DIFFICOLTA’ E CONTRADDIZIONI DEGLI STATI
ASIATICI.
Si può dire che storici e storici dell’economia hanno individuato
varie grandi difficoltà economiche, culturali e politiche degli
Stati asiatici.
Si è così, tra l’altro, parlato di cause di crisi collegate,
nei grandi imperi multietnici, ai contrasti tra etnie e
religioni.
Abbiamo già visto le stesse rivalità tra imperi, pure entro il
mondo musulmano, come quella che divise Impero Ottomano e Impero
Persiano, rivalità anche legata al contrasto tra Sunniti e
Sciiti.
Gli storici hanno, inoltre, parlato di cause più strettamente
economiche.
Così, con riferimento all’Impero Ottomano, si è anche
sottolineata l’importanza dello spostamento delle rotte
commerciali, dopo le scoperte geografiche compiute dagli
Europei.
Già nel XV secolo le potenze asiatiche non furono in grado di
impedire al Portogallo di raggiungere l’Oceano Indiano e di
espandervi il proprio impero commerciale.
Tra l’altro, le navi portoghesi, e, più in generale, le flotte
europee, si perfezionarono tecnicamente sempre più, anche per
quel che riguarda gli armamenti a bordo.
Il discorso poi dell’innovazione scientifica e tecnologica è
un discorso di grande importanza per segnare la differenza tra
sviluppo europeo e mondo asiatico.
Certamente studio scientifico e scoperte tecnologiche erano
presenti anche in Asia. Bisogna ricordare, a questo proposito,
una civiltà antica, raffinata e perfezionata come quella cinese.
Per fare soltanto un esempio, la scoperta della stampa a caratteri
mobili si fa risalire alla Cina del secolo XI.
Quel che manca alle civiltà orientali, e che caratterizza,
invece, quella occidentale, è la sempre più grande applicazione
della scienza al mondo della produzione, quale abbiamo trovata
trattando la rivoluzione industriale. Un’applicazione dietro
la quale anche si vede uno sviluppo della borghesia
imprenditoriale, con una ricerca del profitto, che, nei paesi
orientali, non si è avuto.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
26- PENETRAZIONE EUROPEA IN ASIA. SITUAZIONE CINESE.
Considerando storicamente la carta geografica dell’Asia, nella
zona occidentale abbiamo trovato l’Impero Ottomano.
Si sono anche viste alcune ragioni di crisi di questo impero.
Gli storici hanno osservato che l’Impero Ottomano, nel suo
periodo di decadenza, ha resistito, e non è crollato, non per
la sua forza, ma per la situazione internazionale e la rivalità
tra le potenze importanti. Così la Francia e l’Inghilterra
temevano che l’Impero Russo potesse espandersi sui territori
dell’Impero Turco e diventare più forte.
L’espansione coloniale europea si sviluppò nell’Asia meridionale
e sud-orientale.
Occorre ora sottolineare che neanche l’Impero Moghul sfuggiva,
tra XVII e XVIII secolo, alle difficoltà e all’avanzante
decadenza che colpivano gli altri Stati asiatici.
Tra l’altro si faceva sentire la pressione commerciale europea.
Vanno, poi, ancora richiamati i conflitti tra le etnie. In
particolare, inoltre, si ricorda l’intolleranza della politica
religiosa, sul finire del XVII secolo, dell’imperatore Aurangzeb
(1618-1707). Un’intolleranza che giunse anche alla distruzione
di templi della religione induista.
Per motivi religiosi e per motivi economici scoppiarono varie
rivolte.
In conseguenza di tutte queste cause la Regione Indiana finì
con il dividersi di nuovo di fatto in varie entità statali.
Questa crisi favorì gli interessi di dominio dell’Europa.
L’Inghilterra in un primo momento proteggeva e sviluppava la
sua sfera di influenza nella regione attraverso un’associazione
di mercanti molto ricca e potente: la Compagnia delle Indie
Orientali.
Questa Compagnia già nel 1757 aveva, nei fatti, preso il controllo
del Bengala.
Nel 1858 l’India passò formalmente sotto il controllo dello Stato
inglese e ne divenne una colonia.
Tra il secolo XIX ed i primi anni del secolo XX, a partire dal
territorio indiano e procedendo verso est, entrarono,
direttamente o indirettamente, nella sfera del controllo inglese
la Birmania, la penisola Malese, il nord del Borneo.
La Francia, che nel XVIII secolo ebbe la peggio nel conflitto
con l’Inghilterra per il dominio sull’India, nel secolo XIX,
dopo il 1850, sviluppò con successo una propria politica
coloniale in Indocina.
Anche l’Olanda nella seconda metà del secolo XIX rafforzò la
sfera coloniale, consolidando il proprio dominio in Indonesia.
Continuando a considerare la carta geografica dal punto di vista
storico si può rammentare come l’arcipelago delle Filippine sia
stato colonizzato, a partire dal XVI secolo, dalla Spagna.
Si è già ricordata la situazione di chiusura dell’Impero Cinese
nei confronti degli scambi commerciali con l’Occidente.
La pressione dei paesi occidentali perché si aprissero dei porti
divenne sempre più forte. Nel secolo XIX scontri militari con
le potenze europee, anche originati dall’imposizione da parte
occidentale del redditizio commercio dell’oppio, si conclusero
con la sconfitta della Cina che, tra l’altro, dovette cedere
Hong Kong all’Inghilterra.
La gravità della situazione cinese causò pure varie rivolte
popolari.
In seguito ai molti motivi di crisi che si erano sviluppati venne
anche meno l’autorità imperiale. Nel 1912 la Cina, divenuta una
repubblica, ebbe come primo presidente Sun Yat-sen (1866-1925).
Il cambiamento di regime, però, non fu sufficiente a stabilizzare
una situazione caratterizzata da decadenza e disordini, nella
quale l’unità stessa del Paese tendeva a frantumarsi in tante
regioni, governate da capi militari.
In Asia settentrionale e centrale fu l’Impero Russo a portare
avanti l’opera di penetrazione europea. Già con il secolo XVIII
si poté registrare il movimento russo verso le zone siberiane,
come la penisola Camciatca.
Si può pure ricordare che i russi, attraversato lo stretto di
Bering, occuparono, in America, l’Alaska. Questa regione venne
venduta dall’Impero Russo agli Stati Uniti nel 1867.
Nella seconda metà del secolo XIX si può anche ricordare la
fondazione di Vladivostock, nella Siberia
l’impianto della ferrovia Transiberiana.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
27- CARATTERISTICHE DELLO SVILUPPO GIAPPONESE.
orientale,
e
Prof. Frontini
La generale situazione di crisi e di debolezza che, come visto,
negli Stati asiatici si accompagnò e si aggravò con l’intervento
coloniale occidentale trovò una significativa eccezione con il
Giappone.
Certamente anche il Giappone, come la Cina, venne costretto ad
aprirsi ai mercati occidentali.
Così si ricorda che l’apertura dei porti giapponesi cominciò
ad aversi dopo una missione armata dell’ammiraglio americano
Matthew Perry (1794-1858), nel 1854.
Quello che è importante sottolineare è il diverso atteggiamento
tenuto nei confronti delle innovazioni collegate alla situazione
di dominio delle potenze industrializzate.
Di fronte, dunque, a questa situazione il Giappone, prendendo
a modello l’Occidente, avviò una sua industrializzazione.
In maniera parallela, al termine di un lungo periodo nel quale
aveva rilievo politico la figura dello Shogun, o comandante
militare, il potere si riconcentrò nelle mani dell’Imperatore,
detto Tenno, considerato, secondo la religione scintoista, una
divinità.
Il successo della politica di modernizzazione nei campi della
tecnologia e della produzione portò allo sviluppo economico ed
anche all’aumento della popolazione.
Così, a sua volta, pure il Giappone si trovò nelle condizioni
di dare inizio ad una politica imperialista di espansione
coloniale.
Si proclamò anche la necessità di considerare giapponesi tutti
quei territori nei quali abitassero persone appartenenti al
gruppo etnico giapponese.
Si rileva che, di contro, Hokkaido, la più settentrionale delle
quattro isole principali costituenti il territorio dello Stato
giapponese (appunto Hokkaido e Honshu, Shikoku, Kyushu) è anche
abitata dagli Ainu, originario gruppo etnico del Giappone diverso
dal gruppo dominante.
La politica imperialista, anche appoggiata ad una forte
tradizione militare, si sviluppò fino a condurre ad uno scontro
con la Cina (scontro che fruttò la presa di Taiwan) e ad un
notevole contrasto con l’Impero Russo, che, tra l’altro,
desiderava uno sbocco libero dai ghiacci sull’Oceano Pacifico.
Si giunse così, nel 1904 ad una guerra tra Impero Russo e Giappone.
Nel 1905 la Russia venne battuta. E’ stato sottolineato il
contrasto della sconfitta russa da parte di un popolo asiatico
rispetto alle idee fondamentalmente razziste, di superiorità
dell’uomo bianco, che anche accompagnavano l’espansione
coloniale occidentale.
Successivamente, nel 1910, il Giappone occupò la Corea.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
28- AFRICA E COLONIALISMO.
Prof. Frontini
Una divisione importante che si può incontrare studiando il
continente africano è quella tra Africa settentrionale, o Africa
mediterranea, e Africa sub-sahariana, o Africa nera.
E’ interessante ricordare che la parte settentrionale è anche
chiamata Africa araba. Si è visto che, con il VII secolo dopo
Cristo,
anche
l’Africa
mediterranea
venne
coinvolta
nell’espansionismo arabo musulmano. Successivamente, come pure
accennato, troviamo anche in questa parte del Mondo l’Impero
Ottomano.
Si può notare, a questo punto, come religione predominante sia
quella musulmana. Va, però, ricordata anche una forte minoranza
di Cristiani copti (in Egitto).
Alla decadenza dell’Impero Turco si affianca l’espansione
coloniale europea.
Tra le manifestazioni di questa decadenza turca si può anche
richiamare, in Africa settentrionale, la crescente autonomia
dell’Egitto del pascià Mehemet Ali (1769-1849). Mehemet Ali,
dopo aver combattuto vittoriosamente contro la Turchia, ottenne
il dominio ereditario sull’Egitto.
Va detto che con questo pascià anche si ebbe una politica di
espansione. Così venne occupata la regione sudanese orientale
e, nel 1830, fu fondata Khartoum, attuale capitale del Sudan.
Tra le potenze coloniali europee in territorio africano si
possono richiamare in primo luogo Francia e Inghilterra.
Partendo dai territori del Senegal e, sulla sponda del
Mediterraneo, dall’Algeria, occupata nel 1830, la Francia estese
la propria zona coloniale nell’Africa nord-occidentale.
Va aggiunto
che anche il Madagascar, l’isola africana più
importante, situata nell’Oceano Indiano, si trovò sempre più
inserito nella sfera francese.
In Africa meridionale l’Angola, sull’Oceano Atlantico, ed il
Mozambico, sull’Oceano Indiano, erano colonie portoghesi.
Gli storici hanno comunque anche messo in rilievo una sostanziale
dipendenza economica e politica, a partire dal XVII secolo, del
Portogallo dall’Inghilterra e, conseguentemente, un sostanziale
inserimento pure delle colonie di questo Stato nel sistema
coloniale inglese.
Già nel XVII secolo si era formata nella punta meridionale
dell’Africa una colonia olandese, la Colonia del Capo, che,
successivamente, nel secolo XIX (con il Trattato di Parigi del
1814), passò all’Inghilterra.
L’insoddisfazione dei coloni olandesi (Boeri) portò ad un loro
abbandono della Colonia del Capo divenuta inglese e alla
fondazione, nell’Africa meridionale, di nuove repubbliche, poi
federatesi, con il 1860, nella Repubblica Sudafricana.
Un insieme di cause spinse la Gran Bretagna a impegnarsi in tutta
la parte orientale dell’Africa, da nord a sud.
Così, nel 1882, con l’accordo della Francia, l’Inghilterra occupò
militarmente l’Egitto, dove con il taglio, nel 1869, dell’istmo
di Suez, congiungente Africa ed Asia, si era aperto un canale
che permetteva più veloci comunicazioni dal Mediterraneo anche
verso l’India britannica.
La penetrazione coloniale francese, ma anche tedesca e di altri
Stati era motivo di spinta all’espansione coloniale inglese.
Nell’Africa meridionale si sviluppò pure conflitto tra
l’Inghilterra e la Repubblica Sudafricana, nel cui territorio,
tra l’altro, erano state scoperte, nel 1886, miniere d’oro. Si
arrivò così alla guerra anglo-boera, combattuta tra il 1899 ed
il 1902, che vide la vittoria della Gran Bretagna.
Le necessità economiche e politiche dell’Europa spinsero così
ad una sempre maggiore colonizzazione anche dell’Africa.
Spinsero, inoltre, un sempre più grande numero di Stati europei
a tentare l’impresa coloniale. Conseguentemente, come già
accennato, aumentarono pure le possibilità di scontri tra
potenze.
Va ricordato che oltre alla Francia, all’Inghilterra e al
Portogallo formarono imperi coloniali anche la Germania (in
Africa orientale, in Africa sud-occidentale e, sul golfo di
Guinea, in Camerun e Togo), il Belgio (in Africa centrale, grosso
modo lungo il corso del fiume Congo, risalito, per conto del
re Leopoldo II del Belgio, dall’esploratore Stanley), l’Italia.
A partire dall’ultimo ventennio del secolo XIX il Regno d’Italia
sviluppò una sua politica coloniale. Nel cosiddetto Corno
d’Africa, penisola dell’Africa orientale che si spinge verso
l’Asia, si formarono colonie italiane in Eritrea e Somalia.
Peraltro, nel tentativo di conquista dell’Etiopia le truppe
italiane vennero duramente sconfitte nella battaglia di Adua,
nel 1896. L’Etiopia venne conquistata durante il ventennio
fascista, nel 1935.
Nel 1912, in seguito al conflitto italo-turco (scoppiato nel
1911), il Regno d’Italia, uscito vincitore, occupò la Libia,
appartenente all’impero ottomano, nell’Africa settentrionale.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
29- COLONIALISMO E AMERICA. CARATTERISTICHE DEGLI STATI UNITI.
Si deve ricordare che con il XVI secolo il continente americano,
appena incontrato dai navigatori europei, venne inserito nel
sistema coloniale.
Si è già visto che tra XV e XVI secolo svilupparono i propri
domini Portogallo e Spagna. Si deve sottolineare che l’espansione
coloniale si accompagnò alla scoperta e all’esplorazione di
territori ignoti agli europei.
La colonizzazione spagnola del continente americano ha origine
già con il viaggio di Colombo del 1492. Cristoforo Colombo, in
questo suo primo viaggio, toccò anche Cuba e Hispaniola,
nell’arcipelago delle Antille. La colonizzazione della Spagna
si sviluppò a partire da questo arcipelago, situato nel Mar
Caraibico, in America centrale.
Negli anni venti del secolo XVI la Spagna conquistò il Messico,
con la distruzione dell’Impero Azteco. Negli anni trenta dello
stesso secolo XVI si ebbe la conquista del Perù, con la
distruzione dell’Impero Inca.
Tra XVI e XVIII secolo la Spagna estese i propri domini fino
all’Argentina
in
America
meridionale
e,
in
America
settentrionale, fino oltre il Texas e la California.
Nell’America meridionale, verso l’Oceano Atlantico, già nel XVI
secolo cominciò a svilupparsi una zona di dominio coloniale
portoghese nel Brasile, scoperto, nel 1500, dal navigatore Pedro
Cabral (1467-1520) che, nella sua rotta verso la Regione Indiana,
in Asia meridionale, si era spinto eccessivamente verso ovest
nell’Oceano Atlantico prima di oltrepassare l’Africa, superando
il Capo di Buona Speranza.
A partire dal secolo XVII il continente americano sempre più
divenne oggetto di interesse e di colonizzazione per altre
potenze europee.
In America meridionale Francia, Olanda e Inghilterra riuscirono
a occupare zone della Guyana.
La Francia sviluppò un proprio dominio coloniale anche tra il
Golfo del San Lorenzo e il Golfo del Messico, dal Canada a regioni
che poi avrebbero fatto parte degli Stati Uniti.
Si deve dire che nella seconda metà del secolo XVIII, dopo la
Guerra dei Sette Anni (1756-1763), il Canada entrò a far parte
dei domini inglesi.
Tra XVII e XVIII secolo nell’America del Nord, sulla costa
dell’Oceano Atlantico, la Gran Bretagna arrivò inoltre a formare
13 colonie (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New
Hampshire, New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania,
Virginia, Maryland, Carolina del Nord, Carolina del Sud,
Georgia).
Gli storici hanno messo in rilievo la ricchezza economica
raggiunta da queste colonie facendo anche osservare lo sviluppo,
nella seconda metà del secolo XVIII, di quelle più settentrionali
(costituenti la Nuova Inghilterra) in senso tanto urbanistico
come industriale (con riferimento particolare alla costruzione
delle navi).
L’insieme di queste circostanze ha oggettivamente messo in rotta
di collisione le esigenze di sviluppo dei territori americani
e la politica coloniale portata avanti dall’Inghilterra.
Si può ricordare così che, nel 1776, i rappresentanti delle 13
colonie si riunirono e dichiararono l’indipendenza dalla Gran
Bretagna.
Si può ricordare inoltre che, al termine di una guerra con la
madre patria, nel 1783, nacquero gli Stati Uniti d’America.
Gli storici hanno potuto sottolineare l’importanza che ha avuto
la possibilità di un’espansione economica e sociale verso
l’interno, verso l’ovest, per lo sviluppo e per la sempre maggiore
affermazione degli Stati Uniti. Si è, in altre parole, messo
in rilievo il grande ruolo spettante, nella storia statunitense,
al concetto di “frontiera”, frontiera, appunto quella verso
l’ovest, verso l’Oceano Pacifico, verso nuovi territori da
colonizzare e coltivare. Frontiera che si può spostare in
relazione alla libertà, e alla libera iniziativa dell’individuo.
Gli studiosi hanno anche richiamato il valore, ai fini dello
sviluppo economico e sociale, della forma giuridica assunta dagli
Stati Uniti. Si è, infatti, osservato che lo Stato federale,
l’unione già delle 13 colonie originarie divenute 13 stati, ha
rappresentato il mezzo migliore per salvare e valorizzare le
caratteristiche di ognuno dei territori uniti salvando,
contemporaneamente, le caratteristiche positive collegate ad
uno Stato più grande e più forte.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
30- SVILUPPI DEGLI STATI UNITI.
Considerando le caratteristiche degli Stati Uniti si è già vista
l’importanza del concetto di “frontiera”.
Si può sottolineare che l’espansione verso l’Ovest è stata anche
una delle cause di un crescente sviluppo economico.
Uno sviluppo economico, questo, quale, nella seconda metà del
XIX secolo, ha anche attirato (e utilizzato) grandi masse di
persone che emigravano dalle zone povere dell’Europa (come
l’Italia).
Da un certo punto di vista gli sbocchi di mercato legati alla
considerata espansione verso occidente e, pure, la necessità
di uno sviluppo dei trasporti ferroviari nei nuovi territori
collegano nascita di nuovi Stati della federazione americana
e crescita industriale degli Stati settentrionali.
Il crescente peso politico negli Stati Uniti dei centri di
interesse legati allo sviluppo dell’industria degli Stati
settentrionali, ha portato ad un contrasto di questi con gli
Stati
meridionali
della
federazione,
caratterizzati
economicamente dalla presenza di vaste proprietà terriere con
piantagioni di cotone coltivate con l’opera di manovalanza
schiava proveniente dall’Africa nera.
In questo orizzonte si può osservare che contro la schiavitù
le necessità dell’industria si sono oggettivamente legate a
doverose considerazioni di civiltà e di democrazia.
Il considerato contrasto all’interno degli Stati Uniti portò,
nel 1861, allo scoppio della cosiddetta guerra di Secessione
(separazione), dopo che l’elezione come presidente di Abraham
Lincoln (1809-1865), antischiavista, aveva spinto gli Stati del
Sud a staccarsi dagli altri Stati, formando tra loro una
Confederazione.
La guerra di Secessione, combattuta tra Stati dell’Unione,
rimasti fedeli a Lincoln, e Stati meridionali, si concluse nel
1865 con la sconfitta della Confederazione del Sud.
Peraltro, pur di fronte all’abolizione della schiavitù, gli
storici hanno fatto notare, per quanto riguarda gli Stati della
Confederazione sconfitta, la mancanza di una riforma agraria
da un lato, da un altro lato il rimanere, se non il crescere,
di forti sentimenti razzisti, espressi anche con il sorgere di
associazioni come il Ku Klux Klan operanti al fine di perseguitare
i neri e di far rinascere completamente il potere dei bianchi.
Gli studiosi di Storia hanno anche osservato che, con la fine
della guerra di Secessione, si è avuto, negli Stati Uniti, il
rafforzamento degli Stati del Nord e la valorizzazione di un
forte potere centrale.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
31- AFFERMAZIONE DEGLI STATI UNITI. STATI UNITI E AMERICA LATINA.
Si è già riassunta la formazione e lo sviluppo storico degli
Stati Uniti, a partire dalle vicende della colonizzazione
americana. E’ apparso opportuno ricordare questi punti anche
per sottolineare ancora alcuni concetti generali importanti,
necessari per una migliore comprensione pure dei fatti storici
successivi.
La nascita degli Stati Uniti, in seguito alla guerra delle colonie
inglesi contro la madre patria, ci è apparsa manifestazione di
una volontà di indipendenza anche legata allo sviluppo di
autonome capacità economiche. Queste autonome capacità hanno
avuto possibilità di crescita nell’espansione territoriale verso
l’Oceano Pacifico. Si è anche richiamato l’importante ruolo avuto
dalla forma giuridica di Stato federale, assunta dagli Stati
Uniti, al fine della crescita complessiva del paese.
Si dice Stato federale quello caratterizzato da un lato
dall’essere un’unione di vari Stati, da un altro lato dalla
presenza, comunque, di un potere centrale. Per le sue
caratteristiche gli studiosi di diritto hanno anche chiamato
lo Stato federale Superstato, o Stato di Stati.
Va, ora, pure aggiunto, con riguardo alla vicenda storica degli
Stati Uniti, che lo Stato federale ha preso l’aspetto di una
repubblica presidenziale, dove il Presidente della Repubblica
è il capo del Governo.
La nascita stessa degli Stati Uniti ha avuto una forte influenza
sull’America latina e ha spinto ad una lotta per l’indipendenza
dalla Spagna e dal Portogallo.
Così, con il secolo XIX, il Brasile si liberò del dominio
portoghese e le colonie spagnole dell’America centrale e
meridionale divennero indipendenti.
Nel sud dell’America meridionale si può ricordare la lotta che,
tra 1816 e 1817, portò, anche grazie alle doti militari del
generale José de San Martin (1778-1850), alla liberazione di
Argentina e Cile.
Si può inoltre ricordare l’opera di liberazione condotta dal
generale Simon Bolivar (1783-1830) nel nord dell’America
meridionale.
Gli spagnoli vennero definitivamente sconfitti nell’America
meridionale nel 1824, nell’Alto Perù, in una zona dove sorse,
nel 1825, la Repubblica di Bolivia.
Il Messico proclamò l’indipendenza dalla Spagna nel 1821. Ancora
nel 1821 proclamarono l’indipendenza i territori del centro
America, riunitisi in un’unica repubblica, detta Repubblica
delle Province Unite dell’America centrale.
Peraltro si è osservato da molti che l’America centro-meridionale
era economicamente molto meno sviluppata della parte
settentrionale del continente. Gli storici hanno messo in rilievo
una situazione caratterizzata dallo sfruttamento dei contadini
da parte di ristretti gruppi sociali. Inoltre hanno rilevato
le conseguenze negative di una politica economica basata pure
sulle
cosiddette
monocolture,
ossia
sulla
prevalente
coltivazione, in certi territori, di un solo prodotto (quale,
a Cuba, la canna da zucchero). Come altri elementi di questo
quadro di sfruttamento e di mancanza di democrazia si sono
richiamati il fallimento dei tentativi di costituire più forti
unioni di Stati e la generale instabilità politica, anche
collegata alle pretese di potere di certi gruppi militari. Così
nel 1841 si divise la Repubblica delle province Unite
dell’America centrale ma già nel 1830, nel settentrione
dell’America del Sud, la Grande Colombia, sostenuta da Simon
Bolivar, si era divisa in tre Stati: Colombia, Venezuela,
Ecuador.
Tra gli storici e tra gli economisti si è anche osservato, e
sottolineato, che le vicende dell’America latina si inseriscono
tra sempre maggiore affermazione economico-politica degli Stati
Uniti e decadenza della Spagna.
Si può ricordare, a questo punto, che gli Stati Uniti dovevano
trovare una naturale linea di espansione della propria
affermazione in direzione dell’America latina. Già in un famoso
discorso del dicembre 1823 il presidente statunitense James
Monroe
(1758-1831),
con
riferimento
alle
lotte
per
l’indipendenza che, come visto, si erano svolte e si stavano
svolgendo nell’America centro-meridionale, aveva invitato gli
Stati europei a non tentare interventi coloniali sul continente
americano, interventi coloniali considerati come contrari agli
interessi degli Stati Uniti. Dietro questa dichiarazione di
Monroe si è osservato, da un lato, un sostegno ai nuovi Stati
americani indipendenti, ma anche, da un altro lato, una volontà
di
supremazia
politica
nei
confronti
dell’America
centro-meridionale.
Va ricordato che, con l’espansione verso l’ovest, gli Stati Uniti
entrarono in conflitto con il Messico, al quale presero i
territori dal Texas alla California, sull’Oceano Pacifico.
L’espansione ad ovest, che richiese la cacciata delle popolazioni
indiane originarie dei posti, fu, come visto, uno dei motori
della crescita statunitense. Una volta raggiunto l’Oceano
Pacifico le linee dell’espansione economico-politica degli Stati
Uniti si diressero verso l’Asia e l’Oceania, da un lato, verso
il rafforzamento in America centro-meridionale, da un altro lato.
Come ricordato, di fronte alla decadenza della Spagna gli Stati
Uniti conquistarono in America latina una posizione di sempre
maggiore importanza.
Appare da ricordare, a questo punto, che, in seguito alla
ribellione di Cuba contro il potere spagnolo, gli Stati Uniti,
nel 1898, dichiararono guerra alla Spagna e la sconfissero. Cuba
divenne indipendente, ma dentro la sfera di influenza
statunitense.
Con la sconfitta della Spagna gli Stati Uniti acquistarono, in
Asia, le Filippine, che, come visto, erano una colonia spagnola.
Si deve ricordare, però, che contro gli americani si sviluppò
una forte ribellione. Va anche detto subito che le Filippine
proclamarono l’indipendenza nel 1946.
In Micronesia, in Oceania, la Spagna cedette, inoltre, alla
potenza americana, Guam.
Ancora
in
Oceania,
nell’Oceano
Pacifico,
nel
1898,
nell’arcipelago delle Hawaii, governato dapprima da una
monarchia e poi da una repubblica indipendente, si decise il
congiungimento con gli Stati Uniti, dei quali, nel 1959, le Hawaii
divennero il 50 Stato.
Con l’inizio del secolo XX l’influenza economica statunitense
raggiunse l’America centrale e, successivamente, l’America
meridionale, sostituendo così anche l’influenza inglese, che
pure, fino ad allora, era stata abbastanza diffusa.
APPUNTI DI STORIA
a.s.2011/2012
Prof. Frontini
32- OCEANIA E COLONIALISMO.
Abbiamo finora ripercorso la vicenda delle esplorazioni e della
colonizzazione in Asia, Africa, America. Con le isole Hawaii
si è appena incontrato un altro continente: l’Oceania. Un
continente questo che, come si può subito vedere dalla carta
geografica, appare caratterizzato dalla presenza della vasta
estensione dell’Australia e di una grande quantità di isole e
arcipelaghi. Si possono ricordare come arcipelaghi la Nuova
Zelanda e quelli della Micronesia (con le isole Marianne, di
cui fa parte Guam), della Melanesia, della Polinesia (con le
isole Hawaii). Per la completezza dell’orizzonte storico sul
colonialismo sembra necessario dare ora alcuni tratti
essenziali.
Va ricordato in primo luogo che l’Oceania entrò tardi
nell’interesse dei colonizzatori. Dopo le esplorazioni di Abel
Tasman (1603-1659), nel XVII secolo, fu James Cook (1728-1779),
nel XVIII secolo, a compiere accurati viaggi di scoperta in questo
continente. Fu, tra l’altro, Cook, nel 1778, a incontrare
l’arcipelago delle Hawaii.
L’Australia fu colonizzata dall’Inghilterra verso la fine del
secolo XVIII. Dapprima utilizzata come stabilimento carcerario,
fu, nel corso del secolo XIX, oggetto di immigrazione, anche
per la scoperta di miniere d’oro. La colonizzazione portò anche
alla cacciata degli Aborigeni.
Divenne colonia inglese anche la Nuova Zelanda. Pure qui la
colonizzazione europea portò alla sconfitta e alla decimazione
degli abitanti originari. Così i Maori, che popolavano la Nuova
Zelanda, vennero sterminati in tre guerre, combattute tra 1843
e 1871.
Vanno ricordate in Oceania anche colonie francesi e tedesche.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
33- PROBLEMI DELLO STATO ITALIANO DOPO L’UNITA’.
All’indomani del settembre 1870 e della presa di Roma il nuovo
Stato unitario italiano presentava vari e gravi problemi.
Con la presa di Roma stessa si aggravò il problema dei rapporti
tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Malgrado che nel 1871
il Regno d’Italia promulgasse una legge, la cosiddetta legge
delle guarentigie (cioè delle garanzie), destinata a garantire,
appunto, al pontefice il proprio ruolo spirituale e
l’inviolabilità di Vaticano e Laterano, papa Pio IX, che si
considerava prigioniero, mantenne un atteggiamento ostile nei
confronti del nuovo Stato. Discese da tale atteggiamento un
contrasto, in Italia, tra laici e cattolici. Questi ultimi si
rifiutarono di partecipare alla vita politica italiana e non
si recarono a votare nelle elezioni.
Va anche accennato come, pure dopo il 1870, l’unificazione dei
territori italiani non fosse neanche completata.
Altro problema che si presentò con l’unità fu quello di avere
codici (atti normativi disciplinanti, in modo tendenzialmente
completo, importanti gruppi di argomenti) validi in tutto il
territorio nazionale, in sostituzione della legislazione dei
precedenti Stati italiani. Così tra 1865 e 1889 si ebbero in
Italia nuovi codici: quello civile (regolante argomenti come
la famiglia o la proprietà), quello penale (sui reati), quello
di procedura civile (sui processi per questioni civili), quello
di procedura penale (sui processi per accertare e punire i reati).
Nel quadro dell’organizzazione legislativa del nuovo Stato va
segnalata un’idea di fondo molto importante: quella della
prevalenza,
e
del
controllo,
del
governo
anche
sull’amministrazione delle comunità locali. In questo senso si
ricorda il particolare rilievo attribuito nella vita locale al
prefetto, rappresentante del governo.
Dal punto di vista dell’economia si procedette con l’eliminazione
delle barriere doganali interne al fine di ottenere la
costituzione di un mercato italiano unico.
Per ottenere questo mercato, e per favorire la crescita
economica, si dovettero realizzare numerosi servizi, quali, ad
esempio, le ferrovie, utili per poter collegare meglio ed in
più breve tempo le più diverse località italiane.
I costi furono notevoli. Di fronte a bilanci dello Stato
caratterizzati dalla prevalenza delle spese sopra le entrate
il Regno d’Italia aumentò la pressione fiscale. Nel 1868, in
particolare, venne introdotta l’imposta sul macinato, un’imposta
sulla macinazione del grano che colpì duramente i più poveri.
Di fronte alla pressione del fisco si poterono registrare anche
sollevazioni popolari.
Va pure aggiunto, con riguardo alla politica economica, che la
vendita dei terreni e dei beni già appartenuti alla Chiesa, in
Italia meridionale, invece di portare ad un maggior equilibrio
economico e ad una maggiore giustizia sociale, finì con
l’aumentare la ricchezza e il potere dei grandi proprietari
terrieri (detti latifondisti).
Gli storici hanno messo in rilievo che le iniziative di politica
economica degli anni della formazione dello Stato italiano non
hanno evitato l’aggravarsi di condizioni di arretratezza al Sud,
il sorgere e lo svilupparsi della cosiddetta questione
meridionale. Già, dunque, in questo periodo si evidenzia anche
una disparità di sviluppo tra Italia settentrionale ed Italia
del Sud.
Più in generale deve sottolinearsi il problema essenziale, che
ha accompagnato la vicenda storica italiana pure nel secolo XX,
della partecipazione politica democratica.
Parlando dello Statuto albertino si è già considerato il problema
della ristrettezza del suffragio e, quindi, del sostanziale
scollamento tra Stato e cittadini.
Le questioni collegate alla ristrettezza del suffragio dovevano
naturalmente aumentare con la crescita e lo sviluppo dello Stato
italiano.
Le numerose difficoltà, la sempre crescente esigenza di un
allargamento della base popolare del nuovo Stato finirono anche
con il mettere in crisi il gruppo dirigente che pure aveva avuto
il merito storico di costruire l’unità d’Italia e che, da ultimo,
se pure con lo strumento di una forte imposizione fiscale, aveva
portato in pareggio il bilancio statale.
Dopo la stagione della Destra, nel 1876 formò il governo Agostino
Depretis (1813-1887), che era alla guida della Sinistra
parlamentare.
In un tentativo di superamento delle ragioni di crisi dello Stato
e della società la Sinistra ampliò, nel 1882, il suffragio
elettorale. Si è calcolato che in tal modo il diritto di voto
sia stato esteso al 7 per cento della popolazione.
Va anche ricordata l’abolizione dell’imposta sul macinato.
Precedentemente, nel 1877, si era dato avvio ad una riforma della
scuola prevedente l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione
elementare.
Sostanzialmente, tuttavia, anche l’azione riformatrice della
Sinistra risultò, infine, fortemente limitata, e non risolutiva
dei problemi più importanti.
Si devono, tra l’altro, mettere in evidenza le differenze
esistenti tra i vari gruppi sociali e politici che facevano da
base alla Sinistra. Si va, così, dai diversi gruppi della
borghesia meridionale e settentrionale alle tendenze più
radicali ricollegabili ai mazziniani.
Dopo un primo periodo, fino circa al 1882, in cui l’azione
riformatrice della nuova maggioranza fu più pronunciata, si
tornò, successivamente, a modelli più conservatori. Si deve
ricordare che, in questo fine secolo XIX, e con la Sinistra,
si accentuò il fenomeno del cosiddetto Trasformismo. Il
Trasformismo
fu
caratterizzato
dall’allargamento
della
maggioranza, a seconda delle varie questioni, anche a gruppi
politici originariamente estranei al governo. In questo modo,
da un lato, il panorama parlamentare si rendeva sostanzialmente
uniforme, con l’eccezione degli indirizzi radicali, a sinistra,
e di quelli conservatori, a destra; da un altro lato, questa
stessa uniformità si è potuta considerare manifestazione di una
politica di concessioni e di favori da parte del governo per
comprare il consenso dei vari gruppi, in maniera tale anche da
privilegiare
interessi
personali
sopra
quelli
della
collettività.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
34- PROBLEMI E VICENDE DELLO STATO ITALIANO DA DEPRETIS A
GIOLITTI.
Si è già considerato il fenomeno del Trasformismo. Si è pure
già visto il rischio di corruzione collegato a questo fenomeno.
Va ora anche ricordato che gli storici hanno potuto vedere il
Trasformismo come una manifestazione di un fondamentale accordo
all’interno della classe dirigente dell’epoca, tra borghesia
imprenditoriale e grandi proprietari terrieri.
E’ da sottolineare che proprio a partire dagli anni della Sinistra
si è sempre più potenziata l’industrializzazione in Italia.
Un’industrializzazione, però, che ebbe bisogno di un notevole
aiuto da parte dello Stato. E’ importante considerare che le
forze economiche private in Italia non furono sufficienti, da
sole, ad avviare il processo di crescita industriale.
Si è appena parlato di un fondamentale accordo tra borghesia
imprenditoriale, nel settentrione, e proprietari terrieri, nel
meridione. Questo accordo venne favorito dalla politica
protezionista dello Stato italiano. Il protezionismo doganale,
infatti, aiutò sia gli interessi della nascente industria, sia
quelli dei latifondisti, proprietari di campi coltivati a grano.
Tali interessi vennero protetti contro la concorrenza dei
produttori stranieri.
Questa politica, che, tra l’altro, non favorì lo sviluppo di
una razionale agricoltura, fece scoppiare una guerra commerciale
con la Francia. Diminuirono così le esportazioni italiane di
vino e agrumi. L’aumento del prezzo del pane, ricollegabile
al protezionismo, la caduta delle esportazioni italiane verso
il territorio francese aumentarono le difficoltà dei più poveri.
In politica estera la rivalità con la Francia, anche legata alla
volontà di espansione coloniale italiana in Africa, portò il
Regno d’Italia ad un’alleanza con l’Austria e la Germania
(chiamata Triplice Alleanza), formata nel 1882 e rinnovata nel
1887. Questo accordo, che, tra l’altro, tradiva le idee
risorgimentali di unità ed indipendenza, mostrava ai gruppi
italiani più conservatori e filomonarchici l’esempio della
Germania con il suo cancellierato (forma di governo da noi già
vista trattando l’unificazione tedesca). Ispirandosi a questo
esempio tali gruppi poterono anche pensare di superare
l’interpretazione in senso parlamentare data allo statuto
albertino.
In Italia, dove, con l’industrializzazione, si stava pure
sviluppando il proletariato di fabbrica, la crisi economica si
intrecciò con il disagio e la crisi sociale. Crebbe la diffusione
delle idee socialiste; nel 1892 fu fondato, a Genova, il Partito
socialista.
In questa situazione di disagio economico-sociale, di fronte
a manifestazioni popolari si arrivò anche ad una repressione
armata. Così, nel 1898, a Milano, il generale Fiorenzo Bava
Beccaris
(1831-1924)
sparò
sopra
i
manifestanti
con
l’artiglieria. Fu anche per vendicare la strage compiuta da Bava
Beccaris che, nel luglio del 1900, l’anarchico Gaetano Bresci
(1869-1901) uccise il re Umberto I, nato nel 1844, successore
di Vittorio Emanuele II.
Sembravano esplodere tutte le contraddizioni, economiche,
politiche e sociali, del Regno d’Italia. Davanti a questo
orizzonte Giovanni Giolitti (1842-1928), che fu figura dominante
della vita politica italiana sino al 1914, cercò di restaurare
lo Stato ampliandone le basi popolari.
In una situazione economica migliorata (anche a causa
dell’attenuazione della politica protezionista), Giolitti tentò
di realizzare il suo disegno di ampliamento e di rafforzamento
dello
Stato
anche
cercando
la
collaborazione
delle
organizzazioni dei lavoratori, e, in primo luogo, del Partito
socialista.
Alcuni storici hanno osservato una certa continuità dei metodi
giolittiani rispetto a quelli già sviluppati con Depretis.
Effettivamente anche Giolitti cercò di sostenere lo Stato, e
la permanenza al governo del gruppo dirigente, attraverso una
politica di alleanze e collaborazioni pure con altri partiti.
Questa politica si rivolse, dunque, ai socialisti. Già nel 1903
Giolitti, divenuto presidente del consiglio, chiese a questi
ultimi di entrare nel suo governo. I socialisti, peraltro,
rifiutarono.
Va comunque rilevato come nello stesso Partito socialista si
contrapponessero due tendenze: una riformista; l’altra
interessata alla rivoluzione e contraria ad ogni accordo con
qualsiasi governo borghese.
Giolitti, cercando pure la collaborazione del Partito
socialista, quale rappresentante della classe operaia, mostrò
di fatto di operare in direzione di un movimento di superamento
della spaccatura, già incontrata, tra Stato e società.
Va ricordato che Giovanni Giolitti rispose in modo positivo alle
esigenze e alle richieste di maggiore democrazia quali
provenivano dal mondo del lavoro e che, anche, costituivano il
programma minimo del partito socialista. Bisogna dire che, in
questo modo, egli cercò di sviluppare la propria azione politica
nel senso di una neutralità del governo rispetto ai contrasti
sul salario tra imprenditori e lavoratori, e non più, dunque,
nel senso dell’appoggio agli industriali contro le richieste
dei lavoratori, come era accaduto fino ad allora. In generale,
inoltre, Giolitti diede l’avvio a una serie di riforme sociali.
Va soprattutto richiamata l’estensione del diritto di voto con
il suffragio universale maschile, nel 1912.
Anche per bilanciare le influenze socialiste Giolitti agì nel
senso di un coinvolgimento elettorale dei cattolici. Questa
politica giolittiana culminò, nel 1913, con un patto, il
cosiddetto patto Gentiloni, che prese nome dal presidente
dell’Unione
elettorale
cattolica
Vincenzo
Gentiloni
(1865-1916), con il quale venne stretto. Con questo patto i
cattolici si impegnarono ad aiutare i liberali ovunque questi
avessero rischiato di essere sconfitti dalla Sinistra.
Va inoltre ricordato come, sempre dentro il quadro di una ricerca
di appoggi presso i vari gruppi politici, Giolitti anche cercò
di venire incontro alla Destra e ai nazionalisti riprendendo
la politica coloniale, con la guerra alla Turchia e la conquista
della Libia.
Complessivamente si può considerare che l’opera di Giolitti,
anche nel tentativo di rafforzare la maggioranza parlamentare,
condusse, comunque, ad una crescita politica e civile dello Stato
italiano, dopo il periodo di forte crisi della fine del secolo
XIX.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
35- VICENDE ECONOMICO-SOCIALI
ROMANTICISMO AL FUTURISMO.
Prof. Frontini
E
TENDENZE
CULTURALI:
DAL
Si è più volte sottolineato il collegamento tra Romanticismo
e vicende politiche, soprattutto trattando del Risorgimento.
Così si è potuto richiamare, a proposito del pensiero mazziniano,
il forte elemento costituito dalla valorizzazione romantica del
popolo come unità etnica e comunanza di idee, di origini, di
destino.
E’ da dire ancora come nel miglior Romanticismo italiano si siano
potentemente fatte valere anche esigenze di attenzione alla
verità (in contrapposizione alle favole mitologiche degli autori
tradizionali classicisti, legati agli antichi modelli greci e
romani) e, in modo collegato, esigenze di attenzione alle reali
e concrete vicende degli umili. Evidente testimonianza di questo
indirizzo è l’opera di Alessandro Manzoni, specialmente il suo
romanzo storico, I promessi sposi. Questa concezione manzoniana
del mondo si riflette nel pensiero dell’autore sulla lingua
italiana: una lingua, dunque, che, espressione della comunità
nazionale e dello sviluppo della sua storia, deve essere compresa
e utilizzata da tutti gli Italiani.
La considerazione delle vicende storiche e culturali europee
a partire dalla seconda metà del XIX secolo oltre ad evidenziare
un vasto panorama di correnti culturali in movimento e in
trasformazione permette di mettere in rilievo, per confronto,
le sostanziali difficoltà del nuovo Stato italiano.
Così, gli sviluppi, collegati, delle scienze e dell’industria,
l’influsso del Positivismo spingono, nella Francia del XIX
secolo, uno scrittore, Emile Zola (1840-1902), a portare avanti,
nei propri romanzi, un’indagine sulla realtà sociale secondo
i principi delle scienze naturali, in una corrente letteraria
significativamente definita Naturalismo. In tal modo lo studio
e la narrazione dei fatti anche si collega allo studio dell’uomo
quale essere fisico e materiale.
La critica letteraria ha ben potuto osservare il carattere
dell’attenzione
ai
fatti
di
questa
concezione
come
sostanzialmente opposto all’attenzione per i fatti del
Romanticismo, pronto a sottolineare l’importanza della
spiritualità e del sentimento.
Dopo il periodo romantico, se in Francia la narrativa naturalista
ed il pensiero del Positivismo appaiono strettamente legati
alle
concrete
vicende
storiche
dell’economia
e
dell’industrializzazione, in Italia, con i suoi problemi sociali
e la sua arretratezza economica, il sorgere e lo sviluppo di
un movimento letterario vicino al Naturalismo francese quale
è stato il Verismo si trovò caratterizzato, rispetto al modello
sorto in Francia, da una limitazione dei temi trattati e da
una mancanza di eco nella vicenda politica nazionale. Ciò anche
nelle opere del più grande dei veristi, Giovanni Verga
(1840-1922).
Si è già accennato alla situazione di crisi che, per molti
aspetti, si stava sviluppando in Europa alla fine del secolo
XIX accanto e sotto la ventata di ottimismo caratteristica
dell’epoca. In particolare è stato fatto riferimento all’opera
di Marx, con la sua analisi delle contraddizioni e delle gravi
difficoltà di fondo del sistema capitalistico.
Va ora aggiunto specifico richiamo alla crescente aggressività
delle diverse Potenze. Un’aggressività che, causata da ragioni
economiche e da ragioni di predominio politico, caratterizza
bene l’epoca detta dell’Imperialismo.
In questo contesto ebbero sviluppo anche idee antipositiviste
e irrazionaliste, ossia indirizzate a svilire la ragione ed il
suo ruolo nella storia umana e a valorizzare il predominio basato
sulla forza.
A questo punto, non può non richiamarsi la complessa figura del
filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). In una visione
per la quale l’uomo deve tornare a seguire i propri istinti vitali
e la propria volontà di potenza, in un universo retto dal caso
e dall’irrazionalità, Nietzsche fa oggetto di critica la morale
della rinuncia, definita morale da schiavi, che si esprime
principalmente nel Cristianesimo. Prospettiva del pensiero
nicciano è quella dell’uomo che, capovolti i principi di questa
morale, si fa superuomo, individuo dominatore e creatore, al
di là del bene e del male.
Nel quadro dello sviluppo di queste tematiche antipositiviste
e irrazionaliste, nella letteratura occidentale si diffonde la
corrente del Decadentismo. Una corrente, dunque, che vede se
stessa come estremo e raffinatissimo frutto di una civiltà giunta
alla sua perfezione. Una corrente, ancora, che si basa su tutte
le esperienze (psicologiche e dei sensi), al di fuori di ogni
regola morale (al di là del bene e del male), e le rende superiori
nella superiorità dell’espressione artistica. I diversi sensi
tendono, nel Decadentismo, ad unirsi e la parola, nella sua
sonorità, si avvicina alla musica.
Devono almeno ricordarsi: in Francia, Arthur Rimbaud
(1854-1891); in Inghilterra, Oscar Wilde (1854-1900). Sono,
inoltre, considerati precursori della visione del mondo
decadente: negli Stati Uniti, Edgar Allan Poe (1809-1849); in
Francia, Charles Baudelaire (1821-1867).
In Italia sono tra i principali autori del Decadentismo Giovanni
Pascoli (1855-1912) e Gabriele D’Annunzio (1863-1938). In
entrambi è prova della comune natura di poeti decadenti già
l’attenzione per la parola e la sua sonorità (con valorizzazione
dell’onomatopea).
L’arretratezza della situazione economico-politica dell’Italia
si è manifestata, secondo vari storici della cultura, nel
Decadentismo italiano, e soprattutto in D’Annunzio, tra l’altro
nell’elaborazione di modelli e motivi culturali (come quello
del superuomo, di origine nicciana) in chiave sostanzialmente
antidemocratica, accompagnata da un’espressione poetica
perfetta, ma spesso non completamente sentita e sincera.
Ancora di fronte all’arretratezza italiana, il movimento
futurista, un altro movimento culturale, pose con forza la
necessità di una completa innovazione, nell’arte come nella
società. Il nome stesso del movimento, Futurismo, ne è chiara
indicazione. Collegato all’innovazione è, nel pensiero
futurista, un percorso di liberazione degli istinti e di
moltiplicazione delle forze psichiche. Guidato dal poeta Filippo
Tommaso Marinetti (1876-1942) e sviluppatosi nei campi della
letteratura, dell’arte e della musica, il Futurismo tentò la
via di un rinnovamento totale, anche scardinando la tradizionale
sintassi e introducendo e valorizzando, ovunque, elementi come
i macchinari, il movimento, la velocità, sentiti quali elementi
essenziali della vita moderna, Non può non farsi cenno dei
notevoli risultati di pittori come Umberto Boccioni (1882-1916)
e Giacomo Balla (1871-1958).
Peraltro, proprio il suo carattere fondamentale di liberazione
di istinti doveva imparentare il Futurismo all’irrazionalismo
ed inserirlo in un quadro di concezioni del mondo contrarie alla
democrazia.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011/2012
36- QUESTIONE BALCANICA. SITUAZIONE
1914-1918. SISTEMI DI ALLEANZE.
PRECEDENTE
LA
GUERRA
Si è già considerata la situazione di decadenza dell’Impero
Ottomano. Da ultimo la si è potuta, tra l’altro, trovare con
la conquista della Libia da parte dell’Italia. Nel secolo XIX
acquistarono la propria indipendenza dal dominio turco,
nell’Europa balcanica, Serbia e Bulgaria, anche grazie
all’interessamento e alla protezione dell’Impero Russo. L’Impero
Austriaco, nel 1908, si annetté la Bosnia Erzegovina, di cui
già in precedenza, nella seconda metà del secolo XIX, aveva
acquistato l’amministrazione.
La Grecia, come visto, si era resa indipendente già dal 1830.
Dopo il ricordato conflitto tra Italia e Turchia, con la prima
guerra balcanica, tra il 1912 e il 1913, Bulgaria, Serbia,
Montenegro e Grecia attaccarono e sconfissero la Turchia,
privandola della più grande parte dei suoi domini europei. Si
deve, peraltro, almeno accennare che, nello stesso 1913, per
contrasti tra gli Stati vincitori sulla divisione dei territori
conquistati, scoppiò la seconda guerra balcanica. Questa guerra,
combattuta da Montenegro, Serbia, Grecia, Romania e Turchia
contro la Bulgaria, vide la sconfitta dei Bulgari, ancora
nell’anno 1913.
La penisola balcanica divenne uno dei centri della crisi politica
europea. In seguito alle guerre combattute nel 1912 e nel 1913
la Serbia aveva acquistato, in questa regione, un certo
predominio. Alla crescita territoriale ottenuta si accompagnava
anche un aumento della possibilità serba di porsi come punto
di riferimento per tutte le popolazioni slave della zona
balcanica, pure in una prospettiva di costruzione di un unico
Stato nazionale. Occorre ricordare, a questo punto, che, come
già visto, l’intera vicenda storica dei secoli XIX e XX è stata
pure caratterizzata da lotte e aspirazioni per lo Stato
nazionale, anche considerato come garanzia per l’indipendenza
dei popoli. Lo stesso Risorgimento italiano si inserisce in
questo tipo di lotte.
Il disegno nazionalista serbo trovò un forte ostacolo nella
politica dell’Austria. L’Austria, infatti, dopo la sconfitta
con l’Italia, si era rivolta ad un’espansione in direzione,
appunto, della zona balcanica (e in questo discorso si inserisce
bene la ricordata annessione della Bosnia Erzegovina). In questo
modo viene a svilupparsi una rivalità tra Serbia, alleata della
Russia (tradizionale protettrice dei popoli slavi), ed Austria.
Inoltre l’Austria, per il carattere multinazionale del suo
impero, doveva temere le spinte nazionalistiche a favore
dell’unità degli slavi, spinte provenienti dalla Serbia.
Si è visto come l’Impero Austro-Ungarico fosse legato, attraverso
la Triplice Alleanza, con la Germania e con l’Italia.
La rivalità tra Austria e Russia nella zona balcanica contribuì
ad allontanare tra di loro Impero Russo e Germania, alleata
dell’Austria.
Inoltre la forza economica della Germania, la sua linea di aumento
degli armamenti anche indirizzata a raggiungere e superare la
forza della flotta inglese, la sua crescente influenza economica
e politica sulla Turchia e, in generale, sul Medio Oriente
spinsero la Francia, tradizionale avversaria della Germania dopo
la sconfitta del 1870, la Gran Bretagna e la Russia ad una intesa
tra loro (Triplice Intesa).
Il Regno d’Italia, pur continuando a far parte della Triplice
Alleanza, si avvicinò anche alla Francia.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
37- PRIMA GUERRA MONDIALE.
Lo scoppio della prima guerra mondiale avvenne nel 1914.
La causa scatenante il conflitto fu l’uccisione, a Sarajevo,
nella Bosnia, il 28 giugno 1914, dell’erede al trono austriaco,
l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, nato nel 1863, in
seguito ad un complotto sorto nell’ambiente del nazionalismo
serbo.
Il governo dell’Austria addossò alla Serbia la responsabilità
di quanto accaduto e, dopo un ultimatum che, se compiutamente
accettato, avrebbe imposto alla sovranità serba dure
limitazioni, le dichiarò guerra, il 28 luglio 1914.
Si schierarono a favore della Serbia la Russia, la Francia e
la Gran Bretagna; a favore dell’Impero Austro-Ungarico la
Germania. Il 23 agosto 1914 il Giappone, interessato alle
posizioni tedesche in Asia, dichiarò guerra alla Germania. La
Turchia, invece, nello stesso 1914, entrò nel conflitto dalla
parte dell’Austria e della Germania.
L’Italia si mantenne, per il periodo iniziale, neutrale. Va
rilevato che tanto l’Austria quanto la Germania avevano lasciato
fuori lo Stato italiano dalle loro iniziative, non informandolo
neanche.
Il conflitto divenne rapidamente mondiale.
La Germania, invaso il Belgio, nonostante la sua neutralità,
attaccò la Francia. L’esercito tedesco venne tuttavia fermato
in una sanguinosa battaglia sul fiume Marna. Sul fronte francese
la situazione rimase statica fino ad una nuova violenta e
sanguinosa offensiva condotta dai tedeschi a Verdun, tra febbraio
e giugno 1916. In questa offensiva, considerando le perdite
francesi e tedesche, si ebbero più di mezzo milione di morti.
Peraltro nessuno dei contendenti riuscì ad avere concreti
vantaggi, né nella richiamata offensiva di Verdun, né nella
successiva controffensiva anglo-francese sul fiume Somme (che
costò circa un milione di morti).
La guerra causò morti e distruzioni anche sul fronte orientale.
Va ricordato che l’entrata nel conflitto della Bulgaria a fianco
di Austria e Germania portò al crollo della Serbia, ancora nel
1915.
Il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra, schierandosi
con Inghilterra, Francia e Russia. In Italia i gruppi
interventisti che desideravano la guerra contro l’Austria e la
Germania andavano dai nazionalisti ai democratici. Tra l’altro
veniva anche sottolineata l’esigenza di una completa
unificazione del territorio nazionale italiano. Si può inoltre
ricordare che, comunque, con il Trattato di Londra, dell’aprile
1915, il governo italiano, senza informare né il Parlamento né
la popolazione, aveva preso l’impegno dell’entrata in guerra
a fianco, appunto, di Francia, Inghilterra e Russia.
Complessivamente con il 1916 apparve chiaramente il carattere
fondamentale di una guerra non risolvibile con una o poche grandi
battaglie, ma sostanzialmente statica. Le stesse grandi
offensive e controffensive che si succedettero, anche sul fronte
italiano, non furono comunque tali, di per sé, da mutare, in
modo risolutivo, la situazione militare. Dette offensive e
controffensive, dunque, come accennato, provocarono grandi
stragi, con migliaia e migliaia di morti, senza che riuscissero
a risolvere il conflitto.
Questa situazione, in contrasto con la rapida fine della guerra
che ci si aspettava nel 1914, prima dell’inizio delle ostilità,
ebbe varie conseguenze negative all’interno degli Stati
coinvolti. Negli eserciti si ebbero diserzioni, duramente
represse. Dal punto di vista socio-politico crebbe un’atmosfera
di malcontento. A questo proposito va ricordato subito che
nell’Impero Russo, economicamente arretrato e politicamente
rigidamente dominato dall’assolutismo dello zar, il malcontento
e le sofferenze popolari sfociarono, nel 1917, in una
rivoluzione.
In conseguenza di questa rivoluzione la Russia concluse la pace
con Austria e Germania (con il trattato di Brest Litovsk del
3 marzo 1918).
Nello stesso 1917, nel mese di aprile, si verificò, però, a favore
di Francia, Inghilterra e Italia, l’intervento nella guerra
mondiale degli Stati Uniti. Questo intervento fu di grande
importanza ai fini della vittoria contro Austria e Germania.
La decisione americana di entrare nel conflitto fu favorita
dall’offensiva della guerra sottomarina tedesca contro le navi,
anche neutrali, che portavano rifornimenti all’Inghilterra e
agli alleati. Bisogna infatti sottolineare come gli Stati Uniti,
anche prima dell’aprile 1917, abbiano sostenuto, appunto con
rifornimenti, lo sforzo inglese. Gli storici, a questo proposito,
hanno pure ricordato la vicinanza etnica, culturale, politica
tra USA e Gran Bretagna. Hanno inoltre ricordato la convenienza
economica per gli Stati Uniti e per le loro industrie delle
numerose richieste di prodotti che venivano dai paesi impegnati
contro Austria e Germania.
Prima che si sviluppasse efficacemente l’intervento americano
e favoriti dalla crisi russa, che permise di spostare truppe
già impegnate sul fronte orientale, l’Impero Austro-Ungarico
e la Germania lanciarono offensive sul fronte francese e su quello
italiano.
Con la battaglia di Caporetto le truppe italiane vennero
sconfitte e spinte alla ritirata. Peraltro l’esercito italiano
riuscì a riorganizzarsi e a resistere sulla linea del Piave
(dicembre 1917), sulla riva destra del fiume. Questa resistenza
rappresentò per l’Italia un momento di unione e di volontà comune
di riscossa.
In generale l’intervento americano portò, con la fine del 1918,
alla sconfitta di Austria e Germania e dei loro alleati anche
in conseguenza della stanchezza delle loro popolazioni.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
38- TRATTATI DI PACE E SITUAZIONE SUCCESSIVA ALLA GUERRA
MONDIALE.
Si sono considerate le vicende sociali, politiche e militari
che condussero Austria e Germania alla sconfitta.
Infatti, in Germania, come prima in Russia, la durezza della
situazione economica e sociale portò a moti rivoluzionari. Questi
moti vennero incoraggiati dai Russi. Il sovrano tedesco,
Guglielmo II (1859-1941), abdicò e venne proclamata la
repubblica, il 9 novembre 1918. La Germania firmò l’armistizio
il giorno 11 novembre 1918.
Nei territori che avevano fatto parte dell’Impero Austro Ungarico
la
situazione
era
anche
segnata
dalla
conquista
dell’indipendenza da parte delle varie nazionalità. L’Impero
Austro Ungarico firmò l’armistizio già il 3 novembre 1918. Il
12 ed il 16 novembre 1918 si proclamarono Repubbliche
indipendenti prima l’Austria, poi l’Ungheria.
Il comportamento delle potenze vincitrici fu caratterizzato,
tra l’altro, dal principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Un principio, questo, che era fra quelli già affermati dal
presidente americano Thomas Wilson (1856-1924), nel gennaio del
1918. In questo medesimo spirito di rinnovamento democratico
venne anche creato un nuovo organismo internazionale: la Società
delle Nazioni, con sede a Ginevra. Importante compito di tale
nuovo organismo era quello di risolvere le questioni tra gli
Stati in modo pacifico, senza nuove guerre.
Al detto principio di autodeterminazione si accompagnò una certa
volontà punitiva nei confronti degli Stati sconfitti e, inoltre,
una linea politica dettata dalla paura per la rivoluzione russa
e la sua espansione internazionale.
Con il trattato di pace di Versailles, del gennaio 1919, la
Germania perdette vari territori. Alsazia e Lorena, acquistati
all’epoca di Bismarck, tornarono alla Francia.
Sottraendo territori alla Germania, al vecchio Impero
Austro-Ungarico e alla Russia venne formata la Polonia. In
particolare per consentire a questo Stato uno sbocco sul Mar
Baltico gli venne riconosciuto il cosiddetto corridoio di
Danzica, una porzione di territorio tolta alla Germania. Danzica
non entrò a far parte dello Stato polacco ma ebbe carattere di
città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni.
Con questo corridoio territoriale si venne a creare una
separazione tra la Prussia orientale e il resto dello Stato
tedesco.
Giappone, Gran Bretagna, Francia e Belgio si divisero le colonie
della Germania.
Vennero inoltre imposti allo Stato tedesco il pagamento di forti
spese di guerra e la riduzione degli armamenti e delle forze
armate.
Tra il 1919 e il 1920 venne regolata la pace con l’Austria e
con l’Ungheria, rispettivamente con i trattati di Saint-Germain
e del Trianon.
In seguito alla sconfitta e alla dissoluzione dell’Impero Austro
Ungarico si formarono la Cecoslovacchia, attraverso l’unione
di Boemia e Moravia con la Slovacchia, e la Iugoslavia. La
creazione del regno Iugoslavo, che venne incontro alle esigenze
degli slavi, fu alla base di questioni con il Regno d’Italia.
All’Italia, infatti, vennero dati il Trentino e l’Alto Adige,
sino al Brennero, Trieste, l’Istria. Tuttavia, in considerazione
del principio di favore per l’autodeterminazione dei popoli,
vennero negate la Dalmazia e la città di Fiume. Si deve mettere
subito in rilievo come, di fronte a questo rifiuto, nella
situazione politica italiana si sviluppasse un forte malcontento
e si cominciasse a parlare di vittoria mutilata. Si accenna fin
da ora che in tale atmosfera Gabriele D’Annunzio, a capo di un
gruppo di ex combattenti, occupò Fiume, nel settembre 1919.
La pace con la Bulgaria fu regolata con il trattato di Neuilly.
Anche la Bulgaria cedette territori alla Iugoslavia, oltre che
alla Grecia e alla Romania (che erano tra gli Stati vincitori
della guerra mondiale). Il trattato di Sevres, nel 1920, regolò
la pace con la Turchia.
Lo Stato turco perse i propri domini territoriali esterni
all’Anatolia. Così, attraverso il sistema del mandato (incarico
dato ad una grande potenza di amministrare un territorio
coloniale, formalmente fino al maturarsi delle condizioni
necessarie per l’indipendenza di quest’ultimo) Francia e
Inghilterra si spartirono i possedimenti asiatici dell’Impero
turco. Alla prima andarono Siria e Libano; all’Inghilterra
Palestina, Transgiordania, Irak. Peraltro, nella stessa
Anatolia, i Greci occuparono la città di Smirne, sulla costa
del Mare Egeo.
Di fronte a questa situazione il generale Mustafà Kemal
(1881-1938), detto Ataturk (ossia padre dei Turchi), si mise
alla testa di una ribellione contro le ingerenze straniere e
contro il sultano turco. Sconfitti gli eserciti di occupazione
e proclamata, nel 1923, la Repubblica, Kemal avviò la costruzione
di
uno
Stato
nazionale,
l’odierna
Turchia,
situato
essenzialmente in Anatolia, laico e moderno, caratterizzato,
però, anche da un forte autoritarismo e dalla repressione delle
minoranze etniche (come i Curdi).
Va anche ricordato come in seguito alla crisi dell’Impero Russo
raggiunsero l’indipendenza Finlandia, Estonia, Lettonia,
Lituania.
La situazione internazionale emersa dopo la fine della prima
guerra mondiale era una situazione piena di squilibri e di motivi
di crisi, che portò fino alla comparsa di dittature e, poi, allo
scoppio della seconda guerra mondiale.
La stessa Società delle Nazioni, che era stata allora istituita
per regolare i rapporti tra gli Stati, non avendo la
partecipazione
né
della
Germania,
né
della
Russia
rivoluzionaria, né degli Stati Uniti, non ebbe profonda
efficacia.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011/2012.
39- SITUAZIONE ECONOMICA CAPITALISTICA E SVILUPPI DELLE
ORGANIZZAZIONI SOCIALISTE DA MARX ALLA RIVOLUZIONE IN RUSSIA.
Si sono già considerate le caratteristiche essenziali dello
sviluppo economico capitalistico tra XIX e XX secolo. Si è anche
più volte ricordato lo stretto legame esistente, fin dagli inizi
della rivoluzione industriale, tra lo sviluppo economico e la
crescita del proletariato di fabbrica. Abbiamo inoltre
incontrato la figura di Karl Marx e abbiamo considerato la sua
opera di studioso dell’economia e di rivoluzionario.
Si è visto come, in generale, Marx rimproverasse al sistema
capitalista la contraddizione fondamentale di un accrescimento,
anche attraverso la scienza, della produzione e della
produttività del lavoro, che, invece di andare a vantaggio di
tutta la società, era indirizzata al solo profitto degli
imprenditori. Tra gli effetti di questa contraddizione Marx ha
anche richiamato le crisi di sovrapproduzione (da noi già
incontrate). In un sistema di produzione basato sullo
sfruttamento del lavoratore (massimo lavoro e minimo salario)
si crea il rischio che complessivamente non ci sia domanda dei
prodotti fabbricati (anche se utili). In generale le crisi di
sovrapproduzione rappresentano una dimostrazione della mancanza
di un giusto collegamento tra i bisogni della collettività, ossia
di tutti i consumatori, e sistema della produzione, basato, come
visto, sull’esigenza di ogni imprenditore di ottenere per sé
il massimo profitto.
Dal punto di vista politico, scopo della rivoluzione marxista
è la presa del potere da parte del proletariato, per avviare
una società libera dalle catene dello sfruttamento. Si può anche
annotare che, nella dottrina marxista, pure dopo la rivoluzione,
avrebbe avuto sviluppo dapprima una fase preparatoria, chiamata
pure socialista, basata sul principio “da ciascuno secondo le
sue possibilità a ciascuno secondo il suo lavoro”. Questa fase
sarebbe stata seguita dalla fase completamente comunista,
organizzata secondo il principio “da ciascuno secondo le sue
possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Si
è
vista
la
crescente
diffusione
internazionale
dell’organizzazione industriale capitalistica. Naturalmente
parallela a questa diffusione è stata la diffusione di un
proletariato industriale in vari Paesi, in un quadro sempre più
internazionale. In tale prospettiva già nel 1848, nel Manifesto,
Marx ed Engels potevano invitare il proletariato di tutti i Paesi
ad unirsi per insorgere contro l’oppressione esercitata dal
sistema capitalista.
Karl Marx esercitò la propria influenza teorica e politica anche
nel quadro della Associazione internazionale dei lavoratori,
detta pure Prima Internazionale, un’associazione nella quale
si riunirono sindacati e gruppi libertari di varia nazionalità,
che ebbe vita dal 1864 al 1876.
I
fenomeni,
già
considerati,
dell’estendersi
dell’industrializzazione nei paesi europei, e, quindi,
dell’accrescimento del proletariato, costituirono il contesto
nel quale si svilupparono nuove esperienze politiche
rivoluzionarie.
E’ da ricordare, così, nel 1871, dopo la sconfitta di Napoleone
III da parte dell’esercito prussiano, il governo rivoluzionario
di Parigi (noto come la Comune di Parigi), formato contro il
governo provvisorio conservatore, guidato dall’uomo politico
Adolphe Thiers (1797-1877), che reggeva la Francia dopo la caduta
di Napoleone. La Comune di Parigi era ispirata a principi
socialisti e di democrazia diretta. Venne abbattuta da Thiers,
in accordo con la Germania, con una repressione che provocò circa
ventimila morti.
Industrializzazione e sviluppo del proletariato favorirono
anche, sempre in maggior misura, la nascita e la crescita di
partiti socialisti ispirati al pensiero marxista. Si può
ricordare che, studiando Giolitti, abbiamo già incontrato il
partito italiano.
In questo orizzonte generale, nel 1889, nacque la Seconda
Internazionale, struttura di collegamento tra i diversi partiti
socialisti.
Va peraltro detto che questi partiti persero progressivamente
la propria carica rivoluzionaria, a favore di una linea politica
più riformista, indirizzata ad accomodamenti con i governi per
miglioramenti graduali della classe operaia.
In certi casi gli stessi principi marxisti vennero apertamente
criticati.
Davanti alle vicende economiche e ai contrasti economici e
politici tra Stati che portarono al primo conflitto mondiale
e poi ai massacri e alle sofferenze di questa guerra si registrò
un più forte orientamento rivoluzionario.
Di fronte all’atteggiamento di molti partiti socialisti non
contrario alla guerra, in Russia il Partito Operaio
Socialdemocratico Russo Bolscevico (partito di ispirazione
marxista, che, dal 1918, prese il nome di Partito Comunista
Bolscevico), guidato da Vladimir Ilic Uljanov detto Nikolaj Lenin
(1870-1924), denunciò il conflitto mondiale come massacro
imperialista. Sviluppando concezioni di Marx, Lenin vide la prima
guerra mondiale come fase sanguinosa dello scontro tra gli
interessi della borghesia dei vari paesi coinvolti, sviluppo
dell’imperialismo, ossia, appunto, di quella sempre più accesa
rivalità economica e politica tra Stati che si era espressa anche
nella crescente spartizione del mondo.
Va ricordato ancora il carattere estremamente arretrato della
Russia zarista di questo periodo. Già nel 1905 si erano avute
manifestazioni di protesta, represse nel sangue, e vari moti
rivoluzionari, che, tuttavia, non riuscirono ad intaccare
sostanzialmente il potere dello zar. La situazione di malcontento
venne notevolmente aggravata dai massacri della prima guerra
mondiale. Ci fu, dunque, nel 1917, un’altra rivoluzione, che
costrinse lo zar, Nicola II Romanov (1868-1918), ad abdicare.
La situazione immediatamente seguente fu caratterizzata da un
lato dalla presenza di un governo provvisorio, ispirato alle
esigenze liberali, e, da un altro lato, dalla presenza del soviet
(ossia, in russo, consiglio), organo nel quale erano
rappresentati operai e soldati. Vi erano vari soviet,
differenziati territorialmente: locali, di distretto, di
provincia, panrusso.
Di fronte alla volontà del governo provvisorio di continuare
la guerra e di rinviare la riforma agraria (per distribuire più
equamente la terra) la situazione politica si spostò a favore
dei bolscevichi (sempre più influenti all’interno dei soviet)
che, infine, nel novembre 1917 (ottobre, secondo il calendario
allora in uso in Russia), presero il potere (cosiddetta
Rivoluzione d’ottobre).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
40- RIVOLUZIONE BOLSCEVICA E COSTRUZIONE DELLO STATO SOVIETICO.
La situazione russa rappresentò una sfida per le concezioni
marxiste di Lenin e degli altri bolscevichi. Infatti la Russia,
come visto, era arretrata e non aveva, e non potava allora avere,
una forte classe operaia, base della rivoluzione secondo Marx.
In questo senso si avvertì la necessità di un’alleanza tra operai
e contadini. Si avviò la distribuzione delle terre ai contadini.
Si giunse inoltre, anche al prezzo di molte perdite territoriali,
alla pace con la Germania, nel 1918.
La originaria scarsa industrializzazione (e, conseguentemente,
la mancanza di una numerosa classe operaia) fu uno dei fattori
di fondo che ostacolarono la realizzazione democratica del
progetto marxista in Russia.
Di fronte alla necessità di concentrarsi e di utilizzare ogni
sforzo per la realizzazione di una moderna struttura produttiva
(in un percorso che, pure, avrebbe potuto favorire uno sviluppo
democratico), la situazione fu, per lungo tempo, terribile.
Scoppiò anche, infatti, una guerra civile, nella quale varie
armate controrivoluzionarie vennero incoraggiate ed aiutate dai
paesi occidentali, timorosi del contagio rivoluzionario.
I bolscevichi resistettero. Lev Davidovic Bronstein detto
Trotskij (1879-1940), un dirigente bolscevico, organizzò
l’Armata Rossa.
Tra i fatti e le tappe di questo periodo terribile, come esempio
di intervento militare straniero contro lo Stato sovietico, va
ricordato l’attacco alla Russia rivoluzionaria da parte della
Polonia, guidata dal generale Jozef Pilsudski (1867-1935). Così,
nel 1920, truppe polacche invasero l’Ucraina; ricacciate da una
controffensiva dell’Armata Rossa, che giunse sino a Varsavia,
vennero aiutate dalla Francia e, in questo modo, con la pace
di Riga, del 1921, la Polonia poté acquistare parti del territorio
ucraino.
Nel periodo della guerra civile, anche tenuto conto
dell’arretratezza della Russia, i comunisti russi considerarono
la loro rivoluzione come l’inizio, l’innesco della rivoluzione
mondiale. Era anche diffusa la convinzione che solamente l’aiuto
delle rivoluzioni proletarie occidentali avrebbe permesso alla
Russia sovietica di sopravvivere.
La fine di quella guerra civile che aveva prodotto lutti e
distruzioni,
il
fallimento
della
rivoluzione
mondiale
incoraggiata e sperata dai bolscevichi spinsero Lenin e il potere
sovietico da un lato ad una politica (la Nep, nuova politica
economica) di maggiori concessioni per le iniziative economiche
dei privati, da un altro lato ad un restringimento delle libertà
politiche.
Il nuovo Stato, uscito dalla rivoluzione e dalla guerra civile,
era uno Stato federale: l’Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche (Urss), proclamato nel 1922. Con il termine sovietico
si richiamava quella che doveva essere la cellula base dello
Stato, il soviet. Ciò in conformità alla vecchia formula di Lenin:
“Tutto il potere ai soviet”.
Questo nuovo Stato, a partito unico, ebbe una forte accentuazione
autoritaria con il successore di Lenin (che era morto nel 1924),
Josif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin (1879-1953), che
rimase al potere fino alla morte.
Stalin, vista anche la situazione internazionale, portò avanti
la concezione politica della costruzione del socialismo in un
solo paese.
Per rafforzare economicamente la Russia, Stalin avviò un processo
di accelerazione dell’industrializzazione.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof Frontini
41- SITUAZIONE IN ITALIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE. SVILUPPO
DEL FASCISMO.
Trattando la situazione immediatamente successiva alla prima
guerra mondiale si è già avuto modo di considerare il malcontento
italiano. Infatti si è visto che di fronte a questioni come quelle
della Dalmazia e di Fiume si è cominciato a parlare di vittoria
mutilata. Va ricordato che l’Italia inoltre rimase delusa non
avendo potuto prendere parte alla divisione delle colonie della
Germania.
Oltre a questi motivi di malcontento, cresceva anche una forte
crisi sociale, dovuta, tra l’altro, alle difficoltà di
riconvertire, dopo il periodo bellico, l’apparato industriale
alla produzione del tempo di pace. In questo orizzonte di crisi
sociale si inseriscono bene gli scioperi e le agitazioni dei
lavoratori nonché le occupazioni, da parte di questi ultimi,
delle fabbriche.
Gli avvenimenti rivoluzionari in Russia ebbero una certa
influenza sulla situazione sociale e politica italiana. In
effetti tra i lavoratori italiani si diffuse la tendenza a fare
“come in Russia”. Possono così ricordarsi le forti critiche
rivolte al riformismo e all’incapacità rivoluzionaria del
Partito socialista e, quindi, nel 1921, la cosiddetta scissione
di Livorno, quando un gruppo, appunto staccatosi da questo
partito, fondò il Partito comunista d’Italia. Si può inoltre
ricordare come Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori
del nuovo partito, già negli anni precedenti avesse individuato
nel sistema del Consiglio di fabbrica, organizzazione sindacale
all’interno del luogo di lavoro, l’equivalente di quello che
erano i soviet nella Russia rivoluzionaria.
Va sottolineato che, per una serie di motivi, l’ondata di
agitazioni operaie successive alla fine della guerra mondiale
si spense senza poter raggiungere gli sbocchi rivoluzionari che
molti avevano sperato o temuto.
Nel frattempo le forze più conservatrici della società italiana
favorirono ed utilizzarono lo sviluppo del movimento fascista.
Questo movimento, nato nel 1919, ad opera di Benito Mussolini
(1883-1945), il quale era già stato un dirigente socialista,
finì con l’orientarsi sostanzialmente e globalmente in una
direzione di difesa degli interessi degli industriali e
proprietari di terra. Tutto ciò nonostante che certi contenuti
nei primi tempi del movimento non fossero incompatibili pure
con un’ideologia libertaria. Nell’orizzonte della difesa dei
gruppi più ricchi va anche segnalata la crescente violenza delle
squadre fasciste, che organizzarono spedizioni punitive contro
uomini politici e contro sedi di partiti e di associazioni di
sinistra o anche di ambiente cattolico.
Dal punto di vista della linea culturale, dietro il movimento
fascista si trovavano le spinte di un nazionalismo indirizzato
in senso antidemocratico, certe esaltazioni dell’azione
militare, dell’uomo superiore ed eroico ed anche della violenza
presa in se stessa che per molti aspetti riecheggiavano, e spesso
impoverivano, temi agitati da D’Annunzio e dal Futurismo.
Si deve inoltre rammentare dietro il fascismo (il suo sviluppo
come la sua presa del potere) la profonda crisi dello Stato
italiano. Una crisi, questa, che si può presentare come
insufficiente partecipazione democratica popolare alla vita
dello Stato. Abbiamo già individuato questa insufficiente
partecipazione, questa carenza democratica di base come uno dei
problemi fondamentali del Regno d’Italia, fin dalla sua nascita.
Neanche Giolitti, tanto nel periodo precedente alla prima guerra
mondiale come nel periodo successivo ad essa in cui fu ancora
a capo del governo, fu in grado di risolvere il problema.
Proprio nel momento in cui, anche per conseguenza dell’influenza
della guerra mondiale sulla vita sociale italiana, la
partecipazione tendeva a crescere e si sviluppavano sempre di
più partiti popolari di massa (il Partito socialista; il Partito
comunista; il Partito popolare, di ispirazione cattolica,
fondato, nel 1919, da don Luigi Sturzo,1871-1959), il vecchio
gruppo dirigente liberale, nel suo insieme, si rivelò non
all’altezza della situazione. Tale gruppo dirigente, tra
l’altro, non capì la reale natura del fascismo e ritenne di
poterlo utilizzare come contrapposizione ai socialisti e ai
comunisti.
Quando Mussolini, nell’ottobre del 1922, organizzò una marcia
militare fascista su Roma, il re Vittorio Emanuele III
(1869-1947), invece di far intervenire l’esercito, come
richiedeva il presidente del consiglio Luigi Facta (1861-1930),
affidò al fondatore del fascismo l’incarico di un nuovo governo.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
42- SITUAZIONE ECONOMICA AMERICANA.
Osservando la situazione economica e politica internazionale
successiva al primo conflitto mondiale, molti storici hanno
potuto sottolineare il rilievo notevole acquistato dagli Stati
Uniti. In particolare, si è anche osservato che dopo la guerra
1914-1918 gli Stati Uniti si sostituirono sostanzialmente
all’Europa come potenza economica dominante.
Effettivamente, dopo un periodo di crisi (da alcuni ricollegato
ai problemi della conversione dell’industria alla produzione
di tempo di pace), l’economia statunitense ebbe un forte
sviluppo. Va pure ricordato come gli storici abbiano rilevato,
trattando del superamento di questo primo periodo di crisi,
l’attuarsi di una politica contraria alle associazioni
sindacali, in un’atmosfera di forte ostilità nei confronti delle
idee rivoluzionarie comuniste.
Tra i motivi della crescita americana va anche ricordata la
situazione europea al termine del primo conflitto mondiale. Una
situazione, questa, caratterizzata da una ricostruzione
economica in corso, non completata. La fase di riorganizzazione
della produzione portava alla conseguenza dell’aumento della
domanda europea di prodotti americani.
Peraltro, una volta completata la riorganizzazione produttiva
dell’Europa, gli Stati Uniti non soltanto non ebbero più un
mercato di sbocco per i propri prodotti ma trovarono, inoltre,
una nuova fonte di concorrenza nella produzione e nelle imprese
europee.
Storici ed economisti hanno potuto aggiungere la considerazione
della cattiva distribuzione dei redditi, contrassegnata dalla
concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
Si sono anche registrati i guasti legati ad un eccessivo ricorso
alla Borsa (dove vengono scambiate le azioni delle società).
Un ricorso che, nella diffusa illusione di un guadagno facile
e veloce, spinse gli americani pure ad indebitarsi per cercare
di guadagnare, appunto, con operazioni di compravendita sul
mercato borsistico.
Di fronte alla crescente valutazione delle azioni, esagerata
rispetto alla reale situazione dell’economia, il crollo dei
prezzi nella Borsa di Wall Street, a New York, nell’ottobre del
1929, segnò in maniera evidente una crisi economica americana
che doveva durare a lungo e avere conseguenze molto negative
anche in altri Stati.
La crisi statunitense, inoltre, spinse ad un ripensamento, e
ad un accantonamento, del pensiero economico liberista. Già
abbiamo visto che per i liberisti lo Stato non può e non deve
avere alcun ruolo nella vita economica. Per questi pensatori,
infatti, basta il libero mercato a risolvere i problemi
dell’economia. In questo tipo di interpretazione un grande
intervento statale non soltanto è inutile ma anche dannoso.
Abbiamo pure già considerato come per Marx il sistema economico
capitalista sia ingiusto (e destinato ad essere superato) e la
proprietà privata dei mezzi di produzione sia fonte di
sfruttamento
dell’uomo sull’uomo. In un’applicazione del
pensiero marxista si ricorda e si annota ancora come l’Unione
Sovietica, nata dalla rivoluzione bolscevica del 1917, abbia
avuto le caratteristiche di uno Stato ad economia socialista,
senza proprietà privata dei mezzi di produzione.
L’intervento statale nell’economia, contrario ai principi dei
liberisti, fu strumento adoperato dal presidente Franklin Delano
Roosevelt (1882-1945), eletto nel 1932, per risolvere la crisi
statunitense.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
43- RISPOSTA ALLA CRISI ECONOMICA: KEYNES E IL NEW DEAL DI
ROOSEVELT.
Si sono già tracciate le caratteristiche fondamentali della crisi
scoppiata negli Stati Uniti con il 1929. Si deve sottolineare
che questa crisi ha anche rappresentato la spinta per una svolta
importante sia per quel che riguarda il pensiero degli economisti
sia per quel che riguarda l’atteggiamento dello Stato nei
confronti della vita economica.
Si può dire subito come, di fronte alle grandi difficoltà che
stavano colpendo l’economia, nella teoria economica si
svilupparono riflessioni e risposte diverse da quelle che erano
state considerate generalmente migliori e seguite fino a quel
momento nel mondo occidentale. Così, dunque, di fronte alle
difficoltà, aumentarono i dubbi sulla validità delle teorie
liberiste (già da noi più volte incontrate) della capacità della
vita economica di autoregolarsi (ossia di regolarsi da sola)
nel modo più conveniente, senza bisogno dell’intervento dello
Stato. In questo discorso critico, l’economista John Maynard
Keynes (1883-1946) poté mettere in rilievo (confermando, da un
certo punto di vista, le tesi di Marx) la sostanziale incapacità
del mondo economico di autoregolamentarsi, senza intervento
statale, in modo efficiente e con la piena occupazione di tutti
i lavoratori. Dunque, davanti a tale situazione, Keynes poté
valorizzare il ruolo dello Stato e l’importanza della spesa
pubblica. Va comunque sottolineato come questo economista
(contrariamente a Marx) non volesse la fine del sistema
capitalista, ma solo la sua riforma.
Si è iniziato a parlare dell’opera del presidente statunitense
Roosevelt. Roosevelt, dunque, consigliato da economisti, avviò
una nuova linea politica, detta New Deal (che può anche tradursi
nuovo corso).
Di fronte alle insufficienze della domanda e alla limitata
possibilità economica che le masse popolari avevano di acquistare
prodotti si organizzò l’intervento dello Stato. Si sviluppò in
questo modo una politica di spesa pubblica. Lo Stato stesso,
quindi, prese parte alla vita economica. Venne avviato un
programma di costruzione di varie opere, come reti stradali.
Con questo programma, tra l’altro, vennero assunti vari
lavoratori, che altrimenti sarebbero rimasti disoccupati e senza
stipendio. Va anche detto che la possibilità per questi
lavoratori
di
avere,
grazie
all’intervento
pubblico,
un’occupazione e, quindi, uno stipendio poté spingerli ad un
aumento dei consumi. In questo modo, come prevedevano gli
economisti, la spesa pubblica poté pure avere un effetto di
incentivazione e di moltiplicazione dei consumi e della
produzione.
Con il New Deal si avviò inoltre una politica indirizzata alla
crescita degli stipendi e alla diminuzione dell’orario di lavoro.
Anche si appoggiarono e si favorirono le organizzazioni
sindacali. In questo modo vennero ad unirsi le esigenze di una
ripresa dell’economia e le esigenze di una maggiore giustizia
sociale. Così, con il New Deal, si mise in movimento un progetto
di maggiore democratizzazione del mondo del lavoro e di tutta
la società.
Inserita in questa generale azione riformatrice può anche
ricordarsi la formazione di un ente pubblico, denominato
Tennessee Valley Authority, destinato a dirigere e organizzare
gli sforzi per il superamento della depressione del Tennessee.
Il New Deal portò molto avanti la riorganizzazione economica
americana, ponendola e sviluppandola su una base democratica.
Roosevelt, animatore della riforma, venne rieletto presidente
nel 1936, nel 1940, nel 1944 (morì nel 1945).
Tra gli storici si è osservato come con l’avvicinarsi della
seconda guerra mondiale anche la politica del riarmo abbia potuto
portare il proprio contributo alla ripresa economica americana.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
44- SVILUPPI DEL REGIME FASCISTA.
In Italia, dopo l’ottobre 1922, Benito Mussolini, divenuto
presidente del consiglio, avviò una politica di rafforzamento
del fascismo e di preparazione di un regime autoritario.
In seguito a elezioni svoltesi nel 1924 sulla base di una nuova
legge elettorale voluta da Mussolini (cosiddetta legge Acerbo,
con la previsione dei due terzi dei seggi, alla Camera, per la
lista che avesse ricevuto più suffragi) si affermò un
raggruppamento composto da fascisti e moderati. Tali elezioni
furono caratterizzate dalle violenze dello squadrismo fascista
e dai brogli.
Questo successo segnò, peraltro, un momento di crisi nel fascismo
avviato a diventare dittatura. Infatti il deputato socialista
Giacomo Matteotti (1885-1924), in un discorso in Parlamento,
denunciò le violenze e la conseguente illegalità delle elezioni.
Matteotti stesso fu, quindi, rapito e assassinato da una squadra
fascista. Di fronte a questo fatto, e all’emozione e allo sdegno
che ne erano seguiti in Italia, la linea politica prevalente
nell’opposizione fu quella di abbandonare il Parlamento, con
un esplicito richiamo all’Aventino (dove, nella antica storia
romana, si erano radunati i plebei, lasciando soli i patrizi),
allo scopo di dimostrare l’isolamento morale di Mussolini. Questa
linea politica non ebbe successo pratico, anche in considerazione
del fatto che il re Vittorio Emanuele III non fece nulla contro
il capo del fascismo.
Dopo un primo momento di incertezza, Mussolini, convintosi della
propria forza e della sostanziale insufficienza dell’azione dei
suoi avversari, in un discorso, del 3 gennaio 1925, con il quale
si fa iniziare la dittatura, dichiarò, provocatoriamente, di
assumere su di sé ogni responsabilità, storica e morale, del
delitto Matteotti.
A partire dal 1925 una serie di leggi cambiò sempre più in senso
autoritario il volto dello Stato italiano.
Anche se lo Statuto albertino non venne formalmente abolito,
durante il ventennio fascista si poté assistere ad un crescente
accentramento di poteri nelle mani di Benito Mussolini, capo
del governo e capo del partito fascista, chiamato anche duce.
Gli altri partiti politici vennero vietati. Gli oppositori del
regime vennero perseguitati, oltre che dalle azioni violente
dello squadrismo, dall’opera del Tribunale speciale per la difesa
dello Stato, costituito nel 1926.
La figura del re venne di fatto oscurata e coperta da quella
del duce.
In questo quadro di autoritarismo e di accentramento dei poteri
nel governo e, soprattutto, nelle mani di Mussolini, le elezioni
vennero eliminate. Si cominciò con le elezioni comunali, nel
1926. Si continuò con quelle della Camera dei deputati, che,
nel 1939, divenne Camera dei fasci e delle corporazioni, con
membri scelti entro le organizzazioni dello Stato fascista.
Va anche ricordato che il regime, nella sua ricerca di un completo
controllo di tutta la vita sociale, ammise solo sindacati
fascisti che coinvolse nell’organizzazione dello Stato. La
produzione era divisa per branche. Per ogni branca, nel sistema
fascista, la corporazione riuniva il sindacato dei lavoratori
e quello dei datori di lavoro, chiamati ad accordarsi tra loro,
al fine di tutelare l’interesse superiore dello Stato. Lo
sciopero fu considerato un reato.
Aiuto al regime venne anche dalla sistemazione dei rapporti con
il Vaticano, con il Concordato del 1929. Si chiudeva così la
questione aperta con la presa di Roma del 1870.
La concezione del mondo del regime fascista era fortemente
autoritaria. Per il fascismo lo Stato era molto più importante
dell’individuo. Di fronte alle esigenze dello Stato, quindi,
potevano e dovevano essere trascurati, e, se necessario, anche
calpestati, i diritti e le libertà dei cittadini. Vennero così
eliminate, tra le altre, la libertà di manifestazione del
pensiero, la libertà di stampa, la libertà di associazione. In
questo tipo di discorso le idealità dell’illuminismo e della
rivoluzione francese (libertà, uguaglianza) erano espressamente
rifiutate e condannate. Si deve ancora dire che su questa base
di condanna dell’uguaglianza si poté anche sviluppare, nel
ventennio di potere fascista, quel razzismo che pure ebbe
espressione, nel 1938, nelle leggi razziali contro gli ebrei.
Come conseguenza della concezione che stiamo considerando, il
fascismo ebbe una idea gerarchica della vita sociale ed una specie
di culto per il capo supremo, il duce Benito Mussolini. In questo
modo venne esaltata come una virtù la cieca obbedienza. Slogan,
diffusi nel ventennio, come “credere, obbedire, combattere”
oppure “il duce ha sempre ragione” sono abbastanza indicativi
di questo modo di pensare.
Ad un’esaltazione dello Stato come entità assolutamente
superiore ai cittadini, al culto per il capo e alla visione
gerarchica della società, si affianca naturalmente nel fascismo
il culto per la potenza militare dello Stato e per la sua
espressione nella guerra e nella conquista, l’esaltazione della
disciplina e delle virtù militari. Va detto che, in questo senso,
Mussolini impostò per l’Italia una politica estera di potenza.
Tra l’altro, l’Italia occupò l’Etiopia, nel cosiddetto Corno
d’Africa, con una guerra, fra il 1935 ed il 1936, che venne
condannata dalla Società delle Nazioni. Ad aprile del 1939 venne
occupata anche l’Albania.
Già nel 1924, con il trattato di Roma con la Iugoslavia,
Mussolini, venendo incontro ai desideri nazionalisti, aveva
ottenuto, per l’Italia, Fiume, che, nel 1919, era già stata
occupata da D’Annunzio e che, nel 1920, in seguito al trattato
di Rapallo, tra l’Italia e la Iugoslavia, era divenuta uno Stato
indipendente.
Dal punto di vista dell’economia gli storici hanno individuato,
nello sviluppo del regime, due fasi: dapprima, una liberista;
quindi un’altra, contrassegnata dall’intervento pubblico nella
vita economica.
Molti, comunque, hanno sottolineato, in entrambe queste fasi,
la sostanziale situazione di difficoltà e di subordinazione per
i lavoratori.
E’ stato messo in rilievo come l’accentuarsi dell’intervento
dello Stato italiano in campo economico si sia avuto a seguito
della crisi americana del 1929.
Da una parte si può ricordare come questa crisi americana, per
l’importanza
degli
Stati
Uniti
nella
vita
economica
internazionale, abbia influenzato anche vari altri Stati. Da
un’altra parte va osservato che, di fronte, appunto, ai fenomeni
di crisi, la strada dell’intervento pubblico percorsa, in modo
democratico, dall’America del New Deal venne anche intrapresa
dalle dittature dell’Italia e della Germania di Hitler. Sia le
due dittature che la democrazia americana fecero intervenire
lo Stato nella vita economica.
Davanti alle difficoltà economiche lo Stato fascista organizzò
un ente pubblico, detto Iri (Istituto per la ricostruzione
industriale), che assunse la proprietà delle azioni delle imprese
in crisi. Si provvide anche ad abbassare i salari dei lavoratori.
Inoltre si aumentò il peso dei dazi sulle merci estere. A questo
ultimo proposito va sottolineato che lo Stato italiano mirò ad
una completa autarchia economica, cioè ad una completa
autosufficienza dell’Italia nell’economia.
Non possono, infine, non ricordarsi le varie commesse dello Stato
alle imprese. Il riarmo collegato alla guerra in Etiopia favorì
vari settori industriali.
APPUNTI
DI
STORIA
Prof.
Frontini
a.s. 2011/2012
45- SITUAZIONE DELLA GERMANIA. SVILUPPO DEL NAZISMO. FASCISMO
E NAZISMO. GUERRA DI SPAGNA.
La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale, tra
la fine del primo decennio e la metà del secondo decennio del
secolo XX si trovò in una forte situazione di crisi, sociale,
politica, economica.
Gli anni immediatamente seguenti alla fine del conflitto mondiale
videro anche in Germania un deciso movimento comunista ed una
forte
spinta
rivoluzionaria.
Tuttavia
questa
spinta
rivoluzionaria di sinistra fallì. La repressione, frutto
dell’accordo del governo socialdemocratico con la destra e con
l’esercito, portò all’uccisione di molti marxisti (tra i quali
anche l’economista Rosa Luxemburg, 1870-1919, uno dei fondatori
del Partito comunista tedesco).
Nel 1919 una Assemblea nazionale, nella città di Weimar, preparò
una nuova costituzione dello Stato tedesco. Si parla, pertanto,
per lo Stato tedesco prima dell’arrivo al potere di Hitler, di
repubblica di Weimar.
Sconfitte le forze rivoluzionarie di sinistra, il governo
tedesco, dato anche il permanere della crisi economica e sociale,
si trovò di fronte la minaccia della destra. Nel 1923 fallì,
nella città di Monaco, un tentativo di colpo di stato che aveva
tra i suoi ispiratori Adolf Hitler (1889-1945). Hitler stesso
venne arrestato. Rinchiuso in carcere, egli scrisse un libro,
Mein Kampf (che può tradursi come la mia battaglia), nel quale
espose le proprie idee politiche.
Successivamente
si
registrò
un
miglioramento
ed
una
stabilizzazione della situazione tedesca. Va particolarmente
messo in rilievo il ruolo importante avuto dall’investimento
dei capitali americani per il miglioramento economico della
Germania.
Si può capire, quindi, come la crisi di Wall Street e
dell’economia statunitense abbiano avuto effetti disastrosi
sulla vita economica, sociale e politica tedesca. Dal punto di
vista
politico
si
affermò
rapidamente
il
Partito
nazionalsocialista di Hitler. Conseguito, nel 1930, un notevole
successo elettorale, Adolf Hitler, nel 1933, divenne cancelliere
tedesco. Anche in seguito all’affermazione nelle elezioni del
marzo 1933, il capo del nazismo assunse pieni poteri, costruendo
e rafforzando il suo dominio assoluto. Nel 1934, nella cosiddetta
‘notte dei lunghi coltelli’, fece uccidere gli oppositori
all’interno stesso del partito. Ancora nel 1934, Hitler, già,
come visto, nominato cancelliere, prese pure la carica di
presidente.
Ispirandosi alle idee fasciste di Mussolini (che considerava
suo maestro), il capo del partito nazista trasformò la Germania
in una dittatura, con lo scioglimento degli altri partiti
politici e dei sindacati, l’abolizione dei diritti e
l’accentramento dello Stato ottenuto a spese della autonomia
dei Lander tedeschi.
Per consolidare e mantenere questa dittatura vennero organizzate
squadre armate di partito, le SS (Schutz staffein, squadre di
difesa), ed una polizia segreta, la Gestapo (Geheime Staats
Polizei, polizia segreta di Stato).
Come il regime fascista, anche il regime nazista ebbe il culto
dell’autorità, a cominciare da quella del capo supremo, detto
fuhrer (condottiero, duce). Ebbe il culto della forza e della
violenza. Anche il regime nazista combatté, come contrario alla
sua natura, ogni principio democratico, di libertà, di
uguaglianza. Lo Stato di Hitler si fondò, anzi, sul principio
della disuguaglianza delle razze e, in particolare, sulla
supremazia della razza del popolo tedesco, la razza ariana, che
veniva considerata ed esaltata come dominatrice. All’estremo
opposto la razza ebraica era considerata inferiore e doveva
essere sfruttata, cacciata, sterminata. Da ciò ebbe origine la
persecuzione contro gli ebrei, la Shoah, o Olocausto, il
tentativo di sterminio di un intero popolo. Nei campi di
concentramento nazisti trovarono una morte orribile, fino alla
caduta del regime, nel 1945, persone ‘colpevoli’ solo di
appartenere alla razza ebraica o ad altre razze considerate
inferiori.
L’esaltazione della violenza e del dominio come pure della
superiorità della razza tedesca si posero in forte contrasto
con le limitazioni imposte alla Germania con la fine della prima
guerra mondiale.
Dal punto di vista economico e sociale, il regime
nazionalsocialista, come già accennato, affrontò le gravi
conseguenze della crisi di Wall Street con lo strumento
dell’intervento pubblico nella vita dell’economia. Va detto che,
in modo coerente con le caratteristiche dello Stato nazista,
il regime non volle danneggiare, e non danneggiò, gli interessi
dei grandi capitalisti. Va inoltre aggiunto che la politica
economica del nazismo si sviluppò nel senso del riarmo, e, quindi,
del rafforzamento dell’esercito e della potenza militare tedesca
(vietati dal trattato di Versailles).
Nello svolgersi del disegno di un’affermazione della potenza
della Germania, Hitler volle l’annessione dell’Austria allo
Stato tedesco.
Entro il pensiero di Hitler la rinascita della potenza germanica,
di un Impero (Reich), terzo dopo quello medioevale e quello
costituito da Bismarck, e la riunione, in un grande Stato, di
tutti i tedeschi (compresi quelli della Polonia e della
Cecoslovacchia) dovevano precedere l’espansione della Germania
verso i territori dell’Europa orientale, abitati da popolazioni
considerate razzialmente inferiori.
Già nel 1934 era fallito, in Austria, un colpo di stato ispirato
dai nazisti (colpo di stato condannato pure da Mussolini).
L’annessione austriaca riuscì, peraltro, nel 1938.
L’atteggiamento non favorevole alla politica hitleriana
inizialmente presente entro la politica estera dell’Italia di
Mussolini venne rapidamente superato. Gli storici hanno messo
in rilievo che la sostanziale vicinanza ideologica dei due
regimi, fascista e nazista, favorì rapporti sempre più stretti
tra l’Italia e la Germania. Così, tra il 1936 ed il 1937, si
formò quello che, con parole di Mussolini, venne chiamato Asse
Roma-Berlino, una linea politica di accordo, appunto, tra
l’Italia fascista e la Germania hitleriana. Gli storici hanno
pure osservato che tra i frutti della sempre più stretta amicizia
italo-tedesca si trovano anche le leggi razziali italiane del
1938. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il 22 maggio
1939, Italia e Germania rafforzarono ancora i loro rapporti con
il cosiddetto Patto d’Acciaio, con il quale i due Stati si
promettevano aiuto militare in caso di guerra.
I rapporti di amicizia e collaborazione tra Italia e Germania
vennero pure migliorati dal comune sostegno dato dalle due
dittature al colpo di stato militare, iniziato nel luglio 1936
e guidato dal generale Francisco Franco (1892-1975), contro il
governo in Spagna (formato in seguito al successo elettorale
avuto da comunisti e socialisti riuniti in un Fronte popolare).
La Guerra civile di Spagna si concluse, nel 1939, con la sconfitta
del governo, a cui non era bastato l’aiuto dell’Unione Sovietica
e di esponenti antifascisti provenienti da vari paesi e riuniti
in Brigate internazionali.
Dopo l’annessione dell’Austria, Hitler, ancora nel 1938,
continuò il suo disegno di dominio rivolgendosi verso la
Cecoslovacchia. Di fronte alla sostanziale arrendevolezza di
inglesi e francesi alle pretese naziste (arrendevolezza espressa
anche nella Conferenza internazionale di Monaco, nella quale
si discusse il problema cecoslovacco), Hitler, tra 1938 e 1939,
occupò, dapprima, la zona dei Sudeti (una zona montuosa della
Boemia con una forte presenza etnica tedesca) e, quindi, occupata
Praga, impose un protettorato tedesco su Boemia e Moravia.
Guardando la situazione internazionale va notato ancora come,
in Asia, il Giappone, impegnato in una politica militarista e
in una costante linea di aggressione contro la Cina, nel 1936
abbia firmato un patto anticomunista con la Germania. Dopo lo
scoppio della seconda guerra mondiale, con il Patto tripartito,
del settembre 1940, Germania, Italia e Giappone si accordarono
tra loro per una divisione del mondo (Europa ed Africa per i
primi due Stati; Asia per il Giappone).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
46- SVILUPPI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.
Prof. Frontini
Si sono visti gli sviluppi della politica della Germania
nazionalsocialista fino al 1939 e all’occupazione della
Cecoslovacchia. Si sono anche considerate le ragioni ideologiche
della politica nazista. Si è, pure, illustrato il quadro delle
alleanze della Germania (con l’Italia e con il Giappone).
Di fronte al blocco costituito da questi tre Stati troviamo
Francia e Inghilterra.
L’Unione Sovietica, che riteneva di dover temere la politica
di entrambi gli schieramenti, portò avanti trattative con tutti,
rimanendo incerta, fino all’agosto 1939, quando firmò un patto
di non aggressione con la Germania. In tale nuovo orizzonte di
rapporti si trovava anche una divisione in sfere d’influenza.
Così, per questa divisione, Finlandia, Estonia, Lettonia e
Lituania entrarono nell’orbita russa.
Ritenendosi coperto dall’accordo con l’Urss, Hitler attaccò la
Polonia, il giorno 1 settembre 1939, accusandola di voler
contrastare l’interesse tedesco alla propria integrità
territoriale, danneggiata dalla Città-stato di Danzica e dal
corridoio di Danzica. Tutto questo malgrado il carattere
autoritario dello Stato polacco e il suo avvicinamento alla
Germania, testimoniato dal patto di non aggressione firmato dai
due Paesi nel 1934.
In difesa della Polonia, Inghilterra e Francia dichiararono
guerra alla Germania. Nacque in questo modo il secondo conflitto
mondiale.
Inizialmente, nel primo anno di guerra, l’Italia non entrò nel
conflitto.
L’esercito tedesco sconfisse, rapidamente, lo Stato polacco.
Va detto che anche l’Urss, sulla base degli accordi con la
Germania, attaccò e occupò militarmente parte della Polonia.
La guerra fu subito caratterizzata dalla velocità delle vittorie
naziste. Tra l’altro, l’esercito tedesco mise in pratica una
strategia innovativa, basata sull’uso di raggruppamenti di carri
armati per sfondare le linee avversarie. Di fronte alle vittorie
tedesche si parlò di guerra lampo.
La Germania, per ragioni strategiche, calpestò la neutralità
di molti Stati. Vennero così occupate Norvegia, Danimarca,
Olanda, Belgio, Lussemburgo.
Nel 1940 cadde anche la Francia. Il 14 giugno l’esercito tedesco
occupò Parigi.
Di fronte ai successi delle armate naziste, il 10 giugno 1940
l’Italia di Mussolini entrò in guerra al fianco della Germania
di Hitler.
La posizione di Mussolini fu anche quella di cercare una autonoma
affermazione delle truppe italiane, indipendentemente dai
successi dell’alleato nazista. Così, nel 1940, l’Italia attaccò
la Grecia e, nella zona del Corno d’Africa, invase la Somalia
britannica. Inoltre, in Africa settentrionale, partendo dalla
Libia, le truppe italiane attaccarono gli Inglesi in Egitto.
Peraltro, tanto in Grecia che in Africa, la situazione militare
dell’Italia andò sempre più aggravandosi e Mussolini dovette
chiedere l’aiuto tedesco. In questo modo si chiuse quella che
è stata detta ‘guerra parallela’ dell’Italia, ossia l’insieme
delle iniziative militari italiane autonome e distaccate da
quelle tedesche.
In alcuni paesi sconfitti la Germania instaurò governi a lei
fedeli, detti collaborazionisti. Dopo la sconfitta della
Francia, le zone non occupate dai tedeschi vennero sottoposte
al governo del maresciallo Philippe Petain (1856-1951), a Vichy.
Il generale Charles De Gaulle (1890-1970), non accettando la
resa alla Germania ed il governo collaborazionista di Vichy,
fuggito in Inghilterra, si mise a capo di un movimento di
resistenza detto Francia Libera. Le colonie francesi dell’Africa
equatoriale seguirono De Gaulle.
Peraltro, sorsero movimenti di resistenza anche in altri paesi
occupati.
Con la caduta della Francia l’Inghilterra rimase l’unico Stato
a combattere contro le forze dell’Asse. Nella seconda metà del
1940 il suo territorio venne pesantemente bombardato
dall’aviazione tedesca, peraltro validamente contrastata da
quella inglese (cosiddetta battaglia d’Inghilterra).
In questa situazione, Hitler si volse verso oriente e, nel giugno
1941, attaccò l’Unione Sovietica.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
47- VICENDE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE DAL 1941 ALLA FINE.
Già nell’aprile del 1941, in preparazione dell’attacco all’Urss,
Hitler spinse le forze dell’Asse a occupare la Iugoslavia, dove
si era affermata una linea politica antitedesca, anche sostenuta,
nonostante gli accordi tra Unione Sovietica e Germania, dal
partito comunista guidato dall’uomo politico Josip Broz detto
Tito (1892-1980).
La Iugoslavia, in seguito all’attacco nazifascista, venne
smembrata. La Germania occupò la Serbia; Montenegro e Slovenia
entrarono nella zona d’influenza dell’Italia.
Nel giugno 1941, l’attacco tedesco all’Urss, chiamato, nel codice
militare, Operazione Barbarossa, segnò, nella seconda guerra
mondiale, il superamento, entro gli schieramenti, della profonda
contraddizione politica tra le idee a cui facevano riferimento
Germania e Unione Sovietica e l’accordo tra questi due Stati.
In effetti, Hitler sentì fondamentalmente contro natura una reale
alleanza con l’Urss; tra le caratteristiche del nazismo ci fu
anche un estremo anticomunismo. Da un altro punto di vista, va
ricordato che i patti tra Stalin e Hitler provocarono difficoltà
e contraddizioni nel quadro dei vari partiti comunisti.
L’esercito nazista penetrò profondamente nel territorio
sovietico, spingendosi, per fine anno, fin quasi a Mosca.
L’invasione tedesca dell’Urss ebbe anche la conseguenza di
permettere al Giappone una maggiore e più sicura disponibilità
di truppe per lo scopo della costruzione del suo dominio sull’Asia
sud orientale e sull’area dell’oceano Pacifico, senza la minaccia
di un intervento sovietico a difesa della propria zona di
influenza. In questo modo le esigenze dell’imperialismo
giapponese (che abbiamo seguito fin dalle sue origini nel secolo
XIX) vennero a trovarsi direttamente in rotta di collisione con
le esigenze, nell’area del Pacifico, degli Stati coloniali
europei e degli Stati Uniti.
Così, il 7 dicembre 1941, aeroplani giapponesi bombardarono
pesantemente la base statunitense di Pearl Harbor, nelle isole
Hawaii, in Oceania. Nello stesso dicembre 1941, dopo il Giappone,
dichiararono guerra agli Stati Uniti Germania e Italia.
Va comunque ricordato che il presidente statunitense Roosevelt
già da tempo spingeva per vincere l’isolazionismo del suo paese
(un isolazionismo anche provocato dalla delusione per la
sistemazione della situazione internazionale dopo la guerra
1914-1918) in favore di un maggiore impegno per l’Inghilterra
(dove era primo ministro Winston Churchill, 1874-1965).
A partire dal 1942 le truppe del Patto tripartito (Germania,
Italia, Giappone), dopo la massima espansione, vennero fermate.
Gli storici segnalano una serie di gravi sconfitte delle forze
dell’Asse. Così, per il 1942, nell’Africa settentrionale,
l’esercito italo-tedesco venne battuto a El Alamein.
In Russia, tra 1942 e 1943, le truppe tedesche che assediavano
la città di Stalingrado vennero, a loro volta, circondate
dall’Armata Rossa e costrette alla resa.
Nell’oceano Pacifico, tra 1942 e 1943, gli Stati Uniti, con una
battaglia molto dura, riuscirono a conquistare e a liberare dai
giapponesi l’isola di Guadalcanal.
Nel 1943 la situazione delle potenze del Patto tripartito si
aggravò ancora.
Per quel che riguarda l’Italia, occorre ricordare che, dopo le
sconfitte italo-tedesche in Africa, truppe anglo-americane nel
luglio 1943 diedero inizio all’invasione dello stesso territorio
nazionale, sbarcando in Sicilia. Roma, che non era stata ancora
colpita anche per la presenza del Vaticano, il 19 luglio 1943
subì, per la prima volta, un bombardamento aereo, nella zona
di San Lorenzo.
I ripetuti insuccessi militari provocarono la crisi del regime
di Mussolini. Questa crisi si avviò pure all’interno stesso del
partito fascista. Così il Gran Consiglio del fascismo, un organo
del regime, il 25 luglio 1943 approvò un ordine del giorno che
invitava il re Vittorio Emanuele III a prendere effettivamente
il comando delle forze armate, come previsto nello Statuto
albertino.
In seguito alla decisione del Gran Consiglio il re mise a capo
del governo il maresciallo Pietro Badoglio (1871-1956).
Mussolini, arrestato, finì in prigionia sul Gran Sasso d’Italia.
Il partito fascista fu disciolto e venne anche abolito il
Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
La caduta di Mussolini, responsabile della dittatura e di una
guerra di aggressione che era costata all’Italia lutti e
distruzioni, fu accolta con manifestazioni popolari di gioia.
Rimanevano, peraltro, aperti vari e gravi problemi. La guerra,
dichiarata dal fascismo, sopravviveva alla caduta di Mussolini.
Alla sentita necessità di una pace con le potenze antinaziste
si accompagnava la paura per le reazioni della Germania di fronte
al cambio di regime in Italia.
Inoltre, alla fine della dittatura fascista non seguì per nulla
la completa instaurazione di un regime democratico.
Quando poi, il 3 settembre 1943, l’Italia firmò l’armistizio
con la sua resa incondizionata alle potenze antinaziste
(armistizio reso noto il giorno 8 settembre), non venne dato
all’esercito alcun chiaro ordine sul comportamento da tenere.
L’esercito tedesco si mosse per occupare l’Italia. Il re Vittorio
Emanuele III, la corte ed il governo Badoglio lasciarono Roma
e si misero in salvo nell’Italia meridionale occupata dalle
truppe angloamericane.
L’esercito, privo di indicazioni chiare, attaccato dalle forze
armate tedesche, in parte si sbandò, in parte costituì uno dei
nuclei della lotta partigiana di resistenza armata contro le
truppe nazifasciste.
Il 13 ottobre 1943, comunque, il governo italiano dichiarò guerra
alla Germania; gli Alleati antinazisti riconobbero all’Italia
il titolo di cobelligerante.
Dopo l’armistizio italiano, Hitler fece liberare Mussolini e
lo mise a capo di uno Stato, nell’Italia settentrionale, chiamato
Repubblica Sociale Italiana, o Repubblica di Salò, dal nome della
località in cui aveva sede.
Gli avvenimenti politici e militari del 1943 lasciarono, dunque,
l’Italia divisa in due parti: una occupata dagli Alleati, l’altra
dai nazisti. L’avanzata delle truppe anglo-americane verso
l’Italia centro-settentrionale fu lenta e contrastata. In questo
discorso può subito dirsi che Roma venne liberata solamente a
giugno del 1944.
L’anno 1944 fu caratterizzato da una parte dall’avanzata
dell’Armata Rossa (che raggiunse la Polonia), da un’altra parte
da un grande sbarco anglo-americano, nel mese di giugno, in
Normandia, che doveva portare alla liberazione della Francia.
Il crollo del regime nazista avvenne nell’aprile del 1945. Le
truppe sovietiche occuparono Berlino, a partire dal 23 aprile.
Hitler, secondo la ricostruzione accettata dagli storici, morì
suicida nel suo bunker.
In Italia, il 25 aprile 1945, si ebbe un’insurrezione popolare
che liberò molte città prima dell’arrivo delle truppe
anglo-americane. Mussolini venne fucilato dai partigiani (il
28 aprile).
Se la guerra in Europa si concluse nel maggio 1945, con la resa
della Germania (il 7 maggio), il Giappone firmò la propria resa
il giorno 1 settembre 1945, dopo che, sul suo territorio, vennero
sganciate due bombe atomiche: l’una, su Hiroshima, il 6 agosto;
la seconda, a Nagasaki, il 9 agosto. Va anche ricordata la
dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica al Giappone del
giorno 8 agosto 1945.
In seguito alle atrocità commesse dai tedeschi, subito dopo la
seconda guerra mondiale venne organizzato, a Norimberga, un
tribunale che giudicò e condannò, anche a morte, molti alti
esponenti del nazismo.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012
Prof. Frontini
48- DALLA RESISTENZA ALLA NUOVA COSTITUZIONE. SITUAZIONE
ITALIANA DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE E COSTITUZIONE.
Già prima dell’entrata in guerra dell’Italia (nel 1940) e dello
stesso scoppio del secondo conflitto mondiale (nel 1939), il
regime fascista non riuscì a soffocare e a sopprimere
completamente le voci contrarie.
Abbiamo anche visto come, alle origini stesse della dittatura,
in seguito al delitto Matteotti, il movimento antifascista si
sia espresso nel cosiddetto ‘Aventino’, con un richiamo ideale
alle vicende dell’antica Roma.
Questo richiamo storico si trova in un discorso, del 1924, del
deputato socialista Filippo Turati (1857-1932), dove si parla
di un ‘Aventino’, appunto, quale luogo ideale della coscienza
civile contrapposto e separato rispetto alla degenerazione del
Parlamento dopo i brogli e le violenze dello squadrismo fascista.
Questo richiamo, ancora, si accompagnò, peraltro,ad una
sostanziale incapacità delle opposizioni di agire efficacemente
contro il fascismo.
Durante la dittatura molti esponenti antifascisti, di vari
partiti politici, trovarono rifugio all’estero.
Va ricordato che durante la guerra civile di Spagna esponenti
antifascisti combatterono, nelle Brigate internazionali, contro
Franco, appoggiato da Hitler e Mussolini.
Nel corso della guerra mondiale, non possono non richiamarsi,
in un discorso sull’ opposizione e sulla resistenza al regime
in Italia, gli scioperi dei lavoratori nel marzo 1943.
In seguito agli avvenimenti italiani del luglio e del settembre
1943, i partiti politici si svilupparono e si posero come punto
di riferimento per la rinascita della democrazia e per la
conduzione della guerra partigiana contro i fascisti e contro
l’esercito tedesco occupante parte del territorio italiano.
In una resistenza anche divenuta guerra di popolo (come dimostrò,
già nel 1943, l’insurrezione di Napoli, che mandò via i tedeschi
prima dell’arrivo dell’esercito anglo-americano) si inserirono
i rinati partiti, con una funzione di rinnovata, e democratica,
guida politica.
Questi partiti, di fronte alla situazione generale e alle
esigenze della lotta contro l’invasione nazista, si riunirono
in vari Comitati di liberazione nazionale (CLN), diffusi nel
territorio italiano. Particolare importanza e rilievo politico
ebbe il CLN centrale. Notevole importanza nelle zone occupate
dai tedeschi ebbe il CLN Alta Italia (CLNAI).
Va registrato il contrasto del CLN centrale con il governo
Badoglio e con il re Vittorio Emanuele III, accusato della passata
arrendevolezza al fascismo. Ma, con la lotta partigiana in atto
nell’Italia settentrionale, apparve meglio, secondo il
suggerimento del segretario del partito comunista, Togliatti,
accantonare, al momento, i contrasti e dare la maggiore
attenzione al problema della liberazione del territorio
nazionale dall’esercito tedesco e alla vittoria della guerra.
La portata innovativa della situazione che si era venuta a creare
avrebbe poi condotto, subito dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, a notevoli mutamenti nello Stato italiano, e ad una
nuova carta costituzionale, dopo lo Statuto albertino del 1848.
Vari osservatori e vari storici hanno sottolineato come gli
avvenimenti del 1943, la guerra partigiana, le insurrezioni
popolari che il 25 aprile 1945 liberarono molte città dell’Italia
settentrionale, abbiano segnato, nel loro complesso, un processo
di riscatto, anche nella posizione del popolo italiano di fronte
agli altri popoli, ed un avviamento di una ricostruzione dello
Stato su basi democratiche, quali poi dovevano essere espresse
nella nuova Costituzione.
Con la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, l’Italia
si trovò davanti a molti problemi.
Lo stesso territorio dello Stato subì limitazioni. Così l’Istria
passò alla Iugoslavia. Pure la città di Trieste fu contesa dallo
Stato iugoslavo a quello italiano, fino al trattato di Osimo,
tra i due Stati, che, nel 1975, ne riconfermò l’appartenenza
all’Italia.
Inoltre, nel contesto della lotta partigiana iugoslava, guidata
dal dirigente comunista Tito, il gruppo etnico italiano subì
persecuzioni. Si ricordano, in tal proposito, le foibe, cavità
naturali del terreno, nelle quali venivano precipitati i
prigionieri da eliminare.
Tra i problemi dell’Italia del 1945 c’era quello della
ricostruzione, dopo le molte distruzioni causate dalla guerra.
Erano presenti anche importanti problemi politici. Si doveva,
ad esempio, decidere se mantenere, o no, la monarchia.
Come visto, già nel corso delle guerra era sorto contrasto tra
il Comitato di liberazione nazionale e il re, a cui, fra l’altro,
veniva rimproverato il ventennale accordo con il regime fascista.
Sulla questione del mantenimento, o meno, della monarchia, si
tenne, in Italia, un referendum.
Con la parola referendum si indica una decisione presa,
direttamente, dal Corpo elettorale (ossia da tutti gli elettori).
Il 2 giugno 1946 il popolo italiano, tra monarchia e repubblica,
scelse la repubblica.
Si ricorda ancora che monarchia è parola (dalla lingua greca)
che vuol dire potere di uno solo (che è chiamato monarca, o re).
Repubblica è parola che viene dall’espressione latina res
publica, ossia affare comune, affare di tutti (indica, quindi,
una forma di governo nella quale appare necessaria la
partecipazione alla vita politica di tutti i cittadini).
Il 2 giugno 1946 venne anche eletta in Italia, a suffragio
universale, una Assemblea Costituente, che preparò una
Costituzione, entrata in vigore il giorno 1 gennaio 1948.
In questa Assemblea Costituente vennero eletti, e lavorarono
insieme, i rappresentanti dei partiti antifascisti.
I principali partiti furono: Democrazia cristiana (segretario:
Alcide De Gasperi, 1881-1954); Partito socialista (segretario:
Pietro Nenni, 1891-1980); Partito comunista (segretario: Palmiro
Togliatti, 1893-1964).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
49- COSTITUZIONE. COSTITUZIONE E DEMOCRAZIA.
Analizzando il 1848 in Italia e lo Statuto albertino abbiamo
già visto che una Costituzione è la legge principale di uno Stato.
In tale occasione abbiamo già anche osservato che una legge si
divide in articoli. Ancora si ricorda come questi articoli, a
loro volta, si dividano in commi.
Uno sguardo alla Costituzione entrata in vigore nel 1948 mostra
come, in essa, dopo dodici articoli di principi fondamentali
vengano disciplinati i diritti e i doveri dei cittadini e, quindi,
l’organizzazione dello Stato. Seguono disposizioni finali e
transitorie (con articoli numerati a parte, con numerazione
romana).
E’ stato osservato che già l’attenzione riservata alla vita
economica e sociale nello svolgersi dei diritti e dei doveri
dei cittadini rappresenta bene il distacco, e il più alto
contenuto democratico, della Costituzione vigente rispetto allo
Statuto di Carlo Alberto.
Si deve dire che la Costituzione è caratterizzata in tutti i
suoi articoli da un forte spirito democratico.
Si ricorda ancora che democrazia è parola che significa potere
del popolo (da demos che, nella lingua greca, vuol dire popolo).
Così, nell’articolo 1 si può anche leggere: “La sovranità”, ossia
il potere, “appartiene al popolo”.
Alcuni studiosi di diritto hanno potuto sottolineare il carattere
di decisa risposta di molti articoli della Costituzione del 1948
alle idee del precedente periodo fascista.
Dopo le persecuzioni razziali contro gli ebrei, l’articolo 3
della Costituzione dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”.
Va considerato come di fronte all’importanza che ha, per la
democrazia, l’eguaglianza, il comma 2 dello stesso articolo 3
aggiunga: “E’ compito della Repubblica rimuovere”, ossia
togliere, “gli ostacoli” economici e sociali che limitino “di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.
Dopo l’elogio, nel precedente periodo fascista, della forza
militare e delle conquiste armate, l’articolo 11 della
Costituzione dice: “L’Italia ripudia”, ossia respinge, “la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”
(ossia come mezzo di soluzione delle liti tra Stati).
Non può non ricordarsi come, tra le disposizioni finali e
transitorie, il comma 1 della disposizione XII affermi: “E’
vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del
disciolto partito fascista”.
Per quanto riguarda la dinastia dei Savoia, si può notare che
la disposizione XIII anche stabilisce, nel comma 2: “Agli ex
re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi
sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale”.
Questo divieto non esiste più a partire dal 2002.
Per comprendere meglio la Costituzione entrata in vigore nel
1948 ed il suo significato democratico, occorre tornare a
leggere, nella sua interezza, il comma 2 dell’articolo 3: “E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Si sottolinea, dunque, la necessità del “pieno sviluppo della
persona umana”. Uno sviluppo che viene letto, nella Costituzione,
anche all’interno del quadro più vasto della società. Così, per
l’articolo 2, la personalità umana vive nella società: “La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove
si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà”.
In una Costituzione per la quale il pieno sviluppo dell’uomo,
e della sua libertà, si unisce con la sua vita sociale e con
la necessità della solidarietà, il lavoro acquista un’importanza
fondamentale. Già per l’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica
democratica fondata sul lavoro”. Per l’articolo 4, nel comma
1: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto”; nello stesso articolo 4, per il comma successivo: “Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Dalla sottolineatura dell’importanza e della dignità del lavoro
(come mezzo di espressione della personalità e come strada per
il progresso di tutta la società) anche discende, nella
Costituzione, la tutela dell’organizzazione sindacale (che, per
l’articolo 39, comma 1, “è libera”) ed il diritto di sciopero,
previsto all’articolo 40.
Di fronte al problema, di estrema importanza, dell’atteggiamento
dello Stato verso la vita economica, all’articolo 42, comma 1,
si afferma; “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici
appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. Per l’articolo
41: “L’iniziativa economica privata è libera”. Tuttavia questo
stesso articolo precisa: “Non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza,
ala libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi
e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
50- CENNI SU ORGANIZZAZIONE DELLO STATO E COSTITUZIONE DEL 1948.
POSSIBILITA’
DI
MODIFICA
DELLA
COSTITUZIONE
E
CORTE
COSTITUZIONALE.
Si è già cominciata a considerare la carta costituzionale entrata
in vigore in Italia nel 1948. Se ne è sottolineato il carattere
fortemente democratico.
Si ricorda che lo Stato italiano è uno Stato costituzionale,
ossia uno Stato nel quale i diversi poteri (legislativo,
esecutivo, giurisdizionale) sono esercitati da vari organi, e
non appartengono, come nelle monarchie assolute, ad una sola
persona.
Si è già visto che, usando le parole dell’articolo 1 della
Costituzione, “la sovranità appartiene al popolo”. Il popolo,
in Italia, esercita questa sovranità anche attraverso elezioni,
con le quali, appunto, il popolo stesso elegge, ossia sceglie,
propri rappresentanti, chiamati ad occuparsi degli affari della
società.
In collegamento con i caratteri democratici del testo
costituzionale il suffragio è universale. Va notato come
l’apertura del voto alle donne rappresenti il raggiungimento,
anche in Italia, di un’aspirazione profondamente sentita.
Un’aspirazione che, come quella alla parità giuridica, trova,
tra le proprie radici, i cambiamenti dell’industrializzazione
nell’Europa del XIX secolo; cambiamenti che coinvolgono
pesantemente, in termini di sfruttamento, pure la condizione
femminile.
Un’aspirazione,
ancora,
che
si
presenta
nell’elaborazione delle richieste socialiste.
Si ricorda che, per l’articolo 48, comma 1: “Sono elettori tutti
i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore
età”.
Il Parlamento, organo della funzione legislativa, è, nella quasi
totalità dei suoi componenti, eletto dal popolo. Come stabilisce
l’articolo 55 della Costituzione: “Il Parlamento si compone della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. La prima
Camera si compone di 630 deputati, tutti eletti. Il Senato
comprende 315 membri eletti dal popolo. A questi si aggiungono,
sulla base dell’articolo 59 della Costituzione, gli ex presidenti
della Repubblica e coloro che, in considerazione dei loro
“altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e
letterario” sono nominati senatori a vita dal Presidente della
Repubblica. Per il comma 1 dell’articolo 58 della Costituzione
del 1948: “I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto
dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di
età”.
Funzione del Parlamento è quella di produrre le leggi, la
cosiddetta funzione legislativa. Si deve anche richiamare, con
riferimento ai rapporti tra Parlamento e Governo una funzione
di indirizzo politico.
Nella Costituzione il Governo è disciplinato a partire
dall’articolo 92. Così, dunque, per il comma 2 dell’articolo
92: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del
Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.
Il comma 1 dell’articolo 94 afferma: “Il Governo deve avere la
fiducia delle due Camere”. In tal modo l’azione governativa si
accorda con l’indirizzo politico della maggioranza degli eletti
al Parlamento. Il sistema parlamentare in uso con lo Statuto
albertino e fino al regime fascista trova, con la carta
costituzionale repubblicana, conferma e sviluppo democratico.
Il Parlamento ha inoltre funzione di eleggere il Presidente della
Repubblica. Così, in base già al comma 1 dell’articolo 83: “Il
Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta
comune dei suoi membri”.
Nella Costituzione la figura del Presidente della Repubblica
è prevista e regolata negli articoli da 83 a 91. Per il comma
1 dell’articolo 87: “Il Presidente della Repubblica è il capo
dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Egli, in sostanza,
simboleggia l’unità statale e rappresenta una garanzia della
correttezza e della conformità alla Costituzione della vita
politica.
Altro importante potere (o funzione) dello Stato è la
giurisdizione. La funzione giurisdizionale si divide in: civile
(tratta e decide controversie fra privati); penale (accerta e
punisce i delitti); amministrativa (tratta e decide controversie
fra privati e Pubblica Amministrazione).
Le controversie sono decise da un giudice al termine di un
processo.
Esiste pure la possibilità di proporre appello contro la
decisione del processo, dando inizio ad un nuovo processo, di
secondo grado, in cui un altro giudice valuta di nuovo la
questione e dà, quindi, un’altra decisione, di conferma o
contraria a quella del processo di primo grado.
Contro decisioni di secondo grado, sia civili che penali, esiste
la possibilità di ricorrere ancora ad un altro giudice, la Corte
di Cassazione, per motivi riguardanti l’esatta applicazione
delle norme.
Si ricorda che, nella giurisdizione amministrativa, giudice di
secondo grado è il Consiglio di Stato, previsto agli articoli
100 e 103 della Costituzione.
Altro giudice amministrativo da ricordare è la Corte dei Conti
(pure prevista negli articoli 100 e 103 della Costituzione),
che si occupa della correttezza della gestione dei conti pubblici
Si è più volte sottolineato il carattere innovativo e democratico
della Costituzione entrata in vigore nel 1948.
A difesa della carta costituzionale da interventi parlamentari
che ne potessero cambiare il significato, anche colpendo i
diritti delle minoranze, si è stabilita, nella Costituzione
stessa, all’articolo 138, la necessità, per la modifica del testo
costituzionale, di determinate procedure e maggioranze
parlamentari superiori a quelle normalmente necessarie per
approvare una legge.
Occorre anche ricordare, in questo discorso, che, in base
all’articolo 139, non esiste la possibilità, in un quadro legale,
di abolire la repubblica, tornando alla monarchia.
Tra le leggi (e le altre fonti del diritto) si crea una gerarchia
per la quale la posizione superiore appartiene alla Costituzione,
e alle leggi costituzionali, approvate con le procedure previste
all’articolo 138. Le leggi ordinarie del Parlamento (non
approvate nei modi ricordati nel detto articolo 138) non possono
contrastare e non possono modificare la Costituzione.
Bisogna dire, a questo punto, che il discorso di garanzia si
completa con l’istituzione, prevista nella Costituzione stessa,
di una Corte Costituzionale, avente il compito essenziale di
valutare la conformità o il contrasto delle leggi ordinarie
rispetto al riferimento costituito, appunto, dalla Costituzione.
In caso di riconoscimento dell’incostituzionalità di queste
leggi ordinarie, esse vengono abrogate.
La composizione di questa Corte è prevista all’articolo 135 della
Costituzione. Per il comma 1 dell’articolo 135: “La Corte
Costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un
terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal
Parlamento in seduta comune, per un terzo dalle supreme
magistrature ordinaria e amministrative” (Cassazione, Consiglio
di Stato, Corte dei Conti).
Va detto che la Corte Costituzionale cominciò a funzionare
soltanto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione (la
prima sentenza della Corte è del 1956).
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
51- CARATTERISTICHE DELL’UNIONE SOVIETICA. L’URSS FINO ALLA
GUERRA FREDDA.
Si sono già considerate alcune caratteristiche essenziali
dell’Unione Sovietica. Dal punto di vista dell’economia abbiamo
visto l’Urss come uno Stato ad economia socialista, senza, cioè,
l’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Si è, inoltre, sottolineato il collegamento di questo Stato con
l’ideologia rivoluzionaria marxista. Abbiamo seguito, nella
storia, le origini di questo Stato, con Lenin. Si sono, quindi,
ricordate le numerose e drammatiche difficoltà collegate a tali
origini. Appare opportuno sottolineare la notevole speranza
nutrita dai comunisti russi nello scoppio di una rivoluzione
mondiale, da molti considerata elemento indispensabile per la
sopravvivenza stessa della rivoluzione in Russia.
E’ da ricordare come specificamente, tra i comunisti, Trotskij,
nel quadro della teoria della rivoluzione permanente, abbia
cercato di mostrare l’impossibilità della riuscita della
rivoluzione in un solo paese, per di più arretrato come la Russia,
mettendo, fra l’altro, in rilievo il carattere naturalmente
internazionale della vita economica. Partendo, dunque, dalla
considerazione
della
internazionalizzazione,
della
globalizzazione della produzione e dell’economia capitalistica
(al di sopra di limiti regionali o dei limiti costituiti dagli
Stati nazionali) Trotskij, quindi, ha sostenuto l’impossibilità,
anche dal punto di vista economico, di un completo sviluppo verso
il socialismo e il comunismo di un paese isolato. Per Trotskij,
in altre parole, nel sistema capitalistico, l’economia di ogni
paese è strettamente legata all’economia internazionale e, per
questo motivo, non è possibile sviluppare pienamente un’economia
socialista in un singolo Stato, in maniera indipendente da quello
che succede in tutto il resto del mondo.
Come già accennato, la situazione di difficoltà e il venir meno
delle prospettive di rivoluzione mondiale furono tra gli eventi
che accompagnarono, nell’Urss, lo sviluppo dell’autoritarismo
e il sostanziale accentramento dei poteri nelle mani di Stalin.
Dal punto di vista economico, dopo l’ampliamento della proprietà
di Stato, con i primi anni della rivoluzione, e dopo l’esperienza
della Nep (che già abbiamo incontrato), nell’Unione Sovietica
venne costruito un sistema collettivista, con mezzi di produzione
appartenenti allo Stato. L’intera vita economica venne regolata
dall’alto, attraverso piani quinquennali, nei quali si
prevedevano, di volta in volta, gli obiettivi da raggiungere
e i modi per raggiungerli.
Così Stalin riuscì a dare un grande impulso all’industria
sovietica, in tre piani quinquennali (dal 1928 al 1941). Tra
l’altro, la produzione dell’acciaio e l’industria elettrica
ebbero un formidabile sviluppo (in questi campi l’Urss raggiunse
il terzo posto nel mondo).
Va, però, notato che questi risultati vennero ottenuti a prezzo
dell’instaurazione di una dittatura. In questo discorso di
organizzazione della vita economica, va ricordato, inoltre, con
la collettivizzazione dell’agricoltura, la persecuzione dei
contadini ricchi (kulak), uccisi o deportati.
Se ancora Lenin, in un’opera intitolata Stato e rivoluzione,
poteva indicare, rielaborando scritti di Marx e di Engels, la
prospettiva di un’estinzione, dopo la rivoluzione, dello Stato,
a favore di un libero rapporto tra cittadini uguali occupati
nella gestione collettiva della vita economica e sociale, con
Stalin questa linea di uguaglianza viene del tutto accantonata,
sostituita da un sostanziale accentramento del potere nelle mani
del dittatore, al vertice dello Stato.
La stessa collettivizzazione dei mezzi di produzione, in questo
orizzonte politico ed ideologico, non fu uno strumento
indirizzato ad una utilizzazione più cosciente e giusta da parte
della società della ricchezza, ma divenne, nel senso stretto
del termine, una statalizzazione, con un accrescimento dei poteri
dello Stato al di sopra del cittadino. Di fronte a questa
situazione, Trotskij poté indicare, nell’Unione Sovietica, la
crescente importanza del gruppo della burocrazia, vale a dire
di quei funzionari che, inseriti nel partito comunista e nello
Stato, appoggiando Stalin, potevano aumentare la propria
posizione di privilegio, anche a spese degli interessi e del
progresso del popolo sovietico.
L’autoritarismo staliniano, l’accentramento del potere nelle
mani del dittatore si mostrarono anche in una serie di processi,
conclusisi con condanne a morte, che, negli anni ’30 del secolo
XX, videro sul banco degli imputati importanti protagonisti della
rivoluzione bolscevica. Trotskij, che aveva organizzato e
comandato l’Armata Rossa ai tempi della guerra civile in Russia,
fu assassinato, nel 1940, in Messico, dove si era rifugiato per
sfuggire a Stalin.
Va ancora notato come al rafforzamento degli elementi autoritari
dello Stato si aggiunga il fatto che gli interessi dell’Urss,
appunto come entità statale, vengono considerati da Stalin più
importanti rispetto a quelli dell’azione rivoluzionaria mondiale
e degli altri partiti comunisti. Così con la cosiddetta Terza
Internazionale, o Comintern, fondata nel 1919 e raggruppante
i partiti comunisti, si riaffermò la prevalenza del partito
russo. Il Comintern divenne, sostanzialmente, uno strumento
dell’Unione Sovietica staliniana.
Con la fine della seconda guerra mondiale l’Urss e le altre
potenze vincitrici giunsero ad accordi tra loro che segnarono
una divisione del mondo in varie sfere di influenza. Già con
la Conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, e poi con quella di
Potsdam, tra luglio e agosto del 1945, si riconobbe la posizione
di rilievo dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale. Una
posizione di rilievo, questa, che era stata conquistata di fatto,
sul terreno, dalle vittorie dell’Armata Rossa sull’esercito
tedesco.
Si deve inoltre ricordare che lo Stato sovietico, battuta la
Germania, dichiarò guerra, nell’agosto 1945, al Giappone. Con
la sconfitta dell’Impero giapponese l’Urss occupò territori
della Manciuria e della Corea.
L’espansione della zona di influenza sovietica nell’Europa
dell’est ebbe i caratteri antidemocratici che si erano già
sviluppati nell’Urss di Stalin. Ebbero così il modello sovietico
stalinista Stati come Polonia, Bulgaria, Ungheria, Romania,
Cecoslovacchia.
Per quanto riguarda la Germania può dirsi come, tra l’altro,
per il suo rilievo strategico, dovuto alla sua posizione, nel
centro d’Europa, essa fu motivo di contrasto tra Unione
Sovietica, da un lato, e Inghilterra e Stati Uniti, da un altro
lato. All’indomani della sconfitta di Hitler, la Germania venne
divisa in quattro zone (occupate, rispettivamente, da francesi,
inglesi, americani e sovietici). Egualmente, anche Berlino venne
divisa in quattro zone, pure affidate alle quattro potenze
vincitrici. La mancanza di un accordo tra Urss e gli altri Stati
che avevano vinto il nazismo finì con il portare,
successivamente, alla formazione di due Stati in Germania: l’uno,
la Repubblica Federale Tedesca, nella zona controllata dagli
occidentali, con capitale Bonn; l’altro, la Repubblica
Democratica Tedesca, nella zona sovietica, con capitale Pankow,
un quartiere di Berlino. Venne divisa in due anche Berlino. Il
muro di separazione tra le due zone che vi fu costruito nel 1961
è stato uno dei simboli della divisione tedesca.
La questione della Germania, appena citata, non fu che uno dei
punti di emersione di un notevole contrasto che ha segnato, su
base mondiale, la storia della seconda metà del secolo XX: quello
tra Stati Uniti, e alleati, e Unione Sovietica, e alleati.
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011/2012.
52- DIVISIONE DEL MONDO NEL BLOCCO OCCIDENTALE E IN QUELLO
SOVIETICO. CARATTERISTICHE GENERALI DEI DUE SISTEMI E SVILUPPI
DEL LORO CONTRASTO.
Si è già avuto modo di accennare, dopo aver parlato dello sviluppo
dell’Unione Sovietica, alla formazione di una zona d’influenza
dell’Urss nell’Europa centro-orientale e, poi, al contrasto tra
l’Urss e gli Stati Uniti. Più in particolare, come esempio di
questo contrasto, si è richiamata la questione della Germania.
A questo punto, tuttavia, deve essere sottolineato un dato di
grande importanza. Infatti, il disaccordo per la questione
tedesca non è che un episodio di un più grande contrasto. Dunque,
il disaccordo sulla Germania si inserisce bene nel più vasto
quadro della rivalità che si stava avviando tra Stati Uniti e
mondo occidentale, da una parte, e Unione Sovietica, da un’altra
parte.
Va subito messo in rilievo che gli Stati Uniti uscirono dalla
seconda guerra mondiale con il ruolo di grande potenza, o di
superpotenza, come pure si è detto. Tra l’altro, sul territorio
americano non si combatté e questo risparmiò al Paese le grandi
distruzioni che ebbe, per esempio, l’Europa. Va registrata,
inoltre, la notevole crescita delle industrie.
Nel quadro dell’economia mondiale gli Stati Uniti cominciarono,
per le loro stesse caratteristiche, a porsi come guida del mondo
occidentale capitalistico.
In
questo
orizzonte
gli
interessi
economico-politici
statunitensi entrarono in rotta di collisione con gli interessi
dell’Unione Sovietica. Di quell’Unione Sovietica che, come
visto, con la fine della guerra 1939-1945, si stava ponendo come
potenza guida di un blocco di paesi che, dal punto di vista
economico e politico, si ispiravano all’idea marxista come
interpretata e applicata attraverso Stalin e lo stalinismo.
Si può rilevare come questo generale contrasto abbia fatto da
sfondo alla repressione del movimento partigiano comunista greco
da parte dell’Inghilterra, già tra il 1944 e il 1945, e,
successivamente, da parte degli USA, tra il 1947 e il 1949.
Considerando gli Stati Uniti, si può mettere in rilievo che,
dopo la guerra mondiale, la preoccupazione americana di evitare
nuovi periodi di crisi come quello del 1929 spinse anche alla
ricerca e all’attivazione di mercati esteri. Questo discorso
contribuisce a dare spiegazione del cosiddetto Piano Marshall,
o E.R.P. (European Recovery Program). Con questo piano
(predisposto nel 1947 e così chiamato dal nome dal suo ideatore,
l’uomo politico americano George Marshall, 1880-1959) il governo
degli Stati Uniti fornì crediti ai paesi dell’Europa allo scopo
di permettere, nel medesimo tempo, la ricostruzione europea e
la riattivazione del mercato in Europa per i prodotti
dell’agricoltura e delle imprese industriali statunitensi. Si
superarono, in tal modo, i progetti di una ricostruzione europea
autosufficiente. Appare importante considerare che con questa
linea di intervento degli Stati Uniti gli aspetti economici si
trovarono intrecciati a quelli politici. Infatti all’accordo
economico si affiancò l’accordo politico . Gli Stati ad economia
capitalistica occidentali si legarono agli Stati Uniti e
trovarono, dunque, in essi la propria guida economica e politica.
Può ricordarsi come la reazione negativa dell’Unione Sovietica
di fronte al Piano Marshall contribuì pure, in modo importante,
al sorgere (che abbiamo già considerato) di due Stati in Germania,
uno nella sfera occidentale, l’altro nella sfera sovietica.
Nello sviluppo della divisione del mondo in due blocchi, in
Occidente, e con funzione di difesa dall’Urss, nacque, nel 1949
e in seguito al cosiddetto Patto atlantico (Trattato
dell’Atlantico del Nord), la Nato (North Atlantic
Organization). L’accordo militare degli Stati del
sovietico si chiamò Patto di Varsavia.
Treaty
blocco
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
53- SVILUPPO DELLA SCIENZA, EQUILIBRIO DEL TERRORE, RIVALITA’
TRA STATI UNITI E URSS.
Si è finora considerato il sorgere e lo sviluppo di un contrasto
mondiale tra un blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti,
e un blocco orientale, con la guida dell’Unione Sovietica.
Occorre sottolineare che questo contrasto non divenne mai un
vero e diretto scontro militare tra la superpotenza americana
e l’Urss. In effetti questo contrasto assunse, piuttosto, le
caratteristiche di una guerra fredda, ossia di un conflitto non
direttamente e tradizionalmente combattuto con l’uso delle armi.
Si deve mettere in rilievo che dietro l’assenza di una vera e
propria guerra tra Stati Uniti e Urss va anche ricordata
l’utilizzazione, sempre maggiore, della scienza per scopi
militari.
Noi, finora, abbiamo già incontrato l’utilizzazione e lo sviluppo
della scienza nel campo della produzione economica; abbiamo visto
che una caratteristica essenziale della rivoluzione industriale,
a partire dal secolo XVIII, è proprio quella di una, sempre
crescente, utilizzazione della scienza nella produzione.
Ora, appare il momento di sottolineare l’importanza del discorso
scientifico pure sul piano militare. Gli Stati stessi hanno ben
compreso questo rilievo della scienza nel campo militare e,
quindi, hanno finanziato varie ricerche.
Si può fare qualche esempio di utilizzazione bellica della
scienza.
Già nella prima guerra mondiale gli studi scientifici permisero
l’utilizzazione di carri armati e gas tossici.
Durante la seconda guerra mondiale, nel Reich, Werner von Braun
(1912-1977) ed altri scienziati svilupparono, per il governo
tedesco, un programma di ricerche missilistiche che condusse
alla produzione di bombe volanti (chiamate V1 e V2), impiegate
nei bombardamenti su Londra. Non può non ricordarsi, a questo
punto, come gli studi in questo settore scientifico portarono,
dopo la guerra mondiale, tanto l’Urss che gli Stati Uniti alla
costruzione e alla messa in orbita nello spazio extraterrestre
di satelliti artificiali e all’esplorazione interplanetaria.
Ciò pure in un quadro di rivalità tra loro ed anche a prescindere
da diretti fini militari. E’ almeno da valorizzare, a questo
punto, per l’importanza scientifica e simbolica, la discesa sul
suolo della Luna, per la prima volta, di esseri umani, il 16
luglio 1969, con la missione dell’astronave americana Apollo
11.
Va soprattutto sottolineata, nel quadro delle applicazioni
militari della scienza, la nascita, nella seconda guerra
mondiale, della bomba atomica.
Sviluppando ricerche di fisica già avviate, vari scienziati,
impauriti
dalla
possibilità
dell’utilizzazione
nazista
dell’energia nucleare, collaborarono con il governo degli Stati
Uniti per la costruzione dell’arma atomica. Tra questi scienziati
vi fu anche l’italiano Enrico Fermi (1901-1954), che, sposato
ad un’ebrea, abbandonò l’Italia dopo le leggi razziali.
L’energia atomica ha, indubbiamente, aperto nuove prospettive,
sia distruttive che di costruzione, al genere umano.
Più in particolare, nel campo militare, fu raggiunta, una prima
volta, la parità tra Stati Uniti ed Urss nel 1949, con lo scoppio
della prima atomica sovietica. L’eccezionale potenziale
distruttivo delle armi nucleari, tale poi da non permettere,
sostanzialmente, vincitori, impose quello che fu detto
“equilibrio del terrore” ed il carattere non direttamente bellico
del contrasto tra Stati Uniti e Urss.
Peraltro, il principio stesso dell’equilibrio del terrore impose
anche una continua ricerca militare, al fine di evitare di essere
superati dall’avversario.
Appare da mettere subito in rilievo come l’aumento, nella seconda
metà del secolo XX, di Stati in possesso di arsenali atomici
abbia aumentato i rischi per la sicurezza del mondo.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
54- RIVOLUZIONE COMUNISTA IN CINA. DECOLONIZZAZIONE, MARXISMO
E GUERRA FREDDA. ALTRI SVILUPPI DELLA GUERRA FREDDA.
Considerando l’espansione coloniale europea in Asia, si è anche
vista la situazione cinese fino all’abbattimento del potere
imperiale.
Si
è
visto
come
questa
situazione
fosse
caratterizzata, pure dopo l’instaurazione della repubblica, da
contrasti, sfruttamento, disordini. La Cina, inoltre, rimaneva
nel mirino delle potenze estere, soggetta, tra l’altro, alla
volontà espansionistica di quel Giappone che, dopo la prima
guerra mondiale e la sconfitta della Germania, aveva occupato
i possedimenti tedeschi nel territorio cinese.
In questo stato di cose si ebbe, nel 1921, la fondazione del
Partito Comunista Cinese. Tra i fondatori vi fu anche Mao Zedong
(1893-1976). Può mettersi subito in rilievo come la tradizione
contadina della Cina e la sostanziale mancanza di un proletariato
industriale si ponessero in contrasto con la prospettiva marxista
di una rivoluzione guidata dalla classe operaia. A questo
proposito è da aggiungere, fin da ora, che il pensiero politico
di Mao, nel compito della costruzione di una società socialista
in Cina, abbia dovuto svilupparsi nel senso di una valorizzazione
del potenziale rivoluzionario delle campagne.
Anteriormente era stato fondato, ad opera di Sun Yat-sen (il
primo presidente della Repubblica cinese) un partito di
ispirazione nazionalista, detto Kuomintang.
Anche per spinta della Terza Internazionale (riunione dei partiti
comunisti) e dell’Unione Sovietica, P.C.C. (Partito Comunista
Cinese) e Kuomintang diedero avvio ad un’alleanza.
Peraltro, questa politica di alleanza venne spezzata dal
Kuomintang, di cui era successivamente divenuto capo Chiang
Kai-shek (1887-1975), dopo la morte di Sun Yat-sen. Le forze
nazionaliste di Chiang Kai-shek mirarono a togliere ogni
influenza comunista dal Paese, anche eliminando fisicamente
esponenti e seguaci del P.C.C., messo fuori legge.
Dopo vari combattimenti, l’organizzazione militare comunista,
l’Armata Rossa, messa in difficoltà dalle truppe nazionaliste,
riuscì a sottrarsi all’annientamento, insieme con Mao e con gli
altri esponenti del partito, attraverso una ritirata, nota come
Lunga marcia, tra 1934 e 1935. Durante questa marcia si affermò
ulteriormente l’autorità di Mao Zedong.
Nel frattempo l’espansionismo giapponese verso la Cina si era
sviluppato con l’occupazione della Manciuria, dove era stato
costituito un regime collaborazionista retto dal deposto
imperatore cinese P’u yi (1906-1967). Successivamente, e proprio
partendo dalla Manciuria, il Giappone occupò vaste zone della
Cina nord e centro-orientale. Venne occupata anche Pechino.
Con la Lunga marcia l’Armata Rossa di Mao si era portata nel
settentrione del Paese, nella zona di Yenan, in una prospettiva
politica e militare non soltanto di sganciamento dall’offensiva
del Kuomintang ma anche di lotta contro il Giappone.
Come conseguenza dell’imperialismo giapponese e della sua
aggressione al territorio cinese Chiang Kai-shek si trovò
costretto all’accordo con i comunisti per la difesa del
territorio e delle comuni esigenze nazionali.
In seguito alla sconfitta del Giappone nella seconda guerra
mondiale, la guerra civile tra i comunisti di Mao e il Kuomintang
di Chiang Kai-shek riprese. L’Armata Rossa negli anni della
guerra mondiale si era rafforzata, anche numericamente, in
seguito alle esperienze di guerriglia contro l’esercito
giapponese nella parte nord-orientale della Cina. Al contrario
il governo nazionalista del Kuomintang era divenuto più debole
a causa della sua inefficienza e della sua grave corruzione.
La guerra civile cinese si concluse, nel 1949, con la vittoria
di Mao Zedong. Chiang Kai-shek, sconfitto militarmente, costituì
un governo nazionalista nell’isola di Taiwan.
Il governo di Mao si pose di fronte ai drammatici problemi di
una Cina sovrappopolata, non industrializzata, estremamente
povera, con una serie di provvedimenti di ridistribuzione, prima,
e, quindi, di collettivizzazione delle terre e di avviamento
allo sviluppo industriale.
Si è già avuto occasione di dire che la Cina di Mao ha avuto
i caratteri di Stato ad economia socialista, con pianificazione
economica.
L’ascesa al potere del partito comunista in Cina ha avuto
importanti riflessi sul piano internazionale. Da un lato,
infatti, si è creata una prospettiva di alleanza tra il nuovo
Stato comunista e l’Unione Sovietica. Da un altro lato, inoltre,
la rivoluzione in Cina, con la presa del potere da parte di Mao
Zedong, si è inserita nel generale processo di decolonizzazione
registratosi dopo la seconda guerra mondiale. In un discorso
più vasto, può anche dirsi come il modello rivoluzionario cinese
e, maggiormente in generale, quello facente riferimento al
pensiero di Marx siano stati tra i modelli presi come punti di
riferimento per le lotte di liberazione dal colonialismo e per
la ricerca e la richiesta, da parte dei popoli extraeuropei e
non integrati nel mondo occidentale, di indipendenza e di dignità
nazionale.
In sintesi, abbiamo appena incontrato che il modello marxista
sia stato uno dei punti di riferimento per le lotte di liberazione
nazionale contro il colonialismo, e contro il razzismo ad esso
legato.
Va anche detto che l’Urss, nel quadro della guerra fredda,
appoggiò non soltanto i movimenti marxisti ma anche altri
movimenti di liberazione nazionale.
In questo modo, il contrasto tra Stati Uniti e Urss, invece di
scoppiare direttamente come guerra nucleare tra i due Stati e
i loro blocchi di alleanze, si sviluppò anche, nel corso della
seconda metà del secolo XX, nelle forme di un appoggio, dell’uno
o dell’altro blocco, nei confronti dei contendenti di guerre
locali, aventi la loro origine nelle lotte contro il
colonialismo.
Con la rivoluzione comunista in Cina, l’Asia orientale entrò
pienamente nella guerra fredda.
Così, non può non ricordarsi come il Giappone, uscito sconfitto
dalla seconda guerra mondiale, finisse con il trovarsi inquadrato
nel sistema di alleanze americano.
Ancora, in questo orizzonte si può inserire il sostegno
statunitense al regime nazionalista di Chiang Kai-shek a Taiwan.
Nell’ambito dell’Asia orientale può inoltre mettersi in rilievo
la vicenda coreana. Si è già accennato come, dopo la caduta del
Giappone e la fine dei combattimenti del secondo conflitto
mondiale, la Corea fosse parzialmente occupata dall’Unione
Sovietica. Si può ora aggiungere come un’altra parte della Corea
entrasse sotto il controllo degli Stati Uniti. In seguito a queste
vicende si poté registrare la nascita in territorio coreano di
due Stati diversi, ancora attualmente esistenti: la Repubblica
di Corea, con capitale Seoul, situata nel sud della penisola
coreana, e inserita nella sfera di influenza americana; la
Repubblica Democratica Popolare di Corea, con capitale
Pyeongyang, nel nord, con un regime comunista.
Va anche rilevato come la Corea fu teatro di un conflitto armato
che rappresentò uno dei momenti intensi e drammatici della guerra
fredda. Questo conflitto, iniziato, nel 1950, con l’attacco
dell’esercito nordcoreano alla Corea del Sud, e concluso, con
un armistizio, nel 1953, vide l’impegno delle forze armate
statunitensi contro la Corea del Nord e contro la Cina comunista,
alleata del regime di Pyeongyang.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
55- ALTRI SVILUPPI DELL’INTRECCIO TRA DECOLONIZZAZIONE E GUERRA
FREDDA: GUERRA DEL VIETNAM.
Considerando
la
guerra
fredda
abbiamo
appena
incontrato
l’intreccio tra le lotte per la decolonizzazione e gli sviluppi
della rivalità, politica e ideologica, degli Stati Uniti, insieme
al blocco occidentale, e l’ Urss, insieme al blocco orientale.
Si è, dunque, anche visto che movimenti marxisti ebbero grande
importanza nella lotta di liberazione dal colonialismo di vari
popoli non europei.
Come esempio significativo di questa situazione si può pure
ricordare, in Asia sud-orientale, il Vietnam.
Già a suo tempo, guardando il colonialismo europeo in Asia,
abbiamo trovato l’espansione della zona di influenza francese
nella penisola indocinese (e, quindi, in Cambogia, nel Vietnam,
nel Laos). Può ora ricordarsi come, invaso il Vietnam dal
Giappone, nel periodo della seconda guerra mondiale, si sviluppò
un movimento di resistenza vietnamita che, guidato dal comunista
Nguyen Ai Quoc detto Ho Chi Minh (1890-1969), si pose come
obiettivi la cacciata dell’esercito giapponese e l’indipendenza
del Paese. Dopo la sconfitta del Giappone, al termine del secondo
conflitto mondiale, il contrasto tra le aspirazioni del Vietnam
all’indipendenza e la volontà della Francia di mantenere il
proprio potere coloniale condusse ad una guerra di liberazione
contro i francesi, cominciata nel 1946. Dopo vari anni di lotta,
nel 1954, nella battaglia di Dien Bien Phu, le truppe vietnamite,
guidate dal generale Vo Nguyen detto Giap, batterono la Francia.
In seguito a questa battaglia, e successivamente alla Conferenza
di Ginevra, si ebbe che: da un lato, il Vietnam si trovò diviso
in due parti (una, a settentrione, comunista; l’altra, a sud,
legata agli occidentali); da un altro lato, intervennero nella
zona, al posto della Francia sconfitta, gli Stati Uniti, timorosi
dell’ampliamento dell’influenza marxista in Asia.
Il territorio vietnamita, diviso, come accennato, in due parti,
ospitò, dunque, due Stati: Vietnam del Nord, comunista, con
capitale Hanoi e Vietnam del Sud, sostenuto dagli Stati Uniti
e dagli occidentali, con capitale Saigon.
Nel sud operarono gruppi partigiani comunisti.
Gli Stati Uniti si impegnarono a sostenere militarmente il regime
di Saigon contro il Vietnam del Nord e contro i comunisti. A
partire dal 1961, ci fu, negli anni, un crescendo dell’intervento
militare americano. Hanoi e tutto il territorio del Vietnam del
Nord divennero oggetto di pesanti bombardamenti aerei, che
produssero moltissime distruzioni. Per impedire i movimenti dei
partigiani filocomunisti (vietcong) nel Sud del Paese
l’aviazione statunitense devastò le foreste vietnamite con bombe
incendiarie e sostanze chimiche defolianti.
Cina e Unione Sovietica rifornirono di armi il governo di Hanoi.
Peraltro, il crescente impegno militare americano (accompagnato
dall’aumento del numero dei soldati americani morti) se, da un
lato, non riusciva a vincere la resistenza vietnamita, da un
altro lato, faceva aumentare la condanna e il rifiuto della guerra
da parte dell’opinione pubblica statunitense.
Gli Stati Uniti, così, avviarono anche una politica di
disimpegno, cercando un aumento del ruolo, nella guerra, delle
truppe sud-vietnamite.
Occorre comunque dire che sostanzialmente ritiratisi, con il
1973, gli americani, le truppe di Saigon vennero sconfitte. Così,
nel 1975, il Vietnam fu unificato sotto il controllo di Hanoi.
Saigon, la vecchia capitale del Vietnam del Sud, venne
ribattezzata Ho Chi Min
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
56- QUADRO GENERALE DELLA DECOLONIZZAZIONE, TRA SITUAZIONE
ECONOMICA MONDIALE E GUERRA FREDDA. INDIPENDENZA DELL’INDIA.
MOVIMENTO DEI NON ALLINEATI. SVILUPPI DELLA DECOLONIZZAZIONE.
Considerando le vicende storiche successive alla seconda guerra
mondiale abbiamo subito incontrato una prima grande divisione:
la divisione, in due blocchi, tra Stati Uniti e Unione Sovietica,
con i loro rispettivi alleati.
Si è anche accennato la forza ed il predominio economico assunto
dagli Stati Uniti. Si può ancora considerare come la potenza
statunitense, dopo la seconda guerra mondiale, sia diventata
punto di riferimento essenziale nel quadro dell’intera economia
capitalistica, su scala planetaria.
Accanto al contrasto, finora trattato, fra Stati Uniti e Urss.,
dopo la guerra 1939-1945, trovò sviluppo un’altra forma di
opposizione: quella tra Stati ricchi e industrializzati e Paesi
non industrializzati, magari soggetti al dominio coloniale dei
Paesi ricchi. I Paesi non industrializzati vengono anche compresi
nella comune denominazione di Terzo mondo, o di Sud del mondo.
Pare opportuno mettere in rilievo, fino da questo momento, come
tra le origini dell’estrema povertà di questi Paesi, o, per lo
meno, di alcuni di essi, possa anche esservi, in linea generale,
un modello falsato di sviluppo. Vari studiosi, infatti, hanno
ipotizzato che il tipo di sviluppo alla base della crescita e
dell’arricchimento delle zone occidentali sia, per varie
ragioni, quali l’impatto ambientale delle attività umane e
l’esaurirsi delle risorse, non estensibile ad altre zone della
Terra, e sia, anzi, tale da provocare ulteriore povertà.
L’opposizione che stiamo vedendo adesso si sviluppò sempre più,
dopo
la
fine
della
seconda
guerra
mondiale,
come
decolonizzazione, ossia come tentativo, da parte dei Paesi
soggetti a dominio coloniale, di conquistare l’indipendenza e
la libertà dagli Stati colonizzatori.
Le radici di questo fenomeno sono varie. Vi sono, dunque, per
esempio, ragioni economiche, legate agli sforzi di un popolo
per non essere sfruttato e sottomesso alle necessità e alle
convenienze economiche di uno Stato straniero. Ma vi sono pure
ragioni culturali e ideali, quali quelle di una libera
espressione e di un libero sviluppo dei popoli. Può forse dirsi
che
l’idea,
in
sé
profondamente
democratica,
dell’autodeterminazione dei popoli rappresenta una linea di
continuità che lega insieme fenomeni storici come i moti per
l’indipendenza ed il Risorgimento italiano nel secolo XIX e,
appunto, le lotte di liberazione nei Paesi colonizzati.
Non può non accennarsi come in Europa, dopo la fine della guerra
mondiale 1914-1918, si siano sviluppate lotte per l’indipendenza
dell’Irlanda dalla Gran Bretagna (indipendenza effettivamente
acquistata nel 1921, ad eccezione della parte settentrionale
dell’isola irlandese, rimasta con il Regno Unito).
In precedenza abbiamo considerato l’influsso del modello
marxista sugli sviluppi dei movimenti di liberazione nei Paesi
non europei (vedi Vietnam).
In India, nell’Asia meridionale, le lotte per l’indipendenza
nazionale contro il dominio inglese assunsero una forma
caratteristica ad opera di Mohandas Gandhi (1869-1948), chiamato
Mahatma (che può tradursi con grande anima). Gandhi, dunque,
anche traendo ispirazione dalla religione induista, basò, fin
dagli anni ’10 del secolo XX, la lotta per l’indipendenza indiana
sulla pratica di un concetto di non violenza, di ahimsa,
rigorosamente rispettato. Attraverso la disobbedienza civile,
il rifiuto delle merci inglesi e delle imposte inglesi Gandhi
riuscì a portare il proprio Paese alla libertà. Così, con il
1947, acquistarono l’indipendenza l’India e il Pakistan,
quest’ultimo abitato da musulmani.
Va inoltre ricordato come vari Paesi, tra i quali molti importanti
Stati già soggetti al dominio coloniale, di fronte alla guerra
fredda e alla rivalità tra Stati Uniti e Urss, si accordarono
tra loro, formando un movimento, detto dei non allineati. Tale
movimento era interessato al superamento della divisione del
Mondo nei due blocchi, americano e sovietico, e al rafforzamento
delle posizioni dei Paesi usciti dalla dominazione coloniale;
ciò attraverso una politica di neutralità, non schiacciata,
dunque, sulle posizioni dell’uno o dell’altro blocco. Storici
ed osservatori hanno potuto mettere in rilievo la presenza delle
basi di questo movimento nella Conferenza di Bandung, in
Indonesia, del 1955, sviluppate poi nella Conferenza di Belgrado,
del 1961. Tra i Paesi fondatori si possono ricordare l’India
e la Iugoslavia. Tito, come visto al potere in Iugoslavia dopo
la vittoria della guerra partigiana contro i nazisti, voleva
costruire uno Stato socialista libero dai condizionamenti
imposti dall’Urss. Peraltro, va detto che, nel quadro dei Paesi
del movimento dei non allineati, si siano anche avute posizioni
sostenenti il carattere naturale di un’alleanza con il blocco
socialista.
Davanti alle esigenze di autodeterminazione e di indipendenza
espresse dai popoli colonizzati gli Stati colonizzatori
adottarono vari tipi di risposte.
Vi furono così atteggiamenti di repressione che diedero il via
a sanguinosi conflitti.
Peraltro, ci furono anche atteggiamenti diversi che, causati
dalla comprensione dell’inevitabilità del fenomeno della
decolonizzazione, furono volti a non tagliare tutti i rapporti
con i territori colonizzati, allo scopo di mantenere un’influenza
economica e politica sulle ex colonie.
In questo orizzonte si è parlato anche di un fenomeno di
neocolonialismo, quando, di fronte all’impostazione delle
attività economiche nei territori già occupati avviata con la
colonizzazione e, magari, pure per la corruzione dei nuovi gruppi
dirigenti degli Stati divenuti indipendenti, gli Stati già
colonizzatori continuano, di fatto, a mantenere una forte, e
sostanziale, influenza nelle ex colonie.
In un discorso sulla decolonizzazione, non può non ricordarsi
come l’Inghilterra, posta davanti alle esigenze e alle richieste
di autodeterminazione dei Paesi colonizzati, abbia anche
risposto concedendo l’indipendenza e tendendo ad organizzare
i nuovi Stati indipendenti in una Comunità, detta Commonwealth.
Così acquistano la piena indipendenza, ed entrano nel
Commonwealth, già con il 1931, il Canada, nell’America
settentrionale, l’Australia, la Repubblica Sudafricana.
Lo sviluppo internazionale dei movimenti di indipendenza trovò
un rafforzamento, nel periodo successivo alla seconda guerra
mondiale, nel continente africano. Così, va segnalata
nell’Africa settentrionale almeno la lunga guerra di liberazione
combattuta in Algeria, tra il 1954 e il 1962, contro l’occupazione
francese.
Marocco e Tunisia ebbero, invece, la loro indipendenza dalla
Francia nel 1956.
Nell’ambito dell’Africa nera, i territori coloniali belgi e
francesi del Congo trovarono la propria indipendenza nel 1960.
La colonia del Congo belga divenne Repubblica democratica del
Congo (tra il 1971 ed il 1997 lo Stato si chiamò Zaire), con
capitale Kinshasa. Il Congo francese divenne Repubblica popolare
del Congo, con capitale Brazzaville.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011-2012.
Prof. Frontini
57- VICENDE ITALIANE DAL 1948 ALLO STATUTO DEI LAVORATORI.
In Italia, se nella preparazione della nuova Costituzione poté
funzionare un valido accordo tra i partiti della sinistra e la
Democrazia cristiana, successivamente, con l’influsso della
situazione internazionale della guerra fredda e con la vittoria
del partito cristiano alle elezioni politiche del 18 aprile 1948
(con il 48,5% dei voti), si avviò una stagione politica centrista.
In questo contesto ebbe inizio, dal punto di vista dell’economia,
un’opera di ricostruzione. Questa politica di ripresa economica
ebbe un grande successo. Basi principali furono: una notevole
disoccupazione, un basso livello di salari, uno scarso potere
delle organizzazioni sindacali. Proprio per effetto di questi
fattori gli industriali si sentirono invogliati a investire nella
produzione. Va ancora ricordato come storici ed economisti
sottolineino il dato di un orientamento della produzione italiana
verso la valorizzazione delle esportazioni.
Lo sviluppo partito da queste premesse condusse ad una
significativa crescita dell’economia italiana. Soprattutto per
il periodo 1958-1963 si parla anche di boom e di miracolo
economico. Vennero incentivati i consumi di massa. In questo
quadro si può citare l’importante esempio della politica della
Fiat tesa a sviluppare il mercato con la produzione di automobili
utilitarie. Si diffusero, inoltre, televisori, frigoriferi ed
altri elettrodomestici.
Intrecciate alle conseguenze più specificamente economiche, vi
furono anche grandi e varie conseguenze sociali. A questo
proposito è, almeno, da richiamare lo spostamento dei lavoratori
dalle regioni meridionali alle grandi fabbriche nel Nord del
Paese.
Il modello stesso di sviluppo adottato (pur produttivo di un
accrescimento della ricchezza) e le sue conseguenze sociali
presentavano varie contraddizioni e aspetti negativi. Ciò ebbe
influenza anche sullo svolgimento delle vicende politiche. Le
necessità della vita economica e le stesse trasformazioni sociali
causavano l’esigenza di una trasformazione della rappresentanza
governativa. In questo senso si passò pure da un tipo di governo
centrista (Democrazia cristiana e suoi alleati di centro) a uno
di centro-sinistra (con l’accordo e, poi, con l’intervento del
Partito socialista).
In questo orizzonte si avviò una politica di riforme: la
nazionalizzazione dell’industria elettrica (con la creazione
dell’Enel, Ente nazionale per l’energia elettrica); l’obbligo
scolastico portato sino ai 14 anni.
Gli storici hanno messo in rilievo come, tuttavia, esistesse
nel Paese una radicalizzazione di posizioni e un’esigenza di
rinnovamento che veniva portata avanti solo insufficientemente
dalla politica dei partiti.
Ciò diede origine ad una serie di manifestazioni e di
contestazioni, da parte di studenti e lavoratori, che si
svilupparono soprattutto tra il 1967 e il 1969. Tutto questo,
tra l’altro, in un quadro generale di contestazione che si
esprimeva nei più diversi punti del pianeta (così, ad esempio,
negli Stati Uniti, contro la guerra del Vietnam e contro la
discriminazione razziale).
Occorre ricordare come, in tale quadro di contestazione, si
congiungessero insieme esigenze di riorganizzazione culturale
e scolastica (rappresentate dall’occupazione delle facoltà
universitarie da parte degli studenti) ed esigenze di una
maggiore giustizia e di una maggiore democrazia nel mondo del
lavoro.
Dal punto di vista del lavoro, già con la legge 15 luglio 1966,
n. 604, si era superata la libertà incondizionata del datore
di lavoro di licenziare il lavoratore. Così, per l’articolo 1
di tale legge: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato…
il licenziamento del” lavoratore “… non può avvenire che per
giusta causa… o per giustificato motivo”. Per l’articolo 3 della
stessa legge: “Il licenziamento per giustificato motivo… è
determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del” lavoratore oppure “… da ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa”, ad esempio soppressione del
posto di lavoro per l’introduzione in fabbrica di nuovi
macchinari. Con “giusta causa” si intende un inadempimento dei
doveri del lavoratore ancora più grave di quello al quale fa
riferimento l’articolo 3 della legge, appena visto.
Gli scioperi e le contestazioni avvenuti tra il 1967 e il 1969
portarono ad un nuovo rafforzamento dei diritti dei dipendenti
delle fabbriche, espresso nella legge 20 maggio 1970, n. 300,
detta pure Statuto dei lavoratori.
Tale legge porta un titolo significativo: Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale
e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Con essa, tra l’altro, si cerca di dare più completa attuazione
al comma 1 dell’articolo 39 della Costituzione.
Con riguardo al licenziamento del dipendente l’articolo 18 della
legge n. 300, nel testo del 1970, stabilisce: “… il giudice,
con la sentenza con cui… annulla il licenziamento intimato senza
giusta causa o giustificato motivo… , ordina al datore di lavoro
di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
APPUNTI DI STORIA
a.s. 2011/2012.
Prof. Frontini
58- SVILUPPI DELLA SITUAZIONE MONDIALE. AMERICA LATINA E STATI
UNITI. RIVOLUZIONE A CUBA. SVILUPPI DEL MOVIMENTO COMUNISTA.
VICENDE DELL’URSS FINO ALLA SUA DISSOLUZIONE.
L’opera di ricerca dell’indipendenza, giuridica e sostanziale,
che ha spinto le varie vicende della decolonizzazione nei Paesi
che abbiamo visto, ha avuto sviluppi anche nel continente
americano.
Va ricordato che, in questo continente, la grande crescita
economica e politica statunitense ha prodotto il predominio di
questo Paese anche sugli Stati dell’America latina. Abbiamo già
visto, seguendo il secolo XIX, la cosiddetta dottrina di Monroe,
per la quale l’America latina, appunto, rientrava nella sfera
di interesse degli Stati Uniti. Successivamente si è considerata
la sconfitta subita dalla Spagna nella guerra con la nuova potenza
statunitense.
Il predominio degli USA (United States of America), economico
e politico, ma anche militare, sopra la zona dell’America latina
si è pure espresso con l’appoggio a varie dittature che favorivano
gli
interessi
economici
e
strategici
della
potenza
nordamericana. Si può ricordare, tra l’altro, il Nicaragua,
retto, dal 1936, dalla famiglia Somoza (il cui regime fu abbattuto
da una rivoluzione popolare nel 1979). E’ anche da richiamare
l’aiuto statunitense al colpo di stato militare in seguito al
quale venne rovesciato e morì, il giorno 11 settembre 1973, il
presidente del Cile Salvador Allende Gossens (1908-1973),
democraticamente eletto, che aveva formato un governo di
sinistra.
Questa situazione generale di forte ingerenza da parte degli
Stati Uniti negli affari degli altri Paesi, al fine del proprio
vantaggio economico e politico, portò anche ad un forte
sentimento antistatunitense nonché a rivolte e rivoluzioni
contro i regimi dittatoriali e corrotti appoggiati dagli USA.
E’ esempio classico il moto rivoluzionario a Cuba che, nel 1959,
scacciato
il
dittatore
Fulgencio
Batista
(1901-1973),
strettamente legato agli interessi statunitensi, condusse al
potere Fidel Castro (nato nel 1928). Il movimento rivoluzionario
cubano finì con l’avvicinarsi sempre più all’Urss, anche dopo
un tentativo degli anticastristi di prendere il potere, con
l’aiuto degli Stati Uniti, nell’aprile del 1961. Entro questo
quadro è importante ricordare che, nel 1962, Castro ospitò a
Cuba missili sovietici. Va detto che l’installazione di tali
missili e la reazione statunitense costituì uno dei più
pericolosi momenti di crisi della guerra fredda. Questo momento
di crisi si risolse con il ritiro dei missili da parte dell’Unione
Sovietica.
Si deve sottolineare il ruolo mondiale degli Stati Uniti nella
guerra fredda (espresso, ad esempio, anche nel Vietnam) e,
parallelamente, si deve mettere in rilievo la presenza, negli
stessi USA, di vari problemi di povertà e di insufficiente
sviluppo
democratico,
collegato,
ad
esempio,
alle
discriminazioni razziali.
E’ ancora da notare come con le presidenze di John Fitzgerald
Kennedy (1917-1963, presidente dal 1960 alla morte) e del suo
successore Lyndon Johnson (1908-1973, presidente dal 1963 al
1968) si tentò di avviare una politica di riduzione delle
disuguaglianze (cosiddetta nuova frontiera) e, nello stesso
tempo, si condusse il Paese ad un pesante coinvolgimento militare
in Vietnam.
Il contrasto tra Stati Uniti ed Urss, che caratterizzò la seconda
metà del secolo XX, finì con il far pesare sull’Unione Sovietica
spese militari molto forti.
La struttura dello Stato sovietico, come già considerato, non
era democratica. Se con Nikita Sergeevich Chruscev (nato nel
1894, segretario del Partito comunista dal 1953 al 1964, morto
nel 1971) si avviò una politica di denuncia di errori e crimini
di Stalin (la cosiddetta destalinizzazione) e di una certa
liberalizzazione (che, in alcuni aspetti, coinvolse anche la
politica estera con la prospettiva della coesistenza pacifica
e della distensione), tuttavia queste aperture non poterono
essere tali da garantire un concreto cambiamento del sistema.
Con Leonid Ilich Breznev (nato nel 1906, segretario del Partito
comunista dal 1964, morto nel 1982) si svilupparono lati negativi
e difficoltà, sia nel campo economico (dove, fra l’altro, la
produzione di beni di consumo rimaneva insufficiente rispetto
alla domanda) che nel campo politico.
Gli Stati coinvolti nella sfera di influenza sovietica erano,
anche essi, privi di una reale completa vita democratica. La
repressione, da parte di truppe dell’Urss, della rivolta
antisovietica in Ungheria nel 1956 e la nascita, nel 1980, in
Polonia, del sindacato autonomo Solidarnosc sono due esempi
possibili delle tensioni all’interno del blocco capeggiato
dall’Unione Sovietica. Si può inoltre aggiungere la repressione,
in Cecoslovacchia, nel 1968, sempre da parte di truppe dell’Urss,
della politica di riforme e di ampliamento dei diritti dei
cittadini (cosiddetta primavera di Praga) guidata dal segretario
del Partito comunista Alexander Dubcek (1921-1992).
E’ ancora da sottolineare la perdita del ruolo guida avuto
dall’Unione Sovietica, e dal suo Partito comunista, nei confronti
del movimento comunista mondiale.
Già ai tempi di Stalin si era prodotto un forte contrasto e una
separazione rispetto all’Urss da parte della Iugoslavia di Tito.
Fondamentalmente la pretesa di supremazia dell’Unione Sovietica,
anche come Stato, era tale da fornire notevoli motivi di
disaccordo all’interno del mondo comunista, specialmente
rispetto a Paesi, come soprattutto la Cina, che, per
caratteristiche e forze potenziali, potevano, essi stessi,
aspirare ad una posizione di guida. In questo orizzonte di
contrasto politico sempre più duro si possono pure ricordare
brevi scontri armati tra Urss e Cina, nel 1969, al confine
russo-cinese del fiume Ussuri, per divergenze territoriali.
All’interno dell’evoluzione del movimento comunista mondiale,
in Europa, una forte critica alla tesi della supremazia sovietica
venne portata avanti con la linea politica dell’Eurocomunismo,
in un’ottica di accettazione e sviluppo dei principi democratici.
Importante sostenitore di questa linea politica fu il segretario
del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer (1922-1984).
In Urss, dopo quella che è stata chiamata era Breznev (con
l’immobilismo che, per molti aspetti l’ha caratterizzata),
Michail Sergeevic Gorbaciov (nato nel 1931), divenuto segretario
del Partito comunista nel 1985, cominciò una complessa operazione
politica, tesa a rianimare e a rinforzare la struttura sovietica,
rimanendo nel quadro del socialismo. Per quel che riguarda i
rapporti con l’estero Gorbaciov imboccò una direzione volta
all’accordo con l’America per la fine della corsa agli armamenti.
Nello sviluppo generale della linea politica della nuova
dirigenza sovietica gli Stati del blocco orientale acquistarono
sempre più autonomia (mano mano che si allontanava la possibilità
di un intervento repressivo dell’Urss). In questo contesto si
pone bene, nel 1989, la caduta del muro di Berlino con la
riunificazione, nel 1990, delle due Germanie, orientale e
occidentale, in un unico Stato tedesco. Il centro della politica
di Gorbaciov era la più razionale distribuzione e utilizzazione
delle risorse, comprese quelle in passato dedicate agli scopi
militari, nel quadro di una riorganizzazione generale dello Stato
(chiamata Perestrojka).
Le resistenze della burocrazia, l’ampliarsi ed aggravarsi dei
contrasti tra le etnie dell’Urss furono due tra le cause che
portarono al fallimento del disegno di Gorbaciov. L’Unione
Sovietica stessa cessò di esistere, nel 1991, dividendosi in
una serie di Stati indipendenti (tra i quali la Russia, l’Ucraina,
la Bielorussia). Questi Stati trovarono una forma di associazione
tra loro in un’organizzazione detta Comunità di Stati
Indipendenti (CSI).
In Cina, dopo la morte di Mao (1976), prese il potere Deng Xiaoping
(1904-1997), un altro dirigente del P.c.c. Con Deng si avviò
una linea politica che tuttora guida il Paese: da una parte,
il Partito comunista conserva immutati il proprio predominio
e i propri privilegi; da un’altra parte, si inseriscono sempre
di più elementi di economia privata, tenuti sotto il controllo
del partito (cosiddetta economia socialista di mercato).
APPUNTI DI STORIA
Prof. Frontini
a.s. 2011-2012.
59- VICENDE DEGLI STATI UNITI: INTEGRAZIONE
DISUGUAGLIANZE. ATTACCO CONTRO LE TORRI GEMELLE.
RAZZIALE
E
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti
apparvero l’unica Superpotenza (per forza politica, economica
e militare) del pianeta. Tra gli studiosi non soltanto si
valorizzò il successo del modello economico-sociale statunitense
ma vi fu, addirittura, chi, già nel 1989, anno della caduta del
muro di Berlino, parlò di “fine della storia” (così Francis
Fukuyama, un economista americano), intendendo sottolineare la
sostanziale vittoria dell’economia capitalistica e, collegati
a questa vittoria, il superamento dei vecchi scontri tra Stati
e tra etnie e la crescente diffusione del modello
politico-economico statunitense.
In realtà il mondo successivo alla dissoluzione dell’Urss si
rivelò più che mai pieno di motivi di crisi, di scontri e di
contraddizioni.
Come visto, la stessa potenza statunitense ha storicamente
sviluppato, al suo interno, vari problemi e varie violazioni
del fondamentale principio democratico dell’uguaglianza.
Così si può subito pensare al percorso storico dell’integrazione
razziale delle minoranze etniche. Si può ricordare, in tal
proposito, come, ancora negli anni cinquanta del secolo XX, gli
afroamericani subissero una politica di separazione e di
persecuzione razziale che, tra l’altro, impediva ai neri,
considerati inferiori, di accedere alle stesse scuole e agli
stessi posti, nei mezzi di trasporto pubblico, dei bianchi.
Da una parte si deve sottolineare il progressivo cammino, nella
storia, dell’integrazione razziale negli Stati Uniti. Un cammino
segnato anche dall’opera di uomini come il reverendo Martin
Luther King (nato nel 1929, morto assassinato nel 1968), che,
ispirato dagli ideali di non violenza di Gandhi, si batté per
i diritti civili, contribuendo anche a organizzare la grande
marcia svoltasi a Washington nel 1963 (in cui pronunciò un famoso
discorso, che iniziava: “I have a dream”). Un cammino, ancora,
che ha trovato notevoli progressi, testimoniati in modo chiaro
dall’elezione
a
presidente
del
Paese,
nel
2008,
dell’afroamericano Obama.
Da un’altra parte, considerando gli Stati Uniti dopo il crollo
dell’Unione Sovietica, storici ed economisti hanno anche potuto
rilevare forti sacche di povertà ed un crescente indebitamento
delle famiglie, finanziato dalle banche.
L’aumento dell’attività economica basato sull’indebitamento,
l’illusione di un maggiore guadagno non ricavato direttamente
dalla produzione ma dalle operazioni sul prestito sono fenomeni,
collegati, che hanno condotto ad una forte crisi, partita nel
2007 dagli Stati Uniti, sviluppatasi internazionalmente e
tuttora in corso.
In un discorso più vasto, alcuni hanno potuto vedere all’opera,
nell’economia globale e non solo negli USA, un ricorrente
meccanismo di sovrapproduzione (già da noi incontrato,
consistente nel divario tra possibilità sociali di acquisto di
una merce e offerta, da parte dei produttori, di quella merce).
Le ragioni di crisi che riguardano l’economia si accompagnano
e si legano strettamente ad altre ragioni.
Così, contro la supremazia degli Stati Uniti e lo svolgersi dei
loro interessi nel mondo nascono e si sviluppano nuove forme
di azione e nuovi soggetti. Questi soggetti partono dalla base
etica e culturale dell’estremismo islamico e tendono a
differenziarsi dalle consuete forme di Stato e di alleanza di
Stati per assumere le caratteristiche sfuggenti della rete di
Al Qaeda. La loro forma di azione rappresenta lo sviluppo
dell’attentato terroristico.
In questo contesto storico e culturale si realizzano una serie
di attacchi in America con aerei che, sequestrati da terroristi
suicidi, vengono mandati a schiantarsi, con i loro passeggeri,
contro le Torri gemelle del World Trade Center di New York e
contro il Pentagono (ministero della difesa) presso Washington,
nella mattina del giorno 11 settembre 2001.
Gli Stati Uniti del presidente Gorge Bush junior, collegati con
vari Stati, attaccano e occupano l’Afghanistan, che aveva dato
rifugio ad Al Qaeda e al suo capo Osama Bin Laden.
Si sviluppa in tal modo una guerra contro il terrorismo che gli
Stati Uniti dichiarano di voler combattere anche con azioni
preventive.
In questo contesto, nel 2003, si dà il via ad un secondo e
definitivo attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq, accusato
di collegamenti con Al Qaeda, già sconfitto nel 1991, dopo
l’occupazione irachena del territorio del vicino Kuwait.
Scarica