APPUNTI DI STORIA 3 Prof. Frontini APPUNTI DI STORIA 3 Prof. Frontini INDICE 1–Congresso di Vienna. Restaurazione. Santa Alleanza. 2–Sviluppi filosofici e culturali. Sviluppi dell’Illuminismo: Kant. 3–Sviluppi delle concezioni filosofiche: Kant, Fichte, Hegel. 4–Sviluppi della Sinistra hegeliana: Feuerbach. 5–Romanticismo. 6-Caratteristiche e sviluppi della Rivoluzione industriale. 7-Moti del 1820-1821 e del 1830. 8-Stati nazionali e Imperi. 9-Le soluzioni al problema dell’unità d’Italia: Mazzini, Gioberti, Cattaneo. 10-Condizioni dei lavoratori e rivoluzione industriale. 11-L’idea socialista e Marx. Rapporti tra Stato e vita economica. 12-Materialismo e lavoro umano nel pensiero di Marx, tra filosofia ed economia. 13-Il 1848 in Francia. 14-Il 1848 in Europa. 15-Il 1848 in Italia. 16-Caratteri generali dello Statuto albertino. Concetto ed evoluzione storica generale dello Stato a partire dall’Assolutismo. 17-Politica di Cavour. Guerra di Crimea. Accordi con la Francia. 18-Vicende italiane dalla seconda guerra di indipendenza a Roma capitale. 19-Unità della Germania. 20-Sviluppo industriale, ricerca scientifica e miglioramento delle condizioni di vita nello sviluppo del XIX secolo. Positivismo. 21-Innovazione scientifica, macchine e lavoro nello sviluppo della rivoluzione industriale. Crisi di sovrapproduzione. 22-Caratteristiche dello sviluppo dell’organizzazione economica capitalistica a partire dalla seconda metà del secolo XIX. 23-Colonialismo ed economia. 24-Sguardo generale sulla situazione in Asia fino al colonialismo. 25-Sguardo generale su difficoltà e contraddizioni degli Stati asiatici. 26-Penetrazione europea in Asia. Situazione cinese. 27-Caratteristiche dello sviluppo giapponese. 28-Africa e colonialismo. 29-Colonialismo e America. Caratteristiche degli Stati Uniti. 30-Sviluppi degli Stati Uniti. 31-Affermazione degli Stati Uniti. Stati Uniti e America latina. 32-Oceania e colonialismo. 33-Problemi dello Stato italiano dopo l’unità. 34-Problemi e vicende dello Stato italiano da Depretis a Giolitti. 35-Vicende economico-sociali e tendenze culturali: dal Romanticismo al Futurismo. 36-Questione balcanica. Situazione precedente la guerra 1914-1918. Sistemi di alleanze. 37-Prima guerra mondiale. 38-Trattati di pace e situazione successiva alla guerra mondiale. 39-Situazione economica capitalistica e sviluppi delle organizzazioni socialiste da Marx alla rivoluzione in Russia. 40-Rivoluzione bolscevica e costruzione dello Stato sovietico. 41-Situazione in Italia dopo la prima guerra mondiale. Sviluppo del fascismo. 42-Situazione economica americana. 43–Risposta alla crisi economica: Keynes e il New Deal di Roosevelt. 44–Sviluppi del regime fascista. 45–Situazione della Germania. Sviluppo del nazismo. Fascismo e nazismo. Guerra di Spagna. 46–Sviluppi della seconda guerra mondiale. 47–Vicende della seconda guerra mondiale dal 1941 alla fine. 48–Dalla Resistenza alla nuova Costituzione. Situazione italiana dopo la seconda guerra mondiale e Costituzione. 49-Costituzione. Costituzione e democrazia. 50–Cenni su organizzazione dello Stato e Costituzione del 1948.Possibilità di modifica della Costituzione e Corte Costituzionale. 51–Caratteristiche dell’Unione Sovietica. L’Urss fino alla guerra fredda. 52–Divisione del mondo nel blocco occidentale e in quello sovietico. Caratteristiche generali dei due sistemi e sviluppi del loro contrasto. 53–Sviluppo della scienza, equilibrio del terrore, rivalità tra Stati Uniti e Urss. 54–Rivoluzione comunista in Cina. Decolonizzazione, marxismo e guerra fredda. Altri sviluppi della guerra fredda. 55–Altri sviluppi dell’intreccio tra decolonizzazione e guerra fredda: guerra del Vietnam. 56–Quadro generale della decolonizzazione, tra situazione economica mondiale e guerra fredda. Indipendenza dell’India. Movimento dei non allineati. Sviluppi della decolonizzazione. 57-Vicende italiane dal 1948 allo Statuto dei lavoratori. 58–Sviluppi della situazione mondiale. America latina e Stati Uniti. Rivoluzione a Cuba. Sviluppi del movimento comunista. Vicende dell’Urss fino alla sua dissoluzione. 59-Vicende degli Stati Uniti: integrazione razziale disuguaglianze. Attacco contro le Torri gemelle. e APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 1- CONGRESSO DI VIENNA. RESTAURAZIONE. SANTA ALLEANZA. Con le vicende napoleoniche l’Europa fu sconvolta da molti anni di guerra. Inoltre, Napoleone era anche apparso, per molti aspetti, come erede e continuatore dell’opera della Francia rivoluzionaria. Egli, infatti, aveva diffuso, con le sue conquiste militari, i nuovi principi giuridici, economici, organizzativi della Rivoluzione. Principi, questi, che avevano rappresentato e rappresentavano, tra l’altro, le esigenze vitali della borghesia produttiva, di contro alla vecchia e superata organizzazione economico-politica (feudale-assolutistica) diffusa in quasi tutta Europa. Sconfitto e costretto ad una prima abdicazione Napoleone, nel 1814 tornò al potere in Francia la dinastia dei Borboni. Salì al trono Luigi XVIII (1755-1824), fratello di Luigi XVI, il monarca francese decapitato nel 1793 durante il periodo rivoluzionario. Inoltre, dopo la prima abdicazione di Bonaparte, e il suo esilio nell’Isola d’Elba, venne avviata una riunione dei rappresentanti degli Stati europei (il Congresso di Vienna) per riorganizzare la situazione politica dell’Europa. Le trattative vennero guidate dalle potenze vincitrici più importanti (Austria, Inghilterra, Russia, Prussia). Venne invitata al Congresso anche la Francia, dove, come visto, avevano ripreso il trono i Borboni (che si presentavano come vittime della Rivoluzione e di Napoleone). I lavori del Congresso si svolsero dall’ottobre 1814 al giugno 1815. Il breve ritorno al potere del Bonaparte, fino alla sua definitiva sconfitta nella battaglia di Waterloo, nel giugno 1815, non interruppe questi lavori. Principi ispiratori per la politica di riorganizzazione dell’Europa furono il principio di legittimità e quello di equilibrio e sicurezza generale. Il primo principio richiamava il concetto di legittimità del potere dei vecchi sovrani europei, in contrapposizione ai cambiamenti rivoluzionari considerati non legittimi. Esso, tra l’altro, servì da base al rappresentante della Monarchia francese, principe di Talleyrand (1754-1838), per sostenere le esigenze della Francia nei confronti degli altri Paesi. In base al principio di legittimità tutti gli Stati dovevano tornare alla situazione politica che avevano prima dello scoppio della Rivoluzione francese. Dovevano, così, tornare al potere le vecchie dinastie regnanti. In questo orizzonte storico e ideale si sviluppò anche una forte tendenza all’eliminazione completa delle innovazioni e delle conquiste civili portate dalla Rivoluzione e da Napoleone. Va sottolineato che generalmente si indica l’epoca storica successiva alla caduta dell’Impero napoleonico con il nome di Restaurazione, con lo scopo di richiamare l’attenzione sulla volontà, diffusa in quel periodo, di “restaurare”, ossia di ripristinare, le vecchie forme politiche pre-rivoluzionarie. Il principio di legittimità venne accompagnato (e, in parte, limitato) dal principio di equilibrio. Per il principio di equilibrio nessuno Stato doveva essere tanto grande da minacciare l’equilibrio, appunto, delle potenze europee. In questo quadro politico si può anche ricordare l’esigenza di limitare le eventuali nuove volontà espansionistiche della Francia mediante una serie di Stati, sufficientemente forti, posti ai suoi confini (cosiddetti Stati cuscinetto). A quest’ultimo proposito va richiamato il Regno dei Paesi Bassi (nato dalla fusione dell’Olanda con il Belgio, già facente parte dell’Impero austriaco) nonché l’aumento territoriale del Regno di Sardegna (che inglobò il territorio della vecchia Repubblica di Genova). In Germania, ad est della Francia, venne rafforzato il Regno di Prussia. Peraltro, è ancora all’interno della politica dell’equilibrio europeo che, anche, si scelse di non umiliare troppo e di non smembrare la Francia, per non rafforzare troppo le altre Potenze. Non venne ricostituito il Sacro Romano Impero. Gli Stati tedeschi vennero notevolmente diminuiti di numero: da circa 350 a 39 (tra essi fu sensibilmente importante il Regno di Prussia). Questi Stati formarono tra loro una Confederazione germanica, presieduta dall’Imperatore d’Austria. L’Impero austriaco, in Italia, riprese la Lombardia e, in compenso del Belgio (confluito nel Regno dei Paesi Bassi), ebbe il Veneto. Si formò così il Regno Lombardo-Veneto, di cui era sovrano l’Imperatore d’Austria. Accanto al Regno di Sardegna e al Regno Lombardo-Veneto, altri Stati significativi dell’Italia dopo il Congresso di Vienna furono il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie (Italia meridionale con la Sicilia). Il Granducato di Toscana venne restituito agli Asburgo-Lorena (famiglia imparentata con la casa regnante austriaca), che lo ebbero nel XVIII secolo, all’estinzione della famiglia Medici. Il Regno delle Due Sicilie tornò ai Borboni. Stati minori italiani furono il Ducato di Modena e Reggio e il Ducato di Parma e Piacenza. L’Impero d’Austria, per la sua importanza e per la sua organizzazione, ebbe forte influenza su tutta la penisola italiana. Di fronte alla politica del Congresso di Vienna gli storici hanno potuto sottolineare la completa mancanza di interesse per le esigenze di unità dei popoli. Si cita ad esempio di questa mancanza di interesse il caso della Polonia, sostanzialmente smembrata tra l’Austria, la Prussia e, per una grande parte, la Russia. Dal punto di vista ideologico e religioso si deve ricordare come il 26 settembre 1815 Russia, Austria e Prussia firmassero un trattato istitutivo tra loro di una Santa Alleanza (poi sottoscritto anche da altri Stati, ma mai dall’Inghilterra) in cui si impegnavano ad aiutarsi reciprocamente, nel nome e per la difesa dei principi del Cristianesimo. Si poneva in questo modo il fondamento e la giustificazione religiosa dell’intervento di ogni Stato dell’Alleanza per reprimere eventuali rivoluzioni (principio di intervento). Tra gli ispiratori e protagonisti del Congresso di Vienna e della Restaurazione va ricordato uno statista austriaco: il principe di Metternich (1773-1859). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 2-SVILUPPI FILOSOFICI E CULTURALI. SVILUPPI DELL’ILLUMINISMO: KANT. Considerando l’Illuminismo si trova che caratteristica fondamentale di questo movimento culturale è la valorizzazione della Ragione umana e delle sue possibilità di favorire il progresso sociale. In questo contesto si ricorda anche la forte portata antiassolutistica del movimento e, quindi, la sua grande influenza sulla Rivoluzione francese. Il valore innovativo del richiamo illuminista alla Ragione ha il proprio culmine e la propria maggiore espansione nel filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804). In Kant, infatti, la Ragione stessa è chiamata a stabilire fino a che punto essa può arrivare a conoscere il Mondo. Si trova così il problema del fondamento e dei limiti della conoscenza umana, un problema essenziale nella storia del pensiero. Un problema, ancora, che, nell’epoca moderna, ha origine e incentivo nella rivoluzione scientifica del XVII secolo. A tal proposito possono ancora ricordarsi gli orientamenti scientifico-filosofici di due gruppi di pensatori: razionalisti (come Cartesio, Spinoza, Leibniz), empiristi (come Locke). Tra i razionalisti il fatto osservato (il fatto di cui si fa esperienza) viene inserito in un quadro di principi logici generali. In tal modo la spiegazione del singolo fatto viene ricavata (dedotta) da considerazioni logiche generali. Gli empiristi, invece. sottolineano l’importanza essenziale dei fatti, alla cui osservazione devono costantemente far riferimento tutte le teorie. Il fondamento della conoscenza del Mondo per i razionalisti sta nella verità e nell’immutabilità di Dio. Per gli empiristi, al contrario, la conoscenza (e, con la conoscenza, le stesse idee) esce dall’’osservazione umana dei fatti e non ha una base di certezza assoluta. Di fronte a queste due opposte posizioni, Kant, come accennato e come egli stesso scrive, nella Critica della ragion pura, porta davanti al tribunale della Ragione l’accertamento delle possibilità e dei limiti del conoscere umano. Con l’analisi del conoscere umano il filosofo tedesco cerca di individuare ciò che viene dall’esperienza e ciò che, invece, non dipende da essa. I dati del mondo esterno che raggiungono la sensibilità (i sensi) dell’uomo sono organizzati nelle forme dello spazio e del tempo e in vari concetti, come quello di causa. Spazio, tempo e concetto di causa non fanno parte del mondo esterno e neanche sono prodotti in noi dall’esperienza. Nel linguaggio di Kant si applica loro il termine di “trascendentale”. Essi costituiscono modalità di funzionamento della conoscenza umana e sono presenti nella mente umana prima di ogni esperienza (a priori). In vario modo organizzano il materiale dei dati forniti dalla esperienza e sono, dunque, condizione indispensabile per il conoscere umano. Essi, ancora, nella loro natura di elementi necessari della conoscenza, precedenti all’esperienza, danno garanzia di generalità e di certezza alle leggi scientifiche. Peraltro il percorso della conoscenza tracciato da Kant ha come punto di partenza esclusivo e necessario il mondo dell’esperienza sensibile. Di conseguenza le leggi scientifiche non esprimono la realtà in sé ma solamente il suo rapporto con l’uomo. Per Kant non possiamo conoscere gli oggetti nella loro interna e reale natura (noumeni) ma solo nel loro modo di apparirci (fenomeni). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 3- SVILUPPI DELLE CONCEZIONI FILOSOFICHE: KANT, FICHTE, HEGEL. Il pensiero di Kant, nella sua complessità e nella sua fecondità, ha avuto una forte influenza sulla filosofia e sulla cultura del suo tempo. Si può sottolineare che, in Kant, il soggetto pensante, l’Io che pensa, non può mai raggiungere la perfetta conoscenza delle cose in sé (dei noumeni), ossia della realtà naturale nella sua autonomia. Si può, inoltre, sottolineare che, tuttavia, questo stesso soggetto viene pure ad essere, a suo modo e nei suoi limiti, organizzatore (e, come dice Kant, “legislatore”) del mondo naturale. E’, infatti, tale soggetto che, nei suoi caratteri e nel suo funzionamento trascendentali, organizza la massa dei dati della realtà naturale giungente alla sensibilità. La riflessione filosofica che prende spunto dal pensiero critico di Kant (espresso in tre opere fondamentali: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio) tende a cambiare e a superare tale pensiero in vari modi. Così si provvede a eliminare la distinzione tra il noumeno (la cosa in sé, non conoscibile dall’uomo) e il fenomeno (invece conoscibile). Questa distinzione viene eliminata attraverso lo sviluppo della tesi della piena coincidenza tra pensiero (idee) e realtà. Tutta la realtà, dunque, viene riassorbita nel pensiero, nel movimento delle idee. Tale movimento è essenzialmente dialettico, ossia consiste nell’incontro-scontro di elementi opposti (tesi e antitesi) e nel superamento di questi opposti in un superiore, e più completo, accordo (sintesi). Il movimento filosofico appena presentato si sviluppa a iniziare dalla Germania, patria di Kant, e prende il nome di Idealismo. Già con il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), l’Io pensante di Kant si scioglie dal suo collegamento funzionale con i dati della sensibilità e si trasforma in un Io assoluto, superiore ad ogni individuo, che crea se stesso e che, nel creare se stesso, crea anche gli oggetti e il mondo, suoi limiti. L’Io diviene, in questo modo, soggetto creatore e simbolo di una libera attività che si sviluppa e si esalta proprio a partire dalle sue difficoltà e dai suoi doveri. Punto più alto della scuola idealista è Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Con Hegel si perfeziona il metodo dialettico e il sistema dell’Idealismo raggiunge la sua completezza. Gli studiosi hanno sottolineato alcuni caratteri di incertezza (di duplicità di significato) nel pensiero del filosofo. Infatti Hegel, da una parte, è giunto a valorizzare, come significativa espressione dello Spirito, lo Stato e, più in particolare, il Regno di Prussia; da un’altra parte, tuttavia, con il metodo stesso da lui usato e sviluppato, il metodo dialettico, caratterizzato dalla valorizzazione del movimento e dell’opposizione anche nella storia, oggettivamente rafforza le esigenze rivoluzionarie e di cambiamento sociale. La presenza contemporanea di caratteri conservatori e di caratteri rivoluzionari all’interno del sistema di Hegel appare anche nell’atteggiamento dei discepoli del filosofo, divisi in una Destra e in una Sinistra hegeliana. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 4- SVILUPPI DELLA SINISTRA HEGELIANA: FEUERBACH. Si è già considerato, all’interno della scuola hegeliana, l’inizio di una differenziazione di posizioni teoriche. Questa differenziazione divenne sempre più accentuata, fino ad investire gli elementi fondamentali stessi della concezione di Hegel e dell’Idealismo; concezione basata, come visto, sul riassorbimento di tutta la realtà all’interno del pensiero. E’ significativo, in tal senso, il caso di un pensatore: Ludwig Feuerbach (1804-1872), appartenente alla Sinistra hegeliana. Feuerbach, infatti, giunse a contestare radicalmente la visione teorica idealistica come non produttiva e fuorviante, sostenendo la necessità di portare l’attenzione della ricerca sulla vera natura e sui reali bisogni umani. Ciò in una riflessione centrata sulla considerazione del pensiero non quale fattore essenziale e creatore della vita (come nell’Idealismo) ma quale conseguenza, elemento di essa. In tal proposito appare utile ricordare come Feuerbach stesso abbia affermato che Hegel aveva messo l’uomo sulla testa e che, pertanto, bisognava rimetterlo diritto sui piedi. In questo medesimo orizzonte, Feuerbach portò avanti anche una profonda critica della religione (famosa una sua opera: L’essenza del Cristianesimo, del 1841). Il filosofo, dunque, presentò la religione come proiezione in cielo di situazioni e di bisogni nati e radicati sulla Terra, in un discorso in cui ideali, speranze e bisogni sociali trovano un’espressione, imperfetta e distorta, e un illusorio soddisfacimento nel mondo dell’Al di là. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 5- ROMANTICISMO. Considerando lo sviluppo filosofico dei secoli XVIII e XIX si è incontrato Fichte e, più in generale, l’Idealismo. Si è, così, potuto sottolineare il ruolo importante rivestito dalla libera affermazione della creatività del soggetto. L’analisi della Ragione, che, ancora con Kant, si ricollegava alle tematiche dell’Illuminismo, si trasforma, con l’Idealismo, in esaltazione della potenza creatrice dello Spirito. Il movimento filosofico idealistico, con queste sue caratteristiche, si collega strettamente ad un movimento culturale e artistico che, nel XIX secolo, ebbe vastissima diffusione: il Romanticismo. Un movimento, questo, che, anche per la sua diffusione, ebbe una grandissima varietà di manifestazioni, pure, a volte, contrastanti tra loro. L’esaltazione della capacità creatrice dello Spirito e dell’uomo (che può giungere, nella letteratura romantica, all’esaltazione di chi si ribella alle regole della società) si affianca alla valorizzazione dell’individuo, con i suoi sentimenti e le sue passioni. Così, dunque, viene valorizzato e posto a modello l’individuo. La valorizzazione delle passioni va in contrasto con la razionalità illuminista, sentita troppo arida e schematica. In collegamento con l’importanza data al sentimento intimo e all’emozione e con la svalutazione del principio razionalista dell’Illuminismo si sottolinea, nel Romanticismo, il significato della religione e della religiosità. I romantici stessi evidenziarono come la rilevanza data alle passioni e ai contrasti caratterizzi la differenza della loro arte e della loro visione del mondo rispetto all’equilibrio e all’armonia dell’antichità greco-romana e del classicismo che ad essa si ispirò. E’ da ricordare che si può trovare esaltato nel Romanticismo anche il vincolo di sangue che lega tutti insieme gli appartenenti ad un gruppo etnico, ad un popolo. Così la valorizzazione dei legami di sangue e di cultura di un popolo, con il loro rimanere fissi nel tempo, e la valorizzazione dell’ elemento della religione spingono gli autori romantici a rifarsi alla Storia e ad apprezzare l’epoca medioevale, tanto caratterizzata, tra l’altro, dalla fede. Peraltro il senso della storia e delle tradizioni comuni ed il vincolo di sangue che contribuisce ad unire una popolazione si combinano ugualmente bene sia con esperienze rivoluzionarie e di liberazione sia con la Restaurazione. Tra i più vicini precedenti del Romanticismo in Germania, se non, direttamente, tra i primi romantici, gli storici della letteratura pongono, poco dopo la metà del secolo XVIII, i poeti del movimento denominato Sturm und Drang (che può tradursi con Tempesta e assalto). Come accennato, la diffusione del movimento romantico avvenne in diversi Paesi. Anche a seconda delle diverse situazioni sociali e delle diverse tradizioni letterarie dei vari luoghi il Romanticismo si presentò con aspetti diversi. Tra gli scrittori più importanti si possono ricordare George Byron (1788-1824), in Inghilterra; Victor Hugo (1802-1885)), in Francia. In Italia il movimento romantico venne pubblicizzato dallo scrittore Giovanni Berchet (1783-1851), con un’opera del 1816: Lettera semiseria di Crisostomo. Ispirato al Romanticismo fu il periodico il Conciliatore, pubblicato a Milano e fondato, tra gli altri, dal patriota Federico Confalonieri (1785-1846), giornale a cui collaborarono anche Giovanni Berchet ed il letterato Silvio Pellico (1789-1854). Per la sua tendenza patriottica questo giornale, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1818, venne chiuso dall’Austria nel 1819. Principali scrittori italiani romantici furono Alessandro Manzoni (1785-1873) e Giacomo Leopardi (1798-1837). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 6- CARATTERISTICHE E SVILUPPI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Con la rivoluzione industriale i progressi e le invenzioni della scienza cominciano ad essere utilizzati nel mondo della produzione. Si comincia così a meccanizzare le lavorazioni, prima svolte dalla mano dell’uomo. Con la rivoluzione industriale, e con i progressi della meccanizzazione della produzione, quindi, gli oggetti da commerciare non vengono più realizzati nelle case o nelle botteghe degli artigiani ma in fabbriche, dove sono in funzione molti macchinari. Le origini della rivoluzione industriale si hanno in Inghilterra, nella seconda metà del XVIII secolo. Lo studio dello sviluppo della produzione inglese consente, tra l’altro, di individuare l’importante ruolo avuto dall’industria tessile. Ancora strettamente collegato all’utilizzazione delle macchine nel processo produttivo è l’affermarsi, ed il perfezionarsi, dell’industria metallurgica. Fonte principale di energia è il carbone (di cui l’Inghilterra è ricca). Invenzione di grande importanza è la macchina a vapore. Per un grande numero di anni l’Inghilterra fu praticamente sola ad avanzare sulla strada della meccanizzazione della produzione. Nel corso della prima metà del secolo XIX seguirono Francia e Belgio. Successivamente il processo di industrializzazione si avviò in Germania, in Olanda e, in America, negli Stati Uniti. Solo tra la fine del secolo XIX ed il principio del secolo XX paesi come la Russia e l’Italia cominciarono la loro industrializzazione. E’ importante sottolineare che ci fu, dunque, uno sviluppo diverso, più o meno grande, più o meno veloce, tra i diversi Stati. Elemento di grande significato è stato costituito nel corso del XIX secolo, e a partire dal 1830 circa, dal sempre più grande sviluppo della ferrovia, entro l’ambito di un generale miglioramento del sistema dei trasporti. L’affermarsi della ferrovia, per la velocità dei treni, ha condotto anche ad un’espansione dei mercati per gli imprenditori. Inoltre, in naturale e stretto collegamento con la richiamata affermazione della ferrovia, si è potuta avere una forte incentivazione delle industrie siderurgiche e meccaniche. Con la fine del secolo XIX ci fu un notevole perfezionamento della industria siderurgica, ossia legata alla produzione del ferro. In questa industria Stati Uniti e Germania superarono l’Inghilterra nella produzione di acciaio. Si ebbero molte scoperte e innovazioni, anche legate alla chimica. Per quanto riguarda le fonti di energia si cominciarono a utilizzare elettricità e petrolio. Si mettevano così le basi per il superamento dell’utilizzazione del carbone. Davanti alle innovazioni che si sono ora considerate si è anche parlato di nuova fase della rivoluzione industriale, oppure di seconda rivoluzione industriale. Va anche detto che l’importanza dell’innovazione scientifica per gli imprenditori non si è soltanto vista nell’introduzione di macchine nella produzione. L’innovazione scientifica ha avuto importanza pure perché con essa si sono inventati nuovi prodotti da fabbricare. Come esempi si possono ricordare la lampadina elettrica (con Thomas Alva Edison, 1847-1931), la macchina fotografica e l’automobile. Appare necessario ricordare adesso che dentro la popolazione di ogni Stato si può vedere, nella storia europea, una divisione, molto importante, in tre gruppi, o classi sociali. Si trovano così: la nobiltà, o aristocrazia; la borghesia; il proletariato. La borghesia ha avuto un’importanza decisiva per far nascere e per far crescere il capitalismo e la rivoluzione industriale. Tra gli appartenenti a questa classe sociale si trovano, fino dal Medio Evo, anche coloro che si dedicavano all’attività di produzione e di commercio. Sono così da evidenziare gli imprenditori, ossia coloro che, utilizzando capitali propri oppure presi a prestito, organizzano e dirigono un’attività di produzione di merci per venderle e avere, quindi, un guadagno. Appare da dire subito che è interesse di ogni imprenditore quello di avere un ampio mercato nel quale vendere i propri prodotti. E’ anzi da richiamare come uno dei punti più importanti della filosofia economica della classe borghese sia stato costituito, già nel XVIII secolo, dalla convinzione della necessità di un libero commercio, di un libero scambio di tutte le merci, senza, tra l’altro, dazi doganali fra Stato e Stato. Con la rivoluzione industriale, e con la riorganizzazione delle campagne che la ha preceduta, coloro che si sono trovati completamente privi di ricchezza sono stati costretti, per vivere, a lavorare nelle fabbriche dirette dagli imprenditori. Così, per esempio, molti piccoli artigiani e contadini, dopo aver perso il loro lavoro in seguito all’accumulazione dei mezzi di produzione operata dal capitale e alla diffusione delle innovazioni scientifiche, hanno dovuto mettersi a lavorare come dipendenti degli imprenditori, in cambio di un salario. Queste persone completamente prive di ricchezza sono state chiamate proletari. Questo proletariato di fabbrica è nato, quindi, con la rivoluzione industriale. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 7- MOTI DEL 1820-1821 E DEL 1830. Si è richiamata l’importanza del ruolo della borghesia nell’affermazione della rivoluzione industriale e, conseguentemente, nell’affermazione del sistema di produzione moderno. Si è già visto, pure, che l’industrializzazione non si è sviluppata contemporaneamente nei vari paesi, europei e non europei, ma con velocità ed in tempi diversi. Si può, a questo punto, ancora mettere in luce e sottolineare lo stretto collegamento esistente tra diverso, maggiore o minore, sviluppo dell’industrializzazione nei diversi paesi e affermazione, economica e politica, della classe borghese. Vanno ora anche ricordati i principi universali portati avanti dalla Rivoluzione francese del 1789 come quelli della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Principi, questi della Rivoluzione di Francia, che erano stati teorizzati e difesi dalla borghesia (nel quadro di un sistema di pensiero politico detto liberalismo) pure in collegamento con le esigenze economiche di questa classe, e per il soddisfacimento di dette esigenze. Con il Congresso di Vienna, con la restaurazione dei principi, opposti a quelli rivoluzionari, dell’assolutismo, pure la borghesia vide limitate, o addirittura cancellate, le proprie libertà. Nacquero per queste ragioni, economiche e politiche, i moti europei degli anni 1820 e 1821. Moti, questi, in generale finalizzati alla concessione, da parte del monarca, di Costituzioni. Scopo di dette Costituzioni era limitare il potere assoluto del re. Si trovano così insurrezioni dapprima in Spagna, successivamente anche in Italia, nel regno delle Due Sicilie e in Piemonte. I liberali spagnoli, appoggiati dall’esercito, ottennero dal re Ferdinando VII (1784-1833) il ripristino della Costituzione di Cadice, la carta costituzionale promulgata nel 1812 per legare alla monarchia il maggior consenso popolare possibile, al tempo delle lotte contro Napoleone, e, successivamente, ritirata. Concesse la Costituzione anche il re Ferdinando I di Borbone (1751-1825), nel Regno delle Due Sicilie. Dinanzi ai moti, nel Regno di Sardegna, il re Vittorio Emanuele I di Savoia (1759-1824) rinunciò al trono in favore del fratello Carlo Felice (1765-1831). Essendo quest’ultimo momentaneamente assente divenne reggente del Regno il principe Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), disponibile a concedere la carta costituzionale. Peraltro Carlo Felice fu totalmente contrario e, anzi, chiamò in suo soccorso l’Austria. In Italia si registrarono cospirazioni anche nel Regno Lombardo-Veneto. La repressione austriaca di queste cospirazioni portò, tra l’altro, in carcere Silvio Pellico (che trasse da questa sua esperienza un libro famoso: Le mie prigioni). In tutti gli Stati in cui fu concessa la Costituzione ebbe breve durata. La sostanziale arretratezza della base economica delle regioni interessate e i contrasti sorti all’interno stesso delle forze liberali (come, nel caso del Regno delle Due Sicilie, la volontà di secessione dell’isola, repressa militarmente) contribuirono a negare ai moti un vero e non solamente momentaneo successo. Così, tra il 1821 ed il 1823, si restaurò il precedente regime politico in Italia, con l’intervento di truppe austriache, e in Spagna, con l’intervento di truppe francesi. Va anche ricordato un limite importante legato alla base e alla preparazione stessa delle rivoluzioni del periodo ora in esame. Si parla del limite costituito dalla segretezza delle associazioni rivoluzionarie, come, in Italia, la Massoneria (una società molto antica, di origini tedesche medioevali) e la Carboneria. Una segretezza, dunque, che, da un lato, è necessaria per sfuggire alle indagini delle polizie, ma, da un altro lato, obbliga anche ad una separazione rispetto al popolo, e alle sue esigenze. Può dirsi subito come sia stata pure la vicenda dei moti del 1820 e del 1821 a spingere Giuseppe Mazzini (pensatore e patriota italiano, 1805-1872) ad una riflessione sulla necessità vitale per le rivoluzioni di un profondo e sentito coinvolgimento popolare. Se, come appena visto, in regioni non economicamente sviluppate gli scoppi rivoluzionari contro il potere assoluto erano falliti, in un paese industrialmente più forte come la Francia, nel 1830, la classe borghese ha potuto difendere e affermare i propri interessi anche di fronte allo Stato. Così quando re Carlo X (1757-1836) tentò di orientare la vita politica nazionale in senso più segnatamente assolutista e meno moderato di quanto non avesse fatto il suo predecessore Luigi XVIII e, in questo orizzonte, tra l’altro, anche eliminò la libertà di stampa e restrinse il diritto di voto, le proteste della borghesia vennero affiancate e sostenute da un grande movimento popolare in armi. Nell’arte questo scoppio rivoluzionario diede vita ad un famoso quadro del pittore Eugene Delacroix (1798-1863): La Libertà che guida il popolo. L’orientamento politico generale di questa rivoluzione fu dato dalla borghesia, e non dalle masse popolari. Venne scelto un altro re, Luigi Filippo d’Orleans (1773-1850). Entrò anche in vigore una nuova Costituzione, maggiormente rispondente alle esigenze della classe borghese. Conseguenza notevole degli avvenimenti del 1830 sulla politica estera francese e sulla situazione europea fu l’uscita della Francia dal sistema di interventi di repressione internazionale delle rivolte iniziato con la Santa Alleanza. In questo orizzonte si comprende anche il movimento rivoluzionario che, nello stesso 1830,permise al Belgio di raggiungere la propria indipendenza dall’Olanda, con la forma di monarchia costituzionale. Di fronte ai risultati della rivoluzione del 1830 in Francia non può non ricordarsi ora, per contro, il fallimento dei moti liberali del 1831 in Emilia Romagna, facente parte dello Stato Pontificio, stroncati dall’esercito austriaco. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 8- STATI NAZIONALI E IMPERI. Considerando la situazione europea dell’intero secolo XIX e anche quella degli inizi del secolo XX si possono sottolineare alcuni temi e problemi importanti. Si deve, dunque, parlare subito della tendenza alla formazione in Europa di nuovi Stati a base nazionale. Una tendenza, questa, secondo la quale ogni nazione, ogni insieme di persone aventi in comune vari elementi come una cultura, una lingua, una religione, un nucleo di legami di sangue e di derivazione genetica, ha il diritto di avere, deve avere un proprio Stato. Così, per questa tendenza, ogni popolo ha il diritto di governarsi da solo. Si può anche considerare come, con lo sviluppo del XIX secolo, e delle vicende rivoluzionarie, la lotta della borghesia, delle forze liberali contro l’assolutismo si sia pure combinata in alcuni paesi con la lotta per l’indipendenza nazionale. Paesi, questi, soggetti a dominazione straniera, inseriti in grandi Stati multietnici. Entro il quadro dell’Impero Ottomano si può citare la Grecia. A tale proposito va ricordato come i patrioti greci, insorti nel 1821, poterono infine conquistare l’indipendenza, dopo lunghe lotte, con il 1830. Si deve mettere in rilievo come il nuovo Stato, che prese la forma di Stato monarchico, nacque anche in conseguenza della forte crisi dell’Impero Ottomano e sotto il controllo di grandi Stati come Russia, Inghilterra e Francia. La corona di Grecia fu affidata ad un principe tedesco: Ottone I (1815-1875), che, peraltro, venne deposto in conseguenza di un colpo di stato militare, nel 1862. Con il 1831, di fronte alla repressione dello zar, caddero le aspirazioni della Polonia all’indipendenza dalla Russia. Si ricorda ancora che la situazione politica italiana, all’indomani del Congresso di Vienna, era caratterizzata da molti piccoli Stati. A settentrione, re del Regno Lombardo Veneto era l’imperatore d’Austria. Dietro le aspirazioni e le richieste per unità ed indipendenza nazionale (che, in Italia, diedero origine al complesso fenomeno del Risorgimento, ossia del risorgere del popolo italiano e del suo raccogliersi in un solo Stato nazionale) si possono trovare molte cause, economiche ed ideali. Se ne accennano alcune. Abbiamo già considerato il ruolo molto importante rivestito nello sviluppo economico dall’ampliamento dei mercati. Si è pure visto il grande significato spettante, sempre ai fini dello sviluppo, ai trasporti ferroviari. Come ben dimostra lo studio della situazione economico-politica italiana, il frazionamento di un territorio in tante entità statali ostacola, anche attraverso il moltiplicarsi di dazi alle frontiere, la crescita della produzione e del commercio. In generale, poi, in uno Stato multinazionale la politica tributaria può anche colpire duramente fino ad impedire le attività produttive di una regione, magari esercitate da un gruppo etnico. Va inoltre ricordato come in Italia la situazione di molteplicità di Stati abbia ritardato ed ostacolato, per varie cause, lo sviluppo complessivo della rete ferroviaria. Da un punto di vista ideale si deve almeno accennare al forte impulso che l’idea di nazione ha avuto dall’ambiente culturale del Romanticismo. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 9- LE SOLUZIONI PROPOSTE AL PROBLEMA DELL’UNITA’ D’ITALIA: MAZZINI, GIOBERTI, CATTANEO. Di fronte alla necessità, economica ed ideale, dell’unificazione e dell’indipendenza dell’Italia vari pensatori ed uomini politici hanno proposto e cercato di mettere in pratica vari progetti. Dietro questi progetti si trovavano concetti molto diversi tra loro. In linea generale può ricordarsi la divisione tra pensatori ed uomini politici democratici e pensatori ed uomini politici moderati. I primi erano interessati ad un’affermazione più completa dei principi democratici. Si nota che democrazia è termine che vuol dire potere del popolo (in greco demos significa popolo). Per la corrente di pensiero democratica punto di riferimento è la sovranità popolare. Per l’orientamento democratico di Giuseppe Mazzini l’Italia doveva essere una, libera, indipendente, repubblicana. Si è già avuto modo di accennare alla critica mazziniana contro la segretezza e contro i limiti fondamentali della Carboneria. Una critica, questa, che si è sviluppata anche a partire dalla riflessione sui moti rivoluzionari del 1820-1821 e del 1830-1831 e sulle cause dei loro fallimenti. Davanti, dunque, alla richiamata politica di segretezza Mazzini pone, per contrasto, la necessità che l’unità, l’indipendenza nazionale siano esigenza e sentimento di tutto il popolo. Studiosi di storia e di letteratura hanno potuto sottolineare l’importanza e l’influenza del pensiero romantico nell’opera mazziniana. Si può così trovare traccia romantica nella visione del popolo, della nazione, come elemento fondamentale nella storia umana. Una visione, questa, che anche presenta aspetti di sentimento religioso. Il pensiero mazziniano ha come elementi più significativi Dio e popolo e al popolo italiano, per Mazzini, la Divinità ha dato il compito, la missione di riscattarsi, di risorgere, per aprire un’era di progresso. E’ il popolo, dunque, il popolo nella sua interezza, che deve compiere la sua missione. Da questo ragionamento discende bene che ci deve essere accordo e non lotta fra le classi sociali. In questo stesso ragionamento può trovare anche spiegazione un’altra scelta fondamentale di Mazzini: quella della forma statale repubblicana, e non già monarchica. Ancora in questo stesso pensiero, nell’azione politica il momento dei moti, delle insurrezioni armate deve essere preceduto e accompagnato da una vasta opera di educazione. E nello statuto della Giovine Italia, l’associazione fondata da Giuseppe Mazzini (nel 1831), il fine dell’insurrezione viene espressamente precisato come preceduto e seguito da un percorso di educazione. Se il Mazzini individuava la forma repubblicana per un’Italia unita ed indipendente un altro pensatore, Vincenzo Gioberti (1801-1852), che era stato un suo discepolo, doveva sviluppare una concezione politica molto diversa. Infatti, in un quadro di concetti moderato, il Gioberti, in un libro pubblicato nel 1843, Del primato morale e civile degli Italiani, espose come soluzione al problema nazionale quella (definita neoguelfa) di una federazione di Stati presieduta dal Papa. Così Gioberti, moderato, rifiutava la possibilità e la convenienza di una rivoluzione popolare e preferiva fare affidamento sugli accordi tra le varie dinastie che regnavano in Italia. Al contrario di Gioberti, nel campo democratico, per Carlo Cattaneo (1801-1869), pensatore e uomo politico che anche prese a modello gli Stati Uniti d’America, il ricorso al federalismo doveva essere condizione e garanzia per una maggiore autonomia, una maggiore libertà delle popolazioni. In questo senso lo Stato federale diviene in Cattaneo strumento, per tutte le popolazioni, di autogoverno, e, quindi, di maggiore democrazia. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 10- CONDIZIONI DEI LAVORATORI E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. Alcuni tratti essenziali delle origini e dello sviluppo della rivoluzione industriale si sono già tracciati. Si è anche cominciato a vedere il sorgere ed il crescere di un proletariato di lavoratori di fabbrica, legato in modo stretto alla rivoluzione industriale. Ancora si sottolinea che questo proletariato era composto da persone prive di ricchezze e costrette, per vivere, a lavorare alle dipendenze degli imprenditori. Le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche erano estremamente dure. Infatti il salario era molto basso. La giornata di lavoro, inoltre, era molto lunga (giungeva sino alle sedici ore). Anche le donne e i bambini erano sottoposti ad un lavoro durissimo. Va ancora ricordato che il nuovo sistema di produzione industriale richiedeva la divisione del lavoro. Nel sistema di produzione precedente alla rivoluzione industriale un artigiano poteva anche arrivare a completare da solo la fabbricazione di un intero oggetto. Nel nuovo sistema di produzione, con la divisione del lavoro, invece, ogni lavoratore esegue soltanto una operazione nella fabbricazione dell’oggetto, e sempre quella. In questo modo il lavoratore diventa sempre più bravo e sempre più veloce nell’eseguire questa operazione. Nello stesso tempo, però, egli smette di saper fare tutto l’oggetto e, considerando le cose, la sua bravura totale e le sue capacità umane diminuiscono invece di aumentare. Il lavoratore, dunque, ripete meccanicamente sempre una stessa operazione. In questo modo, però, egli non guida e non comprende più, con la sua intelligenza e con la sua bravura, l’intera produzione degli oggetti. Egli, invece, con l’operazione meccanica, semplice e ripetitiva che deve sempre eseguire, dipende dalla produzione, senza poter decidere nulla. Si è, dunque, vista la difficile condizione dei lavoratori con la rivoluzione industriale. Proprio la difficoltà delle loro condizioni ha anche spinto i lavoratori ad aiutarsi gli uni con gli altri e ad associarsi insieme per cercare di difendere i loro diritti contro gli imprenditori. Nascono in questo modo le associazioni sindacali, o sindacati. Va detto che queste associazioni furono all’inizio proibite dalla legge. Così, in Inghilterra, vennero proibite nel 1799, per poi essere ammesse nel 1824. Fu proibito dalla legge anche lo sciopero, ossia l’interruzione da parte dei lavoratori del loro lavoro nella fabbrica allo scopo di interrompere la attività produttiva, facendo così danno all’imprenditore. Malgrado tutto questo il movimento sindacale riuscì ad avere un grande sviluppo. Già la considerazione delle vicende dei lavoratori e dei loro sindacati permette di cominciare ad individuare, nel percorso storico, l’allargarsi di un’altra divisione, di un altro conflitto sociale. Così, oltre lo scontro tra borghesia e assolutismo, si può iniziare a vedere quello tra borghesia e proletariato. APPUNTI DI STORIA a.s. 2001/2002 Prof. Frontini 11- L’IDEA SOCIALISTA E MARX. RAPPORTI TRA STATO E VITA ECONOMICA. Si sono viste le condizioni dei lavoratori. Si è pure visto il sorgere delle associazioni sindacali. Collegata con la rivoluzione industriale e con la situazione dei lavoratori è la nascita e lo sviluppo anche dell’idea socialista. Può ancora ricordarsi il significato universale dei diritti dell’uomo proclamati con la Rivoluzione francese del 1789. Ancora, dunque, si debbono ricordare i principi fondamentali della libertà e dell’uguaglianza. Questi principi hanno costituito le idee centrali dell’azione della borghesia contro il sistema assolutistico. Si può ripetere che questi principi sono in realtà universali, ossia corrispondono alle esigenze e alle richieste fondamentali di tutti gli uomini. Nel nome dei detti principi la borghesia ha potuto chiamare in aiuto, per la sua lotta contro l’assolutismo, vaste masse popolari. Ma, nel momento stesso in cui la classe borghese prendeva il potere e, in modo collegato, nel momento in cui si ampliava e diffondeva il sistema industriale moderno, sempre più si apriva un contrasto tra le affermazioni generali e ideali e la realtà. Così, nella vita dei lavoratori dipendenti degli imprenditori, con la sua durezza, il richiamo alle idee di libertà e di uguaglianza poteva apparire soltanto formale, privo di ogni efficacia concreta. Di fronte a questa situazione molti pensatori e molti uomini politici hanno seguito e hanno sviluppato l’idea socialista. Molto importante storicamente è stato Karl Marx (nato a Treviri, in Germania nel 1818; morto a Londra nel 1883). Per Marx, come per il suo amico e collaboratore Friedrich Engels (1820-1895), difetto principale, fondamentale, del sistema economico capitalista nato dalla rivoluzione industriale è quello di essere un sistema nel quale la crescita sempre più grande della ricchezza non è destinata al soddisfacimento dei bisogni di tutti ma soltanto al soddisfacimento degli interessi degli imprenditori. In altre parole, si rimprovera che la produzione economica, gestita dai singoli imprenditori privati, è regolata non sulle reali esigenze della società ma sulle attese di guadagno degli imprenditori stessi. Da una parte, con i bassi salari dati ai lavoratori e con lo sfruttamento di questi lavoratori, si creano vaste sacche di povertà e di disperazione; da un’altra parte, il lavoro umano (elemento essenziale, per Marx, nella fabbricazione dei prodotti) è potenzialmente sprecato per la produzione di oggetti inutili o, comunque, non vendibili. Entro questo discorso, elemento molto importante è costituito dalla lotta di classe. Così, per il marxismo il proletariato industriale si troverà ad essere il soggetto storico principale di una rivoluzione sociale che spezzerà ogni catena di sfruttamento. Una rivoluzione, dunque, che eliminerà la proprietà privata degli strumenti della produzione (come terra e fabbriche), condizione di oppressione dei lavoratori. Strumenti, questi, che, invece, dovranno essere affidati a tutti (alla collettività) per essere utilizzati, secondo un piano, per soddisfare gli interessi di tutti. Ciò entro una concezione politica e filosofica materialistica, per la quale, anche, la religione si presenta come droga dei popoli, strumento per far tollerare agli oppressi, con la speranza del Paradiso, la loro oppressione. Il pensiero economico di Karl Marx troverà più matura espressione in un’opera, non compiuta, Il Capitale, di cui, mentre era in vita l’autore, fu pubblicata soltanto una prima parte, nel 1867. Già, comunque, nel Manifesto del partito comunista, scritto su incarico della Lega dei Comunisti, con l’aiuto di Engels, pubblicato nel 1848, si metteva con forza in evidenza la lotta delle classi ed il ruolo del proletariato. Si deve ora considerare, con un discorso generale, la discussione che è nata e che è cresciuta, davanti alla rivoluzione industriale, sui rapporti tra Stato ed economia. Si può dire che per una serie di studiosi di economia chiamati liberisti (sorti antecedentemente a Marx, in parallelo al primo sviluppo della Rivoluzione industriale), lo Stato non deve intervenire nella vita economica. Lo Stato che non si interessa della vita economica viene chiamato Stato liberale. Per i liberisti, dunque, la migliore e la più efficace utilizzazione delle ricchezze si ha quando si affida l’intera vita economica ai privati e alla loro iniziativa. Occorre ricordare, a questo proposito, come l’economista scozzese Adam Smith (1723-1790) sostenga che, nella concorrenza, l’incontro degli interessi egoistici individuali, guidato da una specie di mano invisibile, produca la più conveniente situazione economica sociale, senza bisogno di altri interventi. Chiaramente opposta a questa concezione dei liberisti è l’idea socialista di Marx, di cui si sono appena cominciate a vedere le linee essenziali. Appare anche interessante premettere, fin da ora, come le idee di Marx abbiano pure ispirato la politica della rivoluzione in Russia del 1917, da cui prese inizio l’Unione Sovietica. Così l’Unione Sovietica ha avuto le caratteristiche di uno Stato ad economia socialista, senza proprietà privata dei mezzi di produzione. La Cina, stato ad economia socialista dopo la presa del potere da parte di Mao Zedong, nel 1949, sta ora dando sempre più spazio all’iniziativa economica privata. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 12- MATERIALISMO E LAVORO UMANO NEL PENSIERO DI MARX, TRA FILOSOFIA ED ECONOMIA. Studiosi ed uomini politici hanno potuto sottolineare come il pensiero di Marx sia partito da precedenti teorie filosofiche, politiche ed economiche e come le abbia creativamente rielaborate e superate. Dal punto di vista filosofico si deve almeno mettere in rilievo come il rivoluzionario tedesco, di fronte al pensiero di Hegel e al materialismo di Feuerbach, abbia sviluppato una compiuta concezione materialistica della società e della storia. Una concezione basata sull’osservazione della centrale importanza dell’attività produttiva umana, del lavoro, per tutti i fini della vita sociale, anche nei suoi aspetti culturali. In questo quadro generale, Marx, alla fine di un suo scritto del 1845, le Tesi su Feuerbach, rileva che se i filosofi hanno da sempre spiegato il mondo, giunge nel presente, piuttosto, il momento di cambiarlo. Il significato dato all’attività produttiva conduce, in Marx, alla rielaborazione delle ipotesi degli economisti Adam Smith e David Ricardo (1772-1823) sulla misura del valore dei prodotti in base al lavoro necessario per la loro fabbricazione. Ciò per sottolineare nell’attività lavorativa umana il fattore esclusivo della produzione. In questo contesto economico Marx può, tra l’altro, evidenziare che, appunto per la capacità produttiva del lavoro umano, e per la situazione di necessità a cui è socialmente costretto il lavoratore, il dipendente, nella sua giornata lavorativa, fornisce all’imprenditore capitalista più prodotto e più valore (plusvalore) di quanto gliene venga pagato con il salario (un salario che l’imprenditore stesso cerca di portare al livello minimo di sopravvivenza). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 13- IL 1848 IN FRANCIA. Si è già cominciato a considerare anche il conflitto che ha diviso la classe borghese e il proletariato. Si osserva che nelle rivoluzioni europee scoppiate nel 1848 è possibile vedere tutto l’insieme, e l’intreccio, dei conflitti economici e politici: dallo scontro tra borghesia e assolutismo, che può presentarsi anche come lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, allo scontro tra proletariato e borghesia. Nello studiare la situazione francese si è già trovato che nel 1830, in seguito ad una rivoluzione nella quale il popolo appoggiò la borghesia, divenne re Luigi Filippo. Si è pure ricordata la prevalenza avuta, con questa rivoluzione, dalla classe borghese. Va detto ora che il tipo di Stato realizzato in Francia dopo il 1830, maggiormente rispondente alle esigenze della borghesia, era tuttavia tale da non soddisfare pienamente tutti i gruppi di questa classe. Tra l’altro, anche nella nuova situazione politica, il diritto di voto era legato al reddito e si aveva così una partecipazione alle elezioni necessariamente limitata ad un ristretto numero di persone più ricche. La condizione delle classi popolari era molto difficile (anche, tra l’altro, in seguito ad una carestia che stava colpendo molti Stati d’Europa). La situazione di difficoltà che si è appena riassunta ha prodotto in Francia, nel febbraio del 1848, un altro scoppio rivoluzionario. Abbattuto dai moti popolari il regime monarchico di Luigi Filippo, si formò un governo provvisorio, direttamente e fortemente influenzato dal popolo parigino, nel quale entrò anche l’uomo politico socialista Louis Blanc (1811-1882). Venne scelta la forma statale repubblicana ed il diritto di voto venne esteso a tutti i cittadini di sesso maschile (suffragio universale maschile). E’ importante segnalare l’attenzione del governo provvisorio per le necessità dei lavoratori. In tal senso venne proclamato il diritto al lavoro e si cercò di risolvere il problema della disoccupazione. Venne inoltre ridotta la durata della giornata lavorativa. Occorre però dire che le elezioni per l’Assemblea Costituente, svoltesi nell’aprile dello stesso 1848, diedero la maggioranza all’elemento politico conservatore. Una insurrezione, scoppiata a giugno, per contrastare la nuova linea di riduzione dei diritti del lavoro, venne repressa con durezza. Come è stato anche osservato dagli storici, la nuova Costituzione, prevedente, tra l’altro, un presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale, con vasti poteri, poteva condurre al controllo dello Stato da parte di una singola personalità. Entro il discorso conservatore che si stava sviluppando in Francia, nel dicembre del 1848 venne eletto presidente Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873), figlio del fratello di Napoleone, Luigi. Luigi Napoleone poté così portare avanti una politica di affermazione personale che lo condusse, nel 1852, a farsi proclamare imperatore, con il nome di Napoleone III. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011-2012. 14- IL 1848 IN EUROPA. Il 1848 fu caratterizzato da movimenti rivoluzionari in tutta Europa. Se, come visto, in Francia la situazione rivoluzionaria si presentò sotto il segno dello scontro di classe tra borghesia e proletariato, in altre regioni apparve come lotta per la Costituzione, e, anche, per l’indipendenza nazionale. E’ significativo quanto avvenne nell’Impero Asburgico, dove erano presenti molte etnie, e conflitti etnici. Nel biennio 1848-1849, e a partire dal marzo 1848, quando Vienna si sollevò una prima volta chiedendo, e ottenendo, la Costituzione (e l’allontanamento dalla vita politica del principe di Metternich, simbolo della Restaurazione), le esigenze e le richieste liberali si combinarono, e dovettero tenere conto della volontà di indipendenza dei molti popoli dell’Impero. Così nell’Ungheria, guidata da Lajos Kossuth (1802-1894), si giunse, nel 1849, a proclamare la repubblica. Va comunque sottolineato che la stessa Ungheria, nel biennio ora in esame, dovette affrontare, e reprimere, le richieste di indipendenza di minoranze serbe e croate. L’intreccio delle questioni nazionali, e le rivalità e le lotte tra i vari gruppi etnici giocarono anche a favore degli Asburgo, e, fondamentalmente, contro le esigenze liberali. La resistenza liberale a Vienna fu stroncata nell’ottobre del 1848 con l’intervento dell’esercito. Nell’agosto del 1849 venne anche vinta, con l’aiuto delle truppe russe dello zar Nicola I (1796-1855), la resistenza ungherese. Il biennio rivoluzionario 1848-1849 e i moti liberali in Germania, dove, accanto ad uno Stato forte come la Prussia, coesistevano molti altri piccoli Stati, furono caratterizzati anche dall’esigenza dell’unità nazionale. Accanto alle Assemblee Costituenti dei vari Stati anche ebbe vita, con il maggio 1848, un Parlamento, a Francoforte, che doveva operare per la riunificazione della Germania. Complessivamente, tuttavia, le richieste liberali si svilupparono in questo paese in modo moderato, pure per il timore della borghesia di dare innesco a moti rivoluzionari troppo spinti in senso democratico. Per la stessa questione dell’unità nazionale tedesca il Parlamento di Francoforte non andò sostanzialmente oltre l’offerta della corona di Germania al re di Prussia Federico Guglielmo IV (1795-1861), che, peraltro, la rifiutò, anche per evitare di far derivare il proprio potere dalla investitura popolare. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 15- IL 1848 IN ITALIA. Anche nella situazione italiana il periodo rivoluzionario che si sta considerando fa vedere un intreccio di esigenze e di richieste. In questo intreccio, così, alle richieste per la costituzione, nei vari Stati nei quali allora era divisa l’Italia, si accompagnò quella per l’unità nazionale. Fin dal 1847 le richieste per un orientamento politico più liberale cominciarono a trovare ascolto. Venne, tra l’altro, concessa in vari Stati la libertà di stampa. Si può anche ricordare il progetto di una lega doganale che doveva unire Toscana, Piemonte e Stato Pontificio (dove, nel 1846, era stato eletto Pio IX). In particolare va notato che molte speranze dei patrioti e dei liberali si appuntarono, in un primo tempo, proprio sul pontefice, Pio IX (1792-1878). Parve quasi che potessero realizzarsi il pensiero ed i desideri del Gioberti. La pressione popolare per ottenere la Costituzione sfociò, nel gennaio del 1848, in un’insurrezione nel Regno delle Due Sicilie. Re Ferdinando II (1810-1859) concesse la carta costituzionale. Successivamente, tra febbraio e marzo 1848, concedettero la Costituzione i sovrani della Toscana, del Piemonte, dello Stato Pontificio. La Costituzione piemontese, nota anche come Statuto albertino, venne data da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Nel frattempo, nello stesso mese di marzo 1848, scoppiò, come visto, la rivoluzione a Vienna. Dentro i confini dell’impero asburgico si unirono alla rivolta anche i territori italiani. Così, nel marzo 1848, si ribellarono Venezia e Milano. Le insurrezioni di Venezia e di Milano portarono avanti un discorso politico indirizzato in senso democratico. Tra i protagonisti della rivolta milanese si deve richiamare Carlo Cattaneo, che proprio nell’esperienza del 1848 poté organizzare meglio e approfondire i temi della sua riflessione su democrazia e federalismo. Di fronte all’orientamento appena considerato, un’altra parte politica, più moderata, individuò nel re di Sardegna Carlo Alberto la possibile guida all’unità d’Italia. Carlo Alberto dichiarò, così, dopo esitazioni, la guerra all’Austria (prima guerra di indipendenza), il 23 marzo 1848, quando i milanesi, da soli, avevano già cacciato gli austriaci. Lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie mandarono propri contingenti militari ad affiancare le truppe piemontesi. Lo schieramento antiaustriaco era reso fragile da molte e gravi contraddizioni. La politica del Regno di Sardegna poteva anche apparire più indirizzata ad un espansionismo territoriale che all’effettiva realizzazione dell’idea italiana, mentre gli altri Stati che avevano inviato soldati erano in realtà pronti a ritirarli, sia per il timore dell’Impero asburgico che per le esigenze della propria politica. Accadde così che Carlo Alberto, abbandonato dagli altri sovrani regnanti in Italia, venne dapprima sconfitto a Custoza e costretto ad un armistizio, poi definitivamente battuto a Novara, il 23 marzo 1849. In seguito alla battaglia di Novara Carlo Alberto abdicò, lasciando il trono a Vittorio Emanuele II (1820-1878). Con l’abbandono da parte dei sovrani italiani e la condotta infelice della guerra delle truppe piemontesi parve, in un primo momento, ampliarsi la possibilità di una realizzazione dell’indipendenza italiana attraverso la via rivoluzionaria e repubblicana. Così nel febbraio 1849 vennero spodestati tanto il papa che il granduca di Toscana. A Roma si instaurò una Repubblica, nella quale ebbero posizioni di rilievo Mazzini e, in campo militare, Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Tuttavia, entro l’anno 1849, tutti i centri di resistenza italiani vennero sopraffatti. Roma cadde sotto l’assalto delle truppe francesi che il presidente Luigi Napoleone Bonaparte aveva inviato, per compiacere le forze conservatrici che lo appoggiavano in patria, a rimettere sul trono il papa. Venezia, invece, finì occupata dalle truppe austriache, nell’agosto del 1849. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 16- CARATTERI GENERALI DELLO STATUTO ALBERTINO. CONCETTO ED EVOLUZIONE STORICA GENERALE DELLO STATO A PARTIRE DALL’ASSOLUTISMO. Si è già considerato il movimento generale di richiesta delle Costituzioni. Più in particolare si è appena vista la concessione delle Costituzioni in Italia nel 1848. E’ importante sottolineare che in seguito agli avvenimenti politici e militari del biennio 1848-1849 l’unica Costituzione scritta italiana rimasta effettivamente in vigore è stata lo Statuto concesso da Carlo Alberto, chiamato, appunto, Statuto albertino. Si può dire subito che, anche in seguito alle vicende storiche del Risorgimento e all’importante ruolo avuto per l’unità d’Italia dal Regno di Sardegna e dalla dinastia dei Savoia, tale Statuto è stato la carta costituzionale, ossia la Costituzione, italiana sino a dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’attuale Costituzione, infatti, è entrata in vigore a partire dal gennaio 1948. Si deve dire che la Costituzione è una legge. Come tale essa si presenta divisa in articoli. Si può ora anche aggiungere che ogni articolo, a sua volta, può essere diviso in commi. La Costituzione appare come la legge principale. In essa sono disciplinate le caratteristiche più importanti, fondamentali di uno Stato. A questo punto, per ben focalizzare i concetti di Stato e Costituzione, appare da ricordare che uno Stato è una forma, abbastanza perfezionata, di organizzazione sociale. Secondo le concezioni attuali si possono individuare tre elementi che costituiscono uno Stato moderno: un popolo; un territorio (sopra il quale questo popolo è stanziato e vive); un’autorità, o sovranità (l’elemento del potere, che, in vario modo, disciplina e organizza il popolo, e l’intero Stato). Percorrendo, a grandi linee, con uno sguardo generale, la storia dello Stato moderno nella sua evoluzione incontriamo dapprima lo Stato assoluto. Lo Stato assoluto è quello Stato nel quale tutti i poteri appartengono ad una sola persona (monarchia assoluta) o ad un ristretto gruppo di persone. Già nel XVIII secolo contro questa concezione pensatori e uomini politici individuarono la necessità di una divisione dei poteri tra vari organi. Già allora vennero individuati, distinti il potere legislativo, quello esecutivo, quello giudiziario. Si ricorda che lo Stato organizzato con il sistema della divisione dei poteri si chiama Stato costituzionale. Nella storia, dunque, dietro il sorgere dello Stato costituzionale si trova l’esigenza di una limitazione dei poteri del monarca assoluto. Una limitazione, questa, che si cerca di realizzare con il sistema della divisione dei poteri e che, ancora, si appoggia e si garantisce su una carta costituzionale scritta. L’esigenza che si è vista sta dietro anche le richieste delle Costituzioni italiane nel 1848 e, quindi, anche dietro lo Statuto albertino. La Costituzione concessa da Carlo Alberto riservava notevole influenza al monarca. Il potere legislativo apparteneva al re e al Parlamento. Il Parlamento era diviso in Camera e Senato. I membri del Senato erano nominati dal monarca; quelli della Camera venivano eletti. Il potere esecutivo doveva appartenere al monarca. Secondo diffuse interpretazioni del testo dello Statuto i ministri del governo dovevano avere la fiducia del re, e non anche quella del Parlamento (cosiddetta monarchia costituzionale pura). Comunque il sistema di governo si orientò nella pratica in senso parlamentare (con rapporto di fiducia anche tra Parlamento e Governo). Va detto che la base elettorale della Camera elettiva era estremamente ristretta. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 17- POLITICA DI CAVOUR. GUERRA DI CRIMEA. ACCORDI CON LA FRANCIA. Si è già accennata la ristrettezza del suffragio popolare per le elezioni della Camera. Conseguenza di una tale ristrettezza veniva anche ad essere, sotto certi aspetti, una sostanziale omogeneità sociale della base elettorale degli schieramenti parlamentari. In tal senso può dirsi subito che mancavano, nel primo periodo di vigenza dello Statuto albertino, veri e propri partiti popolari di massa, come successivamente sarebbero apparsi nella storia d’Italia. In base a queste premesse si può anche capire l’accordo, il cosiddetto “connubio”, tra i liberali moderati e la sinistra moderata di Urbano Rattazzi (1808-1873) che, nel 1852, poté dare al liberale Camillo Benso di Cavour (1810-1861) sufficiente base parlamentare per portare avanti, come Presidente del Consiglio, una significativa opera di rinnovamento e di affermazione dello Stato piemontese. Si è notato da parte degli storici che con Cavour, e con la sua politica, si è sempre più affermato e rafforzato il sistema parlamentare. Dal punto di vista della vita economica lo statista fu favorevole al libero scambio. Egli incoraggiò il progresso economico del Regno di Sardegna. Nel periodo che vide la sua supremazia politica si moltiplicarono le ferrovie. Cavour portò pure avanti in modo significativo il problema dell’unità italiana. Anche grazie alla sua opera il Regno di Sardegna si confermò sempre più essenziale soggetto attivo del Risorgimento. Lo statista vide il problema dell’unità d’Italia inserito in un più ampio contesto internazionale. E, in questo più ampio contesto, egli lavorò da un lato per mettere costantemente al centro dell’attenzione la questione italiana, da un altro lato per mostrare che soltanto quella moderata e liberale rappresentata dal Regno di Sardegna sarebbe stata la soluzione migliore per il problema. Una soluzione, tra l’altro, che sola avrebbe potuto evitare un ripetersi di rivolte e di attentati potenzialmente pericoloso per tutto l’ordine sociale europeo. Per dare, dunque, visibilità alla causa italiana, Cavour partecipò, in appoggio a Francia e Inghilterra, ad una guerra contro l’Impero russo, la cosiddetta guerra di Crimea, inviando, nel 1855, un contingente di 18.000 soldati. Il contesto generale internazionale era segnato dal tentativo della Russia di espandersi a spese del decadente Impero ottomano, tentativo contrastato da Francia e Inghilterra. L’Austria fu esitante, anche in considerazione dell’aiuto fornitole dall’Impero zarista nella repressione della ribellione ungherese, ma, poi, si avvicinò, con accordi diplomatici di alleanza, all’Impero francese e a quello inglese. Anche se nella guerra di Crimea non vi furono scontri armati tra Impero austriaco (rimasto neutrale) e Russia, gli avvenimenti diplomatici citati segnarono un rilevante peggioramento nel rapporto tra i due Stati e, tra l’altro, la fine di quella politica della Santa Alleanza che su tale rapporto essenzialmente si basava. Dopo un lungo assedio alla città russa di Sebastopoli, nella penisola di Crimea, l’Impero zarista venne sconfitto. Il Regno di Sardegna non ebbe contropartite territoriali per il suo intervento, ma poté partecipare, con la fine della guerra, al Congresso di Parigi, nel 1856, dando rilievo internazionale alla propria posizione politica e alle esigenze dell’autonomia italiana. Successivamente Cavour, anche richiamando, come già si è accennato, la paura di rivolte e attentati, rafforzò un orientamento teso all’alleanza con la Francia. Napoleone III, che aveva acquistato prestigio con la guerra di Crimea, aveva interesse ad una diminuzione del rilievo politico dell’Impero austriaco. Aveva inoltre interesse ad un’espansione dell’influenza francese nell’Italia centrale e meridionale. Dal canto suo Cavour, dinanzi alla situazione italiana, poteva porre come suo primo obiettivo fondamentale la formazione di un forte Stato occupante l’Italia settentrionale. Uno Stato che, per la sua forza, la sua organizzazione e la sua ricchezza, si sarebbe posto come punto di riferimento, centro di attrazione per il rimanente popolo italiano. La politica di avvicinamento di Piemonte e Francia ebbe un suo momento decisivo nell’incontro, segreto, a Plombieres, nel luglio 1858, tra Cavour e Napoleone III. Venne, tra l’altro, deciso l’intervento francese a fianco del Regno di Sardegna contro l’Austria, purché, peraltro, per il Piemonte fosse una guerra difensiva, in seguito ad attacco austriaco. Venne, inoltre, stabilito che Nizza e Savoia passassero alla Francia. L’Austria finì con il favorire i disegni di Cavour, che desiderava la guerra. Così, nell’aprile del 1859, l’Impero austriaco prima invitava il Regno di Sardegna, con un ultimatum, al disarmo, e, successivamente, quando Cavour, il 26 aprile, rifiutava tale ultimatum, iniziava il conflitto. Ebbe, pertanto, inizio la seconda guerra di indipendenza. APPUNTI DI STORIA a.s. 2001/2002 Prof. Frontini 18- VICENDE ITALIANE DALLA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA A ROMA CAPITALE. La seconda guerra di indipendenza italiana iniziò, come visto, il 26 aprile 1859. Già il giorno successivo scoppiò un’insurrezione popolare in Toscana che spinse il granduca, Leopoldo II (1797-1870), a fuggire. I successi dell’esercito franco-piemontese (con le battaglie di Montebello, Magenta, Solferino e San Martino), affiancato validamente da un corpo di volontari guidato da Giuseppe Garibaldi, si intrecciarono con insurrezioni popolari. Si ebbero così rivolte anche in Emilia, nelle Marche, in Umbria. Peraltro in queste due ultime regioni la rivolta venne sconfitta. La presenza di questi scoppi rivoluzionari rappresentò un elemento nuovo rispetto ai piani e alle previsioni di Napoleone III. Infatti la nuova situazione creatasi anche nell’Italia centrale con queste insurrezioni aggiungeva pure difficoltà al progetto di una forte influenza francese nell’Italia centro-meridionale. Gli storici hanno inoltre richiamato, tra le varie ragioni di perplessità della Francia, la paura di un intervento armato della Prussia in aiuto dell’Austria. Così si giunse ad un armistizio tra Francia ed Austria, a Villafranca, nel luglio 1859, in base al quale l’Austria avrebbe ceduto solo la Lombardia alla Francia per poi essere la stessa Francia a cedere questa regione al Regno di Sardegna. Per il resto della penisola si prevedeva il ritorno alla situazione politica originaria. In seguito agli accordi austro-francesi, pur sentiti da Cavour e dai patrioti come un vero tradimento degli accordi di Plombieres, il Regno di Sardegna acquistò, dunque, la Lombardia. Il ritorno alla situazione precedente alla guerra del 1859 si dimostrò nell’Italia centrale impossibile. Infatti i governi provvisori che qui si erano formati in conseguenza dell’azione dei patrioti resistettero nella loro volontà unitaria, organizzando anche un esercito comune. Considerando l’orizzonte internazionale, gli storici hanno anche messo in evidenza che l’Inghilterra non poteva essere favorevole ad un rafforzamento dell’influenza francese in Italia, mentre Napoleone III, con l’acquisto alla Francia di Nizza e Savoia cedute dal Regno di Sardegna, poteva anche consentire la realizzazione di plebisciti nelle regioni dell’Italia centrale per decidere l’unione delle stesse con lo Stato piemontese. In questo modo, dopo i fatti del 1859, si ebbe in primo luogo l’unione al Regno di Sardegna di Toscana, Emilia Romagna. Lo sviluppo dell’unità politica italiana interessò pure il Regno delle Due Sicilie. Così, anche in seguito ad una situazione insurrezionale in Sicilia, nell’anno 1860, Giuseppe Garibaldi guidò una spedizione, appunto, in Sicilia (la cosiddetta spedizione dei Mille). Grazie, tra l’altro, al malcontento del popolo e alle notevoli doti militari e politiche di Garibaldi i Borboni dovettero abbandonare l’isola. L’esercito garibaldino sbarcò quindi in Calabria e, dopo aver liberato Napoli, sconfisse le truppe borboniche in una battaglia al fiume Volturno. Con la spedizione dei Mille parve svilupparsi il movimento democratico. Nei progetti garibaldini poteva individuarsi, dopo la sconfitta del Regno delle Due Sicilie, l’attacco allo Stato Pontificio, la liberazione di Roma. Il raggiungimento completo di questo obiettivo avrebbe condotto, tra le altre conseguenze, ad un contrasto con la Francia di Napoleone III, che proteggeva il papa. Dopo accordi tra Cavour e l’imperatore francese, intervenne l’esercito piemontese che, occupando Umbria e Marche (annesse con plebiscito),impedì a Garibaldi di raggiungere Roma. Anche il Regno delle Due Sicilie veniva annesso con plebiscito. La soluzione moderata al problema italiano apparve realizzata quando, il 17 marzo 1861, in Parlamento venne proclamato Vittorio Emanuele II re d’Italia, con la formula “per grazia di Dio e volontà della Nazione”. Il 6 giugno 1861 moriva Cavour. L’intuizione, che era stata sua, di porre e di iniziare a risolvere il problema italiano in un orizzonte di attenzione alla scena diplomatica internazionale venne utilizzata, per completare l’unità, anche dai suoi successori. Così, nel 1866, si può trovare l’Italia alleata alla Prussia contro l’Austria (terza guerra di indipendenza italiana). La preparazione militare prussiana, che fu decisiva ai fini della sconfitta dell’Austria, era notevole. Al contrario l’Italia venne battuta nella battaglia di Custoza e nella battaglia navale di Lissa (unica vittoria italiana la ebbe Garibaldi, a Bezzecca). Essendo comunque stata sconfitta, l’Austria cedette il Veneto. Non reputandosi battuta dall’Italia, cedette questa regione a Napoleone III, che la passò al nuovo Regno italiano. Anche il Veneto fu annesso con plebiscito. Ancora venne dalla situazione internazionale l’occasione favorevole al ricongiungimento all’Italia di Roma e del Lazio. Il Regno italiano approfittò infatti della sconfitta di Napoleone III, protettore, come visto, dello Stato Pontificio, in una guerra tra Francia e Prussia scoppiata nel luglio 1870. Il 2 settembre 1870 Napoleone III venne battuto a Sedan; il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrarono a Roma. Così, dopo Torino e Firenze (proclamata capitale, nel 1864, per tranquillizzare l’imperatore francese sull’assenza della volontà di attaccare lo Stato pontificio), Roma divenne capitale del nuovo Stato italiano, secondo l’idea tradizionale dei patrioti del Risorgimento APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 19- UNITA’ DELLA GERMANIA. Si è già richiamato, trattando del 1848 in Europa, che i moti tedeschi furono anche fortemente caratterizzati dall’esigenza della Germania unita. Si può, così, ricordare ancora, in questo orizzonte unitario, il ruolo del Parlamento di Francoforte. Si è pure visto che, entro gli Stati in cui era divisa la Germania, particolare importanza aveva il regno di Prussia. Va messo in rilievo che, dopo il Congresso di Vienna, l’Impero austriaco aveva la presidenza della Confederazione germanica, nella quale erano riuniti 39 Stati tedeschi. L’Impero asburgico aveva dunque una posizione di rilievo in Germania. Una posizione, questa, che doveva condurre ad una situazione di contrasto tra Austria e Prussia. E’ anche da ricordare che, dinanzi a questo stato di cose, coloro che, per motivi economici e politici, desideravano per la Germania una soluzione unitaria potevano avere come punto di riferimento o l’Impero austriaco (secondo un programma chiamato grande-tedesco) o il regno di Prussia senza Impero austriaco (programma chiamato piccolo-tedesco). Va detto che in Prussia il progresso economico stava avendo un grande sviluppo (e, trattando la rivoluzione industriale e le sue tappe, si è già considerato come la Germania, ad un certo punto, abbia superato nella produzione di acciaio anche la Gran Bretagna). Così, ancora, è ad impulso della Prussia che si costituisce, già nel 1834, un’unione doganale, lo Zollverein. Un’unione destinata a toccare, e ad unire economicamente, i paesi dell’area tedesca, con la rilevante esclusione dell’Austria. Allo sviluppo della forza economica si è accompagnato l’accrescimento e la valorizzazione della forza militare. Forza economica e forza militare misero in grado lo Stato prussiano di concludere il processo di unificazione politica della Germania. Fu Ottone di Bismarck (1815-1898) l’uomo politico che, anche in modi contrapposti a quelli suggeriti dagli ideali rivoluzionari-democratici del 1848, si adoperò per questa unificazione. Dietro l’unificazione tedesca gli storici hanno anche potuto individuare un’alleanza tra classe borghese, interessata allo sviluppo economico, e vecchia nobiltà prussiana. Bismarck portò avanti una politica antiaustriaca. Si giunse così, nel 1866, ad una guerra nella quale la Prussia, alleata all’Italia, combatté e sconfisse l’Austria. In seguito a questa guerra (con la quale, si ricorda, il Regno d’Italia acquistò il Veneto) la Prussia procedette all’annessione di alcuni Stati tedeschi settentrionali e della città di Francoforte. Inoltre la Prussia ebbe posizione preminente tra gli Stati riuniti nella Confederazione tedesca del Nord. La sempre maggiore potenza prussiana non poteva non preoccupare la Francia di Napoleone III. Va anche detto, sotto un altro aspetto, che Bismarck stesso desiderava una guerra con la Francia. Una guerra che, tra l’altro, gli avrebbe permesso di completare e consolidare l’unità tedesca, sotto il dominio prussiano. Effettivamente il conflitto franco-tedesco scoppiò, nel 1870. Si risolse, come già visto, con la sconfitta di Napoleone III (e si è pure già considerato come questa sconfitta consentì alle truppe italiane di entrare a Roma). In seguito alla vittoria prussiana, il 18 gennaio 1871 fu proclamato l’Impero tedesco, nel quale confluirono anche gli Stati della Germania meridionale, oltre ai territori dell’Alsazia e della Lorena sottratti alla Francia. Il re di Prussia, Guglielmo I (1797-1888), divenne così imperatore della Germania unita. Se, come abbiamo visto considerando lo Statuto albertino e la sua applicazione, in Italia la forma di governo si sviluppò in senso parlamentare, in Germania, invece, i ministri dovevano avere la fiducia del monarca, non del Parlamento. Si è, comunque, osservato che il Primo Ministro (detto Cancelliere) poteva anche avere, come è stato nel caso di Bismarck, notevolissima autonomia ed influenza. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 20- SVILUPPO INDUSTRIALE, RICERCA SCIENTIFICA E MIGLIORAMENTO DELLE CONDIZIONI DI VITA NELLO SVILUPPO DEL XIX SECOLO. POSITIVISMO. Nel corso del secolo XIX, come visto, si è potuto assistere ad un crescente sviluppo della scienza, legato e amplificato dal sempre più stretto legame tra ricerca scientifica e crescita dell’industria. Le scoperte della scienza e della tecnologia e lo sviluppo industriale hanno indubbiamente portato grandi e importanti benefici alla società umana. Si può così pensare, ad esempio, alla celerità delle comunicazioni e dei trasporti. Ma anche, e soprattutto, sono da ricordare le applicazioni della chimica a nuovi concimi per l’agricoltura e a nuovi farmaci per la salute. Inoltre la ricerca chimica ha contribuito alla diffusione di un sempre maggiore grado di igiene. La considerazione della ricerca scientifica e dei suoi benefici effetti ha spinto ad una visione ottimistica, diffusa nella società (in maggior misura nella classe borghese), nella sicurezza di poter risolvere, prima o poi, i principali problemi della vita umana. In questo quadro, la considerazione della ricerca ha pure spinto la nascita di un movimento culturale e di pensiero: il Positivismo. Un movimento, questo, che richiama e valorizza, fin dal suo stesso nome, la necessità di rivolgere lo studio a fatti reali e concreti (appunto “positivi”) e l’efficacia della scienza. Con il Positivismo si sottolinea e si dà valore, nella ricerca scientifica, allo studio attento, sperimentale, dei fatti; studio da applicare, oltre che alla natura, pure alla società umana. Fondatore del Positivismo fu il pensatore francese Auguste Comte (1798-1857). In Inghilterra sono da ricordare John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903). Anche ai fini dello studio dei rapporti tra scienza e filosofia, appare significativo richiamare la teoria scientifica di Charles Darwin (1809-1882) sull’evoluzione (e, quindi, mutabilità nel tempo) delle specie animali. Un’evoluzione, secondo Darwin, orientata, sulla base di una variabilità naturale degli organismi, da un principio di selezione, ossia di adattamento degli esseri viventi alle condizioni naturali e al mutare di queste (maggiore successo degli animali aventi le caratteristiche fisiche più adatte all’ambiente). Va rilevato come il modello evoluzionistico sia stato ripreso e utilizzato per spiegare aspetti della psicologia e della vita in società degli uomini. Tra gli autori che hanno sviluppato questa estensione dell’evoluzionismo alla vita sociale si trova il filosofo positivista Spencer. Sotto un altro punto di vista, la corrente ottimista di cui si parla trova una propria particolare accentuata espressione in Francia, con la cosiddetta Belle époque (bella epoca), tra la fine del secolo XIX e lo scoppio del primo conflitto mondiale (1914), un periodo contrassegnato dalla diffusione delle comodità, dalla ricerca del divertimento, dalla fiducia nel valore dello sviluppo dell’industria. Di fronte al quadro di ottimismo appena tracciato, va rilevato che, come bene evidenziato da Marx, nella società della seconda metà del XIX secolo erano presenti anche gravi difficoltà e contraddizioni laceranti. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 21- INNOVAZIONE SCIENTIFICA, MACCHINE E LAVORO NELLO SVILUPPO DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE. Si è già parlato, considerando il sistema di produzione moderno, della necessità della divisione del lavoro. Una divisione che ha contribuito ad aumentare la dipendenza dei lavoratori dalle macchine, in maniera tale che il lavoratore stesso finiva con il diventare, pure lui, quasi una macchina, una specie di appendice di essa. Lo scopo di fondo appare, chiaramente, quello di far raggiungere all’imprenditore un guadagno (profitto) sempre maggiore. La dipendenza del lavoratore dalle macchine, sviluppatasi nel secolo XIX, è cresciuta ancora nel secolo XX. Così, in questo senso, nascono e si diffondono le ricerche di un’organizzazione scientifica del lavoro (è rimasto famoso il contributo dell’ingegnere Frederick Winslow Taylor, 1856-1915). Si adotta il sistema della catena di montaggio, un nastro che può portare il lavoro davanti ai lavoratori senza farli spostare. Si può ricordare un film del 1936, Tempi moderni, di Charles Chaplin (1889-1977), che è anche una illustrazione in senso satirico di questa catena di montaggio e dei suoi costi umani. Il sistema della produzione moderna (nei secoli XIX e XX) è così molto diverso dal sistema della produzione artigianale nel Medio Evo. Nel sistema del Medio Evo, infatti, un artigiano, che sa fare da solo tutto il lavoro, provvede alla completa produzione dell’oggetto. Appare interessante accennare che il sistema artigianale, in cui è molto importante il lavoro fatto a mano, è anche collegato alla personale bravura artistica del lavoratore. Mentre si osserva ancora che l’introduzione delle macchine nella attività produttiva sempre più ha causato la fabbricazione di prodotti in serie, tutti uguali tra loro. Riassumendo: i progressi della scienza hanno contribuito ad aumentare i profitti degli imprenditori anche aumentando la produttività del lavoro, ossia facendo produrre maggiormente il singolo lavoratore e, conseguentemente, rendendo inutile l’opera di altri operai. Subito molti studiosi di economia notarono che una riduzione del numero dei lavoratori utilizzati e, contemporaneamente, il salario molto basso di quelli che rimanevano occupati poteva provocare grandi difficoltà nella vita economica. Infatti il lavoratore non soltanto è colui che lavora alle dipendenze dell’imprenditore ma è anche un compratore, con i soldi del proprio salario, dei prodotti fabbricati. Ora, se molti lavoratori perdono il posto e rimangono senza salario essi diminuiranno i loro acquisti e tanti prodotti fabbricati rimarranno non venduti. Si è così in presenza di crisi di sovrapproduzione, nelle quali l’offerta di prodotti da parte dell’imprenditore è superiore alla domanda di questi prodotti che, quindi, non vengono acquistati. Appare necessario ricordare che la innovazione scientifica, la sempre più vasta e completa applicazione della scienza al mondo della produzione richiedeva ricchezze sempre più grandi. Questa necessità di grandi ricchezze, o, come si può dire meglio, di grandi capitali, ha avuto varie conseguenze. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini. 22CARATTERISTICHE DELLO SVILUPPO DELL’ORGANIZZAZIONE ECONOMICA CAPITALISTICA A PARTIRE DALLA SECONDA META’ DEL SECOLO XIX. Si è già parlato della necessità di grandi capitali per la vita delle imprese. Si può dire che molti economisti hanno individuato, e hanno sottolineato, le varie esigenze, tecniche ed economiche, che sono alla base della crescita della dimensione delle imprese e della crescita dei capitali ad esse necessari. Si dice subito che la produzione, anche in considerazione dei grandi capitali necessari, tende sempre più a concentrarsi in poche grandi imprese. Va detto inoltre che, in collegamento con il richiamato bisogno di risorse, nella seconda metà del secolo XIX hanno una grande diffusione le società per azioni. Infatti un solo imprenditore, un imprenditore individuale può anche non avere capitale sufficiente. Un soggetto, allora, può accordarsi con altri soggetti formando con loro una società. La società diventa così un altro tipo di imprenditore. Bisogna, quindi, ricordare che i tipi di imprenditore, fondamentalmente, sono due: l’imprenditore individuale e la società. Con la società più parti si accordano tra loro per mettere insieme un capitale (che viene ad essere più grande di quello su cui potrebbe contare ogni singola persona) destinato all’attività imprenditoriale. Nelle società per azioni questo capitale viene suddiviso in tante piccole quote, che sono definite, appunto, azioni. E’ necessario ricordare inoltre la possibilità per l’imprenditore di richiedere prestiti al sistema delle banche, che nella parte finale del secolo XIX stava avendo un grande sviluppo. Va anche fatto presente l’intreccio che, in questo modo, si veniva a creare tra attività industriale e attività di raccolta e prestito del risparmio esercitata dal sistema bancario. Va così anche rilevata l’influenza del sistema bancario sull’attività industriale. Si è accennato alla concentrazione della produzione in poche grandi imprese. In maniera collegata la maggior parte dei capitali tende ad essere accumulata nelle mani di queste poche imprese. Si è avuta, dunque, una tendenza all’affermazione di poche imprese sempre più forti, e all’accordo tra queste imprese per tenere sotto controllo le situazioni legate al mercato, ossia le situazioni legate alla domanda e all’offerta dei prodotti. Gli storici hanno notato come la tendenza di cui si è appena parlato abbia registrato un sostanziale e decisivo sviluppo in collegamento con un periodo di crisi economica, iniziato nel 1873. Così, in questo periodo, le piccole e medie imprese non hanno avuto la forza di resistere alla crisi e alla concorrenza delle grandi imprese e sono fallite. Si può anche ricordare, in questo stesso discorso, la possibilità per le imprese non grandi di fondersi insieme, diventando, in tal modo, un soggetto unitario con più grandi dimensioni e più grandi risorse. E’ importante sottolineare come con l’affermazione della tendenza generale che stiamo considerando sia cambiato, come già accennato, anche l’aspetto delle situazioni di mercato. Dunque, dopo lo sviluppo della concorrenza, della gara tra molti imprenditori che ha caratterizzato fin dal secolo XVIII la filosofia economica della classe borghese e che ha avuto un momento di più forte affermazione generale tra il 1850 ed il 1870, si ha ora, a questo punto, o un mercato controllato da poche imprese (situazione di oligopolio) oppure da una sola impresa (situazione di monopolio). Le crisi economiche, da una parte, e, da un’altra parte, la considerata evoluzione dei mercati in senso contrario ai principi puri della concorrenza e dei liberisti hanno portato anche gli Stati ad intervenire, riutilizzando il sistema di imporre un dazio (ossia un’imposta, il pagamento di una somma di danaro) sui prodotti fabbricati all’estero che vengono importati (protezionismo). In questo modo il prodotto fabbricato all’estero costa di più (prezzo del prodotto più il dazio) e gli imprenditori che lavorano nel territorio dello Stato vengono aiutati a vendere il loro prodotto. Appare significativo, a questo punto, mettere in rilievo il collegamento tra i fenomeni ora visti ed altri fenomeni dell’ultima metà del XIX secolo, già considerati prima, quali l’organizzazione scientifica del lavoro e la cosiddetta seconda rivoluzione industriale. Tutti questi fenomeni rappresentano modi di sviluppo del capitalismo ottocentesco e tentativi di soluzione dei suoi motivi di crisi. Il periodo finale del XIX secolo, caratterizzato, fra l’altro, dall’affermazione dei monopoli, viene anche definito età dell’imperialismo. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012 23- COLONIALISMO ED ECONOMIA. Abbiamo già parlato delle crisi di sovrapproduzione. Abbiamo così visto che nel mercato l’offerta dei prodotti da parte degli imprenditori può essere maggiore della richiesta. Nasce così la necessità di far diventare più grande la domanda dei prodotti. Questa necessità è una delle ragioni del colonialismo. Si dice ‘colonia’ un territorio che si trova fuori dei confini di uno Stato, anche in un altro continente, e che, nello stesso tempo, dipende da quello Stato, a causa, per esempio, di una occupazione militare. Si sono detti ‘potenze coloniali’ quegli Stati ricchi e potenti (come l’Inghilterra e la Francia) che hanno avuto colonie. Guardando la Storia, ed anche la Geografia, si può ora ricordare e considerare che già tra XV e XVI secolo formarono loro imperi coloniali Portogallo e Spagna. Va detto che le vicende storiche di questi due Stati, sostanzialmente caratterizzate dal prevalere dell’assolutismo e dalla sconfitta delle esigenze economiche borghesi, hanno condotto ad una situazione di arretratezza anche i loro territori coloniali. Successivamente sviluppò un proprio sistema di colonie, caratterizzato da una maggiore efficienza economica, l’Olanda. L’Inghilterra, dove, come visto, ebbe inizio la rivoluzione industriale, creò un vasto impero coloniale. Con l’età dell’imperialismo, caratterizzata dal superamento, per molti aspetti, dei principi della concorrenza, la formazione di sistemi coloniali, da parte dei vari Stati, ebbe una forte accelerazione. Con le loro colonie le potenze coloniali cercano di garantirsi un mercato dove vendere i propri prodotti. Cercano di garantirsi anche un rifornimento continuo di materie prime e una utilizzazione più vantaggiosa del capitale da impiegare. Può anche dirsi che le potenze coloniali hanno protetto gli interessi delle loro imprese con gli eserciti. I Paesi europei hanno anche parlato di un colonialismo necessario a portare la civiltà ai popoli degli altri continenti. Molti hanno rilevato in questo atteggiamento un sostanziale razzismo . Storici ed economisti sostengono che, ancora in tempi recenti, in Africa e in Asia, si sono viste le conseguenze negative della politica coloniale. Così si sostiene che nelle colonie le potenze coloniali non hanno permesso la nascita di industrie, contribuendo a provocare danni e ritardi economici. Sul finire del secolo XIX Africa e Asia vennero sostanzialmente spartite tra gli Stati europei. Così, con la fine del secolo XIX, la lotta economica diviene pure lotta politica tra i maggiori Stati d’Europa, e si profilano anche rischi di guerre. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012. 24- SGUARDO GENERALE COLONIALISMO. SULLA SITUAZIONE IN ASIA FINO AL Il territorio asiatico si presentava diviso in vari grandi Stati. Si ricorda che già nel VII secolo dopo Cristo, nella penisola araba, il sorgere di una nuova religione monoteista, quella musulmana, fece da spinta ad una nuova organizzazione sociale. Va annotato che per l’Islam la rivelazione data da Dio al profeta Muhammad (noto, in Occidente, come Maometto) rappresenta il completamento ed il perfezionamento di verità già contenute nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. Così la religione musulmana considera come profeti anche Abramo, Mosè e Gesù Cristo. Maometto (570 circa-632), ricevuta la rivelazione divina (esposta nel Corano, il libro sacro della religione islamica), riuscì a convertire e a riunire le popolazioni arabe (popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie) politeiste. Per ottenere questo risultato ricorse pure ad una politica di espansione militare, anche aiutandosi con il concetto di guerra santa contro gli infedeli. La politica di espansione militare venne continuata dai suoi successori. Gli eserciti arabi giunsero in Africa settentrionale, occuparono quasi tutte le sponde del Mediterraneo e, in Asia, conquistarono la Persia e giunsero sino all’India settentrionale. Va detto, inoltre, che la religione musulmana si espandeva anche ad opera dei mercanti. E’ importante tener presente che il libro sacro dell’Islam (Corano) è anche un testo normativo, sopra il quale si costruisce il sistema del diritto musulmano. Fino circa al IX-X secolo i territori conquistati dagli Arabi erano governati da un unico califfo. Successivamente nei vari territori, che pure rimanevano musulmani, si fecero strada spinte e tendenze ad una maggiore autonomia. Inoltre, nella direzione del movimento di espansione dell’Islam, al gruppo etnico arabo finì con il sostituirsi un altro gruppo, quello dei Turchi, affini ai Mongoli. Così, a partire dal XIV secolo, dall’Anatolia, i Turchi Ottomani diedero forte impulso militare all’espansionismo islamico. L’Impero Ottomano, che prende il proprio nome dal fondatore, Othman, tra XVI e XVII secolo si estendeva su tre continenti. Oltre ai territori asiatici tale impero comprendeva infatti l’Africa settentrionale e l’Europa orientale. Si può vedere in Geografia che, ancora oggi, l’attuale Turchia occupa anche una piccola parte d’Europa, nella penisola Balcanica. Procedendo verso est, dopo l’Impero Ottomano veniva quello Persiano e, quindi, l’Impero Moghul, nella Regione Indiana. Elemento comune significativo di questi tre imperi era rappresentato dalla religione musulmana. Peraltro si può ricordare la rivalità politica e militare tra Impero Ottomano e Impero Persiano. Una rivalità che ha anche radici religiose. Occorre richiamare, a questo punto, una divisione importante ancora presente nel mondo islamico: quella tra Sunniti e Sciiti. Una divisione che trova la propria origine nelle questioni sorte sulla successione di Maometto e nella quale si riflette un intreccio di problemi politici e religiosi. Gli Sciiti, che rappresentano una minoranza dei musulmani, si differenziano dai Sunniti perché danno particolare rilevanza religiosa alla figura del califfo Ali ibn Abi Talib (602-661), genero del profeta (marito della figlia Fatima) e suo quarto successore, morto assassinato nell’ambito delle lotte per il potere avvenute dopo Maometto. A partire dal XVI secolo la religione in Persia è musulmana sciita e ciò, come accennato, ha contribuito a produrre ed aggravare i contrasti con l’Impero Ottomano, sunnita. Nella Regione Indiana l’impero detto Moghul, con un nome che riecheggia la provenienza mongola dei sovrani, a partire dal XVI secolo procedette ad un’opera di unificazione dei vari Stati presenti nel territorio. Cominciò dunque il fondatore, Babur (1482-1533), proveniente dall’Afghanistan, con la zona indiana settentrionale, che era stata già toccata dall’espansione musulmana. Successivamente questa politica di unificazione si sviluppò ancora, fin quasi a completarsi con la fine del secolo XVII. E’ necessario ricordare, comunque, come il rafforzamento dell’impero musulmano Moghul non significò la fine delle altre religioni della regione, a cominciare da quella induista. E’ stato detto che proprio la tolleranza mostrata dai sovrani in materia religiosa ha facilitato l’unificazione. Più ad est, nella carta dell’Asia, troviamo l’Impero Cinese, un impero vasto e potente che già con il XVIII secolo tese ad isolarsi limitando le influenze e i commerci europei. Politica, questa, che venne seguita anche dal Giappone. Complessivamente tra XVIII e XIX secolo l’Asia si presenta divisa in vari Stati, grandi e di antica civiltà ma anche, per vari motivi, in decadenza e afflitti da varie difficoltà e contraddizioni. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 25- SGUARDO GENERALE SU DIFFICOLTA’ E CONTRADDIZIONI DEGLI STATI ASIATICI. Si può dire che storici e storici dell’economia hanno individuato varie grandi difficoltà economiche, culturali e politiche degli Stati asiatici. Si è così, tra l’altro, parlato di cause di crisi collegate, nei grandi imperi multietnici, ai contrasti tra etnie e religioni. Abbiamo già visto le stesse rivalità tra imperi, pure entro il mondo musulmano, come quella che divise Impero Ottomano e Impero Persiano, rivalità anche legata al contrasto tra Sunniti e Sciiti. Gli storici hanno, inoltre, parlato di cause più strettamente economiche. Così, con riferimento all’Impero Ottomano, si è anche sottolineata l’importanza dello spostamento delle rotte commerciali, dopo le scoperte geografiche compiute dagli Europei. Già nel XV secolo le potenze asiatiche non furono in grado di impedire al Portogallo di raggiungere l’Oceano Indiano e di espandervi il proprio impero commerciale. Tra l’altro, le navi portoghesi, e, più in generale, le flotte europee, si perfezionarono tecnicamente sempre più, anche per quel che riguarda gli armamenti a bordo. Il discorso poi dell’innovazione scientifica e tecnologica è un discorso di grande importanza per segnare la differenza tra sviluppo europeo e mondo asiatico. Certamente studio scientifico e scoperte tecnologiche erano presenti anche in Asia. Bisogna ricordare, a questo proposito, una civiltà antica, raffinata e perfezionata come quella cinese. Per fare soltanto un esempio, la scoperta della stampa a caratteri mobili si fa risalire alla Cina del secolo XI. Quel che manca alle civiltà orientali, e che caratterizza, invece, quella occidentale, è la sempre più grande applicazione della scienza al mondo della produzione, quale abbiamo trovata trattando la rivoluzione industriale. Un’applicazione dietro la quale anche si vede uno sviluppo della borghesia imprenditoriale, con una ricerca del profitto, che, nei paesi orientali, non si è avuto. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 26- PENETRAZIONE EUROPEA IN ASIA. SITUAZIONE CINESE. Considerando storicamente la carta geografica dell’Asia, nella zona occidentale abbiamo trovato l’Impero Ottomano. Si sono anche viste alcune ragioni di crisi di questo impero. Gli storici hanno osservato che l’Impero Ottomano, nel suo periodo di decadenza, ha resistito, e non è crollato, non per la sua forza, ma per la situazione internazionale e la rivalità tra le potenze importanti. Così la Francia e l’Inghilterra temevano che l’Impero Russo potesse espandersi sui territori dell’Impero Turco e diventare più forte. L’espansione coloniale europea si sviluppò nell’Asia meridionale e sud-orientale. Occorre ora sottolineare che neanche l’Impero Moghul sfuggiva, tra XVII e XVIII secolo, alle difficoltà e all’avanzante decadenza che colpivano gli altri Stati asiatici. Tra l’altro si faceva sentire la pressione commerciale europea. Vanno, poi, ancora richiamati i conflitti tra le etnie. In particolare, inoltre, si ricorda l’intolleranza della politica religiosa, sul finire del XVII secolo, dell’imperatore Aurangzeb (1618-1707). Un’intolleranza che giunse anche alla distruzione di templi della religione induista. Per motivi religiosi e per motivi economici scoppiarono varie rivolte. In conseguenza di tutte queste cause la Regione Indiana finì con il dividersi di nuovo di fatto in varie entità statali. Questa crisi favorì gli interessi di dominio dell’Europa. L’Inghilterra in un primo momento proteggeva e sviluppava la sua sfera di influenza nella regione attraverso un’associazione di mercanti molto ricca e potente: la Compagnia delle Indie Orientali. Questa Compagnia già nel 1757 aveva, nei fatti, preso il controllo del Bengala. Nel 1858 l’India passò formalmente sotto il controllo dello Stato inglese e ne divenne una colonia. Tra il secolo XIX ed i primi anni del secolo XX, a partire dal territorio indiano e procedendo verso est, entrarono, direttamente o indirettamente, nella sfera del controllo inglese la Birmania, la penisola Malese, il nord del Borneo. La Francia, che nel XVIII secolo ebbe la peggio nel conflitto con l’Inghilterra per il dominio sull’India, nel secolo XIX, dopo il 1850, sviluppò con successo una propria politica coloniale in Indocina. Anche l’Olanda nella seconda metà del secolo XIX rafforzò la sfera coloniale, consolidando il proprio dominio in Indonesia. Continuando a considerare la carta geografica dal punto di vista storico si può rammentare come l’arcipelago delle Filippine sia stato colonizzato, a partire dal XVI secolo, dalla Spagna. Si è già ricordata la situazione di chiusura dell’Impero Cinese nei confronti degli scambi commerciali con l’Occidente. La pressione dei paesi occidentali perché si aprissero dei porti divenne sempre più forte. Nel secolo XIX scontri militari con le potenze europee, anche originati dall’imposizione da parte occidentale del redditizio commercio dell’oppio, si conclusero con la sconfitta della Cina che, tra l’altro, dovette cedere Hong Kong all’Inghilterra. La gravità della situazione cinese causò pure varie rivolte popolari. In seguito ai molti motivi di crisi che si erano sviluppati venne anche meno l’autorità imperiale. Nel 1912 la Cina, divenuta una repubblica, ebbe come primo presidente Sun Yat-sen (1866-1925). Il cambiamento di regime, però, non fu sufficiente a stabilizzare una situazione caratterizzata da decadenza e disordini, nella quale l’unità stessa del Paese tendeva a frantumarsi in tante regioni, governate da capi militari. In Asia settentrionale e centrale fu l’Impero Russo a portare avanti l’opera di penetrazione europea. Già con il secolo XVIII si poté registrare il movimento russo verso le zone siberiane, come la penisola Camciatca. Si può pure ricordare che i russi, attraversato lo stretto di Bering, occuparono, in America, l’Alaska. Questa regione venne venduta dall’Impero Russo agli Stati Uniti nel 1867. Nella seconda metà del secolo XIX si può anche ricordare la fondazione di Vladivostock, nella Siberia l’impianto della ferrovia Transiberiana. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. 27- CARATTERISTICHE DELLO SVILUPPO GIAPPONESE. orientale, e Prof. Frontini La generale situazione di crisi e di debolezza che, come visto, negli Stati asiatici si accompagnò e si aggravò con l’intervento coloniale occidentale trovò una significativa eccezione con il Giappone. Certamente anche il Giappone, come la Cina, venne costretto ad aprirsi ai mercati occidentali. Così si ricorda che l’apertura dei porti giapponesi cominciò ad aversi dopo una missione armata dell’ammiraglio americano Matthew Perry (1794-1858), nel 1854. Quello che è importante sottolineare è il diverso atteggiamento tenuto nei confronti delle innovazioni collegate alla situazione di dominio delle potenze industrializzate. Di fronte, dunque, a questa situazione il Giappone, prendendo a modello l’Occidente, avviò una sua industrializzazione. In maniera parallela, al termine di un lungo periodo nel quale aveva rilievo politico la figura dello Shogun, o comandante militare, il potere si riconcentrò nelle mani dell’Imperatore, detto Tenno, considerato, secondo la religione scintoista, una divinità. Il successo della politica di modernizzazione nei campi della tecnologia e della produzione portò allo sviluppo economico ed anche all’aumento della popolazione. Così, a sua volta, pure il Giappone si trovò nelle condizioni di dare inizio ad una politica imperialista di espansione coloniale. Si proclamò anche la necessità di considerare giapponesi tutti quei territori nei quali abitassero persone appartenenti al gruppo etnico giapponese. Si rileva che, di contro, Hokkaido, la più settentrionale delle quattro isole principali costituenti il territorio dello Stato giapponese (appunto Hokkaido e Honshu, Shikoku, Kyushu) è anche abitata dagli Ainu, originario gruppo etnico del Giappone diverso dal gruppo dominante. La politica imperialista, anche appoggiata ad una forte tradizione militare, si sviluppò fino a condurre ad uno scontro con la Cina (scontro che fruttò la presa di Taiwan) e ad un notevole contrasto con l’Impero Russo, che, tra l’altro, desiderava uno sbocco libero dai ghiacci sull’Oceano Pacifico. Si giunse così, nel 1904 ad una guerra tra Impero Russo e Giappone. Nel 1905 la Russia venne battuta. E’ stato sottolineato il contrasto della sconfitta russa da parte di un popolo asiatico rispetto alle idee fondamentalmente razziste, di superiorità dell’uomo bianco, che anche accompagnavano l’espansione coloniale occidentale. Successivamente, nel 1910, il Giappone occupò la Corea. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 28- AFRICA E COLONIALISMO. Prof. Frontini Una divisione importante che si può incontrare studiando il continente africano è quella tra Africa settentrionale, o Africa mediterranea, e Africa sub-sahariana, o Africa nera. E’ interessante ricordare che la parte settentrionale è anche chiamata Africa araba. Si è visto che, con il VII secolo dopo Cristo, anche l’Africa mediterranea venne coinvolta nell’espansionismo arabo musulmano. Successivamente, come pure accennato, troviamo anche in questa parte del Mondo l’Impero Ottomano. Si può notare, a questo punto, come religione predominante sia quella musulmana. Va, però, ricordata anche una forte minoranza di Cristiani copti (in Egitto). Alla decadenza dell’Impero Turco si affianca l’espansione coloniale europea. Tra le manifestazioni di questa decadenza turca si può anche richiamare, in Africa settentrionale, la crescente autonomia dell’Egitto del pascià Mehemet Ali (1769-1849). Mehemet Ali, dopo aver combattuto vittoriosamente contro la Turchia, ottenne il dominio ereditario sull’Egitto. Va detto che con questo pascià anche si ebbe una politica di espansione. Così venne occupata la regione sudanese orientale e, nel 1830, fu fondata Khartoum, attuale capitale del Sudan. Tra le potenze coloniali europee in territorio africano si possono richiamare in primo luogo Francia e Inghilterra. Partendo dai territori del Senegal e, sulla sponda del Mediterraneo, dall’Algeria, occupata nel 1830, la Francia estese la propria zona coloniale nell’Africa nord-occidentale. Va aggiunto che anche il Madagascar, l’isola africana più importante, situata nell’Oceano Indiano, si trovò sempre più inserito nella sfera francese. In Africa meridionale l’Angola, sull’Oceano Atlantico, ed il Mozambico, sull’Oceano Indiano, erano colonie portoghesi. Gli storici hanno comunque anche messo in rilievo una sostanziale dipendenza economica e politica, a partire dal XVII secolo, del Portogallo dall’Inghilterra e, conseguentemente, un sostanziale inserimento pure delle colonie di questo Stato nel sistema coloniale inglese. Già nel XVII secolo si era formata nella punta meridionale dell’Africa una colonia olandese, la Colonia del Capo, che, successivamente, nel secolo XIX (con il Trattato di Parigi del 1814), passò all’Inghilterra. L’insoddisfazione dei coloni olandesi (Boeri) portò ad un loro abbandono della Colonia del Capo divenuta inglese e alla fondazione, nell’Africa meridionale, di nuove repubbliche, poi federatesi, con il 1860, nella Repubblica Sudafricana. Un insieme di cause spinse la Gran Bretagna a impegnarsi in tutta la parte orientale dell’Africa, da nord a sud. Così, nel 1882, con l’accordo della Francia, l’Inghilterra occupò militarmente l’Egitto, dove con il taglio, nel 1869, dell’istmo di Suez, congiungente Africa ed Asia, si era aperto un canale che permetteva più veloci comunicazioni dal Mediterraneo anche verso l’India britannica. La penetrazione coloniale francese, ma anche tedesca e di altri Stati era motivo di spinta all’espansione coloniale inglese. Nell’Africa meridionale si sviluppò pure conflitto tra l’Inghilterra e la Repubblica Sudafricana, nel cui territorio, tra l’altro, erano state scoperte, nel 1886, miniere d’oro. Si arrivò così alla guerra anglo-boera, combattuta tra il 1899 ed il 1902, che vide la vittoria della Gran Bretagna. Le necessità economiche e politiche dell’Europa spinsero così ad una sempre maggiore colonizzazione anche dell’Africa. Spinsero, inoltre, un sempre più grande numero di Stati europei a tentare l’impresa coloniale. Conseguentemente, come già accennato, aumentarono pure le possibilità di scontri tra potenze. Va ricordato che oltre alla Francia, all’Inghilterra e al Portogallo formarono imperi coloniali anche la Germania (in Africa orientale, in Africa sud-occidentale e, sul golfo di Guinea, in Camerun e Togo), il Belgio (in Africa centrale, grosso modo lungo il corso del fiume Congo, risalito, per conto del re Leopoldo II del Belgio, dall’esploratore Stanley), l’Italia. A partire dall’ultimo ventennio del secolo XIX il Regno d’Italia sviluppò una sua politica coloniale. Nel cosiddetto Corno d’Africa, penisola dell’Africa orientale che si spinge verso l’Asia, si formarono colonie italiane in Eritrea e Somalia. Peraltro, nel tentativo di conquista dell’Etiopia le truppe italiane vennero duramente sconfitte nella battaglia di Adua, nel 1896. L’Etiopia venne conquistata durante il ventennio fascista, nel 1935. Nel 1912, in seguito al conflitto italo-turco (scoppiato nel 1911), il Regno d’Italia, uscito vincitore, occupò la Libia, appartenente all’impero ottomano, nell’Africa settentrionale. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 29- COLONIALISMO E AMERICA. CARATTERISTICHE DEGLI STATI UNITI. Si deve ricordare che con il XVI secolo il continente americano, appena incontrato dai navigatori europei, venne inserito nel sistema coloniale. Si è già visto che tra XV e XVI secolo svilupparono i propri domini Portogallo e Spagna. Si deve sottolineare che l’espansione coloniale si accompagnò alla scoperta e all’esplorazione di territori ignoti agli europei. La colonizzazione spagnola del continente americano ha origine già con il viaggio di Colombo del 1492. Cristoforo Colombo, in questo suo primo viaggio, toccò anche Cuba e Hispaniola, nell’arcipelago delle Antille. La colonizzazione della Spagna si sviluppò a partire da questo arcipelago, situato nel Mar Caraibico, in America centrale. Negli anni venti del secolo XVI la Spagna conquistò il Messico, con la distruzione dell’Impero Azteco. Negli anni trenta dello stesso secolo XVI si ebbe la conquista del Perù, con la distruzione dell’Impero Inca. Tra XVI e XVIII secolo la Spagna estese i propri domini fino all’Argentina in America meridionale e, in America settentrionale, fino oltre il Texas e la California. Nell’America meridionale, verso l’Oceano Atlantico, già nel XVI secolo cominciò a svilupparsi una zona di dominio coloniale portoghese nel Brasile, scoperto, nel 1500, dal navigatore Pedro Cabral (1467-1520) che, nella sua rotta verso la Regione Indiana, in Asia meridionale, si era spinto eccessivamente verso ovest nell’Oceano Atlantico prima di oltrepassare l’Africa, superando il Capo di Buona Speranza. A partire dal secolo XVII il continente americano sempre più divenne oggetto di interesse e di colonizzazione per altre potenze europee. In America meridionale Francia, Olanda e Inghilterra riuscirono a occupare zone della Guyana. La Francia sviluppò un proprio dominio coloniale anche tra il Golfo del San Lorenzo e il Golfo del Messico, dal Canada a regioni che poi avrebbero fatto parte degli Stati Uniti. Si deve dire che nella seconda metà del secolo XVIII, dopo la Guerra dei Sette Anni (1756-1763), il Canada entrò a far parte dei domini inglesi. Tra XVII e XVIII secolo nell’America del Nord, sulla costa dell’Oceano Atlantico, la Gran Bretagna arrivò inoltre a formare 13 colonie (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New Hampshire, New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania, Virginia, Maryland, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Georgia). Gli storici hanno messo in rilievo la ricchezza economica raggiunta da queste colonie facendo anche osservare lo sviluppo, nella seconda metà del secolo XVIII, di quelle più settentrionali (costituenti la Nuova Inghilterra) in senso tanto urbanistico come industriale (con riferimento particolare alla costruzione delle navi). L’insieme di queste circostanze ha oggettivamente messo in rotta di collisione le esigenze di sviluppo dei territori americani e la politica coloniale portata avanti dall’Inghilterra. Si può ricordare così che, nel 1776, i rappresentanti delle 13 colonie si riunirono e dichiararono l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Si può ricordare inoltre che, al termine di una guerra con la madre patria, nel 1783, nacquero gli Stati Uniti d’America. Gli storici hanno potuto sottolineare l’importanza che ha avuto la possibilità di un’espansione economica e sociale verso l’interno, verso l’ovest, per lo sviluppo e per la sempre maggiore affermazione degli Stati Uniti. Si è, in altre parole, messo in rilievo il grande ruolo spettante, nella storia statunitense, al concetto di “frontiera”, frontiera, appunto quella verso l’ovest, verso l’Oceano Pacifico, verso nuovi territori da colonizzare e coltivare. Frontiera che si può spostare in relazione alla libertà, e alla libera iniziativa dell’individuo. Gli studiosi hanno anche richiamato il valore, ai fini dello sviluppo economico e sociale, della forma giuridica assunta dagli Stati Uniti. Si è, infatti, osservato che lo Stato federale, l’unione già delle 13 colonie originarie divenute 13 stati, ha rappresentato il mezzo migliore per salvare e valorizzare le caratteristiche di ognuno dei territori uniti salvando, contemporaneamente, le caratteristiche positive collegate ad uno Stato più grande e più forte. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 30- SVILUPPI DEGLI STATI UNITI. Considerando le caratteristiche degli Stati Uniti si è già vista l’importanza del concetto di “frontiera”. Si può sottolineare che l’espansione verso l’Ovest è stata anche una delle cause di un crescente sviluppo economico. Uno sviluppo economico, questo, quale, nella seconda metà del XIX secolo, ha anche attirato (e utilizzato) grandi masse di persone che emigravano dalle zone povere dell’Europa (come l’Italia). Da un certo punto di vista gli sbocchi di mercato legati alla considerata espansione verso occidente e, pure, la necessità di uno sviluppo dei trasporti ferroviari nei nuovi territori collegano nascita di nuovi Stati della federazione americana e crescita industriale degli Stati settentrionali. Il crescente peso politico negli Stati Uniti dei centri di interesse legati allo sviluppo dell’industria degli Stati settentrionali, ha portato ad un contrasto di questi con gli Stati meridionali della federazione, caratterizzati economicamente dalla presenza di vaste proprietà terriere con piantagioni di cotone coltivate con l’opera di manovalanza schiava proveniente dall’Africa nera. In questo orizzonte si può osservare che contro la schiavitù le necessità dell’industria si sono oggettivamente legate a doverose considerazioni di civiltà e di democrazia. Il considerato contrasto all’interno degli Stati Uniti portò, nel 1861, allo scoppio della cosiddetta guerra di Secessione (separazione), dopo che l’elezione come presidente di Abraham Lincoln (1809-1865), antischiavista, aveva spinto gli Stati del Sud a staccarsi dagli altri Stati, formando tra loro una Confederazione. La guerra di Secessione, combattuta tra Stati dell’Unione, rimasti fedeli a Lincoln, e Stati meridionali, si concluse nel 1865 con la sconfitta della Confederazione del Sud. Peraltro, pur di fronte all’abolizione della schiavitù, gli storici hanno fatto notare, per quanto riguarda gli Stati della Confederazione sconfitta, la mancanza di una riforma agraria da un lato, da un altro lato il rimanere, se non il crescere, di forti sentimenti razzisti, espressi anche con il sorgere di associazioni come il Ku Klux Klan operanti al fine di perseguitare i neri e di far rinascere completamente il potere dei bianchi. Gli studiosi di Storia hanno anche osservato che, con la fine della guerra di Secessione, si è avuto, negli Stati Uniti, il rafforzamento degli Stati del Nord e la valorizzazione di un forte potere centrale. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 31- AFFERMAZIONE DEGLI STATI UNITI. STATI UNITI E AMERICA LATINA. Si è già riassunta la formazione e lo sviluppo storico degli Stati Uniti, a partire dalle vicende della colonizzazione americana. E’ apparso opportuno ricordare questi punti anche per sottolineare ancora alcuni concetti generali importanti, necessari per una migliore comprensione pure dei fatti storici successivi. La nascita degli Stati Uniti, in seguito alla guerra delle colonie inglesi contro la madre patria, ci è apparsa manifestazione di una volontà di indipendenza anche legata allo sviluppo di autonome capacità economiche. Queste autonome capacità hanno avuto possibilità di crescita nell’espansione territoriale verso l’Oceano Pacifico. Si è anche richiamato l’importante ruolo avuto dalla forma giuridica di Stato federale, assunta dagli Stati Uniti, al fine della crescita complessiva del paese. Si dice Stato federale quello caratterizzato da un lato dall’essere un’unione di vari Stati, da un altro lato dalla presenza, comunque, di un potere centrale. Per le sue caratteristiche gli studiosi di diritto hanno anche chiamato lo Stato federale Superstato, o Stato di Stati. Va, ora, pure aggiunto, con riguardo alla vicenda storica degli Stati Uniti, che lo Stato federale ha preso l’aspetto di una repubblica presidenziale, dove il Presidente della Repubblica è il capo del Governo. La nascita stessa degli Stati Uniti ha avuto una forte influenza sull’America latina e ha spinto ad una lotta per l’indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo. Così, con il secolo XIX, il Brasile si liberò del dominio portoghese e le colonie spagnole dell’America centrale e meridionale divennero indipendenti. Nel sud dell’America meridionale si può ricordare la lotta che, tra 1816 e 1817, portò, anche grazie alle doti militari del generale José de San Martin (1778-1850), alla liberazione di Argentina e Cile. Si può inoltre ricordare l’opera di liberazione condotta dal generale Simon Bolivar (1783-1830) nel nord dell’America meridionale. Gli spagnoli vennero definitivamente sconfitti nell’America meridionale nel 1824, nell’Alto Perù, in una zona dove sorse, nel 1825, la Repubblica di Bolivia. Il Messico proclamò l’indipendenza dalla Spagna nel 1821. Ancora nel 1821 proclamarono l’indipendenza i territori del centro America, riunitisi in un’unica repubblica, detta Repubblica delle Province Unite dell’America centrale. Peraltro si è osservato da molti che l’America centro-meridionale era economicamente molto meno sviluppata della parte settentrionale del continente. Gli storici hanno messo in rilievo una situazione caratterizzata dallo sfruttamento dei contadini da parte di ristretti gruppi sociali. Inoltre hanno rilevato le conseguenze negative di una politica economica basata pure sulle cosiddette monocolture, ossia sulla prevalente coltivazione, in certi territori, di un solo prodotto (quale, a Cuba, la canna da zucchero). Come altri elementi di questo quadro di sfruttamento e di mancanza di democrazia si sono richiamati il fallimento dei tentativi di costituire più forti unioni di Stati e la generale instabilità politica, anche collegata alle pretese di potere di certi gruppi militari. Così nel 1841 si divise la Repubblica delle province Unite dell’America centrale ma già nel 1830, nel settentrione dell’America del Sud, la Grande Colombia, sostenuta da Simon Bolivar, si era divisa in tre Stati: Colombia, Venezuela, Ecuador. Tra gli storici e tra gli economisti si è anche osservato, e sottolineato, che le vicende dell’America latina si inseriscono tra sempre maggiore affermazione economico-politica degli Stati Uniti e decadenza della Spagna. Si può ricordare, a questo punto, che gli Stati Uniti dovevano trovare una naturale linea di espansione della propria affermazione in direzione dell’America latina. Già in un famoso discorso del dicembre 1823 il presidente statunitense James Monroe (1758-1831), con riferimento alle lotte per l’indipendenza che, come visto, si erano svolte e si stavano svolgendo nell’America centro-meridionale, aveva invitato gli Stati europei a non tentare interventi coloniali sul continente americano, interventi coloniali considerati come contrari agli interessi degli Stati Uniti. Dietro questa dichiarazione di Monroe si è osservato, da un lato, un sostegno ai nuovi Stati americani indipendenti, ma anche, da un altro lato, una volontà di supremazia politica nei confronti dell’America centro-meridionale. Va ricordato che, con l’espansione verso l’ovest, gli Stati Uniti entrarono in conflitto con il Messico, al quale presero i territori dal Texas alla California, sull’Oceano Pacifico. L’espansione ad ovest, che richiese la cacciata delle popolazioni indiane originarie dei posti, fu, come visto, uno dei motori della crescita statunitense. Una volta raggiunto l’Oceano Pacifico le linee dell’espansione economico-politica degli Stati Uniti si diressero verso l’Asia e l’Oceania, da un lato, verso il rafforzamento in America centro-meridionale, da un altro lato. Come ricordato, di fronte alla decadenza della Spagna gli Stati Uniti conquistarono in America latina una posizione di sempre maggiore importanza. Appare da ricordare, a questo punto, che, in seguito alla ribellione di Cuba contro il potere spagnolo, gli Stati Uniti, nel 1898, dichiararono guerra alla Spagna e la sconfissero. Cuba divenne indipendente, ma dentro la sfera di influenza statunitense. Con la sconfitta della Spagna gli Stati Uniti acquistarono, in Asia, le Filippine, che, come visto, erano una colonia spagnola. Si deve ricordare, però, che contro gli americani si sviluppò una forte ribellione. Va anche detto subito che le Filippine proclamarono l’indipendenza nel 1946. In Micronesia, in Oceania, la Spagna cedette, inoltre, alla potenza americana, Guam. Ancora in Oceania, nell’Oceano Pacifico, nel 1898, nell’arcipelago delle Hawaii, governato dapprima da una monarchia e poi da una repubblica indipendente, si decise il congiungimento con gli Stati Uniti, dei quali, nel 1959, le Hawaii divennero il 50 Stato. Con l’inizio del secolo XX l’influenza economica statunitense raggiunse l’America centrale e, successivamente, l’America meridionale, sostituendo così anche l’influenza inglese, che pure, fino ad allora, era stata abbastanza diffusa. APPUNTI DI STORIA a.s.2011/2012 Prof. Frontini 32- OCEANIA E COLONIALISMO. Abbiamo finora ripercorso la vicenda delle esplorazioni e della colonizzazione in Asia, Africa, America. Con le isole Hawaii si è appena incontrato un altro continente: l’Oceania. Un continente questo che, come si può subito vedere dalla carta geografica, appare caratterizzato dalla presenza della vasta estensione dell’Australia e di una grande quantità di isole e arcipelaghi. Si possono ricordare come arcipelaghi la Nuova Zelanda e quelli della Micronesia (con le isole Marianne, di cui fa parte Guam), della Melanesia, della Polinesia (con le isole Hawaii). Per la completezza dell’orizzonte storico sul colonialismo sembra necessario dare ora alcuni tratti essenziali. Va ricordato in primo luogo che l’Oceania entrò tardi nell’interesse dei colonizzatori. Dopo le esplorazioni di Abel Tasman (1603-1659), nel XVII secolo, fu James Cook (1728-1779), nel XVIII secolo, a compiere accurati viaggi di scoperta in questo continente. Fu, tra l’altro, Cook, nel 1778, a incontrare l’arcipelago delle Hawaii. L’Australia fu colonizzata dall’Inghilterra verso la fine del secolo XVIII. Dapprima utilizzata come stabilimento carcerario, fu, nel corso del secolo XIX, oggetto di immigrazione, anche per la scoperta di miniere d’oro. La colonizzazione portò anche alla cacciata degli Aborigeni. Divenne colonia inglese anche la Nuova Zelanda. Pure qui la colonizzazione europea portò alla sconfitta e alla decimazione degli abitanti originari. Così i Maori, che popolavano la Nuova Zelanda, vennero sterminati in tre guerre, combattute tra 1843 e 1871. Vanno ricordate in Oceania anche colonie francesi e tedesche. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 33- PROBLEMI DELLO STATO ITALIANO DOPO L’UNITA’. All’indomani del settembre 1870 e della presa di Roma il nuovo Stato unitario italiano presentava vari e gravi problemi. Con la presa di Roma stessa si aggravò il problema dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Malgrado che nel 1871 il Regno d’Italia promulgasse una legge, la cosiddetta legge delle guarentigie (cioè delle garanzie), destinata a garantire, appunto, al pontefice il proprio ruolo spirituale e l’inviolabilità di Vaticano e Laterano, papa Pio IX, che si considerava prigioniero, mantenne un atteggiamento ostile nei confronti del nuovo Stato. Discese da tale atteggiamento un contrasto, in Italia, tra laici e cattolici. Questi ultimi si rifiutarono di partecipare alla vita politica italiana e non si recarono a votare nelle elezioni. Va anche accennato come, pure dopo il 1870, l’unificazione dei territori italiani non fosse neanche completata. Altro problema che si presentò con l’unità fu quello di avere codici (atti normativi disciplinanti, in modo tendenzialmente completo, importanti gruppi di argomenti) validi in tutto il territorio nazionale, in sostituzione della legislazione dei precedenti Stati italiani. Così tra 1865 e 1889 si ebbero in Italia nuovi codici: quello civile (regolante argomenti come la famiglia o la proprietà), quello penale (sui reati), quello di procedura civile (sui processi per questioni civili), quello di procedura penale (sui processi per accertare e punire i reati). Nel quadro dell’organizzazione legislativa del nuovo Stato va segnalata un’idea di fondo molto importante: quella della prevalenza, e del controllo, del governo anche sull’amministrazione delle comunità locali. In questo senso si ricorda il particolare rilievo attribuito nella vita locale al prefetto, rappresentante del governo. Dal punto di vista dell’economia si procedette con l’eliminazione delle barriere doganali interne al fine di ottenere la costituzione di un mercato italiano unico. Per ottenere questo mercato, e per favorire la crescita economica, si dovettero realizzare numerosi servizi, quali, ad esempio, le ferrovie, utili per poter collegare meglio ed in più breve tempo le più diverse località italiane. I costi furono notevoli. Di fronte a bilanci dello Stato caratterizzati dalla prevalenza delle spese sopra le entrate il Regno d’Italia aumentò la pressione fiscale. Nel 1868, in particolare, venne introdotta l’imposta sul macinato, un’imposta sulla macinazione del grano che colpì duramente i più poveri. Di fronte alla pressione del fisco si poterono registrare anche sollevazioni popolari. Va pure aggiunto, con riguardo alla politica economica, che la vendita dei terreni e dei beni già appartenuti alla Chiesa, in Italia meridionale, invece di portare ad un maggior equilibrio economico e ad una maggiore giustizia sociale, finì con l’aumentare la ricchezza e il potere dei grandi proprietari terrieri (detti latifondisti). Gli storici hanno messo in rilievo che le iniziative di politica economica degli anni della formazione dello Stato italiano non hanno evitato l’aggravarsi di condizioni di arretratezza al Sud, il sorgere e lo svilupparsi della cosiddetta questione meridionale. Già, dunque, in questo periodo si evidenzia anche una disparità di sviluppo tra Italia settentrionale ed Italia del Sud. Più in generale deve sottolinearsi il problema essenziale, che ha accompagnato la vicenda storica italiana pure nel secolo XX, della partecipazione politica democratica. Parlando dello Statuto albertino si è già considerato il problema della ristrettezza del suffragio e, quindi, del sostanziale scollamento tra Stato e cittadini. Le questioni collegate alla ristrettezza del suffragio dovevano naturalmente aumentare con la crescita e lo sviluppo dello Stato italiano. Le numerose difficoltà, la sempre crescente esigenza di un allargamento della base popolare del nuovo Stato finirono anche con il mettere in crisi il gruppo dirigente che pure aveva avuto il merito storico di costruire l’unità d’Italia e che, da ultimo, se pure con lo strumento di una forte imposizione fiscale, aveva portato in pareggio il bilancio statale. Dopo la stagione della Destra, nel 1876 formò il governo Agostino Depretis (1813-1887), che era alla guida della Sinistra parlamentare. In un tentativo di superamento delle ragioni di crisi dello Stato e della società la Sinistra ampliò, nel 1882, il suffragio elettorale. Si è calcolato che in tal modo il diritto di voto sia stato esteso al 7 per cento della popolazione. Va anche ricordata l’abolizione dell’imposta sul macinato. Precedentemente, nel 1877, si era dato avvio ad una riforma della scuola prevedente l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione elementare. Sostanzialmente, tuttavia, anche l’azione riformatrice della Sinistra risultò, infine, fortemente limitata, e non risolutiva dei problemi più importanti. Si devono, tra l’altro, mettere in evidenza le differenze esistenti tra i vari gruppi sociali e politici che facevano da base alla Sinistra. Si va, così, dai diversi gruppi della borghesia meridionale e settentrionale alle tendenze più radicali ricollegabili ai mazziniani. Dopo un primo periodo, fino circa al 1882, in cui l’azione riformatrice della nuova maggioranza fu più pronunciata, si tornò, successivamente, a modelli più conservatori. Si deve ricordare che, in questo fine secolo XIX, e con la Sinistra, si accentuò il fenomeno del cosiddetto Trasformismo. Il Trasformismo fu caratterizzato dall’allargamento della maggioranza, a seconda delle varie questioni, anche a gruppi politici originariamente estranei al governo. In questo modo, da un lato, il panorama parlamentare si rendeva sostanzialmente uniforme, con l’eccezione degli indirizzi radicali, a sinistra, e di quelli conservatori, a destra; da un altro lato, questa stessa uniformità si è potuta considerare manifestazione di una politica di concessioni e di favori da parte del governo per comprare il consenso dei vari gruppi, in maniera tale anche da privilegiare interessi personali sopra quelli della collettività. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 34- PROBLEMI E VICENDE DELLO STATO ITALIANO DA DEPRETIS A GIOLITTI. Si è già considerato il fenomeno del Trasformismo. Si è pure già visto il rischio di corruzione collegato a questo fenomeno. Va ora anche ricordato che gli storici hanno potuto vedere il Trasformismo come una manifestazione di un fondamentale accordo all’interno della classe dirigente dell’epoca, tra borghesia imprenditoriale e grandi proprietari terrieri. E’ da sottolineare che proprio a partire dagli anni della Sinistra si è sempre più potenziata l’industrializzazione in Italia. Un’industrializzazione, però, che ebbe bisogno di un notevole aiuto da parte dello Stato. E’ importante considerare che le forze economiche private in Italia non furono sufficienti, da sole, ad avviare il processo di crescita industriale. Si è appena parlato di un fondamentale accordo tra borghesia imprenditoriale, nel settentrione, e proprietari terrieri, nel meridione. Questo accordo venne favorito dalla politica protezionista dello Stato italiano. Il protezionismo doganale, infatti, aiutò sia gli interessi della nascente industria, sia quelli dei latifondisti, proprietari di campi coltivati a grano. Tali interessi vennero protetti contro la concorrenza dei produttori stranieri. Questa politica, che, tra l’altro, non favorì lo sviluppo di una razionale agricoltura, fece scoppiare una guerra commerciale con la Francia. Diminuirono così le esportazioni italiane di vino e agrumi. L’aumento del prezzo del pane, ricollegabile al protezionismo, la caduta delle esportazioni italiane verso il territorio francese aumentarono le difficoltà dei più poveri. In politica estera la rivalità con la Francia, anche legata alla volontà di espansione coloniale italiana in Africa, portò il Regno d’Italia ad un’alleanza con l’Austria e la Germania (chiamata Triplice Alleanza), formata nel 1882 e rinnovata nel 1887. Questo accordo, che, tra l’altro, tradiva le idee risorgimentali di unità ed indipendenza, mostrava ai gruppi italiani più conservatori e filomonarchici l’esempio della Germania con il suo cancellierato (forma di governo da noi già vista trattando l’unificazione tedesca). Ispirandosi a questo esempio tali gruppi poterono anche pensare di superare l’interpretazione in senso parlamentare data allo statuto albertino. In Italia, dove, con l’industrializzazione, si stava pure sviluppando il proletariato di fabbrica, la crisi economica si intrecciò con il disagio e la crisi sociale. Crebbe la diffusione delle idee socialiste; nel 1892 fu fondato, a Genova, il Partito socialista. In questa situazione di disagio economico-sociale, di fronte a manifestazioni popolari si arrivò anche ad una repressione armata. Così, nel 1898, a Milano, il generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) sparò sopra i manifestanti con l’artiglieria. Fu anche per vendicare la strage compiuta da Bava Beccaris che, nel luglio del 1900, l’anarchico Gaetano Bresci (1869-1901) uccise il re Umberto I, nato nel 1844, successore di Vittorio Emanuele II. Sembravano esplodere tutte le contraddizioni, economiche, politiche e sociali, del Regno d’Italia. Davanti a questo orizzonte Giovanni Giolitti (1842-1928), che fu figura dominante della vita politica italiana sino al 1914, cercò di restaurare lo Stato ampliandone le basi popolari. In una situazione economica migliorata (anche a causa dell’attenuazione della politica protezionista), Giolitti tentò di realizzare il suo disegno di ampliamento e di rafforzamento dello Stato anche cercando la collaborazione delle organizzazioni dei lavoratori, e, in primo luogo, del Partito socialista. Alcuni storici hanno osservato una certa continuità dei metodi giolittiani rispetto a quelli già sviluppati con Depretis. Effettivamente anche Giolitti cercò di sostenere lo Stato, e la permanenza al governo del gruppo dirigente, attraverso una politica di alleanze e collaborazioni pure con altri partiti. Questa politica si rivolse, dunque, ai socialisti. Già nel 1903 Giolitti, divenuto presidente del consiglio, chiese a questi ultimi di entrare nel suo governo. I socialisti, peraltro, rifiutarono. Va comunque rilevato come nello stesso Partito socialista si contrapponessero due tendenze: una riformista; l’altra interessata alla rivoluzione e contraria ad ogni accordo con qualsiasi governo borghese. Giolitti, cercando pure la collaborazione del Partito socialista, quale rappresentante della classe operaia, mostrò di fatto di operare in direzione di un movimento di superamento della spaccatura, già incontrata, tra Stato e società. Va ricordato che Giovanni Giolitti rispose in modo positivo alle esigenze e alle richieste di maggiore democrazia quali provenivano dal mondo del lavoro e che, anche, costituivano il programma minimo del partito socialista. Bisogna dire che, in questo modo, egli cercò di sviluppare la propria azione politica nel senso di una neutralità del governo rispetto ai contrasti sul salario tra imprenditori e lavoratori, e non più, dunque, nel senso dell’appoggio agli industriali contro le richieste dei lavoratori, come era accaduto fino ad allora. In generale, inoltre, Giolitti diede l’avvio a una serie di riforme sociali. Va soprattutto richiamata l’estensione del diritto di voto con il suffragio universale maschile, nel 1912. Anche per bilanciare le influenze socialiste Giolitti agì nel senso di un coinvolgimento elettorale dei cattolici. Questa politica giolittiana culminò, nel 1913, con un patto, il cosiddetto patto Gentiloni, che prese nome dal presidente dell’Unione elettorale cattolica Vincenzo Gentiloni (1865-1916), con il quale venne stretto. Con questo patto i cattolici si impegnarono ad aiutare i liberali ovunque questi avessero rischiato di essere sconfitti dalla Sinistra. Va inoltre ricordato come, sempre dentro il quadro di una ricerca di appoggi presso i vari gruppi politici, Giolitti anche cercò di venire incontro alla Destra e ai nazionalisti riprendendo la politica coloniale, con la guerra alla Turchia e la conquista della Libia. Complessivamente si può considerare che l’opera di Giolitti, anche nel tentativo di rafforzare la maggioranza parlamentare, condusse, comunque, ad una crescita politica e civile dello Stato italiano, dopo il periodo di forte crisi della fine del secolo XIX. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. 35- VICENDE ECONOMICO-SOCIALI ROMANTICISMO AL FUTURISMO. Prof. Frontini E TENDENZE CULTURALI: DAL Si è più volte sottolineato il collegamento tra Romanticismo e vicende politiche, soprattutto trattando del Risorgimento. Così si è potuto richiamare, a proposito del pensiero mazziniano, il forte elemento costituito dalla valorizzazione romantica del popolo come unità etnica e comunanza di idee, di origini, di destino. E’ da dire ancora come nel miglior Romanticismo italiano si siano potentemente fatte valere anche esigenze di attenzione alla verità (in contrapposizione alle favole mitologiche degli autori tradizionali classicisti, legati agli antichi modelli greci e romani) e, in modo collegato, esigenze di attenzione alle reali e concrete vicende degli umili. Evidente testimonianza di questo indirizzo è l’opera di Alessandro Manzoni, specialmente il suo romanzo storico, I promessi sposi. Questa concezione manzoniana del mondo si riflette nel pensiero dell’autore sulla lingua italiana: una lingua, dunque, che, espressione della comunità nazionale e dello sviluppo della sua storia, deve essere compresa e utilizzata da tutti gli Italiani. La considerazione delle vicende storiche e culturali europee a partire dalla seconda metà del XIX secolo oltre ad evidenziare un vasto panorama di correnti culturali in movimento e in trasformazione permette di mettere in rilievo, per confronto, le sostanziali difficoltà del nuovo Stato italiano. Così, gli sviluppi, collegati, delle scienze e dell’industria, l’influsso del Positivismo spingono, nella Francia del XIX secolo, uno scrittore, Emile Zola (1840-1902), a portare avanti, nei propri romanzi, un’indagine sulla realtà sociale secondo i principi delle scienze naturali, in una corrente letteraria significativamente definita Naturalismo. In tal modo lo studio e la narrazione dei fatti anche si collega allo studio dell’uomo quale essere fisico e materiale. La critica letteraria ha ben potuto osservare il carattere dell’attenzione ai fatti di questa concezione come sostanzialmente opposto all’attenzione per i fatti del Romanticismo, pronto a sottolineare l’importanza della spiritualità e del sentimento. Dopo il periodo romantico, se in Francia la narrativa naturalista ed il pensiero del Positivismo appaiono strettamente legati alle concrete vicende storiche dell’economia e dell’industrializzazione, in Italia, con i suoi problemi sociali e la sua arretratezza economica, il sorgere e lo sviluppo di un movimento letterario vicino al Naturalismo francese quale è stato il Verismo si trovò caratterizzato, rispetto al modello sorto in Francia, da una limitazione dei temi trattati e da una mancanza di eco nella vicenda politica nazionale. Ciò anche nelle opere del più grande dei veristi, Giovanni Verga (1840-1922). Si è già accennato alla situazione di crisi che, per molti aspetti, si stava sviluppando in Europa alla fine del secolo XIX accanto e sotto la ventata di ottimismo caratteristica dell’epoca. In particolare è stato fatto riferimento all’opera di Marx, con la sua analisi delle contraddizioni e delle gravi difficoltà di fondo del sistema capitalistico. Va ora aggiunto specifico richiamo alla crescente aggressività delle diverse Potenze. Un’aggressività che, causata da ragioni economiche e da ragioni di predominio politico, caratterizza bene l’epoca detta dell’Imperialismo. In questo contesto ebbero sviluppo anche idee antipositiviste e irrazionaliste, ossia indirizzate a svilire la ragione ed il suo ruolo nella storia umana e a valorizzare il predominio basato sulla forza. A questo punto, non può non richiamarsi la complessa figura del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). In una visione per la quale l’uomo deve tornare a seguire i propri istinti vitali e la propria volontà di potenza, in un universo retto dal caso e dall’irrazionalità, Nietzsche fa oggetto di critica la morale della rinuncia, definita morale da schiavi, che si esprime principalmente nel Cristianesimo. Prospettiva del pensiero nicciano è quella dell’uomo che, capovolti i principi di questa morale, si fa superuomo, individuo dominatore e creatore, al di là del bene e del male. Nel quadro dello sviluppo di queste tematiche antipositiviste e irrazionaliste, nella letteratura occidentale si diffonde la corrente del Decadentismo. Una corrente, dunque, che vede se stessa come estremo e raffinatissimo frutto di una civiltà giunta alla sua perfezione. Una corrente, ancora, che si basa su tutte le esperienze (psicologiche e dei sensi), al di fuori di ogni regola morale (al di là del bene e del male), e le rende superiori nella superiorità dell’espressione artistica. I diversi sensi tendono, nel Decadentismo, ad unirsi e la parola, nella sua sonorità, si avvicina alla musica. Devono almeno ricordarsi: in Francia, Arthur Rimbaud (1854-1891); in Inghilterra, Oscar Wilde (1854-1900). Sono, inoltre, considerati precursori della visione del mondo decadente: negli Stati Uniti, Edgar Allan Poe (1809-1849); in Francia, Charles Baudelaire (1821-1867). In Italia sono tra i principali autori del Decadentismo Giovanni Pascoli (1855-1912) e Gabriele D’Annunzio (1863-1938). In entrambi è prova della comune natura di poeti decadenti già l’attenzione per la parola e la sua sonorità (con valorizzazione dell’onomatopea). L’arretratezza della situazione economico-politica dell’Italia si è manifestata, secondo vari storici della cultura, nel Decadentismo italiano, e soprattutto in D’Annunzio, tra l’altro nell’elaborazione di modelli e motivi culturali (come quello del superuomo, di origine nicciana) in chiave sostanzialmente antidemocratica, accompagnata da un’espressione poetica perfetta, ma spesso non completamente sentita e sincera. Ancora di fronte all’arretratezza italiana, il movimento futurista, un altro movimento culturale, pose con forza la necessità di una completa innovazione, nell’arte come nella società. Il nome stesso del movimento, Futurismo, ne è chiara indicazione. Collegato all’innovazione è, nel pensiero futurista, un percorso di liberazione degli istinti e di moltiplicazione delle forze psichiche. Guidato dal poeta Filippo Tommaso Marinetti (1876-1942) e sviluppatosi nei campi della letteratura, dell’arte e della musica, il Futurismo tentò la via di un rinnovamento totale, anche scardinando la tradizionale sintassi e introducendo e valorizzando, ovunque, elementi come i macchinari, il movimento, la velocità, sentiti quali elementi essenziali della vita moderna, Non può non farsi cenno dei notevoli risultati di pittori come Umberto Boccioni (1882-1916) e Giacomo Balla (1871-1958). Peraltro, proprio il suo carattere fondamentale di liberazione di istinti doveva imparentare il Futurismo all’irrazionalismo ed inserirlo in un quadro di concezioni del mondo contrarie alla democrazia. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012 36- QUESTIONE BALCANICA. SITUAZIONE 1914-1918. SISTEMI DI ALLEANZE. PRECEDENTE LA GUERRA Si è già considerata la situazione di decadenza dell’Impero Ottomano. Da ultimo la si è potuta, tra l’altro, trovare con la conquista della Libia da parte dell’Italia. Nel secolo XIX acquistarono la propria indipendenza dal dominio turco, nell’Europa balcanica, Serbia e Bulgaria, anche grazie all’interessamento e alla protezione dell’Impero Russo. L’Impero Austriaco, nel 1908, si annetté la Bosnia Erzegovina, di cui già in precedenza, nella seconda metà del secolo XIX, aveva acquistato l’amministrazione. La Grecia, come visto, si era resa indipendente già dal 1830. Dopo il ricordato conflitto tra Italia e Turchia, con la prima guerra balcanica, tra il 1912 e il 1913, Bulgaria, Serbia, Montenegro e Grecia attaccarono e sconfissero la Turchia, privandola della più grande parte dei suoi domini europei. Si deve, peraltro, almeno accennare che, nello stesso 1913, per contrasti tra gli Stati vincitori sulla divisione dei territori conquistati, scoppiò la seconda guerra balcanica. Questa guerra, combattuta da Montenegro, Serbia, Grecia, Romania e Turchia contro la Bulgaria, vide la sconfitta dei Bulgari, ancora nell’anno 1913. La penisola balcanica divenne uno dei centri della crisi politica europea. In seguito alle guerre combattute nel 1912 e nel 1913 la Serbia aveva acquistato, in questa regione, un certo predominio. Alla crescita territoriale ottenuta si accompagnava anche un aumento della possibilità serba di porsi come punto di riferimento per tutte le popolazioni slave della zona balcanica, pure in una prospettiva di costruzione di un unico Stato nazionale. Occorre ricordare, a questo punto, che, come già visto, l’intera vicenda storica dei secoli XIX e XX è stata pure caratterizzata da lotte e aspirazioni per lo Stato nazionale, anche considerato come garanzia per l’indipendenza dei popoli. Lo stesso Risorgimento italiano si inserisce in questo tipo di lotte. Il disegno nazionalista serbo trovò un forte ostacolo nella politica dell’Austria. L’Austria, infatti, dopo la sconfitta con l’Italia, si era rivolta ad un’espansione in direzione, appunto, della zona balcanica (e in questo discorso si inserisce bene la ricordata annessione della Bosnia Erzegovina). In questo modo viene a svilupparsi una rivalità tra Serbia, alleata della Russia (tradizionale protettrice dei popoli slavi), ed Austria. Inoltre l’Austria, per il carattere multinazionale del suo impero, doveva temere le spinte nazionalistiche a favore dell’unità degli slavi, spinte provenienti dalla Serbia. Si è visto come l’Impero Austro-Ungarico fosse legato, attraverso la Triplice Alleanza, con la Germania e con l’Italia. La rivalità tra Austria e Russia nella zona balcanica contribuì ad allontanare tra di loro Impero Russo e Germania, alleata dell’Austria. Inoltre la forza economica della Germania, la sua linea di aumento degli armamenti anche indirizzata a raggiungere e superare la forza della flotta inglese, la sua crescente influenza economica e politica sulla Turchia e, in generale, sul Medio Oriente spinsero la Francia, tradizionale avversaria della Germania dopo la sconfitta del 1870, la Gran Bretagna e la Russia ad una intesa tra loro (Triplice Intesa). Il Regno d’Italia, pur continuando a far parte della Triplice Alleanza, si avvicinò anche alla Francia. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 37- PRIMA GUERRA MONDIALE. Lo scoppio della prima guerra mondiale avvenne nel 1914. La causa scatenante il conflitto fu l’uccisione, a Sarajevo, nella Bosnia, il 28 giugno 1914, dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, nato nel 1863, in seguito ad un complotto sorto nell’ambiente del nazionalismo serbo. Il governo dell’Austria addossò alla Serbia la responsabilità di quanto accaduto e, dopo un ultimatum che, se compiutamente accettato, avrebbe imposto alla sovranità serba dure limitazioni, le dichiarò guerra, il 28 luglio 1914. Si schierarono a favore della Serbia la Russia, la Francia e la Gran Bretagna; a favore dell’Impero Austro-Ungarico la Germania. Il 23 agosto 1914 il Giappone, interessato alle posizioni tedesche in Asia, dichiarò guerra alla Germania. La Turchia, invece, nello stesso 1914, entrò nel conflitto dalla parte dell’Austria e della Germania. L’Italia si mantenne, per il periodo iniziale, neutrale. Va rilevato che tanto l’Austria quanto la Germania avevano lasciato fuori lo Stato italiano dalle loro iniziative, non informandolo neanche. Il conflitto divenne rapidamente mondiale. La Germania, invaso il Belgio, nonostante la sua neutralità, attaccò la Francia. L’esercito tedesco venne tuttavia fermato in una sanguinosa battaglia sul fiume Marna. Sul fronte francese la situazione rimase statica fino ad una nuova violenta e sanguinosa offensiva condotta dai tedeschi a Verdun, tra febbraio e giugno 1916. In questa offensiva, considerando le perdite francesi e tedesche, si ebbero più di mezzo milione di morti. Peraltro nessuno dei contendenti riuscì ad avere concreti vantaggi, né nella richiamata offensiva di Verdun, né nella successiva controffensiva anglo-francese sul fiume Somme (che costò circa un milione di morti). La guerra causò morti e distruzioni anche sul fronte orientale. Va ricordato che l’entrata nel conflitto della Bulgaria a fianco di Austria e Germania portò al crollo della Serbia, ancora nel 1915. Il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra, schierandosi con Inghilterra, Francia e Russia. In Italia i gruppi interventisti che desideravano la guerra contro l’Austria e la Germania andavano dai nazionalisti ai democratici. Tra l’altro veniva anche sottolineata l’esigenza di una completa unificazione del territorio nazionale italiano. Si può inoltre ricordare che, comunque, con il Trattato di Londra, dell’aprile 1915, il governo italiano, senza informare né il Parlamento né la popolazione, aveva preso l’impegno dell’entrata in guerra a fianco, appunto, di Francia, Inghilterra e Russia. Complessivamente con il 1916 apparve chiaramente il carattere fondamentale di una guerra non risolvibile con una o poche grandi battaglie, ma sostanzialmente statica. Le stesse grandi offensive e controffensive che si succedettero, anche sul fronte italiano, non furono comunque tali, di per sé, da mutare, in modo risolutivo, la situazione militare. Dette offensive e controffensive, dunque, come accennato, provocarono grandi stragi, con migliaia e migliaia di morti, senza che riuscissero a risolvere il conflitto. Questa situazione, in contrasto con la rapida fine della guerra che ci si aspettava nel 1914, prima dell’inizio delle ostilità, ebbe varie conseguenze negative all’interno degli Stati coinvolti. Negli eserciti si ebbero diserzioni, duramente represse. Dal punto di vista socio-politico crebbe un’atmosfera di malcontento. A questo proposito va ricordato subito che nell’Impero Russo, economicamente arretrato e politicamente rigidamente dominato dall’assolutismo dello zar, il malcontento e le sofferenze popolari sfociarono, nel 1917, in una rivoluzione. In conseguenza di questa rivoluzione la Russia concluse la pace con Austria e Germania (con il trattato di Brest Litovsk del 3 marzo 1918). Nello stesso 1917, nel mese di aprile, si verificò, però, a favore di Francia, Inghilterra e Italia, l’intervento nella guerra mondiale degli Stati Uniti. Questo intervento fu di grande importanza ai fini della vittoria contro Austria e Germania. La decisione americana di entrare nel conflitto fu favorita dall’offensiva della guerra sottomarina tedesca contro le navi, anche neutrali, che portavano rifornimenti all’Inghilterra e agli alleati. Bisogna infatti sottolineare come gli Stati Uniti, anche prima dell’aprile 1917, abbiano sostenuto, appunto con rifornimenti, lo sforzo inglese. Gli storici, a questo proposito, hanno pure ricordato la vicinanza etnica, culturale, politica tra USA e Gran Bretagna. Hanno inoltre ricordato la convenienza economica per gli Stati Uniti e per le loro industrie delle numerose richieste di prodotti che venivano dai paesi impegnati contro Austria e Germania. Prima che si sviluppasse efficacemente l’intervento americano e favoriti dalla crisi russa, che permise di spostare truppe già impegnate sul fronte orientale, l’Impero Austro-Ungarico e la Germania lanciarono offensive sul fronte francese e su quello italiano. Con la battaglia di Caporetto le truppe italiane vennero sconfitte e spinte alla ritirata. Peraltro l’esercito italiano riuscì a riorganizzarsi e a resistere sulla linea del Piave (dicembre 1917), sulla riva destra del fiume. Questa resistenza rappresentò per l’Italia un momento di unione e di volontà comune di riscossa. In generale l’intervento americano portò, con la fine del 1918, alla sconfitta di Austria e Germania e dei loro alleati anche in conseguenza della stanchezza delle loro popolazioni. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 38- TRATTATI DI PACE E SITUAZIONE SUCCESSIVA ALLA GUERRA MONDIALE. Si sono considerate le vicende sociali, politiche e militari che condussero Austria e Germania alla sconfitta. Infatti, in Germania, come prima in Russia, la durezza della situazione economica e sociale portò a moti rivoluzionari. Questi moti vennero incoraggiati dai Russi. Il sovrano tedesco, Guglielmo II (1859-1941), abdicò e venne proclamata la repubblica, il 9 novembre 1918. La Germania firmò l’armistizio il giorno 11 novembre 1918. Nei territori che avevano fatto parte dell’Impero Austro Ungarico la situazione era anche segnata dalla conquista dell’indipendenza da parte delle varie nazionalità. L’Impero Austro Ungarico firmò l’armistizio già il 3 novembre 1918. Il 12 ed il 16 novembre 1918 si proclamarono Repubbliche indipendenti prima l’Austria, poi l’Ungheria. Il comportamento delle potenze vincitrici fu caratterizzato, tra l’altro, dal principio dell’autodeterminazione dei popoli. Un principio, questo, che era fra quelli già affermati dal presidente americano Thomas Wilson (1856-1924), nel gennaio del 1918. In questo medesimo spirito di rinnovamento democratico venne anche creato un nuovo organismo internazionale: la Società delle Nazioni, con sede a Ginevra. Importante compito di tale nuovo organismo era quello di risolvere le questioni tra gli Stati in modo pacifico, senza nuove guerre. Al detto principio di autodeterminazione si accompagnò una certa volontà punitiva nei confronti degli Stati sconfitti e, inoltre, una linea politica dettata dalla paura per la rivoluzione russa e la sua espansione internazionale. Con il trattato di pace di Versailles, del gennaio 1919, la Germania perdette vari territori. Alsazia e Lorena, acquistati all’epoca di Bismarck, tornarono alla Francia. Sottraendo territori alla Germania, al vecchio Impero Austro-Ungarico e alla Russia venne formata la Polonia. In particolare per consentire a questo Stato uno sbocco sul Mar Baltico gli venne riconosciuto il cosiddetto corridoio di Danzica, una porzione di territorio tolta alla Germania. Danzica non entrò a far parte dello Stato polacco ma ebbe carattere di città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni. Con questo corridoio territoriale si venne a creare una separazione tra la Prussia orientale e il resto dello Stato tedesco. Giappone, Gran Bretagna, Francia e Belgio si divisero le colonie della Germania. Vennero inoltre imposti allo Stato tedesco il pagamento di forti spese di guerra e la riduzione degli armamenti e delle forze armate. Tra il 1919 e il 1920 venne regolata la pace con l’Austria e con l’Ungheria, rispettivamente con i trattati di Saint-Germain e del Trianon. In seguito alla sconfitta e alla dissoluzione dell’Impero Austro Ungarico si formarono la Cecoslovacchia, attraverso l’unione di Boemia e Moravia con la Slovacchia, e la Iugoslavia. La creazione del regno Iugoslavo, che venne incontro alle esigenze degli slavi, fu alla base di questioni con il Regno d’Italia. All’Italia, infatti, vennero dati il Trentino e l’Alto Adige, sino al Brennero, Trieste, l’Istria. Tuttavia, in considerazione del principio di favore per l’autodeterminazione dei popoli, vennero negate la Dalmazia e la città di Fiume. Si deve mettere subito in rilievo come, di fronte a questo rifiuto, nella situazione politica italiana si sviluppasse un forte malcontento e si cominciasse a parlare di vittoria mutilata. Si accenna fin da ora che in tale atmosfera Gabriele D’Annunzio, a capo di un gruppo di ex combattenti, occupò Fiume, nel settembre 1919. La pace con la Bulgaria fu regolata con il trattato di Neuilly. Anche la Bulgaria cedette territori alla Iugoslavia, oltre che alla Grecia e alla Romania (che erano tra gli Stati vincitori della guerra mondiale). Il trattato di Sevres, nel 1920, regolò la pace con la Turchia. Lo Stato turco perse i propri domini territoriali esterni all’Anatolia. Così, attraverso il sistema del mandato (incarico dato ad una grande potenza di amministrare un territorio coloniale, formalmente fino al maturarsi delle condizioni necessarie per l’indipendenza di quest’ultimo) Francia e Inghilterra si spartirono i possedimenti asiatici dell’Impero turco. Alla prima andarono Siria e Libano; all’Inghilterra Palestina, Transgiordania, Irak. Peraltro, nella stessa Anatolia, i Greci occuparono la città di Smirne, sulla costa del Mare Egeo. Di fronte a questa situazione il generale Mustafà Kemal (1881-1938), detto Ataturk (ossia padre dei Turchi), si mise alla testa di una ribellione contro le ingerenze straniere e contro il sultano turco. Sconfitti gli eserciti di occupazione e proclamata, nel 1923, la Repubblica, Kemal avviò la costruzione di uno Stato nazionale, l’odierna Turchia, situato essenzialmente in Anatolia, laico e moderno, caratterizzato, però, anche da un forte autoritarismo e dalla repressione delle minoranze etniche (come i Curdi). Va anche ricordato come in seguito alla crisi dell’Impero Russo raggiunsero l’indipendenza Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania. La situazione internazionale emersa dopo la fine della prima guerra mondiale era una situazione piena di squilibri e di motivi di crisi, che portò fino alla comparsa di dittature e, poi, allo scoppio della seconda guerra mondiale. La stessa Società delle Nazioni, che era stata allora istituita per regolare i rapporti tra gli Stati, non avendo la partecipazione né della Germania, né della Russia rivoluzionaria, né degli Stati Uniti, non ebbe profonda efficacia. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012. 39- SITUAZIONE ECONOMICA CAPITALISTICA E SVILUPPI DELLE ORGANIZZAZIONI SOCIALISTE DA MARX ALLA RIVOLUZIONE IN RUSSIA. Si sono già considerate le caratteristiche essenziali dello sviluppo economico capitalistico tra XIX e XX secolo. Si è anche più volte ricordato lo stretto legame esistente, fin dagli inizi della rivoluzione industriale, tra lo sviluppo economico e la crescita del proletariato di fabbrica. Abbiamo inoltre incontrato la figura di Karl Marx e abbiamo considerato la sua opera di studioso dell’economia e di rivoluzionario. Si è visto come, in generale, Marx rimproverasse al sistema capitalista la contraddizione fondamentale di un accrescimento, anche attraverso la scienza, della produzione e della produttività del lavoro, che, invece di andare a vantaggio di tutta la società, era indirizzata al solo profitto degli imprenditori. Tra gli effetti di questa contraddizione Marx ha anche richiamato le crisi di sovrapproduzione (da noi già incontrate). In un sistema di produzione basato sullo sfruttamento del lavoratore (massimo lavoro e minimo salario) si crea il rischio che complessivamente non ci sia domanda dei prodotti fabbricati (anche se utili). In generale le crisi di sovrapproduzione rappresentano una dimostrazione della mancanza di un giusto collegamento tra i bisogni della collettività, ossia di tutti i consumatori, e sistema della produzione, basato, come visto, sull’esigenza di ogni imprenditore di ottenere per sé il massimo profitto. Dal punto di vista politico, scopo della rivoluzione marxista è la presa del potere da parte del proletariato, per avviare una società libera dalle catene dello sfruttamento. Si può anche annotare che, nella dottrina marxista, pure dopo la rivoluzione, avrebbe avuto sviluppo dapprima una fase preparatoria, chiamata pure socialista, basata sul principio “da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo il suo lavoro”. Questa fase sarebbe stata seguita dalla fase completamente comunista, organizzata secondo il principio “da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Si è vista la crescente diffusione internazionale dell’organizzazione industriale capitalistica. Naturalmente parallela a questa diffusione è stata la diffusione di un proletariato industriale in vari Paesi, in un quadro sempre più internazionale. In tale prospettiva già nel 1848, nel Manifesto, Marx ed Engels potevano invitare il proletariato di tutti i Paesi ad unirsi per insorgere contro l’oppressione esercitata dal sistema capitalista. Karl Marx esercitò la propria influenza teorica e politica anche nel quadro della Associazione internazionale dei lavoratori, detta pure Prima Internazionale, un’associazione nella quale si riunirono sindacati e gruppi libertari di varia nazionalità, che ebbe vita dal 1864 al 1876. I fenomeni, già considerati, dell’estendersi dell’industrializzazione nei paesi europei, e, quindi, dell’accrescimento del proletariato, costituirono il contesto nel quale si svilupparono nuove esperienze politiche rivoluzionarie. E’ da ricordare, così, nel 1871, dopo la sconfitta di Napoleone III da parte dell’esercito prussiano, il governo rivoluzionario di Parigi (noto come la Comune di Parigi), formato contro il governo provvisorio conservatore, guidato dall’uomo politico Adolphe Thiers (1797-1877), che reggeva la Francia dopo la caduta di Napoleone. La Comune di Parigi era ispirata a principi socialisti e di democrazia diretta. Venne abbattuta da Thiers, in accordo con la Germania, con una repressione che provocò circa ventimila morti. Industrializzazione e sviluppo del proletariato favorirono anche, sempre in maggior misura, la nascita e la crescita di partiti socialisti ispirati al pensiero marxista. Si può ricordare che, studiando Giolitti, abbiamo già incontrato il partito italiano. In questo orizzonte generale, nel 1889, nacque la Seconda Internazionale, struttura di collegamento tra i diversi partiti socialisti. Va peraltro detto che questi partiti persero progressivamente la propria carica rivoluzionaria, a favore di una linea politica più riformista, indirizzata ad accomodamenti con i governi per miglioramenti graduali della classe operaia. In certi casi gli stessi principi marxisti vennero apertamente criticati. Davanti alle vicende economiche e ai contrasti economici e politici tra Stati che portarono al primo conflitto mondiale e poi ai massacri e alle sofferenze di questa guerra si registrò un più forte orientamento rivoluzionario. Di fronte all’atteggiamento di molti partiti socialisti non contrario alla guerra, in Russia il Partito Operaio Socialdemocratico Russo Bolscevico (partito di ispirazione marxista, che, dal 1918, prese il nome di Partito Comunista Bolscevico), guidato da Vladimir Ilic Uljanov detto Nikolaj Lenin (1870-1924), denunciò il conflitto mondiale come massacro imperialista. Sviluppando concezioni di Marx, Lenin vide la prima guerra mondiale come fase sanguinosa dello scontro tra gli interessi della borghesia dei vari paesi coinvolti, sviluppo dell’imperialismo, ossia, appunto, di quella sempre più accesa rivalità economica e politica tra Stati che si era espressa anche nella crescente spartizione del mondo. Va ricordato ancora il carattere estremamente arretrato della Russia zarista di questo periodo. Già nel 1905 si erano avute manifestazioni di protesta, represse nel sangue, e vari moti rivoluzionari, che, tuttavia, non riuscirono ad intaccare sostanzialmente il potere dello zar. La situazione di malcontento venne notevolmente aggravata dai massacri della prima guerra mondiale. Ci fu, dunque, nel 1917, un’altra rivoluzione, che costrinse lo zar, Nicola II Romanov (1868-1918), ad abdicare. La situazione immediatamente seguente fu caratterizzata da un lato dalla presenza di un governo provvisorio, ispirato alle esigenze liberali, e, da un altro lato, dalla presenza del soviet (ossia, in russo, consiglio), organo nel quale erano rappresentati operai e soldati. Vi erano vari soviet, differenziati territorialmente: locali, di distretto, di provincia, panrusso. Di fronte alla volontà del governo provvisorio di continuare la guerra e di rinviare la riforma agraria (per distribuire più equamente la terra) la situazione politica si spostò a favore dei bolscevichi (sempre più influenti all’interno dei soviet) che, infine, nel novembre 1917 (ottobre, secondo il calendario allora in uso in Russia), presero il potere (cosiddetta Rivoluzione d’ottobre). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 40- RIVOLUZIONE BOLSCEVICA E COSTRUZIONE DELLO STATO SOVIETICO. La situazione russa rappresentò una sfida per le concezioni marxiste di Lenin e degli altri bolscevichi. Infatti la Russia, come visto, era arretrata e non aveva, e non potava allora avere, una forte classe operaia, base della rivoluzione secondo Marx. In questo senso si avvertì la necessità di un’alleanza tra operai e contadini. Si avviò la distribuzione delle terre ai contadini. Si giunse inoltre, anche al prezzo di molte perdite territoriali, alla pace con la Germania, nel 1918. La originaria scarsa industrializzazione (e, conseguentemente, la mancanza di una numerosa classe operaia) fu uno dei fattori di fondo che ostacolarono la realizzazione democratica del progetto marxista in Russia. Di fronte alla necessità di concentrarsi e di utilizzare ogni sforzo per la realizzazione di una moderna struttura produttiva (in un percorso che, pure, avrebbe potuto favorire uno sviluppo democratico), la situazione fu, per lungo tempo, terribile. Scoppiò anche, infatti, una guerra civile, nella quale varie armate controrivoluzionarie vennero incoraggiate ed aiutate dai paesi occidentali, timorosi del contagio rivoluzionario. I bolscevichi resistettero. Lev Davidovic Bronstein detto Trotskij (1879-1940), un dirigente bolscevico, organizzò l’Armata Rossa. Tra i fatti e le tappe di questo periodo terribile, come esempio di intervento militare straniero contro lo Stato sovietico, va ricordato l’attacco alla Russia rivoluzionaria da parte della Polonia, guidata dal generale Jozef Pilsudski (1867-1935). Così, nel 1920, truppe polacche invasero l’Ucraina; ricacciate da una controffensiva dell’Armata Rossa, che giunse sino a Varsavia, vennero aiutate dalla Francia e, in questo modo, con la pace di Riga, del 1921, la Polonia poté acquistare parti del territorio ucraino. Nel periodo della guerra civile, anche tenuto conto dell’arretratezza della Russia, i comunisti russi considerarono la loro rivoluzione come l’inizio, l’innesco della rivoluzione mondiale. Era anche diffusa la convinzione che solamente l’aiuto delle rivoluzioni proletarie occidentali avrebbe permesso alla Russia sovietica di sopravvivere. La fine di quella guerra civile che aveva prodotto lutti e distruzioni, il fallimento della rivoluzione mondiale incoraggiata e sperata dai bolscevichi spinsero Lenin e il potere sovietico da un lato ad una politica (la Nep, nuova politica economica) di maggiori concessioni per le iniziative economiche dei privati, da un altro lato ad un restringimento delle libertà politiche. Il nuovo Stato, uscito dalla rivoluzione e dalla guerra civile, era uno Stato federale: l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss), proclamato nel 1922. Con il termine sovietico si richiamava quella che doveva essere la cellula base dello Stato, il soviet. Ciò in conformità alla vecchia formula di Lenin: “Tutto il potere ai soviet”. Questo nuovo Stato, a partito unico, ebbe una forte accentuazione autoritaria con il successore di Lenin (che era morto nel 1924), Josif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin (1879-1953), che rimase al potere fino alla morte. Stalin, vista anche la situazione internazionale, portò avanti la concezione politica della costruzione del socialismo in un solo paese. Per rafforzare economicamente la Russia, Stalin avviò un processo di accelerazione dell’industrializzazione. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof Frontini 41- SITUAZIONE IN ITALIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE. SVILUPPO DEL FASCISMO. Trattando la situazione immediatamente successiva alla prima guerra mondiale si è già avuto modo di considerare il malcontento italiano. Infatti si è visto che di fronte a questioni come quelle della Dalmazia e di Fiume si è cominciato a parlare di vittoria mutilata. Va ricordato che l’Italia inoltre rimase delusa non avendo potuto prendere parte alla divisione delle colonie della Germania. Oltre a questi motivi di malcontento, cresceva anche una forte crisi sociale, dovuta, tra l’altro, alle difficoltà di riconvertire, dopo il periodo bellico, l’apparato industriale alla produzione del tempo di pace. In questo orizzonte di crisi sociale si inseriscono bene gli scioperi e le agitazioni dei lavoratori nonché le occupazioni, da parte di questi ultimi, delle fabbriche. Gli avvenimenti rivoluzionari in Russia ebbero una certa influenza sulla situazione sociale e politica italiana. In effetti tra i lavoratori italiani si diffuse la tendenza a fare “come in Russia”. Possono così ricordarsi le forti critiche rivolte al riformismo e all’incapacità rivoluzionaria del Partito socialista e, quindi, nel 1921, la cosiddetta scissione di Livorno, quando un gruppo, appunto staccatosi da questo partito, fondò il Partito comunista d’Italia. Si può inoltre ricordare come Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori del nuovo partito, già negli anni precedenti avesse individuato nel sistema del Consiglio di fabbrica, organizzazione sindacale all’interno del luogo di lavoro, l’equivalente di quello che erano i soviet nella Russia rivoluzionaria. Va sottolineato che, per una serie di motivi, l’ondata di agitazioni operaie successive alla fine della guerra mondiale si spense senza poter raggiungere gli sbocchi rivoluzionari che molti avevano sperato o temuto. Nel frattempo le forze più conservatrici della società italiana favorirono ed utilizzarono lo sviluppo del movimento fascista. Questo movimento, nato nel 1919, ad opera di Benito Mussolini (1883-1945), il quale era già stato un dirigente socialista, finì con l’orientarsi sostanzialmente e globalmente in una direzione di difesa degli interessi degli industriali e proprietari di terra. Tutto ciò nonostante che certi contenuti nei primi tempi del movimento non fossero incompatibili pure con un’ideologia libertaria. Nell’orizzonte della difesa dei gruppi più ricchi va anche segnalata la crescente violenza delle squadre fasciste, che organizzarono spedizioni punitive contro uomini politici e contro sedi di partiti e di associazioni di sinistra o anche di ambiente cattolico. Dal punto di vista della linea culturale, dietro il movimento fascista si trovavano le spinte di un nazionalismo indirizzato in senso antidemocratico, certe esaltazioni dell’azione militare, dell’uomo superiore ed eroico ed anche della violenza presa in se stessa che per molti aspetti riecheggiavano, e spesso impoverivano, temi agitati da D’Annunzio e dal Futurismo. Si deve inoltre rammentare dietro il fascismo (il suo sviluppo come la sua presa del potere) la profonda crisi dello Stato italiano. Una crisi, questa, che si può presentare come insufficiente partecipazione democratica popolare alla vita dello Stato. Abbiamo già individuato questa insufficiente partecipazione, questa carenza democratica di base come uno dei problemi fondamentali del Regno d’Italia, fin dalla sua nascita. Neanche Giolitti, tanto nel periodo precedente alla prima guerra mondiale come nel periodo successivo ad essa in cui fu ancora a capo del governo, fu in grado di risolvere il problema. Proprio nel momento in cui, anche per conseguenza dell’influenza della guerra mondiale sulla vita sociale italiana, la partecipazione tendeva a crescere e si sviluppavano sempre di più partiti popolari di massa (il Partito socialista; il Partito comunista; il Partito popolare, di ispirazione cattolica, fondato, nel 1919, da don Luigi Sturzo,1871-1959), il vecchio gruppo dirigente liberale, nel suo insieme, si rivelò non all’altezza della situazione. Tale gruppo dirigente, tra l’altro, non capì la reale natura del fascismo e ritenne di poterlo utilizzare come contrapposizione ai socialisti e ai comunisti. Quando Mussolini, nell’ottobre del 1922, organizzò una marcia militare fascista su Roma, il re Vittorio Emanuele III (1869-1947), invece di far intervenire l’esercito, come richiedeva il presidente del consiglio Luigi Facta (1861-1930), affidò al fondatore del fascismo l’incarico di un nuovo governo. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 42- SITUAZIONE ECONOMICA AMERICANA. Osservando la situazione economica e politica internazionale successiva al primo conflitto mondiale, molti storici hanno potuto sottolineare il rilievo notevole acquistato dagli Stati Uniti. In particolare, si è anche osservato che dopo la guerra 1914-1918 gli Stati Uniti si sostituirono sostanzialmente all’Europa come potenza economica dominante. Effettivamente, dopo un periodo di crisi (da alcuni ricollegato ai problemi della conversione dell’industria alla produzione di tempo di pace), l’economia statunitense ebbe un forte sviluppo. Va pure ricordato come gli storici abbiano rilevato, trattando del superamento di questo primo periodo di crisi, l’attuarsi di una politica contraria alle associazioni sindacali, in un’atmosfera di forte ostilità nei confronti delle idee rivoluzionarie comuniste. Tra i motivi della crescita americana va anche ricordata la situazione europea al termine del primo conflitto mondiale. Una situazione, questa, caratterizzata da una ricostruzione economica in corso, non completata. La fase di riorganizzazione della produzione portava alla conseguenza dell’aumento della domanda europea di prodotti americani. Peraltro, una volta completata la riorganizzazione produttiva dell’Europa, gli Stati Uniti non soltanto non ebbero più un mercato di sbocco per i propri prodotti ma trovarono, inoltre, una nuova fonte di concorrenza nella produzione e nelle imprese europee. Storici ed economisti hanno potuto aggiungere la considerazione della cattiva distribuzione dei redditi, contrassegnata dalla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Si sono anche registrati i guasti legati ad un eccessivo ricorso alla Borsa (dove vengono scambiate le azioni delle società). Un ricorso che, nella diffusa illusione di un guadagno facile e veloce, spinse gli americani pure ad indebitarsi per cercare di guadagnare, appunto, con operazioni di compravendita sul mercato borsistico. Di fronte alla crescente valutazione delle azioni, esagerata rispetto alla reale situazione dell’economia, il crollo dei prezzi nella Borsa di Wall Street, a New York, nell’ottobre del 1929, segnò in maniera evidente una crisi economica americana che doveva durare a lungo e avere conseguenze molto negative anche in altri Stati. La crisi statunitense, inoltre, spinse ad un ripensamento, e ad un accantonamento, del pensiero economico liberista. Già abbiamo visto che per i liberisti lo Stato non può e non deve avere alcun ruolo nella vita economica. Per questi pensatori, infatti, basta il libero mercato a risolvere i problemi dell’economia. In questo tipo di interpretazione un grande intervento statale non soltanto è inutile ma anche dannoso. Abbiamo pure già considerato come per Marx il sistema economico capitalista sia ingiusto (e destinato ad essere superato) e la proprietà privata dei mezzi di produzione sia fonte di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In un’applicazione del pensiero marxista si ricorda e si annota ancora come l’Unione Sovietica, nata dalla rivoluzione bolscevica del 1917, abbia avuto le caratteristiche di uno Stato ad economia socialista, senza proprietà privata dei mezzi di produzione. L’intervento statale nell’economia, contrario ai principi dei liberisti, fu strumento adoperato dal presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), eletto nel 1932, per risolvere la crisi statunitense. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 43- RISPOSTA ALLA CRISI ECONOMICA: KEYNES E IL NEW DEAL DI ROOSEVELT. Si sono già tracciate le caratteristiche fondamentali della crisi scoppiata negli Stati Uniti con il 1929. Si deve sottolineare che questa crisi ha anche rappresentato la spinta per una svolta importante sia per quel che riguarda il pensiero degli economisti sia per quel che riguarda l’atteggiamento dello Stato nei confronti della vita economica. Si può dire subito come, di fronte alle grandi difficoltà che stavano colpendo l’economia, nella teoria economica si svilupparono riflessioni e risposte diverse da quelle che erano state considerate generalmente migliori e seguite fino a quel momento nel mondo occidentale. Così, dunque, di fronte alle difficoltà, aumentarono i dubbi sulla validità delle teorie liberiste (già da noi più volte incontrate) della capacità della vita economica di autoregolarsi (ossia di regolarsi da sola) nel modo più conveniente, senza bisogno dell’intervento dello Stato. In questo discorso critico, l’economista John Maynard Keynes (1883-1946) poté mettere in rilievo (confermando, da un certo punto di vista, le tesi di Marx) la sostanziale incapacità del mondo economico di autoregolamentarsi, senza intervento statale, in modo efficiente e con la piena occupazione di tutti i lavoratori. Dunque, davanti a tale situazione, Keynes poté valorizzare il ruolo dello Stato e l’importanza della spesa pubblica. Va comunque sottolineato come questo economista (contrariamente a Marx) non volesse la fine del sistema capitalista, ma solo la sua riforma. Si è iniziato a parlare dell’opera del presidente statunitense Roosevelt. Roosevelt, dunque, consigliato da economisti, avviò una nuova linea politica, detta New Deal (che può anche tradursi nuovo corso). Di fronte alle insufficienze della domanda e alla limitata possibilità economica che le masse popolari avevano di acquistare prodotti si organizzò l’intervento dello Stato. Si sviluppò in questo modo una politica di spesa pubblica. Lo Stato stesso, quindi, prese parte alla vita economica. Venne avviato un programma di costruzione di varie opere, come reti stradali. Con questo programma, tra l’altro, vennero assunti vari lavoratori, che altrimenti sarebbero rimasti disoccupati e senza stipendio. Va anche detto che la possibilità per questi lavoratori di avere, grazie all’intervento pubblico, un’occupazione e, quindi, uno stipendio poté spingerli ad un aumento dei consumi. In questo modo, come prevedevano gli economisti, la spesa pubblica poté pure avere un effetto di incentivazione e di moltiplicazione dei consumi e della produzione. Con il New Deal si avviò inoltre una politica indirizzata alla crescita degli stipendi e alla diminuzione dell’orario di lavoro. Anche si appoggiarono e si favorirono le organizzazioni sindacali. In questo modo vennero ad unirsi le esigenze di una ripresa dell’economia e le esigenze di una maggiore giustizia sociale. Così, con il New Deal, si mise in movimento un progetto di maggiore democratizzazione del mondo del lavoro e di tutta la società. Inserita in questa generale azione riformatrice può anche ricordarsi la formazione di un ente pubblico, denominato Tennessee Valley Authority, destinato a dirigere e organizzare gli sforzi per il superamento della depressione del Tennessee. Il New Deal portò molto avanti la riorganizzazione economica americana, ponendola e sviluppandola su una base democratica. Roosevelt, animatore della riforma, venne rieletto presidente nel 1936, nel 1940, nel 1944 (morì nel 1945). Tra gli storici si è osservato come con l’avvicinarsi della seconda guerra mondiale anche la politica del riarmo abbia potuto portare il proprio contributo alla ripresa economica americana. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 44- SVILUPPI DEL REGIME FASCISTA. In Italia, dopo l’ottobre 1922, Benito Mussolini, divenuto presidente del consiglio, avviò una politica di rafforzamento del fascismo e di preparazione di un regime autoritario. In seguito a elezioni svoltesi nel 1924 sulla base di una nuova legge elettorale voluta da Mussolini (cosiddetta legge Acerbo, con la previsione dei due terzi dei seggi, alla Camera, per la lista che avesse ricevuto più suffragi) si affermò un raggruppamento composto da fascisti e moderati. Tali elezioni furono caratterizzate dalle violenze dello squadrismo fascista e dai brogli. Questo successo segnò, peraltro, un momento di crisi nel fascismo avviato a diventare dittatura. Infatti il deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924), in un discorso in Parlamento, denunciò le violenze e la conseguente illegalità delle elezioni. Matteotti stesso fu, quindi, rapito e assassinato da una squadra fascista. Di fronte a questo fatto, e all’emozione e allo sdegno che ne erano seguiti in Italia, la linea politica prevalente nell’opposizione fu quella di abbandonare il Parlamento, con un esplicito richiamo all’Aventino (dove, nella antica storia romana, si erano radunati i plebei, lasciando soli i patrizi), allo scopo di dimostrare l’isolamento morale di Mussolini. Questa linea politica non ebbe successo pratico, anche in considerazione del fatto che il re Vittorio Emanuele III non fece nulla contro il capo del fascismo. Dopo un primo momento di incertezza, Mussolini, convintosi della propria forza e della sostanziale insufficienza dell’azione dei suoi avversari, in un discorso, del 3 gennaio 1925, con il quale si fa iniziare la dittatura, dichiarò, provocatoriamente, di assumere su di sé ogni responsabilità, storica e morale, del delitto Matteotti. A partire dal 1925 una serie di leggi cambiò sempre più in senso autoritario il volto dello Stato italiano. Anche se lo Statuto albertino non venne formalmente abolito, durante il ventennio fascista si poté assistere ad un crescente accentramento di poteri nelle mani di Benito Mussolini, capo del governo e capo del partito fascista, chiamato anche duce. Gli altri partiti politici vennero vietati. Gli oppositori del regime vennero perseguitati, oltre che dalle azioni violente dello squadrismo, dall’opera del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, costituito nel 1926. La figura del re venne di fatto oscurata e coperta da quella del duce. In questo quadro di autoritarismo e di accentramento dei poteri nel governo e, soprattutto, nelle mani di Mussolini, le elezioni vennero eliminate. Si cominciò con le elezioni comunali, nel 1926. Si continuò con quelle della Camera dei deputati, che, nel 1939, divenne Camera dei fasci e delle corporazioni, con membri scelti entro le organizzazioni dello Stato fascista. Va anche ricordato che il regime, nella sua ricerca di un completo controllo di tutta la vita sociale, ammise solo sindacati fascisti che coinvolse nell’organizzazione dello Stato. La produzione era divisa per branche. Per ogni branca, nel sistema fascista, la corporazione riuniva il sindacato dei lavoratori e quello dei datori di lavoro, chiamati ad accordarsi tra loro, al fine di tutelare l’interesse superiore dello Stato. Lo sciopero fu considerato un reato. Aiuto al regime venne anche dalla sistemazione dei rapporti con il Vaticano, con il Concordato del 1929. Si chiudeva così la questione aperta con la presa di Roma del 1870. La concezione del mondo del regime fascista era fortemente autoritaria. Per il fascismo lo Stato era molto più importante dell’individuo. Di fronte alle esigenze dello Stato, quindi, potevano e dovevano essere trascurati, e, se necessario, anche calpestati, i diritti e le libertà dei cittadini. Vennero così eliminate, tra le altre, la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di stampa, la libertà di associazione. In questo tipo di discorso le idealità dell’illuminismo e della rivoluzione francese (libertà, uguaglianza) erano espressamente rifiutate e condannate. Si deve ancora dire che su questa base di condanna dell’uguaglianza si poté anche sviluppare, nel ventennio di potere fascista, quel razzismo che pure ebbe espressione, nel 1938, nelle leggi razziali contro gli ebrei. Come conseguenza della concezione che stiamo considerando, il fascismo ebbe una idea gerarchica della vita sociale ed una specie di culto per il capo supremo, il duce Benito Mussolini. In questo modo venne esaltata come una virtù la cieca obbedienza. Slogan, diffusi nel ventennio, come “credere, obbedire, combattere” oppure “il duce ha sempre ragione” sono abbastanza indicativi di questo modo di pensare. Ad un’esaltazione dello Stato come entità assolutamente superiore ai cittadini, al culto per il capo e alla visione gerarchica della società, si affianca naturalmente nel fascismo il culto per la potenza militare dello Stato e per la sua espressione nella guerra e nella conquista, l’esaltazione della disciplina e delle virtù militari. Va detto che, in questo senso, Mussolini impostò per l’Italia una politica estera di potenza. Tra l’altro, l’Italia occupò l’Etiopia, nel cosiddetto Corno d’Africa, con una guerra, fra il 1935 ed il 1936, che venne condannata dalla Società delle Nazioni. Ad aprile del 1939 venne occupata anche l’Albania. Già nel 1924, con il trattato di Roma con la Iugoslavia, Mussolini, venendo incontro ai desideri nazionalisti, aveva ottenuto, per l’Italia, Fiume, che, nel 1919, era già stata occupata da D’Annunzio e che, nel 1920, in seguito al trattato di Rapallo, tra l’Italia e la Iugoslavia, era divenuta uno Stato indipendente. Dal punto di vista dell’economia gli storici hanno individuato, nello sviluppo del regime, due fasi: dapprima, una liberista; quindi un’altra, contrassegnata dall’intervento pubblico nella vita economica. Molti, comunque, hanno sottolineato, in entrambe queste fasi, la sostanziale situazione di difficoltà e di subordinazione per i lavoratori. E’ stato messo in rilievo come l’accentuarsi dell’intervento dello Stato italiano in campo economico si sia avuto a seguito della crisi americana del 1929. Da una parte si può ricordare come questa crisi americana, per l’importanza degli Stati Uniti nella vita economica internazionale, abbia influenzato anche vari altri Stati. Da un’altra parte va osservato che, di fronte, appunto, ai fenomeni di crisi, la strada dell’intervento pubblico percorsa, in modo democratico, dall’America del New Deal venne anche intrapresa dalle dittature dell’Italia e della Germania di Hitler. Sia le due dittature che la democrazia americana fecero intervenire lo Stato nella vita economica. Davanti alle difficoltà economiche lo Stato fascista organizzò un ente pubblico, detto Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), che assunse la proprietà delle azioni delle imprese in crisi. Si provvide anche ad abbassare i salari dei lavoratori. Inoltre si aumentò il peso dei dazi sulle merci estere. A questo ultimo proposito va sottolineato che lo Stato italiano mirò ad una completa autarchia economica, cioè ad una completa autosufficienza dell’Italia nell’economia. Non possono, infine, non ricordarsi le varie commesse dello Stato alle imprese. Il riarmo collegato alla guerra in Etiopia favorì vari settori industriali. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012 45- SITUAZIONE DELLA GERMANIA. SVILUPPO DEL NAZISMO. FASCISMO E NAZISMO. GUERRA DI SPAGNA. La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale, tra la fine del primo decennio e la metà del secondo decennio del secolo XX si trovò in una forte situazione di crisi, sociale, politica, economica. Gli anni immediatamente seguenti alla fine del conflitto mondiale videro anche in Germania un deciso movimento comunista ed una forte spinta rivoluzionaria. Tuttavia questa spinta rivoluzionaria di sinistra fallì. La repressione, frutto dell’accordo del governo socialdemocratico con la destra e con l’esercito, portò all’uccisione di molti marxisti (tra i quali anche l’economista Rosa Luxemburg, 1870-1919, uno dei fondatori del Partito comunista tedesco). Nel 1919 una Assemblea nazionale, nella città di Weimar, preparò una nuova costituzione dello Stato tedesco. Si parla, pertanto, per lo Stato tedesco prima dell’arrivo al potere di Hitler, di repubblica di Weimar. Sconfitte le forze rivoluzionarie di sinistra, il governo tedesco, dato anche il permanere della crisi economica e sociale, si trovò di fronte la minaccia della destra. Nel 1923 fallì, nella città di Monaco, un tentativo di colpo di stato che aveva tra i suoi ispiratori Adolf Hitler (1889-1945). Hitler stesso venne arrestato. Rinchiuso in carcere, egli scrisse un libro, Mein Kampf (che può tradursi come la mia battaglia), nel quale espose le proprie idee politiche. Successivamente si registrò un miglioramento ed una stabilizzazione della situazione tedesca. Va particolarmente messo in rilievo il ruolo importante avuto dall’investimento dei capitali americani per il miglioramento economico della Germania. Si può capire, quindi, come la crisi di Wall Street e dell’economia statunitense abbiano avuto effetti disastrosi sulla vita economica, sociale e politica tedesca. Dal punto di vista politico si affermò rapidamente il Partito nazionalsocialista di Hitler. Conseguito, nel 1930, un notevole successo elettorale, Adolf Hitler, nel 1933, divenne cancelliere tedesco. Anche in seguito all’affermazione nelle elezioni del marzo 1933, il capo del nazismo assunse pieni poteri, costruendo e rafforzando il suo dominio assoluto. Nel 1934, nella cosiddetta ‘notte dei lunghi coltelli’, fece uccidere gli oppositori all’interno stesso del partito. Ancora nel 1934, Hitler, già, come visto, nominato cancelliere, prese pure la carica di presidente. Ispirandosi alle idee fasciste di Mussolini (che considerava suo maestro), il capo del partito nazista trasformò la Germania in una dittatura, con lo scioglimento degli altri partiti politici e dei sindacati, l’abolizione dei diritti e l’accentramento dello Stato ottenuto a spese della autonomia dei Lander tedeschi. Per consolidare e mantenere questa dittatura vennero organizzate squadre armate di partito, le SS (Schutz staffein, squadre di difesa), ed una polizia segreta, la Gestapo (Geheime Staats Polizei, polizia segreta di Stato). Come il regime fascista, anche il regime nazista ebbe il culto dell’autorità, a cominciare da quella del capo supremo, detto fuhrer (condottiero, duce). Ebbe il culto della forza e della violenza. Anche il regime nazista combatté, come contrario alla sua natura, ogni principio democratico, di libertà, di uguaglianza. Lo Stato di Hitler si fondò, anzi, sul principio della disuguaglianza delle razze e, in particolare, sulla supremazia della razza del popolo tedesco, la razza ariana, che veniva considerata ed esaltata come dominatrice. All’estremo opposto la razza ebraica era considerata inferiore e doveva essere sfruttata, cacciata, sterminata. Da ciò ebbe origine la persecuzione contro gli ebrei, la Shoah, o Olocausto, il tentativo di sterminio di un intero popolo. Nei campi di concentramento nazisti trovarono una morte orribile, fino alla caduta del regime, nel 1945, persone ‘colpevoli’ solo di appartenere alla razza ebraica o ad altre razze considerate inferiori. L’esaltazione della violenza e del dominio come pure della superiorità della razza tedesca si posero in forte contrasto con le limitazioni imposte alla Germania con la fine della prima guerra mondiale. Dal punto di vista economico e sociale, il regime nazionalsocialista, come già accennato, affrontò le gravi conseguenze della crisi di Wall Street con lo strumento dell’intervento pubblico nella vita dell’economia. Va detto che, in modo coerente con le caratteristiche dello Stato nazista, il regime non volle danneggiare, e non danneggiò, gli interessi dei grandi capitalisti. Va inoltre aggiunto che la politica economica del nazismo si sviluppò nel senso del riarmo, e, quindi, del rafforzamento dell’esercito e della potenza militare tedesca (vietati dal trattato di Versailles). Nello svolgersi del disegno di un’affermazione della potenza della Germania, Hitler volle l’annessione dell’Austria allo Stato tedesco. Entro il pensiero di Hitler la rinascita della potenza germanica, di un Impero (Reich), terzo dopo quello medioevale e quello costituito da Bismarck, e la riunione, in un grande Stato, di tutti i tedeschi (compresi quelli della Polonia e della Cecoslovacchia) dovevano precedere l’espansione della Germania verso i territori dell’Europa orientale, abitati da popolazioni considerate razzialmente inferiori. Già nel 1934 era fallito, in Austria, un colpo di stato ispirato dai nazisti (colpo di stato condannato pure da Mussolini). L’annessione austriaca riuscì, peraltro, nel 1938. L’atteggiamento non favorevole alla politica hitleriana inizialmente presente entro la politica estera dell’Italia di Mussolini venne rapidamente superato. Gli storici hanno messo in rilievo che la sostanziale vicinanza ideologica dei due regimi, fascista e nazista, favorì rapporti sempre più stretti tra l’Italia e la Germania. Così, tra il 1936 ed il 1937, si formò quello che, con parole di Mussolini, venne chiamato Asse Roma-Berlino, una linea politica di accordo, appunto, tra l’Italia fascista e la Germania hitleriana. Gli storici hanno pure osservato che tra i frutti della sempre più stretta amicizia italo-tedesca si trovano anche le leggi razziali italiane del 1938. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il 22 maggio 1939, Italia e Germania rafforzarono ancora i loro rapporti con il cosiddetto Patto d’Acciaio, con il quale i due Stati si promettevano aiuto militare in caso di guerra. I rapporti di amicizia e collaborazione tra Italia e Germania vennero pure migliorati dal comune sostegno dato dalle due dittature al colpo di stato militare, iniziato nel luglio 1936 e guidato dal generale Francisco Franco (1892-1975), contro il governo in Spagna (formato in seguito al successo elettorale avuto da comunisti e socialisti riuniti in un Fronte popolare). La Guerra civile di Spagna si concluse, nel 1939, con la sconfitta del governo, a cui non era bastato l’aiuto dell’Unione Sovietica e di esponenti antifascisti provenienti da vari paesi e riuniti in Brigate internazionali. Dopo l’annessione dell’Austria, Hitler, ancora nel 1938, continuò il suo disegno di dominio rivolgendosi verso la Cecoslovacchia. Di fronte alla sostanziale arrendevolezza di inglesi e francesi alle pretese naziste (arrendevolezza espressa anche nella Conferenza internazionale di Monaco, nella quale si discusse il problema cecoslovacco), Hitler, tra 1938 e 1939, occupò, dapprima, la zona dei Sudeti (una zona montuosa della Boemia con una forte presenza etnica tedesca) e, quindi, occupata Praga, impose un protettorato tedesco su Boemia e Moravia. Guardando la situazione internazionale va notato ancora come, in Asia, il Giappone, impegnato in una politica militarista e in una costante linea di aggressione contro la Cina, nel 1936 abbia firmato un patto anticomunista con la Germania. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, con il Patto tripartito, del settembre 1940, Germania, Italia e Giappone si accordarono tra loro per una divisione del mondo (Europa ed Africa per i primi due Stati; Asia per il Giappone). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. 46- SVILUPPI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE. Prof. Frontini Si sono visti gli sviluppi della politica della Germania nazionalsocialista fino al 1939 e all’occupazione della Cecoslovacchia. Si sono anche considerate le ragioni ideologiche della politica nazista. Si è, pure, illustrato il quadro delle alleanze della Germania (con l’Italia e con il Giappone). Di fronte al blocco costituito da questi tre Stati troviamo Francia e Inghilterra. L’Unione Sovietica, che riteneva di dover temere la politica di entrambi gli schieramenti, portò avanti trattative con tutti, rimanendo incerta, fino all’agosto 1939, quando firmò un patto di non aggressione con la Germania. In tale nuovo orizzonte di rapporti si trovava anche una divisione in sfere d’influenza. Così, per questa divisione, Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania entrarono nell’orbita russa. Ritenendosi coperto dall’accordo con l’Urss, Hitler attaccò la Polonia, il giorno 1 settembre 1939, accusandola di voler contrastare l’interesse tedesco alla propria integrità territoriale, danneggiata dalla Città-stato di Danzica e dal corridoio di Danzica. Tutto questo malgrado il carattere autoritario dello Stato polacco e il suo avvicinamento alla Germania, testimoniato dal patto di non aggressione firmato dai due Paesi nel 1934. In difesa della Polonia, Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania. Nacque in questo modo il secondo conflitto mondiale. Inizialmente, nel primo anno di guerra, l’Italia non entrò nel conflitto. L’esercito tedesco sconfisse, rapidamente, lo Stato polacco. Va detto che anche l’Urss, sulla base degli accordi con la Germania, attaccò e occupò militarmente parte della Polonia. La guerra fu subito caratterizzata dalla velocità delle vittorie naziste. Tra l’altro, l’esercito tedesco mise in pratica una strategia innovativa, basata sull’uso di raggruppamenti di carri armati per sfondare le linee avversarie. Di fronte alle vittorie tedesche si parlò di guerra lampo. La Germania, per ragioni strategiche, calpestò la neutralità di molti Stati. Vennero così occupate Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio, Lussemburgo. Nel 1940 cadde anche la Francia. Il 14 giugno l’esercito tedesco occupò Parigi. Di fronte ai successi delle armate naziste, il 10 giugno 1940 l’Italia di Mussolini entrò in guerra al fianco della Germania di Hitler. La posizione di Mussolini fu anche quella di cercare una autonoma affermazione delle truppe italiane, indipendentemente dai successi dell’alleato nazista. Così, nel 1940, l’Italia attaccò la Grecia e, nella zona del Corno d’Africa, invase la Somalia britannica. Inoltre, in Africa settentrionale, partendo dalla Libia, le truppe italiane attaccarono gli Inglesi in Egitto. Peraltro, tanto in Grecia che in Africa, la situazione militare dell’Italia andò sempre più aggravandosi e Mussolini dovette chiedere l’aiuto tedesco. In questo modo si chiuse quella che è stata detta ‘guerra parallela’ dell’Italia, ossia l’insieme delle iniziative militari italiane autonome e distaccate da quelle tedesche. In alcuni paesi sconfitti la Germania instaurò governi a lei fedeli, detti collaborazionisti. Dopo la sconfitta della Francia, le zone non occupate dai tedeschi vennero sottoposte al governo del maresciallo Philippe Petain (1856-1951), a Vichy. Il generale Charles De Gaulle (1890-1970), non accettando la resa alla Germania ed il governo collaborazionista di Vichy, fuggito in Inghilterra, si mise a capo di un movimento di resistenza detto Francia Libera. Le colonie francesi dell’Africa equatoriale seguirono De Gaulle. Peraltro, sorsero movimenti di resistenza anche in altri paesi occupati. Con la caduta della Francia l’Inghilterra rimase l’unico Stato a combattere contro le forze dell’Asse. Nella seconda metà del 1940 il suo territorio venne pesantemente bombardato dall’aviazione tedesca, peraltro validamente contrastata da quella inglese (cosiddetta battaglia d’Inghilterra). In questa situazione, Hitler si volse verso oriente e, nel giugno 1941, attaccò l’Unione Sovietica. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 47- VICENDE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE DAL 1941 ALLA FINE. Già nell’aprile del 1941, in preparazione dell’attacco all’Urss, Hitler spinse le forze dell’Asse a occupare la Iugoslavia, dove si era affermata una linea politica antitedesca, anche sostenuta, nonostante gli accordi tra Unione Sovietica e Germania, dal partito comunista guidato dall’uomo politico Josip Broz detto Tito (1892-1980). La Iugoslavia, in seguito all’attacco nazifascista, venne smembrata. La Germania occupò la Serbia; Montenegro e Slovenia entrarono nella zona d’influenza dell’Italia. Nel giugno 1941, l’attacco tedesco all’Urss, chiamato, nel codice militare, Operazione Barbarossa, segnò, nella seconda guerra mondiale, il superamento, entro gli schieramenti, della profonda contraddizione politica tra le idee a cui facevano riferimento Germania e Unione Sovietica e l’accordo tra questi due Stati. In effetti, Hitler sentì fondamentalmente contro natura una reale alleanza con l’Urss; tra le caratteristiche del nazismo ci fu anche un estremo anticomunismo. Da un altro punto di vista, va ricordato che i patti tra Stalin e Hitler provocarono difficoltà e contraddizioni nel quadro dei vari partiti comunisti. L’esercito nazista penetrò profondamente nel territorio sovietico, spingendosi, per fine anno, fin quasi a Mosca. L’invasione tedesca dell’Urss ebbe anche la conseguenza di permettere al Giappone una maggiore e più sicura disponibilità di truppe per lo scopo della costruzione del suo dominio sull’Asia sud orientale e sull’area dell’oceano Pacifico, senza la minaccia di un intervento sovietico a difesa della propria zona di influenza. In questo modo le esigenze dell’imperialismo giapponese (che abbiamo seguito fin dalle sue origini nel secolo XIX) vennero a trovarsi direttamente in rotta di collisione con le esigenze, nell’area del Pacifico, degli Stati coloniali europei e degli Stati Uniti. Così, il 7 dicembre 1941, aeroplani giapponesi bombardarono pesantemente la base statunitense di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, in Oceania. Nello stesso dicembre 1941, dopo il Giappone, dichiararono guerra agli Stati Uniti Germania e Italia. Va comunque ricordato che il presidente statunitense Roosevelt già da tempo spingeva per vincere l’isolazionismo del suo paese (un isolazionismo anche provocato dalla delusione per la sistemazione della situazione internazionale dopo la guerra 1914-1918) in favore di un maggiore impegno per l’Inghilterra (dove era primo ministro Winston Churchill, 1874-1965). A partire dal 1942 le truppe del Patto tripartito (Germania, Italia, Giappone), dopo la massima espansione, vennero fermate. Gli storici segnalano una serie di gravi sconfitte delle forze dell’Asse. Così, per il 1942, nell’Africa settentrionale, l’esercito italo-tedesco venne battuto a El Alamein. In Russia, tra 1942 e 1943, le truppe tedesche che assediavano la città di Stalingrado vennero, a loro volta, circondate dall’Armata Rossa e costrette alla resa. Nell’oceano Pacifico, tra 1942 e 1943, gli Stati Uniti, con una battaglia molto dura, riuscirono a conquistare e a liberare dai giapponesi l’isola di Guadalcanal. Nel 1943 la situazione delle potenze del Patto tripartito si aggravò ancora. Per quel che riguarda l’Italia, occorre ricordare che, dopo le sconfitte italo-tedesche in Africa, truppe anglo-americane nel luglio 1943 diedero inizio all’invasione dello stesso territorio nazionale, sbarcando in Sicilia. Roma, che non era stata ancora colpita anche per la presenza del Vaticano, il 19 luglio 1943 subì, per la prima volta, un bombardamento aereo, nella zona di San Lorenzo. I ripetuti insuccessi militari provocarono la crisi del regime di Mussolini. Questa crisi si avviò pure all’interno stesso del partito fascista. Così il Gran Consiglio del fascismo, un organo del regime, il 25 luglio 1943 approvò un ordine del giorno che invitava il re Vittorio Emanuele III a prendere effettivamente il comando delle forze armate, come previsto nello Statuto albertino. In seguito alla decisione del Gran Consiglio il re mise a capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio (1871-1956). Mussolini, arrestato, finì in prigionia sul Gran Sasso d’Italia. Il partito fascista fu disciolto e venne anche abolito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. La caduta di Mussolini, responsabile della dittatura e di una guerra di aggressione che era costata all’Italia lutti e distruzioni, fu accolta con manifestazioni popolari di gioia. Rimanevano, peraltro, aperti vari e gravi problemi. La guerra, dichiarata dal fascismo, sopravviveva alla caduta di Mussolini. Alla sentita necessità di una pace con le potenze antinaziste si accompagnava la paura per le reazioni della Germania di fronte al cambio di regime in Italia. Inoltre, alla fine della dittatura fascista non seguì per nulla la completa instaurazione di un regime democratico. Quando poi, il 3 settembre 1943, l’Italia firmò l’armistizio con la sua resa incondizionata alle potenze antinaziste (armistizio reso noto il giorno 8 settembre), non venne dato all’esercito alcun chiaro ordine sul comportamento da tenere. L’esercito tedesco si mosse per occupare l’Italia. Il re Vittorio Emanuele III, la corte ed il governo Badoglio lasciarono Roma e si misero in salvo nell’Italia meridionale occupata dalle truppe angloamericane. L’esercito, privo di indicazioni chiare, attaccato dalle forze armate tedesche, in parte si sbandò, in parte costituì uno dei nuclei della lotta partigiana di resistenza armata contro le truppe nazifasciste. Il 13 ottobre 1943, comunque, il governo italiano dichiarò guerra alla Germania; gli Alleati antinazisti riconobbero all’Italia il titolo di cobelligerante. Dopo l’armistizio italiano, Hitler fece liberare Mussolini e lo mise a capo di uno Stato, nell’Italia settentrionale, chiamato Repubblica Sociale Italiana, o Repubblica di Salò, dal nome della località in cui aveva sede. Gli avvenimenti politici e militari del 1943 lasciarono, dunque, l’Italia divisa in due parti: una occupata dagli Alleati, l’altra dai nazisti. L’avanzata delle truppe anglo-americane verso l’Italia centro-settentrionale fu lenta e contrastata. In questo discorso può subito dirsi che Roma venne liberata solamente a giugno del 1944. L’anno 1944 fu caratterizzato da una parte dall’avanzata dell’Armata Rossa (che raggiunse la Polonia), da un’altra parte da un grande sbarco anglo-americano, nel mese di giugno, in Normandia, che doveva portare alla liberazione della Francia. Il crollo del regime nazista avvenne nell’aprile del 1945. Le truppe sovietiche occuparono Berlino, a partire dal 23 aprile. Hitler, secondo la ricostruzione accettata dagli storici, morì suicida nel suo bunker. In Italia, il 25 aprile 1945, si ebbe un’insurrezione popolare che liberò molte città prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Mussolini venne fucilato dai partigiani (il 28 aprile). Se la guerra in Europa si concluse nel maggio 1945, con la resa della Germania (il 7 maggio), il Giappone firmò la propria resa il giorno 1 settembre 1945, dopo che, sul suo territorio, vennero sganciate due bombe atomiche: l’una, su Hiroshima, il 6 agosto; la seconda, a Nagasaki, il 9 agosto. Va anche ricordata la dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica al Giappone del giorno 8 agosto 1945. In seguito alle atrocità commesse dai tedeschi, subito dopo la seconda guerra mondiale venne organizzato, a Norimberga, un tribunale che giudicò e condannò, anche a morte, molti alti esponenti del nazismo. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012 Prof. Frontini 48- DALLA RESISTENZA ALLA NUOVA COSTITUZIONE. SITUAZIONE ITALIANA DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE E COSTITUZIONE. Già prima dell’entrata in guerra dell’Italia (nel 1940) e dello stesso scoppio del secondo conflitto mondiale (nel 1939), il regime fascista non riuscì a soffocare e a sopprimere completamente le voci contrarie. Abbiamo anche visto come, alle origini stesse della dittatura, in seguito al delitto Matteotti, il movimento antifascista si sia espresso nel cosiddetto ‘Aventino’, con un richiamo ideale alle vicende dell’antica Roma. Questo richiamo storico si trova in un discorso, del 1924, del deputato socialista Filippo Turati (1857-1932), dove si parla di un ‘Aventino’, appunto, quale luogo ideale della coscienza civile contrapposto e separato rispetto alla degenerazione del Parlamento dopo i brogli e le violenze dello squadrismo fascista. Questo richiamo, ancora, si accompagnò, peraltro,ad una sostanziale incapacità delle opposizioni di agire efficacemente contro il fascismo. Durante la dittatura molti esponenti antifascisti, di vari partiti politici, trovarono rifugio all’estero. Va ricordato che durante la guerra civile di Spagna esponenti antifascisti combatterono, nelle Brigate internazionali, contro Franco, appoggiato da Hitler e Mussolini. Nel corso della guerra mondiale, non possono non richiamarsi, in un discorso sull’ opposizione e sulla resistenza al regime in Italia, gli scioperi dei lavoratori nel marzo 1943. In seguito agli avvenimenti italiani del luglio e del settembre 1943, i partiti politici si svilupparono e si posero come punto di riferimento per la rinascita della democrazia e per la conduzione della guerra partigiana contro i fascisti e contro l’esercito tedesco occupante parte del territorio italiano. In una resistenza anche divenuta guerra di popolo (come dimostrò, già nel 1943, l’insurrezione di Napoli, che mandò via i tedeschi prima dell’arrivo dell’esercito anglo-americano) si inserirono i rinati partiti, con una funzione di rinnovata, e democratica, guida politica. Questi partiti, di fronte alla situazione generale e alle esigenze della lotta contro l’invasione nazista, si riunirono in vari Comitati di liberazione nazionale (CLN), diffusi nel territorio italiano. Particolare importanza e rilievo politico ebbe il CLN centrale. Notevole importanza nelle zone occupate dai tedeschi ebbe il CLN Alta Italia (CLNAI). Va registrato il contrasto del CLN centrale con il governo Badoglio e con il re Vittorio Emanuele III, accusato della passata arrendevolezza al fascismo. Ma, con la lotta partigiana in atto nell’Italia settentrionale, apparve meglio, secondo il suggerimento del segretario del partito comunista, Togliatti, accantonare, al momento, i contrasti e dare la maggiore attenzione al problema della liberazione del territorio nazionale dall’esercito tedesco e alla vittoria della guerra. La portata innovativa della situazione che si era venuta a creare avrebbe poi condotto, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, a notevoli mutamenti nello Stato italiano, e ad una nuova carta costituzionale, dopo lo Statuto albertino del 1848. Vari osservatori e vari storici hanno sottolineato come gli avvenimenti del 1943, la guerra partigiana, le insurrezioni popolari che il 25 aprile 1945 liberarono molte città dell’Italia settentrionale, abbiano segnato, nel loro complesso, un processo di riscatto, anche nella posizione del popolo italiano di fronte agli altri popoli, ed un avviamento di una ricostruzione dello Stato su basi democratiche, quali poi dovevano essere espresse nella nuova Costituzione. Con la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, l’Italia si trovò davanti a molti problemi. Lo stesso territorio dello Stato subì limitazioni. Così l’Istria passò alla Iugoslavia. Pure la città di Trieste fu contesa dallo Stato iugoslavo a quello italiano, fino al trattato di Osimo, tra i due Stati, che, nel 1975, ne riconfermò l’appartenenza all’Italia. Inoltre, nel contesto della lotta partigiana iugoslava, guidata dal dirigente comunista Tito, il gruppo etnico italiano subì persecuzioni. Si ricordano, in tal proposito, le foibe, cavità naturali del terreno, nelle quali venivano precipitati i prigionieri da eliminare. Tra i problemi dell’Italia del 1945 c’era quello della ricostruzione, dopo le molte distruzioni causate dalla guerra. Erano presenti anche importanti problemi politici. Si doveva, ad esempio, decidere se mantenere, o no, la monarchia. Come visto, già nel corso delle guerra era sorto contrasto tra il Comitato di liberazione nazionale e il re, a cui, fra l’altro, veniva rimproverato il ventennale accordo con il regime fascista. Sulla questione del mantenimento, o meno, della monarchia, si tenne, in Italia, un referendum. Con la parola referendum si indica una decisione presa, direttamente, dal Corpo elettorale (ossia da tutti gli elettori). Il 2 giugno 1946 il popolo italiano, tra monarchia e repubblica, scelse la repubblica. Si ricorda ancora che monarchia è parola (dalla lingua greca) che vuol dire potere di uno solo (che è chiamato monarca, o re). Repubblica è parola che viene dall’espressione latina res publica, ossia affare comune, affare di tutti (indica, quindi, una forma di governo nella quale appare necessaria la partecipazione alla vita politica di tutti i cittadini). Il 2 giugno 1946 venne anche eletta in Italia, a suffragio universale, una Assemblea Costituente, che preparò una Costituzione, entrata in vigore il giorno 1 gennaio 1948. In questa Assemblea Costituente vennero eletti, e lavorarono insieme, i rappresentanti dei partiti antifascisti. I principali partiti furono: Democrazia cristiana (segretario: Alcide De Gasperi, 1881-1954); Partito socialista (segretario: Pietro Nenni, 1891-1980); Partito comunista (segretario: Palmiro Togliatti, 1893-1964). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 49- COSTITUZIONE. COSTITUZIONE E DEMOCRAZIA. Analizzando il 1848 in Italia e lo Statuto albertino abbiamo già visto che una Costituzione è la legge principale di uno Stato. In tale occasione abbiamo già anche osservato che una legge si divide in articoli. Ancora si ricorda come questi articoli, a loro volta, si dividano in commi. Uno sguardo alla Costituzione entrata in vigore nel 1948 mostra come, in essa, dopo dodici articoli di principi fondamentali vengano disciplinati i diritti e i doveri dei cittadini e, quindi, l’organizzazione dello Stato. Seguono disposizioni finali e transitorie (con articoli numerati a parte, con numerazione romana). E’ stato osservato che già l’attenzione riservata alla vita economica e sociale nello svolgersi dei diritti e dei doveri dei cittadini rappresenta bene il distacco, e il più alto contenuto democratico, della Costituzione vigente rispetto allo Statuto di Carlo Alberto. Si deve dire che la Costituzione è caratterizzata in tutti i suoi articoli da un forte spirito democratico. Si ricorda ancora che democrazia è parola che significa potere del popolo (da demos che, nella lingua greca, vuol dire popolo). Così, nell’articolo 1 si può anche leggere: “La sovranità”, ossia il potere, “appartiene al popolo”. Alcuni studiosi di diritto hanno potuto sottolineare il carattere di decisa risposta di molti articoli della Costituzione del 1948 alle idee del precedente periodo fascista. Dopo le persecuzioni razziali contro gli ebrei, l’articolo 3 della Costituzione dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Va considerato come di fronte all’importanza che ha, per la democrazia, l’eguaglianza, il comma 2 dello stesso articolo 3 aggiunga: “E’ compito della Repubblica rimuovere”, ossia togliere, “gli ostacoli” economici e sociali che limitino “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Dopo l’elogio, nel precedente periodo fascista, della forza militare e delle conquiste armate, l’articolo 11 della Costituzione dice: “L’Italia ripudia”, ossia respinge, “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (ossia come mezzo di soluzione delle liti tra Stati). Non può non ricordarsi come, tra le disposizioni finali e transitorie, il comma 1 della disposizione XII affermi: “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Per quanto riguarda la dinastia dei Savoia, si può notare che la disposizione XIII anche stabilisce, nel comma 2: “Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale”. Questo divieto non esiste più a partire dal 2002. Per comprendere meglio la Costituzione entrata in vigore nel 1948 ed il suo significato democratico, occorre tornare a leggere, nella sua interezza, il comma 2 dell’articolo 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Si sottolinea, dunque, la necessità del “pieno sviluppo della persona umana”. Uno sviluppo che viene letto, nella Costituzione, anche all’interno del quadro più vasto della società. Così, per l’articolo 2, la personalità umana vive nella società: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”. In una Costituzione per la quale il pieno sviluppo dell’uomo, e della sua libertà, si unisce con la sua vita sociale e con la necessità della solidarietà, il lavoro acquista un’importanza fondamentale. Già per l’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Per l’articolo 4, nel comma 1: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; nello stesso articolo 4, per il comma successivo: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Dalla sottolineatura dell’importanza e della dignità del lavoro (come mezzo di espressione della personalità e come strada per il progresso di tutta la società) anche discende, nella Costituzione, la tutela dell’organizzazione sindacale (che, per l’articolo 39, comma 1, “è libera”) ed il diritto di sciopero, previsto all’articolo 40. Di fronte al problema, di estrema importanza, dell’atteggiamento dello Stato verso la vita economica, all’articolo 42, comma 1, si afferma; “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. Per l’articolo 41: “L’iniziativa economica privata è libera”. Tuttavia questo stesso articolo precisa: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, ala libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 50- CENNI SU ORGANIZZAZIONE DELLO STATO E COSTITUZIONE DEL 1948. POSSIBILITA’ DI MODIFICA DELLA COSTITUZIONE E CORTE COSTITUZIONALE. Si è già cominciata a considerare la carta costituzionale entrata in vigore in Italia nel 1948. Se ne è sottolineato il carattere fortemente democratico. Si ricorda che lo Stato italiano è uno Stato costituzionale, ossia uno Stato nel quale i diversi poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) sono esercitati da vari organi, e non appartengono, come nelle monarchie assolute, ad una sola persona. Si è già visto che, usando le parole dell’articolo 1 della Costituzione, “la sovranità appartiene al popolo”. Il popolo, in Italia, esercita questa sovranità anche attraverso elezioni, con le quali, appunto, il popolo stesso elegge, ossia sceglie, propri rappresentanti, chiamati ad occuparsi degli affari della società. In collegamento con i caratteri democratici del testo costituzionale il suffragio è universale. Va notato come l’apertura del voto alle donne rappresenti il raggiungimento, anche in Italia, di un’aspirazione profondamente sentita. Un’aspirazione che, come quella alla parità giuridica, trova, tra le proprie radici, i cambiamenti dell’industrializzazione nell’Europa del XIX secolo; cambiamenti che coinvolgono pesantemente, in termini di sfruttamento, pure la condizione femminile. Un’aspirazione, ancora, che si presenta nell’elaborazione delle richieste socialiste. Si ricorda che, per l’articolo 48, comma 1: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”. Il Parlamento, organo della funzione legislativa, è, nella quasi totalità dei suoi componenti, eletto dal popolo. Come stabilisce l’articolo 55 della Costituzione: “Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. La prima Camera si compone di 630 deputati, tutti eletti. Il Senato comprende 315 membri eletti dal popolo. A questi si aggiungono, sulla base dell’articolo 59 della Costituzione, gli ex presidenti della Repubblica e coloro che, in considerazione dei loro “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” sono nominati senatori a vita dal Presidente della Repubblica. Per il comma 1 dell’articolo 58 della Costituzione del 1948: “I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età”. Funzione del Parlamento è quella di produrre le leggi, la cosiddetta funzione legislativa. Si deve anche richiamare, con riferimento ai rapporti tra Parlamento e Governo una funzione di indirizzo politico. Nella Costituzione il Governo è disciplinato a partire dall’articolo 92. Così, dunque, per il comma 2 dell’articolo 92: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Il comma 1 dell’articolo 94 afferma: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”. In tal modo l’azione governativa si accorda con l’indirizzo politico della maggioranza degli eletti al Parlamento. Il sistema parlamentare in uso con lo Statuto albertino e fino al regime fascista trova, con la carta costituzionale repubblicana, conferma e sviluppo democratico. Il Parlamento ha inoltre funzione di eleggere il Presidente della Repubblica. Così, in base già al comma 1 dell’articolo 83: “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri”. Nella Costituzione la figura del Presidente della Repubblica è prevista e regolata negli articoli da 83 a 91. Per il comma 1 dell’articolo 87: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Egli, in sostanza, simboleggia l’unità statale e rappresenta una garanzia della correttezza e della conformità alla Costituzione della vita politica. Altro importante potere (o funzione) dello Stato è la giurisdizione. La funzione giurisdizionale si divide in: civile (tratta e decide controversie fra privati); penale (accerta e punisce i delitti); amministrativa (tratta e decide controversie fra privati e Pubblica Amministrazione). Le controversie sono decise da un giudice al termine di un processo. Esiste pure la possibilità di proporre appello contro la decisione del processo, dando inizio ad un nuovo processo, di secondo grado, in cui un altro giudice valuta di nuovo la questione e dà, quindi, un’altra decisione, di conferma o contraria a quella del processo di primo grado. Contro decisioni di secondo grado, sia civili che penali, esiste la possibilità di ricorrere ancora ad un altro giudice, la Corte di Cassazione, per motivi riguardanti l’esatta applicazione delle norme. Si ricorda che, nella giurisdizione amministrativa, giudice di secondo grado è il Consiglio di Stato, previsto agli articoli 100 e 103 della Costituzione. Altro giudice amministrativo da ricordare è la Corte dei Conti (pure prevista negli articoli 100 e 103 della Costituzione), che si occupa della correttezza della gestione dei conti pubblici Si è più volte sottolineato il carattere innovativo e democratico della Costituzione entrata in vigore nel 1948. A difesa della carta costituzionale da interventi parlamentari che ne potessero cambiare il significato, anche colpendo i diritti delle minoranze, si è stabilita, nella Costituzione stessa, all’articolo 138, la necessità, per la modifica del testo costituzionale, di determinate procedure e maggioranze parlamentari superiori a quelle normalmente necessarie per approvare una legge. Occorre anche ricordare, in questo discorso, che, in base all’articolo 139, non esiste la possibilità, in un quadro legale, di abolire la repubblica, tornando alla monarchia. Tra le leggi (e le altre fonti del diritto) si crea una gerarchia per la quale la posizione superiore appartiene alla Costituzione, e alle leggi costituzionali, approvate con le procedure previste all’articolo 138. Le leggi ordinarie del Parlamento (non approvate nei modi ricordati nel detto articolo 138) non possono contrastare e non possono modificare la Costituzione. Bisogna dire, a questo punto, che il discorso di garanzia si completa con l’istituzione, prevista nella Costituzione stessa, di una Corte Costituzionale, avente il compito essenziale di valutare la conformità o il contrasto delle leggi ordinarie rispetto al riferimento costituito, appunto, dalla Costituzione. In caso di riconoscimento dell’incostituzionalità di queste leggi ordinarie, esse vengono abrogate. La composizione di questa Corte è prevista all’articolo 135 della Costituzione. Per il comma 1 dell’articolo 135: “La Corte Costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune, per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative” (Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti). Va detto che la Corte Costituzionale cominciò a funzionare soltanto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione (la prima sentenza della Corte è del 1956). APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 51- CARATTERISTICHE DELL’UNIONE SOVIETICA. L’URSS FINO ALLA GUERRA FREDDA. Si sono già considerate alcune caratteristiche essenziali dell’Unione Sovietica. Dal punto di vista dell’economia abbiamo visto l’Urss come uno Stato ad economia socialista, senza, cioè, l’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione. Si è, inoltre, sottolineato il collegamento di questo Stato con l’ideologia rivoluzionaria marxista. Abbiamo seguito, nella storia, le origini di questo Stato, con Lenin. Si sono, quindi, ricordate le numerose e drammatiche difficoltà collegate a tali origini. Appare opportuno sottolineare la notevole speranza nutrita dai comunisti russi nello scoppio di una rivoluzione mondiale, da molti considerata elemento indispensabile per la sopravvivenza stessa della rivoluzione in Russia. E’ da ricordare come specificamente, tra i comunisti, Trotskij, nel quadro della teoria della rivoluzione permanente, abbia cercato di mostrare l’impossibilità della riuscita della rivoluzione in un solo paese, per di più arretrato come la Russia, mettendo, fra l’altro, in rilievo il carattere naturalmente internazionale della vita economica. Partendo, dunque, dalla considerazione della internazionalizzazione, della globalizzazione della produzione e dell’economia capitalistica (al di sopra di limiti regionali o dei limiti costituiti dagli Stati nazionali) Trotskij, quindi, ha sostenuto l’impossibilità, anche dal punto di vista economico, di un completo sviluppo verso il socialismo e il comunismo di un paese isolato. Per Trotskij, in altre parole, nel sistema capitalistico, l’economia di ogni paese è strettamente legata all’economia internazionale e, per questo motivo, non è possibile sviluppare pienamente un’economia socialista in un singolo Stato, in maniera indipendente da quello che succede in tutto il resto del mondo. Come già accennato, la situazione di difficoltà e il venir meno delle prospettive di rivoluzione mondiale furono tra gli eventi che accompagnarono, nell’Urss, lo sviluppo dell’autoritarismo e il sostanziale accentramento dei poteri nelle mani di Stalin. Dal punto di vista economico, dopo l’ampliamento della proprietà di Stato, con i primi anni della rivoluzione, e dopo l’esperienza della Nep (che già abbiamo incontrato), nell’Unione Sovietica venne costruito un sistema collettivista, con mezzi di produzione appartenenti allo Stato. L’intera vita economica venne regolata dall’alto, attraverso piani quinquennali, nei quali si prevedevano, di volta in volta, gli obiettivi da raggiungere e i modi per raggiungerli. Così Stalin riuscì a dare un grande impulso all’industria sovietica, in tre piani quinquennali (dal 1928 al 1941). Tra l’altro, la produzione dell’acciaio e l’industria elettrica ebbero un formidabile sviluppo (in questi campi l’Urss raggiunse il terzo posto nel mondo). Va, però, notato che questi risultati vennero ottenuti a prezzo dell’instaurazione di una dittatura. In questo discorso di organizzazione della vita economica, va ricordato, inoltre, con la collettivizzazione dell’agricoltura, la persecuzione dei contadini ricchi (kulak), uccisi o deportati. Se ancora Lenin, in un’opera intitolata Stato e rivoluzione, poteva indicare, rielaborando scritti di Marx e di Engels, la prospettiva di un’estinzione, dopo la rivoluzione, dello Stato, a favore di un libero rapporto tra cittadini uguali occupati nella gestione collettiva della vita economica e sociale, con Stalin questa linea di uguaglianza viene del tutto accantonata, sostituita da un sostanziale accentramento del potere nelle mani del dittatore, al vertice dello Stato. La stessa collettivizzazione dei mezzi di produzione, in questo orizzonte politico ed ideologico, non fu uno strumento indirizzato ad una utilizzazione più cosciente e giusta da parte della società della ricchezza, ma divenne, nel senso stretto del termine, una statalizzazione, con un accrescimento dei poteri dello Stato al di sopra del cittadino. Di fronte a questa situazione, Trotskij poté indicare, nell’Unione Sovietica, la crescente importanza del gruppo della burocrazia, vale a dire di quei funzionari che, inseriti nel partito comunista e nello Stato, appoggiando Stalin, potevano aumentare la propria posizione di privilegio, anche a spese degli interessi e del progresso del popolo sovietico. L’autoritarismo staliniano, l’accentramento del potere nelle mani del dittatore si mostrarono anche in una serie di processi, conclusisi con condanne a morte, che, negli anni ’30 del secolo XX, videro sul banco degli imputati importanti protagonisti della rivoluzione bolscevica. Trotskij, che aveva organizzato e comandato l’Armata Rossa ai tempi della guerra civile in Russia, fu assassinato, nel 1940, in Messico, dove si era rifugiato per sfuggire a Stalin. Va ancora notato come al rafforzamento degli elementi autoritari dello Stato si aggiunga il fatto che gli interessi dell’Urss, appunto come entità statale, vengono considerati da Stalin più importanti rispetto a quelli dell’azione rivoluzionaria mondiale e degli altri partiti comunisti. Così con la cosiddetta Terza Internazionale, o Comintern, fondata nel 1919 e raggruppante i partiti comunisti, si riaffermò la prevalenza del partito russo. Il Comintern divenne, sostanzialmente, uno strumento dell’Unione Sovietica staliniana. Con la fine della seconda guerra mondiale l’Urss e le altre potenze vincitrici giunsero ad accordi tra loro che segnarono una divisione del mondo in varie sfere di influenza. Già con la Conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, e poi con quella di Potsdam, tra luglio e agosto del 1945, si riconobbe la posizione di rilievo dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale. Una posizione di rilievo, questa, che era stata conquistata di fatto, sul terreno, dalle vittorie dell’Armata Rossa sull’esercito tedesco. Si deve inoltre ricordare che lo Stato sovietico, battuta la Germania, dichiarò guerra, nell’agosto 1945, al Giappone. Con la sconfitta dell’Impero giapponese l’Urss occupò territori della Manciuria e della Corea. L’espansione della zona di influenza sovietica nell’Europa dell’est ebbe i caratteri antidemocratici che si erano già sviluppati nell’Urss di Stalin. Ebbero così il modello sovietico stalinista Stati come Polonia, Bulgaria, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia. Per quanto riguarda la Germania può dirsi come, tra l’altro, per il suo rilievo strategico, dovuto alla sua posizione, nel centro d’Europa, essa fu motivo di contrasto tra Unione Sovietica, da un lato, e Inghilterra e Stati Uniti, da un altro lato. All’indomani della sconfitta di Hitler, la Germania venne divisa in quattro zone (occupate, rispettivamente, da francesi, inglesi, americani e sovietici). Egualmente, anche Berlino venne divisa in quattro zone, pure affidate alle quattro potenze vincitrici. La mancanza di un accordo tra Urss e gli altri Stati che avevano vinto il nazismo finì con il portare, successivamente, alla formazione di due Stati in Germania: l’uno, la Repubblica Federale Tedesca, nella zona controllata dagli occidentali, con capitale Bonn; l’altro, la Repubblica Democratica Tedesca, nella zona sovietica, con capitale Pankow, un quartiere di Berlino. Venne divisa in due anche Berlino. Il muro di separazione tra le due zone che vi fu costruito nel 1961 è stato uno dei simboli della divisione tedesca. La questione della Germania, appena citata, non fu che uno dei punti di emersione di un notevole contrasto che ha segnato, su base mondiale, la storia della seconda metà del secolo XX: quello tra Stati Uniti, e alleati, e Unione Sovietica, e alleati. APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011/2012. 52- DIVISIONE DEL MONDO NEL BLOCCO OCCIDENTALE E IN QUELLO SOVIETICO. CARATTERISTICHE GENERALI DEI DUE SISTEMI E SVILUPPI DEL LORO CONTRASTO. Si è già avuto modo di accennare, dopo aver parlato dello sviluppo dell’Unione Sovietica, alla formazione di una zona d’influenza dell’Urss nell’Europa centro-orientale e, poi, al contrasto tra l’Urss e gli Stati Uniti. Più in particolare, come esempio di questo contrasto, si è richiamata la questione della Germania. A questo punto, tuttavia, deve essere sottolineato un dato di grande importanza. Infatti, il disaccordo per la questione tedesca non è che un episodio di un più grande contrasto. Dunque, il disaccordo sulla Germania si inserisce bene nel più vasto quadro della rivalità che si stava avviando tra Stati Uniti e mondo occidentale, da una parte, e Unione Sovietica, da un’altra parte. Va subito messo in rilievo che gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale con il ruolo di grande potenza, o di superpotenza, come pure si è detto. Tra l’altro, sul territorio americano non si combatté e questo risparmiò al Paese le grandi distruzioni che ebbe, per esempio, l’Europa. Va registrata, inoltre, la notevole crescita delle industrie. Nel quadro dell’economia mondiale gli Stati Uniti cominciarono, per le loro stesse caratteristiche, a porsi come guida del mondo occidentale capitalistico. In questo orizzonte gli interessi economico-politici statunitensi entrarono in rotta di collisione con gli interessi dell’Unione Sovietica. Di quell’Unione Sovietica che, come visto, con la fine della guerra 1939-1945, si stava ponendo come potenza guida di un blocco di paesi che, dal punto di vista economico e politico, si ispiravano all’idea marxista come interpretata e applicata attraverso Stalin e lo stalinismo. Si può rilevare come questo generale contrasto abbia fatto da sfondo alla repressione del movimento partigiano comunista greco da parte dell’Inghilterra, già tra il 1944 e il 1945, e, successivamente, da parte degli USA, tra il 1947 e il 1949. Considerando gli Stati Uniti, si può mettere in rilievo che, dopo la guerra mondiale, la preoccupazione americana di evitare nuovi periodi di crisi come quello del 1929 spinse anche alla ricerca e all’attivazione di mercati esteri. Questo discorso contribuisce a dare spiegazione del cosiddetto Piano Marshall, o E.R.P. (European Recovery Program). Con questo piano (predisposto nel 1947 e così chiamato dal nome dal suo ideatore, l’uomo politico americano George Marshall, 1880-1959) il governo degli Stati Uniti fornì crediti ai paesi dell’Europa allo scopo di permettere, nel medesimo tempo, la ricostruzione europea e la riattivazione del mercato in Europa per i prodotti dell’agricoltura e delle imprese industriali statunitensi. Si superarono, in tal modo, i progetti di una ricostruzione europea autosufficiente. Appare importante considerare che con questa linea di intervento degli Stati Uniti gli aspetti economici si trovarono intrecciati a quelli politici. Infatti all’accordo economico si affiancò l’accordo politico . Gli Stati ad economia capitalistica occidentali si legarono agli Stati Uniti e trovarono, dunque, in essi la propria guida economica e politica. Può ricordarsi come la reazione negativa dell’Unione Sovietica di fronte al Piano Marshall contribuì pure, in modo importante, al sorgere (che abbiamo già considerato) di due Stati in Germania, uno nella sfera occidentale, l’altro nella sfera sovietica. Nello sviluppo della divisione del mondo in due blocchi, in Occidente, e con funzione di difesa dall’Urss, nacque, nel 1949 e in seguito al cosiddetto Patto atlantico (Trattato dell’Atlantico del Nord), la Nato (North Atlantic Organization). L’accordo militare degli Stati del sovietico si chiamò Patto di Varsavia. Treaty blocco APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 53- SVILUPPO DELLA SCIENZA, EQUILIBRIO DEL TERRORE, RIVALITA’ TRA STATI UNITI E URSS. Si è finora considerato il sorgere e lo sviluppo di un contrasto mondiale tra un blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, e un blocco orientale, con la guida dell’Unione Sovietica. Occorre sottolineare che questo contrasto non divenne mai un vero e diretto scontro militare tra la superpotenza americana e l’Urss. In effetti questo contrasto assunse, piuttosto, le caratteristiche di una guerra fredda, ossia di un conflitto non direttamente e tradizionalmente combattuto con l’uso delle armi. Si deve mettere in rilievo che dietro l’assenza di una vera e propria guerra tra Stati Uniti e Urss va anche ricordata l’utilizzazione, sempre maggiore, della scienza per scopi militari. Noi, finora, abbiamo già incontrato l’utilizzazione e lo sviluppo della scienza nel campo della produzione economica; abbiamo visto che una caratteristica essenziale della rivoluzione industriale, a partire dal secolo XVIII, è proprio quella di una, sempre crescente, utilizzazione della scienza nella produzione. Ora, appare il momento di sottolineare l’importanza del discorso scientifico pure sul piano militare. Gli Stati stessi hanno ben compreso questo rilievo della scienza nel campo militare e, quindi, hanno finanziato varie ricerche. Si può fare qualche esempio di utilizzazione bellica della scienza. Già nella prima guerra mondiale gli studi scientifici permisero l’utilizzazione di carri armati e gas tossici. Durante la seconda guerra mondiale, nel Reich, Werner von Braun (1912-1977) ed altri scienziati svilupparono, per il governo tedesco, un programma di ricerche missilistiche che condusse alla produzione di bombe volanti (chiamate V1 e V2), impiegate nei bombardamenti su Londra. Non può non ricordarsi, a questo punto, come gli studi in questo settore scientifico portarono, dopo la guerra mondiale, tanto l’Urss che gli Stati Uniti alla costruzione e alla messa in orbita nello spazio extraterrestre di satelliti artificiali e all’esplorazione interplanetaria. Ciò pure in un quadro di rivalità tra loro ed anche a prescindere da diretti fini militari. E’ almeno da valorizzare, a questo punto, per l’importanza scientifica e simbolica, la discesa sul suolo della Luna, per la prima volta, di esseri umani, il 16 luglio 1969, con la missione dell’astronave americana Apollo 11. Va soprattutto sottolineata, nel quadro delle applicazioni militari della scienza, la nascita, nella seconda guerra mondiale, della bomba atomica. Sviluppando ricerche di fisica già avviate, vari scienziati, impauriti dalla possibilità dell’utilizzazione nazista dell’energia nucleare, collaborarono con il governo degli Stati Uniti per la costruzione dell’arma atomica. Tra questi scienziati vi fu anche l’italiano Enrico Fermi (1901-1954), che, sposato ad un’ebrea, abbandonò l’Italia dopo le leggi razziali. L’energia atomica ha, indubbiamente, aperto nuove prospettive, sia distruttive che di costruzione, al genere umano. Più in particolare, nel campo militare, fu raggiunta, una prima volta, la parità tra Stati Uniti ed Urss nel 1949, con lo scoppio della prima atomica sovietica. L’eccezionale potenziale distruttivo delle armi nucleari, tale poi da non permettere, sostanzialmente, vincitori, impose quello che fu detto “equilibrio del terrore” ed il carattere non direttamente bellico del contrasto tra Stati Uniti e Urss. Peraltro, il principio stesso dell’equilibrio del terrore impose anche una continua ricerca militare, al fine di evitare di essere superati dall’avversario. Appare da mettere subito in rilievo come l’aumento, nella seconda metà del secolo XX, di Stati in possesso di arsenali atomici abbia aumentato i rischi per la sicurezza del mondo. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 54- RIVOLUZIONE COMUNISTA IN CINA. DECOLONIZZAZIONE, MARXISMO E GUERRA FREDDA. ALTRI SVILUPPI DELLA GUERRA FREDDA. Considerando l’espansione coloniale europea in Asia, si è anche vista la situazione cinese fino all’abbattimento del potere imperiale. Si è visto come questa situazione fosse caratterizzata, pure dopo l’instaurazione della repubblica, da contrasti, sfruttamento, disordini. La Cina, inoltre, rimaneva nel mirino delle potenze estere, soggetta, tra l’altro, alla volontà espansionistica di quel Giappone che, dopo la prima guerra mondiale e la sconfitta della Germania, aveva occupato i possedimenti tedeschi nel territorio cinese. In questo stato di cose si ebbe, nel 1921, la fondazione del Partito Comunista Cinese. Tra i fondatori vi fu anche Mao Zedong (1893-1976). Può mettersi subito in rilievo come la tradizione contadina della Cina e la sostanziale mancanza di un proletariato industriale si ponessero in contrasto con la prospettiva marxista di una rivoluzione guidata dalla classe operaia. A questo proposito è da aggiungere, fin da ora, che il pensiero politico di Mao, nel compito della costruzione di una società socialista in Cina, abbia dovuto svilupparsi nel senso di una valorizzazione del potenziale rivoluzionario delle campagne. Anteriormente era stato fondato, ad opera di Sun Yat-sen (il primo presidente della Repubblica cinese) un partito di ispirazione nazionalista, detto Kuomintang. Anche per spinta della Terza Internazionale (riunione dei partiti comunisti) e dell’Unione Sovietica, P.C.C. (Partito Comunista Cinese) e Kuomintang diedero avvio ad un’alleanza. Peraltro, questa politica di alleanza venne spezzata dal Kuomintang, di cui era successivamente divenuto capo Chiang Kai-shek (1887-1975), dopo la morte di Sun Yat-sen. Le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek mirarono a togliere ogni influenza comunista dal Paese, anche eliminando fisicamente esponenti e seguaci del P.C.C., messo fuori legge. Dopo vari combattimenti, l’organizzazione militare comunista, l’Armata Rossa, messa in difficoltà dalle truppe nazionaliste, riuscì a sottrarsi all’annientamento, insieme con Mao e con gli altri esponenti del partito, attraverso una ritirata, nota come Lunga marcia, tra 1934 e 1935. Durante questa marcia si affermò ulteriormente l’autorità di Mao Zedong. Nel frattempo l’espansionismo giapponese verso la Cina si era sviluppato con l’occupazione della Manciuria, dove era stato costituito un regime collaborazionista retto dal deposto imperatore cinese P’u yi (1906-1967). Successivamente, e proprio partendo dalla Manciuria, il Giappone occupò vaste zone della Cina nord e centro-orientale. Venne occupata anche Pechino. Con la Lunga marcia l’Armata Rossa di Mao si era portata nel settentrione del Paese, nella zona di Yenan, in una prospettiva politica e militare non soltanto di sganciamento dall’offensiva del Kuomintang ma anche di lotta contro il Giappone. Come conseguenza dell’imperialismo giapponese e della sua aggressione al territorio cinese Chiang Kai-shek si trovò costretto all’accordo con i comunisti per la difesa del territorio e delle comuni esigenze nazionali. In seguito alla sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, la guerra civile tra i comunisti di Mao e il Kuomintang di Chiang Kai-shek riprese. L’Armata Rossa negli anni della guerra mondiale si era rafforzata, anche numericamente, in seguito alle esperienze di guerriglia contro l’esercito giapponese nella parte nord-orientale della Cina. Al contrario il governo nazionalista del Kuomintang era divenuto più debole a causa della sua inefficienza e della sua grave corruzione. La guerra civile cinese si concluse, nel 1949, con la vittoria di Mao Zedong. Chiang Kai-shek, sconfitto militarmente, costituì un governo nazionalista nell’isola di Taiwan. Il governo di Mao si pose di fronte ai drammatici problemi di una Cina sovrappopolata, non industrializzata, estremamente povera, con una serie di provvedimenti di ridistribuzione, prima, e, quindi, di collettivizzazione delle terre e di avviamento allo sviluppo industriale. Si è già avuto occasione di dire che la Cina di Mao ha avuto i caratteri di Stato ad economia socialista, con pianificazione economica. L’ascesa al potere del partito comunista in Cina ha avuto importanti riflessi sul piano internazionale. Da un lato, infatti, si è creata una prospettiva di alleanza tra il nuovo Stato comunista e l’Unione Sovietica. Da un altro lato, inoltre, la rivoluzione in Cina, con la presa del potere da parte di Mao Zedong, si è inserita nel generale processo di decolonizzazione registratosi dopo la seconda guerra mondiale. In un discorso più vasto, può anche dirsi come il modello rivoluzionario cinese e, maggiormente in generale, quello facente riferimento al pensiero di Marx siano stati tra i modelli presi come punti di riferimento per le lotte di liberazione dal colonialismo e per la ricerca e la richiesta, da parte dei popoli extraeuropei e non integrati nel mondo occidentale, di indipendenza e di dignità nazionale. In sintesi, abbiamo appena incontrato che il modello marxista sia stato uno dei punti di riferimento per le lotte di liberazione nazionale contro il colonialismo, e contro il razzismo ad esso legato. Va anche detto che l’Urss, nel quadro della guerra fredda, appoggiò non soltanto i movimenti marxisti ma anche altri movimenti di liberazione nazionale. In questo modo, il contrasto tra Stati Uniti e Urss, invece di scoppiare direttamente come guerra nucleare tra i due Stati e i loro blocchi di alleanze, si sviluppò anche, nel corso della seconda metà del secolo XX, nelle forme di un appoggio, dell’uno o dell’altro blocco, nei confronti dei contendenti di guerre locali, aventi la loro origine nelle lotte contro il colonialismo. Con la rivoluzione comunista in Cina, l’Asia orientale entrò pienamente nella guerra fredda. Così, non può non ricordarsi come il Giappone, uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, finisse con il trovarsi inquadrato nel sistema di alleanze americano. Ancora, in questo orizzonte si può inserire il sostegno statunitense al regime nazionalista di Chiang Kai-shek a Taiwan. Nell’ambito dell’Asia orientale può inoltre mettersi in rilievo la vicenda coreana. Si è già accennato come, dopo la caduta del Giappone e la fine dei combattimenti del secondo conflitto mondiale, la Corea fosse parzialmente occupata dall’Unione Sovietica. Si può ora aggiungere come un’altra parte della Corea entrasse sotto il controllo degli Stati Uniti. In seguito a queste vicende si poté registrare la nascita in territorio coreano di due Stati diversi, ancora attualmente esistenti: la Repubblica di Corea, con capitale Seoul, situata nel sud della penisola coreana, e inserita nella sfera di influenza americana; la Repubblica Democratica Popolare di Corea, con capitale Pyeongyang, nel nord, con un regime comunista. Va anche rilevato come la Corea fu teatro di un conflitto armato che rappresentò uno dei momenti intensi e drammatici della guerra fredda. Questo conflitto, iniziato, nel 1950, con l’attacco dell’esercito nordcoreano alla Corea del Sud, e concluso, con un armistizio, nel 1953, vide l’impegno delle forze armate statunitensi contro la Corea del Nord e contro la Cina comunista, alleata del regime di Pyeongyang. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 55- ALTRI SVILUPPI DELL’INTRECCIO TRA DECOLONIZZAZIONE E GUERRA FREDDA: GUERRA DEL VIETNAM. Considerando la guerra fredda abbiamo appena incontrato l’intreccio tra le lotte per la decolonizzazione e gli sviluppi della rivalità, politica e ideologica, degli Stati Uniti, insieme al blocco occidentale, e l’ Urss, insieme al blocco orientale. Si è, dunque, anche visto che movimenti marxisti ebbero grande importanza nella lotta di liberazione dal colonialismo di vari popoli non europei. Come esempio significativo di questa situazione si può pure ricordare, in Asia sud-orientale, il Vietnam. Già a suo tempo, guardando il colonialismo europeo in Asia, abbiamo trovato l’espansione della zona di influenza francese nella penisola indocinese (e, quindi, in Cambogia, nel Vietnam, nel Laos). Può ora ricordarsi come, invaso il Vietnam dal Giappone, nel periodo della seconda guerra mondiale, si sviluppò un movimento di resistenza vietnamita che, guidato dal comunista Nguyen Ai Quoc detto Ho Chi Minh (1890-1969), si pose come obiettivi la cacciata dell’esercito giapponese e l’indipendenza del Paese. Dopo la sconfitta del Giappone, al termine del secondo conflitto mondiale, il contrasto tra le aspirazioni del Vietnam all’indipendenza e la volontà della Francia di mantenere il proprio potere coloniale condusse ad una guerra di liberazione contro i francesi, cominciata nel 1946. Dopo vari anni di lotta, nel 1954, nella battaglia di Dien Bien Phu, le truppe vietnamite, guidate dal generale Vo Nguyen detto Giap, batterono la Francia. In seguito a questa battaglia, e successivamente alla Conferenza di Ginevra, si ebbe che: da un lato, il Vietnam si trovò diviso in due parti (una, a settentrione, comunista; l’altra, a sud, legata agli occidentali); da un altro lato, intervennero nella zona, al posto della Francia sconfitta, gli Stati Uniti, timorosi dell’ampliamento dell’influenza marxista in Asia. Il territorio vietnamita, diviso, come accennato, in due parti, ospitò, dunque, due Stati: Vietnam del Nord, comunista, con capitale Hanoi e Vietnam del Sud, sostenuto dagli Stati Uniti e dagli occidentali, con capitale Saigon. Nel sud operarono gruppi partigiani comunisti. Gli Stati Uniti si impegnarono a sostenere militarmente il regime di Saigon contro il Vietnam del Nord e contro i comunisti. A partire dal 1961, ci fu, negli anni, un crescendo dell’intervento militare americano. Hanoi e tutto il territorio del Vietnam del Nord divennero oggetto di pesanti bombardamenti aerei, che produssero moltissime distruzioni. Per impedire i movimenti dei partigiani filocomunisti (vietcong) nel Sud del Paese l’aviazione statunitense devastò le foreste vietnamite con bombe incendiarie e sostanze chimiche defolianti. Cina e Unione Sovietica rifornirono di armi il governo di Hanoi. Peraltro, il crescente impegno militare americano (accompagnato dall’aumento del numero dei soldati americani morti) se, da un lato, non riusciva a vincere la resistenza vietnamita, da un altro lato, faceva aumentare la condanna e il rifiuto della guerra da parte dell’opinione pubblica statunitense. Gli Stati Uniti, così, avviarono anche una politica di disimpegno, cercando un aumento del ruolo, nella guerra, delle truppe sud-vietnamite. Occorre comunque dire che sostanzialmente ritiratisi, con il 1973, gli americani, le truppe di Saigon vennero sconfitte. Così, nel 1975, il Vietnam fu unificato sotto il controllo di Hanoi. Saigon, la vecchia capitale del Vietnam del Sud, venne ribattezzata Ho Chi Min APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 56- QUADRO GENERALE DELLA DECOLONIZZAZIONE, TRA SITUAZIONE ECONOMICA MONDIALE E GUERRA FREDDA. INDIPENDENZA DELL’INDIA. MOVIMENTO DEI NON ALLINEATI. SVILUPPI DELLA DECOLONIZZAZIONE. Considerando le vicende storiche successive alla seconda guerra mondiale abbiamo subito incontrato una prima grande divisione: la divisione, in due blocchi, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con i loro rispettivi alleati. Si è anche accennato la forza ed il predominio economico assunto dagli Stati Uniti. Si può ancora considerare come la potenza statunitense, dopo la seconda guerra mondiale, sia diventata punto di riferimento essenziale nel quadro dell’intera economia capitalistica, su scala planetaria. Accanto al contrasto, finora trattato, fra Stati Uniti e Urss., dopo la guerra 1939-1945, trovò sviluppo un’altra forma di opposizione: quella tra Stati ricchi e industrializzati e Paesi non industrializzati, magari soggetti al dominio coloniale dei Paesi ricchi. I Paesi non industrializzati vengono anche compresi nella comune denominazione di Terzo mondo, o di Sud del mondo. Pare opportuno mettere in rilievo, fino da questo momento, come tra le origini dell’estrema povertà di questi Paesi, o, per lo meno, di alcuni di essi, possa anche esservi, in linea generale, un modello falsato di sviluppo. Vari studiosi, infatti, hanno ipotizzato che il tipo di sviluppo alla base della crescita e dell’arricchimento delle zone occidentali sia, per varie ragioni, quali l’impatto ambientale delle attività umane e l’esaurirsi delle risorse, non estensibile ad altre zone della Terra, e sia, anzi, tale da provocare ulteriore povertà. L’opposizione che stiamo vedendo adesso si sviluppò sempre più, dopo la fine della seconda guerra mondiale, come decolonizzazione, ossia come tentativo, da parte dei Paesi soggetti a dominio coloniale, di conquistare l’indipendenza e la libertà dagli Stati colonizzatori. Le radici di questo fenomeno sono varie. Vi sono, dunque, per esempio, ragioni economiche, legate agli sforzi di un popolo per non essere sfruttato e sottomesso alle necessità e alle convenienze economiche di uno Stato straniero. Ma vi sono pure ragioni culturali e ideali, quali quelle di una libera espressione e di un libero sviluppo dei popoli. Può forse dirsi che l’idea, in sé profondamente democratica, dell’autodeterminazione dei popoli rappresenta una linea di continuità che lega insieme fenomeni storici come i moti per l’indipendenza ed il Risorgimento italiano nel secolo XIX e, appunto, le lotte di liberazione nei Paesi colonizzati. Non può non accennarsi come in Europa, dopo la fine della guerra mondiale 1914-1918, si siano sviluppate lotte per l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna (indipendenza effettivamente acquistata nel 1921, ad eccezione della parte settentrionale dell’isola irlandese, rimasta con il Regno Unito). In precedenza abbiamo considerato l’influsso del modello marxista sugli sviluppi dei movimenti di liberazione nei Paesi non europei (vedi Vietnam). In India, nell’Asia meridionale, le lotte per l’indipendenza nazionale contro il dominio inglese assunsero una forma caratteristica ad opera di Mohandas Gandhi (1869-1948), chiamato Mahatma (che può tradursi con grande anima). Gandhi, dunque, anche traendo ispirazione dalla religione induista, basò, fin dagli anni ’10 del secolo XX, la lotta per l’indipendenza indiana sulla pratica di un concetto di non violenza, di ahimsa, rigorosamente rispettato. Attraverso la disobbedienza civile, il rifiuto delle merci inglesi e delle imposte inglesi Gandhi riuscì a portare il proprio Paese alla libertà. Così, con il 1947, acquistarono l’indipendenza l’India e il Pakistan, quest’ultimo abitato da musulmani. Va inoltre ricordato come vari Paesi, tra i quali molti importanti Stati già soggetti al dominio coloniale, di fronte alla guerra fredda e alla rivalità tra Stati Uniti e Urss, si accordarono tra loro, formando un movimento, detto dei non allineati. Tale movimento era interessato al superamento della divisione del Mondo nei due blocchi, americano e sovietico, e al rafforzamento delle posizioni dei Paesi usciti dalla dominazione coloniale; ciò attraverso una politica di neutralità, non schiacciata, dunque, sulle posizioni dell’uno o dell’altro blocco. Storici ed osservatori hanno potuto mettere in rilievo la presenza delle basi di questo movimento nella Conferenza di Bandung, in Indonesia, del 1955, sviluppate poi nella Conferenza di Belgrado, del 1961. Tra i Paesi fondatori si possono ricordare l’India e la Iugoslavia. Tito, come visto al potere in Iugoslavia dopo la vittoria della guerra partigiana contro i nazisti, voleva costruire uno Stato socialista libero dai condizionamenti imposti dall’Urss. Peraltro, va detto che, nel quadro dei Paesi del movimento dei non allineati, si siano anche avute posizioni sostenenti il carattere naturale di un’alleanza con il blocco socialista. Davanti alle esigenze di autodeterminazione e di indipendenza espresse dai popoli colonizzati gli Stati colonizzatori adottarono vari tipi di risposte. Vi furono così atteggiamenti di repressione che diedero il via a sanguinosi conflitti. Peraltro, ci furono anche atteggiamenti diversi che, causati dalla comprensione dell’inevitabilità del fenomeno della decolonizzazione, furono volti a non tagliare tutti i rapporti con i territori colonizzati, allo scopo di mantenere un’influenza economica e politica sulle ex colonie. In questo orizzonte si è parlato anche di un fenomeno di neocolonialismo, quando, di fronte all’impostazione delle attività economiche nei territori già occupati avviata con la colonizzazione e, magari, pure per la corruzione dei nuovi gruppi dirigenti degli Stati divenuti indipendenti, gli Stati già colonizzatori continuano, di fatto, a mantenere una forte, e sostanziale, influenza nelle ex colonie. In un discorso sulla decolonizzazione, non può non ricordarsi come l’Inghilterra, posta davanti alle esigenze e alle richieste di autodeterminazione dei Paesi colonizzati, abbia anche risposto concedendo l’indipendenza e tendendo ad organizzare i nuovi Stati indipendenti in una Comunità, detta Commonwealth. Così acquistano la piena indipendenza, ed entrano nel Commonwealth, già con il 1931, il Canada, nell’America settentrionale, l’Australia, la Repubblica Sudafricana. Lo sviluppo internazionale dei movimenti di indipendenza trovò un rafforzamento, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, nel continente africano. Così, va segnalata nell’Africa settentrionale almeno la lunga guerra di liberazione combattuta in Algeria, tra il 1954 e il 1962, contro l’occupazione francese. Marocco e Tunisia ebbero, invece, la loro indipendenza dalla Francia nel 1956. Nell’ambito dell’Africa nera, i territori coloniali belgi e francesi del Congo trovarono la propria indipendenza nel 1960. La colonia del Congo belga divenne Repubblica democratica del Congo (tra il 1971 ed il 1997 lo Stato si chiamò Zaire), con capitale Kinshasa. Il Congo francese divenne Repubblica popolare del Congo, con capitale Brazzaville. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011-2012. Prof. Frontini 57- VICENDE ITALIANE DAL 1948 ALLO STATUTO DEI LAVORATORI. In Italia, se nella preparazione della nuova Costituzione poté funzionare un valido accordo tra i partiti della sinistra e la Democrazia cristiana, successivamente, con l’influsso della situazione internazionale della guerra fredda e con la vittoria del partito cristiano alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 (con il 48,5% dei voti), si avviò una stagione politica centrista. In questo contesto ebbe inizio, dal punto di vista dell’economia, un’opera di ricostruzione. Questa politica di ripresa economica ebbe un grande successo. Basi principali furono: una notevole disoccupazione, un basso livello di salari, uno scarso potere delle organizzazioni sindacali. Proprio per effetto di questi fattori gli industriali si sentirono invogliati a investire nella produzione. Va ancora ricordato come storici ed economisti sottolineino il dato di un orientamento della produzione italiana verso la valorizzazione delle esportazioni. Lo sviluppo partito da queste premesse condusse ad una significativa crescita dell’economia italiana. Soprattutto per il periodo 1958-1963 si parla anche di boom e di miracolo economico. Vennero incentivati i consumi di massa. In questo quadro si può citare l’importante esempio della politica della Fiat tesa a sviluppare il mercato con la produzione di automobili utilitarie. Si diffusero, inoltre, televisori, frigoriferi ed altri elettrodomestici. Intrecciate alle conseguenze più specificamente economiche, vi furono anche grandi e varie conseguenze sociali. A questo proposito è, almeno, da richiamare lo spostamento dei lavoratori dalle regioni meridionali alle grandi fabbriche nel Nord del Paese. Il modello stesso di sviluppo adottato (pur produttivo di un accrescimento della ricchezza) e le sue conseguenze sociali presentavano varie contraddizioni e aspetti negativi. Ciò ebbe influenza anche sullo svolgimento delle vicende politiche. Le necessità della vita economica e le stesse trasformazioni sociali causavano l’esigenza di una trasformazione della rappresentanza governativa. In questo senso si passò pure da un tipo di governo centrista (Democrazia cristiana e suoi alleati di centro) a uno di centro-sinistra (con l’accordo e, poi, con l’intervento del Partito socialista). In questo orizzonte si avviò una politica di riforme: la nazionalizzazione dell’industria elettrica (con la creazione dell’Enel, Ente nazionale per l’energia elettrica); l’obbligo scolastico portato sino ai 14 anni. Gli storici hanno messo in rilievo come, tuttavia, esistesse nel Paese una radicalizzazione di posizioni e un’esigenza di rinnovamento che veniva portata avanti solo insufficientemente dalla politica dei partiti. Ciò diede origine ad una serie di manifestazioni e di contestazioni, da parte di studenti e lavoratori, che si svilupparono soprattutto tra il 1967 e il 1969. Tutto questo, tra l’altro, in un quadro generale di contestazione che si esprimeva nei più diversi punti del pianeta (così, ad esempio, negli Stati Uniti, contro la guerra del Vietnam e contro la discriminazione razziale). Occorre ricordare come, in tale quadro di contestazione, si congiungessero insieme esigenze di riorganizzazione culturale e scolastica (rappresentate dall’occupazione delle facoltà universitarie da parte degli studenti) ed esigenze di una maggiore giustizia e di una maggiore democrazia nel mondo del lavoro. Dal punto di vista del lavoro, già con la legge 15 luglio 1966, n. 604, si era superata la libertà incondizionata del datore di lavoro di licenziare il lavoratore. Così, per l’articolo 1 di tale legge: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato… il licenziamento del” lavoratore “… non può avvenire che per giusta causa… o per giustificato motivo”. Per l’articolo 3 della stessa legge: “Il licenziamento per giustificato motivo… è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del” lavoratore oppure “… da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ad esempio soppressione del posto di lavoro per l’introduzione in fabbrica di nuovi macchinari. Con “giusta causa” si intende un inadempimento dei doveri del lavoratore ancora più grave di quello al quale fa riferimento l’articolo 3 della legge, appena visto. Gli scioperi e le contestazioni avvenuti tra il 1967 e il 1969 portarono ad un nuovo rafforzamento dei diritti dei dipendenti delle fabbriche, espresso nella legge 20 maggio 1970, n. 300, detta pure Statuto dei lavoratori. Tale legge porta un titolo significativo: Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Con essa, tra l’altro, si cerca di dare più completa attuazione al comma 1 dell’articolo 39 della Costituzione. Con riguardo al licenziamento del dipendente l’articolo 18 della legge n. 300, nel testo del 1970, stabilisce: “… il giudice, con la sentenza con cui… annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo… , ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. APPUNTI DI STORIA a.s. 2011/2012. Prof. Frontini 58- SVILUPPI DELLA SITUAZIONE MONDIALE. AMERICA LATINA E STATI UNITI. RIVOLUZIONE A CUBA. SVILUPPI DEL MOVIMENTO COMUNISTA. VICENDE DELL’URSS FINO ALLA SUA DISSOLUZIONE. L’opera di ricerca dell’indipendenza, giuridica e sostanziale, che ha spinto le varie vicende della decolonizzazione nei Paesi che abbiamo visto, ha avuto sviluppi anche nel continente americano. Va ricordato che, in questo continente, la grande crescita economica e politica statunitense ha prodotto il predominio di questo Paese anche sugli Stati dell’America latina. Abbiamo già visto, seguendo il secolo XIX, la cosiddetta dottrina di Monroe, per la quale l’America latina, appunto, rientrava nella sfera di interesse degli Stati Uniti. Successivamente si è considerata la sconfitta subita dalla Spagna nella guerra con la nuova potenza statunitense. Il predominio degli USA (United States of America), economico e politico, ma anche militare, sopra la zona dell’America latina si è pure espresso con l’appoggio a varie dittature che favorivano gli interessi economici e strategici della potenza nordamericana. Si può ricordare, tra l’altro, il Nicaragua, retto, dal 1936, dalla famiglia Somoza (il cui regime fu abbattuto da una rivoluzione popolare nel 1979). E’ anche da richiamare l’aiuto statunitense al colpo di stato militare in seguito al quale venne rovesciato e morì, il giorno 11 settembre 1973, il presidente del Cile Salvador Allende Gossens (1908-1973), democraticamente eletto, che aveva formato un governo di sinistra. Questa situazione generale di forte ingerenza da parte degli Stati Uniti negli affari degli altri Paesi, al fine del proprio vantaggio economico e politico, portò anche ad un forte sentimento antistatunitense nonché a rivolte e rivoluzioni contro i regimi dittatoriali e corrotti appoggiati dagli USA. E’ esempio classico il moto rivoluzionario a Cuba che, nel 1959, scacciato il dittatore Fulgencio Batista (1901-1973), strettamente legato agli interessi statunitensi, condusse al potere Fidel Castro (nato nel 1928). Il movimento rivoluzionario cubano finì con l’avvicinarsi sempre più all’Urss, anche dopo un tentativo degli anticastristi di prendere il potere, con l’aiuto degli Stati Uniti, nell’aprile del 1961. Entro questo quadro è importante ricordare che, nel 1962, Castro ospitò a Cuba missili sovietici. Va detto che l’installazione di tali missili e la reazione statunitense costituì uno dei più pericolosi momenti di crisi della guerra fredda. Questo momento di crisi si risolse con il ritiro dei missili da parte dell’Unione Sovietica. Si deve sottolineare il ruolo mondiale degli Stati Uniti nella guerra fredda (espresso, ad esempio, anche nel Vietnam) e, parallelamente, si deve mettere in rilievo la presenza, negli stessi USA, di vari problemi di povertà e di insufficiente sviluppo democratico, collegato, ad esempio, alle discriminazioni razziali. E’ ancora da notare come con le presidenze di John Fitzgerald Kennedy (1917-1963, presidente dal 1960 alla morte) e del suo successore Lyndon Johnson (1908-1973, presidente dal 1963 al 1968) si tentò di avviare una politica di riduzione delle disuguaglianze (cosiddetta nuova frontiera) e, nello stesso tempo, si condusse il Paese ad un pesante coinvolgimento militare in Vietnam. Il contrasto tra Stati Uniti ed Urss, che caratterizzò la seconda metà del secolo XX, finì con il far pesare sull’Unione Sovietica spese militari molto forti. La struttura dello Stato sovietico, come già considerato, non era democratica. Se con Nikita Sergeevich Chruscev (nato nel 1894, segretario del Partito comunista dal 1953 al 1964, morto nel 1971) si avviò una politica di denuncia di errori e crimini di Stalin (la cosiddetta destalinizzazione) e di una certa liberalizzazione (che, in alcuni aspetti, coinvolse anche la politica estera con la prospettiva della coesistenza pacifica e della distensione), tuttavia queste aperture non poterono essere tali da garantire un concreto cambiamento del sistema. Con Leonid Ilich Breznev (nato nel 1906, segretario del Partito comunista dal 1964, morto nel 1982) si svilupparono lati negativi e difficoltà, sia nel campo economico (dove, fra l’altro, la produzione di beni di consumo rimaneva insufficiente rispetto alla domanda) che nel campo politico. Gli Stati coinvolti nella sfera di influenza sovietica erano, anche essi, privi di una reale completa vita democratica. La repressione, da parte di truppe dell’Urss, della rivolta antisovietica in Ungheria nel 1956 e la nascita, nel 1980, in Polonia, del sindacato autonomo Solidarnosc sono due esempi possibili delle tensioni all’interno del blocco capeggiato dall’Unione Sovietica. Si può inoltre aggiungere la repressione, in Cecoslovacchia, nel 1968, sempre da parte di truppe dell’Urss, della politica di riforme e di ampliamento dei diritti dei cittadini (cosiddetta primavera di Praga) guidata dal segretario del Partito comunista Alexander Dubcek (1921-1992). E’ ancora da sottolineare la perdita del ruolo guida avuto dall’Unione Sovietica, e dal suo Partito comunista, nei confronti del movimento comunista mondiale. Già ai tempi di Stalin si era prodotto un forte contrasto e una separazione rispetto all’Urss da parte della Iugoslavia di Tito. Fondamentalmente la pretesa di supremazia dell’Unione Sovietica, anche come Stato, era tale da fornire notevoli motivi di disaccordo all’interno del mondo comunista, specialmente rispetto a Paesi, come soprattutto la Cina, che, per caratteristiche e forze potenziali, potevano, essi stessi, aspirare ad una posizione di guida. In questo orizzonte di contrasto politico sempre più duro si possono pure ricordare brevi scontri armati tra Urss e Cina, nel 1969, al confine russo-cinese del fiume Ussuri, per divergenze territoriali. All’interno dell’evoluzione del movimento comunista mondiale, in Europa, una forte critica alla tesi della supremazia sovietica venne portata avanti con la linea politica dell’Eurocomunismo, in un’ottica di accettazione e sviluppo dei principi democratici. Importante sostenitore di questa linea politica fu il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer (1922-1984). In Urss, dopo quella che è stata chiamata era Breznev (con l’immobilismo che, per molti aspetti l’ha caratterizzata), Michail Sergeevic Gorbaciov (nato nel 1931), divenuto segretario del Partito comunista nel 1985, cominciò una complessa operazione politica, tesa a rianimare e a rinforzare la struttura sovietica, rimanendo nel quadro del socialismo. Per quel che riguarda i rapporti con l’estero Gorbaciov imboccò una direzione volta all’accordo con l’America per la fine della corsa agli armamenti. Nello sviluppo generale della linea politica della nuova dirigenza sovietica gli Stati del blocco orientale acquistarono sempre più autonomia (mano mano che si allontanava la possibilità di un intervento repressivo dell’Urss). In questo contesto si pone bene, nel 1989, la caduta del muro di Berlino con la riunificazione, nel 1990, delle due Germanie, orientale e occidentale, in un unico Stato tedesco. Il centro della politica di Gorbaciov era la più razionale distribuzione e utilizzazione delle risorse, comprese quelle in passato dedicate agli scopi militari, nel quadro di una riorganizzazione generale dello Stato (chiamata Perestrojka). Le resistenze della burocrazia, l’ampliarsi ed aggravarsi dei contrasti tra le etnie dell’Urss furono due tra le cause che portarono al fallimento del disegno di Gorbaciov. L’Unione Sovietica stessa cessò di esistere, nel 1991, dividendosi in una serie di Stati indipendenti (tra i quali la Russia, l’Ucraina, la Bielorussia). Questi Stati trovarono una forma di associazione tra loro in un’organizzazione detta Comunità di Stati Indipendenti (CSI). In Cina, dopo la morte di Mao (1976), prese il potere Deng Xiaoping (1904-1997), un altro dirigente del P.c.c. Con Deng si avviò una linea politica che tuttora guida il Paese: da una parte, il Partito comunista conserva immutati il proprio predominio e i propri privilegi; da un’altra parte, si inseriscono sempre di più elementi di economia privata, tenuti sotto il controllo del partito (cosiddetta economia socialista di mercato). APPUNTI DI STORIA Prof. Frontini a.s. 2011-2012. 59- VICENDE DEGLI STATI UNITI: INTEGRAZIONE DISUGUAGLIANZE. ATTACCO CONTRO LE TORRI GEMELLE. RAZZIALE E Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti apparvero l’unica Superpotenza (per forza politica, economica e militare) del pianeta. Tra gli studiosi non soltanto si valorizzò il successo del modello economico-sociale statunitense ma vi fu, addirittura, chi, già nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino, parlò di “fine della storia” (così Francis Fukuyama, un economista americano), intendendo sottolineare la sostanziale vittoria dell’economia capitalistica e, collegati a questa vittoria, il superamento dei vecchi scontri tra Stati e tra etnie e la crescente diffusione del modello politico-economico statunitense. In realtà il mondo successivo alla dissoluzione dell’Urss si rivelò più che mai pieno di motivi di crisi, di scontri e di contraddizioni. Come visto, la stessa potenza statunitense ha storicamente sviluppato, al suo interno, vari problemi e varie violazioni del fondamentale principio democratico dell’uguaglianza. Così si può subito pensare al percorso storico dell’integrazione razziale delle minoranze etniche. Si può ricordare, in tal proposito, come, ancora negli anni cinquanta del secolo XX, gli afroamericani subissero una politica di separazione e di persecuzione razziale che, tra l’altro, impediva ai neri, considerati inferiori, di accedere alle stesse scuole e agli stessi posti, nei mezzi di trasporto pubblico, dei bianchi. Da una parte si deve sottolineare il progressivo cammino, nella storia, dell’integrazione razziale negli Stati Uniti. Un cammino segnato anche dall’opera di uomini come il reverendo Martin Luther King (nato nel 1929, morto assassinato nel 1968), che, ispirato dagli ideali di non violenza di Gandhi, si batté per i diritti civili, contribuendo anche a organizzare la grande marcia svoltasi a Washington nel 1963 (in cui pronunciò un famoso discorso, che iniziava: “I have a dream”). Un cammino, ancora, che ha trovato notevoli progressi, testimoniati in modo chiaro dall’elezione a presidente del Paese, nel 2008, dell’afroamericano Obama. Da un’altra parte, considerando gli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica, storici ed economisti hanno anche potuto rilevare forti sacche di povertà ed un crescente indebitamento delle famiglie, finanziato dalle banche. L’aumento dell’attività economica basato sull’indebitamento, l’illusione di un maggiore guadagno non ricavato direttamente dalla produzione ma dalle operazioni sul prestito sono fenomeni, collegati, che hanno condotto ad una forte crisi, partita nel 2007 dagli Stati Uniti, sviluppatasi internazionalmente e tuttora in corso. In un discorso più vasto, alcuni hanno potuto vedere all’opera, nell’economia globale e non solo negli USA, un ricorrente meccanismo di sovrapproduzione (già da noi incontrato, consistente nel divario tra possibilità sociali di acquisto di una merce e offerta, da parte dei produttori, di quella merce). Le ragioni di crisi che riguardano l’economia si accompagnano e si legano strettamente ad altre ragioni. Così, contro la supremazia degli Stati Uniti e lo svolgersi dei loro interessi nel mondo nascono e si sviluppano nuove forme di azione e nuovi soggetti. Questi soggetti partono dalla base etica e culturale dell’estremismo islamico e tendono a differenziarsi dalle consuete forme di Stato e di alleanza di Stati per assumere le caratteristiche sfuggenti della rete di Al Qaeda. La loro forma di azione rappresenta lo sviluppo dell’attentato terroristico. In questo contesto storico e culturale si realizzano una serie di attacchi in America con aerei che, sequestrati da terroristi suicidi, vengono mandati a schiantarsi, con i loro passeggeri, contro le Torri gemelle del World Trade Center di New York e contro il Pentagono (ministero della difesa) presso Washington, nella mattina del giorno 11 settembre 2001. Gli Stati Uniti del presidente Gorge Bush junior, collegati con vari Stati, attaccano e occupano l’Afghanistan, che aveva dato rifugio ad Al Qaeda e al suo capo Osama Bin Laden. Si sviluppa in tal modo una guerra contro il terrorismo che gli Stati Uniti dichiarano di voler combattere anche con azioni preventive. In questo contesto, nel 2003, si dà il via ad un secondo e definitivo attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq, accusato di collegamenti con Al Qaeda, già sconfitto nel 1991, dopo l’occupazione irachena del territorio del vicino Kuwait.