UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Corso di Laurea magistrale in Biologia La sindrome di Rett, un paradigma dell'importanza della metilazione del DNA per un corretto funzionamento del Sistema Nervoso Centrale BAGNARESI Eleonora Matricola: 055177 1 SOMMARIO 1. LA SINDROME DI RETT ....................................................................................................................................... 3 1.1. NEUROFISIOLOGIA E NEUROPATOLOGIA ................................................................................................................. 4 2. ASPETTI GENETICI DELLA SINDROME DI RETT.......................................................................................... 4 2.1. MAPPAGGIO DEL GENE MUTATO ............................................................................................................................ 4 2.2. MUTAZIONI DEL GENE MECP2 NELLA FORMA CLASSICA DELLA SINDROME DI RETT............................................ 6 2.3. MUTAZIONI DEL GENE MECP2 NELLE FORME VARIANTI DELLA SINDROME DI RETT ............................................. 7 2.4. ORIGINI DELLE MUTAZIONI IN MECP2 .................................................................................................................... 7 2.5. EFFETTI DELL’INATTIVAZIONE DEL CROMOSOMA X ................................................................................................ 8 2.6. MUTAZIONI RTT NEI MASCHI .................................................................................................................................. 8 2.7. CORRELAZIONE GENOTIPO-FENOTIPO ................................................................................................................... 9 3. FUNZIONE DI MECP2 ................................................................................................................................................ 9 3.1. METILAZIONE DEL DNA ........................................................................................................................................ 11 3.2. METHYL-CPG-BINDING PROTEINS ...................................................................................................................... 12 3.3. PATTERN DI ESPRESSIONE DI MECP2 ................................................................................................................. 13 4. MODELLI MURINI DELLA SINDROME DI RETT................................................................................................. 15 5. RUOLO DELLA METILAZIONE DEL DNA NELLE FUNZIONI NEURONALI .................................................. 16 6. REVERSIBILITÀ DEI DIFETTI NEUROLOGICI IN UN MODELLO MURINO DELLA SINDROME DI RETT (DALL’ARTICOLO DI ADRIAN BIRD 2007) ............................................................................................................... 17 7. LA SINDROME DI RETT È UNA MALATTIA MONOGENICA? ......................................................................... 19 8. CDKL5 APPARTIENE ALLO STESSO PATHWAY MOLECOLARE DI MECP2 ED È RESPONSABILE DELLA VARIANTE DELLA SINDROME DI RETT CON ATTACCHI PRECOCI .................................................. 20 8.1. PATTERN DI ESPRESSIONE DI MECP2 E CDKL5 ................................................................................................ 20 8.2. MECP2 E CDKL5 INTERAGISCONO DIRETTAMENTE IN VIVO E IN VITRO ............................................................. 21 8.3. CDKL5 È UNA CHINASI CHE MEDIA LA FOSFORILAZIONE DI MECP2 ................................................................... 22 9. PERCHÈ È IMPORTANTE MECP2........................................................................................................................ 23 10. PROSPETTIVE FUTURE DI RICERCA............................................................................................................... 26 11. LE NUOVE FRONTIERE DELL’EPIGENETICA ................................................................................................. 27 2 1. La sindrome di Rett La sindrome di Rett (RTT) è una patologia che interessa prevalentemente le femmine e ha un'incidenza di circa 1/15000 affetti in tutto il mondo (Hagberg, 1985). La forma classica della patologia segue alcune tappe distinte nel corso dello sviluppo; le bambine affette nascono in salute e hanno uno sviluppo apparentemente normale fino ai 6-10 mesi, sviluppando le abilità fondamentali come il linguaggio e l’abilità motoria. Questo sviluppo neurologico successivamente si arresta e comincia a regredire secondo un pattern che comprende approssimativamente quattro stadi (Hagberg e Witt-Engerstrom, 1986). Durante il primo stadio (6-10 mesi) le bambine cessano di acquisire qualunque capacità e sovente mostrano tratti autistici. Nella seconda fase (1-4 anni) incominciano a perdere le abilità acquisite come il linguaggio e l’uso corretto delle mani; mostrano disturbi respiratori, perdita d'interesse per l’ambiente circostante e contorsioni delle mani stereotipate. Al terzo stadio (4-7 anni) avviene una stabilizzazione dei sintomi, poichè la perdita delle abilità si arresta ad un certo punto; le bambine possono imparare a comunicare usando gli occhi, ma hanno grossi impedimenti motori e soventi attacchi epilettici. Gli attacchi diventano meno frequenti allo stadio quattro (5-15 anni e oltre), ma il peggioramento a livello motorio continua; si osserva ipoattività e comparsa di difetti alla colonna vertebrale, come la scoliosi, che spesso confinano il soggetto sulla sedia a rotelle. Figura 1 Fenotipo classico di bambine affette dalla sindrome di Rett. Oltre alle forme classiche della sindrome, sono state delineate altre cinque categorie di casi atipici, sulla base di criteri patologici. Queste varianti hanno i tratti base della forma classica, ma possono essere più o meno severi. Le varianti meno severe includono la 3 forme fruste, la variante con regressione ritardata e quella con il mantenimento dell’abilità linguistica; quelle più severe includono la forma congenita e la variante con precoce comparsa di attacchi. 1.1. neurofisiologia e neuropatologia L’elettroencefalogramma (ECG) è tipicamente normale fino ai 3 anni, dopodichè inizia un rallentamento dell’attività che si acuisce progressivamente fino ai 10 anni; da qui, l’attività continua ad essere rallentata, ma le scariche dell’ECG sono ridotte in frequenza e durata, consistentemente con la fase di diminuzione degli attacchi epilettici. Studi postmortem hanno evidenziato una diminuzione del 14%-34% del peso del cervello nei pazienti con sindrome di Rett rispetto ad un cervello normale (Jellinger e Seitelberger, 1986). A causa della regressione nello sviluppo, la sindrome di Rett è stata inizialmente classificata come una malattia neurodegenerativa, tuttavia, alla luce delle nuove scoperte, sarebbe meglio parlare di arresto dello sviluppo neuronale (Armstrong, 2001).I malati ad un certo punto non riescono più ad apprendere e ad interagire con l’esterno proprio nel momento in cui la plasticità neuronale dovrebbe essere massima. Dall’esterno il fenotipo è interpretabile come una regressione poiché il paziente perde contatto con l’esterno, ma a livello neuronale non si osserva inizialmente una degenerazione del calibro atteso se fosse una malattia neurodegenerativa, poiché non sono stati trovati segni di morte cellulare. Il danneggiamento dello sviluppo neuronale è stato suggerito inizialmente dall’osservazione che i dendriti dei neuroni piramidali della corteccia frontale e della corteccia motoria fossero ridotti in lunghezza e complessità, in aggiunta ad una riduzione del numero di spine dendritiche (Belichenko et al., 1994). Altri studi hanno mostrato come i neuroni della corteccia celebrale, i gangli della base, il talamo, l’ippocampo, l’amigdala e la sostanza nigra fossero più piccoli del normale (Bauman et al., 1995). 2. Aspetti genetici della sindrome di Rett 2.1. Mappaggio del gene mutato Il modello di ereditarietà della sindrome di Rett è stato difficile da capire, a causa della bassa incidenza dei casi familiari della sindrome e poiché raramente gli individui affetti si 4 riproducevano. Comunque, la pressoché assenza di maschi malati e la presenza di famiglie con sorellastre affette (cioè con la madre portatrice in comune), ha suggerito un pattern di ereditarietà X-linked dominante con letalità maschile (Hagberg et al., 1983). Consistentemente con una mutazione X-linked, analisi sulle famiglie disponibili hanno rivelato che l’ereditarietà attraverso la linea materna è comune (Zoghbi, 1988). Inoltre, in famiglie in cui la madre era un portatore obbligato, studi sull’inattivazione del cromosoma X hanno rivelato un pattern di inattivazione non casuale nella madre non affetta, mostrando che possono esistere fenotipi lievi o addirittura normali di femmine portatrici a seguito dell’inattivazione predominante dell’allele mutato. Per quanto riguarda i maschi, qualche dato per l’aspetto della letalità maschile dell’ipotesi X-linked è stato fornito da maschi nati in famiglie con RTT, i quali mostravano encefalopatia neonatale con ipotonia, attacchi epilettici, apnea e morte infantile (Ruch et al., 1989). L’identificazione di maschi con un cromosoma X in più (47,XXY) con gli stessi sintomi della RTT è anch’essa compatibile con l’ereditarietà X-linked, poiché il cromosoma in più è in grado di mitigare gli effetti dell’X mutato proprio come nelle femmine. Analisi di linkage su tutto il genoma non sono state possibili nella RTT a causa della rarità dei casi familiari e la mancanza pressochè totale di trasmissione verticale; pertanto è stata effettuato un approcio mirato di exclusion-mapping sulla base dell’ipotesi della mutazione X-linked (Archidiacono et al., 1991;Sirianni et al.,1998). Esso ha portato all’esclusione di gran parte del cromosoma X, lasciando solo la regione distale a Xq27.3. A questo punto, sfruttando la tradizionale analisi di linkage con le poche famiglie a disposizione con RTT ricorrente, si è trovato un linkage tra i marker di questa regione, con un picco di LOD score di 2.9 (Sirianni et al., 1998). Figura 2 Analisi di linkage multipoint combinata per 5 famiglie con sindrome di Rett che mostra evidenze di linkage statisticamente positive (Z=2.9 a frazione di ricombinazione pari a zero, freccia blu) nella regione Xq28 (Sirianni et al., 1998). 5 Sono stati analizzati i geni presenti in questa zona che avessero un coinvolgimento con il sistema nervoso centrale, allo scopo di identificare la mutazione e, alla fine, questa è stata identificata nel gene MeCP2, un repressore trascrizionale largamente espresso (Amir et al., 1999). MeCP2 era stato precedentemente mappato nell’uomo nella regione Xq28 e si era scoperto essere soggetto all’inattivazione dell’X (Quaderi et al., 1994). Figura 3 Schematica rappresentazione del cromosoma X e dei loci coinvolti in diverse sindromi. La freccia blu indica il locus Xq28, responsabile della sindrome di Rett 2.2. Mutazioni del gene MeCP2 nella forma classica della sindrome di Rett I dati ottenuti da molti laboratori hanno dimostrato che le mutazioni a carico di MeCP2 rappresentano la causa primaria della sindrome di Rett, poichè le mutazioni sono state trovate nel 70%-90% di casi sporadici e nel 50% dei casi familiari (Shahbazian e Zoghbi, 2001). Figura 4 Rappresentazione del gene MeCP2 con i suoi domini MBD e TRD; per ogni punto nel gene è rappresentata la frequenza delle mutazioni osservate. 6 Solamente la regione codificante è stata analizzata, tuttavia potrebbero esistere tutta una serie di mutazioni negli elementi regolatori che potrebbero spiegare quei casi in cui non sono state trovate mutazioni. Consistentemente con la grossa frequenza di mutazioni (transizioni) C→T al 5’-CG-3’ (CpG) in altre patologie genetiche, probabilmente causate dalla deaminazione spontanea di residui di citosina metilati (Cooper e Youssoufian, 1988), circa il 70% delle mutazioni individuate sono transizioni C→T che coinvolgono solo otto differenti dinucleotidi CpG nel gene MeCP2 (Lee et al., 2001). 2.3. Mutazioni del gene MeCP2 nelle forme varianti della sindrome di Rett Come già detto sopra, esistono diverse varianti eziologiche del classico fenotipo RTT, che già di per sè è estremamente complesso e variabile. Alcuni studi indicano come la maggior parte delle femmine della variante che preserva il linguaggio, hanno mutazioni in MeCP2 (De Bona et al., 2000). Mutazioni in MeCP2 sono state rinvenute anche in una frazione (20%-40%) di pazienti con altre varianti, inclusa la forme fruste e quella congenita (Buyse et al., 2000). La bassa percentuale di mutazioni in MeCP2 identificate in pazienti con RTT atipica può significare che le forme variabili della sindrome di Rett sono più frequentemente associate con mutazioni negli elementi regolatori di MeCP2 rispetto alla forma classica. 2.4. Origini delle mutazioni in MeCP2 In seguito all’osservazione che, in molti casi, mutazioni trovate nei casi sporadici (non familiari) non sono presenti nelle cellule somatiche di nessun genitore, (Amir et al., 1999) si è potuto dedurre che la maggior parte delle mutazioni ha origine de novo, generalmente negli spermatozoi. Dal momento che mutazioni sul cromosoma X paterno vengono ereditate dalle femmine ma non dai maschi, alcuni hanno proposto un alto rapporto padre:madre di mutazioni de novo per spiegare la bassa incidenza di maschi affetti (Thomas, 1996). Questa ipotesi si è rivelata corretta: analisi sugli aplotipi hanno mostrato che più del 95% delle mutazioni di MeCP2 originano sul cromosoma paterno (Girard et al.,2001). L’alto livello di metilazione nelle cellule germinali maschili nei primi stadi della gametogenesi, oltre al gran numero di divisioni mitotiche nella linea germinale maschile, potrebbero spiegare questo pattern di mutazioni sesso-speifiche. 7 2.5. Effetti dell’inattivazione del cromosoma X Per spiegare la presenza di femmine portatrici non affette in famiglie con RTT ricorrente, è stato ipotizzato un pattern di inattivazione non casuale dell’X (Zoghbi et al., 1990). In supporto a questa idea, l’inattivazione non casuale dell’X è stata osservata in femmine che portavano mutazioni causanti RTT, ma erano asintomatiche o soffrivano di una forma molto lieve (Wan et al., 1999). Sebbene si possa pensare che cellule portanti la forma mutante di MeCP2 abbiano qualche svantaggio nella crescita e siano dunque contro selezionate, questo non sembra essere il caso: la stessa mutazione è presente nelle femmine portatrici e nelle loro figlie affette. Infatti, la maggior parte delle femmine affette hanno un pattern di inattivazione dell’X bilanciato. Perciò, probabilmente, l’inattivazione preferenziale dell’allele mutato potrebbe essere dovuto al caso. 2.6. Mutazioni RTT nei maschi Le analisi mutazionali sul gene MeCP2 hanno evidenziato portato alla luce una nuova questione, cioè se i maschi che sviluppavano encefalopatie neonatali nel corso dello sviluppo e che morivano intorno ai due anni, soffrissero delle conseguenze di mutazioni in MeCP2. Infatti, le stesse mutazioni che sono presenti nelle loro sorelle con forma classica di Rett, dimostrano essere la causa della malattia in questi ragazzi (Wan et al., 1999). Maschi portatori di mutazioni in MeCP2 che nelle femmine porterebbero ad un fenotipo lieve, possono sopravvivere al periodo neonatale, ma poi sviluppano un severo ritardo mentale, associato ad anomalie motorie gravi. Un caso contrario a questo mostra che ci sono diversi casi di maschi con mutazioni in MeCP2 che dovrebbero causare Rett, che effettivamente sviluppano il fenotipo Rett classico e non una forma aggravata; in questi casi potrebbero essere presenti dei modificatori, per esempio un mosaicismo somatico per la mutazione o un cariotipo causante la sindrome di Klinefelter (47, XXY) (Armstrong et al., 2001). In questa situazione, gli effetti di una mutazione in MeCP2 in un maschio è mitigata nello stesso modo in cui lo è nelle femmine, cioè dal fatto che solo una frazione di cellule esprime l’allele mutante di MeCP2. Inoltre, recentemente, è emerso che anche la quantità e non solo la qualità della proteina MeCP2 deve essere finemente controllata: troppa o troppo poca proteina sono ugualmente responsabili di anomalie neuronali. 8 2.7. Correlazione genotipo-fenotipo Diversi gruppi hanno condotto studi di correlazione genotipo-fenotipo per determinare se differenti tipi di mutazioni in MeCP2 possano giustificare la variabilità dei sintomi in pazienti femmine con sindrome di Rett; questi studi, tuttavia, si sono rivelati inconcludenti. Nei maschi, essendo assente l’effetto dell’inattivazione dell’X, la correlazione tra i tipi di mutazione e il fenotipo è più chiaro. Le mutazioni MeCP2 che causano la classica forma di Rett nelle femmine, portano nei maschi encefalopatie e morte infantile, a meno che le mutazioni non siano mitigate dal mosaicismo somatico o dalla sindrome di Klinefelter. Contrariamente, altre mutazioni in MeCP2, che non portano a RTT nelle femmine, sono state trovate nei maschi, i quali manifestano diversi sintomi, alcuni simili a RTT. Per esempio, la mutazione Q406X, che elimina gli ultimi 80 aminoacidi della proteina, è stata trovata in due maschi con ritardi nello sviluppo, macrocefalia, attacchi epilettici, assenza di linguaggio e atassia (Meloni et al., 2000); la stessa mutazione è stata trovata nelle femmine, le quali non erano affette, nemmeno avendo il pattern di inattivazione dell’X bilanciato (Meloni et al., 2000). Studi sulle mutazioni che colpiscono MeCP2 hanno mostrato che probabilmente esistono mutazioni che sono meno determinanti per la funzione di MeCP2: mentre le mutazioni che causano RTT sono tipicamente missenso con aminoacidi non conservativi o proteine tronche, quelle che causano una forma più lieve sono generalmente missenso con aminoacidi che conservano le stesse caratteristiche, o proteine tronche, ma che conservano una porzione significativa della regione codificante. Inoltre, occorre tener presente che, poichè è stato osservato che singole mutazioni (es, A140V) possono avere diversi effetti in diverse famiglie (Orrico et al., 2000), altri fattori genetici potrebbero contribuire a questa variabilità fenotipica. 3. Funzione di MeCP2 Il gene MeCP2 è costituito da quattro esoni ed è localizzato sul cromosoma X. La proteina MeCP2 è formata da 486 amminoacidi e contiene 2 domini importanti: il “methyl-binding domain” (MBD) e il dominio TRD. Grazie al dominio MBD, costituito da 85 aminoacidi (78162), MeCP2 lega il DNA metilato, preferenzialmente in corrispondenza di siti CpG. Una volta legato il DNA, MeCP2 è in grado di reprimere la trascrizione dei geni a valle 9 reclutando dei corepressori attraverso il dominio TRD, costituito da 104 aminoacidi (207310). MBD TRD Grazie al dominio TRD, MeCP2 riesce a reprimere la trascrizione genica, anche a distanza, in parte coinvolgendo la deacetilasi degli istoni (HDAC), che determina un rimodellamento della cromatina, e in parte reclutando il corepressore mSin3A. La rimozione del gruppo acetile da H3K9 è seguita dalla metilazione mediata da MeCP2 di H3K9 e la metilazione dell’istone così ottenuta è un segnale per reclutare altre proteine come HP1 che inducono la condensazione della cromatina (Fuks et al., 2002). ACTIVE GENE DNA methylation Histone deacetylation ACTIVE CHROMATIN INACTIVE CHROMATIN Figura 5 Meccanismo di inattivazione della cromatina grazie al dominio TRD della proteina MeCP2 che è in grado di reprimere la trascrizione reclutando HDAC e il corepressore Sin3A. È interessante notare che la repressione mediata da MeCP2 non è completamente abolita dagli inibitori della istone deacetilasi (tricostatina A), suggerendo che MeCP2 possa anche reprimere la trascrizione in maniera HDAC-indipendente (Jones et al., 1998). La sua immunolocalizzazione rivela una localizzazione prevalentemente sul DNA eterocromatico ed altamente metilato. MeCP2 interagisce anche con HMT, SWI/SNF, DNMT dimostrando come regoli la trascrizione mediante meccanismi epigenetici e sembra anche mediare la formazione di 10 una struttura cromatinica particolarmente compatta indipendentemente dal reclutamento di attività di rimodellamento. 3.1. Metilazione del DNA Poichè la funzione di MeCP2 è fortemente legata alla metilazione del DNA, capire il ruolo della metilazione come meccanismo di regolazione epigenetico è fondamentale per fare luce sulle basi molecolari della sindrome di Rett. La metilazione del DNA è una delle più importanti modificazioni post-replicative del genoma e consiste nel legame covalente di gruppi metilici alle basi azotate del DNA. Nelle cellule eucariotiche la metilazione è a carico della citosina. Solo il 3% delle C è metilata ed in genere il bersaglio della metilazione è la C delle CpG island, la cui percentuale di metilazione sale al 60-90%. L’esatta funzione della metilazione del DNA non è ancora compresa perfettamente negli eucarioti, ma è chiaro che esistono delle differenze tra diverse specie. Anche se sembra che non tutti gli eucarioti siano soggetti alla metilazione del DNA, la sua funzione nelle cellule animali sembra essere di importanza cruciale, poichè la mutagenesi mirata della citosina-metiltransferasi nei topi è risultata letale embrionale. L’opinione più diffusa sui ruoli della metilazione del DNA riguarda la regolazione genica, in particolare il silenziamento genico in processi come l’imprinting genomico, l’inattivazione del cromosoma X e l’espressione genica tessuto specifica. La metilazione del DNA consente la trasmissione stabile da una cellula diploide alle cellule figlie degli stati della cromatina che reprimono l’espressione genica (Bird, 2002). Durante le prime fasi dello sviluppo, tuttavia, la metilazione subisce drastiche alterazioni, che determinano una sorta di riprogrammazione epigenetica (Razin e Kafri, 1994). Esistono due classi di DNA metiltransferasi: DNMT1 e DNMT3. DNMT3 intervengono nella metilazione de novo , mentre DNMT1 è una metiltransferasi di mantenimento e preserva il pattern di metilazione dopo la replicazione del DNA metilando il filamento neosintetizzato. Questo pattern di metilazione durante lo sviluppo è stato dedotto dalle analisi sul fenotipo 11 di topi con mutazioni nelle diverse DNA metiltrasferasi (DNMT); in particolare, la delezione di Dnmt1 in topo (Li et al., 1992) e l’inibizione dell’espressione di Dnmt1 in Xenopus tramite RNA antisenso (Stancheva et al., 2000), sfocia in una demetilazione globale ed è letale embrionale. Questo indica che l’enzima Dnmt1 agisce come metiltrasferasi di mantenimento. Inoltre, l’isoforma Dnmt1o oocita-specifica, è responsabile del mantenimento ma non nell’induzione dell’imprinting materno (Howell et al., 2001). Per quanto riguarda Dnmt3, sia Dnmt3a che Dnmt3b sono altamente espresse nell’embrione di topo durante lo sviluppo (Okano et al., 1999) e sono responsabili della metilazione de novo, dato consistente con il fatto che Dnmt3a può provocare metilazione de novo in insetti transgenici (Liko et al., 1999). 3.2. Methyl-CpG-Binding Proteins La repressione nelle sequenze CpG metilate nelle regioni promotoriali sembra essere mediata da proteine che si legano in modo specifico a CpG metilati. Queste proteine appartengono alla famiglia delle methyl-binding proteins e hanno tutte un methyl-binding domain (MBD). A parte MBD4 che è coinvolta nella riparazione al DNA, le altre hanno tutte funzione reppressoria della trascrizione e sono essenziali per un corretto sviluppo; questo è stato dimostrato attraverso il knock out in topo di ognuna di queste proteine, ed è emerso quanto segue: 1. MeCP2-/- : complesso difetto neurologico 2. MBD1-/- : difetti nella neurogenesi 12 3. MBD2-/- : difetti nel comportamento materno 4. MBD3-/- : arresto precoce dello sviluppo Figura 6 Rappresentazione schematica delle Methyl-CpG-Binding Proteins, ciascuna caratterizzata dal classico dominio MBD. Di tutte queste proteine, quella meglio caratterizzata è MeCP2. Inoltre, il fenotipo neurologico delle mutazioni in MeCP2, fanno ipotizzare che questa proteina abbia una qualche funzione che è specifica per i neuroni e non è compensata da nessun’altra proteina della famiglia MBD. La Chromatin immunoprecipitation ha evidenziato che MeCP2 e MBD2 sono associate a determinati loci in maniera dipendente dalla metilazione del DNA (Billard et al., 2002).altri studi su estratti nucleari hanno supportato l’ipotesi che la maggior parte delle proteine MBD agiscano come repressori trascrizionali, perchè a seguito della loro assenza i geni reporter metilati vengono espressi (Boyes et al, 1991). Un altro passo avanti nella comprensione di come queste proteine lavorino come repressori, è stata la scoperta che MeCP2, ma anche MBD2, interagisce come co-repressore con un complesso contenente le HDACs (Jones et al., 1998). In contrasto ai profondi effetti derivanti dalla perdita di DNMT, i difetti dovuti all’assenza delle metil-binding proteins sembra molto meno severa. Una possibile spiegazione potrebbe essere la ridondanza di queste proteine. 3.3. Pattern di espressione di MeCP2 Studi sul pattern di espressione di MeCP2 indicano che questo abbia anche un ruolo specifico nei neuroni. Analisi sull’ mRNA è stato complicato a causa della presenza di tre 13 trascritti alternativi prodotti dall’utilizzo di diversi siti di poliadenilazione nella regione UTR (Reichwald et al., 2000). Questi trascritti sono stati trovati a vari livelli in diversi tessuti esaminati, senza nessuna apparente preferenza per il sistema nervoso. L’apparente distribuzione tessuto-specifica dei tre trascritti suggerisce che i trascritti possano avere un ruolo specifico. Per evadere la difficoltà di interpretare il pattern di espressione da trascritti multipli, è stata analizzata la distribuzione della proteina. A differenza dell’mRNA, la proteina è molto più espressa nel tessuto nervoso che negli altri tessuti, ed è espressa nei neuroni ma non nella glia; inoltre varia in maniera neurone specifica (LaSalle et al., 2001). Nello sviluppo della corteccia celebrale di embrioni di topo, uomo e primati non umani, MeCP2 correla con la maturazione neuronale. Figura 7 Rappresentazione schematica della distribuzione temporale e spaziale della proteina MeCP2 nel cervello umano e di topo durante lo sviluppo. MeCP2 inizialmente appare nello spinal cord e nei neuroni Cajal-Retius della corteccia cerebrale. Successivamente MeCP2 compare nel midbrain, nel talamo, nel cerebellum e negli strati profondi corticali. Infine appare nei gangli della base, nell’ipotalamo, nell’ippocampo e per ultimo negli strati superficiali corticali. (Human Molecular Genetics, 2002, vol.11, no. 2, 115-124) Questo potrebbe spiegare perchè è il cervello ad essere prevalentemente colpito nella RTT, mentre lo sviluppo della sostanza bianca procede normalmente anche se i neuroni 14 non fanno lo stesso; spiegherebbe perchè certe popolazioni neuronali sono più colpite di altre e perchè l’insorgenza della malattia non è immediata. Capire la funzione specifica di MeCP2 nella maturazione dei neuroni sarà il prossimo passo per comprendere la patogenesi della sindrome di Rett. 4. Modelli murini della sindrome di Rett Un mezzo per studiare in vivo il ruolo di MeCP2 è stato quello di mutare MeCP2 in topo. Topi maschi con fenotipo null per MeCP2 mostrano un corpo rachitico e una testa più grossa, ipoattività, respiro irregolare e morte entro le 6-10 settimane (Chen et al., 2001). Wild type MeCP2 null Figura 8 A sinistra sono rappresentati due topi wild type, mentre a destra i topi MeCP2 null; in questi topi si possono osservare alcuni tratti caratteristici riconducibili alla sindrome di Rett. (Chen et al., 2001). La delezione di MeCP2 nei neuroni in via di sviluppo porta allo stesso fenotipo, dimostrando che la deficienza osservata nei topi null per MeCP2 è unicamente conseguenza di una disfunzione neuronale e che non esiste nessun palese fenotipo oltre a quello del sistema nervoso, almeno nell’arco di vita di questi topi. Questi studi mostrano inoltre che MeCP2 è importante anche per i neuroni post mitotici, poichè topi knock-out condizionali per MeCP2 portano ad un fenotipo simile al topo null, seppur ritardato e minore. 15 Nei topi null per MeCP2 e mancanti di Mbd2 non si osserva un peggioramento del fenotipo, suggerendo che Mbd2 da sola non compensa la perdita di MeCP2 (Guy et al., 2001). Mutazioni che eliminano il C-terminale di MeCP2 portano ad un fenotipo più lieve nei topi rispetto al fenotipo null, come si può osservare già dalla sola sopravvivenza dei topi. Questi topi mostrano molti sintomi di RTT, inclusi tremori, impedimenti motori, ipoattività, ansietà e alterazioni stereotipiche delle zampe posteriori. 5. Ruolo della metilazione del DNA nelle funzioni neuronali È stato discusso per tanto tempo come mai i livelli di Dnmt1 fossero alti nel cervello, e, più specificamente, nei neuroni, ma fosse praticamente assente nella glia (Goto et al., 1994). Il ruolo di Dnmt1 nei neuroni è stato studiato grazie a un knock-out condizionale in topo; la mancanza di Dnmt1 nei precursori neuronali al giorno E9-E10 permette il corretto sviluppo dei neuroni e la loro sopravvivenza fino alla nascita, ma poi ne impedisce la sopravvivenza dopo la nascita (Fan et al., 2001). Contrariamente, la delezione di Dmnt1 nei neuroni post mitotici non affligge la sopravvivenza neuronale. La questione che rimane è se la mancanza di Dnmt1 nei neuroni post mitotici porta a cambiamenti nella metilazione di sequenze uniche e se la funzione neuronale venga alterata. Per quanto riguarda Dnmt3, topi null per questo gene sono normali fino alla nascita, ma poi mostrano impedimenti nella crescita e muoiono a 4 settimane di età (Okano et al., 1998), suggerendo che la metilazione de novo mediata da questo enzima sia importante o durante lo stadio embrionale per la sopravvivenza post natale, o sia importante dopo la nascita. Siccome Dnmt3 è espresso solo in pochi tessuti adulti, uno dei quali è il cervello, è possibile che la metilazione de novo sia importante nel cervello dopo la nascita. Ci sono anche alcune evidenze che suggeriscono questo, come il fatto che i livelli di metilazione del DNA vengano incrementati nei neuroni dopo un ischemia cerebrale (Endres et al., 2000); questo mostra come, nei neuroni post mitotici, il pattern di metilazione neuronale e l’espressione genica siano regolati in risposta ad almeno un fattore ambientale. Questo porta ad un’altra questione, cioè se la metilazione gioca un ruolo nella risposta neuronale ad altri tipi di stress o esperienze. Il fatto che entrambe i mutanti di topo Mbd2 e MeCP2 mostrino primariamente o esclusivamente un fenotipo neuronale che si manifesta dopo la nascita, può suggerire che queste proteine MBD siano specializzate nel mediare eventi di metilazione che 16 intervengono nella maturazione dei neuroni. I mutanti MeCP2 hanno una risposta abnorme al nuovo ambiente; essi sono ipoattivi e più ansiosi rispetto ai topi normali. Questo potrebbe indicare che la metilazione potrebbe essere regolata in seguito a stimoli ambientali. Per capire meglio le basi molecolari della sindrome e il ruolo dei meccanismi epigenetici nelle funzioni neuronali, è essenziale identificare i geni bersaglio dei meccanismi repressori di MeCP2 e determinare se la loro espressione è alterata in pazienti con RTT o nei modelli animali. 6. Reversibilità dei difetti neurologici in un modello murino della sindrome di Rett (dall’articolo di Adrian Bird 2007) Gli studi condotti dal gruppo di Adrian Bird sono volti a dimostrare la reversibilità dei sintomi della Rett; questo lavoro è nato dalla consapevolezza che la RTT non è una malattia neurodegenerativa e che non sono mai stati trovati segni di morte neuronale. Essi sono partiti dall’osservazione che in pazienti RTT esiste una persistente vitalità dei neuroni mutanti; questo potrebbe far sperare nella possibilità che la ri-espressione di MeCP2 possa fare da rescue al fenotipo RTT. Alternativamente, MeCP2 potrebbe essere essenziale per lo sviluppo neuronale durante una specifica finestra temporale, in questo caso gli effetti causati dalla sua assenza sarebbero irreversibili. Per distinguere queste possibilità hanno creato un topo in cui il gene MeCP2 fosse silenziato dalla presenza di una cassetta lox-stop, ma potesse essere condizionalmente attivato sotto il controllo del suo stesso promotore e delle sue sequenze regolative, eliminando la cassetta. Figura 9 Rappresentazione schematica del costrutto MeCP2 in cui una cassetta di stop è stata inserita nel gene MeCP2 per silenziarne l’espressione. Sotto è mostrata la rimozione della cassetta ad opera della cre ricombinasi. 17 lox-stop/y Il fenotipo di questo topo MeCP2 lox-stop/y era del tutto sovrapponibile a quello del topo null. Per controllare l’attivazione di MeCP2, è stato combinato un transgene, costituito da una fusione tra la cre ricombinasi e un recettore per gli estrogeni modificato, con l’allele MeCP2 lox-stop/y. Diversi controlli sono stati eseguiti per escludere qualsiasi interferenza nei risultati e successivamente si è proceduti con la somministrazione del tamoxifen. I primi esperimenti hanno dimostrato come l’improvvisa somministrazione di tamoxifen in animali ancora privi di sintomi, ma che non avevano mai avuto espressa la proteina, portasse alla morte improvvisa dell’animale nella metà dei casi; gli altri animali che invece superavano il trattamento non sviluppavano più la malattia. Questo primo risultato sembra suggerire che le cellule del cervello si abituano a stare senza MeCP2 e non si adattano facilmente alla sua presenza. Quale meccanismo molecolare sia responsabile di questa “intolleranza” non è noto e certamente sarà argomento di futuri studi. D’altro canto la non comparsa dei sintomi negli animali sopravvissuti suggerisce come un trattamento terapeutico precoce possa funzionare. Incoraggiati dal risultato i ricercatori di Edinburgo hanno proseguito gli studi modificando un poco il protocollo. Infatti, il gene MeCP2 è stato riattivato gradualmente mediante successive somministrazioni dell’opportuno farmaco ed il trattamento è stato fatto su topi gravemente malati, praticamente al termine della loro vita. Figura 10 Grafico illustrativo del periodo di vita del topo in cui le freccie mostrano la finestra temporale di comparsa dei sintomi e successivamente il periodo in cui subentra la morte; è in questo periodo terminale che vengono fatte le iniezioni di tamoxifen per consentire la riespressione della proteina MeCP2. 18 I dati mostrano come l’animale prima del trattamento con tamoxifen sia immobile e con grossi problemi respiratori; dopo la cura, invece corre per la gabbia praticamente indistinguibile da animali che sempre hanno avuto il gene funzionante. Si può dunque concludere che l’attivazione di MeCP2 nei topi nulli presintomatici previene completamente la comparsa dei sintomi, e che l’attivazione di MeCP2 nei topi sintomatici nulli reverte la maggioranza dei sintomi. Questi esperimenti sono stati condotti anche su topi femmine mutate in MeCP2; dal momento che la RTT risulta da un mosaico di espressione dell’allele sano e del mutato a causa dell’inattivazione dell’X, la femmina eterozigote sembra essere il modello migliore su cui eseguire degli esperimenti. Anche in questo caso si è osservata la quasi totale reversibilità dei sintomi. Questi dati tuttavia non suggeriscono la possibilità di un immediato approcio terapeutico, servono per il momento a far luce sulla possibilità che anche nell’uomo i sintomi della RTT possano essere reversibili. 7. La sindrome di Rett è una malattia monogenica? La sindrome di Rett esiste in una forma classica (75%) e in una variabile (25%). Nella forma classica, circa il 90% delle volte la causa sono mutazioni in MeCP2, mentre nella forma variabile le mutazioni in MeCP2 costituiscono solamente il 20%-40%. Si sa inoltre che è difficile stabilire una correlazione genotipo-fenotipo, e sembra altamente probabile che altri loci contribuiscano all’insorgenza o alla gravità della sindrome. Nel 2005, in alcuni pazienti Rett affetti dalla variante di Hanefeld (caratterizzata dalla comparsa di precoci crisi epilettiche) sono state trovate mutazioni nel gene CDKL5, anch’esso situato sul cromosoma X. Questo ha aperto la strada a ulteriori studi su altri geni che potessero essere coinvolti nel fenotipo Rett e, ovviamente, ad indagare sul gene CDKL5. 19 8. CDKL5 appartiene allo stesso pathway molecolare di MeCP2 ed è responsabile della variante della sindrome di Rett con attacchi precoci (dall’aricolo di Nicoletta Landsberger) CDKL5 è una proteina ancora poco caratterizzata che contiene un dominio serina/treonina molto conservato all’N-terminale e mostra forte omologia alla famiglia delle MAP chinasi e delle chinasi ciclina dipendenti (CDK). Tuttavia, l’attività chinasica di questa proteina non è ancora stata dimostrata. Figura 11 Schema della struttura del gene CDKL5 e delle mutazioni missenso e troncanti identificate. 8.1. Pattern di espressione di MeCP2 e CDKL5 La recente dimostrazione che mutazioni in CDKL5 possono causare un fenotipo sovrapponibile a quello di RTT indica che queste due proteine potrebbero avere lo stesso pathway molecolare. Sono stati condotti esperimenti per vedere se i territori di espressione di MeCP2 e CDKL5 fossero sovrapponibili e si è visto che l’espressione di CDKL5 nel cervello si sovrappone largamente a quella di MeCP2 e correla con la maturazione neuronale e la sinaptogenesi. Tuttavia, non tutte le regioni del cervello mostrano livelli di espressione comparabili; nei neuroni del Purkinje si osserva una forte espressione di MeCP2 ma una bassa espressione di CDKL5, mentre nelle cellule degli strati granulari l’espressione di CDKL5 è molto maggiore rispetto a MeCP2. Questo indica che differenti livelli di espressione dei 20 due geni possono coesistere nelle stesse cellule, suggerendo meccanismi di regolazione genica indipendenti in ogni tessuto. Figura 12 Pattern di espressione di MeCP2 e di Cdkl5 durante il differenziamento neurale. L’espressione di MeCP2 (A) e Cdkl5 (B) è stata inizialmente evidenziata al giorno E18.5 nel cervello, nei neuroni migrati alla corteccia celebrale; si può notare una forte espressione di entrambi nell’ippocampo. C e D mostrano l’espressione genica nel giro dentato. E, F, G, H, mostrano l’espressione in una sezione del cervello anteriore (E, F) e della corteccia celebrale (G, H) di topo al giorno P10; i due geni sono espressi in ciascuno dei sei strati della corteccia, nell’amigdala e nell’ippocampo. I, J, K, L, mostrano l’espressione di MeCP2 e Cdkl5 in cervello di topo al giorno P10; si noti come, sebbene i due geni siano espressi entrambe nello strato granulare esterno (EGL), nello strato delle cellule del Purkinje (PCL) e nello strato granulare interno (IGL), il loro livello di espressione è modulato in maniera differente nei diversi livelli. 8.2. MeCP2 e CDKL5 interagiscono direttamente in vivo e in vitro Per capire se MeCP2 e CDKL5 appartengono allo stesso pathway molecolare, è stata vagliata la possibilità che le due proteine potessero interagire direttamente. È stato effettuato un GST pull-down assays, in cui la proteina di fusione GST-MeCP2, fatta esprimere in E. coli , è stata immobilizzata su una resina di Glutatione-Sepharosio e incubata con la proteina CDKL5 tradotta in vitro. Quello che è emerso è che CDKL5 viene ritenuta dalla resina GST-MeCP2 ma non da quella contenente solo GST. Figura 13 Studi di interazione in vitro di MeCP2 e CDKL5 attraverso GST pull-down assay. La proteina CDKL5 marcata e tradotta in vitro è stata incubata con le proteine GST e GST-MeCP2 21 immobilizzate su resina. Le proteine trattenute sono state separate attraverso SDS-PAGE (8%) e CDKL5 è stata visualizzata per autoradiografia. “input” (lane1 e 3) corrisponde al 10% della proteina CDKL5 tradotta in vitro e usata nelle reazioni di binding. Per identificare la regione di legame, è stato ripetuto il pull-down assay con delezioni progressive di MeCP2. Dapprima la proteina è stata divisa in due parti, una contenente l’Nterminale e il dominio MBD e l’altra al C-terminale, contenente il dominio TRD. I risultati mostrano che la regione C-terminale è in grado di legare CDKL5 come la proteina full lenght, mentre quella N-terminale no. Ulteriori studi hanno evidenziato che, tuttavia, il dominio TRD da solo non è sufficiente per il legame e probabilmente la regione coinvolta si trova tra il dominio TRD e il C-terminale. MBD TRD N-term MeCP2 C-term REGIONE DI BINDING Per identificare la regione di legame della proteina CDKL5 , sono stati tradotti in vitro diversi mutanti per delezioni progressive ed è stata usata ancora usato il pull-down assay. È stato mostrato che la regione della proteina chinasi coinvolta nel legame si trova tra gli aminoacidi 450-550 e che la regione tra 551-650 rinforza il legame. Allo scopo di vedere se questa interazione si mantiene in vivo, sono stati effettuati esperimenti di coimmunoprecipitazione. Cellule umane 293T sono state transientemente trasfettate con GFP-CDKL5, o come controllo con GFP da solo, e, successivamente, le proteine overespresse sono state precipitate con anticorpi contro GFP. Il successivo immunoblotting con anticorpi policlonali anti MeCP2 ha mostrato che la proteina endogena MeCP2 coprecipita con GFP-CDKL5 overespresso ma non con GFP overespresso solo. Concludendo, è stata dimostrata l’interazione di MeCP2 e CDKL5 sia in vivo che in vitro, dati consistenti con la colocalizzazione delle suddette proteine nel nucleo. 8.3. CDKL5 è una chinasi che media la fosforilazione di MeCP2 Una volta dimostrata l’interazione tra le due proteine e definito i territori di espressione, è importante capire il ruolo funzionale dell’interazione. CDKL5 è una chinasi, ma la sua 22 attività catalitica non è mai stata dimostrata; per mostrare l’attività catalitica si è sfruttato il fatto che molte chinasi sono in grado di autofosforilarsi ed è stata incubata in vitro la proteina marcata in presenza di ATP marcata. Questo ha rivelato che CDKL5 ha attività catalitica diretta contro se stessa. Ora, il passo successivo è stato quello di vedere se l’interazione tra le due proteine si traduce in una fosforilazione di MeCP2. A questo fine è stata overespressa la proteina di fusione GFP-CDKL5 in cellule di mammifero, immobilizzata su resina e incubata con MeCP2 immunopurificata in presenza di ATP marcato. Le proteine marcate sono state separate per SDS-PAGE e visualizzate attraverso autoradiografia. I risultati ottenuti dimostrano che CDKL5 è in grado di fosforilare MeCP2; il controllo, rappresentato dal GFP solo, non mostra alcuna fosforilazione. Questi risultati sono da considerarsi ancora preliminari, e sono necessari altri studi per capire se MeCP2 sia il principale target di CDKL5 in vivo, tuttavia è importante capire il ruolo di MeCP2 fosforilato. Nei mammiferi, la fosforilazione di MeCP2 è richiesta per il rilascio selettivo della metil-binding protein dal promotore Bdnf, e per la sua conseguente attivazione trascrizionale. 9. Perchè è importante MeCP2 Riepilogando, il gene MeCP2 codifica una proteina che condensa il DNA e lo rende inattivo: questa proteina si lega a specifiche sequenze metilate del DNA spegnendone l'espressione genica. Quando manca MeCP2, secondo un modello teorico, molti geni sono espressi invece di essere inattivati. Il problema è che nel modello murino i topi non dimostrano nè nel cervello, nè in altri tessuti grosse alterazioni nell’espressione dei geni; è possibile che esistano solo pochi geni nel cervello regolati specificamente da MeCP? Diversi laboratori stanno cercando di individuare i principali target di MeCP2; un possibile approcio potrebbe essere quello di produrre un anticorpo contro MeCP2 in modo da poter sfruttare la tecnica ChIP e far precipitare tutto quello che è legato alla proteina nei diversi stadi di sviluppo e successivamente identificare i geni target effettuando una ChIP on chip sull’intero genoma di topo. Fino ad ora però, l’identificazione di questi geni deregolati è risultata molto difficile. Una delle ragioni di tale difficoltà può risiedere nella complessità del sistema cellulare 23 utilizzato per questi esperimenti (in pratica, vengono usati estratti cerebrali), ma si pensa che l’uso di un sistema cellulare “in vitro” possa facilitare l’identificazione. La proteina MeCP2 è espressa in modo predominante nei neuroni maturi ed è coinvolta nella modulazione delle connessioni sinaptiche e quindi la comunicazione cellulare attraverso la regolazione di alcuni geni, tra cui il brain-derived neurotrophic factor (BDNF), gene che si è visto essere deregolato nei modelli murini RTT. Questo fattore neurotrofico è necessario per la sopravvivenza, la crescita e la maturazione dei neuroni durante lo sviluppo, inoltre ha un ruolo importante nel rimodellamento dei dendriti e delle spine sinaptiche, le strutture neuronali coinvolte nella modulazione della plasticità sinaptica. Una deficit nel gene MeCP2 ha delle conseguenze su BDNF, soprattutto nel periodo post natale. Topi in cui BDNF viene deleto precocemente nello sviluppo mostrano l'instaurarsi di connessioni nervose sbagliate e perdita completa dell’arborizzazione dendritica a 3 settimane di età, lo stesso stadio in cui i topi MeCP2 null cominciano a manifestare i primi sintomi Rett. Anche l’overespressione di BDNF ha lo stesso fenotipo del topo MeCP2 null. Quindi, sembra che la deregolazione di BDNF (sia repressione che overespressione) porti ad una morfogenesi e maturazione neuronale anormale e comprometta la sinaptogenesi e i circuiti neuronali (Y. Sun and H. Wu, 2006). Nei neuroni a riposo, MeCP2 tiene spento BDNF; quando invece il neurone è stimolato, si attivano una serie di eventi che portano al distacco di MeCP2 dal DNA e BDNF può essere trascritto. Figura 14 La figura rappresenta uno dei possibili modelli che cercano di spiegare la regolazione dinamica del promotore sull’esone III di BDNF, mediata dall’influsso di calcio nella membrana e anche dal distacco del complesso MeCP2/HDAC. (BioEssays 26:217-220. 2004) 24 La regolazione di BDNF è complessa poichèci sono almeno 4 diversi siti di inizio della trascrizione che portano alla formazione di differenti mRNA maturi. Uno di questi promotori, nell’esone 3 di ratto, analogo nell’esone 4 in topo, è attivato dalla depolarizzazione della membrana e dall’influsso di calcio (Cheng et al., 2003). Figura 15 Rappresentazione del pathway di BDNF che culmina con la fosforilazione di CREB e la trascrizione di geni importanti per la neurogenesi e la plasticità sinaptica. CREB è anche coinvolto direttamente nell’attivazione trascrizionale di BDNF quando il neurone viene stimolato (figura precedente). Nonostante quanto detto sulla regolazione di BDNF da parte di MeCP2, Cheng et al. (2006) hanno dimostrato come i livelli di BDNF decrescano nella corteccia, nel cervelletto e nel resto del cervello in modelli murini MeCP2 -/Y , mentre ci si aspetterebbe che, dato il ruolo repressorio di MeCP2, la sua assenza permettesse a BDNF di essere molto più 25 trascritto. Inoltre hanno anche dimostrato per la prima volta l’interazione in vivo di BDNF e MeCP2; tuttavia resta ancora da chiarire la natura dell’interazione tra MeCP2 e BDNF e come questi agiscano sulla modulazione neuronale. 10. Prospettive future di ricerca Oltre al pioneristico lavoro di Adrien Bird nell’indagare la reversibilità dei sintomi della Rett, e gli studi sulla proteina CDKL5 che si sono rivelati utili nello spiegare la forma atipica della sindrome, altri studi sono in partenza nella speranza di ottenere sempre più informazioni a disposizione sui meccanismi molecolari e fisiologici della sindrome di Rett. Visto i grossi vantaggi di poter avere un modello murino della sindrome di Rett causata dall’inattivazione del gene MeCP2, una possibile via futura da percorrere sarà quella orientata alla creazione di un modello murino per la forma atipica della sindrome, e cioè quella causata da mutazioni nel gene CDKL5. Questi animali potrebbero contribuire in due modi nel progresso della ricerca nel campo della Rett: per prima cosa, saranno utili strumenti nel migliorare la comprensione dell’attività di CDKL5 nella cellula e della sua stretta relazione con MeCP2. In secondo luogo, questi topi saranno un modello per valutare il potenziale terapeutico di nuovi approcci farmacologici o genetici. Un’altra linea di ricerca sarà volta a identificare come lo sviluppo della comunicazione tra neuroni sia disturbato dalle mutazioni del gene MECP2, nella sindrome di Rett. In questo progetto di ricerca verranno usati topi con mutazioni nel gene MECP2, per esaminare cosa non vada bene nel normale sviluppo del cervello e quali siano le cause. Maggiore attenzione verrà rivolta allo sviluppo post-natale e alla plasticità della corteccia cerebrale, la parte del cervello responsabile delle funzioni sensoriali, motorie e cognitive. Si pensa infatti che questa parte del cervello sia quella maggiormente disturbata nei pazienti Rett. Sempre sfruttando i modelli murini per MeCP2 esistenti, altri studi saranno volti ad indagare quali aree del cervello siano coinvolte nei deficit respiratori che si osservano nei pazienti RTT e inoltre potranno essere testati farmaci per normalizzare l’andamento respiratorio. Un’altra caratteristica fenotipica importante nei pazienti affetti da RTT e verso la quale si apre un’altra linea di ricerca sono le crisi epilettiche, riportate approssimativamente nel 50%-80% dei casi. Sfortunatamente queste crisi non rispondono ai convenzionali farmaci 26 anti-epilettici, e ci sono poche informazioni sui motivi che rendono le pazienti RTT così suscettibili a queste crisi. In passato, per il trattamento delle crisi epilettiche in pazienti RTT, si sono avuti dei limitati benefici da trattamenti farmacologici e da diete; quindi, qualunque informazione che può chiarire questi meccanismi o procurare una nuova strategia terapeutica è importante. 11. Le nuove frontiere dell’epigenetica Quello che sta emergendo, a più di 50 anni dalla scoperta della struttura a doppia elica di DNA, è che in realtà il programma genetico di ognuno di noi necessita un’interpretazione, e questa interpretazione può cambiare radicalmente da una generazione all’altra senza che ci sia alcun mutamento nel DNA. L’epigenetica cerca di capire come il nostro genoma sia influenzato dai meccanismi che regolano l’espressione genica. Fattori epigenetici sono, ad esempio, l’arrangiamento spaziale del DNA, come l’avvolgimento intorno agli istoni per formare la cromatina, oppure la modificazione biochimica. L’epigenetica fornisce anche una spiegazione di come il materiale genetico si adatti ai cambiamenti ambientali. Ad esempio le piante, che pure non hanno un sistema nervoso, possono “memorizzare” i cambiamenti stagionali. In alcune specie biennali questa capacita` e` fondamentale per poter produrre fiori durante la primavera. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che l’esposizione al freddo durante la stagione invernale provoca cambiamenti nella cromatina che silenziano i geni coinvolti nella fioritura. Questi geni sono poi riattivati durante la stagione primaverile, quando ci sono le condizioni migliori per la riproduzione (Sheldon et al., 2000). L’ambiente puo` anche provocare cambiamenti epigenetici i cui effetti sono visibili sulle generazioni successive. Recenti esperimenti condotti sui topi hanno dimostrato che il colore del pelo, che puo` essere marrone, giallo o a chiazze a seconda del grado di metilazione del gene agouti durante lo sviluppo embrionale, e` influenzato dalla dieta. Se durante la gravidanza le madri venivano nutrite con supplementi a base di acido folico o vitamina B12, precursori dei gruppi metilici, la progenie aveva soprattutto pelo di colore marrone, mentre le madri nutrite normalmente (senza supplemento) avevano progenie con pelo giallo. Anche nell’uomo è possibile vedere gli effetti dell’epigenetica, per esempio studiando i gemelli monozigoti. I casi di gemelli monozigoti (identici) si verificano con una frequenza 27 di 1 su 250 nascite nel mondo . L’origine e` un uovo fertilizzato che, per ragioni ignote, si divide in due dando luogo a due embrioni separati. Ognuno di essi iniziera` e terminera` la propria vita con lo stesso corredo genetico ma sara` esposto a condizioni ambientali diverse, alcune delle quali potrebbero alterare l’aspetto o il comportamento individuale. Recenti esperimenti (Fraga et al., 2005) condotti su 80 coppie di gemelli monozigoti hanno rivelato che il loro DNA e` differentemente modificato con gruppi metilici. Quindi in un certo senso non si puo` dire che essi siano identici. Inoltre, queste differenze diventano via via piu` pronunciate con il passare degli anni. Un’altro esempio in cui l’epigenetica svolge un ruolo principale è l’imprinting e il silenziamento genico ereditario. Il perchè questo accada nessuno lo sa con certezza, tuttavia sono state fatte alcune ipotesi interessanti, ad esempio alcuni pensano che l’imprinting possa essere correlato ai sistemi riproduttivi. Nei mammiferi, l'imprinting è limitato alle specie che ospitano nell'utero il piccolo in fase di sviluppo. Nei mammiferi che depongono uova, come l'ornitorinco dal caratteristico becco d'anatra, l'imprinting dei geni correlati alla crescita non avviene nello stesso modo. Negli esseri umani, per nove mesi la madre fornisce al bambino i nutrienti essenziali per lo sviluppo dal suo flusso sanguigno attraverso la placenta. Invece di deporre un uovo o lasciare che il piccolo badi a se stesso utilizzando il contenuto del sacco vitellino, la madre risponde pazientemente alle richieste alimentari del feto mentre questo si trova nell'utero. I semi si sviluppano in modo analogo nel corpo dei propri genitori, ma vengono nutriti tramite endosperma, anziché tramite la placenta. Il normale imprinting sia nella placenta che nell'endosperma è di importanza cruciale per un sano sviluppo embrionale. In entrambe le specie questi organi costituiscono l'interfaccia per il dialogo materno-fetale e sono pertanto molto importanti per la regolazione della crescita embrionale. Wolf Reik (Babraham Institute, Cambridge, Regno Unito) ha studiato il comportamento del gene Igf2 nei ratti, osservando che l'imprinting dell'Igf2 è critico per la normale crescita placentare. Disattivando il gene nella placenta la crescita fetale viene limitata. Alcuni scienziati ritengono che l'imprinting si sia evoluto nelle specie placentate per contrastare le esigenze di piccoli eccessivamente avidi, che altrimenti si impadronirebbero di troppe risorse. Questa scuola di pensiero si basa sulla teoria del conflitto parentale, avanzata da David Haig (Harvard, USA). La madre deve poter conservare energie per sé e gli altri figli, pertanto i suoi geni si sono evoluti in modo da contenere la crescita fetale. Perché allora i geni paterni vogliono che i figli siano più grandi? Ebbene, perché in generale i più grandi hanno maggiori possibilità di sopravvivere. Ovviamente i geni non 28 sono dotati di una volontà propria, semplicemente quelli che favoriscono la sopravvivenza vengono in genere selezionati più frequentemente degli altri. Quello che emerge da tutti questi esempi è che non è vero che dato un particolare DNA, l’organismo può assumere una ed una sola “configurazione” (Jacques Monod), anzi si è visto che il genoma permette un forte livello di ambiguità, in relazione al numero e alle probabilità delle conformazioni che un organismo, con uno specifico DNA, può assumere. I principali meccanismi di ambiguità sono stati scoperti nella seconda metà del novecento ed individuati nei “trasposoni”, successivamente il sequenziamento dei genomi, ed in particolare di quello umano, ha evidenziato che solo 1,4% del nostro genoma è rappresentato da geni. Il 98% del DNA è “spazzatura”. Alla luce di queste evidenze si può concludere dicendo che l’epigenetica e` pertanto un campo di studio nuovo e di fondamentale importanza. 29