2. – Il processo civile - Corte d`Appello di Brescia

SCUOLA SUPERIORE DELLA
MAGISTRATURA
- Ufficio del Referente Distrettuale per la formazione decentrata - settore diritto comunitario -
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BRESCIA, 4 Aprile 2014
Quando le cose necessarie non sono fatte da chi toccherebbe,
o non son fatte in maniera da poter servire,
nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di farle,
negli altri la disposizione ad accettarle, da chiunque sian fatte.
(A. Manzoni, Storia della colonna infame (1842), cap. II)
Incontro sul tema
L’esigenza di fare presto e bene:
rassegna ragionata degli sforzi
italiani per accorciare i tempi del
processo
Relatore
dott. Giuseppe Ondei
(Presidente della Terza Sezione Civile del Tribunale di Brescia)
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SOMMARIO
§ 1. – INTRODUZIONE .................................................................................................................... 3
§ 2. – IL PROCESSO CIVILE.......................................................................................................... 7
§ 2.A - LE DUE TIPOLOGIE DI PROCESSO CIVILE ................................................................................... 8
§ 2.B - GLI INTERVENTI DEL LEGISLATORE: BREVE PANORAMICA CRITICA ....................................... 11
§ 2.b.1. - Gli interventi di degiurisdizionalizzazione .................................................................. 11
§ 2.b.2. - Gli interventi di incremento dei poteri del giudice ...................................................... 19
§ 2.b.2.a - De iure condendo .................................................................................................... 33
§ 2.b.3 – Considerazioni generali in ordine agli interventi legislativi sul processo. ................. 42
§ 2.C - I RIMEDI ACCELERATORI DERIVANTI DALLE BEST PRACTISES PROCESSUALI E DAGLI
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI. ...................................................................................... 44
§ 2.D. - I POSSIBILI RIMEDI ACCELERATORI “ORGANIZZATIVI” .......................................................... 50
§ 3. - IL PROCESSO PENALE : BREVI CENNI ........................................................................ 63
§ 3.A - INTRODUZIONE...................................................................................................................... 63
§ 3.B - IPOTESI DI INTERVENTI LEGISLATIVI ...................................................................................... 66
§ 3.C. - PROPOSTE CONCRETE DI FACILE ATTUAZIONE PER LA REALIZZAZIONE DELLA
RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO ................................................................................... 80
§ 4. - CONCLUSIONE .................................................................................................................... 83
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§ 1. – Introduzione
§ 1.a - Un dato è ormai indiscutibile: la crisi del processo civile e penale dipende
da una sproporzione tra la domanda di giustizia dei cittadini e l’offerta di giustizia dello
Stato.
Lo Stato, in buona sostanza, non è in grado, in tempi ragionevoli, di dare risposta
alla domanda di giustizia promossa dai cittadini o financo dal medesimo Stato.
La crisi è dovuta a scarsità di risorse di fronte alla domanda che, quanto meno
dagli anni ottanta, è aumentata a dismisura.
La esaustiva risoluzione del problema, allora, anche ai sensi degli artt. 3, 24 e 97
Cost., appare molto semplice: migliorare l’offerta di giustizia, per adeguarla alla
domanda.
Ovviamente quanto detto non ha certo alcuna pretesa di novità ma finché non si
provvederà a ciò, la giustizia non riuscirà ad uscire completamente dallo stato di crisi.
La predetta soluzione, però, ha dei costi e ciò spiega perché non è mai stata
seguita. Sistematicamente in ogni intervento legislativo volto astrattamente, e nelle
intenzioni, ad accelerare i tempi della giustizia si trova sempre il sintagma “a costo
zero” e, purtroppo, tale indicazione ha veramente reso vani molti interventi.
Ma di più: siccome le problematiche economiche continuano a sussistere è stato
osservato che le prospettive a breve periodo di una legislazione che possa veramente
incidere sui tempi del processo hanno più o meno le stesse possibilità di realizzazione
del progetto kantiano per una pace perpetua.
§ 1.b - Purtroppo il sintagma sopra citato unitamente alla dizione “senza alcun
onere per lo Stato” scaturisce dalla crisi economica e finanziaria che sta colpendo anche
l’Unione europea e ha favorito l’avvio negli Stati membri di una serie di cambiamenti a
favore di una ristrutturazione radicale delle economie nazionali e tesi a perseguire la
crescita e la competitività degli stessi.
Nell’ambito di questo processo di riforma, è noto a tutti che i sistemi giudiziari
nazionali rappresentano uno dei pilastri di sviluppo di un Paese. Se, infatti, solo una
giustizia efficiente ed efficace può contribuire a rafforzarne la stabilità, decisioni
giudiziarie tempestive possono infondere la giusta fiducia alle imprese ed ai cittadini per
il ritorno alla crescita1: ed il processo è ormai una sorta di metafora dello stato di salute
della giustizia.
Per un approfondimento complessivo recente, si legga per tutti F. Angelini, M, Benvenuti (a cura di), Il diritto
costituzionale alla prova della crisi economica, Napoli, 2012, che raccoglie gli atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile
2012.
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Da una comparazione con esperienze straniere emerge – pur nella
consapevolezza delle differenze che, comunque, contraddistinguono i sistemi legali dei
singoli Paesi – un’ampia variabilità temporale nella definizione dei procedimenti ed un
dato comune quanto, forse, ovvio: i sistemi caratterizzati da durate più lunghe sono
anche i più costosi2.
In ogni caso è ormai fortemente acquisita la consapevolezza che l’eccessiva
durata del singolo processo provoca reazioni negative sull’intera collettività.
Come hanno appurato, pure, le Sezioni Unite (Cass. civ., SS.UU., sentenza 16
luglio 2008 n. 19.499), le istituzioni del Paese annoverano “le inefficienze e le lunghezze
del sistema giudiziario civile tra le cause del rallentamento dello sviluppo economico
dell'Italia”.
Ecco perché il processo – posto sotto la lente severa dell’osservatore economico
– dovrebbe essere celebrato nella piena ottemperanza al principio della ragionevole
durata. 3
L’interesse pubblico alla celere definizione dei procedimenti è gradualmente
permeato, pertanto, nel processo civile e penale mediante un più significativo
versamento del principio della ragionevole durata nell’alveo dell’attività ermeneutica
giudiziale, divenendo così la «ragionevole durata» uno dei canoni interpretativi di
primaria importanza, poiché costituzionalmente esatto (art. 111 Cost.), imposto dal
diritto comunitario (art. 47, comma II, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione
Europea, la quale ha lo “stesso valore giuridico dei trattati”, con l’entrata in vigore
dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, in data 1 dicembre 2009 in GUUE n. C 306 del 17
dicembre 2007) e, ovviamente, scandito in modo cogente dalle Carte internazionali
vincolanti (v. art. 6, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall'Italia con
legge 4 agosto 1955 n. 848). Il «tempo» diventa, insomma, criterio di interpretazione.
Il principio costituzionale della ragionevole durata del processo deve ritenersi
rivolto non soltanto, in funzione acceleratoria, al giudice quale soggetto processuale ma
anche e soprattutto al legislatore ordinario4 ed al giudice quale interprete della norma
Il tema della giustizia e della mondializzazione è affrontato tra l’altro da D. BIFULCO, Il potere giudiziario, in F.
Angelini, M, Benvenuti (a cura di), Il diritto costituzionale…, cit., 359 ss. L’.Autrice, pur non riconducendo l’intero
tema della giustizia al fenomeno della globalizzazione, sottolinea però come essa tenda tuttavia «[…] a divenire quasi
una sorta di bene privato nell’ambito della globalizzazione economica, a cagione della costituzione di un autentico
mercato concorrenziale per la definizione, soprattutto delle controversie commerciali; e a cagione dell’efficienza,
valore che tende a ridefinire non più solo il mercato, ma anche l’attività giudiziaria, assimilata sempre più a un
prodotto in quell’immensa azienda di servizî a cui è ormai assimilato anche lo Stato», ivi, 360.
2
3
Principio, però, che non deve diventare un incubo che incide sulla qualità del prodotto giudiziario.
In punto recentemente la corte costituzionale nella sentenza nl 30/2014 del 25 febbraio 2014 ha precisato che “la
Corte EDU ha evidenziato che «l’articolo 6 § 1 impone agli Stati contraenti l’obbligo di organizzare i propri
sistemi giudiziari in modo tale che i loro giudici possano soddisfare ciascuno dei suoi requisiti, compreso l’obbligo
di trattare i casi in un tempo ragionevole […]”.
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processuale (in quanto una lettura “costituzionalmente orientata” delle norme che
regolano il processo non può prescindere dal principio in esame, che esprime un canone
ermeneutico valevole per ogni disciplina processuale) e - in ogni caso - rivolto a tutti i
protagonisti del processo (ivi comprese le parti, che, specie nei processi caratterizzati da
una difesa tecnica, devono responsabilmente collaborare per lo scopo della ragionevole
durata).
Con la sentenza 7 luglio 2010 n. 16.037, per esempio, le Sezioni Unite hanno
statuito che l’effettività del principio di garanzia della durata ragionevole del processo
(come previsto dall’art. 111 II° comma Cost.) impone al giudice (anche
nell’interpretazione dei rimedi processuali) di evitare comportamenti che siano di
ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso traducendosi, per converso, in un
inutile dispendio di attività processuali non giustificate, in particolare né dal rispetto
effettivo del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.) né da effettive garanzie di
difesa (art. 24 cost): principio già ribadito dalle s.u. con sentenza 27 aprile 2010 n. 9962
(in tema di nullità ove si è affermato che le norme di rito devono essere interpretate in modo razionale in
correlazione con il principio del giusto processo in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela
degli interessi della controparte dovendosi escludere che l’ordinamento imponga nullità non ricollegabili
con la tutela di alcun ragionevole interesse processuale delle stesse (art. 156 c.p.) - nonché nella
sentenza s.u. 16 marzo 2010 n. 6325 (ove si è escluso che possa essere sanzionato con l’estinzione
del processo il mancato compimento di adempimenti processuali che si siano appalesati del tutto superflui
quali la rinnovazione della notificazione di un atto da una parte la cui attività processuale dimostri che
essa ne abbia già avuto conoscenza: essenziale è che siano stati rispettati il principio del contraddittorio e
del diritto di difesa).
E l’importanza crescente di tale principio trova un forte riscontro nella
circostanza che sempre più decisa è la comparazione del medesimo, o meglio il
bilanciamento di tale principio, con il diritto fondamentale della difesa. Cresce,
insomma, la consapevolezza che un sistema giustizia serio deve fondarsi su un
ragionevole e delicato equilibrio tra la garanzia e la tempestività e che ogni
sbilanciamento in un senso o nell’altro conduce ad effetti prolettici distorsivi e negativi
sull’intero sistema5.
La gravità della situazione deve indurre tutti gli operatori del settore a superare la
inutile fase “destruens” di protesta supportata vagamente da una “declamatoria”
presentazione di cahiers de doleance6 o la fase rassegnata di chi pessimisticamente
ritiene del tutto impossibile mettere in moto un meccanismo virtuoso che dia la benché
5
Anche se per completezza non può non rilevarsi una certa distonia nel pensiero giuridico moderno il quale per un verso celebra
la ragionevole durata del processo attraverso un “disinvolto” superamento del dato formale e, per altro verso , a fronte di una
indifferenza contenutistica e di un naufragio del diritto individua nella stabilità della forma il salvagente (cfr. il nichilismo
giuridico di Natalino Irti in “Il salvagente della forma” Laterza 2007).
6
Nell’”Elogio dei giudici scritto da un Avvocato”, Calamandrei racconta di un medico che, quando era chiamato al letto di un
malato, invece di mettersi a osservarlo e ascoltarlo, cominciava “a declamare certe sue dissertazioni filosofiche sull’origine
metafisica delle malattie”. I parenti, attorno a letto del congiunto malato, rimanevano sbalorditi da tanta sapienza: e, inta nto il
paziente tranquillamente moriva (CALAMANDREI, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, ed. VII, 2010, 160).
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minima speranza di “risalita”7 e a chiedersi, invece, con “parresia” che cosa è stato fatto
e che cosa si può fare in tempi relativamente brevi.
I luoghi attuali del dibattito sono gremiti da esclamazioni riformatrici di ampio
respiro ma talvolta i grandi numeri non richiedono soltanto riforme strutturali e rilevanti
interventi innovativi dal momento che a questo livello di azione indispensabile possono
affiancarsi anche un intervento sulle piccole cose o il ricorso a piccoli accorgimenti
tanto più efficaci ed incisivi quanto più diffusi.
§ 1.c. - È evidente che vari sono gli elementi che possono incidere sulla c.d.
“durata dei processi” ma breviloquamente tutti possono essere raggruppati in due
categorie, legate rispettivamente all’aspetto della domanda e dell’offerta di giustizia.
** Dal lato dell’offerta, i fattori maggiormente rilevanti sono stati individuati
nella qualità della produzione legislativa, nella quantità e nella qualità delle risorse
finanziarie e umane disponibili, negli assetti organizzativi e di governance degli uffici
giudiziari e nella struttura degli incentivi dei soggetti coinvolti (giudici e personale
paragiudiziale e amministrativo), nonché nel grado di efficienza nell’impiego delle
risorse.
** Dal lato, invece, della domanda, come fattori di influenza sono stati
evidenziati i costi di accesso al sistema e le regole di ripartizione delle spese tra le parti,
gli incentivi dei professionisti, la diffusione di meccanismi alternativi di risoluzione
delle controversie.
I tempi ristretti della relazione impediscono ovviamente un esame approfondito e
a tutto campo della questione: lo scrutinio riguarderà prevalentemente il settore civile
con un breve accenno a quello penale cercando di uscire dal recinto talvolta stucchevole
delle discussioni dei giuristi “autorizzati” ponendosi in un’ottica di ragionata e talvolta
“elenctica” (o confutativa) valutazione di ciò che è stato fatto e di ciò che si sta per fare.
7
E per rappresentare icasticamente la posizione di tali soggetti viene spontaneo parafrasare un aforisma di Ennio
Flaiano: “Essere pessimisti circa la ragionevole durata del processo civile è un pleonasmo, ossia anticipare quello
che accadrà”.
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§ 2. – Il processo civile
In modo isagogico si potrebbe definire il processo civile come un campo in
perenne stato di necessità ove si manifesta esemplarmente lo stigma dell’età moderna
nella quale – per usare un’espressione di Claudio Magris – “la consapevolezza
storicistica si è fatta iperbole così che ci opprime l’interrogativo se nell’incessante
mutare della vita nel trascorrere delle cose che le fa continuamente dileguare, e cioè
non essere, sussiste qualcosa di certo e di permanente, un’identità che nel divenire si
sviluppi e cresca su se stessa restando ad una propria essenza anziché cancellarsi e
disperdersi di continuo”.
Negli ultimi quindici anni, il processo civile italiano è stato oggetto di numerosi
interventi di riforma aventi finalità di accelerazione e snellimento8, che hanno riscritto
in buona sostanza il codice di procedura civile del 1940 facendone, per certi versi, una
tela di Penelope tessuta e disfatta senza posa9 in modo più “tumultuoso” che
“rivoluzionario”10. Tuttavia, l’Italia continua ancora a collocarsi agli ultimi posti nei
confronti internazionali relativi alla durata dei processi civili11 nonostante da anni il
contezioso civile segni una costante e virtuosa riduzione delle pendenze essendo i
processi definiti superiori a quelli sopraggiunti.
Ci si deve, allora, interrogare sulle ragioni che sono alla base del mancato
raggiungimento degli obiettivi prefissati andando al di là delle rampogne e dei sarcasmi
dei “sabotatori” perché solo partendo da una chiara visione del problema può costruirsi
un sistema connotato da efficacia ed efficienza.
8
Tra i principali interventi si segnalano, senza pretesa di esaustività e solo a mo’ di esempio,: la l. 26 novembre 1990, n. 353,
recante provvedimenti urgenti per il processo civile; il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 51, che ha istituito il giudice unico togato di primo
grado, a composizione normalmente monocratica; il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che ha, tra l’altro, comportato la devoluzione al
giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni; il d.lgs. 17
gennaio 2003, n. 5, recante l’introduzione del c.d. rito societario; la l. 14 maggio 2005, n. 80 (c.d. l. competitività), di conversione
del d.l. 14 marzo 2006, n. 35, recante la c.d. mini-riforma del codice di procedura civile, e il connesso d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
recante modificazioni in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato; la l. 24 febbraio 2006, n. 52,
recante la riforma delle esecuzioni mobiliari; la l. 21 febbraio 2006, n. 102, che ha esteso il rito del lavoro alle controversie
derivanti da incidenti stradali; nonché la l. 18 giugno 2009 n. 69; la l. 1settembre 2011 n. 150; la l. 28 giugno 2012 n. 92; la l. 3
agosto 2012 e la legge n. 98/2013.
9
Così si è espresso Bruno Capponi in “Il diritto processuale civile “non sostenibile” in Riv. trim dir. proc civ. 2013 pagg. 855 e
ss.
10
11
E del resto Antonio Gramsci ben definì l’Italia come terra di tumulti e non di rivoluzioni.
Nella risoluzione interinale ResDH(2007)2 del 14 febbraio 2007, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha rilevato
come le riforme relative alla giustizia civile, attuate in Italia, non abbiano dato risultati soddisfacenti e come siano in costante
aumento gli indennizzi pagati dallo Stato italiano, ex l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), per l’eccessiva durata dei processi.
Nel 2010, la durata media stimata di un procedimento civile in primo grado era di circa 240 giorni nei paesi dell’OCSE, 107 in
Giappone (il Paese con la durata minore), circa 420 in Portogallo e Slovenia, 564 in Italia (il Paese con la durata maggiore); mentre
il tempo medio stimato per la conclusione di un procedimento in tre gradi di giudizio era di 788 giorni, con un minimo di 368 in
Svizzera e un massimo di quasi 8 anni in Italia. Secondo il rapporto Doing Business 2008, in Italia per completare una procedura di
recupero crediti sono necessari 1.210 giorni, mentre in Inghilterra 404, in Francia 331, in Germania 394, negli Stati Uniti 300
Per maggiori e aggiornati approfondimenti si rinvia al paper OECD (2013), “Giustizia civile: come promuoverne l’efficienza?”,
OECD Economics Department Policy Notes, No. 18 June 2013.
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§ 2.a - Le due tipologie di processo civile
L’analisi teorica e l’esperienza internazionale mostrano una sicura incidenza
sugli obiettivi di effettività e celerità della tutela giudiziaria nella ripartizione, tra il
giudice e le parti, dei poteri nel “governo” del processo.
Anche in Italia, quest’aspetto è stato particolarmente inciso dalle riforme, ma in
maniera non univoca: si è oscillati tra l’attribuzione di funzioni centrali al giudice
all’interno del processo e l’adozione di un modello adversarial, che valorizzasse il ruolo
delle parti.
Tradizionalmente si contrappongono due principali modelli di processo
(adversarial e non-adversarial), nell’ambito dei quali risulta profondamente differente
la ripartizione tra le parti e il giudice delle prerogative attinenti al governo dell’iter
procedurale e degli strumenti idonei ad influire sul contenuto della decisione (c.d. poteri
istruttori).
Nella letteratura gius-economica si rintracciano numerose analisi volte ad
esplicitare gli obiettivi sottesi ai due modelli, ad individuarne le principali caratteristiche
e a valutare le condizioni che ne possano assicurare un corretto funzionamento.
a) Il processo “adversarial system”
La dottrina ha posto in luce come alla struttura adversarial del processo (tipica dei
sistemi di Common Law) siano sottese implicazioni di carattere ideologico. Infatti, il
modello del liberismo economico fondato sull’iniziativa individuale e sul principio del
lasseiz-faire, condiziona anche la concezione del processo, che viene visto come luogo
ideale della libera competizione delle parti. Lo scopo fondamentale del giudizio diventa
non l’attuazione di norme, di criteri di giustizia sostanziale o di finalità generali o
pubbliche, ma quello di risolvere i conflitti individuali di interessi tra privati (il c.d.
conflict-solving type of proceeding). L’assegnazione di questa funzione, e non di altre,
al processo, ne determina la struttura fondamentale e i valori di base: la sua gestione è
affidata integralmente all’iniziativa delle parti (c.d. party control), la cui autonomia
diventa il valore primario; esse hanno, inoltre, il controllo totale sia sull’oggetto sia
sullo svolgimento del processo, nonché il monopolio sulle iniziative probatorie.
Specularmente, il giudice non ha poteri di iniziativa: il principio fondamentale è che egli
abbia prerogative di controllo circa la correttezza dello scontro che si svolge tra le parti,
ma non abbia il potere di indirizzare e condizionare lo svolgimento del processo, né di
determinarne l’esito; in particolare, poi, egli non dovrebbe avere poteri di iniziativa
istruttoria.
Tale concezione si fonda, a sua volta, sul presupposto che le parti si trovino in
una posizione di sostanziale parità: solo in questo caso, infatti, il processo risponde ad
esigenze di correttezza, e può svolgersi fisiologicamente quello “scontro” che si
suppone idoneo a produrre la decisione migliore.
Proprio l’esistenza di questo presupposto è, però, problematica perché una serie
di condizioni sociali, economiche e culturali – ossia la giustizia situazionale italiana -
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può operare nel senso di provocare discriminazioni che si traducono in rilevanti
disuguaglianze tra le parti nel processo.
E la debacle di “quer pasticciaccio brutto” del processo societario, introdotto
con il d.l. 5/2003 ed abrogato nel 2011 – sostanzialmente ispirato al modello
adversarial - dimostra la scarsa propensione di tale tipo di processo, quanto meno in
Italia, a ridurre i tempi del processo.
b) Il processo non-adversarial
Sistemi processuali legati a logiche non-adversarial (dominanti nella tradizione
di Civil Law), sembrano maggiormente rispondenti a criteri di giustizia sostanziale o
distributiva e a finalità generali o pubbliche. Tale modello subisce l’influenza, sul piano
istituzionale, di una concezione dello Stato il cui compito non è solo quello di fornire ai
privati il supporto istituzionale nel quale possano perseguire i loro interessi, ma che
interviene a regolarne e determinarne le situazioni. Sul piano dell’amministrazione della
giustizia, tali assunti implicano definire la funzione del processo civile in termini di
perseguimento di obiettivi autonomi ed estranei alla logica della pura competizione,
aventi ad oggetto la risoluzione di problemi legati alla c.d. “giustizia di massa” e la
realizzazione di condizioni di eguaglianza sostanziale all’interno del giudizio.
E siffatti presupposti si riverberano inevitabilmente sulla struttura e sui principi dell’iter
procedurale.
Il giudice, che assiste e presiede tutto il processo (fase introduttiva, fase
istruttoria, e così via), ha il potere di indirizzarne e condizionarne lo svolgimento e
dispone di facoltà di iniziativa istruttoria. Può trattare la causa secondo procedure
differenti, in relazione al suo valore e alla sua complessità, e programmarne ex ante lo
svolgimento. Le parti, che pure mantengono significative prerogative in relazione alla
delimitazione del thema decidendum, possono sollecitarne l’intervento. Tuttavia,
l’impulso di parte non è più condicio sine qua non per l’intervento dell’autorità
giudiziaria (c.d. principio dispositivo attenuato).
Il sistema non-adversarial ha il pregio di poter assicurare, ove sia necessario e
attraverso l’intervento del giudice, un riequilibrio della posizione delle parti e la loro
uguaglianza non più su un piano meramente formale, ma anche sostanziale. Laddove,
infatti, sussistano delle lacune nelle difese di una parte rispetto alle altre e/o siano attuati
comportamenti aventi finalità dilatorie, il rilievo d’ufficio di alcune questioni e le
autonome iniziative istruttorie da parte dell’autorità giudiziaria consentono di assicurare
margini superiori di effettività della tutela.
Tuttavia, un modello così congegnato presenta limiti e criticità laddove il giudice
non eserciti secondo le finalità dianzi indicate i poteri che gli sono attribuiti dalla legge.
Ad esempio, carichi eccessivi e un sistema di progressione delle carriere non legato alla
“produttività” del giudice o sistemi di remunerazione degli avvocati basati su tariffe
orarie e/o legati al numero di atti redatti, possono condurre il magistrato, le parti in
causa e dei loro difensori a protrarre la durata del giudizio, anziché addivenire alla sua
più rapida conclusione.
Al fine di assicurare il corretto funzionamento del sistema, è, pertanto,
necessario il supporto di misure ulteriori.
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Da un lato, deve esistere un’efficace sistema sanzionatorio che reprima eventuali
abusi. Sicché sono necessarie: a) la previsione di decadenze e preclusioni processuali in
relazione a comportamenti dilatori posti in essere dalle parti, unita alla responsabilità
aggravata della parte risultata soccombente in caso di domande temerarie e pretestuose;
b) l’introduzione di sanzioni processuali e disciplinari nei confronti del giudice che non
eserciti i propri poteri in maniera coerente con le finalità di effettività e celerità della
giustizia civile.
Dall’altro lato, occorre il sostegno di interventi sul piano ordinamentale e
organizzativo, che rafforzino gli organici in misura proporzionale all’entità dei carichi,
che favoriscano la specializzazione dei giudici, che responsabilizzino i magistrati,
monitorando il rispetto degli obiettivi di efficienza e produttività, che siano volti a
migliorare l’efficienza nella gestione delle strutture e ad introdurre tecnologie
informatiche.
Questa è la grande dicotomia dell’epifenomeno processuale civile con i rispettivi
correlati negativi.
Si tratta, ora, di vedere che cosa è stato fatto in Italia negli ultimi anni per
accelerare il processo a fronte delle continue e molteplici condanne europee.
Siccome è lo Stato nelle sue molteplici manifestazioni che viene condannato, tre
sono i campi che vorrei brevemente scrutinare:
** quello legislativo12,
E’ interessante notare che l’esigenza di ridurre i tempi del processo è già presente nella raccolta delle leges che
viene espressamente ordinata dal “legislatore” Giustiniano al fine di ‘amputare la prolixitas delle liti’ (Haec quae
necessario, pr.), al fine di rendere ‘più veloci le risoluzioni delle controversie’ (‘citiores litium decisiones’: § 3). Allo
stesso modo, nella Summa rei publicae (§ 1) l’imperatore si vanta del fatto che, per mezzo della raccolta delle
costituzioni, tolta di mezzo la “caligine” determinata dal gran numero di costituzioni sparse qua e là, è adesso
possibile compiere, da parte dei giudici, una “recta definitio”: con questa espressione non deve intendersi una
‘decisione corretta, giusta’, bensì una ‘soluzione diretta’, ‘immediata’, ‘agevole’, che può formarsi rapidamente senza
doversi districare tra una massa disordinata di leges. In sostanza, la raccolta del Codex viene progettata e compiuta
con l’obiettivo di velocizzare i processi, è questo l’obiettivo assunto come punto di riferimento. Di equità dei giudizi
non si fa parola alcuna.
E’ soltanto nella costituzione che presenta il progetto del Digesto e in quella che accompagna la pubblicazione delle
Institutiones che troviamo, per la prima volta, un riferimento all’aequitas. In particolare, nella Deo auctore (§ 1)
Giustiniano afferma che non vi è nulla di così degno di cura e impegno quanto l’auctoritas delle leggi, “la quale
regola bene le cose divine e umane e caccia via ogni iniquità” (‘…omnem iniquitatem expellit’…). E nella
Imperatoriam (pr.) Giustiniano afferma che la maiestas imperiale si afferma non soltanto vincendo con le armi le
guerre contro i nemici, ma anche sconfiggendo le iniquitates dei litiganti (‘calumniantium iniquitates expellens’: si
noti l’uso della stessa forte immagine dell’ ‘expellere’). Peraltro, Giustiniano parla di iniquitates dei ‘calumniantes’:
un termine, questo, che indica, propriamente, i litiganti che agiscono sapendo di avere torto, di commettere una
ingiustizia. Siffatte affermazioni programmatiche contenute nelle due costituzioni introduttive trovano puntuale
riscontro nella scelta dei brani d’apertura delle due rispettive compilazioni: brani nei quali vengono enfatizzati
proprio i valori della iustitia e dell’aequum. Segnatamente, il Digesto si apre con un discorso di Ulpiano sulla
derivazione del ius dalla iustitia, sul ius come ‘ars boni et aequi’, sul compitodel giurista di separare tra aequum e
iniquum e tra licitum e illicitum. Quanto alle Institutiones, esse iniziano con la definizione di iustitia (‘Iustitia est
constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens’) e presentano, come primo insegnamento vero e proprio, i
celeberrimi “tre precetti del diritto”: ‘honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere’. Dunque, la finalità
e l’ideologia dichiarate delle raccolte sono il perseguimento dell’aequitas, della iustitia e non più soltanto la rapidità
dei processi. Anzi, secondo l’incisiva espressione di Giustiniano, si tratta di “cacciare le iniquità”.
12
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** quello delle prassi giurisprudenziali e
** quello organizzativo.
§ 2.b - Gli interventi del legislatore: breve panoramica critica
Nel 155 a.c. ci fu il primo storico incontro dei Romani con la filosofia in
occasione di un’ambasceria di tre filosofi greci a Roma : lo stoico Diogene di Babilonia,
il peripatetico Critolao e l’accademico Carneade. Orbene si dice che i tre filosofi fecero
veramente colpo sui Romani ed in particolare suscitò una grande impressione Carneade
perché con il metodo accademico dell’argomentare in utrumque partem “quando
argomentava non si riusciva più a capire dove stesse la verità” 13.
Il nostro legislatore quando legifera in materia processuale sembra adottare la
dialettica accademica in versione “paralogica” perché ha il dono di non farci capire
dove sta il diritto.
Certamente attraverso interventi farraginosi e talvolta asistematici dimostra di
essere un attento e convinto lettore del Machiavelli (cfr. libro XXV del Principe)
confidando molto fatalisticamente – ma spesso erroneamente - nella Fortuna credendo
di sapere “quantum Fortuna in rebus humanis possit”.
Basti pensare, a mo’ di esempio, come nel processo a cognizione piena cercare
ancor oggi di accreditare, come si fece nella relazione al codice per la penna di
Calamandrei, che il processo a cognizione piena riflette gli ideali chiovendiani della
concentrazione , immediatezza ed oralità sia un’operazione ideologicamente scorretta
oltre che insensibile alla realtà fenomenica.
§ 2.b.1. - Gli interventi di “degiurisdizionalizzazione”
In primis vanno analizzati quegli interventi che potremmo definire
stipulativamente di “degiurisdizionalizzazione”, ovvero di allontanamento del giudice
dalla decisione delle controversie secondo la logica dello schema di processo
adversarial.
In questo filone possono essere ricondotte:
** la riforma dell'art. 591 bis c.p.c., introdotto per la prima volta con la l. 3
agosto 1998 n. 302, che ha delegato ai notai le operazioni di vendita forzata degli
immobili, e poi la l. 14 maggio 2005 n. 80, che ha esteso la delega anche ad altri
professionisti, quali gli avvocati e i dottori commercialisti.
** l’art. 31 della l. 4 novembre 2010 n. 183, che ha modificato gli artt. 412 ter e
quater c.p.c., prevedendo la risoluzione in arbitrato delle controversie di lavoro in
13
Plinio - Naturalis Historia 7,112.
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ambito di contrattazione collettiva, e assegnando così, in una certa misura, pari dignità
alla risoluzione in sede stragiudiziale di dette controversie rispetto a quelle risolte
dinanzi al giudice del lavoro.
** segue – La mediazione14
Ma la maggior attenzione va dedicata alla cd. mediazione15.
Con l’istituto della mediazione il legislatore, di fatto, ha preso atto della
circostanza che aumenti di efficienza possono derivare da politiche volte a ridurre i
tassi di litigiosità poiché la relazione tra litigiosità e durata dei procedimenti è positiva e
quantitativamente rilevante.
In via di estrema sintesi va ricordato che, su un piano generale, il legislatore,
nell’avvalersi della mediazione, ha optato per una procedura ad alto tasso di informalità,
le cui origini è possibile fare risalire all’epoca dei primi coloni inglesi, quando le
controversie si risolvevano fuori delle Corti. Ulteriori sviluppi antigiurisdizionali si
sono andati affermando negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso
con il nome di alternative dispute resolution, in sigla A.D.R.16.
In Europa, invece, la logica sottesa alla mediazione è segnata, per un verso, da
ragioni di completamento, diversificazione ed omogeneizzazione del sistema di tutela
dei diritti a favore dei cittadini europei e, per altro verso, dall’esigenza di favorire forme
più flessibili di regolazione in grado di intercettare anche interessi nuovi destinati
normalmente a sfuggire alla risoluzione giurisdizionale.
A questi aspetti si aggiunga l’ulteriore caratteristica propria dell’istituto di cui si
discorre che, nell’associare ad una funzione deflattiva del processo quella di porsi come
strumento ulteriore di tutela dei diritti, favorisce una composizione della lite non guidata
dall’idea di vittoria e sconfitta, ma basata sul con-vincimento, sul vincere, insomma,
assieme delle parti, sullo spirito di recuperare in sostanza una comunicazione interrotta
fra le parti medesime, tipica del resto della ricerca di “armonia sociale” come valore,
diffusa specialmente in culture orientali.
In Italia, mentre sul piano legislativo – in linea con le nuove tendenze normative
che oggi si stanno aprendo nella recezione di modelli stranieri – si ricorre ad un criterio
di “giustizia di prossimità”, sul piano della compatibilità con il dettato costituzionale, i
recenti interventi normativi (cfr. d.lgs. 28/2010 e successive modifiche), nell’introdurre
l’obbligatorietà della procedura di mediazione per molte controversie civili, hanno
14
L’istituto è stato oggetto di numerose trattazioni, tra i tanti si segnalano: A. CAPUTO, P. G. MISTÒ, Mediazione, ADR,
Arbitrato, Torino, 2010; G. COSI, G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti. Teoriae pratica dei metodi ADR, Torino, 2010.
12 e P. MAZZINA, Nuove prospettive del diritto di difesa, Napoli, 2012, 142 ss.
16
Per approfondimenti, si rimanda a D. MARINELLI, Adr (Alternative Dispute Resolution). Guida operativa per conciliatori e
arbitri, Napoli, 2007, con appendice bibliografica.
Sulle cause della fuga dal processo per la risoluzione delle dispute si veda tra gli altri M. F. GHIRGA, Strumenti alternativi di
risoluzione della lite: fuga dal processo o dal diritto? Riflessioni sulla mediazione in occasione della pubblicazione della
Direttiva 2008/52/CE), in Riv. dir. proc., 2009, 368 s.
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immediatamente favorito l’emergere, in letteratura ed in sede giurisprudenziale, di molti
dubbî riguardanti la coerenza della disciplina de qua con i principî costituzionali.
Da un punto di vista puramente teorico va considerata la struttura dell’istituto
che, in base a quanto si è precedentemente rilevato, si caratterizza come un percorso
che, alimentato dal consenso delle parti, fa della comunicazione e dello scambio
dialogico lo strumento essenziale per arrivare alla soluzione condivisa del conflitto.17
Il punto di debolezza rappresentato, invece, dalla previsione dell’obbligatorietà
della mediazione intesa come condizione di procedibilità, oltre ai numerosi rilievi critici
sollevati in letteratura, è stato sottoposto sia al vaglio della Corte costituzionale, sia a
quello della Corte di Giustizia UE. Con la sentenza n. 272 del 2012 la Corte
costituzionale si è limitata, come è noto, a dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 per eccesso di delega, nella parte in cui nel decreto delegato
era prevista la mediazione obbligatoria in quanto condizione di procedibilità della
domanda giudiziale, dichiarando, invece, assorbiti, i profili di censura pure sollevati e
riguardanti il contrasto con il diritto di azione e difesa (art. 24 Cost.), il principio della
ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) nonché quello di ragionevolezza (art. 3
Cost.)18. La Corte, nella pronuncia in esame, si è, dunque, concentrata sui profili
formali dell’atto ed, in particolare, sull’oggetto della delega stessa, rilevando in realtà,
più che un eccesso di delega in senso stretto, un eccesso dalla delega. In altri termini,
piuttosto che esprimersi sull’obbligatorietà della mediazione in quanto tale e, quindi
sulla sua conformità rispetto all’assetto costituzionale in materia, la Corte si è
soffermata sulla conformità del decreto legislativo rispetto alla legge delega. Ponendo
l’attenzione sull’espressione per cui la mediazione civile e commerciale doveva essere
disciplinata «[…] senza precludere l’accesso alla giustizia […]» (cfr. art. 60, co. 3, lett.
a) della legge delega 69/2009), il giudice costituzionale, piuttosto che offrire un
contributo ermeneutico sulla compatibilità della mediazione obbligatoria con l’art. 24
Cost., ha risolto la questione attribuendo all’inciso de quo «[…] un valore di
affermazione di carattere generale, non collegabile alla scelta di un determinato
modello procedurale».
Nell’evitare ogni valutazione in punto di conformità delle scelte del legislatore
rispetto ad altri principî costituzionali (quali, ad esempio, oltre al diritto di azione e
difesa, il giusto processo e in particolare la sua ragionevole durata), la Corte ha evitato
anche di entrare nel merito del ruolo delle procedure di A.D.R. nell’ordinamento e della
loro compatibilità costituzionale.
In analoga direzione va anche la sentenza della Corte di Giustizia del 27 giugno
2013, in causa C-492/11, emessa nel giudizio riguardante la euro-legittimità della
mediazione obbligatoria prevista dal d.lgs. 28/2010. In questo caso, la Corte
dell’Unione, nel dichiarare il non luogo a procedere, prende atto del nuovo quadro
normativo risultante dalla sentenza n. 272/2012 della Corte costituzionale e, senza
entrare nel merito del giudizio, al punto 6, tuttavia, richiama l’art. 5, par. 2, della
direttiva 2008/52/CE nella parte in cui si afferma che l’istituto de quo «[…] lascia
11
M. F. GHIRGA, cit., 376. Sulla mediazione intesa come risposta argomentativa al conflitto si rinvia, tra altri, a S. GRECO
MORASSO, Argomentare per superare il conflitto: l’argomentazione nella mediazione, in Sistemi intelligenti, 2012, 481 ss.
18
La sentenza della Corte costituzionale 272/2012 è consultabile sul sito ondine www.cortecostituzionale.it. Cfr. sul punto L.
NANNIPIERI, Incostituzionalità della mediazione civile e commerciale obbligatoria: l’eccesso di delega assorbe ogni altro
profilo, in www.giurcost.org.
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impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione
obbligatorio, oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del
procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di
esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario».
Entrambe le pronunce e - come vedremo - i recenti interventi normativi, si
inscrivono in un contesto nazionale e sovranazionale che, nel predisporre un sistema
complesso di misure in materia di giustizia, vede nella composizione stragiudiziale delle
controversie un elemento costitutivo dell’intero assetto istituzionale.
Al riguardo, mentre a livello nazionale l’attenzione va oggi posta sulle modifiche
introdotte al d.lgs. 28/2010 dalla recente l. 98/2013, a livello dell’UE vanno segnalate la
Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia,
che formula un parere sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017 del 29 maggio
201319, la Direttiva 2013/11/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio
2013 sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, che modifica il
Regolamento (CE) n. 2006/2004 e la Direttiva 2009/22/CE (Direttiva sull'ADR per i
consumatori) ed il Regolamento (UE) n. 524/2013 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 21 maggio 2013 relativo alla risoluzione delle controversie online dei
consumatori e che modifica il Regolamento (CE) n. 2006/2004 e la Direttiva
2009/22/CE (Regolamento sull’ODR per i consumatori).
Le novità contenute nella l. 98/2013 ed entrate in vigore il 21 settembre 2013,
pur incidendo sul modello originario del 2010 non alterano la finalità propria della
mediazione, a favore di una ricomposizione della lite in grado di determinare una
riduzione del tasso di litigiosità ed un conseguente riequilibrio fisiologico del rapporto
tra domanda ed offerta di giustizia.
Fissato, inoltre, il limite temporale della durata della mediazione in 3 mesi, in
luogo di 4 - decorsi i quali il processo può sempre essere iniziato o proseguito - si
prevede l’integrale gratuità della stessa, quando è condizione di procedibilità o nel caso
di mancato accordo all’esito del primo incontro delle parti, per i soggetti che, nella
corrispondente controversia giudiziaria, avrebbero avuto diritto all’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato (art. 17, co. 5° bis e co. 5° ter, dlgs.28/2010).
Sul merito, delle modifiche, invece, il nuovo modello di mediazione incentrato
sull’obbligatorietà si presenta, rispetto al processo, come una vera e propria fase
presupposta, in cui viene riconosciuto di diritto, agli avvocati che esercitano la
professione, la qualità di mediatori (art. 16, co. 4° bis).
Il legislatore, infatti, in più parti fa riferimento all’assistenza tecnica da parte
dell’avvocato per ciascuna delle parti (cfr. per es. art. 8, 1° co. dlgs. 28/2010). Tale
riconoscimento contempla, per esempio, l’ulteriore previsione che l’accordo concluso
davanti al mediatore, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, sia titolo
esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione
degli obblighi di fare e non fare e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Gli avvocati,
inoltre, attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e
all’ordine pubblico.
19
COM(2013)362 final, 29 maggio 2013 rinvenibile sul sito online www.europa.eu.
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È evidente che l’idea di fondo che ha guidato il legislatore rispetto all’originaria
formulazione sia stata quella di valorizzare il ruolo dell’avvocato, riconoscendogli la
funzione di garanzia nella riuscita della mediazione. Essa, oltre a rispondere a ragioni di
opportunità politica - vista la decisa opposizione della categoria forense verso il modello
di mediazione disegnato nell’originaria versione del d.lgs. 28/2010 - è anche confortata
dai dati statistici, stando ai quali, relativamente proprio a quel periodo, emerge che sono
stati assistiti da avvocato l’84 per cento dei proponenti e l’85 per cento degli aderenti20
La nuova formulazione si contraddistingue, in primo luogo, per l’esclusione, dal
raggio applicativo della condizione di procedibilità, delle controversie inerenti la
responsabilità per danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (oltre alla
specifica esenzione, unitamente ad altri procedimenti urgenti o sommarî, del
procedimento di consulenza preventiva a fini conciliativi) e per l’inserimento, in materia
di risarcimento del danno derivante da responsabilità, dopo la parola: «[…] medica
[…]» di quella «[…] sanitaria».
Si rintroduce quindi l’obbligatorietà della mediazione, ma “a tempo” ed in via
sperimentale, ossia soltanto per la durata di quattro anni, prevedendo poi che dopo due
anni il Ministero della Giustizia ne monitori gli esiti, al fine di assumere eventuali
determinazioni al riguardo.
Non è oggetto di questo intervento l’analisi specifica della procedura di
mediazione delineato dal legislatore21, qui preme rilevare, ai fini specifici della
relazione, che il fattore di maggiore novità è, tuttavia, quello rappresentato dalla
mediazione disposta dal giudice ed equiparata, in rapporto alla condizione di
procedibilità, a quella obbligatoria.
Nel testo originario del d.lgs. 28/2010 il legislatore aveva puntato quasi
esclusivamente sulla obbligatorietà dell’istituto disposta per legge, per cui al giudice era
rimessa solo la possibilità di invitare le parti ad attivare il procedimento di mediazione
Sul punto si veda il contributo di G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione: il difficile
percorso degli avvocati verso i sistemi di A. D. R., in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2/2012, p.
175 ss.
21
Per comodità del lettore si riporta qui un breve sunto della procedura
20
Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza
dell’avvocato. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la
ricezione, anche a cura della parte istante. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di
svolgimento della mediazione.
Il mediatore al primo incontro invita le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione.
In caso di valutazione positiva, il mediatore prosegue la procedura, eventualmente fissando altri incontri, e si adopera perché le
parti arrivino a definire la controversia con un accordo amichevole. In caso di valutazione negativa, nessun compenso è dovuto
all’organismo di mediazione. Per le materie in cui la mediazione è condizione di procedibilità e nei casi in cui è stata ordinata dal
giudice, si può iniziare o proseguire il processo. Laddove venga raggiunto l’accordo il mediatore forma processo verbale al quale è
allegato il testo dell’accordo. L’accordo, come si è precedentemente detto, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati è titolo esecutivo
per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna o rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare e per l’iscrizione di
ipoteca giudiziale. Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. Negli
altri casi l’accordo allegato al verbale omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale. Se non c’è l’accordo
il mediatore può tentare di comporre il contrasto tra le parti formulando una propria proposta di conciliazione. Inoltre il mediatore
formula una proposta di conciliazione in qualsiasi momento del procedimento se le parti gliene fanno concorde richiesta. Ogni volta
che il mediatore formula una proposta di mediazione – di propria iniziativa o su richiesta comune delle parti – i soggetti coinvolti
nel procedimento sono chiamati ad esprimersi sulla sua proposta. In tal caso se la proposta viene accettata il mediatore forma
processo verbale è l’accordo costituisce titolo esecutivo o può essere omologato come nel caso in cui viene raggiunto l’accordo. Se
la proposta, invece, viene rifiutata il mediatore redige il verbale ed è possibile iniziare o proseguire il processo. L’esperimento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e si precisa che tale ordine del giudice
costituirà condizione di procedibilità «[…] anche in sede di giudizio d’appello».
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extragiudiziale, ma occorreva a tal fine il consenso delle stesse perché l’invito potesse
poi divenire vincolante (seppure sul piano negoziale).
Nella nuova formulazione dell’art. 5, co. 2° del d.lgs. 28/2010 viene, invece,
affidato al giudice un nuovo e più incisivo ruolo, giacché egli sarà in grado di vincolare
le parti e potrà ordinare che le stesse diano l’avvio ad un procedimento di mediazione. I
presupposti sono gli stessi previsti per la mediazione obbligatoria: in qualunque
momento – prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ed anche in sede di
giudizio di appello – valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il
comportamento delle parti, il giudice potrà disporre l’esperimento della mediazione, che
in tal caso diverrà condizione di procedibilità della domanda.
La fattispecie della mediazione prescritta dal giudice viene così integralmente
assimilata, ai fini della procedibilità (anche se con un giudizio ex post, o meglio fondato
su una condizione di improcedibilità sopravvenuta rispetto all’avvio del processo), alla
“mediazione obbligatoria ex lege” (art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010) e si considera
avverata, alla stessa stregua di quella obbligatoria, anche se il primo incontro dinanzi al
mediatore si conclude senza l’accordo.
La possibilità di prescrivere la mediazione (con forza quindi vincolante per le
parti) presenta in sé tutti gli elementi favorevoli per divenire uno strumento
estremamente incisivo, se si rileva che il giudice potrà ordinare la mediazione non
soltanto a prescindere dagli obblighi di mediazione previsti ex ante dalla legge, ma in
qualsiasi materia, purché nell’area generale dei diritti disponibili (cfr. l’art. 2, 1° co. del
dlgs. 28/2010).
Vanno, inoltre, segnalate altre due previsioni che potrebbero positivamente
incidere sul nuovo modello di mediazione22.
In primo luogo, il ripristino delle sanzioni per chi non si presenta all’incontro
con il mediatore. In altri termini il giudice, una volta arrivati al processo, condannerà la
parte che non ha partecipato alla mediazione “senza giustificato motivo” a pagare una
somma pari al contributo unificato e potrà “desumere argomenti di prova” dalla sua
assenza (art. 8, 4° co. bis e 5° co. dlgs. 28/2010).
In secondo luogo, l’azzeramento delle spese di mediazione a carico delle parti, in
tutti quei casi in cui ci si accorga, già al primo incontro, che è assolutamente impossibile
raggiungere un’intesa (art. 8, 5° co. dlgs. 28/2010). La combinazione di tali previsioni,
unitamente alla modifica della competenza territoriale degli organismi sembra voler
creare le condizioni perché le parti valutino l’opportunità di sedersi al tavolo di
mediazione.
Il filo rosso che tiene uniti i diversi interventi del rinnovato modello di
mediazione appena esaminato, come si è visto, è dato: 1) da un significativo
restringimento dell’obbligatorietà ex lege, quanto ad area materiale; 2) dalla
valorizzazione della mediazione decisa dal giudice; 3) dall’abbattimento dei costi della
medesima; 4) dalla previsione dell’intervento da parte degli avvocati: durante la
procedura di mediazione è prevista la presenza del difensore per entrambe le parti;
inoltre, gli avvocati sono mediatori di diritto, salvo il dovere di aggiornamento
22
Anche se non può ignorarsi che lo scopo deflattivo potrebbe essere ridotto dal fatto che non si prevede nella sostanza alcuna
misura atta a far sì che le parti indichino al conciliatore tutti gli elementi di fatto e di diritto della controversia nonché le prove che
intendono utilizzare nel successivo eventuale processo sicché diventa arduo pensare che il conciliatore possa avanzare ragionevoli
proposte conciliative.
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professionale; infine, l’accordo raggiunto in sede di mediazione alla presenza degli
avvocati ha effetti esecutivi.
In una chiave di lettura più ampia, l’indirizzo in argomento del legislatore
sembra essere quello per cui mediazione e risoluzione giurisdizionale delle liti,
rappresentano due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari di un sistema
di composizione dei conflitti. Dove finisce la mediazione - intesa come strumento teso a
scongiurare il rischio che ogni conflitto si trasformi necessariamente in una controversia
giudiziale – lì, in termini di extrema ratio, si innesta il ricorso alla giurisdizione.
In buona sostanza l’idea di fondo che sembra aver guidato il legislatore è stata
quella di attenuare l’obbligatorietà della mediazione in fase preventiva e di rafforzarla in
fase successiva, affidando il possibile successo del suo esperimento non solo ai
protagonisti della stessa in precedenza previsti (mediatori e relativi organismi), ma, in
una logica più complessa e partecipata anche, e forse oggi in primo luogo, ad avvocati e
magistrati.
Rimettere, infatti, alla sensibilità del giudice una valutazione estremamente
delicata, come quella di disporre il ricorso alla mediazione, e responsabilizzare il ruolo
dell’avvocato, rende entrambe le figure parti attive e complementari di una nuova
concezione della stessa giustizia, ossia di una giustizia che da una parte vede nella
mediazione la possibile sede “naturale” di composizione delle liti, la sede per la ripresa
dei dialoghi interrotti e che, dall’altra parte, guarda alla risoluzione giudiziaria quale
sede nella quale lo scontro è invece vissuto secondo uno schema antagonista.
A queste considerazioni si aggiungano ulteriori riflessioni intorno alla
circostanza che il legislatore, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale, sia
ritornato sull’istituto e che l’abbia fatto ribadendo la centralità di quella obbligatoria.
Questa statuizione dimostra, infatti, che tale previsione continua ad essere il principale
mezzo per promuovere la mediazione, posto che anche la breve applicazione della
previgente disposizione ha dimostrato l’attitudine dell’istituto a porsi come strumento di
pacificazione sociale e di deflazione del contenzioso giudiziario civile, ma anche che - e
sotto questo profilo è determinante riflettere sui dati - l’istituto necessita di una
previsione ex lege, dovendo essere ancora metabolizzato sul piano culturale, prima di
divenire regola di costume23.
Partendo da questa considerazione, il legislatore con la l. 98/2013 fa un ulteriore
passo avanti rispetto alla originaria disciplina contenuta nel d.lgs. 28/2010, teso a
rafforzare i presupposti per un cambio di paradigma culturale necessario per una piena
23
A fronte, infatti, del breve periodo di applicazione della normativa in materia di condominio e risarcimento del danno da
circolazione di veicoli e natanti, per le quali l'obbligo della mediazione è entrato in vigore soltanto il 20 marzo 2012, in tutte le altre
materie (Diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del
danno da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi,
bancari e finanziari), per le quali ha trovato applicazione dal 21 marzo 2011 i dati statistici forniti dal Ministero della giustizia
(DGStat), attestano che il procedimento in questione ha avuto ampia applicazione non solo nelle controversie, come quelle in
materia di diritti reali (19,3% dei casi), locazione (12,7% dei casi), divisione (5,6% dei casi), successioni ereditarie (3,3% dei casi),
in cui il raggiungimento di un accordo tra le parti è agevolato dalla natura personale dei rapporti intercorrenti tra le parti e dal
carattere non seriale degli interessi coinvolti, ma anche nelle controversie che, come quelle in materia di contratti bancari (9,1% dei
casi) e assicurativi (8,3% dei casi), investono prevalentemente rapporti di massa. Sul punto si vedano i dati elaborati dal Ministero
della Giustizia. Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, presenti in www.giustizia.it e la Relazione del Primo Presidente della
Corte di Cassazione Ernesto Lupo sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2012 per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
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affermazione dell’istituto: sulla disciplina riguardante la mediazione obbligatoria
innesta, come si è visto, quella decisa dal giudice.
Non possono passare inosservati i risultati raggiunti nel periodo di prima
applicazione dell’istituto24. Da questi si rileva che, quando le parti hanno fatto ricorso
alla mediazione, essa si è rivelata realmente capace di favorire una soluzione
conciliativa della controversia, avendo condotto ad una definizione concordata nel
46,4% dei casi in cui entrambe le parti sono comparse. Il problema è che l’aderente non
è comparso nel 64,2% dei casi, onde la rammentata percentuale si riferisce soltanto al
31,2% delle mediazioni richieste. Nel solo 16% dei casi le parti hanno scelto
autonomamente di percorrere la strada della mediazione senza esservi costrette da
alcuna disposizione di legge.
Motivare i privati sull’utilizzo di uno strumento capace di fornire una risposta
tempestiva ed efficace alle esigenze di tutela nei rapporti tra privati rappresenta oggi il
principale banco di prova con il quale dovrà misurarsi la nuova disciplina: le premesse
normative questa volta sembrano più salde. E’ necessario, però, che si formi una vera
cultura della mediazione affinché il tentativo di conciliazione non si risolva in un’inutile
formalità se non addirittura in un appesantimento dei tempi di giustizia.
** Infine va menzionata, come ulteriore elemento deflattivo, seppur di scarsa
incidenza, la modifica al codice di procedura civile introdotta con l’art. 76 del decreto
legge 21 giugno 2013 n. 69 convertito in legge n. 98/2013 laddove si prevede la
divisione a domanda congiunta al notaio “Al codice di procedura civile, dopo l'articolo
791, e' aggiunto il seguente: "791-bis (Divisione a domanda congiunta) Quando non
sussiste controversia sul diritto alla divisione ne' sulle quote o altre questioni
pregiudiziali gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno
notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono, con ricorso congiunto al
tribunale competente per territorio, domandare la nomina di un notaio avente sede nel
circondario al quale demandare le operazioni di divisione. Se riguarda beni immobili, il
ricorso deve essere trascritto a norma dell'articolo 2646 del codice civile. Si procede a
norma degli articoli 737 e seguenti. Il giudice, con decreto, nomina il notaio
eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest'ultimo, nomina un esperto
estimatore. Quando risulta che una delle parti di cui al primo comma non ha
sottoscritto il ricorso, il notaio rimette gli atti al giudice che, con decreto, dichiara
inammissibile la domanda e ordina la cancellazione della relativa trascrizione. Il
decreto e' reclamabile a norma dell'articolo 739. Il notaio designato, sentite le parti e
gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno
acquistato diritti sull'immobile a norma dell'articolo 1113 del codice civile, nel termine
assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita
dei beni non comodamente divisibili e da' avviso alle parti e agli altri interessati del
24
Positivo sarebbe potuto risultare il giudizio anche in ordine al livello di adesione delle parti alla procedura, in costante
incremento (dal 26% al 35,7%) dall'entrata in vigore del decreto legislativo fino al momento in cui l'obbligo della mediazione è
divenuto applicabile anche alle controversie in materia di risarcimento dei danni derivanti da circolazione dei veicoli e natanti, se
su tale dato non avesse pesato in misura determinante l'atteggiamento di sfiducia, se non addirittura di preconcetta opposizione,
manifestato dalle compagnie di assicurazione, le quali si sono astenute sistematicamente dal comparire dinanzi ai mediatori.
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pag. nr. 19
progetto o della vendita. Alla vendita dei beni si applicano, in quanto compatibili, le
disposizioni relative al professionista delegato di cui al Libro III, Titolo II, Capo IV.
Entro trenta giorni dal versamento del prezzo il notaio predispone il progetto di
divisione e ne da' avviso alle parti e agli altri interessati. Ciascuna delle parti o degli
altri interessati può ricorrere al Tribunale nel termine perentorio di trenta giorni dalla
ricezione dell'avviso per opporsi alla vendita di beni o contestare il progetto di
divisione. Sull'opposizione il giudice procede secondo le disposizioni di cui al Libro IV,
Titolo I, Capo III bis; non si applicano quelle di cui ai commi secondo e terzo
dell'articolo 702-ter. Se l'opposizione e' accolta il giudice da' le disposizioni necessarie
per la prosecuzione delle operazioni divisionali e rimette le parti avanti al notaio.
Decorso il termine di cui al quinto comma senza che sia stata proposta opposizione, il
notaio deposita in cancelleria il progetto con la prova degli avvisi effettuati. Il giudice
dichiara esecutivo il progetto con decreto e rimette gli atti al notaio per gli
adempimenti successivi”.
Volendo fare una valutazione generale su tali interventi si può dare un giudizio
cautamente positivo ma con la speranza che gli stessi non siano prodromici alla più
grossa privatizzazione della giustizia civile mai tentata (per trovare qualcosa di analogo
occorre risalire all’attribuzione di efficacia esecutiva alla cambiale disposta dal codice di
commercio del 1882) quale mero adeguamento al liberismo sfrenato che sembra
caratterizzare l’attuale fase dei rapporti politico-sociali: adeguamento che potrebbe
comportare un grave vulnus alla garanzie ed all’equilibrio assicurati dalla cognizione
piena giurisdizionale.
§ 2.b.2. - Gli interventi di incremento dei poteri del giudice
Per le controversie dinanzi agli organi giudiziari, invece, v’è stato, come
rilevato, un costante e progressivo aumento dei poteri del giudice, e contestuale
riduzione dei diritti delle parti, secondo una tendenza iniziata con la riforma del
processo civile di cui alla l. 26 novembre 1990 n. 353 e non più arrestata.
La riforma del '90 ha infatti rivisto il principio di libertà nel processo voluto
dalla l. 14 luglio 1950 n. 581, e introdotto un processo a preclusioni fino a quel
momento inesistente, sia in primo grado (art. 167), che in appello (345).
Con essa, inoltre, si è reso aspetto centrale e irrinunciabile del processo la
presenza personale della parte nella prima udienza per l'interrogatorio libero, in una
logica che mette al centro del processo il giudice, nel contatto diretto con il litigante.
Entrata in applicazione tra il 1995 e il 1996, nel 1998 v'è stata l'ulteriore riforma
del giudice unico di primo grado, con soppressione delle preture.
Questa riforma, oltre a far venir meno un ufficio che esisteva fin dall'antica
Roma, ha aggravato le Corti di Appello, che si sono viste investite degli appelli del già
pretore, fino a quel momento distribuiti tra tutti i tribunali del distretto.
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pag. nr. 20
Ha attribuito (quale regola, e salva l'eccezione di cui all'art. 50 bis c.p.c. ) la
decisione delle controversie in primo grado ad un solo giudice e ciò ha inciso sui termini
di definizione dei processi comportando un aumento della quantità dei medesimi
compensandosi così la perdita della garanzia collegiale – fatta salva nei procedimenti
più delicati – con la maggior celerità del processo in primo grado. Ma ancora una volta
ad un maggior numero di pronunzie è corrisposto un maggior numero di appelli che le
Corti di Appello, non modificate nell’organico, hanno dovuto affrontare con evidenti
difficoltà.
Inoltre con la suddetta riforma è stato definitivamente sottratto ogni controllo ai
poteri istruttori, con il venir meno del reclamo al collegio avverso le ordinanze
ammissive delle prove, prima regolate dall'art. 178 c.p.c. e nonostante alcuni autori
abbiano gridato allo scandalo ravvisandovi una violazione al diritto di difesa appare
evidente come la rimessione al collegio in sede di decisione delle questioni de quibus
abbia tolto una zavorra che incombeva sul processo rallentandone la procedura senza,
perciò, vulnerare il principio di difesa dal momento che la parte può, comunque,
rappresentare in sede di decisione le proprie tesi e doglianze al collegio.
Parimenti sono stati attribuiti ulteriori poteri al giudice con l'inserimento dei
nuovi artt. 281 bis e ss. c.p.c.
Con essi, infatti, si è ampliato il campo della prova testimoniale disposta
d'ufficio, nonché le modalità di definizione della lite di cui agli artt. 281 quinquies e
sexies, che il giudice può disporre sempre d'ufficio.
E anche questo strumento di definizione della controversia in modo del tutto
informale se adoperato con sagacia può veramente agevolare lo smaltimento in tempo
ragionevole del contenzioso minore in primo grado.
Certo non sono mancate e non mancano questioni sulle modalità applicative di
questa procedura tra le quali va ricordata soprattutto quella relativa alla “comprensione”
del fatto sul quale si è statuito dal momento che capita spesso che la redazione
eccessivamente “contratta” della motivazione – ridotta alle sole ragioni di diritto stese
nel verbale di udienza – rende il documento di difficile comprensione anche
all’operatore giuridico e soprattutto all’eventuale giudice di appello che viene costretto
ad una faticosa ed onerosa (in termini temporali) rilettura di tutte le carte processuali per
“ricostruire” le conclusioni delle parti o gli esatti termini fattuali della decisione . Per
non parlare delle difficoltà di individuare su che cosa cade il giudicato.
** Si sono poi avute le riforme di cui alla l. 14 maggio 2005 n. 80 e al d. lgs. 2
febbraio 2006 n. 40.
La l. 14 maggio 2005 n. 80 è di nuovo intervenuta sull'art. 167 c.p.c, prevedendo
che il convenuto con la comparsa di risposta debba, a pena di decadenza, non solo
proporre domande riconvenzionali e chiamare terzi in causa ma anche (sempre a pena di
decadenza) proporre “le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili
d'ufficio”: ed anche questa innovazione va valutata positivamente perché indubbiamente
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pag. nr. 21
ha contribuito alla riduzione dei tempi del processo eliminando i cd. “tempi morti” e
costringendo da subito le parti al contraddittorio su tutta la materia del contendere.
** In virtù degli interventi innovativi apportati dal legislatore del 2005, è stato
introdotto nel nostro ordinamento l’art. 696-bis c.p.c., che disciplina l’istituto della
consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite. Tale norma prevede
la possibilità per le parti di chiedere l’espletamento di una consulenza tecnica
indipendentemente dall’instaurazione di un processo di merito, affinché il consulente
provveda all’accertamento e alla determinazione dei crediti derivanti da illeciti
contrattuali ed extracontrattuali.
Tale istituto risulta connotato, per un verso dall'assenza del requisito
dell'urgenza probatoria, e, per altro verso, dalla precisa delimitazione della materia
controversa, individuata esclusivamente nell'accertamento e relativa determinazione
dei crediti di natura risarcitoria, di fonte sia contrattuale - da mancata od inesatta
esecuzione delle obbligazioni contrattuali - sia extracontrattuale, da fatto illecito.
Per quanto riguarda l’attività del consulente, trovano applicazione, in virtù di espresso
richiamo legislativo (art. 696-bis, ult. cpv, c.p.c.), gli artt. da 191 a 197 del codice di rito
civile. Il consulente, prima di depositare la propria relazione, tenta la conciliazione. Se
le parti si conciliano, si forma processo verbale, che è esente dall’imposta di registro, a
cui il giudice attribuisce efficacia di titolo esecutivo anche ai fini dell’iscrizione di
ipoteca giudiziale. Se, al contrario, le parti non si conciliano, ciascuna può chiedere che
la relazione del consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito.
L’evidente intento del nostro legislatore di rendere la consulenza tecnica con
funzione conciliativa appetibile per le parti, in un’ottica deflattiva della giustizia civile
ordinaria ha ricevuto una certa entusiastica accoglienza da parte della dottrina e dalla
giurisprudenza: e i risultati deflattivi non hanno tardato ad emergere.
La realtà quotidiana segnala un costante aumento dei ricorsi ex art. 696 bis c.p.c.
e una concreta capacità dell’istituto di eliminare in nuce il contenzioso. Una buona
norma che sta dando ottimi risultati in ossequio al principio dell’economia processuale.
E la riprova della efficacia di tale istituto arriva dallo schema di decreto legislativo
approvato dal governo il 17 dicembre 2013 e di cui infra.
** Inoltre la l. 80/2005 ha limitato entro l’ordinanza di vendita la possibilità di
chiedere la conversione del pignoramento ex art. 495 c.p.c,, ha limitato la possibilità di
intervento nell’esecuzione forzata solo a chi sia in possesso di titolo esecutivo ex art.
499 c.p.c. e, sulle orme dell’esperienza tedesca e francese, ha attenuato la strumentalità
cautelare dei provvedimenti d’urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e degli altri
provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito tentando
di consentire alla tutela cautelare di assolvere non solo alla funzione di effettività della
tutela ma anche alla funzione di economia di giudizi evitando, una volta emanato il
provvedimento cautelare, che il giudizio di merito debba necessariamente svolgersi pena
l’inefficacia del provvedimento stesso.
Una volta messosi in tal senso il legislatore, però, avrebbe potuto aver più
coraggio ed estendere tale riforma pure ai provvedimenti conservativi dato che anche
questi ultimi sono di fatto sempre provvedimenti parzialmente anticipatori (il sequestro
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pag. nr. 22
conservativo anticipa il potere di pignorare) essendo, tra l’altro, difficile sul piano della
teoria e della prassi tracciare una netta linea di demarcazione tra provvedimenti cautelari
anticipatori e provvedimenti cautelari conservativi.
** Il d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 ha introdotto il quesito di diritto in cassazione
(art. 366 bis), ha ampliato i casi di inammissibilità del ricorso ex art. 375 c.p.c. per
manifesta fondatezza o infondatezza degli stessi, e soprattutto ha ampliato l'ambito di
applicazione dell'art. 363 c.p.c., ovvero di un istituto ufficioso, e mai (o quasi mai) in
passato utilizzato, qual è quello dell'impugnazione del procuratore generale in assenza
di ricorso delle parti.
** Ma ancor più ha fatto la riforma di cui alla l. 18 giugno 2009 n. 69.
Con essa:
I) è stata inserita una nuova preclusione in materia di competenza ex art. 38 c.p.c.
(“L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono
eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente
depositata”): il restringimento a carico della parte è molto severo ma l’impatto in
termini temporali viene attenuato dal fatto che resta pur sempre il potere del giudice di
rilevare ex officio le incompetenze (fuori dall’ipotesi territoriale derogabile) sino alla
prima udienza di trattazione;
II) è stata modificata la disciplina delle spese processuali di cui agli artt. 91 e 92,
c.p.c. considerando la soccombenza, o la non accettazione di una proposta conciliativa,
fatti da sanzionare (il giudice “se accoglie la domanda in misura non superiore
all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza
giustificato motivo la proposta, al pagamento delle spese maturate dopo la
formulazione della proposta …”);
III) è stato aggiunto un comma all'art. 96 c.p.c, che oggi assegna al giudice la
libertà di punire l'azione e la difesa in ipotesi, nemmeno espressamente disciplinate dalla
legge, con il pagamento di ulteriori somme di denaro;
IV) sono stati ridotti tutti i termini processuali, con modifiche degli artt. 50, 305,
307, 327 c.p.c. in tema per es. di impugnazione, sospensione e riassunzione: la novità
agevola certamente la riduzione dei tempi necessari per addivenire al giudicato (in tema
di impugnazione per es. si supera il rischio della doppia sospensione feriale dei termini);
V) è stata espressamente vietata la produzione di nuovi documenti in appello ex
art. 345 c.p.c.;
VII) è stato limitato il diritto delle parti di ricorrere in cassazione, con
l'inserimento del filtro di cui all'art. 360 bis c.p.c.;
VIII) si è statuito che la pronunzia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite
della corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro
processo tentando un timido avvicinamento dell’ordinamento italiano alla regola dello
“stare decisis” del sistema del common law.
IX) si sono accelerati i termini per la redazione della consulenza tecnica di
ufficio con la riformulazione degli artt. 191 e 195 c.p.c.
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pag. nr. 23
X) è stato introdotto un nuovo processo sommario di cognizione ex art. 702 bis
c.p.c. e ss., che consente al giudice di decidere la sorte dei diritti procedendo “nel modo
che ritiene più opportuno” (art. 702 ter);
XI) è stato ideato il c.d. calendario del processo di cui all'art. 81 bis delle disp.
att. c.p.c., con il quale il giudice, d'ufficio, e solo sentite le parti, può fissare i tempi
dell'andamento della controversia, con l'indicazione delle udienze successive e degli
incombenti che verranno espletati.
XII) si è introdotta con l’art. 257 bis c.p.c. una sorta di affidavit all’italiana
ammettendo il giudice a disporre, su accordo delle parti, l’assunzione della deposizione
testimoniale attraverso risposta scritta ai quesiti su cui il teste deve essere interrogato.
L’argomento della presente relazione impedisce uno scrutinio approfondito di
ciascuna delle novità succitate sicché l’analisi si soffermerà su quelle di cui ai punti da
IX a XII).
** Le novità in tema di consulenza tecnica appaiono sulla carta veramente
importanti perché con esse si sono voluti ridurre i tempi processuali dell’esame
dell’elaborato peritale, tuttavia l’incidenza pratica è stata scarsa perché i termini non
sono perentori sicché spesso la parte che non ha trovato accoglimento delle proprie
istanze nella c.t.u. presenta ulteriori osservazioni alla c.t.u. – magari mediante nuovo
c.t.p. avendo nel frattempo sostituito il precedente c.t.p. - che inducono il giudice sia al
richiamo del consulente per rispondere alle stesse sia all’instaurazione del
contraddittorio per una compiuta disamina. Dichiarare inammissibili tali nuove
osservazioni per “abuso dello strumento processuale” non pare legittimo anche perché
talvolta le nuove osservazioni sono pertinenti e, in ogni caso, meritano una risposta
“tecnica” non essendo il giudice in grado di adeguatamente fronteggiarle.
Anche l’imposizione del quesito al momento dell’ammissione della c.t.u. non
sembra una soluzione efficace sol che si consideri che la formulazione del quesito
impone spesso una cognizione specifica della materia trattata (si pensi ai quesiti in tema
di anatocismo o di appalti) sicché appare più corretta la formulazione nel contraddittorio
del c.t.u. che può guidare e dare indicazioni tecniche al giudice: la formulazione senza
c.t.u. impone spesso la rivisitazione del quesito al momento del conferimento
dell’incarico proprio per i rilievi apportati dal c.t.u..
** Circa la novità del processo cd. “informale” introdotto dagli artt. 702 bis e ss.
c.p.c. sulla quale molto ha puntato il legislatore è agevole riscontrare una sostanziale
scarsa utilizzazione del medesimo sino all’anno 2012 con un lieve aumento nel corso
nell’anno 2013.
Effettivamente i conditores legum si aspettavano un forte utilizzo dello
strumento e la mancata utilizzazione è stata da taluno imputata al misoneismo della
classe forense.
In realtà la risposta è molto più complessa. Sicuramente vi è una componente
misoneista ma non può neppure trascurarsi la circostanza che la fase iniziale di detto
procedimento non comporta alcun risparmio di tempo e vi è il rischio che la domanda
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pag. nr. 24
non sia ammissibile nelle forme del processo in esame con perdita di tempo per la
“conversione del rito”; ma soprattutto è un rito che dà molto potere al giudice il quale
può scandire a propria discrezione termini veramente incalzanti per la difesa che rischia
di vedersi costretta a “seguire” con affanno il ritmo processuale. Insomma per la difesa è
un salto nel buio! Ciò spiega perché il legislatore con la l. 151/2011 ha imposto per
taluni processi tale rito indipendentemente dalla richiesta della parte (ma sul punto v.
ultra).
** L’introduzione del calendario del processo non può essere astrattamente
criticata25: anzi va salutata come una vera e propria novità che potrebbe agevolare i
tempi di definizione del processo ma purtroppo la modalità operativa prevista dal
legislatore fa sorridere colui che ha una benché minima cognizione della grammatica
gestionale. Infatti, anzitutto, il calendario riguarda la sola fase istruttoria e quella
decisoria; ma ciò che più colora di inefficacia la novità è la circostanza che un
calendario scadenzato in modo così specifico come quello previsto dall’art. 81 bis delle
disp attuaz c.p.c. può trovare applicazione solo nel caso in cui il giudice abbia un ruolo
di non più di 150/200 cause trattando le stesse una dopo l’altra. Applicare tale
calendario a ruoli nei quali si trattano contestualmente di più di 500 cause - e
generalmente i ruoli sono di circa 700/800 se non di 1.000 cause – vuol dire appesantire
i tempi del processo nel senso che si devono prevedere udienze che potrebbero non
essere più necessarie e in tal modo i tempi di fissazione si allungano. In particolare si
pensi al consumo di tempo che si richiede al magistrato chiamato a gestire un ruolo di
migliaia di cause per pianificare ognuna di esse, predisponendo un calendario del
processo, sentiti i difensori. In tal caso anche la stessa ordinanza emessa ai sensi dell’art.
183, settimo comma, cod. proc. civ. rischia di essere emanata solo dopo una difficile
attività di programmazione, con ulteriori ritardi nell’eventuale scioglimento delle
riserve. Va, inoltre, evidenziata l’inevitabile prevenzione che si innesca nei giudici con
ruoli particolarmente gravosi, in quanto, dato che il calendario del processo va
predisposto, anche a rischio di rilievi disciplinari, allora il magistrato é indotto, in
prevenzione, a pianificare tempi più lunghi proprio per evitare di dover incorrere in
continue proroghe o rinvii determinati dalla oggettiva difficoltà di gestire ruoli molto
carichi.
Infine, l’obbligatorietà del calendario non consente di scegliere i processi in cui
adottarlo, tenuto conto di eventuali urgenze, dei temi oggetto del contendere o della
natura dei diritti coinvolti e se il calendario del processo persegue la finalità di
consentire la prevedibilità dei tempi del processo nonché di contenerne la durata entro
Per esempio nell’ordinamento francese, dal 2005 molti uffici giudiziari hanno sviluppato la prassi del
“contratto di procedura” (contrat de procédure), con cui giudici ed avvocati decidono insieme sulla
tabella temporale di svolgimento delle attività processuali, sui termini per il compimento degli atti
introduttivi e per lo scambio di documenti. Chi ha analizzato questa esperienza constata che il contenuto
di questi accordi è molto vario da una sede giudiziaria all’altra, ma in genere presenta molti vantaggi
soprattutto per gli avvocati, che conoscono precisamente quando la causa verrà trattata e non sono esposti
a sorprese, con notevole risparmio di tempo ed un migliore impiego di energie Così, FARRAND, in
TROCKER-VARANO, The reforms of civil procedure in comparative perspective, Torino, 2005.
.
25
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pag. nr. 25
tempi ragionevoli, dà luogo un’aporia ritenerne l’obbligatorietà anche qualora la sua
applicazione, rigida e obbligatoria in uno specifico contesto giudiziario, porti di fatto ad
un risultato del tutto inverso e contrario.
La corte costituzionale con la sentenza 18 luglio 2013 n. 216 ha dichiarato
infondata la questione di costituzionalità dell’art. 81 disp attuaz c.p.c. spiegando che “La
norma censurata (art. 81-bis disp. att. cod. proc. civ.), sotto la rubrica «Calendario del processo», stabilisce nel primo comma
quanto segue: «Il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le parti e tenuto conto della natura, dell’urgenza e
della complessità della causa, fissa, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, il calendario delle udie nze
successive, indicando gli incombenti che verranno in ciascuna di essa espletati, compresi quelli di cui all’articolo 189, primo
comma. I termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d’ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenut i.
La proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini». Nel secondo comma, essa aggiunge: «Il mancato
rispetto dei termini fissati nel calendario di cui al comma precedente da parte del giudice, del difensore o del consulente t ecnico
d’ufficio può costituire violazione disciplinare, e può essere considerato ai fini della valutazione di professionalità e della nomina
o conferma agli uffici direttivi e semidirettivi». La norma suddetta costituisce diretta emanazione dell’art. 175 cod. proc. civ., che
affida al giudice istruttore la direzione del procedimento, attribuendogli «tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento»
di esso. In particolare, «egli fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti proce ssuali». Il
legislatore, rendendo esplicito e disciplinando con maggior dettaglio il potere-dovere del giudice di formare il calendario del
processo (quando provvede sulle richieste istruttorie e, quindi, non in relazione ad ogni causa e ad ogni momento di essa), h a
inteso perseguire l’esigenza di rendere conoscibili alle parti (sia pure in modo non rigido) i tempi del processo stesso, la
necessità di evitare (per quanto possibile) inutili rinvii e ancora la possibilità di realizzare il principio di ragionevole durata del
processo, richiamato in modo espresso nel testo normativo. In sostanza, come è stato autorevolmente osservato, si tratta di uno
strumento che consente un’organizzazione programmata del processo, attraverso un «governo dei tempi» delle fasi di necessaria
articolazione della procedura, che ne riduca la durata, introducendo elementi di prevedibilità concreta del momento nel quale la
causa arriverà a decisione.
Ad avviso del rimettente, le finalità perseguite dalla norma censurata sarebbero rese vane, tradendo la ratio legis
dell’istituto (di qui l’irragionevolezza della norma stessa, in violazione dell’art. 3 Cost.), in quanto l’imposizione dell’u so del
calendario, specialmente negli uffici giudiziari con carichi lavorativi molto gravosi, indurrebbe il giudicante – nel timore di non
poter rispettare i termini fissati e, perciò, d’incorrere nella sanzione disciplinare minacciata dal secondo comma della
disposizione de qua – a stabilire scansioni temporali più lunghe di quelle che altrimenti avrebbe pianificato, con un paradossale
effetto di “allungamento” dei tempi processuali. Inoltre, considerata la difficoltà di gestire ruoli di migliaia di cause e, quindi, di
programmarle in modo adeguato, si dilaterebbero anche i tempi per l’emanazione dell’ordinanza ai sensi dell’art . 183, settimo
comma, cod. proc. civ. Infine, non sarebbe consentito al giudice scegliere i processi in cui adottare o meno il calendario, t enuto
conto di eventuali urgenze, temi del contendere o della natura giuridica dei diritti coinvolti. Queste tesi no n possono essere
condivise. Si deve premettere che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore dispone di ampia discrezionali tà
nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis: sentenza n. 304 del 2011), con il solo limite dell a manifesta
irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis: sentenze n. 117 del 2012; n. 52 del 2010; e n. 237 del 2007). Già le
considerazioni svolte dianzi impongono di escludere che la norma censurata sia incorsa in tale vizio. Il rimettente, per s ostenere
il contrario, si affida ad una serie di argomenti e ad asserite difficoltà non discendenti in via diretta ed immediata dalla norma
censurata, ma ricollegabili ad inconvenienti di mero fatto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non rilevano
ai fini del controllo di costituzionalità (ex multis: sentenze n. 117 del 2012, n. 303 del 2011 e n. 230 del 2010). Tali sono le
preoccupazioni disciplinari del giudice, peraltro poco giustificate in presenza di una norma come quella dettata d al secondo
comma della disposizione censurata, che prospetta in termini di mera eventualità l’iniziativa disciplinare come conseguenza d el
mancato rispetto dei termini fissati dal calendario, rendendo così evidente che l’inosservanza deve essere quanto men o colposa.
Tali sono anche gli altri profili addotti dal rimettente, ai quali va eventualmente posto rimedio approntando le idonee ed
opportune misure organizzative. Alla stregua delle considerazioni che precedono, la questione di legittimità costituzional e
sollevata dal rimettente in riferimento all’art. 3 Cost. deve essere dichiarata non fondata.
Ad analoghe conclusioni bisogna pervenire in ordine alla censura mossa in riferimento all’art. 111 Cost. Invero, la
pretesa violazione del principio della ragionevole durata del processo risulta dedotta non quale conseguenza astratta e generale
della disposizione impugnata, ma in quanto derivante dalla situazione dell’ufficio giudiziario nel quale il rimettente è chia mato
ad operare. Si tratta, ancora una volta, di possibili inconvenienti di fatto concernenti aspetti organizzativi della giustizia, che non
toccano profili di legittimità costituzionale”.
Partendo da tali osservazioni pare ragionevole interpretare l’art. 81 bis disp.
attuaz c.p.c. non nel senso di una rigorosa applicazione letterale del medesimo ma di
un’interpretazione teleologica finalizzata a soddisfare l’esigenza di rendere conoscibili
alle parti (sia pure in modo non rigido) i tempi del processo stesso un «governo dei
tempi stessi » delle fasi di necessaria articolazione della procedura, introducendo
elementi di prevedibilità concreta del momento nel quale la causa arriverà a decisione.
A tal fine vanno condivise quelle prassi che pervengono alla redazione del
calendario del processo mediante l’indicazione non certo di udienze bensì di date entro
le quali i vari mezzi istruttori devono essere espletati e l’udienza di precisazione delle
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conclusioni deve essere fissata. In tal modo il calendario del processo diventa una sorta
di asse cartesiano all’interno – e solo all’interno del quale – può svolgersi il processo
con una programmazione che non solo dà termini certi di definizione della causa ma
funge da pungolo per il rispetto degli stessi.
** La testimonianza scritta: qui il disastro è stato totale, si può parlare
legittimamente dell’entelechia della inutilità: l’unica spiegazione seria la si può forse
trovare in quel bel libro di filosofia edito da Einaudi nel 2013 e scritto da Robert Trivers
intitolato “La logica dell’autoinganno nella vita umana”.
** Con il decreto legislativo n. 150 del 1 settembre 2011 recante "Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno
2009, n. 69”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 settembre 2011 ed entrato in
vigore il 6 ottobre 2011 il legislatore ha voluto dare un ulteriore impulso alla
legislazione volta alla riduzione dei tempi processuali riducendo i riti civili a tre:
a) Rito ordinario di cognizione: il procedimento regolato dalle norme del titolo I e del
titolo III del libro secondo del Codice di procedura civile
b) Rito del lavoro: il procedimento regolato dalle norme della sezione II del capo I del
titolo IV del libro secondo del Codice di procedura civile
c) Rito sommario di cognizione: il procedimento regolato dalle norme del capo III bis
del titolo I del libro quarto del Codice di procedura civile.
Ma anche in questo caso, all’indubbio effetto della semplificazione dei riti non
ha fatto seguito una evidente riduzione dei tempi del processo, anzi in taluni casi i tempi
processuali sono aumentati.
Infatti per un verso il rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e ss.
c.p.c. è stato applicato ex lege a procedimenti che già seguivano riti cd. “celeri” (es.
appesantendone in alcuni casi la trattazione come quelli relativi all’unità familiare come
il nulla osta per il ricongiungimento familiare, di cui all’art. 30 l. 286/1998, nei quali
prima della riforma si seguiva il procedimento della camera di consiglio con fissazione
della prima udienza in termini certamente più brevi rispetto a quelli ordinari di cui
all’art. 702 bis c.p.c..) e, per altro verso, come nei procedimenti per cambio di sesso di
cui alla l. 164/1982, prevedendo la forma del rito ordinario – mentre prima si seguiva il
rito camerale – i tempi processuali si sono notevolmente dilatati con enorme disagio per
i cittadini che in questo delicato settore spesso abbisognano di un celere provvedimento
giudiziale.
A ciò si aggiunga che nell’immediatezza vi è anche il concreto rischio che i
giudici di Tribunale accanto alle nuove cause introdotte con atto di citazione si vedano
devolvere anche quelle introdotte con ricorso e che ne segua che il giudice, per parità di
trattamento, dovrà trattare queste ultime cause secondo gli stessi tempi della cause cd.
ordinarie nei limiti di quanto il suo ruolo gli consente: con buona pace di qualsiasi
esigenza di accelerazione.
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pag. nr. 27
** Forse più incisiva sui tempi del processo pare essere la modifica introdotta
dalla l. 183/2011 mediante la quale si è data facoltà al giudice di appello, una volta
rigettata l’istanza di sospensione, se ritiene la causa matura per la decisione di procedere
ai sensi dell’art. 218 sexies c.p.c. con decisione immediata.
** Invece scarsa efficacia sulla riduzione dei tempi del processo – o quanto
meno un’incidenza nettamente inferiore a quella mediaticamente ipotizzata - sembra
avere il d.l. 24 gennaio 2012 n.1 che ha istituito le sezioni in materia di impresa con
l’obiettivo di concentrare le cause presso un numero limitato di uffici giudiziari, ridurre
i tempi di definizione delle controversie riguardanti le società di dimensioni medie e
grandi e aumentare la competitività di tali imprese sul mercato. Benché la riforma sia
troppo recente per poterne valutare realmente efficacia e limiti, accanto a taluni limitati
aspetti positivi si sono tuttavia già manifestati anche numerosi profili problematici. Al
merito di favorire l’uniformità giurisprudenziale non corrisponde, infatti, l’auspicato
impatto positivo sulla durata del contenzioso che sconta la persistente carenza degli
organici e, quindi, l’impossibilità, nella maggior parte dei tribunali italiani, di assegnare
i giudici in via esclusiva alle sezioni specializzate. Inoltre la legge ha unito materie
diverse in assenza, però, di completezza e coerenza interna del disegno normativo.
** Di dubbia efficacia acceleratoria – se non mero provvedimento di facciata - si
è rivelata nella pratica pure l. l. 28 giugno 2012 n. 92 in tema di processo del lavoro
perché l’istituzione di un rito dedicato all’impugnativa dei licenziamenti nelle sole
ipotesi regolate dall’art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300 diretta a creare una corsia
preferenziale per la rapida definizione di tali controversie ha finito per creare seri
problemi di gestione del ruolo dell’udienza a causa degli stretti termini previsti per la
fase sommaria senza riuscire così a garantire la celere conclusione di tali procedimenti.
Addirittura ove si ritenga che il magistrato che ha trattato la fase sommaria non possa
seguire la fase dell’opposizione si determina nei piccoli uffici l’obbligo di costringere
magistrati non specialistici ad occuparsi delle cause in materia di lavoro con inevitabile
appesantimento dei tempi della decisione26.
** Altra riforma vocata alla realizzazione di una ragionevole durata del processo
è quella introdotta attraverso il “decreto sviluppo” (D.l. 22 giugno 2012 n°83, convertito
in legge il 3 agosto 2012) nella quale il legislatore, sulla scorta dell’esperienza tedesca,
ha messo a punto un nuovo strumento per comprimere l’arretrato, modulato apposta per
il giudizio d’appello, quello che attualmente denuncia il maggior grado di
“irragionevolezza” nei termini temporali di decisione. In particolare questo strumento
processuale è volto a sanzionare e contenere l’abuso del processo inteso come ricorso
all’impugnazione per ragioni dilatorie o pretestuose o, comunque, di fronte alla evidente
infondatezza del diritto posto a base della pretesa.27
26
Si consideri che con ordinanza 27 gennaio 2014 il tribunale di Milano ha ritenuto non manifestamente infondata la
questione di costituzionalità degli artt. 51 n. 4 c.p.c. e 1 comma 51 della l. 92/2012 nella parte in cui non prevede
l’obbligo di astensione per l’organo giudicante investito del giudizio di opposizione che abbia pronunziato
l’ordinanza ex art. 1 comma 49 l. 92/2012.
27 In tal senso cfr. Corte d’appello di Roma 30 gennaio 2013 in Il Foro italiano, .
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pag. nr. 28
Dispone l’art. 348 bis c.p.c.: “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con
sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di
essere accolta”. Sono sottratti al filtro gli appelli nei quali è previsto l’intervento
obbligatorio del Pubblico Ministero (evidentemente per l’interesse pubblico legato alle
cause di cui all’art. 70 c.p.c.) e le cause già introdotte in primo grado attraverso il rito
sommario di cognizione (nelle quali l’esclusione, e dunque una verifica “piena” del
gravame, deve controbilanciare l’impostazione del rito).
A sua volta, l’art. 348 ter c.p.c. disciplina lo svolgimento processuale, prevedendo
che il giudice – nel corso dell’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. – prima di procedere alla
trattazione, sentite le parti, dichiari l’inammissibilità dell’appello con ordinanza
succintamente motivata “anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno
o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”. L’ordinanza di
inammissibilità dovrà, altresì, contenere la statuizione sulle spese, ai sensi dell’art. 91
c.p.c., e potrà essere pronunziata soltanto quando la prognosi negativa circa
l’accoglibilità del gravame investa tanto l’impugnazione principale, quanto quelle
incidentali eventuali, purché tempestive. In caso contrario, si dovrà procedere all’esame
di tutti gli appelli.
In sede di conversione, è stata, altresì, aggiunta la modifica del contenuto dell’art.
342 c.p.c., che ora impone all’appellante l’obbligo di indicare specificamente le parti
del provvedimento impugnate, le modifiche richieste rispetto alla ricostruzione dei fatti
compiuta dal giudice di primo grado nonché le circostanze da cui deriva la violazione di
legge e la loro rilevanza ai fini della decisione censurata. Si configura, dunque, una
doppia selezione, dapprima di carattere formale (ex art. 342 comma 1° c.p.c.) e poi di
carattere sostanziale (ex art. 348 bis c.p.c.).
Inquadrato dunque il campo di applicazione, occorre allora verificare in quali ipotesi
il filtro possa adeguatamente operare28.
Vanno, in primo luogo, considerate quelle fattispecie di inammissibilità o
improcedibilità, in cui la declaratoria su una questione di rito travolge tutto il gravame.
Come è noto, le uniche ipotesi al riguardo codificate concernono l’art. 348 c.p.c. – ossia,
la mancata costituzione nei termini da parte dell’appellante e la mancata doppia
comparizione in prima udienza- e sembrano appunto quelle menzionate dal legislatore,
in funzione derogatoria (“Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza
l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello”). Tuttavia si tratta di numeri affatto
marginali, oltre tutto solitamente decisi nella pratica con ordinanza, ancorché con valore
sostanziale di sentenza.
A fronte di quelli appena menzionati, vi sono altri esempi, che l’esperienza
concreta offre e per i quali, a questo punto, l’inammissibilità o l’improcedibilità
rientrano nel più generale concetto di prognosi infausta del gravame: ma anche qui si
tratta di casi marginali.
E’ più frequente – ancorché possa essere circoscritta in circa il 15% delle cause
che pervengono a sentenza, con una variazione che dipende anche dall’utilizzo più o
Per un approfondimento, in punto, si richiama l’ampio ed attento studio di Mauro Mocci: “Il filtro in appello tra
ottimismo della volontà e pessimismo della ragione” in Giurisprudenza di merito, parte II – 2012.
28
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pag. nr. 29
meno rigoroso che ne fanno le singole Corti – la ricorrenza di un’ipotesi a cavallo fra il
puro rito ed il merito, ossia la declaratoria di inammissibilità del motivo, per omesso
rispetto dei criteri fissati dall’art. 342 c.p.c..
La novella è appositamente intervenuta in questo senso, attraverso l’ampliamento
della norma, che, come anticipato, richiede ora una serie di adempimenti serrati: la
fissazione dei punti contestati, l’individuazione delle violazioni ed il peso di esse
rispetto alla decisione finale, nonché un lavoro certosino di demolizione
dell’impalcatura su cui si reggono i profili contestati ed una coeva parte ricostruttiva,
ovviamente nel senso invocato dall’appellante.
Superate le questioni in rito, suscettibili di concludere in limine il giudizio
d’appello, l’attenzione si sposta sul merito ed il discorso si fa assai più delicato. L’art.
348 bis c.p.c. riconduce infatti la declaratoria di inammissibilità alla mancanza di “una
ragionevole probabilità di essere accolta”.
Il concetto di ragionevole probabilità, però, finisce per essere eccessivamente
generico ed indeterminato (e quindi discrezionale, ai limiti dell’arbitrio) e la stessa
intrinseca fragilità del filtro, a causa dell’opinabilità che lo caratterizza, dovrà anche
misurarsi con il principio, sancito dalla C.E.D.U. e ricavabile dall’art.6 della
Convenzione dei diritti dell’uomo, in forza del quale, una volta che uno Stato riconosca
nel proprio ordinamento interno un particolare grado d’impugnazione, non può poi
valutarlo in maniera eccessivamente discrezionale29.
Inoltre si può realisticamente immaginare che una buona parte delle cause
incappate nel filtro perverrà, comunque, alla Suprema Corte, determinando un aumento
del già rilevante impegno lavorativo dei giudici di legittimità.
Un fattore, altrettanto, importante è il modus operandi del giudice e la sua
capacità di “leggere” la norma nel modo più adeguato.
L’art. 348 ter c.p.c. impone, infatti, la pronunzia di inammissibilità nel corso
dell’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. e prima di procedere alla trattazione. La necessità
di stendere un’ordinanza - sia pur succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli
elementi di fatto riportati negli atti di causa ed il riferimento a precedenti conformi –
costituisce per il relatore un notevole aggravio della preparazione della prima udienza.
Ciò implica, innanzi tutto, l’obbligo della conoscenza approfondita e completa della
prima udienza di trattazione da parte del consigliere: la lettura della sentenza impugnata,
della citazione (o del ricorso) di appello e della comparsa (o della memoria) di risposta
consentono al giudice di fare una prima scrematura fra le impugnazioni che non
racchiudono particolari questioni e quelle che, al contrario, debbono essere
convenientemente trattate. E’ evidente che il filtro di “ragionevole probabilità” può
riguardare solo le prime.
Cfr. le decisioni Markovic vs. Italia del 14 dicembre 2006; Gallucci vs. Italia del 12 giugno 2007. Per un
inquadramento in sede europea si veda altresì il testo della raccomandazione n° 95 (1) [European Committee on
Legal Cooperation (CDCJ)] del 10 gennaio 1995, nonché A. Chizzini, L’equo processo CEDU quale quadro di
riferimento normativo per i procedimenti davanti alle Autorità indipendenti nazionali (ed alla Commissione europea). Note
generali, in Il giusto processo civ., 2012, 2, 343. R. Caponi, La riforma dell’appello civile cit., § 7, ritiene invece la
compatibilità della riforma con i principi CEDU.
29
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pag. nr. 30
Vanno, inoltre, escluse quelle che necessitano di una fase istruttoria, non svolta nel
corso del giudizio di primo grado.
E, poi, deve essere in ogni caso rispettato il principio del contraddittorio, di cui
all’art. 101 c.p.c. (30), come si è ritenuto opportuno sottolineare in fase di conversione
del d.l., mediante l’aggiunta dell’inciso “sentite le parti”. Bisogna, fra l’altro, verificare
il ruolo giocato da una costituzione tardiva (ossia oltre la prima udienza), sempre
possibile nel corso del giudizio (di primo o di secondo grado), ma evidentemente
preclusa da una decisione immediata.
Se, sciogliendo la riserva, il collegio stabilisce che il filtro non può essere
applicato, nulla quaestio, la causa segue l’iter normale. Se, al contrario, dovessero
essere ravvisati elementi idonei a concludere anzitempo il giudizio, la Corte è tenuta a
provvedere con ordinanza. In proposito, due erano le possibilità che avrebbero potuto
essere astrattamente prese in considerazione.
La prima ricalca il modello dell’analogo procedimento in cassazione (art. 380 bis
c.p.c.): il consigliere deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione
delle ragioni che possano giustificare la pronunzia, il presidente fissa - con l’ordinanza
che scioglie la riserva – una nuova udienza, che viene comunicata insieme alla
relazione. A quel punto, sarebbe stata data alle parti facoltà di presentare memorie, non
oltre cinque giorni, e di chiedere di essere sentite, in caso di comparizione. Al termine,
la Corte avrebbe deciso con ordinanza, ovviamente ricorribile per cassazione. Questa
interpretazione rispetta il contraddittorio nel senso più ampio del termine ed è in linea
anche con il secondo comma dell’art. 101 c.p.c.
La seconda propone, invece, una lettura meno rigoristica del principio del
contraddittorio, nel senso che esso si riterrebbe definitivamente perfezionato con i
rispettivi atti introduttivi, a cui è demandato il compito di fissare, una volta per tutte, il
thema decidendum. A questo punto, la Corte d’Appello potrebbe sciogliere la riserva,
senza ulteriori interventi delle parti, con una ordinanza che fa propria la relazione del
consigliere designato e che dunque chiude il giudizio.
La scelta fra l’una e l’altra opzione – che si potrebbero semplicisticamente chiamare
“a contraddittorio allargato” e “a contraddittorio minimo” - risponde ovviamente a
differenti criteri di politica giudiziaria: nel presente momento storico, anche sulla spinta
delle pressioni internazionali, l’esigenza prevalente è quella di ottenere la ragionevole
durata del processo.
La struttura del filtro prescelta – che consegue il risultato di salvaguardare il
canone costituzionale della ragionevole durata del processo, senza vulnerare l’altro
principio stabilito dall’art. 111 della Carta Costituzionale, quello del contraddittorio
delle parti – ha l’indubbio vantaggio di ottenere effettivamente un sistema per accorciare
i tempi del giudizio, ma soprattutto per semplificare la procedura. Non si può negare che
la fissazione di una nuova udienza, la comunicazione alle parti unitamente alla relazione
del consigliere designato, le nuove memorie e la possibilità ulteriore di discutere la
causa oralmente avrebbero finito per essere adempimenti equivalenti a quelli del
(30) In tal senso cfr. M. Mocci, Principio del contraddittorio e non contestazione in Riv. dir. proc., 2011, 2, 316,
nonché D. Buocristiani, Il nuovo art. 101, comma 2° c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti fra parte e giudici, ibidem,
2010, 2,399. Più in generale, è utilissimo il contributo di S. Chiarloni, Efficienza della giustizia, formalismo delle
garanzie e sentenze della terza via, in Giur. it., 2011, 1, 207
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giudizio ordinario. Il loro compimento concreto si sarebbe tradotto nelle fasi iniziali, in
un’anticipazione dei tempi relativi alle suddette cause, ma, considerata la necessità di
portare avanti parallelamente anche le altre cause, avrebbe determinato, alla lunga, la
paralisi degli uffici di secondo grado.
Ne è dunque venuto fuori un sistema articolato, nel quale il filtro è il mezzo
processuale per aprire le porte della Cassazione alla sentenza di primo grado, rischiando
però – nell’economia complessiva del giudizio – di rimanere un meccanismo fine a sé
stesso.
Al giudice di secondo grado, in ogni caso, resta fra le mani uno strumento molto
efficace e potenzialmente devastante: basti pensare ad un’ordinanza ben motivata,
ancorché frutto di uno studio superficiale, che consegua ad una sentenza di primo grado,
erronea nei presupposti di fatto ma altrettanto ben motivata, e che divenga inattaccabile
in Cassazione, proprio per la coerenza e logicità dei passaggi, con la conseguenza che
l’eventuale vizio di formazione della volontà della decisione non riesce a emergere31.
Sul punto non può, però, ignorarsi che recentemente la A.N.M. ha chiesto
l’abrogazione del cd. filtro perché rischia di determinare un lavoro aggiuntivo nel caso
di declaratoria di ammissibilità e nel caso contrario, una deroga alla generale regola
secondo cui il giudizio di cassazione ha per oggetto la sentenza ritenendo preferibile al
filtro la decisione delle impugnazioni manifestamente infondate secondo la procedura
dell’art. 281 sexies c.p.c. già estesa all’appello.
** I disincentivi all’azione
La l. 183/2011 è intervenuta sul subprocedimento di inibitoria in appello
prevedendo che, ove l’istanza di sospensione sia inammissibile o manifestamente
infondata, il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha
proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad € 250,00 e non superiore ad €
10.000,00 (così il nuovo art. 283 II° comma c.p.c).
Con la legge 24 dicembre 2012 n. 228, poi, è stata introdotta una norma di
dubbio valore costituzionale che con la modifica al d.p.r. 115/2002 ha inciso sulla
decisione di appello scoraggiando le impugnazioni infondate.
La norma prevede che quando l’impugnazione , anche incidentale, è respinta o è
dichiarata inammissibile o improcedibile la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa
impugnazione principale o incidentale e il giudice deve dare atto nel provvedimento
della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento
sorge al momento del deposito dello stesso. La norma si applica solo ai procedimenti
iniziati dal 1 febbraio 2013 ma appare una norma che potrebbe incidere dissuasivamente
sul numero degli appelli.
Per verificare l’incidenza di tale normativa sui tempi processuali è interessante la lettura della delibera del C.S.M.
19 dicembre 2012
31
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pag. nr. 32
** Tali disposizioni, tra l’altro, rientrano in quel filone legislativo che persegue
la strada della deflazione attraverso il rafforzamento dei disincentivi processuali.
Su detta finalità vi è ancora un forte margine di operatività e potrebbero giovare
l’introduzione di interessi di tipo moratorio decorrenti dalla domanda giudiziale,
l’applicazione di sanzioni processuali in caso di resistenza seriale in problematiche
materie per le quali vi sia un orientamento consolidato, e l’ampliamento dei casi di
applicazione delle cd. “astreintes”,
In proposito, però, non può ignorarsi quanto scritto nella nota O.C.S.E. del 13
giugno 2013 intitolata “Giustizia civile: come promuoverne l’efficienza?” laddove si
riferisce: “L’accesso alle istanze superiori può essere limitato dalla presenza di filtri
basati su un vincolo di tipo economico (restrizioni monetarie) ovvero su un giudizio di
ammissibilità affidato alla discrezionalità del giudice (leave to appeal). Restrizioni
monetarie sono diffuse soprattutto nei sistemi di tradizione legale germanica e francese,
quelle basate su un giudizio di ammissibilità sono più frequenti nei sistemi di tradizione
legale nordica e di common law. Il livello medio e la varianza dei tassi d’appello
risultano significativamente più bassi nei paesi che adottano filtri basati su un giudizio
di ammissibilità, mentre l’impatto di restrizioni monetarie non appare statisticamente
significativo. Le differenze nei tassi d’appello sono solo in parte attribuibili alla
presenza di filtri, come segnalato dall’elevata variabilità che si osserva sia tra i paesi
che impongono restrizioni monetarie sia tra quelli che non impongono alcuna
restrizione. Tale evidenza suggerisce la possibilità di incidere sulla prevedibilità delle
decisioni e ridurre i tassi d’appello anche senza intervenire sul sistema dei filtri”.
** Le modifiche al codice di procedura civile introdotte con decreto legge 21
giugno 2013 n. 69 convertito in legge n. 98/2013.
Infine vanno menzionate le modifiche al codice di procedura civile introdotte
con decreto legge 21 giugno 2013 n. 69 convertito in legge n. 98/2013.
In particolare l’art. 77 prevede la conciliazione giudiziale con l’introduzione
dell’art. 185 bis c.p.c.. Tale norma così recita: “Al codice di procedura civile sono
apportate le seguenti modificazioni: a) dopo l'articolo 185 e' inserito il seguente: "185bis. (Proposta di conciliazione del giudice) - Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino
a quando e' esaurita l'istruzione, deve formulare alle parti una proposta transattiva o
conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza
giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del
giudizio.".
L’art. 78 (Misure per la tutela del credito) prevede che “Al codice di procedura civile
sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 645, secondo comma, e'
aggiunto il seguente periodo: "L'anticipazione di cui all'articolo 163-bis, terzo comma,
deve essere disposta fissando udienza per la comparizione delle parti non oltre trenta
giorni dalla scadenza del termine minimo a comparire"; b) all'articolo 648, primo
comma, le parole "con ordinanza non impugnabile" sono sostituite dalle seguenti
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pag. nr. 33
parole: "provvedendo in prima udienza, con ordinanza non impugnabile". 2. Le
disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai procedimenti instaurati, a norma
dell'articolo 643, ultimo comma, del codice di procedura civile, successivamente
all'entrata in vigore del presente decreto”.
E, infine, l’art. 79 (Semplificazione della motivazione della sentenza civile) porta
modifiche all’art. 118 disp attuaz c.pc. . “All'articolo 118 delle disposizioni per
l'attuazione del codice di procedura civile, il primo e il secondo comma sono sostituiti
dal seguente comma: "La motivazione della sentenza di cui all'articolo 132, secondo
comma, numero 4), del codice consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei
principi di diritto su cui la decisione e' fondata, anche con esclusivo riferimento a
precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o
di altri atti di causa. Nel caso previsto nell'articolo 114 del codice debbono essere
esposte le ragioni di equita' sulle quali e' fondata la decisione.".
Trattasi di norme che in realtà, se ben applicate, potrebbero avere una non
irrilevante incidenza sui tempi del processo.
L’art. 185 bis c.p.c., infatti, conferisce maggior incisività alla proposta
conciliativa del giudice prevedendo che il rifiuto della proposta transattiva o
conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile
dal giudice ai fini del giudizio; a sua volta, la modifica dell’art. 645 c.p.c. con la
previsione dell’obbligo di decidere in prima udienza la richiesta di provvisoria
esecuzione del decreto ingiuntivo opposto può dare un forte impulso per una definizione
conciliativa della vertenza e, infine, l’espressa autorizzazione legislativa ad avvalersi di
richiami nella tecnica di redazione della motivazione della sentenza comporta
certamente una riduzione dei tempi dedicati dal giudice a tale onerosa e delicata attività
anche se a ben vedere negli ultimi anni è evidente un trend sempre più vocato
all’eliminazione della motivazione come del resto emerge chiaramente dallo schema di
decreto legislativo approvato dal Governo il 17 dicembre 2013 che si va ad esaminare.
§ 2.b.2.a - De iure condendo
A) Ulteriori rimedi alla lentezza dei processi civili sono stati predisposti dal
Governo con lo schema del disegno di legge di delega approvato dal Consiglio dei
Ministri il 26 novembre 2013 intitolato significativamente “Schema di disegno di legge
recante disposizioni per l’efficienza del processo civile, la riduzione dell’arretrato…”
La proposta normativa che si illustra ha ad oggetto misure di ordine processuale
e sostanziale per il recupero dell'efficienza del processo di cognizione e di esecuzione,
nonché misure finalizzate alla riforma della disciplina delle garanzie reali mobiliari, con
l'obiettivo di agevolare le imprese nell'accesso al credito.
A tale scopo l'intervento normativo si articola in una serie di disposizioni di
delega al Governo, relative al processo di cognizione, alla ricerca dei beni da pignorare,
all'espropriazione forzata di crediti e alle garanzie mobiliari (Capi I e Il) . Con un capo
autonomo (Capo III) sono inoltre introdotte disposizioni immediatamente precettive per
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la semplificazione e l'accelerazione del processo esecutivo, nonché per il monitoraggio,
con modalità telematiche, delle procedure esecutive individuali e concorsuali .
L'articolo 1 si occupa della disciplina relativa all'en sercizio della delega per l'efficienza
del processo civile .
L'articolo 2 detta i principi e criteri direttivi concernenti la delega per l'efficienza del
processo civile di cognizione che vengono di seguito illustrati per linee riassuntive.
B) Passaggio dal rito ordinario di cognizione al rito sommario (lett. a)
Il criterio di delega in esame è volto a consentire, per le cause meno complesse e per la
cui decisione è idonea un'istruttoria semplice, il passaggio d'ufficio dal rito ordinario di
cognizione al rito sommario, garantendo così un piena intercomunicabilità tra i due
modelli di trattazione, che, secondo la vigente disciplina processuale, è consentita, per le
cause ad elevato tasso di complessità, esclusivamente nel senso inverso a quello
proposto. Il legislatore in tal modo mostra di orientarsi sempre più verso una marcata
deformalizzazione dei procedimenti meno complessi.
C) Motivazione della sentenza civile a richiesta(lett. b, numero 1 )
Questo criterio di delega è volto ad innestare un nuovo modulo decisionale sugli attuali
moduli regolati dal codice di rito civile (artt. 275, con riferimento implicito alla
dinamica ex art. 190 c.p.c., 281-quinquies, e 281-sexiesc .p .c.), con lo scopo di
consentire al giudice di primo grado, quando lo ritenga opportuno,di emettere sentenza,
tale a tutti gli effetti, con un dispositivo corredato delle specificazioni necessarie – fatti
costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi e norme che indichino la finalità del
deciso - a definire il giudicato qualora la decisione non venga impugnata.
Contestualmente é' affermato il principio che ciascuna delle parti può sempre
richiedere la motivazione della sentenza, seppure è previsto, al fine di evitare richieste
meramente emulative, che in tal caso la parte anticipi il contributo unificato dovuto per
l'appello.
Orbene, considerato il tasso di impugnazione dei provvedimenti civili di primo
grado, che risulta essere relativamente basso (pari al 20% circa) e i tempi per la
redazione delle motivazioni delle relative decisioni (che costituiscono come noto il
maggior impegno per il magistrato giudicante), si può stimare che l'esercizio della
delega consentirà una rilevantissima riduzione dei tempi dei processi civili coinvolti
anche se molti dubbi di natura costituzionale sono già stati sollevati circa la carenza
della motivazione in un provvedimento giurisdizionale tendente al giudicato.
Si è replicato che l'istituto della motivazione a richiesta consente di ritenere certamente
soddisfatto lo standard costituzionale imposto dall'art . 111 Cost., com'è dimostrato dal
fatto che è già pacificamente ammessa nell'ordinamento l'ipotesi dell'innesco successivo
del contraddittorio, ad impulso di parte, anche correlato al pagamento del relativo
contributo unificato, quando previsto (basta fare l'esempio dell'opposizione a decreto
ingiuntivo, il quale ultimo fa stato di giudicato quando appunto non opposto).
Certo è che il principio che si vuole introdurre è dirompente rispetto al sistema
del civil law e, per contro, molto confacente ed in sintonia con il sistema del common
law e ciò è un forte indice di come il nostro sistema, anche per la recezione del diritto
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pag. nr. 35
eurounitario e delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea stia sempre
più “respirando” aria di common law.
Vale solo la pena di ricordare, però, che in un sistema di jus positum sempre più
costruito su principi piuttosto che su regole la motivazione costituisce una
giustificazione razionale dell’interpretazione ossia una giustificazione esplicita sia
perché controllabile sia perché solo così si sconta a livello costituzionale il deficit di
legittimazione che il giudice ha perché non possiede un’investitura democratica.
C) Motivazione delle sentenze rese in grado di appello "per relationem" (lett. b,
numero 2)
Quanto alle decisioni rese in grado di appello, il criterio di delega prevede la
possibilità per il giudice di rinviare alla motivazione del provvedimento impugnato, nei
casi in cui questo debba essere confermato, in tutto o in parte.
Dalla prassi, infatti, emerge che quando l'appello viene respinto la motivazione
della sentenza d'appello ribadisce, nella gran parte dei casi, la motivazione della
sentenza di primo grado. Considerando che il 77% circa degli appelli proposti sono
respinti, è evidente l'utilità di questa proposta normativa, che consentirà al giudice di
appello, in un rilevante numero di procedimenti, di ricorrere a questa forma di
motivazione semplificata (richiamando quella della sentenza oggetto di impugnazione e
confermata) sempre purché il giudice di secondo grado abbia dimostrato di aver
criticamente esaminato e valutato le doglianze alla decisione di primo grado.
In questo modo, sarà possibile incrementare la produttività delle corti di appello,
che sono notoriamente gli uffici più afflitti dal progressivo aumento dell'arretrato.
Resta, ovviamente, che il giudice d'appello può decidere di non ricorrere alla
motivazione per relationem, tutte le volte in cui la sentenza impugnata, sebbene sia da
confermare, presenti carenze in alcuni punti della motivazione.
D) Composizione monocratica della corte d'appello in alcune materie (lett. c)
Già con il decreto legge n . 69 del 21 giugno 2013, convertito dalla legge 9
agosto 2013 n . 98 ("Decreto del Fare") il Governo è intervenuto sul problema
dell'arretrato presso le corti di appello, introducendo la figura del giudice ausiliario. A
questa misura si ritiene opportuno affiancare una modifica processuale in tema di
competenza, introducendo un criterio di delega per introdurre la figura del giudice di
appello che giudica in composizione monocratica. Effettivamente l’innovazione potrà
consentire una più celere definizione dei processi, perché eviterà una serie di fasi del
processo decisionale che indubbiamente lo rallentano, quali la camera di consiglio e la
sottoscrizione della sentenza da parte del presidente del collegio. Sono state
opportunamente individuate alcune materie che, per la loro semplicità, rendono
possibile fare a meno della composizione collegiale dell'ufficio giudicante. Si è inoltre
tenuto conto che a norma dell'art. 68, comma 1, del Decreto Legge n . 69/2013 "del
collegio giudicante non può far parte più di un giudice ausiliario" . Pertanto, per evitare
di depotenziare lo strumento del giudice ausiliario, la competenza del giudice di appello
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pag. nr. 36
monocratico è stata prevista solo nelle seguenti materie: condominio, diritti reali e
possesso, divisione, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno
derivante dalla circolazione di veicoli e natanti con danni soltanto a cose, nonché nelle
materie indicate nell'articolo 445-bis del codice di procedura civile.
Incomprensibile la statuizione che la decisione delle cause rientranti nelle
suddette materie è affidata al giudice monocratico solo quando esse sono "iscritte a
ruolo in appello da oltre tre anni". Appare veramente inconsistente ed irragionevole il
parametro utilizzato per la forma della decisione ossia che la collegialità o meno della
decisione debba scaturire dalla durata della pendenza.
E) Misure coercitive (lett d)
Il criterio di delega si colloca nel solco dell'intervento che ha di recente
introdotto nel codice di procedura civile l'articolo 614-bis dal titolo «Attuazione degli
obblighi di fare infungibile o di non fare» (articolo 49, comma 1, della legge 18 giugno
2009, n . 69) .
Col criterio di delega oggetto del presente intervento normativo si propone di
estendere l'ambito di applicazione delle «misure coercitive» a tutte le obbligazioni
diverse da quelle pecuniarie. Le obbligazioni pecuniarie vengono escluse dall'ambito
applicativo dell'istituto al fine di evitare un eccessivo aggravio della posizione del
debitore, già tenuto a corrispondere gli interessi moratori in misura pari : a) al tasso
convenuto tra le parti; b) al tasso legale, in assenza di specifiche pattuizioni; b) al tasso
previsto dal D.lgs . n. 231 del 2002, quando il rapporto obbligatorio intercorre tra
imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni e trova titolo in una
transazione commerciale.
L'estensione dell'ambito di operatività della misure coercitive dovrebbe
stimolare, auspicabilmente, il debitore ad adempiere spontaneamente i provvedimenti di
condanna evitandosi, quindi, al creditore ed allo Stato gli oneri economici ed
organizzativi connaturati ai procedimenti di esecuzione forzata. In continuità con la
disciplina vigente il potere di decidere in ordine alla «misura coercitiva» resta riservato
al giudice che pronuncia la condanna, e può provvedervi anche d'ufficio.
L'estensione dell'ambito di applicabilità delle «misure coercitive» fa ritenere
equo prevedere la possibilità per il debitore, che non abbia impugnato il provvedimento
di condanna, di ottenere dal giudice dell'esecuzione la revoca o la modifica in melius
della «misura coercitiva», quando dimostri di non avere adempiuto spontaneamente per
il sopravvenire di gravi difficoltà a lui non imputabili.
F) Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (lett e)
E' noto che in alcune materie dal contenuto spiccatamente tecnico la transazione
tra le parti è ostacolata dalla necessità di ricorrere all'ausilio di un professionista che
fornisca gli elementi necessari per stabilire l'an o, più spesso, il quantum del
risarcimento del danno.
Si tratta, in particolare, delle controversie in materia di responsabilità derivante
dalla circolazione di veicoli e natanti e dall'esercizio della professione medica e
sanitaria. Il criterio di delega propone di introdurre l'obbligatorietà dell'esperimento
della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.
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pag. nr. 37
Ciò consentirà il conferimento dell'incarico di consulente tecnico ad un
professionista qualificato. La garanzia di professionalità e di imparzialità che deriva dal
fatto che la nomina promana dal giudice consentirà di attribuire la più ampia
attendibilità alle valutazioni che verranno svolte dal consulente tecnico e, quindi, le parti
avranno a disposizione solide basi per valutare la convenienza di una transazione che
preceda l'instaurazione di una lite.
La particolare deformalizzazione del procedimento previsto dall'art. 696 bis
c.p.c. consente, inoltre, una notevole contrazione dei costi processuali e,
conseguentemente, indurrà le parti ad evitare l'introduzione della causa di merito,
caratterizzata come è noto da costi molto più elevati.
Ovviamente, l'introduzione dell'obbligatorietà della consulenza tecnica
preventiva consentirà di esonerare queste materie dall'obbligo di esperire il
procedimento di mediazione (previsto dall'art . 5 d. lgs. 4 marzo 2010, n . 28).
G) Il principio delega di cui alla lettera f)
Tra le novità va citato pure il principio di delega – lett. f) – secondo cui il
legislatore delegato potrà «prevedere quando, nei casi di condanna a norma
dell’articolo 96 del codice di procedura civile, il difensore sia responsabile in solido
con la parte». La relazione al d.d.l. spiega laconicamente che «Il criterio di delega di cui
alla lett. f) autorizza a prevedere casi in cui il difensore sia responsabile in solido con
la parte condannata ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile».32
Nel contesto di un provvedimento volto a restituire efficienza, con poche mirate
e ragionate misure, all’amministrazione della giustizia civile, interessa cogliere la ratio
della proposta volta a responsabilizzare e correggere l’esercizio della professione
forense33 anche se non può ignorarsi che con una norma siffatta vi sarà un
coinvolgimento diretto dell’avvocato nel prosieguo del contenzioso non essendo dubbio
che, a seguito di una condanna solidale, il difensore sarebbe legittimato ad impugnare in
proprio la sentenza. E ciò che potrebbe determinare, paradossalmente, non una
diminuzione e razionalizzazione, bensì un aumento del contenzioso.34
32
Si tratta di una norma che non ha precedenti nel nostro ordinamento, laddove, il tema della responsabilità del
difensore nei confronti della controparte era emerso, con eufemistica rarità, sotto il diverso profilo della condanna
alle spese. Fu il progetto preliminare Solmi al codice di procedura civile del 1937 l’unico testo normativo a prevedere
un riferimento alla responsabilità del difensore, in particolare nella rubrica dell’art. 76 con cui s’intendeva
disciplinare le ipotesi di “condanna in proprio di rappresentanti, curatori e difensori”. Dal dibattito che ne seguì fu
unanime e trasversale l’auspicio di una correzione che eliminasse il riferimento ai difensori, tanto da trovare
immediato riscontro nell’art. 86 del Progetto definitivo al codice e successiva conferma nell’attuale art. 94 c.p.c.6.
Anche sul fronte giurisprudenziale la responsabilità del difensore è stata affermata solo con riferimento alle spese
sopportate (e non ai danni subiti) dalla controparte, in particolare nell’ipotesi in cui l’avvocato abbia agito senza
procura — o secondo una giurisprudenza meno recente con una procura nulla — e quindi, per la tutela di diritti altrui
ma dichiaratamente in nome proprio. Si tratta di fattispecie senz’altro peculiare ove, non essendovi altro soggetto a
rivestire il ruolo di parte, non stupisce che a questi sia rivolta anche la condanna alle spese.
33
E’ importante ricordare che sino agli anni ’80 autorevole dottrina riteneva che l’agire o il resistere in giudizio nella
consapevolezza di aver torto non comporta una condotta processuale obiettivamente sleale e scorretta; cfr.
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano 1980, p. 109.
34
In merito, per un ragionato esame della norma v., da ultimo, la nota di Aniello Merone “Responsabilità aggravata
e solidale del difensore: una nuova linea di difesa tecnica?” sulla rivista online Judicium – gennaio 2014
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pag. nr. 38
Peraltro, l’analisi è destinata a divenire ancor più impietosa laddove si immagini
che la responsabilità in solido del difensore si estenda anche alle ipotesi di cui al nuovo
(e discusso) terzo comma dell'art. 96 c.p.c., che ha attribuito al giudice il potere, in ogni
caso e d’ufficio, di condannare la parte interamente soccombente al pagamento, oltre
che delle spese e degli onorari anche di una ulteriore somma equitativamente
determinata.
A prescindere da valutazioni processuali è agevole, qui, rilevare come il
legislatore si ispiri ad una concezione sempre più pubblicistica del processo.
** Valutazioni critiche
Leggendo tale schema di legge viene naturale rilevare che si è persa ancora una
volta l’occasione di generalizzare il principio – di grande rilevanza ai fini della
ragionevole durata del processo e dell’efficienza del medesimo nel suo complesso secondo cui la contumacia del convenuto vale quale ammissione legale dei fatti posti
dall’attore a fondamento della sua domanda ove la controversia verta su diritti
disponibili.
Come è noto il principio indicato non é estraneo alla nostra giurisdizione (cfr.
art. 663 c.p.c in tema di convalida di sfratto per finita locazione o morosità del
conduttore) ed è generalmente riconosciuto da quasi tutte le legislazioni processuali
europee35: gli unici problemi che pone sono la tutela del contumace involontario per
fatto ad esso non imputabile non si sia potuto costituire tempestivamente in primo grado
e la disciplina dei poteri di appello di chi sia rimasto volontariamente contumace in
primo grado. Ma si tratta di problemi sul versante delle garanzie che un legislatore
attento può agevolmente risolvere senza dovervi rinunziare.
** Inoltre non è stato affrontato compiutamente ed espressamente il problema
del mantenimento del doppio grado di giurisdizione.
Sovente in dottrina viene formulata la proposta di introdurre nel nostro sistema
giuridico un unico grado di giurisdizione nel merito con “l’abolizione del secondo
grado per lasciare alle attuali corti di appello (da trasformarsi in sezioni distaccate
della Corte di cassazione per ottemperare al disposto dell’art.111 Cost.) la funzione di
un appeal in senso angloamericano, ossia di un giudizio di tipo lato sensu cassatorio,
consistente nella riparazione di errori non solo di diritto” Ciò sulla base dell’assunto
della non utilità del doppio grado di giurisdizione.
35
Taluni ordinamenti dei Paesi comunitari attribuiscono alla contumacia valore ammissivo dei fatti allegati dall’attore o di
riconoscimento delle pretese ex adverso azionate: così nel processo civile tedesco secondo cui “in caso di contumacia del
convenuto: si presume che questi abbia ammesso l’esistenza dei fatti allegati dall’attore. L’assunzione delle prove si rende ,
pertanto, superflua. Se le allegazioni dell’attore sostengono la domanda, questa viene accolta con una sentenza contumaciale. In
caso contrario, cioè se la domanda è infondata, il rigetto della domanda avviene mediante <<normale>> sentenza di merito. (…)
Il contumace può fare opposizione alla sentenza contumaciale entro quattordici giorni (…) Questo rimedio giuridico si rivolge
allo iudex a quo,che riapre la trattazione della causa. La sentenza contumaciale viene <<messa da parte>> e la trattazione or ale
porta ad una sentenza che conferma la sentenza contumaciale oppure la annulla e respinge la domanda dell’attore.” Anche in
Inghilterra e in Galles – con un modello analogo a quello tedesco – nel caso di contumacia del convenuto l’attore può ottenere una
sentenza in proprio favore salvo la possibilità di revoca della sentenza contumaciale su richiesta del convenuto. Simile – tranne che
su alcune materie – è la soluzione accolta anche in Scozia; così pure in Irlanda e Austria ove la disciplina processuale ricorda
quella inglese. In Grecia “la mancata comparizione del convenuto equivale a un sostanziale riconoscimento della pretesa,
risolvendosi nell’emissione di una pronuncia a favore dell’attore, sempre che vi siano i presupposti processuali e sussista u n
titolo idoneo.” con limitata possibilità di riapertura del processo contumaciale nelle sole ipotesi in cui la parte non è stata
regolarmente convocata all’udienza o non è potuta comparire per forza maggiore
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pag. nr. 39
Orbene, è di solare evidenza che l’accoglimento di una tale proposta
contribuirebbe all’abbreviazione dei tempi del processo.
Di recente tale opzione è stata riproposta quale strumento per risolvere la grave
crisi di operatività nella quale versa la Corte di cassazione. Il doppio grado di
giurisdizione sul merito, (in assenza di prescrizione nella nostra Grundnorm,) non trova
fondamento nella Costituzione. A livello operativo, onde garantire una ragionevole
durata del processo, si potrebbe ipotizzare non l’eliminazione ma la riduzione
dell’appello onde le sentenze sarebbero inimpugnabili salvo il ricorso per cassazione. La
scelta di porre limite all’appello è operante, altresì, in diversi Paesi comunitari nei quali
il limite si presenta in due diverse vesti:
a) Inappellabilità della sentenza in cause di non elevato valore o anche di media
importanza. Nel processo belga l’appello è proponibile se la domanda eccede, a seconda
dei casi, 50.000 o 75.000 franchi belga del 1994; nel processo francese, l’appello è
proibito ove vengano in rilievo cause di media importanza, in base al valore della
domanda; in Germania l’appello è ammesso se il valore dell’oggetto del gravame supera
i 1.500 –DM del 1994; in Grecia l’appello non è ammesso riguardo alle controversie di
scarso valore, ossia fino a 150.000 dracme del 1994; nel processo olandese la sentenza è
inappellabile per cause di valore non superiore a 2.500 fiorini dell’anno 1994; nel
processo portoghese la decisione impugnata deve avere pronunciato su controversia di
valore eccedente la “alcada” del giudice a quo, ossia il limite di valore della decisione
non soggetta ad appello; in Spagna l’appello non è ammesso contro le sentenze emesse
in giudizi di valore non eccedente 80.000 pesetas del 1994;
b) Appellabilità solo previa autorizzazione di una Autorità amministrativa o
giurisdizionale.
Questo è un criterio molto diffuso nei Paesi di common law, il cui prototipo è
individuabile nella giustizia civile in Inghilterra e in Galles, ove “in molti casi l’appello
è possibile solo se colui che intende appellare ha precedentemente ottenuto un <<leave
to appeal>>, cioè un’autorizzazione ad appellare, che può essere concessa sia dalla
Corte a qua che dalla Corte ad quam”. Nel processo danese, se la causa è di valore non
superiore a £ 2.500.000 circa del 1994, la sentenza può essere appellata solo previa
autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia (159) ; in Svezia “nelle controversie
aventi ad oggetto diritti disponibili, il cui valore non eccede la somma base (che nel
1995 era di 35.770 sek), e nelle controversie di scarso valore è richiesta
l’autorizzazione all’appello. Essa può essere concessa quando ricorrono determinati
presupposti: - se la soluzione della controversia è ritenuta importante come indirizzo
per le future decisioni delle Corti inferiori; - se sussistono ragioni per modificare la
sentenza: se ci sono altre ragioni straordinarie per riconsiderare il caso”.
Nell’ordinamento giuridico processuale italiano attuale, in linea tendenziale, vige
il doppio grado di giurisdizione di merito con appellabilità delle sentenze di primo grado
senza necessità di autorizzazioni. L’inappellabilità è l’eccezione (prevista, ad es., nel
giudizio di opposizione agli atti esecutivi).La scelta tra il doppio grado (mantenendo
l’attuale regime, magari estendendolo per singole eccezioni) e l’unico grado è una scelta
di politica del diritto in assenza di vincoli costituzionali.
Pur nella consapevolezza che un nuovo esame sul merito della causa ad opera di un altro
giudice permette di pervenire ad una sentenza ponderata e oggetto di controllo tuttavia,
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pag. nr. 40
non può ignorarsi che un sano bilanciamento della suddetta esigenza con quella
deflattiva e della conseguente ragionevole durata del processo impone una limitazione
della casistica delle sentenze appellabili (per esempio a cause non eccedenti un certo
valore) come, del resto, avviene in quasi tutti i Paesi europei.
Né, in punto, trova giustificazione il timore di appesantire in tal modo i ruoli
della Corte di Cassazione dal momento che generalmente la parte soccombente in cause
di non rilevante valore è dissuasa dal ricorrere in cassazione in ragione del costo del
processo.
H) Il processo esecutivo
Lo Stato, però, non può accontentarsi di un’affermazione virtuale di giustizia,
ancorché celere, perché è il cittadino che non può accontentarsi di un semplice
riconoscimento astratto. E’, dunque, fondamentale guardare alla conclusione del
processo cioè alla fase dell’esecuzione perché anche una definizione sollecita del
giudizio di cognizione non trova corretto completamento se non attraverso la fase
dell’esecuzione anch’essa sollecita né va dimenticato che un’esecuzione efficace non è
soltanto il momento necessario di affermazione della regola giuridica ma produce anche
effetti deflattivi perché una giustizia efficiente anche nella sua esecuzione possiede
valore dissuasivo36.
In tal senso va valutata positivamente quella parte dello schema di decreto
legislativo che introduce criteri volti ad accelerare il processo esecutivo ed infatti l’art.
l'articolo 3 introduce criteri e principi direttivi per una delega volta a rendere più
efficace la ricerca delle cose e dei crediti da pignorare nella prospettiva di un più
efficace recupero del credito.
H.1) Recupero del credito
È importante concentrarsi sul settore dell'esecuzione forzata, per il ruolo centrale
dalla stessa svolto ai fini della effettività della tutela del diritto e l'incidenza riflessa o
prospettica che la sua efficienza avrebbe sulla centralità e sulla funzionalità del processo
di cognizione.
Se è vero che le riforme del 2006 hanno dato luogo ad una significativa
inversione di tendenza, tanto che il processo esecutivo non rappresenta più
un'emergenza indifferibile, è innegabile che esso sia ancora lontano da una funzionalità
minimale accettabile. E l'esecuzione pesa in modo sensibile sulle mortificanti
36
La legge Pinto n. 89/2001 si applica significativamente anche al processo di esecuzione. Tuttavia sulla piena
reciproca autonomia del procedimento di esecuzione (o di ottemperanza dinnanzi al giudice amministrativo) rispetto
al giudizio di cognizione anche ai fini del rispetto del termine utile per la proposizione della domanda di equa
riparazione v. cass. s.u. 24 dicembre 2009 n. 27.348 nonché più recentemente cass. 7 aprile 2011 e 17 giugno 2011 n.
13.368. in senso dubitativo sulla questione della cumulabilità o meno della durata del processo di cognizione e di
esecuzione forzata del provvedimento di condanna ottenuto quanto meno con riferimento al giudizio di equa
riparazione ex l. 89/2001 v. peraltro da ultimo cass. ord. 3 ottobre 2012 n. 16820 in Foro it. I co. 2975 con nota di
richiami di Piombo, che ha rimesso la questione alle sezioni unite della corte, nonché cass. s.u. 19 marzo 2014 n.
6.312 che, ispirandosi alla C.E.D.U., ha qualificato come processo giurisdizionale il procedimento che ha inizio con
l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione , definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunziata in
favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanzaile di vantagio fatta valere ne
lprocesso medesimo.
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classificazioni
della
banca
mondiale
(http
://www.doingbusiness
.org/data/exploretopics/enforcing-contracts, rapporto "Doing Business" ) dell'economia
e dell'ordinamento italiani, nel loro complesso considerati.
Del resto, il ruolo eminentemente gestionale di attività non strettamente giurisdizionali ,
nel senso tradizionale di destinate alla risoluzione di controversie, esalta l'opportunità di
norme flessibili e di un'accentuata esternalizzazione: con il che si recupererebbero molti
giudici ad attività più propriamente attinenti allo iusdicere .
H.2) Ricerca dei beni da pignorare con modalità telematiche
La proposta è volta a migliorare l'efficienza dei procedimenti di esecuzione
mobiliare presso il debitore e presso terzi in linea con i sistemi ordinamentali di altri
Paesi europei, tenuto conto che nei Paesi scandinavi i compiti di ricerca dei beni da
pignorare sono demandati ad un'agenzia pubblica appositamente costituita e che in
Spagna, Austria, Slovenia ed Estonia il creditore ha diritto di interrogare le banche dati
pubbliche tramite l'ufficiale giudiziario anche prima di promuovere l'esecuzione
(analogamente a quanto si propone in questa sede) . In Germania è addirittura previsto il
"registro dei debitori" (c .d . "schwarze Liste" o "Lista nera") che crea una "lista di
proscrizione" nei confronti del debitore, accessibile da chiunque . Una "lista nera" esiste
anche in Belgio, ma in questo caso l'accesso è consentito soltanto a coloro che sono
muniti di un titolo esecutivo. La strada seguita è quella dell'implementazione dei poteri
di ricerca dei beni dell'ufficiale giudiziario, colmando l'asimmetria informativa esistente
tra i creditori e il debitore in merito agli "asse patrimoniali appartenenti a quest'ultimo.
Tale "deficit" informativo viene controbilanciato consentendo all'ufficiale giudiziario
l'accesso diretto nelle banche dati pubbliche contenenti informazioni rilevanti ai fini
dell'esecuzione, in primo luogo l'anagrafe tributaria, ivi compreso il c .d. archivio dei
rapporti finanziari. Gli obiettivi esposti sono perseguibili con l'attuazione dei seguenti
principi di delega:
a) prevedere che, ad istanza del creditore, su autorizzazione del presidente del tribunale
e previo pagamento del contributo unificato, la ricerca delle cose e dei crediti da
pignorare sia eseguita dagli ufficiali giudiziari anche con modalità telematiche mediante
l'accesso a specifiche banche dati gestite dalle pubbliche amministrazioni o alle quali le
stesse possono accedere e stabilire che l'istanza tenga luogo della richiesta di
pignoramento ;
b) prevedere che gli introiti derivanti dal versamento del contributo unificato di cui alla
lettera a) siano destinati a migliorare il funzionamento degli uffici giudiziari e degli
uffici NEP, con particolare riferimento ai servizi informatici;
c) rimettere al creditore procedente l'individuazione dei crediti o delle cose da sottoporre
a pignoramento quando l'accesso alle banche dati di cui alla lettera a) ha consentito di
individuare più crediti del debitore o più cose di quest'ultimo che si trovano nella
disponibilità di terzi ovvero sia crediti che cose del debitore che si trovano nella
disponibilità di terzi;
d) prevedere che quando l'accesso alle banche dati ha consentito di individuare crediti
del debitore l'ufficiale giudiziario li pignori direttamente notificando il verbale delle
operazioni di ricerca al debitore e al terzo;
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pag. nr. 42
e) modificare il criterio di competenza territoriale relativo ai procedimenti di
espropriazione forzata di crediti, prevedendo la competenza del giudice del luogo ove
risiede il debitore; quando il debitore risiede all'estero o è una pubblica
amministrazione, stabilire un autonomo criterio di competenza territoriale, che
comunque assicuri l'obiettivo della concentrazione dei procedimenti proposti nei
confronti del medesimo debitore ;
f) prevedere, in conseguenza di quanto previsto alla lettera e), che anche il terzo tenuto
al pagamento di uno dei crediti di cui all'articolo 545, terzo e quarto comma, del codice
di procedura civile comunichi la dichiarazione di cui all'articolo 547 del predetto codice
a mezzo raccomandata ovvero a mezzo di posta elettronica certificata;
g) prevedere che l'atto con cui si procede al pignoramento di crediti, ivi compreso il
verbale di cui alla lettera d), contenga l'avvertimento al terzo delle conseguenze
derivanti dalla mancata comparizione in udienza ;
h) stabilire un compenso aggiuntivo, rientrante tra le spese di esecuzione e
parametrato al valore di realizzo o di assegnazione delle cose pignorate o al valore de i
crediti, da ripartire tra l'ufficiale giudiziario o il funzionario che ha proceduto
all'interrogazione delle banche dati, l'ufficiale giudiziario o il funzionario che ha
proceduto al pignoramento, nonché gli altri ufficiali giudiziari o funzionari del
medesimo ufficio addetti al servizio esecuzioni ;
i) individuare altre materie in cui l'autorità giudiziaria può avvalersi dell'ufficiale
giudiziario per l'interrogazione delle banche dati di cui alla lettera a);
o 2002, n . 115.
H.3) Il Capo II del disegno di legge reca, poi, delega il Governo ad adottare
decreti legislativi finalizzati alla modernizzazione della disciplina delle garanzie reali
mobiliari.
Vi sono, poi, articolate anche puntuali proposte normative volte ad incidere su specifici
aspetti della disciplina delle opposizioni esecutive , dell'improcedibilità del processo
esecutivo, dell'esecuzione forzata mobiliare, immobiliare e per consegna o rilascio.
§ 2.b.3 – Considerazioni generali in ordine agli interventi legislativi sul
processo.
Come sopra illustrato l’aspirazione ad una giustizia civile qualificata dalla
ragionevole durata è stata per lo più perseguita con una serie continua di provvedimenti
legislativi di riforma del Codice di Procedura Civile. E ciò sulla base di una
considerazione ritenuta, invero acriticamente, di fondo: che tale legittima e pur ovvia
aspirazione non possa che tradursi concretamente in una molteplicità di interventi di
riforma delle leggi processuali, di per sé ritenuti bastevoli, o quasi, a migliorare lo stato
delle cose.
Il continuo susseguirsi di tali riforme ha condotto verso una sostanziale quanto
latente trasformazione della giustizia civile. Emerge, infatti, un quadro generale di
profonda trasformazione dell’iter processuale in cui l’aspirazione ad «andar di fretta»,
complice un’ingiustificata enfatizzazione della novellata previsione costituzionale, è
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divenuta assorbente ed esclusiva tanto che da qualche tempo si è unita, per esempio, la
convinzione che le impugnazioni delle sentenze civili siano divenute un «momento»
della giustizia civile non più accessibile con le forme di un tempo.
A fronte di questo scenario ci si deve chiedere se, ed in che misura, le riforme
processuali (non) abbiano snaturato la tradizionale funzione del processo come
strumento di attuazione del diritto e, nel contempo, tracimato, per così dire, una
malintesa accezione dell’autonomia del processo medesimo – e delle sue regole ‐, in
relazione proprio alla strumentalità ed al “valore” dell’accertamento giudiziale della res
litigiosa.
Si tratta, in buona sostanza, di valutare, sul piano del «sistema», quali sono gli
effetti del complesso moto riformatore del processo civile, attesa l’aspirazione di questo
alla riforma della giustizia civile. E, di qui, evidenziarne lo iato con peculiare attenzione
alla tenuta dei principi fondamentali.
Orbene, le molteplici riforme di primo acchitto danno la parvenza di una marcata
valorizzazione della c.d. autonomia delle regole processuali: ed anzi, considerata
l’aspirazione dei conditores di ottenere, per il tramite di plurimi ed incisivi interventi
sulle norme che disciplinano l’attività giurisdizionale, un deciso miglioramento del
servizio‐giustizia, la valorizzazione dell’autonomia delle regole processuali sembra
ancorarsi, in questa prospettiva, alla pur antica definizione della natura del rapporto
processuale come «rapporto autonomo e complesso appartenente al diritto pubblico»37.
E pur se, come ognun sa, questa definizione si inseriva nel quadro dell’azione in senso
concreto (della parte che «ha ragione»), conserva, tuttavia, un’intatta valenza nell’attuale
sistema dell’azione in senso astratto, fonte di applicazione di norme attributive di diritti,
doveri, oneri e facoltà per tutte le parti del processo rivolte ad uno scopo comune, oggi
definibile come diritto ad ottenere un provvedimento giurisdizionale di merito38.
Di qui, è fin agevole comprendere come il tentativo di riallineare il serviziogiustizia ai parametri europei, quanto a durata media del giudizio civile, si sia innanzi
tutto centrato sulla babele delle riforme delle regole del processo: l’enfatizzazione del
canone pure di rango primario della «ragionevole durata» ha segnato un’intera stagione,
non solo del legislatore, ma anche della giurisprudenza, al punto da costituire non di
rado la ratio decidendi sottesa alle pronunce di legittimità (in punto v. infra). L’effetto
delle riforme – tutte – ha comportato quasi una prevalenza del «rapporto processuale»
sul rapporto sostanziale oggetto necessario di questo; in altri termini, proprio in grazia
della riconosciuta autonomia delle regole che governano il processo civile, l’attuazione
del diritto (sostanziale) per il tramite dell’accertamento giudiziale subisce, a più riprese,
l’«invadenza» del rapporto processuale, sì da rendere talvolta vuota o apparente la
realizzazione del diritto ad ottenere una sentenza di merito. Che equivale , o dovrebbe
equivalere, alla giustizia del «caso concreto».
In particolare l’invadenza (dell’autonomia) del rapporto processuale, o meglio
delle regole del processo destinato alla pronuncia del provvedimento di merito e sul
merito della lite rischia non poco di svilire e, in qualche caso “tradire”, la stessa
funzione del processo civile come “strumento” di attuazione dei diritti.
37
G. Chiovenda, Principii di Diritto processuale civile, Napoli 1960 (rist.), p. 91.
E.T. Liebman, L’azione nella teoria del processo civile, in Problemi del processo civile, Napoli 1962, p. 22 ss.; V. Andrioli,
Diritto processuale civile, Napoli 1979, I, p. 274 ss., sp. 281-284.
38
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L’efficacia della legge processuale oggi è divenuta assai più pervasiva, seppur
non direttamente incidente sulla trasformazione del diritto sostanziale, bensì sul
condizionamento, del processo e nel processo, che viene a subire il diritto litigioso
oggetto dell’accertamento. In altri termini, le continue riforme processuali,
progressivamente sempre più stringenti nel porre alle parti l’osservanza di tempi e modi
predefiniti di conduzione delle attività di difesa, danno la netta sensazione, per altra via,
che l’epilogo del giudizio sia dato da una sorta di verità «processuale», che man mano
viene a sostituirsi a quella «sostanziale» , già lecitamente di per sé soggetta a
quell’efficacia della legge processuale condizionante la tutela del diritto litigioso.
L’«autonomia» delle regole processuali vien così a sovrastare e, nel contempo, a
svilire la «strumentalità» del processo stesso a tutela del diritto controverso; il valore
positivo della «strumentalità» viene assorbito da un incipiente rischio di un contrapposto
valore dell’«autonomia» del processo, destinato a sostanziarsi negativamente, proprio a
causa della preponderante incidenza nello svolgimento del giudizio39.
Ed è proprio questo il pericolo dal quale deve ben guardarsi il legislatore nella
pur utile attività di riforma del processo finalizzata alla restrizione dei tempi del fare
giustizia perché se è pur vero che è importante andar di fretta per recuperare la
ragionevole durata del processo è anche vero che al legislatore sembra poco importante
vedere come si va (di fretta) e dove si arriva (con la fretta) difettando di uno sguardo
sistematico40.
§ 2.c - I rimedi acceleratori derivanti dalle “best practises”
processuali e dagli orientamenti giurisprudenziali.
Oltre all’intervento legislativo vi sono altri interventi finalizzati alla compiuta
realizzazione della ragionevole durata del processo.
** Gli osservatori della giustizia civile
Si diffondono sempre più le costituzioni presso i Tribunali di osservatori della
giustizia civile composti da magistrati ed avvocati e non può ignorarsi il grande
contributo che gli stessi stanno dando per la creazione di pratiche virtuose poi spesso
recepite dal legislatore.
Attraverso tali osservatori si formalizzano protocolli di udienza che prendono
atto delle esigenze della pratica quotidiana del processo e, per un verso, danno
39
In tal senso cfr. Cavallini , Verso una giustizia “processuale”: il tradimento della tradizione, in Triv. Dir. Proc. 2013 p. 316 e
ss. p. 322.
40
Qualche autore (Michele Gerardo e Alfio Mutarelli “Sulle cause dell’irragionevole durata del processo civile” in
www.Judicium.it) ha accostato il modo continuo e frammentario di procedere del legislatore in materia alla corrente pittorica del
“puntinismo” ma l’accostamento non pare appropriato se si considera che le opere del Pointillisme (in particolare quelle di G.
Seurat e P. Signac) se guardate ad una certa distanza, perdono la caratteristica frammentarietà della tecnica a punti, uniformando le
figure e variegando la paletta di colori mentre nell’attività del legislatore italiano è arduo rinvenire ad uno sguardo sincronico un
chiaro disegno sistematico.
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indicazioni di certezza sull’interpretazione della legge dando un rilevante impulso
all’economia processuale e, per altro verso, proprio raccogliendo e sfruttando la grande
e qualificata esperienza in campo dei componenti si riescono ad elaborare – talvolta
anche in termini paralegislativi – prassi che veramente riguardano il processo a tutto
campo ed incidono veramente sui tempi della giustizia ovviamente nei limiti in cui tali
protocolli possono operare in quanto privi di cogenza erga omnes trovando la loro fonte
giuridica in meri accordi tra istituzioni.
I protocolli hanno un contenuto composito, che spazia dalla concretizzazione di
norme processuali elastiche, come l’art. 175, 1° comma c.p.c. e l’art. 121 c.p.c., alla
fissazione di varianti interpretative o applicative di norme processuali rigide, come
quella che disciplina il contenuto della prima udienza del processo (art. 183 c.p.c.), alla
codificazione di opportune regole di costume giudiziario, come quelle che impegnano i
difensori a comunicare tempestivamente al giudice l’avvenuta transazione stragiudiziale
della controversia, a consegnare al giudice copia della giurisprudenza di merito citata
negli scritti difensivi o nella discussione orale, a consegnare al giudice del primo grado
copia della sentenza emessa dal giudice di appello e dalla Corte di cassazione.
Non vi è il tempo in questa relazione di esaminare le varie prassi elaborate dagli
Osservatori ma solo a titolo di esempio possono ricordarsi le elaborazioni delle tabelle
per il risarcimento del danno non patrimoniale che tanta rilevanza deflattiva hanno avuto
nei processi per il risarcimento del danno o l’elaborazione di prassi relative alla gestione
dell’udienza o di prassi per lo scambio di atti tra legali.
Gli osservatori valorizzano le prassi virtuose, evidentemente non contro la legge
e contro le garanzie costituzionali, bensì negli spazi che la legge processuale lascia
fisiologicamente a disposizione. Questi spazi possono essere colti e sfruttati con grande
nettezza e consapevolezza teorica, oltre che dall’approccio ermeneutico, da tecniche
interpretative relativamente recenti come l’interpretazione orientata alle conseguenze,
riferita cioè alle implicazioni pratiche che l’interpretazione ipotizzata presumibilmente
produrrebbe all’esterno del sistema giuridico, nella realtà sociale41.
L’elaborazione di prassi autoregolamentate e condivise non intende intaccare,
quindi, l’enorme merito che storicamente ha avuto nella disciplina del processo
l’affermazione del principio di legalità42, la fissazione di una normativa ad opera di una
fonte superiore ed esterna rispetto ai protagonisti della vicenda processuale, come
strumento principe per combattere l’inefficienza del processo e per aspirare a conferire
certezza alle garanzie delle parti.
Oggi, tuttavia, la riaffermazione del principio di legalità, pur fondamentale, da
sola non è più sufficiente.
41
MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 91 ss.
Va notato che con il concetto di legalità si è voluto relegare al margine un’idea di giustizia resa in un
processo - l’ordo iudiciarius medievale – i cui principi non provengono dalla volontà del legislatore, cioè
non sono imposti da un’autorità superiore ed esterna, ma dalle regole della retorica e dell’etica, proprie
della stessa comunità cui appartengono i protagonisti della vicenda processuale.
42
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In primo luogo, il richiamo ai valori della Costituzione attesta che la legge può
pretendere osservanza non tanto se si profila come comando autoritativo, emanato al
termine di un procedimento capace di accogliere qualsiasi contenuto, quanto se essa
risponde al canone della ragionevolezza (oltre che rispettare i valori costituzionali più
specifici).
In secondo luogo, se comune è la consapevolezza che anche la prassi più
virtuosa non può legittimarsi solo sulla base del suo essere opportuna, ma deve
giustificarsi sulla base della sua congruenza con il sistema normativo processuale,
altrettanto comune è la convinzione che tale sistema non è chiuso nella propria
autoreferenzialità normativa, ma è disposto ad apprendere dall’ambiente circostante. E
se si tratta di un ambiente così ricco di buone ragioni potenzialmente universalizzabili,
come quello degli osservatori sulla giustizia civile, l’arricchimento del sistema
processuale non può essere che notevole.
In sintesi, il principio di legalità della disciplina processuale è riaffermato in un
contesto culturale profondamente mutato rispetto a quello ottocentesco. Un contesto nel
quale l’interprete teorico e l’operatore pratico del diritto si sono definitivamente liberati
dai panni striminziti dell’esegeta, per assumere quelli del coproduttore ed intermediatore
di senso delle norme processuali, all’interno di un sistema legale che è come un
“polmone aperto sull’esperienza”.
Infine non può ignorarsi che la commissione per l’efficacia della giustizia,
promossa dal Consiglio d’Europa (CEPEJ), contempla fra le sue iniziative la
preparazione di un compendio di prassi giudiziarie virtuose a livello europeo per
contrastare il ritardo nella definizione dei processi43: in tal modo appare evidente come
l’opera degli osservatori sulla giustizia civile non può qualificarsi come un episodio
passeggero nella storia della giustizia civile italiana, ma costituisce un fenomeno che
ben si iscrive nelle linee evolutive degli ordinamenti processuali contemporanei.
** Il contributo della giurisprudenza44
La prevedibilità delle decisioni giudiziarie, ovvero la possibilità di anticipare
l’interpretazione della regola che verrà stabilita dal giudice, garantisce la certezza del
diritto e permette agli agenti economici di valutare le possibili conseguenze legali delle
loro azioni, consentendone una corretta programmabilità dissuadendone in molti casi
l’esperimento.
Misurare il grado di prevedibilità delle decisioni risulta estremamente
complesso; tuttavia alcune indicazioni possono essere ricavate dall’analisi dei tassi
d’appello dinanzi alle corti superiori. I sistemi di tradizione legale di common law
Cfr. gli esiti dell’incontro di Bucarest del 3-4 aprile 2006 della task force della CEPEJ, rinvenibili sul sito Internet
del Consiglio d’Europa.
43
44
Il riferimento al contribuot giurisprudenziale deriva dal progressivo indebolimento dlela legislazione, cui corrisponde una
progressiva centralità della giurisdizione che sembra essere stata spinta ad uscire dal terreno del controllo, che è quello ad esso
congeniale e proprio, per addentrarsi in quella dlela mediazione e della regolazione del confliutto sociale sicché il diritto è sempre
più e sistematicamente diritto giurisprudenziale e sempre meno diritto della legislazione. E il diritto giurispriudenziale è sempre più
diritto della composiizone delle più svariate problematiche sociali e sempre meno flatus legis.
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generalmente hanno tassi di appello più ridotti di quelli osservati negli altri sistemi
legali (di tradizione francese, nordica, germanica, ex-socialista); questi ultimi mostrano
anche una più elevata variabilità al loro interno.
In questo contesto va, altresì, ricordato anche che il dispositivo dell’art. 132 II°
comma n. 4 c.p.c. a norma del quale la sentenza deve contenere “la concisa esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” individua un tipo di sentenza
caratterizzata da chiarezza e sinteticità e concorre a rendere effettivamente perseguibile
una ragionevole durata del processo presupponendo, però, analoghe caratteristiche degli
atti di parte. In questa prospettiva si sono collocati da tempo: la Corte europea dei diritti
dell’uomo prevedendo tra le indicazioni pratiche relative alla forma ed al contenuto del
ricorso di cui all’art. 47 del reg. che “nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10
pagine il ricorrente dovrà presentare in breve riassunto dello stesso”; il consiglio di
Stato suggerendo che per i ricorsi e le memorie che tali atti siano contenuti nel limite di
20/25 pagine e la nota 17 giugno 2013 del presidente della Corte di Cassazione rivolta
al presidente del Consiglio nazionale forense nella quale si invitano gli avvocati a non
superare nei ricorsi le 20 pagine, a non ripetere i precedenti scritti difensivi limitandosi
ad un breve richiamo ai medesimi rilevando che la sinteticità degli atti consente una
maggior penetrazione della critica e sollecita ne giudicante una crescita dell’attenzione.
A tal proposito è opportuno sollecitare lo sviluppo di quelle attività prasseologiche
volte a definire e contenere in via paradigmatica le dimensioni degli atti: e a questo fine il
nuovo processo telematico potrebbe dare una energica ed efficace spinta.
La stessa la Corte di cassazione45, che i giudici di merito 46 hanno iniziato a
“sanzionare”, pur in assenza di formali sanzioni, la gratuita prolissità e ripetitività degli atti
di parte. La prima, nel decidere un ricorso con motivazione semplificata ha motivato che
«l’utilizzo di tale modello … si giustifica in relazione al fatto che entrambe le
impugnazioni, quella in via principale e quella in via incidentale, non richiedono
l’esercizio della funzione nomofilattica: esse infatti, quando non deducono vizi di
motivazione, sollevano questioni la cui soluzione comporta l’applicazione di principi già
affermati in precedenza da questa Corte, e dai quali il Collegio non intende discostarsi. La
motivazione semplificata non è preclusa dalla particolare ampiezza degli atti di parte (111
pagine è la lunghezza del ricorso principale, il controricorso e ricorso incidentale
raggiungono le 64 cartelle, e la memoria illustrativa, meramente iterativa del ricorso
principale, è di 36 pagine), perché detta ampiezza – che certamente, pur non ponendo un
problema di formale violazione delle prescrizioni formali dettate dall’art. 366 c.p.c., non
giova alla chiarezza di tali atti e concorre ad allontanare l’obiettivo di un processo celere,
che esige da parte di tutti atti sintetici, redatti con stile asciutto e sobrio – non è affatto
direttamente proporzionale alla complessità giuridica o all'importanza economica delle
questioni veicolate, e si risolve soltanto in una inutile e disfunzionale sovrabbondanza,
infarcita di continui e ripetuti assemblaggi e trascrizioni degli atti defensionali, delle
sentenze dei gradi di merito, delle prove testimoniali, della consulenza tecnica e dei suoi
allegati planimetrici». Ciò che la S.C. lascia chiaramente intendere è che, se una violazione
45
46
Sez. II civ., sent. 4 luglio 2012, n. 11199, in Foro it., 2014, I, 238.
Trib. Milano, sez. IX civ., ord. 1 ottobre 2013, in www.ilcaso.it e in Foro it., 2014, I, 243.
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formale è difficilmente ravvisabile in atti che risultano frutto di assemblaggi e taglia-incolla
dei vari materiali processuali, nondimeno l’inutile ampiezza delle difese scritte finisce per
portare attentato a fondamentali valori del processo, deducibili dalle norme costituzionali e
in particolare dal più che abusato principio di ragionevole durata.
Il Tribunale di Milano, dal canto suo, nel richiamare pedissequamente la
“massima” della Cassazione, ha aggiunto il riferimento al recente codice del processo
amministrativo e ad un generico «principio comune ad altre codificazione europee»; e non
sembra un caso che lo stesso Tribunale di Milano, stesso estensore, abbia dichiarato
inammissibili le “note d’udienza scritte” da allegare al verbale di trattazione (orale), perché
esse «costituiscono un’appendice scritta non autorizzata»47.
Si può, insomma, affermare che serpeggia, tra gli operatori del processo, una
crescente insofferenza per la scrittura e per gli eccessi che tale modello sembra destinato a
produrre.
** Ma terminate le note positive occorre ora passare a quelle negative.
Infatti stanno emergendo orientamenti della giurisprudenza, soprattutto degli
ultimi anni, che “giocando” con il principio della ragionevole durata del processo, o con
altri valori fissati con clausole generali od elastiche, hanno interpretato in molti casi le
norme processuali in modo tale da evitare dispendio di tempo anche se talvolta in senso
contrario al loro tenore letterale mostrando una certa e non condivisibile insofferenza al
dettato normativo.
Si possono dare delle esemplificazioni per meglio comprendere il fenomeno: a)
ad esempio, in contrasto con la lettera dell'art. 37 c.p.c., si è statuito che il difetto di
giurisdizione può essere eccepito dalle parti o rilevato d'ufficio dal giudice fino a
quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, e non in ogni stato e grado del
processo, come la norma recita (Cass. sez. un. 9 ottobre 2008 n. 24883, Foro it., 2009, I,
806); b) in contrasto con l'art. 331 c.p.c. si è statuito che nelle ipotesi di cause
inscindibili a contraddittorio non integro il giudice non è tenuto ad assegnare alla parte
impugnante un termine per l'integrazione del contraddittorio se da una analisi
preliminare l'impugnazione deve ritenersi inammissibile (Cass. sez. un. 3 novembre
2008 n. 26373, Foro it., Rep., 2009, voce Procedimento civile, 88); c) in contrasto con
l'art. 269 c.p.c. si è asserito che il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova
udienza per consentire la citazione del terzo nel processo chiesta tempestivamente dal
convenuto è discrezionale, poiché infatti il giudice può rifiutare di fissare una nuova
prima udienza per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata
del processo (Cass. sez. un. 23 febbraio 2010 n. 4309, Foro it., 2010, I, 1794); d) in
contrasto con l'art. 354 c.p.c. si è statuito che la violazione del litisconsorzio necessario
rilevata dal giudice dell'appello non comporta l'automatica rimessione della causa al
primo giudice se a tale pronuncia non consegue un dispendio di energie processuali non
suscettibile di meglio garantire le esigenze della difesa e di partecipazione delle parti al
processo (Cass. 18 febbraio 2010 n. 3830, id.); e) ancora, in contrasto con il principio
della domanda ex art. 99 c.p.c. e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112
c.p.c., si è asserito che qualora il terzo spieghi volontariamente intervento litisconsortile
assumendo essere lui -e non il convenuto- il soggetto nei cui confronti si rivolge la
47
Trib. Milano, sez. IX civ., ord. 14 marzo 2013, in www.ilcaso.it
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pag. nr. 49
pretesa dell'attore, la domanda originaria, anche in mancanza di espressa istanza, si
intende automaticamente estesa al terzo, nei confronti del quale il giudice, può, pertanto,
assumere consequenziali statuizioni (Cass. 1 luglio 2008 n. 17954, Foro it., Rep., 2008,
voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 24).
O ancora si pensi alla lettura dell'art . 282 c.p.c. resa dalle Sezioni Unite della
Corte di cassazione con la sentenza n . 10.027 del 2012 secondo cui "il diritto
pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo
diverso da quello dello stato originario della lite e giustifica sia l'esecuzione
provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l'autorità
della sentenza di primo grado" attraverso il quale nei processi legati da vincoli
pregiudiziali si perviene di fatto a considerare come già passata in giudicato la sentenza
di primo grado (es. laddove si è accertata la qualità di erede o di figlio di un soggetto).
E gli esempi potrebbero continuare.
Tale trend giurisprudenziale, però, pur dichiarando di ispirarsi ad un principio
costituzionale (quello della ragionevole durata del processo), di fatto conferisce al
giudice il potere di ri-determinare, di volta in volta, le regole del gioco48.
La massima suona: “Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole
durata del processo impone al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di
ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli
che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue
perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo”. 49
Tale massima preoccupa non tanto nell’aspetto secondo il quale il giudice deve
impedire l’inutile dispendio di attività processuali, cosa certamente giusta, quanto sotto
quello per il quale il giudice deve evitare formalità superflue perché non giustificate. Se
la formalità è prevista dalla legge, come può il giudice considerarla superflua e non
applicarla? A cosa servono allora le formalità previste nel codice di rito?
Se parimenti, poi, si pensa che la recente riforma dell'art. 360 bis n. 2 c.p.c
considera il ricorso per cassazione inammissibile quando la violazione della norma
processuale non ha compromesso i principi regolatori del giusto processo, si comprende
48
Interessante, in punto, è il dictum della recentissima sentenza delle S.U. della corte di cassazione (sent. 12 marzo
2014 n. 5.700) nella quale esplicitamente si ribadisce che “Nella giurisprudenza di legittimità, dunque, il principio
della ragionevole durata del processo è divenuto punto costante di riferimento nell'ermeneutica delle norme, in
particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo, conducendo a
privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del
giudizio.Pur precisandosi , poi, che “… tuttavia, non può non rilevarsi che il principio del giusto processo, di cui al
richiamato art. 6 CEDU, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso. Come sottolineato anche in
dottrina, occorre prestare altresì la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti
non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure
si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un
giudizio”.
49
La massima è già stata usata in numerosi casi, tra i quali ricordo Cass. sez. un. 23 febbraio 2010 n. 4309, cit.; Cass. 18 febbraio
2010 n. 3830, cit.; Cass. 3 novembre 2008 n. 26373, cit.; Cass. 19 agosto 2009 n. 18410, Foro it., Rep. Voce Diritti politici e civili
n. 154; Cass. 8 luglio 2009 n. 15985 (massima non pervenuta).
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come, mettendo insieme questi due momenti, esce un sistema in base al quale il giudice,
in nome della ragionevole durata del processo, o di altri non ben determinati valori, può
liberamente re-interpretare i precetti processuali contenuti nel codice di rito o in altre
leggi speciali, mentre la parte non può denunciare in cassazione alcuna violazione della
legge processuale se questa non attiene al “giusto processo”, ovvero ad un termine
elastico che, di nuovo, è rimesso alla interpretazione del giudice.
Sembra quasi che il codice di procedura civile non serva più a nulla o poco più,
ed anzi, come già scriveva Calamandrei, costituisca solo un intralcio “all'opera del
giudice, col prescrivergli la meticolosa ed ingombrante osservanza di un rito”50.
Ma senza il codice, ovvero senza delle regole meticolose, articolate e precise
dell'intero susseguirsi delle attività processuali, noi torneremmo all'anciem régime,
perché il codice semplicemente serve per consentire a tutti di conoscere previamente le
modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale, e di poter far conto proprio su
quello svolgimento del processo. E questa pre-conoscenza delle modalità processuali
costituisce un valore fondamentale dello Stato di diritto, che credo non vada né spiegato
né dimostrato51.
Il vero pericolo è che in tal modo salti il principio di legalità e secondo la
profezia di Carl Schmitt si vada da uno Stato legislativo ad uno Stato di giurisdizione
con una superlegalità apocrifa non più semplicemente correttiva o integrativa ma del
tutto alternativa alla legalità formale generata nel processo politico-parlamentare
andando a corrompere un postulato del civil law ossia l’idea che la decisione collettiva
pubblica (la legge) esibisca una forza razionale e possieda un valore superiore rispetto
alla scelta individuale concreta (la sentenza)52.
§ 2.d. - I possibili rimedi acceleratori “organizzativi”
In parallelo con la
dell’organizzazione.
riforma
legislativa
occorre
procedere
al
miglioramento
** La nuova geografia giudiziaria
In primis va osservato che il provvedimento “madre” atteso da anni è quello
delle revisione delle circoscrizioni giudiziarie. Infatti perché una riforma dia i risultati
sperati di razionalizzazione del sistema servono una corretta distribuzione delle risorse
50
CALAMANDREI, Abolizione del processo civile? Riv. dir. proc., 1939, I, 386.
Per questa analisi v. già DALFINO-CAPONI-PROTO PISANI-SCARSELLI, In difesa delle norme processuali, Foro it., 2010, I,
1794.
52
Anche se non va dimenticato che il legislatore attuale non è più in grado di adeguare la cornice legislativa alla realtà effettuale
sicché come ben detto icasticamente da Andrioli “quello che non fa il legislatore lo fa il giudice se è capace”.
51
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attraverso la previsione di piante organiche adeguate alle mutate esigenze e una nuova
geografia giudiziaria.
Sicuramente un primo passo è stato fatto con i dd.ll. nn. 155 e 156 /2012
mediante il quale sono stati soppressi 31 piccoli tribunali, sono state soppresse 220
sezioni distaccate di Tribunale e gli uffici del Giudice di pace sono stati ridotti a 176.
L’intervento è da condividere per la sua radicalità rispondendo ad un’attesa
assai lunga nel tempo ma suscita più di una perplessità nella parte in cui rinunzia
esplicitamente a presidi giudiziari di prossimità riguardo alla cd. giustizia minore.
In questo settore (quello organizzativo), però, la disattenzione del legislatore
talvolta è esiziale.
E a tal proposito è sufficiente richiamare l’art. 3 della l. 10 dicembre 2012 n. 219
per fare un esempio della “disattenzione” del legislatore53.
Si sono trasferiti tutti gli onerosi procedimenti ex art. 317 bis e ss. c.p.c. (ora 337
bis e ss. c.p.c) dal Tribunale per i Minorenni ai Tribunali ordinari con rilevante aggravio
di questi ultimi senza predisporre misure di ridistribuzione e riorganizzazione degli
uffici e determinando, così un notevole appesantimento dei tempi processuali in una
materia delicata come quella dei procedimenti di famiglia o, più in generale, riguardanti
i minori.
** La specializzazione del giudice
Un rimedio, invece, che ha già trovato applicazione e ha dato prova di buoni
risultati è la specializzazione del giudice.
Una maggiore specializzazione è associata a una minore durata dei procedimenti.
La necessaria specializzazione per materia delle sezioni civili, introdotta dal
C.S.M. nel sistema tabellare ha consentito ai giudici di acquisire una conoscenza
specifica di una determinata area del diritto e delle questioni sostanziali e procedurali
connesse alle relative controversie ed ha contribuito in modo rilevante ad accrescere la
produttività dei giudici, soprattutto in primo grado, comportando una costante riduzione
dell’arretrato.
Certo i costi associati alla specializzazione sono rinvenibili in una maggiore
rigidità nella gestione delle risorse ma appare distonica rispetto all’obiettivo che si è
53 Si riporta il testo: «Art. 38. — Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84,
90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la
competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o
giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i
provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono emessi dal tribunale
ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità
giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli
articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
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raggiunto con la specializzazione la determinazione rigorosa del C.S.M. di imporre
dopo 10 anni il cambio di settore di lavoro del giudice al fine di ampliare nel magistrato
la circolarità dei saperi. Se, come dimostrato, la via della specializzazione è un potente
mezzo di riduzione dei tempi della giustizia allora va perseguito coerentemente senza
correttivi peraltro del tutto inutili. Che senso ha, infatti, fare specializzare un giudice per
poi disperdere tale sapere e mandarlo a svolgere un compito nel quale potrebbe avere
una conoscenza di poco superiore, se non inferiore, a quella di un M.O.T. e si
troverebbe ad operare senza autorevolezza in un contesto nel quale, invece,operano
avvocati specializzati.
** Una diversa forma di “specializzazione” può essere realizzata riservando al
giudice soltanto l’attività giudicante in senso stretto delegando a figure di supporto le
altre attività a questa prodromiche (es. approfondimento delle questioni di fatto e di
diritto sottese alle cause, ricerca giurisprudenziale, preparazione in bozza dei
provvedimenti).
Secondo la nota 13 giugno 2013 dell’O.C.S.E. nel campione dei paesi
considerati, ciascun giudice ha in media a disposizione 1,6 assistenti. Il rapporto è più
alto nei sistemi di tradizione legale di common law e germanica (2,2 e 2,0
rispettivamente) ed è più basso nei paesi di tradizione legale nordica (0,6). La durata dei
procedimenti è mediamente più bassa nei paesi in cui sono presenti figure di supporto al
giudice.
L’entità del carico e la complessità anche quantitativa delle pendenze impongono
il ricorso a soluzioni che perseguano l’obiettivo di un deciso abbattimento delle cause
più risalenti secondo un piano rigorosamente programmato che non trascuri però il
rispetto di standard qualitativi e preveda l’impiego di risorse esterne riservando al
personale più qualificato ed esperto le attività per le quali è richiesta una maggior
abilità professionale. Le sezioni stralcio istituite a tal fine con la legge 22 luglio 1997 n.
276 e alle quali furono destinati giudici onorari aggregati videro un avvio lento e una
misura di smaltimento inferiore alle attese.
Con il d. l. 69/201354 si è seguita la strada diversa di una limitata aggregazione di
giudici ausiliari nelle sezioni ordinarie piuttosto che la loro concentrazione in sezioni
54
Per comodità si riporta il testo di legge in oggetto - Decreto Fare - Misure in materia di giustizia Decreto Legge 21.06.2013 n° 69
, G.U. 21.06.2013
TITOLO III MISURE PER L'EFFICIENZA DEL SISTEMA GIUDIZIARIO E LA DEFINIZIONE DEL CONTENZIOSO
CIVILE - CAPO I - Giudici ausiliari Art. 62 (Finalita' e ambito di applicazione) 1. Al fine di agevolare la definizione dei
procedimenti civili, compresi quelli in materia di lavoro e previdenza, secondo le priorita' individuate dai presidenti delle Corti di
appello con i programmi previsti dall'articolo 37, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, si applicano le disposizioni del presente capo. 2. Le disposizioni del presente capo non si
applicano
ai
procedimenti
trattati
dalla
Corte
di
appello
in
unico
grado.
Art.
63
(Giudici ausiliari) 1. Ai fini di quanto previsto dall'articolo 62 si procede alla nomina di giudici ausiliari nel numero massimo di
quattrocento. 2. I giudici ausiliari sono nominati con apposito decreto del Ministro della giustizia, previa deliberazione del
Consiglio superiore della magistratura, su proposta formulata dal consiglio giudiziario territorialmente competente nella
composizione integrata a norma dell'articolo 16 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25. Ai fini della formulazione della
proposta i consigli giudiziari, nel caso di cui al comma 3, lettera d), acquisiscono il parere del Consiglio dell'ordine cui e' iscritto,
ovvero cui e' stato iscritto negli ultimi cinque anni, il candidato. Ai fini della formulazione della proposta i consigli giudiziari, nel
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caso di cui al comma 3, lettera e), acquisiscono il parere del Consiglio notarile cui e' iscritto, ovvero e' stato iscritto negli ultimi
cinque anni, il candidato. 3. Possono essere chiamati all'ufficio di giudice ausiliario: a) i magistrati ordinari, contabili e
amministrativi e gli avvocati dello Stato, a riposo; b) i professori universitari in materie giuridiche di prima e seconda fascia anche
a tempo definito o a riposo; c) i ricercatori universitari in materie giuridiche; d) gli avvocati, anche se a riposo; e) i notai, anche se a
riposo. Art. 64 (Requisiti per la nomina) 1. Per la nomina a giudice ausiliario sono richiesti i seguenti requisiti: a) essere
cittadino italiano; b) avere l'esercizio dei diritti civili e politici; c) non aver riportato condanne per delitti non colposi; d) non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione o di sicurezza; e) avere idoneita' fisica e psichica; f) non avere precedenti disciplinari
diversi dalla sanzione piu' lieve prevista dai rispettivi ordinamenti. 2. Nei casi di cui all'articolo 63, comma 3, lettere a) e b), al
momento della presentazione della domanda il candidato non deve aver compiuto i settantacinque anni di eta'. 3. Nel caso di cui
all'articolo 63, comma 3, lettere d) ed e), al momento della presentazione della domanda il candidato deve essere stato iscritto
all'albo per un periodo non inferiore a cinque anni e non aver compiuto i sessanta anni di eta'. 4. Per la nomina a giudice ausiliario
in relazione ai posti previsti per il circondario di Bolzano e' richiesta anche una adeguata conoscenza delle lingua italiana e tedesca.
Si osserva altresi' il principio di cui all'articolo 8, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1976, n.
752, e successive modificazioni. 5. Non possono essere nominati giudici ausiliari: a) i membri del Parlamento nazionale ed
europeo, i deputati e i consiglieri regionali, i membri del Governo, i presidenti delle regioni e delle province, i membri delle giunte
regionali e provinciali; b) i sindaci, gli assessori comunali, i consiglieri provinciali, comunali e circoscrizionali; c) gli ecclesiastici e
i ministri di culto; d) coloro che ricoprano incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici. Art. 65
(Pianta organica dei giudici ausiliari. Domande per la nomina a giudici ausiliari) 1. Entro due mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto, con decreto del ministero della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura, e' determinata
la pianta organica ad esaurimento dei giudici ausiliari, con l'indicazione dei posti disponibili presso ciascuna Corte di appello,
assegnando ai soggetti di cui all'articolo 63, comrna 3, lettera a), un numero di posti non superiore al dieci per cento dei posti di
giudice ausiliario previsti presso ciascuna Corte di appello. In ogni caso le nomine dei soggetti di all'articolo 63, comma 3, lettera
a), non possono superare complessivamente il numero di quaranta. 2. Con il medesimo decreto sono determinate le modalita' e i
termini di presentazione della domanda per la nomina a giudice ausiliario nonche' i criteri di priorita' nella nomina. E' riconosciuta
preferenza ai fini della nomina agli avvocati iscritti all'albo. A parita' di titoli sono prioritariamente nominati coloro che abbiano
maturato la maggiore anzianita' di servizio o di esercizio della professione. Della pubblicazione del decreto e' dato avviso sul sito
internet del Ministero della giustizia. 3. Le domande dei candidati sono trasmesse, senza ritardo, al consiglio giudiziario che
formula le proposte motivate di nomina, indicando, ove possibile, una rosa di nomi pari al doppio dei posti previsti in pianta
organica per ciascun ufficio giudiziario e redigendo la graduatoria. 4. Il presidente della Corte di appello assegna i giudici ausiliari
alle diverse sezioni dell'ufficio. Art. 66 (Presa di possesso) 1. Il giudice ausiliario prende possesso dell'ufficio entro il termine
indicato nel decreto di nomina previsto dall'articolo 63, comma 2, ed e' assegnato con apposito provvedimento del presidente della
Corte di appello a norma dell'articolo 65, comma 4. Art. 67(Durata dell'ufficio) 1. La nomina a giudice ausiliario ha durata di
cinque anni e puo' essere prorogata per non piu' di cinque anni. 2. La proroga e' disposta con le modalita' di cui all'articolo 63,
comma 2. 3. Il giudice ausiliario cessa dall'incarico al compimento del settantottesimo anno di eta' e nelle ipotesi di decadenza,
dimissioni, revoca e mancata conferma a norma dell'articolo71. Art. 68 (Collegi e provvedimenti. Monitoraggio) 1. Del collegio
giudicante non puo' far parte piu' di un giudice ausiliario. 2. Il giudice ausiliario deve definire, nel collegio in cui e' relatore e a
norma
dell'articolo
72,
comma
2,
almeno
novanta
procedimenti
per
anno.
3. Con cadenza semestrale il ministero della giustizia provvede al monitoraggio dell'attivita' svolta dai giudici ausiliari al fine di
rilevare il rispetto degli standard produttivi ed il conseguimento degli obiettivi fissati dal presente capo. Art. 69
(Incompatibilita' ed ineleggibilita') 1. Al giudice ausiliario si applica la disciplina delle incompatibilita' e delle ineleggibilita'
prevista per i magistrati ordinari. 2. Il giudice ausiliario, nominato tra i candidati di cui all'articolo 63, comma 3, lettera d), non puo'
svolgere le funzioni presso la corte di appello nel cui distretto ha sede il consiglio dell'ordine cui era iscritto al momento della
nomina o nei cinque anni precedenti. 3. Gli avvocati che svolgono le funzioni di giudice ausiliario non possono esercitare la
professione dinanzi agli uffici giudiziari del distretto di Corte di appello in cui svolgono le funzioni, e non possono rappresentare,
assistere o difendere anche nei successivi gradi di giudizio. 4. Gli avvocati che svolgono le funzioni di giudice ausiliario non
possono rappresentare, assistere o difendere, anche presso uffici di altri distretti di corte d'appello, le parti di procedimenti in
relazione ai quali hanno svolto le funzioni. Art. 70 (Astensione e ricusazione) 1. Il giudice ausiliario ha l'obbligo di astenersi e
puo' essere ricusato a norma dell'articolo 52 del codice di procedura civile, oltre che nei casi previsti dall'articolo 51, primo comma,
del medesimo codice, quando e' stato associato o comunque collegato, anche mediante il coniuge, i parenti o altre persone, con lo
studio professionale di cui ha fatto o fa parte il difensore di una delle parti. 2. Il giudice ausiliario ha altresi' l'obbligo di astenersi e
puo' essere ricusato quando ha in precedenza assistito nella qualita' di avvocato una delle parti in causa o uno dei difensori ovvero
ha svolto attivita' professionale nella qualita' di notaio per una delle parti in causa o uno dei difensori. Art. 71 (Decadenza,
dimissioni, mancata conferma e revoca) 1. I giudici ausiliari cessano dall'ufficio quando decadono perche' viene meno taluno dei
requisiti per la nomina, in caso di revoca e di dimissioni, in caso di mancata conferma annuale ovvero quando sussiste una causa di
incompatibilita'. 2. Entro trenta giorni dal compimento di ciascun anno dalla nomina, il consiglio giudiziario in composizione
integrata verifica che il giudice ausiliario ha definito il numero minimo di procedimenti di cui all'articolo 68, comma 2, propone al
Consiglio superiore della magistratura la sua conferma o, in mancanza e previo contraddittorio, la dichiarazione di mancata
conferma. 3. In ogni momento il presidente della corte di appello propone motivatamente al consiglio giudiziario la revoca del
giudice ausiliario che non e' in grado di svolgere diligentemente e proficuamente il proprio incarico. 4. Nei casi di cui al comma 3 il
consiglio giudiziario in composizione integrata, sentito l'interessato e verificata la fondatezza della proposta, la trasmette al
Consiglio superiore della magistratura unitamente ad un parere motivato. 5. I provvedimenti di cessazione sono adottati con
decreto del Ministro della giustizia su deliberazione del Consiglio superiore della magistratura. Art. 72 (Stato giuridico e
indennita') 1. I giudici ausiliari acquisiscono lo stato giuridico di magistrati onorari. 2. Ai giudici ausiliari e' attribuita
un'indennita' onnicomprensiva, da corrispondere ogni tre mesi, di duecento euro per ogni provvedimento che definisce il processo,
anche in parte o nei confronti di alcune delle parti, a norma dell'articolo 68, comma 2. 3. L'indennita' annua complessiva non puo'
superare, in ogni caso, la somma di ventimila euro e sulla stessa non sono dovuti contributi previdenziali. 4. L'indennita' prevista
dal presente articolo e' cumulabile con i trattamenti pensionistici e di quiescenza comunque denominati.
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separate. Siffatto provvedimento, unitamente alla circostanza che la retribuzione è a
provvedimento e non ad udienza (come purtroppo, invece, avviene per i G.O.T.),
potrebbe avere un effetto positivo purché, però, sia realizzato un regime di controllo
stringente attraverso la previsione di piani dedicati, affidati al capo dell’ufficio
nell’ambito della previsione dell’art. 37 del d.l. 98/2011 e con specifica individuazione
di obiettivi e tempi.
L’apporto di giudici ausiliari se può costituire un sollievo provvisorio per
l’amministrazione della giustizia, non deve, però, risolversi in soluzioni effimere con
l’introduzione di nuove figure temporanee e precarie. Occorre, dunque, puntare a
interventi di carattere strutturali tali da produrre effetti virtuosi e stabili sulla qualità
della giustizia e sulla durata delle cause. E’ necessario, infatti, considerare la peculiarità
del lavoro giurisdizionale e salvaguardare il difficile equilibrio tra la tutela dei diritti e
l’efficienza non già intervenendo con soluzioni esclusivamente procedurali ma con
idonea previsione di risorse e di dotazioni che consentano al giudice civile di avvalersi
di una stabile struttura di supporto e di ausilio.
Va, insomma sollecitata, come sopra detto, la costituzione di un “ufficio del
giudice” che coadiuvi il magistrato.
Da più parti si è invocata l’introduzione anche in Italia (sulla falsariga delle
esperienze tedesca ed austriaca) della figura del Rechtspfleger55 cioè una figura
intermedia tra il segretario ed il giudice cui devolvere funzioni di giustizia per così dire
minore quali il rilascio di decreti ingiuntivi e di ordinanze di convalida di sfratto, la
direzione dei processi di esecuzione forzata, ecc. o, comunque, in termini più ridotti, di
un ausiliario che coadiuvi il giudice nelle ricerche e lo sollevi da compiti materiali e di
cancelleria (essendo oggi il giudice italiano l’unico in Europa che spesso redige da solo i
verbali in udienza, scrive l’intestazione delle sentenze e disperde così notevoli energie)
di modo che al giudice sia riservata unicamente l’attività di ius dicere.
La previsione del tirocinio formativo istituito dal decreto del “Fare” (art. 73 L.
98/2013) costituisce un primo passo, ancorché appena embrionale, in questa direzione.
In particolare sono state recepite, sviluppate e stabilizzate le disposizioni e le
prassi già vigenti sulla base della previsione dell’art. 37d.l. 98/2011. E proprio la
positiva esperienza maturata al riguardo presso alcuni uffici giudiziari conferma
l’opportunità di procedere in tale direzione con interventi più decisi di quello proposto
che presenta numerose problematiche e così come confezionato non appare certo
55
Si noti che, per esempio, il Rechtspfleger può emettere atti giurisdizionali di limitato valore come il decreto ingiuntivo e contro
l’eventuale rigetto è ammesso ricorso (Erinnerung) di fronte all’Amtsrichter (giudice). In ogni caso il rigetto non ha efficacia di
giudicato e pertanto la richiesta può essere sempre ripresentata, tanto nelle forme monitorie, che in quelle ordinarie. In caso di
accoglimento della domanda il Mahnbescheid viene a costituire, nella sostanza, un’intimazione al debi tore a pagare entro il
termine di due settimane dalla notifica il debito, con l’informazione che di quest’ultimo non è stata accertata la fondatezza.
L’opposizione può essere proposta entro lo stesso termine. Il decreto monitorio è notificato al debitore a cura dell’ufficio (§ 693,
primo comma, ZPO). II debitore può proporre opposizione (Widerspruch: cfr. § 694 ZPO) al Mahnbescheid entro il termine di due
settimane dalla notifica (§ 692, comma primo, nr. 3).
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“attraente” per i giovani laureati che, tra l’altro, devono lavorare per 18 mesi del tutto
gratuitamente, si vedono riconosciuto ai fini della pratica forense un solo anno e in
molti casi non riescono a coordinare tale attività con la pratica legale o la partecipazione
alla Scuola di specializzazione delle professioni forensi56.
56
Si riporta il testo di legge.
Capo II Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari - Art. 73 (Formazione presso gli uffici giudiziari) 1. I laureati in
giurisprudenza all'esito di un corso di durata almeno quadriennale, in possesso dei requisiti di onorabilita' di cui all'articolo 42-ter,
secondo comma, lettera g), del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, che abbiano riportato una media di almeno 27/30 negli esami
di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale,
diritto del lavoro e diritto amministrativo, un punteggio di laurea non inferiore a 102/110 e che non abbiano compiuto i ventotto
anni di eta', possono accedere, a domanda e per una sola volta, a un periodo di formazione teorico-pratica presso i tribunali e le
Corti di appello della durata complessiva di diciotto mesi. Lo stage formativo, con riferimento al procedimento penale, puo' essere
svolto esclusivamente presso il giudice del dibattimento. I laureati, con i medesimi requisiti, possono accedere a un periodo di
formazione teorico-pratica, della stessa durata, anche presso il Consiglio di Stato, sia nelle sezioni giurisdizionali che consultive, e i
Tribunali Amministrativi Regionali. La Regione Siciliana e la Regione Autonoma del Trentino Alto-Adige, nell'ambito della
propria autonomia statutaria e delle norme di attuazione, attuano l'istituto dello stage formativo e disciplinano le sue modalita' di
svolgimento presso il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana e presso il Tribunale Regionale di Giustizia
amministrativa per la Regione Autonoma del Trentino Alto-Adige. 2. Quando non e' possibile avviare al periodo di formazione tutti
gli aspiranti muniti dei requisiti di cui al comma 1 si riconosce preferenza, nell'ordine, alla media degli esami indicati, al punteggio
di laurea e alla minore eta' anagrafica. 3. Per l'accesso allo stage i soggetti di cui al comma 1 presentano domanda ai capi degli
uffici giudiziari con allegata documentazione comprovante il possesso dei requisiti di cui al predetto comma, anche a norma degli
articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Nella domanda puo' essere espressa una
preferenza ai fini dell'assegnazione a uno o piu' magistrati dell'ufficio incaricati della trattazione di affari in specifiche materie, di
cui si tiene conto compatibilmente con le esigenze dell'ufficio. Per il Consiglio di Stato, il Consiglio di Giustizia amministrativa per
la Regione Siciliana, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Regione Autonoma del Trentino Alto-Adige, i Tribunali
Amministrativi Regionali la preferenza si esprime con riferimento ad una o piu' sezioni in cui sono trattate specifiche materie. 4.
Gli ammessi allo stage sono affidati a un magistrato che ha espresso la disponibilita' ovvero, quando e' necessario assicurare la
continuita' della formazione, a un magistrato designato dal capo dell'ufficio. Gli ammessi assistono e coadiuvano il magistrato nel
compimento delle ordinarie attivita'. Il magistrato non puo' rendersi affidatario di piu' di due ammessi. Il ministero della giustizia
fornisce agli ammessi allo stage le dotazioni strumentali, li pone in condizioni di accedere ai sistemi informatici ministeriali e
fornisce loro la necessaria assistenza tecnica. Nel corso degli ultimi sei mesi del periodo di formazione il magistrato puo' chiedere
l'assegnazione di un nuovo ammesso allo stage al fine di garantire la continuita' dell'attivita' di assistenza e ausilio. L'attivita' di
magistrato formatore e' considerata ai fini della valutazione di professionalita' di cui all'articolo 11, comma 2, del decreto legislativo
5 aprile 2006, n. 160, nonche' ai fini del conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi di merito. L'attivita' di magistrato
formatore espletata nell'ambito dei periodi formativi dei laureati presso gli organi della Giustizia amministrativa non si considera ai
fini dei passaggi di qualifica di cui all'articolo 15 della legge 27 aprile 1982 n. 186 ne' ai fini del conferimento delle funzioni di cui
all'articolo 6, comma 5, della medesima legge. Al magistrato formatore non spetta alcun compenso aggiuntivo o rimborso spese per
lo svolgimento dell'attivita' formativa. 5. L'attivita' degli ammessi allo stage si svolge sotto la guida e il controllo del magistrato e
nel rispetto degli obblighi di riservatezza e di riserbo riguardo ai dati, alle informazioni e alle notizie acquisite durante il periodo di
formazione, con obbligo di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione della loro attivita' e astenersi dalla deposizione
testimoniale. Essi sono ammessi ai corsi di formazione decentrata organizzati per i magistrati dell'ufficio ed ai corsi di formazione
decentrata loro specificamente dedicati e organizzati con cadenza almeno semestrale. I laureati ammessi a partecipare al periodo di
formazione teorico-pratico presso il Consiglio di Stato, il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, i Tribunali
Amministrativi Regionali e il Tribunale Amministrativo Regionale per la Regione Autonoma del Trentino Alto-Adige sono
ammessi ai corsi di formazione organizzati dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. 6. Gli ammessi allo stage
hanno accesso ai fascicoli processuali, partecipano alle udienze del processo, anche non pubbliche e dinanzi al collegio, nonche'
alle camere di consiglio, salvo che il giudice ritenga di non ammetterli; non possono avere accesso ai fascicoli relativi ai
procedimenti rispetto ai quali versano in conflitto di interessi per conto proprio o di terzi, ivi compresi i fascicoli relativi ai
procedimenti trattati dall'avvocato presso il quale svolgono il tirocinio. 7. Gli ammessi allo stage non possono esercitare attivita'
professionale innanzi l'ufficio ove lo stesso si svolge, ne' possono rappresentare o difendere, anche nelle fasi o nei gradi successivi
della causa, le parti dei procedimenti che si sono svolti dinanzi al magistrato formatore o assumere da costoro qualsiasi incarico
professionale. 8. Lo svolgimento dello stage non da' diritto ad alcun compenso e non determina il sorgere di alcun rapporto di
lavoro subordinato o autonomo ne' di obblighi previdenziali e assicurativi. 9. Lo stage puo' essere interrotto in ogni momento dal
capo dell'ufficio, anche su proposta del magistrato formatore, per sopravvenute ragioni organizzative o per il venir meno del
rapporto fiduciario, anche in relazione ai possibili rischi per l'indipendenza e l'imparzialita' dell'ufficio o la credibilita' della
funzione giudiziaria, nonche' per l'immagine e il prestigio dell'ordine giudiziario. 10. Lo stage puo' essere svolto contestualmente ad
altre attivita', compreso il dottorato di ricerca, il tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato o di notaio e la frequenza dei
corsi delle scuole di specializzazione per le professioni legali, purche' con modalita' compatibili con il conseguimento di
un'adeguata formazione. Il contestuale svolgimento del tirocinio per l'accesso alla professione forense non impedisce all'avvocato
presso il quale il tirocinio si svolge di esercitare l'attivita' professionale innanzi al magistrato formatore. 11. Il magistrato formatore
redige, al termine dello stage, una relazione sull'esito del periodo di formazione e la trasmette al capo dell'ufficio. 12. L'esito
positivo dello stage, come attestato a norma del comma 11, costituisce titolo per l'accesso al concorso per magistrato ordinario, a
norma dell'articolo 2 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160. Costituisce, altresi', titolo idoneo per l'accesso al concorso per
magistrato ordinario lo svolgimento del tirocinio professionale per diciotto mesi presso l'Avvocatura dello Stato, sempre che
sussistano i requisiti di merito di cui al comma 1 e che sia attestato l'esito positivo del tirocinio. 13. Per l'accesso alla professione di
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Insomma parafrasando il Manzoni (cap. XXXII dei Promessi Sposi) si può dire
“il buon senso c’era” ma se ne è stato nascosto “per paura del senso comune”.
Un interessante sviluppo verso la figura del Rechtspfleger potrebbe, invece,
portare l’oculata applicazione dell’art. 61 della circolare del Consiglio Superiore della
Magistratura sulle Tabelle di organizzazione degli Uffici Giudiziari per il triennio 2014
e 2016 laddove in tema di destinazioni e funzioni dei Got (capo VII - art. 61) prevede
che “L’utilizzo dei GOT può avvenire secondo i seguenti modelli: 1) Ciascun giudice
togato può essere affiancato da un giudice onorario di tribunale nella trattazione di
procedimenti individuati con criteri generali ed astratti… Nelle sezioni civili il giudice
togato, con riferimento a ciascun procedimento, delega compiti e attività, anche
istruttorie purchè non complesse, al giudice onorario, affidandogli con preferenza i
tentativi di conciliazione e i procedimenti speciali previsti dagli art. 186 bis e 423,
primo comma, c.p.c.”.
** Il processo telematico
avvocato e di notaio l'esito positivo dello stage di cui al presente articolo e' valutato per il periodo di un anno ai fini del compimento
del periodo di tirocinio professionale ed e' valutato per il medesimo periodo ai fini della frequenza dei corsi della scuola di
specializzazione per le professioni legali, fermo il superamento delle verifiche intermedie e delle prove finali d'esame di cui
all'articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398. 14. L'esito positivo dello stage costituisce titolo di preferenza a
parita' di merito, a norma dell'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, nei concorsi indetti
dall'amministrazione della giustizia, dall'amministrazione della giustizia amministrativa e dall'Avvocatura dello Stato. Per i
concorsi indetti da altre amministrazioni dello Stato l'esito positivo del periodo di formazione costituisce titolo di preferenza a
parita' di titoli e di merito. 15. L'esito positivo dello stage costituisce titolo di preferenza per la nomina di giudice onorario di
tribunale e di vice procuratore onorario. 16. All'articolo 5 della legge 21 novembre 1991, n. 374, dopo il comma 2 e' aggiunto il
seguente comma: "2-bis. La disposizione di cui al comma 2 si applica anche a coloro che hanno svolto con esito positivo lo stage
presso gli uffici giudiziari". 17. Al fine di favorire l'accesso allo stage e' in ogni caso consentito l'apporto finanziario di terzi, anche
mediante l'istituzione di apposite borse di studio, sulla base di specifiche convenzioni stipulate con i capi degli uffici, o loro
delegati, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo. 18. I capi degli uffici giudiziari di cui al presente articolo quando
stipulano le convenzioni previste dall'articolo 37 del decreto- legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge
15 luglio 2011, n. 111, devono tenere conto delle domande presentate dai soggetti in possesso dei requisiti di cui al comma 1. 19.
L'esito positivo dello stage presso gli uffici della Giustizia amministrativa, come attestato a norma del comma 11, e' equiparato a
tutti gli effetti a quello svolto presso gli uffici della Giustizia ordinaria. 20. La domanda di cui al comma 3 non puo' essere
presentata prima del decorso del termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto. Capo III Magistrati assistenti di studio della Corte suprema di cassazione Art. 74 (Magistrati assistenti di studio
della Corte suprema di cassazione) 1. All'articolo 10, comma 3, primo periodo, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, dopo
le parole "Corte di cassazione" sono inserite le seguenti: "e di magistrato assistente di studio della Corte di cassazione". 2. Al regio
decreto 30 gennaio 1941, n. 12, dopo l'articolo 115 e' inserito il seguente: "Art. 115-bis. Magistrati assistenti di studio della Corte
di cassazione. Al fine di garantire la celere definizione dei procedimenti pendenti, nella pianta organica della Corte di cassazione
sono temporaneamente inseriti trenta magistrati, con le attribuzioni di assistente di studio, da destinare alle sezioni civili. Le
attribuzioni di magistrato assistente di studio possono essere assegnate a magistrati per i quali e' stato deliberato il conferimento
delle funzioni giurisdizionali al termine del periodo di tirocinio e con non meno di cinque anni di effettivo esercizio delle funzioni.
di merito. Le attribuzioni del magistrato assistente di studio sono stabilite dal primo presidente della Corte di cassazione, sentito il
procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione. In ogni caso il magistrato assistente di studio non puo' far parte
del collegio giudicante. Il magistrato assegnato, a seguito di trasferimento, a svolgere le attribuzioni di magistrato assistente di
studio non puo' essere trasferito ad altre sedi prima di cinque anni dal giorno in cui ne ha assunto effettivo possesso, salvo che
ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Il posto resosi vacante a seguito di trasferimento non
puo' essere ricoperto. Con decreto del Ministro della giustizia si procede annualmente alla ricognizione dell'effettiva consistenza
della pianta organica dei magistrati assistenti di studio. La pianta organica di cui al periodo precedente e' ad esaurimento, fino alla
cessazione dal servizio o al trasferimento dei magistrati assistenti di studio. Ai magistrati assistenti di studio non spettano compensi
aggiuntivi al trattamento economico in godimento.". 3. Al decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 24, sono apportate le seguenti
modificazioni: a) all'articolo 2, dopo le parole "Corte di cassazione" sono inserite le seguenti: "o quale magistrato assistente di
studio della Corte di cassazione"; b) l'allegato 2 e' sostituito dall'allegato A del presente decreto. 4. I procedimenti per la prima
copertura dei posti previsti per le funzioni di magistrati assistenti di studio della Corte di cassazione devono essere conclusi entro il
termine di centottanta giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 5. Con decreto del Ministro della
giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura, da adottarsi entro centottanta giorni dall'entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, sono determinate le piante organiche degli uffici giudiziari, tenuto conto delle disposizioni del
presente articolo.
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Sul organizzativo un impulso alla celerità del processo può derivare dal cd.
processo civile telematico – la cui piena operatività è prevista per il 2014.
Come emerge dalla nota O.C.S.E 18 luglio 2013 la performance del sistema
giudiziario è migliore nei paesi che effettuano maggiori investimenti in
informatizzazione.
La durata media dei procedimenti è più bassa e la produttività dei giudici è più
elevata nei paesi che destinano una quota maggiore del bilancio della giustizia
all’informatizzazione. La relazione tra investimenti in informatizzazione e produttività è
più forte laddove il livello di competenze informatiche nella popolazione è più elevato
e, quindi, è maggiore la capacità di trarre vantaggio dai nuovi strumenti tecnologici: un
aumento della percentuale di individui con conoscenze di base di informatica dal 33 al
54 per cento della popolazione è associato a un incremento dell’intensità della relazione
tra produttività dei giudici e investimenti in informatizzazione di circa 4 volte.
Investimenti in informatizzazione e politiche volte ad accrescere il livello di competenze
informatiche nella popolazione appaiono dunque complementari.
La diffusione delle tecnologie informatiche assicura benefici direttamente,
riducendo i costi e i tempi di lavoro, e, indirettamente, consentendo di implementare
tecniche di “caseflow management” e assicurando una maggiore e migliore disponibilità
di informazioni. Con il termine caseflow management si indicano le attività di
supervisione e gestione dei flussi di lavoro finalizzate a garantirne un razionale
andamento. Alcuni esempi sono la fissazione e la gestione di scadenze, l’esame
preventivo dei procedimenti in entrata e la loro assegnazione a iter procedurali
differenziati in base alle loro caratteristiche, la precoce identificazione e gestione dei
casi più complessi e potenzialmente più problematici. Tra le tecniche di gestione dei
flussi considerate nell’analisi, la precoce identificazione e gestione dei casi più
complessi e potenzialmente più problematici è associata a durate minori dei
procedimenti. La disponibilità di informazioni sui flussi, le durate, i carichi di lavoro e
altre dimensioni operative è condizione necessaria per la programmazione del lavoro
all’interno degli uffici e per la successiva verifica dei risultati, per la valutazione della
performance dei giudici e del personale amministrativo. Con alcune eccezioni
(Inghilterra e Galles, Slovenia), la durata dei procedimenti è più bassa nei paesi in cui la
produzione di statistiche da parte degli uffici è maggiore.
I tempi dei processi sono un problema complesso e solo una parte contenuta
riguarda i tempi nelle disponibilità del giudice o delle parti, mentre la maggior parte dei
tempi è dovuta a tempi tecnici che derivano dalla organizzazione dell’ufficio o ancora
tempi di transito che riguardano il passaggio del processo da una fase o da un grado di
giudizio all’altro.
Si segnala il processo civile telematico come possibile rimedio ai problemi
evidenziati specialmente se lo sviluppo del progetto informatico sarà accompagnato dal
necessario cambiamento culturale di tutte le professionalità impegnate nell’ambito
giudiziario. Il Processo Civile Telematico (P.C.T.) è, infatti, un progetto informatico per
migliorare la qualità dei servizi giudiziari in area civile, volto a consentire l’esecuzione
di operazioni, quali il deposito di atti, la trasmissione di comunicazioni e notifiche, la
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consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria, nonché
dei fascicoli e della giurisprudenza, senza necessità di recarsi fisicamente presso le
cancellerie, bensì operando da remoto, on line. La principale finalità cui mira è una
riduzione della dimensione cartacea del processo civile, a vantaggio di quella virtuale,
con gli ulteriori benefici quali:
- la dematerializzazione degli atti del processo e trattamento dei dati e delle
informazioni in archivi Digitali, piuttosto che in registri e fascicoli;
- la delocalizzazione delle attività processuali;
- un miglioramento e razionalizzazione dei servizi di cancelleria;
- una riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti.
Proprio nei procedimenti civili nei quali gli adempimenti di cancelleria hanno
un valore rilevante, si potrà razionalizzare l’attività degli operatori ed accelerare i tempi
di alcune operazioni, traducendo le interazioni fra le persone in scambi a distanza
mediante strumenti elettronici.
Il risultato è quello di una completa riprogettazione delle "mansioni", dei ruoli, delle
diverse unità operative (abolizione dell'ufficio copie, dell'ufficio redazione sentenze,
ecc.) Presupposto del progetto è la necessità che si possa operare in un ambiente
totalmente informatizzato, in termini di dotazione di macchine (hardware), ma
soprattutto di sistemi applicativi (software) adeguati.
In sintesi, quindi, attraverso il Processo Civile Telematico, seppure non idoneo, da solo
e di per sé, ad abbreviare i tempi del processo civile, vi dovrebbe essere un recupero di
risorse umane sotto vari profili, da destinare ad attività e competenze diverse da quelle
attualmente svolte. La virtualizzazione del processo, o di alcune sue fasi, infatti
consentirebbe di liberare tali apporti, poiché eliminerebbe la necessità di dedicare tante
energie alla movimentazione delle carte.
Con il P.C.T., si potrebbero ridefinire le aree di competenza delle cancellerie, in
modo da recuperare risorse da reinvestire in settori, quale quello dell’assistenza al
magistrato, oggi fortemente trascurati.
Altro effetto dell’utilizzo generalizzato di sistemi informativi automatizzati nel
processo civile sarà quello di rendere immediatamente disponibile un patrimonio di
informazioni, potenziandone il valore, per la più ampia possibilità di elaborarle e
trattarle. Attualmente, il fatto che i dati processuali risiedano essenzialmente in fascicoli
e registri di carta limita tali attività. Lo strumento informatico permette di effettuare in
frazioni di secondo ricerche anche complesse, estrazioni di dati statistici, confronti,
controlli, che sulla carta richiederebbero molto più tempo e lavoro.
La Consolle del Giudice di recente applicazione negli uffici giudiziari ha
certamente agevolato una miglior organizzazione del lavoro del singolo magistrato
permettendogli, tra l’altro, di monitorare costantemente il ruolo e verificare le aree di
sofferenza nonché di programmare con ampia cognizione lo smaltimento dell’arretrato.
** Le notifiche tramite P.E.C.
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Ma non può ignorarsi neppure che con l’art. 2 della l. 12 novembre 2011, n.183
(cd. legge di stabilità del 2012) è stato introdotto il comma 3 bis alla l. 53/1994 il quale
prevede la possibilità per l’avvocato di notificare atti giudiziali e stragiudiziali mediante
l’utilizzo della posta elettronica, secondo le modalità previste dal suddetto art. 3 bis in
quanto compatibili e sempre che l’indirizzo del destinatario risulti da pubblici elenchi.
Alcune problematiche di natura applicativa della norma avevano hanno indotto gli
avvocati a procedere nell’utilizzo di tale modalità di notifica con molta cautela, di fatto
rallentando l’operatività di questa rivoluzione telematica; ciò, in particolare, a causa di
alcune lacune nella regolamentazione tecnica, nelle modalità di redazione del messaggio
pec, sui formati di file da allegare e sui documenti da depositare in giudizio cosicché il
legislatore ha emanato la l. 24 dicembre 2012 n. 22857 che ha novellato la materia delle
notificazioni degli atti per posta elettronica certificata da parte degli avvocati mutando
radicalmente l’intera disciplina delle notificazioni a mezzo pec, non più limitandola alla
gestione del rapporto tra avvocato e ufficio postale, ma estendendola all’intero
procedimento notificatorio, da svolgersi nella sua totalità sotto il controllo dell’avvocato
e della sua organizzazione. Successivamente, in data 3 aprile 2013 è stato emanato il
D.M. n. 48, denominato “Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati”,
pubblicato nella G.U. n. 0 del 9 maggio 2013, recante le preannunciate modifiche all’art.
8 delle regole tecniche del decreto del Ministro della Giustizia 21 febbraio 2011, n.4458.
Certo con la nuova disciplina delle notifiche telematiche da parte degli avvocati
sono sorte particolari e complesse questioni processuali che, in ogni caso, potranno
trovare adeguata risposta solo a seguito di un congruo periodo di applicazione nella
pratica giudiziale.
Vi è, però, la concreta possibilità che tale novellata disciplina serva come
trampolino di lancio per una modalità di notificazione che, se utilizzata frequentemente
e finalmente in grado di fornire le giuste garanzie ai rispettivi diritti delle parti in causa,
può essere elemento fondamentale per la realizzazione di un processo più celere ed
orientato a quei canoni di “giustizia” delineati dalla Carta Costituzionale.
** Dopo aver illustrato la potenziale efficacia del processo telematico occorre,
però, rilevare, per completezza, che il processo civile telematico, la cui piena operatività
è prevista a far data dal 30.06.2014, richiede, perché sia data piena attuazione del dettato
legislativo, urgenti investimenti, per realizzare il completamento degli applicativi,
57
La l. 2 dicembre 20 2, n.228, con l’art. comma 9 ha apportato modifiche al DL 18.10.12 n. 9 modificando l’art. 6 e introducen do
gli artt. 6 bis, ter e quater.
58
Essendo la pubblicazione avvenuta sulla G.U. serie generale n.107 del 9.5.2013, in virtù di quanto previsto dall’art. 6 quater del
d.l. 18.10.2012 n. 179 (secondo cui le modifiche alla L. 53/1994 sulla facoltà di notificazione da parte degli avvocati previste dal
medesimo articolo, acquistano efficacia decorso il termine di 15 giorni dalla pubblicazione del decreto che provvede
all'adeguamento delle regole tecniche del processo telematico alla nuova normativa) le nuove norme sulla facolta per gli avvocati di
procedere alle notificazioni in proprio a mezzo pecsono efficaci dal 24 maggio 2013. La diposizione dell'art. 16 ter D.L. 18.10.2012
n. 179 ha creato addirittura dubbi sulla concreta possibilità dell’utilizzo della facolta di procedere alla notifica a mezzo pec prima
del sino al 15 dicembre 2013. Sulla nullità della notifica cfr. Tribunale Padova, in www.avvocatitriveneto.it. Di contro c’è chi
sostiene l’immediata operatività della facoltà in quanto pare irrazionale non ritenere “pubblici elenchi” quelli delle P.A., il registro
delle imprese, gli albi degli Ordini, dai quali possono essere tratti gli indirizzi pec. Così come dal Reginde, nel quale sono riversati
periodicamente, per quanto qui di interesse, gli indirizzi pec degli avvocati. Peraltro con decreto del ministro dello sviluppo
economico del 19 marzo 2013 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 83 del 9 aprile 2013) è stato creato l’indice nazionale degli
indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (INI-PEC), dal quale dal 15 dicembre 2013 sarà possibile
la consultazione di tali indirizzi PEC , come del resto già avviene per il citato Reginde
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dotare gli uffici di strumenti informatici maneggevoli e di facile uso, formare e
riqualificare il personale e assicurare un’assistenza adeguata e costante, creare una
stretta sinergia con gli Ordini degli Avvocati e rafforzare i CISIA.
Innanzitutto è un problema organizzativo: di ristrutturare il lavoro di tutti gli
operatori, di ristrutturare anche fisicamente le cancellerie, di fornire strumenti di lavoro
diversi ai magistrati e cancellieri (schermi di dimensioni adatti, postazioni ergonomiche
e appositi PC per lavorare anche a casa), di riorganizzare il lavoro dei magistrati
garantendo una costante e tempestiva assistenza che non esiste tuttora.
Il P.C.T. comporta che il lavoro del Giudice sarà quasi del tutto effettuato a
computer, con inevitabili ricadute negative sulla salute, in particolare quella relativa alla
vista dei magistrati, che a differenza dei video-terminalisti non possono godere di
momenti di pausa predefiniti anche normativamente, il tutto senza alcuna
compensazione di nessun genere.
Il passaggio alla giustizia telematica impone, inoltre, un’assistenza ad horas.
Non è possibile che interi Tribunali rimangano bloccati per giorni ogni volta che
vanno inserite modifiche ai programmi e ai registri informatici. Non è possibile che il
singolo utente debba aspettare anche giorni di fronte al guasto del proprio computer.
Insomma il processo telematico può decollare solo se magistrati, cancellerie,
avvocati vengono formati, aiutati, seguiti per far sì che le difficoltà non si trasformino in
ostacoli, per far superare gli inevitabili momenti di abbandono. Non basta qualche corso
di formazione. E’ necessaria un’assistenza continuativa sul luogo, quanto meno nei
primi tempi, che possa dare aiuto e sicurezza.
E’ necessario, infatti, anche in questo settore considerare la peculiarità del lavoro
giurisdizionale non intervenendo con modifiche normative compiute solo sulla carta, ma
con una idonea previsione di una stabile struttura di supporto al giudice, tanto più
necessaria con l’introduzione del P.C.T. per evitare che le numerose incombenze
meramente esecutive ricadano solo sul giudice, sempre più abbandonato a sé stesso.
** L’organizzazione dell’Ufficio59
Performance migliori si osservano nei sistemi che assegnano al magistrato
responsabile dell’ufficio giudiziario maggiori poteri e responsabilità di gestione delle
risorse Il governo degli uffici giudiziari – ovvero l’attribuzione dei poteri e delle
responsabilità di organizzazione e gestione delle risorse umane (giudici, personale
paragiudiziale e amministrativo) e finanziarie (budget) – è un fattore importante di
performance. Un adeguato assetto di governo contribuisce ad assicurare che i
comportamenti di tutti i soggetti siano indirizzati verso obiettivi di efficienza e che le
risorse siano impiegate in modo ottimale.
In punto è utile la lettura del recente libro scritto da Pietro Spera: “Tecniche di case manegement nel
processo civile” Aracne 2014 - collana Prospettive.
59
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pag. nr. 61
I risultati dell’analisi evidenziano differenze nei modelli di governo degli uffici
dei diversi sistemi.
In alcuni paesi (Ungheria, Finlandia, Repubblica Ceca, Australia, Korea,
Germania) i poteri e le responsabilità di gestione e organizzazione delle risorse sono
attribuiti in prevalenza al magistrato responsabile dell’ufficio giudiziario e in alternativa
ad altri soggetti esterni (agenzia pubblica, consiglio giudiziario). Performance migliori
si osservano nei sistemi che adottano questo modello. In altri paesi (Inghilterra e Galles,
Israele, Spagna, Slovacchia, Grecia), prevale l’attribuzione a un manager (non
magistrato) – il dirigente amministrativo – e in alternativa altri soggetti esterni. In altri
paesi ancora domina un modello di gestione condivisa, con molti poteri e responsabilità
assegnati congiuntamente al magistrato responsabile dell’ufficio e al dirigente
amministrativo (in alcuni casi con prevalenza del primo: Danimarca, Polonia, Svizzera,
Scozia, Slovenia, Svezia; in altri del secondo: Italia, Nuova Zelanda, Sudafrica). Altri
paesi ancora si caratterizzano per una maggiore dispersione dei poteri di gestione.
A tal fine va valutato positivamente l’introduzione, ex art. 37 d.l. 98/2011
convertito nella legge 111/2011, del programma di gestione dei procedimenti civili.
Tale programma che deve essere redatto annualmente dai presidenti di sezione e
dal presidente del Tribunale costringe i dirigenti:
a) all’analisi dei flussi che espone gli obiettivi possibili e desiderabili a termini
numerici ed oggettivi ed all’oggettivo rapporto tra pendenti, definiti e sopravvenienti
necessario per il loro conseguimento: ciò indipendentemente da chi dovrà assumerne
l’onere.
b) all’analisi dei carichi che, una volta identificati gli obiettivi, permette di stabilire
quanto magistrati dovranno essere allocati a ciascun settore o a ciascuna materia e
consentire una attendibile valutazione degli equilibri interni dell’ufficio.
Insomma con tale programma si crea una maggior consapevolezza in capo ai
dirigenti delle risorse umane ed oggettive disponibili e di riflesso si genera – o si
dovrebbe generare - una virtuosa tendenza alla efficace allocazione di risorse per
fruttarle al meglio con inevitabile ricaduta sui tempi di definizione dei processi.
** Le Tariffe forensi
Infine si può concludere questa breve rassegna di provvedimenti organizzativi
segnalando una curiosità che emerge dalla nota 18 giugno 2013 dell’O.C.S.E.
Nei paesi in cui le tariffe dei professionisti sono liberalizzate si osserva una
più bassa litigiosità.
Il mercato dei servizi legali si caratterizza per l’asimmetria informativa tra il
professionista e il cliente circa le caratteristiche e il grado di complessità del caso e la
natura della prestazione che deve essere svolta. Una conseguenza di tale asimmetria
informativa è che la decisione se portare il caso in tribunale sia generalmente presa dal
professionista. La scelta del professionista è influenzata, tra le altre cose, dalle modalità
di determinazione del suo compenso. In alcuni paesi il compenso viene liberamente
determinato all’esito di una contrattazione tra professionista e cliente, in altri il livello e
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la struttura dei compensi sono regolati dalla legge o dalle organizzazioni di categoria.
Dei 35 paesi dell’O.C.S.E. per i quali si dispone dell’informazione, la determinazione
del compenso è libera nel 29 per cento dei casi, è regolata dalla legge nel 40 per cento
dei casi ed è regolata dalle organizzazioni di categoria nel restante 31 per cento dei casi.
L’analisi empirica suggerisce che il passaggio da un regime regolato ad uno non
regolato è associato a una riduzione media della litigiosità da 2,9 a 0,9 casi ogni 100
abitanti. La relazione potrebbe essere spiegata dal fatto che la pressione competitiva
riduce i margini di redditività per i professionisti e, di conseguenza, il numero di casi
che essi trovano profittevole portare in tribunale.
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§
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3. - Il processo penale : brevi cenni
§ 3.a - Introduzione
Non è facile guardare al futuro con ottimismo con riguardo alla ragionevole
durata del processo penale se si pensa già una ventina d’anni fa Tullio Padovani, uno dei
nostri più arguti studiosi di diritto penale, rispondendo a un questionario sulla crisi della
giustizia penale e invitato a indicare quale riforma ritenesse più efficace per porre
rimedio ai guasti del sistema punitivo e, più in generale, alle disfunzioni e alla lentezza
dell’apparato giudiziario penale, preferì cavarsela con una battuta di spirito:
“l’intervento più efficace? Un pellegrinaggio a Lourdes”.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti ma l’atteso miracolo non c’è stato.
Non solo la situazione della giustizia penale é rimasta invariata, ma anzi è andata
sempre più deteriorandosi, quasi a voler fornire riscontro all’antico adagio secondo cui
al peggio non c’è mai fine.
Eppure le cause della crisi della giustizia penale sono facilmente identificabili
perché sono cause essenzialmente tecniche e possono essere risolte solo adottando
progetti mirati di giustizia fattibile e concreta: i quali non sono certamente quelli di
istituire periodicamente, a ogni cambio di governo, commissioni di studio ministeriali
chiamate a elaborare ogni volta nuovi programmi di riscrittura totale o parziale del
codice penale e di quello di procedura penale, destinati a impolverarsi a futura memoria.
La verità è che è ora di finirla col metter mano a certe riforme solo ispirandosi
alla logica sempre più teorizzata e praticata della difesa dal processo, anziché nel
processo, lontana dalle garanzie del giusto processo. Ma soprattutto non è più tempo di
alta ingegneria normativa, servono rimedi pragmatici imposti dalla scoperta di una
situazione di estremo pericolo: il nostro sistema penale rischia di non essere più in grado
di assicurare le condizioni essenziali per una convivenza pacifica e ordinata.
Il processo penale va tenuto in grande considerazione proprio per la sua
particolare incidenza sulla sfera dei diritti fondamentali dell’uomo, come la libertà, la
dignità, la tutela fisica e morale, etc., diritti, peraltro, largamente riconosciuti come
assolutamente inviolabili ed indisponibili.
Il rispetto dei tempi ragionevoli di durata va assicurato non imponendo per legge
termini incongrui a uno strumento insufficiente ma procedendo ad una semplificazione
più ampia e coraggiosa delle regole.
Occorre, anzitutto, abbandonare la strada di certi disegni di legge estranei al
tema della efficienza e che purtroppo hanno occupato ed occupano il dibattito politico: il
progetto di fare del pubblico ministero una sorte di avvocato della polizia,
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l’ampliamento irragionevole dei casi di inutilizzabilità degli atti, l’introduzione del cd.
processo breve, una riforma della disciplina delle intercettazioni che di fatto ne rende
impossibile l’impiego: riforme tutte che anziché porre rimedio all’inefficienza della
giustizia penale deprimerebbero le indagini ed il processo. Troppo spesso in questi
ultimi anni l’orizzonte di riforme ragionevolmente attuabili è stato “schermato dalla
retorica vacua e propagandistica di progetti catartici o faraonici di una imprecisata
“giustizia giusta”.60
Serve, dunque, nel campo processuale una decisa inversione di tendenza per la
realizzazione di una giustizia penale celere e attenta alle garanzie effettive piuttosto che
ai formalismi.
Purtroppo in tal senso non si proceduto né vi sono all’orizzonte serie proposte
legislative.61
Occorrerebbe, allora, razionalizzare il sistema delle impugnazioni
conservandone le funzioni di garanzia ed eliminandone gli abusi dilatori, snellire il
sistema delle notifiche, temperare il principio dell’immutabilità del giudice ed introdurre
forme anticipate di definizione delle questioni di competenza onde prevenire l’inutile
ripetizione dei giudizi con due precisazioni:
a) nel definire l’obiettivo del contenimento dei tempi processuali, tanto la
Costituzione all’art. 111 comma 2, quanto la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo
all’art.6 paragrafo 1, parlano, rispettivamente, di “ragionevole durata” e di “termini
ragionevoli” piuttosto che di esigenza che il processo si concluda in tempi rapidi,
intendendo con ciò rimarcare la necessità per cui il diritto, sia dell’imputato sia della
vittima del reato, ad una rapida conclusione del processo, deve essere contemperato con
l’altrettanto irrinunciabile diritto del primo a difendersi (questo fondamentale concetto è
stato poi ribadito dai giudici della Consulta nella sentenza della Corte Cost., 3 dicembre
2001, n. 399, in Giust. Cost., 2001, p. 3888);
b) diversi sono i profili attribuiti alla ragionevolezza della durata
dall’ordinamento nazionale e dalla C.E.D.U.: nel primo, quello nazionale, la
ragionevole durata ha un valore essenzialmente oggettivo in quanto diritto assicurato
dalla legge; viceversa, nel secondo, quello europeo della C.E.D.U., prevale il valore
soggettivo che attribuisce alle parti il diritto alla tempestività del giudizio nella
prospettiva di assicurare ad esse un equo indennizzo nel caso in cui la garanzia
individuale dovesse essere violata62.
Relazione Procuratore Generale della Corte di cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziairo 2014.
Per assurdo le uniche riforme importanti del processo penale in tempi recenti sono state innescate dall’urto delle pronunce di
condanna dell’Italia nelle sedi sovrannazionali: così è stato per il porcesso in absentia come per l’ampliamento della nozione di
contraddittorio; per la legalità della prova dichiarativa come per l’ispessimento dell’incidente probatorio; per la tutela dei soggetti
deboli nella fase dell’indagine alle condizioni non umane della detenzione carceraria.
62 Si veda in proposito: R.E KOSTORIS., La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale,
Torino, 2005, pag. 4. Sullo stesso tema: A. ANDRONIO, Commento all’art.111, in Commentario alla Costituzione, a cura
diBIFULCO, CELOTTO, OLIVETTI, Torino, 2006, pag. 2115, ed E. DALMOTTO, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva
durata del processo, in S. CHIARLONI, Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, Torino,
2002, pagg. 134-135. Per i criteri fissati dalla Corte Europea, perché si possa ricorrere al giudice per reclamare l’indennizzo statale
per l’irragionevole durata del processo: S. BUZZELLI, Durata ragionevole, tipologie procedimentali e rimedi contro i ritardi
ingiustificati, in Giurisprudenza europea e processo penale italiano, a cura di A. BALSAMO, R.E. KOSTORIS Torino, 2008,
pagg. 264 – 267).
60
61
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pag. nr. 65
Certo non si può trascurare la circostanza che in Italia vengono ogni anno
iscritte, negli appositi registri, poco meno di 2 milioni di “notizie di reato” ed il sistema
in effetti, a parte l’arretrato drammaticamente elevato, non è in grado di fronteggiare
nemmeno le sopravvenienze.
C’è chi ritiene che il problema principale sia la carenza di personale ma, almeno
per ciò che riguarda le risorse di più alto livello, va detto che in quanto a numero di
magistrati (nel 2008 esso ammontava a 21.000 unità, di cui 9.000 togati) e di avvocati
(ad oggi sono circa 213.000), l’Italia già dal 2009 è in termini assoluti al primo posto in
Europa, al terzo in termini relativi, cioè 36,8 avvocati per 10.000 abitanti (dal Corriere
della Sera del 29/4/2009, pag. 10).
Riguardo alla spesa per la giustizia essa non risulta essere inferiore a quella dello
standard europeo (circa 46 euro per abitante); ad incidere in modo non trascurabile,
contribuiscono, tra gli altri, fattori quali la spesa per le intercettazioni telefoniche ed
ambientali e quella degli indennizzi dovuti in base alla legge “Pinto”.
Un’ulteriore significativa incidenza sulla spesa è dovuta alla gestione
penitenziaria dal momento che il costo per detenuto si aggira intorno ai 400 euro al
giorno. In proposito non va sottaciuto l’ormai cronico problema del sovraffollamento
della carceri che il palliativo dell’indulto (vedi L. 241/2006) non ha certo contribuito a
risolvere. Attualmente, infatti, la popolazione carceraria ammonta a circa 80.000
detenuti di cui oltre il 50% sono stranieri; una percentuale estremamente elevata se
rapportata a quella del numero complessivo degli immigrati nel nostro Paese che si
aggirerebbe, secondo stime, probabilmente in difetto, intorno al 4%. Al
sovraffollamento di cui anzidetto contribuisce, peraltro, anche l’elevato numero di
imputati (o condannati a pena non definitiva) detenuti in custodia cautelare in attesa di
giudizio.
Con l’approvazione della l. 21 febbraio 2014 n. 10 (cd. “svuota carceri”) si è
voluto intervenire con l’obiettivo di diminuire in maniera selettiva e non indiscriminata
il numero delle persone ristrette in carcere incidendo sui flussi di ingresso negli istituti
carcerari attraverso con un intervento chirurgico in materia di piccolo spaccio di
stupefacenti (responsabile della presenza in carcere di un numero elevatissimo di
persone), e sui flussi in uscita (estendendo la possibilità di acceso all’affidamento in
prova al servizio sociale, sia ordinario che terapeutico, ampliando a 75 gg. per ciascun
semestre la riduzione per la liberazione anticipata, in un arco di tempo compreso tra il
giorno 1 gennaio 2010 ed il dicembre 2015; stabilizzando l’istituto dell’esecuzione della
pena presso il domicilio prevista dalla l. 199/2010 e ridisciplinando l’espulsione dei
detenuti non appartenenti alla U.E. attraverso un ampliamento della platea dei potenziali
destinatari della misura).
Allo stato è prematuro dare valutazioni sull’efficacia della legge in esame: c’è
solo da sperare che tale intervento legislativo - nato dalla impellente necessità di
restituire alle persone detenute la possibilità di un effettivo esercizio dei diritti
fondamentali e di affrontare il grave fenomeno endemico del sovraffollamento delle
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carceri - sia avvenuto nel rispetto delle fondamentali istanze di sicurezza della
collettività.
** Deludente è stata, pure, l’introduzione della sezione “filtro” in cassazione con
la legge 128/2001 in quanto se ha contribuito ad una razionalizzazione del lavoro dei
magistrati non ha certo colto l’obiettivo , che indirettamente si proponeva il legislatore
di determinare anche una flessione dei ricorsi proposti il cui numero continua a
aumentare63. Oggi resta ancora determinante la tendenza a procrastinare la formazione
del giudicato: la semplice possibilità di allontanare il momento dell’esecuzione della
pena rappresenta una spinta fortissima all’allungamento dei tempi processuali che il
probabile insuccesso dell’impugnazione non basta a controbilanciare.
Non solo: l’incremento delle inammissibilità pronunziate sta iniziando a
provocare un leggero ma preoccupante allungamento dei tempi di decisione della stessa
settima sezione della corte (la sezione cd. “filtro”). Secondo l’esperienza dei giudici
della settima sezione appare necessario da un lato individuare procedure ancora più
snelle per la gestione dei ricorsi prima facie inammissibili e, dall’altro lato, procedure
ad una ormai improcrastinabile riforma ragionevole del giudizio di cassazione in gradi
di risollevare le sorti di una corte “assediata” che non è messa nelle condizioni di
svolgere appieno la sua funzione nomofilattica.
§ 3.b - Ipotesi di interventi legislativi
Di fronte all’abnorme domanda di giustizia di cui anzidetto, una prima
considerazione va fatta su come arginare in origine il numero di istanze di giustizia
limitandole solo a quelle che meritano di entrare nell’iter procedimentale penale.
C’è da chiedersi, infatti, se sia economicamente accettabile per lo Stato, ovvero
per il contribuente, sostenere il costo economico dovuto all’impiego di risorse pregiate
(magistratura requirente e giudicante) per talune fattispecie che, data la scarsa
pericolosità sociale, potrebbero essere più semplicemente risolte al di fuori del circuito
penale, come del resto avviene in molti ordinamenti esteri (anche in ambito europeo)
indipendentemente dal modello su cui si basano.
Una delle possibili soluzioni che consente di evitare il procedimento penale, è
quella della depenalizzazione mediante la quale è possibile trasformare il fatto, prima
costituente reato, in illecito amministrativo di natura civilistica. La via in tal senso,
peraltro già aperta dal legislatore italiano sin dal 198164, và però tradotta in una riforma
organica che riduca i rischi di un’eccessiva frammentazione dei singoli provvedimenti e
definisca i criteri generali per l’applicazione dell’istituto.
Su tale argomento cfr. G. Fidelbo “Il regime delle inammissibilità e la sezione filtro in cassazione:
esperienze e retrospettive” in cass. pen. Dicembre 2013 pagg. 4.748 e ss..
63
64
cfr. F. RAMACCI, Corso di diritto penale, Torino, 2005, pagg. 21 ss.: L. 689 del 24 novembre/1981; L. 561 del 28 dicembre
1993; D.Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999, etc..
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Una volta depenalizzato il reato, un’ulteriore passo in senso deflazionistico dei
tribunali ordinari, riguarda l’utilizzo dei c.d. metodi alternativi di soluzione delle
controversie: la mediazione e la conciliazione (si tratta degli “Alternative Dispute
Resolutions” dell’ordinamento anglosassone, ovvero dei “Modes alternatifs de
règlement des conflits” di quello francese). Con tali istituti viene applicato il principio
di sussidiarietà della giurisdizione e salvaguardata comunque la tutela giurisdizionale
dei diritti e l’accesso al giudice ordinario, di cui agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto il
ricorso al giudice resta comunque, anche se come ultima chance, nel caso fallimento dei
metodi alternativi anzidetti. Va, tuttavia, precisato che, presupposti perché tali istituti
possano essere applicati, oltre alla modesta rilevanza del fatto (condizione necessaria
per la sua depenalizzazione), sono: la disponibilità del diritto ed il consenso delle parti
nel rinunciare, almeno in prima istanza, ad accedere alla giurisdizione statuale.
Una volta entrati nel circuito procedimentale, sono, a certe condizioni, ancora
possibili ulteriori soluzioni per evitare il dispendioso, ma più garantista, rito ordinario
penale.
A differenza di quanto avviene in altri Paesi europei, ove è ormai consolidato il
principio dell’opportunità dell’azione penale che consente scelte discrezionali di politica
penale, nel nostro ordinamento vige, sin dal codice Rocco del 1930, il principio di
legalità ripreso poi dalla Costituzione repubblicana in cui è espressamente prescritta,
all’art. 112, l’obbligatorietà dell’azione penale in capo al pubblico ministero. Detto
principio, nell’imporre il perseguimento di tutti i reati, intende limitare i margini di
discrezionalità dell’inquirente in modo da garantire l’uniformità di trattamento di tutti i
cittadini di fronte alla legge.65.
Pur confermando la sua validità e, quindi, la necessità di assicurarne il
mantenimento, nulla impedisce che esso possa essere reinterpretato alla luce
dell’esperienza e dell’evoluzione della società nel corso degli oltre sessanta anni di vita
della Costituzione. Occorre, innanzitutto, fare i conti con l’altrettanto ineludibile
principio, prescritto dal novellato art.111 Cost., che è quello del diritto ad una giustizia
in tempi ragionevoli. Ne deriva che, se l’ambizione di voler perseguire tutto e tutti non è
sorretta da un adeguato dimensionamento delle risorse da destinare al settore
giudiziario, vengono inevitabilmente a determinarsi situazioni di congestione del
sistema e, nei casi più estremi, la sua paralisi. D’altra parte, un proporzionale
incremento di risorse inciderebbe sul bilancio dello Stato a danno del contenimento
della spesa pubblica.
Una soluzione di compromesso è, allora, quella, peraltro già praticata, secondo
cui i reati dovrebbero essere perseguiti in modo tale che, pur senza escluderne alcuno in
linea di principio (salvaguardando così la norma di cui all’art. 112 Cost.), essi vengano
presi in esame in base ai prefissati criteri di priorità tassativamente indicati dalla legge o
65
Cfr. M. CHIVARIO, B. DELEUZE, M. DELMAS-MARTY (ed altri), Procedure penali d’Europa, Belgio-Francia-GermaniaInghilterra-Italia, a cura di M. CHIAVARIO, II ediz. Italiana, Padova, 2001, pagg. 400-406.
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in modo trasparente e con criteri generali ed astratti dai capi degli uffici (cfr., per
esempio, art. 227 d. lgs. n. 91/1998).
È poi da evidenziare un ulteriore aspetto che incide sui tempi del procedimento
nella fase delle indagini preliminari; viene fatto rilevare, infatti che nonostante gli artt.
405 e ss. del codice di rito fissino i tempi di durata delle indagini preliminari
(ammettendo la proroga del termine base di 6 mesi fino ad un massimo di 2 anni nei casi
tassativamente indicati), è invalsa la prassi per cui le richieste di proroga del P.M.
vengono pressocché sempre accolte dal G.I.P. E’ dunque necessario un intervento da
parte del C.S.M., o del legislatore, affinché venga ristabilito un adeguato potere di
controllo da parte dell’organo giudicante su quello requirente.
Per quanto riguarda tale fase, in Europa, tanto Francia e Germania, quanto e
forse in modo più accentuato l’Inghilterra, offrono esempi di una maggiore articolazione
dei livelli giurisdizionali di primo grado (che possono essere aditi in base alla gravità del
reato) e di un preciso obiettivo che è quello di ridurre per quanto possibile il passaggio
alla fase dibattimentale. Ciò consente di diversificare meglio le procedure percorrendo
ove possibile la via del processo più snello grazie ad un’opportuna modulazione delle
garanzie processuali.
L’Inghilterra, in particolare, prevede che, qualora l’imputato ammetta la propria
responsabilità66, dal processo sia esclusa l’istruzione probatoria, la cui necessità viene
meno quando il caso seppur grave è di semplice soluzione; ciò consente una serie di
semplificazioni: dalle notifiche ai testimoni, alla loro escussione, etc.; inoltre, anche per
i reati più gravi, a giudicare deve essere sempre un tribunale monocratico allorquando,
essendo il caso divenuto di semplice soluzione, è venuta meno l’esigenza della
collegialità dell’organo giudicante.
Come noto è all’inizio di questa fase, avviata dalla decisione del magistrato
inquirente di esercitare l’azione penale, che trova naturale allocazione l’applicazione di
uno dei riti alternativi o speciali (su richiesta da parte della sola difesa, del PM o su
accordo di entrambi).
L’introduzione di detti riti, decisa in occasione della stesura del nuovo codice di
procedura penale (1988-89) con l’obiettivo di accelerare l’iter processuale limitando il
dibattimento al 20% dei procedimenti, non ha prodotto i risultati sperati e ciò nonostante
le modifiche apportate dai successivi provvedimenti legislativi. (come: la L.479/1999
con cui è stata estesa l’area di applicazione del giudizio abbreviato; la L.134/2003 con
cui è stata ampliata la soglia del limite edittale della pena per accedere al
patteggiamento; il “pacchetto sicurezza” del 2008 che ha a sua volta allargato i
presupposti per l’utilizzo dei riti immediato e direttissimo ecc.).
Secondo i rilevamenti statistici più recenti le richieste di accesso ai riti
differenziati da parte dell’imputato sono al di sotto del 15%. Le ragioni dell’insuccesso
possono essere diverse ma, in generale, va detto che non necessariamente la via del
processo in tempi rapidi è quella preferita dalla strategia difensiva. Al di là di tattiche
E si noti che nel Regno Unito la maggior parte degli imputati (il 72% nelle Magistrates’ Courts che trattani i casi
meno gravi a differenza delle Crown Courts) si dichiara colpevole
66
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elusive che mirano talvolta a lucrare l’eventuale prescrizione del reato, la difesa
preferisce andare al dibattimento quando ritiene che in questa sede avrà maggiori
possibilità di far valere le prove a proprio discarico.
Che fare dunque per incentivare la scelta da parte della difesa dei c.d. riti
premiali come l’abbreviato o il patteggiamento il cui utilizzo non può essere imposto a
livello normativo?
Non è certo proponibile un ulteriore indiscriminato aumento degli sconti di pena
da parte del legislatore, visto lo scarso favore che essi incontrano in generale presso la
pubblica opinione specie quando, come nel caso del giudizio abbreviato, detti benefici
coprono anche reati della massima gravità. Dunque, un modo che contemperi le
esigenze anzidette potrebbe consistere, per l’abbreviato, nell’introduzione, in luogo
dello sconto di pena costante (attualmente di un terzo), di una riduzione inversamente
proporzionale alla gravità del reato commesso così da renderlo più appetibile almeno
per fatti di reato (che sono la maggioranza) la cui pena edittale sia al di sotto di una
determinata soglia, ad es. dieci anni.
Riguardo al patteggiamento, tale istituto andrebbe radicalmente ripensato anche
alla luce delle scelte fatte da altri ordinamenti (specie da quelli di matrice anglosassone);
nel procedimento inglese, ad esempio, vige l’istituto del “plea bargaining” (ossia
l’accordo con l’accusato) in base al quale lo sconto di pena viene applicato quando
l’ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato consenta all’Autorità giudiziaria (e
quindi allo Stato) un effettivo risparmio di tempo e di risorse a vantaggio di una
maggiore efficienza dell’intero sistema. Si tratta evidentemente di una diversa filosofia
di affrontare l’obiettivo processuale; negli ordinamenti esteri, ed in particolare in quelli
di common law, il maggior pragmatismo fa sì che il pur nobile principio della ricerca
della verità soccomba all’esigenza di snellimento del carico processuale con i relativi
benefici di tempi più brevi per l’attesa (sia per il reo sia per la vittima) e di un minore
onere finanziario (per la collettività). Il prezzo da pagare è, però, un minore grado di
garanzie per la difesa (diritto alla prova) ed una riduzione dell’entità della pena che deve
essere concessa in cambio della collaborazione dell’accusato (una sorta di mediazione
penale). Nell’ordinamento penale inglese la giustizia negoziata trova espressione, oltre
che nell’istituto del plea bargaining di cui anzidetto, anche in quello del guilty plea
(dichiarazione di colpevolezza da parte dell’accusato); oggetto del negoziato possono
essere la pena (sentence bargaining) e/o i capi di imputazione (charge bargaining).
Il nostro istituto, invece, non implicando alcuna assunzione di responsabilità da parte
dell’imputato, si riduce ad un mero accordo sull’entità della pena tra difesa ed accusa,
sia pur con possibilità di veto da parte del giudice; così come è attualmente, inoltre, esso
trova tra l’altro un grosso vincolo nell’applicazione in quanto è utilizzabile solo per i
reati con un limite della pena edittale di 2 - 5 anni. Alla luce della nuova impostazione
tale limite dovrebbe essere rimosso in modo da allargare l’utilizzo dell’istituto ed
applicarlo nei casi di reale collaborazione da parte dell’accusato67.
67
Per gli approfondimenti: “Una giustizia negoziata” nei principali Paesi europei: M. CHIAVARIO, B. DELEUZE, M.
DELMAS-MARTY ed altri, Procedure penali d’Europa, a cura di M. CHIAVARIO, II ediz. Italiana, Padova, 2001, pagg. 619662).
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** Ancora in ottica deflattiva del carico sul rito ordinario, ma sempre nel pieno
rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, un ulteriore rimedio acceleratorio del
processo, applicabile ai fatti di marginale offensività, è quello della declaratoria di
improcedibilità per irrilevanza del fatto; l’istituto verrebbe mutuato dall’attuale
disciplina del procedimento minorile trovando impiego allorché la particolare tenuità del
fatto e delle conseguenze da esso derivate, non potendo essere sottratte all’esercizio
dell’azione penale, stante la configurazione di reato prevista dalla norma, necessitano
comunque di una sentenza (non essendo in tal caso possibile l’archiviazione), la cui
declaratoria può essere: di “non luogo a procedere” (se pronunciata in udienza
preliminare dal GUP); o di “non doversi procedere” (se pronunciata dal giudice del
dibattimento) ed in entrambi i casi “per l’irrilevanza del fatto” .
** Ugualmente di derivazione dal processo minorile, ma con la differenza che in
questo caso l’istituto verrebbe applicato solo per fatti di particolare tenuità ed in
considerazione delle caratteristiche soggettive del sottoposto a giudizio che evidenzino
l’assoluta occasionalità del suo comportamento illecito, potrebbe essere applicata la
sospensione del processo e messa in prova dell’imputato (in tal caso è prevista la
sospensione del processo per un tempo di “messa in prova” durante il quale l’imputato,
oltre a non reiterare il reato commesso, dovrà provvedere alla riparazione delle
conseguenze causate alla parte lesa. Decorso con esito favorevole il periodo di prova, il
giudice dichiarerà, in apposita udienza, l’estinzione del reato e la chiusura del processo).
** Passando a trattare i possibili interventi migliorativi della fase processuale,
occorre distinguere tra quelli generali di tipo amministrativo e quelli tecnici relativi agli
aspetti processuali (limitandoci a quelli che incidono in modo diretto sull’allungamento
irragionevole dei tempi) per i quali necessita la modifica del c.p.p..
Riguardo agli interventi di tipo amministrativo, è opportuno iniziare da quei
provvedimenti che, senza incidere negativamente sul bilancio dello Stato,
consentirebbero un sensibile recupero dell’efficienza del sistema giudiziario; si tratta in
particolare di:
- riorganizzazione strutturale con una più ottimale distribuzione dei Tribunali mediante
un accorpamento degli stessi. E’ noto infatti che l’eccessiva dispersione degli Uffici sul
territorio, spesso rispondente a logiche campanilistiche, o di mero opportunismo
politico-clientelare, non consente, a causa della carenza di personale (magistrati ed
organi ausiliari), il funzionamento degli stessi (v. sopra quanto detto a proposito del
processo civile).
- impiego di nuove tecnologie telematiche per favorire una progressiva eliminazione del
materiale cartaceo ed un modo più rapido, economico e sicuro nella comunicazione tra
ente pubblico e cittadini attraverso l’utilizzo della rete internet. (v. quanto riferito sopra
a proposito del processo civile).
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pag. nr. 71
Circa il secondo tipo di interventi, quelli relativi ai singoli aspetti processuali,
utilizzando parte dei dati statistici del processo a cui si è fatto riferimento in precedenza,
emerge che gli aspetti che più urgentemente necessitano di modifica sono:
- 1) il sistema delle notificazioni (per le sole notifiche, l’attuale esercizio manuale
comporta, secondo i dati forniti dal Ministro della Giustizia in una conferenza stampa di
settembre 2009, la gestione di circa 28 milioni di notifiche all’anno, di cui 8 milioni
sono quelle che riguardano il giudizio penale)
- 2) la disciplina dei legittimi impedimenti
- 3) l’istituto delle prescrizioni
- 4) il regime delle nullità assolute
Ad essi vanno aggiunti i seguenti, pure incidenti sull’eccessiva durata del processo:
- 5) l’istituto della contumacia
- 6) il sistema delle impugnazioni con particolare riferimento ai tempi morti tra due
gradi successivi di giudizio
- 7) la semplificazione del sistema delle parti processuali.
- 8) gli abusi processuali
Di seguito viene fatto cenno ai relativi provvedimenti migliorativi:
1)- il sistema delle notificazioni
Oltre all’intervento di tipo amministrativo a cui si già si è appena fatto cenno, un
ulteriore rimedio, stavolta di natura procedurale, potrebbe consistere nella
neutralizzazione degli effetti di tutte quelle disposizioni che, contenendo una serie di
garanzie meramente formali, e quindi prive di utilità sostanziali sotto il profilo
dell’effettivo esercizio del diritto di difesa, si risolvono in realtà in una inutile
dilatazione dei tempi del procedimento penale; a titolo di esempio si potrebbe assumere
come valida la notifica fatta al solo difensore salvo i casi in cui la legge prescriva che
l’imputato debba riceverla personalmente; inoltre, nello stesso contesto dei problemi
legati alle notificazioni, non può non emergere il fenomeno del maxiprocesso e del suo
collegamento con l’obbligatorietà dell’azione penale. Un processo di questo tipo infatti,
coinvolgendo un gran numero di imputati, impone il perseguimento di tutti: complici,
concorrenti morali e materiali, associati etc., con il rischio che alla fine il processo non
segue il suo corso naturale lasciando tutti impuniti e violando il diritto dell’offeso dal
reato ad avere giustizia. Né d’altra parte si può immaginare di sacrificare le garanzie
della difesa, rigorose ed inattaccabili semprecché non pretestuose od elusive. Per i
maxiprocessi dunque, visto che durano anni intasando giurisdizioni e cancellerie,
sembra inevitabile, in linea di massima, la bocciatura.
2)-la disciplina dei legittimi impedimenti dei difensori e degli imputati.
Per quanto riguarda il difensore, un possibile rimedio potrebbe consistere nel rendere
obbligatoria la nomina di un sostituto in caso di impedimento salvaguardando, al tempo
stesso, il diritto del titolare a presiedere determinate sedute che per loro natura risultino
particolarmente cruciali per il processo come le questioni preliminari e la discussione
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finale. Tale soluzione sarebbe oltre tutto coerente con il principio che postula l’obbligo
di collaborazione tra le parti nel modello di processo accusatorio ponendo un limite al
valere indiscriminato di un sia pur legittimo impedimento.
Per quanto riguarda l’imputato potrebbe essere previsto a suo carico l’obbligo di
dichiarare il proprio domicilio nel momento in cui gli viene notificato il primo atto e di
comunicare le eventuali successive variazioni.
3)- l’istituto della prescrizione del reato68.
L’alternativa tra il punire ed il non punire, quando dal fatto sia trascorso un lungo
periodo di tempo, è resa particolarmente problematica nel nostro ordinamento a causa
della permanente incongruenza tra il tempo che la prescrizione del reato lascia a
disposizione dell’attività giurisdizionale e l’estensione temporale dei procedimenti
penali specie se caratterizzati da un elevato numero di imputati e dalla complessità degli
accertamenti necessari per il giudizio. In tali condizioni, infatti, la prescrizione si è
impropriamente trasformata da strumento eccezionale a congegno di deflazione.
I rimedi di seguito proposti mirano ad evitare che l’istituto della prescrizione possa
essere utilizzato dalle parti come strumento di “abuso processuale”, ossia di un uso
distorto di mezzi, di per sé leciti, che la legge mette a disposizione a garanzia delle parti.
Il legislatore deve allora intervenire rimodulando dette garanzie, facendo però salvi i
diritti fondamentali costituzionalmente protetti; ci si riferisce principalmente al diritto
alla difesa in quanto “nessuna influenza può esercitare il principio alla ragionevole
durata sull’attuazione di precetti Costituzionali espressi in forma di regola, come è il
caso ad es. del contraddittorio nella formazione della prova. In questi termini, una
possibile modifica dell’istituto consiste nell’introduzione di un’ulteriore categoria di
prescrizione: quella processuale da combinare opportunamente con quella del reato, già
esistente. La prescrizione processuale dovrebbe prevedere distinti intervalli estintivi da
far valere per ciascun grado del processo.
Soluzioni alternative potrebbero essere: la non prescrittibilità del reato allorché sia stata
emessa la pronuncia di condanna nel giudizio di primo grado, oppure lo scorporo, dal
computo della prescrizione, del tempo durante il quale si svolge il processo (soluzione
adottata ad esempio dal legislatore iberico dal 1995).
La prescrizione, del resto, è un istituto inidoneo a realizzare un processo di
ragionevole durata; quest’ultima va misurata solo sul tempo necessario e sufficiente
all’espletamento delle garanzie giurisdizionali. Questa tesi trova conferma nei
chiarimenti espressi dalla stessa Corte di Strasburgo (sentenza della Corte Europea, 17
dicembre 1999, BOUILLY vs. Francia) , la quale ha precisato che la ragionevolezza non
può essere considerata una variabile temporale direttamente proporzionale alla gravità
del reato, bensì va correlata alle circostanze concrete della fattispecie e, quindi, ad una
serie di parametri valutabili ex post, come: la complessità del caso, il numero di
imputati, la condotta delle parti, il comportamento delle autorità. L’inidoneità della
prescrizione a risolvere il problema della ragionevolezza processuale, trova conferma
68
In merito v. anche le considerazioni del Procuratore Generale della Corte di cassazione esposte in occasione
dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 – in cass. pen., febb. 2014, pagg. 436 e ss.
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pag. nr. 73
nei dati che indicano come l’Italia, pur avendo in ambito europeo il più elevato numero
di estinzioni dei processi a causa della prescrizione (poco meno di 200.000 ogni anno), è
il Paese che più di ogni altro, viene colpito dalle condanne della Corte europea a causa
dell’irragionevole durata dei processi. Il meccanismo prescrittivo deve, dunque, essere
considerato un mezzo estremo, la scelta del male minore allorché il sistema giudiziario
fallisca nell’impedire una irragionevole durata del processo.
In base alle considerazioni sin qui svolte e volendo far coesistere le ragioni che
impongono un controllo dei limiti temporali, sia riguardo alla pendenza di un
procedimento apertosi al momento della commissione del reato (prescrizione del reato),
sia riguardo alla durata del processo tenendo conto delle fasi in cui esso si articola
(prescrizione del processo), è necessario che siano tenute distinte le modalità di
misurazione che ciascuna delle due prescrizioni richiede: cronologicamente continua, la
prescrizione del reato; strettamente legata alle vicissitudini processuali dettate dal
codice, e quindi discontinua, la prescrizione processuale.
Da ciò deriva, ed è questa una prima peculiarità della soluzione di seguito
indicata che le due prescrizioni debbono essere necessariamente serializzate nel senso
che l’inizio della seconda (quella processuale) deve porre definitivamente termine alla
prima. Il momento di transizione dall’una all’altra coincide, sempre che i termini della
prescrizione del reato non decadano prima, con l’emissione, da parte del P.M., del
provvedimento con cui esercita l’azione penale.
Una volta iniziata la decorrenza della prescrizione processuale, se la sentenza di
I° viene pronunciata entro i termini, possono prefigurarsi due situazioni alternative:
a) il P.M. promuove l’impugnazione (non rileva in questo frangente che ad impugnare
sia anche l’imputato); in tal caso i termini della prescrizione continuano a decorrere e se
dovessero arrivare a scadenza prima della sentenza di merito (di II°), il giudice
dell’impugnazione emetterebbe una sentenza di “non doversi procedere” per intervento
della prescrizione (ex art. 531 c.p.p.);
b) l’imputato, e lui soltanto, promuove l’impugnazione (egli chiede che il suo diritto ad
un corretto giudizio prevalga su quello di essere giudicato nei limiti temporali previsti
dai termini di prescrizione del processo); in tal caso i termini di decorrenza cessano e,
qualora la durata del processo dovesse protrarsi in modo ingiustificato, l’imputato
potrebbe far valere, anche in un momento successivo, le sue pretese risarcitorie:
dall’equo indennizzo, alla concessione di attenuanti (come avviene in Germania), o al
limite l’ineseguibilità della pena.
In definitiva, e ciò rappresenta la sua seconda peculiarità, questa soluzione consente di
disincentivare, da un lato, l’impugnazione da parte del P.M. finalizzata al solo
aggravamento della pena (in quanto egli si esporrebbe in tal modo al rischio di
prescrizione processuale); dall’altro, l’impugnazione strumentale da parte dell’imputato
nel caso in cui la sua strategia miri esclusivamente a far decadere i termini di
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prescrizione (fatti salvi, tuttavia, i suoi diritti risarcitori nel caso di processo
ingiustificatamente lungo).69
4) - il regime delle nullità assolute.
Con l’inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 Cost., il tema delle
nullità processuali ha acquisito un particolare interesse perché viene a riproporsi il
problema della contrapposizione e, quindi, della necessità di bilanciamento di interessi
costituzionalmente protetti quali quello della ragionevole durata del processo e quello
del diritto alla difesa. In effetti la disciplina del regime delle nullità assolute, postulando
la ripartenza dell’iter procedimentale, va in direzione diametralmente opposta
all’obiettivo del contenimento dei tempi processuali; detto obiettivo tende invece a
valorizzare il principio della conservazione degli atti viziati attenuandone l’incidenza. In
tali condizioni si pone il problema, per il legislatore, di porre particolare attenzione nella
statuizione delle nullità assolute che per legge (art. 179 c.p.p) sono insanabili e rilevabili
d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Tuttavia, successivamente al passaggio
in giudicato della sentenza, le nullità assolute inerenti al procedimento di cognizione
non sono più deducibili.
Un’altra considerazione per il legislatore, de iure condendo, riguarda l’attenzione al
fenomeno dell’abuso processuale per il quale, ad esempio, una parte (generalmente la
difesa) tiene nascosta, per esigenze puramente strategiche, l’invalidità di un atto
assoggettabile a nullità assoluta in modo da causarne il tardivo accertamento (ad es.
facendo valere in Cassazione una nullità rilevabile durante le indagini preliminari) con
conseguente travolgimento dell’intero processo.
In relazione a quanto sopra la disciplina delle novità assolute dovrebbe essere rivista con
l’obiettivo di salvaguardare il principio della ragionevole durata; un possibile percorso è
quello di riconsiderare l’atto invalido che ha condotto, in base alla disciplina attuale, alla
nullità assoluta limitando tale effetto ai soli casi in cui non è possibile una deduzione di
reale inoffensività; in altre parole, la nullità assoluta con i suoi effetti sul processo,
andrebbe dedotta solo se l’interesse protetto dalla sanzione processuale venisse
realmente leso; in caso contrario si configurerebbe un’ipotesi di sanatoria con la quale si
ammette che pur non risultando pienamente realizzato l’interesse perseguito dalla norma
violata, è da ritenersi sufficiente il fatto che l’interesse non sia stato realmente leso. Un
simile criterio è peraltro già adottato in ordinamenti di altri Paesi, come ad es. quello
francese; con esso la possibilità di dichiarare la nullità è subordinata alla condizione che
il vizio abbia avuto l’effetto di ledere gli interessi della parte a cui si riferisce. In
definitiva, nell’atto processuale sarebbero individuabili due scopi: uno immediato e
diretto, l’altro, indiretto, che consiste nella pronuncia sul merito del processo (cfr. P.
SECHI, Nullità assolute e durata ragionevole dei processi: prassi applicative e
riflessioni de iure condendo, in Rivista di Procedura Penale, fasc. 1, gennaio–marzo
Nella legislazione inglese non esiste un periodo di prescrzione,. Le Corti devono trattare i casi “in modo attivo”
stabilendo una sorte di tabella di marcia del porcessoo, per evitare ritardi e rinvii inutili e accusa e difesa devono
rispettare le regole.
69
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2009, pp.279-284). La sanatoria sarebbe, dunque, possibile anche con riferimento alle
nullità assolute quando in ambito endo-processuale, non avendo le parti
consapevolmente eccepito il vizio ad esse noto e, quindi, rilevato la nullità entro un
certo termine, inducono a dedurre che il vizio stesso inficiante l’atto non abbia leso il
loro legittimo interesse alla cui tutela la nullità è comminata. Il termine anzidetto,
costituirebbe anche uno strumento per arginare l’abuso posto in essere da chi procrastina
la deduzione della nullità di un atto per travolgere nell’annullamento anche gli atti
successivi. Resterebbe però salvaguardata la rilevabilità d’ufficio delle suddette ipotesi
di nullità.
5)- i problemi connessi all’istituto della contumacia.
E’ necessario rivedere l’attuale disciplina del processo contumaciale tenendo anche
conto delle numerose sentenze di condanna da parte della Corte europea dei diritti
dell’uomo, ad evitare processi inutili.
Secondo l’orientamento della Corte, infatti, la celebrazione del processo penale non
dovrebbe aver luogo senza la garanzia che l’imputato ne sia a conoscenza (si parla della
fase processuale in senso stretto escludendo quindi le precedenti indagini preliminari).
Un possibile intervento di modifica della disciplina potrebbe dunque prevedere la
subordinazione dello svolgimento del giudizio all’accertata presa di conoscenza, da
parte dell’imputato, del processo a suo carico e sempre che non debba essere
pronunciata sentenza di proscioglimento. In caso contrario, quando cioè la notificazione
non abbia potuto raggiungere il destinatario a causa della sua irreperibilità, il giudice
dovrebbe disporre la sospensione tanto del processo quanto del corso della prescrizione
corrispondente (in tal senso corte C.E.D.U. sentenza 1.3.2006 Sejdovic c. Italia e 31
gennaio 2012 case S. contro Bulgaria).
Naturalmente sarà necessario prevedere eccezioni a questa regola nei casi più gravi, ad
esempio nei processi in cui siano disposte misure cautelari, così come dovrà prevedersi
la possibilità di remissione in termini a favore dell’imputato.
Come accennato, quanto sopra non dovrebbe riguardare la possibilità di procedere alle
indagini preliminari ed all’udienza preliminare in caso di indagato irreperibile, oppure
quando la notifica sia stata regolarmente effettuata presso il difensore.
6)- il sistema delle impugnazioni con particolare riferimento ai tempi morti tra due gradi
successivi di giudizio.
Secondo autorevole dottrina l’eliminazione del giudizio di appello nel penale è
inattuabile, almeno nella odierna società italiana. L’esigenza di ricorrere al giudizio di
un organo collegiale è infatti ancora fortemente sentita. Del resto il secondo grado di
giudizio è previsto dalle diverse giurisdizioni: penale, civile, militare, amministrativa,
tributaria etc. e la soppressione del giudizio di II° verrebbe percepita, anche a livello di
pubblica opinione e soprattutto nell’ambito penale, come perdita di una garanzia. In
breve, specie laddove c’è stato un giudizio espresso da un organo monocratico, si sente
sempre la necessità di poter ricorrere ad un organo collegiale. Resta poi intoccabile in
quanto Costituzionalmente garantita, la giurisdizione di legittimità della Corte Suprema
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(il valore precettivo di cui all’art. 111, comma 7, Cost, ha trovato ulteriore riscontro
nella sentenza Cass. SS.UU., 30 luglio 1953, n. 2593, in Foro it, 1953, I, 1240).
Il problema dei ritardi esiste (cfr. G. SPANGHER, Riformare il sistema delle
impugnazioni, in La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della
giustizia penale, a cura di R. E.. KOSTORIS, Torino, 2005, pag.109)70 ma, come sopra
accennato, è da imputare principalmente ai c.d. tempi morti tra le diverse fasi del
giudizio ed in particolare al tempo intercorrente tra il giudizio di primo grado e quello di
Appello; il ritardo, più che alle code dei processi in attesa, è da attribuire alle farraginose
operazioni a carico delle Cancellerie dei Tribunali.
Una possibile semplificazione si otterrebbe anche ponendo dei limiti alle
possibilità di ricorso in appello del P.M., considerando che già ora i decreti penali di
condanna non sono appellabili dal P.M. e l’unico che può impugnare il decreto è
l’imputato. Restrizioni all’impugnazione da parte del P.M. sussistono inoltre anche in
alcuni riti speciali ed in particolare nel “giudizio abbreviato” e ciò è stato giudicato
legittimo dalla Corte Costituzionale.
Nemmeno può essere paventata la disparità di trattamento tra accusa e difesa o
l’obbligatorietà dell’azione penale giacchè in merito alla pretesa della completa parità
tra le due parti del processo, con particolare riferimento all’impugnazione in appello, la
Corte Costituzionale si è già espressa in senso favorevole alle diversità di attribuzione.
Più delicato è il discorso sull’appellabilità da parte del P.M. di fronte ad una sentenza di
proscioglimento ma, in questo caso, resterebbe comunque il rimedio del ricorso per
Cassazione o l’eventuale rinnovazione sulla base di elementi sopravvenuti.
Diverso è invece il discorso per l’imputato, il quale, in base alla giurisprudenza
Costituzionale, è legittimato ad appellare solo quelle sentenze da cui egli potrebbe
subire pregiudizio e ciò vale anche per le sentenze di assoluzione (vedi art. 530 comma
2) dal momento che il giudice inserisce la relativa declaratoria, espressione di una regola
di giudizio, nel dispositivo della sentenza, quando la sua più naturale collocazione
sarebbe nella motivazione; stante questa situazione, è quindi giusto che l’imputato ne
possa rimuovere gli effetti.
In linea con l’inattuabilità dell’eliminazione del giudizio di appello ma con
limitazioni riguardo all’accesso, è la tesi secondo cui se il giudizio di I° grado si è svolto
con rito collegiale si potrebbe applicare una disciplina più restrittiva alle possibilità di
appello; inoltre dovrebbe essere comunque consentita al P.M. l’appellabilità di una
sentenza di I° grado di tipo assolutivo se ritenuta ingiusta per essere stata ad es. rigettata
dal giudice di I° grado l’assunzione di una prova che il richiedente riteneva decisiva.
A fronte della posizione dottrinale appena espressa, non manca la
contrapposizione di chi attribuisce invece, ad un così generalizzato ricorso al processo
di appello il grave appesantimento dei tempi processuali, in palese violazione del
principio della ragionevole durata. Sempre in merito al giudizio di Appello e più in
generale alle impugnazioni, la differenza più sostanziale rispetto a quanto avviene in
altri Paesi Europei, risiede nelle modalità con cui viene consentito l’accesso a tali
70
cfr. G. SPANGHER, Riformare il sistema delle impugnazioni, in La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza
della giustizia penale, a cura di R. E.. KOSTORIS, Torino, 2005, pag.109.
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strumenti. Non c’è dubbio infatti che in Italia, nonostante alcune limitazioni poste al
diritto di Appello nella dinamica dei procedimenti speciali, l’esperimento dei tre gradi di
giudizio per ogni genere di causa è considerato assolutamente “normale”. La differenza,
rispetto ad es. a quanto avviene in Inghilterra, è addirittura macroscopica se si guarda
alla frequenza con cui viene esercitato il diritto di Appello: nel Paese di oltre Manica è
di appena l’1% per le condanne in primo grado pronunciate dalle Magistrates’ Courts e
dell’ordine del 7% per quelle pronunciate dalle Crown Courts. E’ allora evidente che
non si tratta di un problema di garanzie più o meno accentuate offerte dal primo grado di
giudizio, bensì del costume particolarmente abusato nel nostro Paese, favorito peraltro
dalla particolare lungaggine dei processi, per il quale la difesa utilizza il mezzo
dell’impugnazione per “lucrare” una qualche causa estintiva del reato. Si tratta a ben
vedere, dell’esasperazione dell’enunciato di cui all’art. 27 comma 2° Cost. per il quale
“l’imputato non è considerato colpevole fino alla pronuncia della condanna definitiva”,
principio tipico del modello accusatorio britannico ma con la differenza che i tempi del
giudizio colà non hanno niente a che vedere con i nostri, ed allora, da noi, visto che la
data del giudizio finale può essere più agevolmente procrastinata, tanto meglio per
l’imputato realmente colpevole utilizzare tutti i mezzi che gli consentono di conservare
il più a lungo possibile (e probabilmente in modo definitivo) lo “status” di non
colpevole.
Per un ridimensionamento del giudizio di Appello si è peraltro espressa anche l’ANM la
quale auspica soluzioni legislative idonee a disincentivare comportamenti diretti a
prolungare pretestuosamente i tempi del processo. La proposta è in tal caso quella di
“restituire centralità al giudizio di I° ridimensionando conseguentemente quello di
Appello mediante l’ampliamento delle cause di inammissibilità a cominciare da quelle
della manifesta infondatezza”.
7) - la semplificazione del sistema della parti processuali.
Una prima osservazione riguarda la pluralità delle parti ammesse all’impugnazione. Nel
processo delle parti i contendenti dovrebbero essere soltanto accusa e difesa e ciò è
quanto avviene ad esempio nella cross examination del processo anglosassone.
Rifacendosi a tale modello, dunque, alla parte civile non dovrebbe essere consentita
l’impugnazione. E’ altresì opportuno ricordare che negli ordinamenti di common law,
basati sul modello “adversary”, l’intervento della parte civile è drasticamente bandito
dal processo penale (cfr: F. CARNELUTTI, Crisi della giustizia penale in Riv. dir.
proc., 1958, pag. 343).
Un’ulteriore semplificazione dovrebbe essere attuata riguardo alla pluralità dei
ruoli oggi previsti dal sistema probatorio; a differenza di quanto avviene in altri Paesi
dove sono previste solo due figure di dichiaranti: il testimone e l’imputato, l’Italia
prevede, in aggiunta ai predetti: altri due tipi di imputato connesso, due tipi di testimone
assistito (coloro che rendono dichiarazioni sul fatto altrui), il perito ed il consulente
tecnico di parte e, per ciascuno di essi, è previsto un diverso regime processuale con
inevitabile impatto sui tempi del processo (ad es. perché il collegio deve riunirsi in
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pag. nr. 78
camera di consiglio per decidere se si tratta di fatto altrui o di fatto proprio o per definire
il regime probatorio a cui assoggettare il dichiarante). Più complesse sono le regole,
maggiori sono le probabilità di annullamento della decisione di merito. La proposta è
allora quella di definire due sole figure di dichiaranti: testimone ed imputato (così
P.TONINI, Disciplina delle prove e ragionevole durata del processo, in R.E
KOSTORIS (a cura di), La ragionevole durata del processo, Torino 2005, pagg. 48-50).
8) - gli abusi processuali.
Si è fatto cenno in precedenza, in modo più o meno esplicito, ad alcuni casi di abuso del
processo che possono essere messi in atto tanto dall’accusa quanto dalla difesa. Un utile
strumento per accelerare i tempi del processo può essere costituito da un intervento
legislativo finalizzato a reprimere tali abusi o da un’interpretazione giurisprudenziale a
tal fine indirizzata anche se non può ignorarsi che il problema dei possibili abusi a
carico della difesa risulta molto delicato a causa del fatto che quest’ultima non soggiace
alle stesse obbligazioni che sono invece a carico del P.M.; prevale infatti, in tal caso, il
diritto dell’imputato ad utilizzare tutti i mezzi leciti per cercare di ottenere il risultato a
lui più favorevole, né gli può essere imposto alcun obbligo di collaborazione nella
ricerca della verità.
In punto tuttavia, può precisarsi che le principali fattispecie di abuso poste in
essere dalla difesa sono generalmente comportamenti di mera strategia processuale per i
quali la giurisprudenza della Corte europea (v. sent. Corte eur. del 18/07/1994,
VENDITTELLI vs. Italia a cui già fatto cenno nel paragrafo 5.2.3) sancisce la non
appellabilità all’art. 6 della C.E.D.U.; e a tale orientamento fa riscontro, quello della
nostra Corte di Cassazione che, conferma il principio secondo cui le garanzie del giusto
processo, di cui all’art. 111 Cost., non possono spingersi fino al punto di renderne
irragionevole la durata.
A titolo di mero esempio si considerino i seguenti casi:
a) ricorso volto unicamente a far valere la prescrizione maturata dopo la sentenza di
merito e prima della scadenza del termine per proporre ricorso: attraverso la sua
giurisprudenza (v. sent. Cass. pen., Sez. Un., 22 novembre 2000, DE LUCA, in C.E.D.
Cass., n. 217266) la S.C., nell’intento di neutralizzare l’impiego strumentale e dilatorio
del ricorso per Cassazione, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso quando il suo
contenuto risulti privo di qualsiasi doglianza ed è pertanto da doversi ritenere proposto
per motivi diversi da quelli previsti dalla legge (cfr. G.SPANGHER, Le cause di
inammissibilità del ricorso, in GIARDA-SPANGHER (a cura di) Codice di procedura
penale commentato, III ed., 2007, p. 5452-5453).
b) ricorso ai rimedi processuali che la dottrina anglosassone definisce con il termine
“overuse”; in essa la Corte Costituzionale comprende anche la reiterazione delle
domande dirette all’instaurazione di un procedimento incidentale ed in particolare le
istanze di rimessione e le dichiarazioni di ricusazione. Per la Corte costituisce ad es.
abuso processuale l’impiego reiterato della richiesta di rimessione finalizzata alla
maturazione dei termini di prescrizione del reato. Quale rimedio alle prassi devianti
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come la pretestuosa attivazione dei procedimenti incidentali sull’imparzialità del
giudice, la Corte Costituzionale è intervenuta (cfr. sent. Corte Cost., 22 ottobre 1996, n.
353, in Cass. Pen., 1997, p.1276; v. anche V. GREVI, Un’occasione perduta della
Corte cost. in tema di uso distorto della richiesta di rimessione del processo, in Cass.
Pen., 1996, pag. 453) sulla disciplina degli istituti della rimessione e della ricusazione
rimuovendo il divieto per il giudice a quo di pronunciare la sentenza in pendenza dei
procedimenti ad essi relativi e ciò a tutela dell’efficienza del processo penale (cfr. G.
SPANGHER, Incostituzionale il divieto di pronunciare sentenza, pendente la richiesta
di rimessione, in Studium Iuris, 1996, p. 1342) ed apprestando opportune contromisure
rispetto ai rischi di un uso ostruzionistico del rimedio, rischi aumentati dato
l’ampliamento dei casi di rimessione.
c) impugnazioni finalizzate a determinare il decorso dei termini per la prescrizione del
reato. Gli effetti prodotti dalle impugnazioni pretestuose sono amplificati dalle
disfunzioni interne al sistema delle impugnazioni. Viene fatto rilevare (cfr. V. GREVI,
Alla ricerca di un processo giusto, Itinerari e prospettive, Milano, 2000, pp. 327-328)
come non possa ritenersi “giusto” un processo “ che permette all’imputato di avvalersi
di fatto in maniera strumentale, degli istituti processuali predisposti a tutela dei suoi
diritti, ad es. dei mezzi di impugnazione.
d) abusi commessi durante le fasi del procedimento probatorio sia sull’interpretazione
dei fatti probatori, sia sul piano dell’ammissione della prova: mentre la prima ipotesi di
abuso mira a confondere la ricostruzione dei fatti, la seconda rientra nella specie
dell’overuse che in questo caso consiste in una produzione sovrabbondante di mezzi di
prova anche su fatti irrilevanti o addirittura estranei all’oggetto del giudizio ed il cui
scopo rientra nelle tattiche ostruzionistiche e dilatorie. Tali ipotesi sono senz’altro
passibili di rigetto da parte del giudice o, comunque, della negazione di qualsiasi
valenza probatoria, ma resta comunque il rischio di compromissione della funzione
conoscitiva del processo e l’inutile allungamento dei tempi. Quanto al primo aspetto, è
da precisare che una strategia probatoria diretta ad ostacolare la ricostruzione dei fatti,
ad es. mediante la presentazione di documentazione creata ad arte, costituisce condotta
patologica estranea al legittimo diritto alla difesa ivi compreso quello alla menzogna
(cfr. art. 24 comma 2 Cost.).
Problemi di abuso sussistono anche nella fase successiva del procedimento probatorio e
riguardano l’assunzione delle prove. Il contrasto potrebbe consistere nel porre sanzioni
ad un eccesso di impiego dell’esame incrociato ad esempio applicando un più rigido
divieto di domande suggestive o capziose. Si tratta però di un terreno sul quale
l’intervento legislativo sarebbe alquanto difficoltoso per cui sembrerebbe più opportuno
spostarsi sul piano deontologico. Riguardo a questo aspetto, sarebbe inaccettabile, anche
in base all’art. 6 paragrafo 3 lettera b) della CEDU, ed all’art. 111 comma 3 Cost., che la
norma sulla ragionevole durata del processo, venisse usata per comprimere
ingiustificatamente le garanzie difensive violando quel contemperamento tra i diversi
principi a cui si è già fatto riferimento in precedenza (cfr. M. CHIAVARIO, Giusto
processo II - Processo penale - La durata ragionevole del processo. Rilevanza dei
comportamenti di parte, in Enc. Giur. Treccani, 2001, pagg. 9-10.
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E’ bene qui precisare ancora una volta, però, i limiti opposti ad eventuali
provvedimenti in tal senso, perché, come recita la giurisprudenza della Corte europea,
non si possono far pagare all’imputato i ritardi dovuti all’inerzia ed all’inefficienza dello
Stato nell’amministrazione della giustizia (cfr. alle diverse sentenze della Corte: Corte
eur., 10/11/69, STOGMULLER vs. Austria; Corte eur., 18/2/1997, NIDEROSTHUBER vs. Svizzera; Corte eur., 17/12/1996, VACHER vs. Francia), né impedire il
diritto della difesa alla non collaborazione nel procedimento a carico dell’imputato
essendo questo un comportamento lecito da tenere distinto da quello di tipo meramente
ostruzionistico.
** Al fine di ridurre positivamente l’elevato numero dei ricorsi in cassazione
appare opportuno richiamare la possibilità di intervenire per limitare la ricorribilità della
sentenza di patteggiamento mediante una riforma subordinata alla modifica dell’art. 111
comma 7 Cost.: oggi la percentuale dei ricorsi contro queste sentenze è pari ad oltre il
17% e di questi ricorsi oltre l’80% sono inammissibili mentre circa il 30% dei ricorsi
inammissibili ha ad oggetto sentenze di patteggiamento.71
** Infine va segnalato che durante la stesura della presente relazione, il 2 aprile
2014, la Camera dei Deputati ha approvato, in via definitiva, la proposta di legge n.
331-927-B – Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di
riforma del sistema sanzionatorio; disposizioni in materia di sospensione del
procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili.
In sintesi, ad una prima e veloce lettura, può rilevarsi che sono state accolte
molte delle proposte sopra illustrate.
In particolare la legge riforma il sistema sanzionatorio disciplinando gli arresti
domiciliari come pena principale nonché la depenalizzazione e la messa alla prova come
pilastri del nuovo sistema; ridisciplina anche il procedimento nei confronti degli
irreperibili abolendo l’istituto della contumacia. Tuttavia non tutte le norme saranno
immediatamente applicabili perché all’attuazione della depenalizzazione e dei nuovi
71 Interessante, infine, è riportare le conclusioni prese il 20 marzo 2014 nel seminario sulla efficienza della giustizia
penale svoltosi all’ambasciata britannica tra magistrati italiani e magistrati inglesi all’esito del quale è stata redatta la “Agenda
Wolkonsky” che per quanto riguarda il sistema italiano può riepilogarsi in dieci punti: 1) modifica dell’art. 111 cost. per limitare il
ricorso in Cassazione; 2) filtro per selezionare i ricorsi; 3) fermare la prescrizione dopo la condanna di primo grado per
disincentivare gli appelli dilatori; 4) durata celere dei giudizi di appello e cassazione e in caso di sforamento, sanzioni disciplinari
per il giudice e sconti di pena per l’imputato; 5) limitare ad alcuni avvocati il patrocinio in cassazione; 6) ampliare il potere di
archiviazione dei publici ministeri nel caso di scarsa rilevanza del fatto; 7) limitare l’impugnazione nel patteggiamento; 8)
cancellare il ricorso diretto in cassazione dell’imputato; 9) introdurre la inammissibilità dell’appello per manifesta infondatezza dei
motivi; 10) impedire l’impugnazione del pubblico ministero dopo due sentenze di assoluzione. Anche se, per completezza, va pure
riferito che su tale proposta vi è la netta contrarietà degli avvocati convinti che tale agenda riduca notevolmente le garanzie.
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“arresti domiciliari” dovrà infatti provvedere il governo attraverso appositi decreti
legislativi.
Le principali novità, così come illustrate dal presidente della Commisisone
Giustizia della Camera sono:
1) Domiciliari pena principale. Nel codice penale entra a pieno titolo la pena detentiva
non carceraria, ossia reclusione o arresto presso l’abitazione o altro luogo pubblico o
privato di cura, assistenza o accoglienza (‘domicilio’). Secondo la delega, i domiciliari
dovranno diventare pena principale da applicare in automatico a tutte le contravvenzioni
attualmente colpite da arresto e a tutti i delitti il cui massimo edittale è fino a 3 anni. Se
invece la reclusione va da 3 a 5 anni, sarà il giudice a decidere tenendo conto della
gravità del reato e della capacità a delinquere.
2) Detenzione oraria. La detenzione non carceraria può avere durata continuativa o per
singoli giorni della settimana o fasce orarie. Può essere eventualmente prescritto il
braccialetto elettronico. Restano invece in carcere i delinquenti abituali, professionali e
per tendenza, e chi non ha un domicilio idoneo o si comporta in modo incompatibile
(violando ad esempio le prescrizioni) anche tenuto conto della tutela della persona
offesa.
3) Lavori di pubblica utilità. Nel caso di reati per cui è prevista la detenzione
domiciliare, il giudice può affiancare alla condanna anche la sanzione del lavoro di
pubblica utilità. Per almeno 10 giorni (durata minima), il condannato dovrà prestare
attività non retribuita in favore della collettività.
4) Depenalizzazione. In forza di una delega il governo trasformerà in semplici illeciti
amministrativi una articolata serie di reati. La depenalizzazione riguarda tutte le
infrazioni attualmente punite con la sola multa o ammenda e altre specifiche fattispecie
come ad esempio l’omesso versamento (se non superiore a 10mila euro) di ritenute
previdenziali e assistenziali o in materia di atti e spettacoli osceni, abuso della credulità
popolare, rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive.
4.a) Immigrazione clandestina. E’ tra i reati depenalizzati. Resterà tuttavia penalmente
sanzionabile il reingresso in violazione di un provvedimento di espulsione.
4.b) Limiti depenalizzazione. Non rientrano comunque nella depenalizzazione i reati
relativi a edilizia e urbanistica, territorio e paesaggio, alimenti e bevande, salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica, gioco d’azzardo e scommesse,
materia elettorale e finanziamento dei partiti, armi ed esplosivi, proprietà intellettuale e
industriale.
5) Probation. (applicazione immediata) Istituto da tempo sperimentato a livello
minorile, viene ora esteso agli adulti. Per reati puniti con reclusione fino a 4 anni o pena
pecuniaria o per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio, l’imputato può chiedere
la sospensione del processo con messa alla prova. La misura consiste in lavori di
pubblica utilità e comporta la prestazione di condotte riparatorie e (se possibile)
risarcitorie, con l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma di
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recupero. Se l’esito è positivo, il reato si estingue. In caso di trasgressione del
programma di trattamento o nuovi delitti scatta però la revoca. Durante il periodo di
prova la prescrizione è sospesa
6) Esclusione della punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con
pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare
tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per
l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa.
7) Assenza imputato. (Immediata appplicazione) Viene eliminata del tutto la
contumacia. Se l’imputato (dopo un primo tentativo di notifica) è irreperibile, il giudice
sospende il processo potendo però acquisire le prove non rinviabili. Alla scadenza di un
anno, e per ogni anno successivo, dispone nuove ricerche dell’imputato. Finché dura
l’assenza, è comunque sospesa la prescrizione. Se le ricerche invece hanno buon esito, il
giudice fissa una nuova udienza dando corso al processo. L’imputato può chiedere il
giudizio abbreviato o il patteggiamento.
§ 3.c. - Proposte concrete di facile attuazione per la realizzazione
della ragionevole durata del processo
Come per il processo civile anche nel processo penale già da subito gli operatori,
senza aspettare con rassegnazione il legislatore potrebbero porre in essere prassi virtuose
finalizzate all’attuazione della ragionevole durata del processo: i grandi numeri, infatti,
non richiedono solo interventi strutturali di grande respiro ma anche interventi sulle
piccole cose ed ilo ricorso a piccoli accorgimenti.
I tempi della presente relazione ne consentono solo una breve e paradigmatica
elencazione.
a) Le motivazioni dei provvedimenti seppur fatte per relationem non devono
assumere il carattere della genericità onde evitare facili impugnazioni;
b) Le sentenze di patteggiamento devono presentare una motivazione nella
quale almeno si indicano le fonti di prova da cui emergono le ragioni che
escludono il proscioglimento per evitare ricorso fondati sulla violazione
dell’art. 129 c.p.p..
c) Non va omessa la motivazione sulle ragioni che giustificano l’applicazione
della confisca delle cose sequestrate: spesso i giudici della corte di
cassazione si lamentano di tale omissione che comporta numerosi ricorsi72.
d) La determinazione della pena va curata in modo particolare a causa delle
pesanti ricadute che i vizi di motivazione hanno sia in sede di giudizio di
72
D. Carcano -.C. Citterio- G. Fidelbo e L. Marini: “Ragionevole durata del processo : alcune proposte per evitare errori e rischi
di annullamento dei provvedimenti dei giudici di merito” in Foro It. Ott. 2013 parte IV
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e)
f)
g)
h)
pag. nr. 83
impugnazione sia sull’attività del giudice dell’esecuzione e della
sorveglianza. Il mero rinvio ai criteri fissati dall’art. 133 c.p.c costituisce una
sostanziale elusione dell’obbligo di motivare. Sono frequenti i casi di
mancanza di motivazione in ordine al rigetto di richieste di applicazioni delle
attenuanti generiche e di applicazioni di attenuanti specifiche.
Il calcolo della sanzione deve essere fatto evitando apparenti contraddizioni
tra i diversi punti della motivazione (es. minimo della pena e contestuale
negazione delle attenuanti generiche).
Nei decreti di sequestro probatorio non vengono spesso indicate
sinteticamente quale sia il collegamento tra le cose e il reato e quali siano le
esigenze che le stesse cose debbano soddisfare sul piano probatorio;
Sulle intercettazioni telefoniche la giurisprudenza ha mitigato il rigore
formale/formalistici della legge ma l’esistenza dei presupposti va motivata
non con clausole di stile.
Nei processi a prescrizioni brevi il giudice deve dichiarare subito la
prescrizione per uno dei reati per i quali si procede altrimenti la sentenza si
presta ad essere impugnata Il che rende inammissibile anche quella
impugnazione che altrimenti lo sarebbe e comporta molte conseguenze
negative ivi compresa la possibile dichiarazione di prescrizione anche dei
reati che al momento della pronunzia impugnata non lo erano.
§ 4. - Conclusione
Se dopo l’analisi superiormente svolta si vuole trarre una conclusione vengono
in mente quelle due semplici e brevi parole con cui nell’ambiente tedesco ci si interroga
frequentemente sulla influenza attuale o meno degli eventi del passato: was bleibt? (Che
cosa rimane?)
Ecco, rimane concretamente l’auspicio che il legislatore ed i principali operatori
di giustizia, agiscano tutti senza ulteriori tentennamenti per quanto di loro competenza;
è in gioco la credibilità del sistema giustizia ed in ultima analisi, l’immagine del nostro
Paese all’estero, e non basta più una sommatoria di intenti e di buone intenzioni senza
indicazioni relative al rapporto tra mezzi e fini.
E in quest’ottica ogni operatore del settore giustizia dovrebbe sempre ricordarsi
il famoso motto di Demostene che “spesso le grandi imprese nascono da piccole
opportunità”.
Scuola Superiore della Magistratura
pag. nr. 84
- Ufficio del referente distrettuale per la formazione
della Corte di Appello di Brescia - settore diritto comunitario -
Giuseppe Ondei