Guardiamo l’orco negli occhi di lanfranco caminiti Ha la faccia da contadino, Michele Messeri, e le mani sporche di terra e trattore. Con quelle mani di lavoro, con cui ora cerca di coprire il proprio volto, nascondere la propria vergogna, ha strangolato Sarah come fosse una gallina a cui tirare il collo. Per divorarla. Bisogna ammazzarla, la gallina, non c’è altro modo, non si mangia cruda. Con Sarah l’ha fatto prima di penetrarla. Non c’era altro modo, Sarah non poteva averla viva. Ha pensato di comprarsela un po’ alla volta, cinque euro, poi altri cinque, una ricarica telefonica, come fosse una bambina che potesse essere abbindolata con le caramelle. Forse gli era andata bene altre volte, in altre situazioni, non so. Ma Sarah non era più una bambina. Non ci sono più bambini, in questo paese. Questo non è più un paese per bambini. E non ci sono più caramelle. Ci sono le ricariche telefoniche per adescare. Quest’uomo abbrutito per scelta, che fa cose antiche – forse solo dimenticate, o rinominate: oggi ci sono i vignerons e il terroir, ché migliaia di uomini e donne fanno ogni giorno le stesse identiche cose, è la vita dei pastori e dei contadini –, gira con un’Ape a raccattare cianfrusaglie che riusa, ripara il suo trattore e qualunque altra cosa con un cacciavite, brucia le stoppie, zappa i suoi fazzoletti di terra e quelli d’altri, tutto con quelle stesse mani e la fatica quotidiana di ciuccio, ha sentito improvviso e potente il desiderio. Incontrollabile, per lui che non sa – non sa più da tempo – cosa sia il desiderio cui dare forma. Come sia una forma per il desiderio. Come può irrompere in una vita così cruda, e bestiale per la sua rozza semplicità, per la sua arcaicità, a cui certo non pone riparo l’uso di un cellulare moderno, il desiderio devastante di un giovane corpo, di un sorriso cristallino, di un profumo di donna? Di un angelo bello, che tale doveva apparire Sarah all’uomo dal piede caprino. Da corrompere, sporcare: questi uomini “sanno” che tutto è corruttibile, che c’è un fondo sporco in ognuno. Sarah era completamente altro, qualsiasi altra cosa possibile, quello che lui non poteva mai avere e non sarebbe mai potuto essere. Un altrove. Chissà quante volte di notte sognava i seni di Sarah, la immaginava nuda, e quando è accaduto di trovarsela nuda, ormai morta, non poteva che dare sfogo e compimento a quei sogni. Poteva finalmente corromperla. Cosa può essere il desiderio sessuale, l’unica forma accessibile di desiderio in una vita che non può avere ambizioni materiali e immateriali – una carriera, una esposizione pubblica, una proprietà più grande, una ricerca e scoperta, una comunità amicale – che è, in una parola, miserabile? Inzeppata fino all’inverosimile di solitudine buia, proprio come il suo garage. Il suo antro di orco. Ma non regge, e è insopportabile, l’antropologia da brutto e sporco e cattivo, così diverso da noi metropolitani e puliti. Perché diventa predatore, lui così arcaico, in un profilo criminale che somiglia alla postmodernità metropolitana – la giovane donna uccisa, spogliata, violentata, ci manca solo fatta a pezzi e conservata in un frigo per mangiarla un po’ alla volta? No, non regge la civilizzazione, non siamo al riparo, succede anche da noi, non solo a Avetrana, sulla Maiella, tra le colline di Scandicci. Perché la sua sessualità è rapace e animale fino alla violenza omicida, mentre intorno il mondo sta facendo del mimetismo sessuale un’altra strada per la sopravvivenza della specie? Perché la solitudine buia che scopre il desiderio diventa rapace, impossibilitata com’è a trovare parole, a articolare in pensieri che non siano di stupro quel desiderio che brucia straziante, impellente, brutale? E questa solitudine buia non è forse condizione comune? Perché diventiamo rapaci – tutti, di qualunque genere e consuetudine sessuale – quando desideriamo fortemente qualcosa, qualcuno? Quando il gioco deve finire in qualche modo. Ci fosse la pena di morte già domani la eseguirebbero. Lo butteranno in carcere dove ci schiatterà, se prima non si lega una corda al collo da sé o qualcuno non lo sgozza per aversi un titolo e del “rispetto” galeotto. Comunque vada, avrà quel che si merita, la sua è una vita irrecuperabile, come irrecuperabile è la morte di Sarah. Morisse presto, potremmo dimenticare presto. Ma allora la vita, la vita societaria, comunitaria è tutta qui, al di là del tempo, della storia che corre e ci trasforma, nel sapere che dall’inizio di ogni cosa esistono predatori e vittime, che bisogna sempre dire ai propri figli di stare attenti ai parenti e agli sconosciuti, che possono essere i tuoi mostri? Non c’è nient’altro oltre l’augurarsi che non ti capitino mai su un viottolo due cani neri rabbiosi o in un vicolo due balordi ubriachi di notte? La civilizzazione porta con sé i suoi buchi neri irredimibili, irriconoscibili a occhio nudo, sempre, comunque? E quando implodono trascinando tutto con sé nel buio, per caso? Cosa stanno pagando le donne, le ragazze, i ragazzi, i bambini, indifesi sempre, alla crudeltà feroce di un rito tribale – le vergini offerte al mostro – che li sacrifica, per salvare noi tutti, quelli di noi che rimangono? Ci salveremo così? Potremmo finirla veloce, senza starci su a pensare troppo: un porco ha stuprato la propria nipote, succede a qualunque latitudine, in qualunque tempo, che paghi. Ma gli amabili resti – come recitava il titolo del libro di Alice Sebold, che di uno stupro e di un omicidio di un’adolescente parlava – di Sarah forse meriterebbero qualche pensiero in più. Sul suo orco. Su noi stessi. Di quest’altro rito tribale del bruciare il mostro. Qualche pensiero in più di un sabba. I sabba, anche quelli mediatici, non redimono. Roma, 9 ottobre 2010