Insurrezione e liberazione di Genova M. Elisabetta Tonizzi* La liberazione di Genova a seguito dell’insurrezione avvenuta tra la sera del 23 e il 26 aprile 1945 rappresenta l’unico caso europeo in cui un intero dispositivo militare tedesco si arrende alle forze della Resistenza senza alcun intervento bellico da parte degli Alleati che sopraggiungono soltanto il giorno 27. Li accoglie una città martoriata ma fiera di mostrare ai vincitori una ritrovata dignità civile. I trasporti pubblici e gli altri servizi urbani sono infatti regolarmente funzionanti e l’ordine pubblico è sotto il controllo delle autorità prontamente nominate dai partiti antifascisti riuniti nel Comitato ligure di liberazione nazionale (Cln), a dimostrazione di efficienza militare, capacità di governo e di selezione della nuova classe dirigente che ne legittimino agli occhi dei vincitori la candidatura a protagonisti della vita politica italiana del dopoguerra. È stata inoltre evitata la distruzione dell’apparato produttivo e delle difese foranee del porto, peraltro danneggiato in modo gravissimo dai bombardamenti angloamericani e dai sabotaggi compiuti dai tedeschi durante l’occupazione successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943. Gli eventi insurrezionali genovesi hanno inoltre effetti che incidono oltre la dimensione locale. L’azione delle formazioni partigiane stanziate nell’entroterra, che si svolge parallelamente e in coordinazione con quella delle Squadre di azione patriottica (Sap) che operano entro i confini urbani, impedisce alle forze occupanti stanziate nel genovesato di varcare gli Appennini, ripiegare nella pianura Padana e riunirsi alle altre divisioni tedesche per opporre, con ulteriori distruzioni materiali e sacrificio di vite umane, un estremo tentativo di difesa all’attacco degli Alleati. L’importanza politica e militare dell’impresa, realizzata in una condizione di enorme sproporzione numerica e di entità degli armamenti e su un terreno dalla morfologia molto sfavorevole al coordinamento dell’azione nei vari settori, è indirettamente dimostrata dai reiterati tentativi, attuati da una pluralità di soggetti, iniziati immediatamente dopo gli eventi e protratti per almeno un trentennio, di sottrarre alla Resistenza il merito della liberazione e il giusto onore che ne deriva. Nel corso degli anni si è verificato infatti un vero e proprio ‘arrembaggio’ alla liberazione, da parte della Curia genovese, non tanto nella persona dell’allora cardinale Pietro Boetto quanto del suo successore, il cardinale Giuseppe Siri, ai tempi giovane vescovo ausiliare, che attribuì tutti i meriti alla mediazione compiuta dall’autorità ecclesiastica. Il generale Gunther Meinhold ascrisse invece alla sua umanità e generosità d’animo e al sentimento antinazista che a suo dire lo animava, l’ordine di resa impartito alle sue truppe; anche rappresentanti degli apparati amministrativi della Repubblica sociale tentarono di ingigantire il proprio ruolo nelle vicende. Questo rapido richiamo alle diverse parti in competizione per il gradino più alto sul podio della liberazione di Genova è funzionale a delineare il tratto che maggiormente ne caratterizza la fisionomia, cioè l’estrema complessità della situazione e la compresenza di una molteplicità di agenti che, con obiettivi in parte diversi, seguono propri percorsi operativi. Infatti, analogamente a quanto si verifica nel resto d’Italia e d’Europa, l’insurrezione e liberazione di Genova dipendono strettamente da alcuni fattori: gli scopi bellici e politici degli Alleati cui si rifanno gli orientamenti del Governo del Sud; l’unità e dinamicità del movimento resistenziale; l’accanimento, o meno, a combattere da parte dei nazisti e delle forze collaborazioniste che li fiancheggiano. Inoltre, nel caso delle grandi città industriali del nord Italia, destinate ad essere i centri nevralgici dell’insurrezione, un peso rilevante è esercitato dalle autorità ecclesiastiche. Sulla base delle precedenti considerazioni, il complesso delle forze che interagiscono nello svolgimento della liberazione della città si può schematizzare come segue. La Resistenza, nella sua espressione sia politica, il Comitato ligure di liberazione nazionale, fondato il 9 settembre 1943 con la partecipazione di tutti i partiti antifascisti, che militare. Nel luglio del 1944 era stato istituito il Comando militare regionale unificato, facente capo al Corpo volontari della libertà (Cvl) sorto poco prima in seno al Comitato di Liberazione Alta Italia (Clnai), organismo cui è affidato il coordinamento, tramite i Comandi zona (nella suddivisione applicata alla Liguria, Genova e il genovesato fanno parte della VI zona), dell’azione delle divisioni partigiane di montagna. È infatti con l’estate del 1944, analogamente a quanto avviene nel resto dell’Italia occupata, che le bande partigiane della zona assumono una rilevante consistenza militare, mentre nelle fasi precedenti la resistenza genovese si era espressa eminentemente a livello urbano, tramite le azioni di guerriglia dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Nel febbraio del 1945 si era formato, * Università di Genova e Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. 1 sempre in base alle direttive del Clnai e del Cvl, il Comando piazza che unificava sotto un solo comando le formazioni partigiane urbane costituite dalle Squadre di azione patriottica (Sap). Gli Alleati, con cui la Resistenza genovese ha stabilito contatti fino dall’autunno del 1943. Nel gennaio 1945 vengono paracadutate nella VI zona due Missioni, una inglese e l’altra americana, che interagiscono con la Resistenza nella preparazione dell’insurrezione la cui attuazione di collega alla ripresa, nell’aprile del 1945 dopo una stasi durata tutto l’inverno, dell’offensiva della V armata alleata, al comando del generale Lucian K. Truscott, che sfonda la Linea Gotica e si dirige verso le regioni dell’Italia nord-occidentale. I tedeschi, che dal 9 settembre occupano la città, sia i fautori di una linea moderata e di trattativa (i rappresentanti del consolato e il generale Günther Meinhold, che dal marzo 1944 è responsabile dell’intero settore operativo che fa capo a Genova), sia gli oltranzisti, come il capitano di vascello Max Berninghaus, comandante della Marina da guerra tedesca (Kriegsmarine), decisi a continuare a combattere pur di evitare di consegnarsi alle forze partigiane. Il fascismo repubblicano, le cui istituzioni civili e militari agiscono agli ordini dell’occupante tedesco, in particolare nell’attività di repressione del movimento partigiano. Dal punto di vista militare, il ruolo delle formazioni militari della Repubblica sociale italiana risulta del tutto marginale se si eccettua il reparto della X Mas comandato dal capitano Mario Arillo, che, attestato in porto, rifiuta di arrendersi fino all’arrivo degli Alleati. Esponenti della burocrazia cercheranno invece, senza successo, di ritagliarsi un ruolo nei ranghi amministrativi nominati dal Cln. La Curia, nelle persone del cardinale Pietro Boetto e del vescovo ausiliare Giuseppe Siri. La Chiesa è l’unica istituzione a non aver subito nel corso della guerra soluzioni di continuità: il disorientamento civile e morale e il tracollo dei pubblici poteri in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 ne hanno esaltato il ruolo di supplenza istituzionale. Oltre all’opera umanitaria di assistenza e soccorso, l’autorità ecclesiastica assicura un’importante presenza di mediatrice triangolare tra la popolazione, i nazifascisti e la Resistenza. Con l’avvicinarsi della fine della guerra e nell’imminenza dell’insurrezione, l’azione negoziale svolta dalla Curia acquista margini operativi più ampi e incisivi. La Resistenza, a Genova come nel resto d’Italia e d’Europa, ha trovato concreti spazi di iniziativa autonoma e possibilità di durata nel contesto della guerra che ne condiziona pesantemente, e fino alle conclusive battute, le capacità operative e gli esiti. L’andamento delle operazioni belliche e in particolare il comportamento delle forze angloamericane pongono quindi vincoli imprescindibili, come aveva dimostrato l’elaborazione dei primi piani insurrezionali nell’estate del 1944. Genova, ganglio nevralgico della produzione industriale del nord Italia, principale centro marittimo nazionale e snodo strategico di collegamento viario e ferroviario tra il litorale tirrenico e la pianura Padana, riveste grande rilevanza strategica in quanto ritenuta, a torto, dai tedeschi il probabile teatro di uno sbarco alleato preliminare ad un attacco diretto al nord Italia e alla Germania meridionale. Nell’estate del 1944, nell’ambito della ripresa dell’avanzata alleata oltre la Linea Gustav e nella prospettiva, dimostratasi erronea, di uno sbarco alleato sulle coste liguri che sembravano preludere ad un conquista rapida e vittoriosa del nord Italia, la Resistenza genovese formula precise direttive per l’insurrezione e liberazione della città. Queste si rivelano però del tutto premature dal momento che, come ben noto, lo sbarco avviene il 15 agosto 1944 non in Liguria ma in Provenza e la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista sarà lenta e travagliata. Infatti, sul finire dell’estate, l’azione degli Alleati, che, non senza contrasti interni, ritengono l’Italia un fronte secondario e concentrano gli sforzi a favore della liberazione della Francia, si affievolisce per arrestarsi del tutto nell’autunno in corrispondenza della Linea Gotica. Nel novembre 1944 il proclama del generale britannico Harold Alexander (allora comandante delle forze alleate nelle campagna d’Italia e di lì a poco sostituito dal generale americano Mark Clark) dichiara interrotta l’avanzata e invita le formazioni resistenziali a sospendere le attività. La resistenza genovese accoglie il proclama con dolorosa sorpresa ma rifiuta di sbandarsi e, pur tra le enormi difficoltà dovute all’intensificarsi della pressione dei rastrellamenti nazifascisti, si mantiene pronta a ritornare in piena operatività alla ripresa dell’attacco angloamericano. Nonostante l’esito gravemente deludente, l’offensiva alleata dell’estate ha però segnato, con la liberazione di Firenze avvenuta tra la fine d’agosto e i primi di settembre 1944, il primo esempio concreto della possibilità di realizzare con successo il binomio insurrezione-liberazione con la regia del Cln e senza intervento degli Alleati che entrano nel capoluogo toscano a cose fatte. Sulla base delle direttive di mobilitazione generale diramate dal Clnai nel giugno precedente, il Cln della Toscana si è infatti posto alla testa degli eventi, ottenendo la liberazione della città e guadagnandosi, con l’insediamento dei propri uomini nelle principali cariche pubbliche, lo status di 2 garante della svolta democratica. Firenze rappresenta quindi un precedente di grande rilievo che fornisce una sorta di linea guida seguita, in tempi successivi e con le specificità richieste dalla situazione locale, anche dal Cln genovese. Come si diceva, nell’estate del 1944 l’andamento della guerra rende prematuri e inattuabili i disegni insurrezionali elaborati dalla Resistenza genovese che rappresenteranno comunque il nucleo operativo del così detto ‘Piano A’, programma di massima applicato, pur con tutte le varianti e improvvisazioni inevitabilmente richieste dall’evolversi frenetico della situazione, il 23-26 aprile dell’anno seguente. Viene invece esplicitamente esclusa l’ipotesi, delineatasi nell’autunno 1944, di trattativa col nemico. Nel novembre del 1944 il Cln genovese si oppone infatti con fermezza, in linea con le decisioni del Clnai, ai tentativi di mediazione, condotti dalla Curia milanese, volti ad ottenere il ritiro dei tedeschi dall’Italia a fronte dell’impegno della Resistenza ad astenersi dai combattimenti. Genova, data la sua importanza economica e strategica, è naturalmente anche al centro delle preoccupazioni degli occupanti tedeschi che non intendono rinunciare alle risorse produttive genovesi in particolare, e dell’Italia settentrionale in generale. Fin dalla primavera del 1944 infatti, in base alla già ricordata convinzione dell’approssimarsi di uno sbarco alleato, questi avevano elaborato dettagliati piani difensivi. La città era stata pertanto trasformata in una munitissima piazzaforte e viene stilato il così detto ‘Piano Z’, cioè un elenco dettagliato degli obiettivi da distruggere in caso di ritirata (il porto, le fabbriche, le centrali elettriche, gli acquedotti e le infrastrutture viarie), in modo da non lasciare integre in mani nemiche risorse di vitale importanza. Nella primavera del 1945, con la ripresa delle operazioni sulla Linea Gotica, il contesto bellico torna favorevole all’attuazione dei piani insurrezionali che devono però essere tenacemente e faticosamente negoziati con le missioni alleate presenti nel genovesato. Alla metà del gennaio 1945 erano infatti state paracadutate in VI zona la missione ‘Clover’, dello Special Operations Executive (SOE) britannico, guidata dal tenente colonnello Peter Mac Mullen e dal maggiore Basil Davidson, e la missione americana ‘Peedee’, dell’Office for Strategic Services (OSS), guidata dal maggiore Leslie Vannoncini. Nel febbraio del 1945 Basil Davidson si incontra con gli emissari del Cln ai quali chiarisce che alla Resistenza, di città e di montagna, sono riservati esclusivamente compiti di antisabotaggio al fine di salvaguardare le infrastrutture e l’apparato produttivo. Gli Alleati inoltre esigono il pieno controllo delle forze resistenziali affinché l’insurrezione non subisca forzature di carattere eversivo; si oppongono inoltre fermamente alla discesa in massa in città delle unità partigiane di montagna le quali saranno comunque disarmate e smobilitate una volta cessate le ostilità, momento in cui tutti i poteri assunti dal Cln sarebbero stati trasmessi al Governo militare alleato. In sostanza si richiede il pieno rispetto degli ‘accordi di Roma’ firmati nel dicembre 1944 dai rappresentanti del Clnai, gli Alleati e il Governo del Sud, guidato da Ivanoe Bonomi, e preceduti dalle istruzioni diramate alla missioni alleate in Italia il 22 settembre 1944. Secondo tali accordi, gli organismi del movimento resistenziale del nord Italia vedono ufficialmente riconosciuta, e consistentemente finanziata, la propria presenza in cambio dell’impegno a subordinare operatività e obiettivi alle direttive e agli scopi bellici angloamericani. L’obbligo del rispetto di tali accordi è ribadito nel corso dei colloqui, avvenuti tra il 21 marzo e il 6 aprile 1945, tra i dirigenti del Clnai e il rappresentante ufficiale del Governo del Sud, Aldobrando Medici Tornaquinci. All’inizio dell’aprile 1945, i piani insurrezionali della Resistenza genovese, la cui esecuzione è resa imminente dalla ripresa dell’offensiva alleata, vengono quindi ripetutamente esaminati con gli Alleati. Il loro atteggiamento, palesemente improntato a preoccupazione e diffidenza, da ricollegarsi alla tragica piega di guerra civile e antibritannica che andava assumendo in quei mesi la Resistenza in Grecia, si scontra con l’ostinazione dei partigiani a non farsi tagliare fuori, dopo oltre venti mesi di lotta e sacrifici, dalla liberazione del proprio territorio. Intorno al 10 aprile si raggiunge una mediazione accettabile per tutti: le formazioni partigiane dell’entroterra avrebbero impedito il transito delle forze naziste lungo le direttrici viarie transappenniniche e protetto l’insurrezione cittadina, condotta dalle Sap e da aliquote ridotte delle unità montagna, le così dette ‘brigate volanti’, che dovevano evitare la distruzione degli impianti produttivi e del porto e garantire l’ordine pubblico in attesa dell’arrivo degli Alleati. Prima che giunga il giorno cruciale dell’insurrezione, che rimane ancora indefinito, altri attori entrano in scena allo scopo di realizzare la soluzione alternativa del negoziato e della mediazione. Si costituisce in sostanza un ‘partito della trattativa’ che contrasta attivamente il ‘partito dell’insurrezione’ e cerca di corroderne la fermezza dei propositi. Principali esecutori della linea della mediazione sono: la Curia, nelle persone del cardinale Pietro Boetto e del vescovo ausiliare Giuseppe Siri, che, per le ragioni già evidenziate, avevano stretti rapporti con i tedeschi e con le autorità civili e militari della Repubblica sociale nonché solidi legami con gli esponenti 3 democristiani all’interno del Cln, del Comando militare regionale unificato e del Comando Piazza. L’obiettivo delle gerarchie ecclesiastiche è evitare distruzioni e ulteriori sacrifici di vite umane, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza, e scongiurare il pericolo che l’insurrezione sfoci in disordini sociali fomentati dai comunisti. Gli interlocutori della Curia genovese sono il consolato tedesco, nelle persone del console Hasso von Etzdorf e del vice console Alfred Schmid, e il generale Gunther Meinhold, comandante delle forze tedesche nel genovesato. Lo scenario di fondo in cui acquista spazio d’azione la soluzione negoziale è dato dalla proposta avanzata, nel marzo 1945, dai tedeschi agli Alleati di un accordo (l’operazione Sunrise secondo la definizione americana) che in cambio della rinuncia alle programmate distruzioni di impianti industriali e infrastrutture logistiche doveva consentire l’evacuazione indisturbata delle truppe germaniche verso i passi alpini, evitando così l’insurrezione delle città del nord Italia sotto la guida delle forze resistenziali. Per quanto negata nei fatti dalla ripresa dell’offensiva angloamericana dell’inizio di aprile, è verosimile ritenere che i termini dell’operazione Sunrise fossero noti sia ai rappresentanti diplomatici tedeschi presenti a Genova sia al generale Meinhold, la cui determinazione a combattere può esserne stata negativamente influenzata. Nei circa dieci giorni che precedono l’insurrezione, i soggetti precedentemente elencati tessono una fittissima trama di contatti, il cui complesso intreccio è stato minuziosamente ricostruito dalle memorie dei protagonisti, il cui fine è ottenere che il movimento resistenziale assista senza intervenire alle procedure di evacuazione dei tedeschi dalla città, che avrebbero richiesto una tregua di almeno tre o quattro giorni. Il Cln ligure e gli organismi militari che vi fanno capo, in pieno accordo con il Clnai e con l’orientamento degli Alleati, non attenuano però la fermezza nel richiedere la resa incondizionata al cui scopo vengono tenuti aperti i contatti con il generale Meinhold. La data dell’insurrezione è, come si diceva, da definirsi: sarà la partenza dei primi convogli tedeschi e delle autorità della Rsi, nella giornata del 23 aprile, a far precipitare gli eventi. Mentre il ‘partito della trattativa’ gioca freneticamente le sue ultime carte, il ‘partito dell’insurrezione’ decide di bruciare i tempi e passare all’azione, anche se il livello militare e quello politico della Resistenza opereranno con tempi non perfettamente coincidenti. La mattina del 23 aprile il vescovo Siri informa P. Emilio Taviani, rappresentante della Democrazia cristiana in seno al Cln, dell’evolversi delle trattative con i tedeschi ed egli interpella il Cln e il Comando militare unificato, riuniti in seduta continua dalle 20,30 della stessa giornata, in merito all’ipotesi di uno sgombero delle forze tedesche senza spargimento di sangue. La discussione, condotta in assenza della rappresentanza del Partito comunista, che raggiungerà la sede della riunione solo nelle prime ore del mattino del 24, è lunga e sofferta perché i dirigenti della Resistenza, pur decisi a contrastare in armi la ritirata dei tedeschi e ad ottenerne la resa, non trovano l’accordo in relazione all’opportunità tattica di passare subito all’azione. Il senso di responsabilità induce infatti a non sottovalutare l’enorme superiorità delle forze nemiche (il rapporto numerico tra queste e i partigiani è di circa 7 a 1), dotate di artiglieria pesante e di armamenti la cui entità non è neppure comparabile con quella a disposizione degli insorti, e a paventare la possibilità che si verifichi un bagno di sangue che avrebbe coinvolto sia i partigiani ma anche, e soprattutto, la popolazione civile. Soltanto all’alba del 24 aprile, a maggioranza e non all’unanimità secondo la prassi normalmente adottata, viene deciso di stilare un manifesto in cui si incita la popolazione all’insurrezione e le unità combattenti ad entrare immediatamente in azione. L’importanza della decisione del Cln è da individuarsi nella ratifica politica e unitaria dell’insurrezione piuttosto che nell’ordine di avvio delle operazioni, dato che, al momento del proclama ciellenistico, il moto insurrezionale è già in atto da alcune ore nel ponente cittadino ove è localizzato l’intero apparato delle fabbriche genovesi. A partire dall’inverno 1943, la popolazione operaia di questi quartieri ha dato vita, in un complesso rapporto di ‘sintonia variabile’, cioè con ampi spazi di iniziativa autonoma, con il lavoro politico e organizzativo compiuto faticosamente dal Partito comunista, a frequenti scioperi ed episodi di insubordinazione, segno manifesto del rifiuto si sottomettersi alla disciplina imposta dal sistema di potere dell’occupante nazista e anche della negazione del consenso ai progetti di socializzazione proposti dal fascismo repubblicano. Dall’estate del 1944 le lotte operaie, in seguito a drammatici episodi di deportazione in massa di lavoratori in Germania (nel giugno erano stati catturati e deportati, con l’attiva collaborazione delle autorità fasciste, oltre 1500 operai), si vanno sempre più collegando agli obiettivi e alle scadenze della Resistenza. Nei distretti urbani del ponente, la partenza dei tedeschi aveva indotto i responsabili delle Sap a cogliere il momento propizio attaccando subito senza attendere, secondo quanto previsto dalla linea voluta dalla dirigenza del Partito comunista e accettata, pur con molte discussioni, dal Cln nelle 4 riunioni del 20 e 22 aprile, la proclamazione dello sciopero generale insurrezionale. Quest’ultimo infatti, a giudizio dei capi comunisti delle Sap, che già da alcuni giorni avevano aperto un duro confronto con i colleghi della federazione del Partito, sarebbe stato non solo tardivo, in quanto previsto non prima del 25-27 aprile, ma anche inutile e dannoso in quanto avrebbe messo sull’avviso i tedeschi, annullando i vantaggi dell’effetto sorpresa. La sera del 23, le Sap delle delegazioni del ponente occupano i presidi militari tedeschi e fascisti, che si arrendono senza quasi opporre resistenza. Si impossessano anche degli impianti produttivi, scongiurandone così il danneggiamento, e, obiettivo d’importanza non meno cruciale, delle stazioni della ferrovia, rendendone così impossibile l’utilizzo da parte dei nemici. Fin dalle prime battute gli insorti vengono affiancati dai cittadini: sulla partecipazione spontanea della popolazione civile, equipaggiata alla meglio con le armi tolte ai nemici, merita soffermarsi brevemente. Il protagonismo popolare gioca un ruolo importante, non solo dal punto di vista del riscatto dalla passività e sottomissione dimostrata negli anni del fascismo, ma anche in quanto accresce, con entità che non va sopravalutata ma che è certamente più consistente di quanto previsto dai piani, la forza d’urto dell’insurrezione. Spontaneità e regia del movimento resistenziale non si integrano però in modo lineare: l’atmosfera inevitabilmente confusa e convulsa dei giorni dell’epilogo della guerra, l’afflusso di un numero elevato di partigiani dell’ultim’ora che alterano la fisionomia delle formazioni resistenziali aprono ampi spazi al dilagare difficilmente controllabile della giustizia sommaria, della rappresaglie arbitrarie contro i fascisti o chi ha collaborato o simpatizzato con essi. La fase dell’epurazione indiscriminata non risparmia né Genova né l’Italia ed è comune ad altri paesi europei, come il Belgio e la Francia, dove la resa dei conti con tra Resistenza e collaborazionisti raggiunge cifre elevatissime. Del resto il Clnai e il Cln ligure sono ben consapevoli dei pericoli e delle difficoltà di contenere l’isteria collettiva e le illegittime esecuzioni. Il tema della violenza insurrezionale e postinsurrezionale, oggetto di aspre polemiche antiresistenziali che hanno pressoché ignorato gli apporti conoscitivi e interpretativi forniti dalla storiografia, rimane, nel caso di Genova, ancora tutto da studiare. In questa sede ci limitiamo quindi a farne cenno sottolineando la necessità di inquadrare gli eventi di questa natura nel clima di violenza estrema determinato dalla guerra e nella domanda collettiva di vendetta alimentata dalla pratica quotidiana di torture ed efferatezze inimmaginabili perpetrate dai nazifascisti negli anni dell’occupazione. Tornando allo svolgersi delle vicende, il giorno 24 l’insurrezione, forte ormai dell’avallo del Cln, si dispiega e i combattimenti divampano anche nel centro e nella parte orientale della città. Entro la serata vengono interrotte le comunicazioni telefoniche e precluse ai tedeschi, grazie all’entrata in azione delle formazioni di montagna, tutte le comunicazioni stradali e ferroviarie potenzialmente utilizzabili per il ripiegamento verso il nord. Le situazione sembra però volgere al peggio quando un emissario delle forze tedesche informa la Resistenza dell’intenzione di bombardare la città se non fosse stato loro concesso il transito verso la pianura Padana. A questa minaccia il Cln comunica che avrebbe risposto passando per le armi come criminali di guerra tutti i prigionieri tedeschi, il cui numero assommava ormai a circa un migliaio. Il generale Meinhold, convintosi dell’inutilità di tentare di forzare il blocco partigiano con gli Alleati ormai nelle vicinanze della città, chiede, la sera del 24, di incontrarsi con il Cln. Di fronte alla piega degli eventi il ‘partito della trattativa’ si dissolve: anche la Curia prende atto che la resa incondizionata è ormai l’unica soluzione possibile e dà il suo apporto per tradurla in realtà. Il 25 aprile il generale, raggiunto nel suo quartier generale da emissari della Resistenza che lo scortano fino in città, incontra i rappresentanti del Cln a villa Migone, residenza del cardinale Boetto dove, in assenza dell’alto prelato che benedice gli astanti e si congeda, iniziano le discussioni per la resa che viene firmata in serata. Conseguentemente Meinhold ingiunge ai suoi reparti di consegnare le armi. Reparti della Kriegsmarine, comandata dal capitano di vascello Max Berninghaus, condannano a morte Meinhold e sconfessano la capitolazione rifiutando di arrendersi ai partigiani: i combattimenti si protraggono quindi fino a tutto il 26 quando, in serata, cominciano ad arrivare le avanguardie delle truppe alleate che entrano in città la mattina del 27. Al generale Almond che le comanda non rimane che constatare la totale infondatezza dei timori in merito a possibili velleità eversive della Resistenza che, in piena coerenza con le scelte di libertà e democrazia unitariamente assunte e tenacemente mantenute, ha provveduto ad insediare i vertici del governo locale e garantito lo sbocco democratico dell’insurrezione. A ‘wonderful job’, uno ‘splendido lavoro’ così gli ufficiali delle missioni alleate presenti nella VI zona e partecipanti in prima persona alle vicende, hanno definito la liberazione di Genova. Si tratta di una definizione ‘a caldo’, formulata nelle stesse ore in cui si compiono i fatti: oggi, con il 5 supporto dell’esame critico che la storiografia ha compiuto nei sessant’anni trascorsi da allora, questa definizione mantiene in pieno la sua validità. La presenza concomitante di condizioni favorevoli da ricondursi alla dimensione mondiale della guerra, in primo luogo il rapido avanzare degli Alleati e il collasso della volontà di combattere dei tedeschi, nulla toglie all’apprezzamento del grande successo realizzato dalla Resistenza con l’insurrezione e liberazione di Genova che resta una pagina fondamentale della storia della nostra città e del nostro paese. Bibliografia Aga Rossi Sitzia E., Smith B. F., La resa tedesca in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980 Antonini S., La Liguria di Salò. 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