Silvia di Natale, L’ombra del cerro da 1943 Due ufficiali tedeschi al poggio dei Tre Vescovi Il poggio che si affaccia sulle valli di tre fiumi – il Tevere, che sgorga proprio di fronte, sopra il paese delle Balze, e poi prosegue verso sud-ovest; il Senatello, che nasce poco sotto e poi scorre a est fino a raggiungere più in basso il Marecchia, e quest’ultimo, che esce da una roccia dietro il poggio, si scava una strada a meandri nel bosco, poi curva verso est e raggiunge, allargandosi e impigrendosi, l’Adriatico – prende il suo nome dall’incontro dei tre vescovi di Sarsina, Sansepolcro e Pennabilli. Forse i vescovi non si incontrarono davvero, mandarono invece dei servi a segnare con pietre o paletti il confine tra i loro vescovati: un tanto di boschi, pascoli, prati e villaggi a ognuno, un tanto di legname, foraggi, grano e bestie a ogni vescovato. Forse, chissà, misero anche delle guardie a controllare che nessuno sbandasse, né pecore, né bovi, né contadini, a piedi o con tregge. In quanto a contrabbandieri e banditi, che da sempre si incontravano e scontravano nei pressi del poggio dei Tre Vescovi, non bastarono né i puntelli dei vescovi né le steli poste ai confini del papato – a poca distanza dal poggio si incontravano infatti il Granducato di Toscana e lo stato della Chiesa – a fermarli: andavano per la loro strada, come i fiumi, scendendo fra i boschi attraverso forre e calanchi, saltando tra i sassi e le rocce, presenti e distanti da sempre. Il 23 ottobre 1943, nel primo pomeriggio, due automobili militari tedesche accompagnate da una scorta di motociclette salivano per la strada che da Pratieghi porta alle Balze. Sul poggio dei Tre Vescovi si arrestarono. L’autista della prima vettura scese e aprì la portiera. Ne uscì un ufficiale nell’uniforme grigioverde della Wehrmacht – la temperatura ancora tiepida non rendeva necessario il cappotto militare. Subito lo raggiunse un uomo più giovane, alto e ossuto, in uniforme bruna. Sull’avambraccio sinistro portava una fascetta ugualmente bruna, ma più chiara della divisa, su cui risaltava la croce uncinata; solo da vicino si notavano le scritte che le facevano da cornice: “Org. Todt”, in canutiglia d’argento, sopra e sotto, in filo rosso filettato d’argento, Bauwesen. Fecero insieme qualche passo verso il crinale che separava la valle del Senatello da quella del Tevere. Alberi e cespugli variavano dal giallo al rosso ruggine, macchie di rose canine punteggiavano di bacche i pendii da entrambi i lati. Di fronte, al di là del rettilineo che congiungeva le ultime propaggini dell’Alpe della Luna al Fumaiolo, si disegnava nitido il piccolo paese delle Balze, a ridosso delle rocce da cui prende il nome. “Wo sind wir?” chiese l’uomo più giovane, l’ingegner Karl Witt, comandante della OT. Sovrastava di un palmo il colonnello. “Am Arsch der Welt,” rispose l’altro, Herbert Herder, colonnello del 413° reggimento del genio della difesa. Si aggiustò gli occhiali sul naso e aprì la carta. Rimasero entrambi a fissare alternativamente carta e paesaggio; il colonnello faceva scorrere un dito corto e grassoccio e il maggiore, leggermente curvo alle sue spalle, ne seguiva attento il percorso raddrizzandosi di tanto in tanto per osservare le traiettorie nell’aria, da un fiume all’altro, da una valle all’altra. Finché il dito rimase immobile, puntato sulla chioma del cerro che dominava il pendio coperto a prato, a sinistra del poggio. L’ombra a quell’ora si apriva a ventaglio intorno al tronco possente. “Questa è la linea,” disse il colonnello con il braccio ancora sospeso nell’aria. “Passa più o meno lì, dove c’è l’albero.” L’ingegner Witt rimase in silenzio, a contemplare il tracciato invisibile. “E da che parte sta l’ombra?” chiese poi con un sorriso impercettibile. “Dalla nostra,” rispose secco il colonnello. “Questo punto,” proseguì poi indicando la valle del Tevere a sinistra, “è il più difficile di tutto il tratto. Sarà necessaria la costruzione di una teleferica, essenzialmente per il trasporto del legname: la zona dall’altra parte è tutta foresta, abeti bianchi, pini, castagni, legno da costruzione. Da lì ci arriveranno anche munizioni e rifornimenti, dato che dietro il monte di fronte, il Fumaiolo, passa la strada principale, che congiunge Cesena alla Toscana. Qui.” Indicò il punto sulla carta. “Questo tratto della Linea Gotica è di particolare importanza: si prevede infatti che il nemico, se non si riuscirà a fermarlo prima, ci attaccherà da questa parte, supponendo che sia il fianco più debole. Come di fatto, per il momento, è.” “Dunque, una teleferica...” “Alle modalità si penserà poi. Ci tenevo intanto a informarla sui risultati delle perizie che mettono in luce la debolezza di questo tratto della fortificazione. I lavori dalla parte tirrenica procedono bene, sulla costa adriatica anche, ma il tratto centrale è ancora del tutto sguarnito. Certo, ancora c’è tempo e abbiamo di fronte l’inverno.” “Nevica da queste parti?” “Pressoché impraticabile dalla metà di dicembre all’inizio di marzo. La neve raggiunge – e supera spesso – un’altezza di cinquanta centimetri. Dunque fino alla prossima primavera non se ne parla.” Silenzio. Il colonnello aveva ripiegato con cura la carta, era sceso verso il cerro e, tirata fuori la Leica, si era messo a scattare fotografie: una dalla parte della valle del Tevere, un’altra verso il Senatello, una alle spalle, la cupola dell’Alpe della Luna sullo sfondo. Tornò soddisfatto dall’ingegnere che era rimasto fermo, lo sguardo fisso verso la forra dove scorreva il Tevere, forse immaginando il percorso della futura teleferica. “Non dimentichiamo che queste zone sono tradizionalmente infestate da banditi,” ricominciò il colonnello quando fu abbastanza vicino. “Se ne contano già a centinaia. Sbandati, ex soldati dell’esercito italiano, disertori. Bisognerà pensare ai necessari rinforzi da parte di polizia e SS.” “Noi il nostro reparto di sicurezza ce l’abbiamo...” azzardò il comandante della OT. “Non basterà,” l’interruppe il colonnello risalendo in macchina. “Jawohl, Herr Oberst!” rispose Karl Witt portandosi la mano al berretto. […]