la parola della domenica Anno liturgico C omelia di don Angelo

la parola della domenica
Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella Domenica delle Palme
secondo il rito ambrosiano
24 marzo 2013
Is 52,13-53,12
Sal 87
Eb 12,1b-3
Gv 11,55-12,11
Salire a Gerusalemme e cercare Gesù. La settimana santa è attraversata da questo verbo
“cercare”. Questi sono i giorni del “cercare”. Starei per dire che sono chiamati in causa gli
occhi. I miei, i tuoi, i nostri occhi. È chiamato in causa il desiderio, il mio desiderio, il tuo, il
nostro desiderio. Il desiderio di vedere Gesù.
Saranno i giorni, lasciatemi dire, anche della risposta al cercare, della risposta al desiderio di
vedere Gesù. Lo troverai là in alto, appeso al legno. Poi caduto nella terra, la terra della
morte, come un chicco di grano. Terra di silenzio, ma anche di germinazione di vita: il chicco
di grano germoglierà. Lo vedranno le donne. Gli altri, i maschi, si fermano prima, prima della
sua ora. Secondo i vangeli sinottici, uniche, le donne, a guardare da lontano il Maestro,
appeso al legno. Scrive l’evangelista Marco: “Ora c’erano lì molte donne che osservavano
da lontano, le quali avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo, tra le quali anche Maria
Maddalena e Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo”.
L’avevano cercato sino alla fine. Solo loro a resistere sino alla fine. E ancora una di loro lo
cercherà da morto, Maria Maddalena, e lo troverà vivo, all’alba. Udrà la sua voce. Nel
giardino, presso la tomba vuota. Lo cercheranno morto le donne, portando ancora balsamo
e profumo. Loro a cercare sino alla fine, oltre la morte. Nell’assenza dei discepoli, dei
maschi.
C’è qualcosa da capire. C’è un vedere che si ferma prima, rimane alla superficie dell’evento.
C’è invece un vedere che tocca il cuore, tocca il cuore dell’evento, tocca il cuore della
Pasqua.
Perché arrivano le donne e non arrivano gli uomini? È sorprendente, si ripropone lo stesso
canovaccio nel racconto della cena di Betania. Maria, la sola che arriva al cuore. Intorno a lei
un cercare Gesù da curiosi, una fede ridotta a prurito di miracoli: “Verrà alla festa il rabbi di
Nazaret? Dicono che ha risuscitato il suo amico”. Un desiderio ridotto a curiosità. E poi alla
periferia dell’evento le chiacchiere dei maschi sul prezzo del profumo. Tutto ridotto a soldi,
un pragmatismo cieco. Non vedono la persona, rimangono alla periferia del mistero. Loro
parlano, parlano.
E c’è la donna, c’è Maria, anche lei cerca Gesù, lo cerca con il profumo. Forse Giovanni,
l’evangelista, scrivendone, ricordava l’innamorata del Cantico dei cantici, anche lei a
cercare, anche nella notte, il suo amato. A cercarlo con il profumo. Lo trova e lo riperde.
Come noi il Signore: lo troviamo e lo riperdiamo. E siamo qui anche quest’anno a cercarlo.
Nel racconto della cena al centro Maria e Gesù e il silenzio della donna. Intorno chiacchiere
e parole vuote: La donna? Neppure una parola, gli occhi e un gesto. C’è silenzio. Ci sarà
silenzio? In questi giorni? Anche nelle chiese? Sempre mi emoziona, ve lo confesso, il
silenzio del venerdì santo, quando vedo entrare uomini e donne, bambini e giovani, adulti e
anziani e andare in silenzio a baciare il Crocifisso. È come se rivedessi il gesto del profumo.
Anche le chiese più gelide ritrovano il profumo. Mi sembra allora di rivivere il cuore della
cena di Betania: non una parola, quegli occhi, gli occhi di Maria, fissi e perduti nel profeta di
Nazaret, nell’amico e quel gesto spontaneo, vivo, vivo come il suo cuore, come la sua carne.
Fuori da ogni calcolo.
Voi mi avete capito, non si arriva al segreto di Gesù, al segreto della Pasqua, se non ci si
purifica da questa malattia del calcolo, che tutto ammorba. Questo misurare tutto sul metro
del rendimento, dell’efficacia, dell’interesse ha spento tante cose nel nostro mondo e
spegne, anche se non lo si avverte, anche la fede. Ha spento troppe cose, ha spento la
spontaneità, la poesia, la freschezza, la follia dell’amore. Ha spento la contemplazione, ha
spento la relazione, la bellezza gratuita della relazione, la gioia dell’esserci, gli uni per gli
altri, semplicemente nell’esserci, non per altro. La gioia di essere finalmente umani. Questo il
profumo che allontana tanto cattivo odore di morte in noi e sulla terra.
La donna con il suo balsamo profumò il Signore Ma tu glielo leggi negli occhi che con quel
gesto vuol dire a tutti noi che il vero profumo è lui. Nessuno come lui lontano da ogni ombra
di calcolo. Vaso rotto, rotto dall’amore il suo corpo. E sarà profumo per tutti noi nella sua
Pasqua. Balsamo buono per tutti noi.
Questo è uno dei significati dell’ulivo che oggi prendiamo. E lo sottolineava già sul finire del
quarto secolo S. Ambrogio. Così alla sua comunità spiegava il significato della processione
con gli ulivi. Diceva: “L’ulivo è simbolo delle opere di misericordia, dal suo frutto infatti si
estrae l’olio, balsamo nel dolore, nella stanchezza, medicamento per le ferite, ristoro per le
membra affaticate. Portiamo dunque i ramoscelli d’ulivo comportandoci da persone piene di
misericordia”.
Ecco l’impegno dunque: se uno è stanco, tu sei balsamo con il tuo aiuto; se uno è triste, tu
sei balsamo con la tua tenerezza; se uno è deluso e sfiduciato, tu sei balsamo con il tuo
incoraggiamento; se uno è solo e abbattuto tu sei balsamo con la tua vicinanza. Sei balsamo
e profumo buono. Sei, come scrive S. Paolo ai cristiani di Corinto, il buon profumo di Cristo,
il buon profumo di Cristo nel mondo.
La Pasqua legata al profumo. Un testo della tradizione rabbinica racconta:
Quando ogni famiglia ebrea
ebbe arrostito sul fuoco l’agnello
Dio chiamò i quattro venti che soffiavano in Eden.
E ordinò. “Soffiate
verso oriente e verso occidente
verso mezzogiorno e verso settentrione”.
Essi soffiarono e il profumo della Pasqua
si sparse su tutta la terra.
Domandarono i popoli della terra:
“Che cos’è questo buon profumo?”
Risposero gli angeli: “È Israele
che prepara la salvezza per tutta la terra”
Essere il profumo della Pasqua con la tenerezza di Maria. Tenerezza, una parola che
sembrava cancellata da discorsi e da documenti di papi e di vescovi e che si è
improvvisamente riaccesa nelle parole di Papa Francesco. Per ben sei volte nel suo
discorso di inizio pontificato, con un invito ben due volte a non averne paura. Diceva: “Non
dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza! E qui aggiungo allora
un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto
con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso,
lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole,
anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera
apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!”. Non
dobbiamo aver timore!
Per la riflessione
Che cosa può riaccendere la relazione, la bellezza gratuita della relazione, la gioia
dell’esserc, gli uni per gli altri, semplicemente nell’esserci, non per altro, la gioia di essere
finalmente umani?