ILARIA TADDEI
Curatrice della mostra
Vittorio Matteo Corcos.
Tra affetti domestici e sentimenti segreti, atmosfere quotidiane e riti mondani *
È nelle brevi risposte vergate con grafia chiara ed elegante nel Libro delle confessioni ricevuto in dono nel 1900 da Ada
Rotigliano, figlia di primo letto della moglie di Vittorio Matteo Corcos, da parte dello scolopio Ermenegildo Pistelli, che si
rivela la personalità del pittore, ormai a quella data affermato. Quelle semplici domande, alle quali anche Marcel Proust
giovanetto aveva a sua volta risposto, tanto che ancora oggi questo tipo di questionario prende nome dall’autore della
Recherche, avevano il pregio di mettere a nudo in poche battute chi era sottoposto a quel fuoco di fila di quesiti tanto
ingenui quanto rivelatori. L’uomo e l’artista sono racchiusi lì, oltre naturalmente che nelle epistole o negli articoli apparsi
sui giornali del tempo («Il Marzocco» piuttosto che sul «Fanfulla della Domenica») o ancora in una raccolta di racconti.
Così all’inizio del nuovo secolo Corcos si dice un uomo soddisfatto di vivere nel proprio tempo, si definisce di
temperamento sereno, ritiene la sua dote l’indifferenza, il suo difetto la modestia, non pratica alcun esercizio fisico,
preferisce il mare alla montagna, la vita in città a quella in campagna. La sua occupazione prediletta è «magari il
dipingere», ove quell’interiezione esprime il carattere bonariamente scherzoso dell’artista, tanto che il suo desiderio più
grande sarebbe quello di riposarsi. Quanto ai suoi gusti letterari e artistici dichiara che è il Vangelo il libro che su di lui ha
fatto maggiore impressione, mentre il poeta è senza dubbio Dante, il prosatore Edmond de Goncourt, il pittore Pascal
Adolphe Jean Dagnan-Bouveret, gli scultori sono i greci e il personaggio storico Michelangelo. Allora, questa
confessione apertis verbis può davvero funzionare da viatico per comprenderlo ancora più a fondo di quanto avvenne
con la rassegna dei suoi dipinti organizzata a Livorno da Dario Durbè nel 1965 quando era ancora viva la figlia adorata
Memmi, oppure nel 1997, sempre nella città labronica con un breve seguito a Firenze, nell’esposizione in cui per la
prima volta si tentava, da parte della sottoscritta, di leggere in modo storico-critico il suo percorso e, infine, in due
occasioni con altrettante sezioni5 dedicate a fianco di altri pittori, seppure non siano mancati anche brevi saggi o una
scarna rappresentanza dei suoi dipinti in altre mostre, oltre alla comparsa peraltro frequente sul mercato internazionale
con quotazioni di tutto rispetto.
Livorno, Firenze, Napoli: gli anni della formazione
Vittorio Matteo era nato a Livorno il 4 ottobre di quel fatidico 1859, quando il granduca di Toscana Leopoldo ii aveva
scelto la via dell’esilio il 27 aprile e la seconda guerra d’indipendenza aveva visto la vittoria delle truppe piemontesi
alleate con quelle francesi di Napoleone iii sul nemico austriaco. Dunque il nome scelto dai suoi genitori fu, come per
molti della sua generazione, Vittorio in onore del re sabaudo; Matteo invece si chiamava il nonno paterno. Isach Corcos
e Giuditta Baquis, lui negoziante, lei atta a casa, come risulta dal certificato di matrimonio del 1856, appartenevano alla
comunità ebraica di Livorno, unica città in Italia a non avere un ghetto. Abitavano in quella che allora si chiamava via
Vecchia di Montenero, oggi via Enrico Mayer, non troppo lontano dalla sinagoga. Come molti ebrei evidentemente
anche i Corcos avevano percepito sempre più stretto il nesso tra emancipazione e unità nazionale sotto l’egida della
dinastia sabauda.
Vittorio Matteo, non ostacolato dal padre, il che non era poi così scontato essendo egli per di più di religione israelitica,
cominciò prendendo lezioni da Giuseppe Baldini, di ardenti sentimenti patriottici e presenza di un qualche significato
nella cultura figurativa locale visto che nella sua scuola d’arte passarono prima, all’inizio degli anni quaranta, Giovanni
Fattori e poi, una decina d’anni dopo, Renato Fucini. Per continuare la propria educazione artistica, il 23 novembre
1875, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti a Firenze, dove ebbe l’opportunità, seppure per pochissimo tempo, di
frequentare Enrico Pollastrini, altro livornese, e proseguire fino alla primavera del 1878 i corsi, vincendo anche una
medaglia d’argento. A quel tempo risalgono la sua amicizia con Italo Nunes Vais, suo coetaneo correligionario, e
l’incontro con Michele Gordigiani, conosciuto fino ad allora soltanto attraverso i ritratti dei livornesi De Larderel. Per
completare gli studi però sentiva forte la necessità di raggiungere Napoli, che voleva dire soprattutto entrare in contatto
con Domenico Morelli e la sua pittura fatta di «straordinarie facoltà d’invenzione e cogli ardimenti meravigliosi». Insieme
al cesenate Anselmo Gianfanti, già suo compagno a Firenze, grazie a una borsa di studio del Comune di Livorno, poté
compiere il viaggio nella città partenopea, ove l’Accademia di Belle Arti era appena stata riformata. Tra le carte
conservate ancora oggi presso quell’istituto si trovano ben tre missive nelle quali Corcos insiste per ricevere notizie sul
programma e l’ammissione, fin quando, con una lettera di presentazione di Giuseppe Ciaranfi, subentrato a Pollastrini
nella direzione dell’Accademia fiorentina, e con un certificato della stessa scuola, il 1 dicembre 1878 venne ammesso a
seguire il corso di disegno da modelli in rilievo di gesso, direttore da quell’anno Filippo Palizzi e tra gli insegnanti lo
scultore Stanislao Lista, con il quale stabilì un rapporto amichevole. Le tappe furono poi superate brillantemente per «la
lodevole assiduità e il moltissimo profitto», nonché «una condotta irreprensibile»: dalla seconda alla terza classe nel giro
dei primi tre mesi del 1879, una medaglia d’argento per il disegno dalla statua nuda e panneggiata nel concorso a premi
di incoraggiamento di quell’anno; cosicché, dopo l’ulteriore promozione il 30 marzo 1880 alle scuole della prima sezione
di pittura, completò il ciclo tanto «da meritare la soddisfazione del Consiglio Direttivo». A testimonianza di quel periodo
segnato per Corcos dalla forte personalità artistica di Morelli, che contribuì ad allargare le sue conoscenze anche in
campo musicale e letterario, è conservato nel Museo di Capodimonte l’Arabo in preghiera acquistato dal re Umberto i
alla Promotrice Salvator Rosa organizzata proprio nelle sale della medesima Accademia nell’aprile 1880. Fu grazie a
quella vendita che partì, su spinta anche dello scultore polacco Ciprian Godebski, che aveva avuto modo di ammirare
l’opera del promettente artista, alla volta di Parigi, non senza aver prima fatto rientro a casa portando con sé il Boia, un
dipinto decisamente morelliano per quanto descritto soltanto da Giovanni Targioni Tozzetti, e aver raffigurato su una
piccola tavoletta il porto della sua città secondo modi invece toscani.
Parigi: alla ricerca di nuovi stimoli e del successo
La grande avventura parigina iniziò nell’autunno del 1880, «in una cameretta di pochi metri quadrati» a Vaugirard, allora
in periferia, con poche lire in tasca. Il ventunenne non era comunque tipo da spaventarsi: dipinse ventagli come aveva
visto fare da Dalbono, si mise a ornare copertine di spartiti musicali vendendole in rue Vivienne all’editore Heugel che lo
aveva scambiato per il già noto Michetti e Corcos ne aveva astutamente approfittato. Decise poi, senza nemmeno un
biglietto, di presentarsi a Giuseppe De Nittis, avendo oltretutto la fortuna che quel cordiale artista si confondesse
pensando di averlo già conosciuto in un famoso pranzo a Mergellina nel 1879. Così la carriera artistica, come
confesserà lo stesso Corcos a Ugo Ojetti in un’intervista del 1907, cominciò con due bugie. L’incontro fu determinante:
da un lato infatti offrì a Corcos l’opportunità di entrare in contatto con la Maison Goupil, dall’altro significò la possibilità di
conoscere nel salotto di Peppino e Titine di rue Viète nell’elegante quartiere Monceau, insieme a Degas, Manet e
Caillebotte, Zola, Edmond de Goncourt – il suo prosatore preferito come scriverà nel 1900 –, Daudet, ovvero gli
esponenti del romanzo naturalista.
In effetti fu proprio De Nittis a far conoscere a Corcos la modella che posò per Les pensionnaires à l’eglise, il primo
dipinto, come ricordava l’artista, venduto a Goupil, così descritto dalla figlia Memmi (che salvò dal saccheggio bellico
della villa di Castiglioncello soltanto qualche fotografia e pochissimi stralci del diario, perduta in toto invece la
corrispondenza di quegli anni parigini): due educande in grigio con grandi fiocchi azzurri e una suora vestita di nero
nell’angolo di una navata di Nôtre Dame. Si potrebbe con tutta probabilità identificare con Jeunes filles en prière
acquistato appunto da Goupil il 1 febbraio 1881 e due giorni dopo venduto a un conte portoghese. Se non altro la data
segna l’inizio dei rapporti con il mercante, dall’innegabile fiuto, Adolphe Goupil, con il quale il pittore sottoscrisse un
contratto della durata di quindici anni fino al 1896, ben oltre quindi il suo rientro in Italia avvenuto nel 1886. Un contratto
che gli permise una relativa tranquillità economica e ne decretò il successo, poiché l’impero di Goupil fondava la sua
forza commerciale non soltanto sulla vendita delle opere, ma soprattutto, e questo fin dal momento della sua fondazione
nel 1829, sull’attività editoriale che consisteva nella riproduzione dei dipinti degli artisti della sua scuderia nelle riviste,
nonché nella stampa dei medesimi in numerosissimi esemplari e in vari formati, distribuiti a prezzi diversificati per
soddisfare le esigenze di un’ampia clientela.
Padova, 5 settembre 2014
* Estratto dal testo in catalogo Marsilio editori