APPUNTI DI ANTROPOLOGIA AA 2007/2008 -P.I Per antropologia si intende lo studio della natura,della società e del passato dell’uomo (greenwood e stini,1977). É la disciplina che ha come scopo quello di descrivere, nei termini più ampi possibili il significato di essere “uomo”. Le “discipline etno-antropologiche si occupano dell'uomo in quanto homo-faber o tool maker ossia come produttore/consumatore di cultura”. LE “Antropologie” ANTROPOLOGIA BIOLOGICA o FISICA Paleoantropologia Biologia e variazione umana Primatologia Paleopatologia ANTROPOLOGIA CULTURALE Parentela e organizzazione sociale Vita materiale e tecnologia Sussistenza e economia Visione del mondo ARCHEOLOGIA Preistorica Storica ANTROPOLOGIA LINGUISTICA Linguistica descrittiva Linguistica comparativa Linguistica storica ANTROPOLOGIA APPLICATA Medica Dello sviluppo Urbana LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGIA È: • OLISTICA: in quanto integra tutte le conoscenze sugli esseri umani e le loro attività nella coralità delle loro espressioni • COMPARATIVA: valuta le somiglianze e le differenze esistenti tra tutti i nuclei sociali prima di formulare concetti generali su natura, società e passato dell’uomo.Per questo motivo l’Antropologia prende in esame anche l’evoluzione biologica della specie nel tempo, studiando le origini dell’uomo, la varietà e il patrimonio genetico delle popolazioni viventi. • EVOLUZIONISTICA: partendo dal presupposto che per evoluzione si intende in senso lato ogni cambiamento biologico, culturale e sociale che l’uomo ha vissuto dalla preistoria a oggi, l’antropologia ha stabilito quelle sostanziali differenze esistenti tra l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale. FONDAMENTI DI ANTROPOLOGIA BIOLOGICA o FISICA -LA STORIAÈ quella branca dell’Antropologia che si può definire più antica.L’Antropologo fisico rivolge il suo interesse verso l’Uomo come organismo biologico al fine di individuare lo differenziano dagli altri organismi viventi e che cosa, invece, lo rende simile al resto del regno animale.Nasce nel XIX secolo sulla spinta delle esplorazioni nelle varie parti del mondo in seguito alle quali gli antropologi fisici hanno iniziato a approntare una serie di metodiche atte a misurare i differenti caratteri osservabili nelle varie popolazioni umane incontrate comprendenti il colore della pelle, il tipo di capigliatura, la biotipologia etc. .Lo scopo di tali analisi era quello di suddividere tutte le popolazioni presenti sulla terra, attraverso una classificazione accurata, in RAZZE e cioè un raggruppamento sociale che presumeva l’esistenza di differenze biologiche. L’effetto negativo di tale assunto fu il dilagare del Razzismo tant’è che nel XX secolo alcuni Antropologi e Biologi arrivarono alla conclusione che il termine “RAZZA” non rifletteva un “fatto di natura” ma era invece una “etichetta culturale” (Boas e seg.) FONDAMENTI DI ANTROPOLOGIA BIOLOGICA o FISICA -OGGI- Viene totalmente abbandonato il concetto di RAZZA per individuare i modelli di variazione all’interno della specie umana nel suo insieme.In tale contesto si aprono ulteriori scenari di ricerca tra cui: •la PRIMATOLOGIA: lo studio dei “parenti più stretti” dell’Uomo •la PALEOANTROPOLOGIA: disciplina scientifica che studia i reperti fossili dei più antichi antenati dell’Uomo •la PALEOPATOLOGIA: scienza che studia le malattie di un passato più o meno remoto attraverso l’esame diretto dei resti umani antichi, scheletrici o mummificati utilizzando moderne metodiche di indagine clinica. FONDAMENTI DI ANTROPOLOGIA LINGUISTICA Innanzitutto è necessario stabilire che cosa è il LINGUAGGIO: “un sistema di simboli vocali arbitrari che l’uomo usa per codificare la sua esperienza del mondo e degli altri”.Il linguaggio serve per parlare di tutte le aree della vita sia materiali sia spirituali divenendo il veicolo principale di importanti informazioni culturali In tale contesto l’Antropologia Linguistica si pone come obiettivo quello di comprendere il linguaggio in rapporto ai più ampi contesti culturali, storici e biologici che lo rendono possibile. FONDAMENTI DI ANTROPOLOGIA CULTURALE L’Antropologia Culturale, chiamata anche antropologia socioculturale- antropologia sociale o etnologia, è quell’ambito dell’Antropologia che mostra come la variazione nei comportamenti e nelle credenze dei diversi gruppi umani sia frutto di idee e comportamenti appresi dagli esseri umani in quanto membri della società. Gli Antropologi Culturali tendono a specializzarsi nei vari aspetti della “cultura” che vanno dagli aspetti economici, politici fino a quelli religiosi. Il lavoro degli Antropologi Culturali consiste nel raccogliere i dati vivendo per lunghi periodi a stretto contatto con chi parla la lingua o pratica il modo di vita che loro interessa.Tale periodo di studio prende il nome di RICERCA SUL CAMPO.Per acquisire i dati si avvalgono di “persone del luogo” di particolare cultura che vengono chiamati INFORMATORI (oggi indicati per lo più con il termine di intervistati, insegnanti o amici) LA CULTURA È: “………è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dell’uomo dall’uomo come membro di una società” (Edward Burnett Tylor-1832-1917) • La cultura ci fornisce gli elementi per sopravvivere. • Non è un patrimonio elitario né, tantomeno, il risultato di una “trasmissione genetica”, bensì di un comportamento acquisito nel tempo……… LA CULTURA e L’UOMO •Ogni cultura non si riproduce in maniera asincrona nei confronti del tempo e dello spazio, ogni individuo ne è potenzialmente un fattore di variablità. •Nella valutazione del “concetto di cultura” si devono tenere conto della distinzione tra attività umane (coscienti e deliberate) e attività dipendenti dalla fisiologia dell’uomo o dai suoi processi psicologici primari i quali, in seconda istanza, si trasformano in atti culturali (ad es.:salute/alimentazione/metabolismo o il sogno, la sessualità, il dolore fisico e la malattia). All’interno del sistema medico la separazione tra “dentro” e “fuori” è difficile da individuare e inquadrare in una forma statica alienata da tutto ciò che circonda l’uomo e il suo vissuto.Tuttavia non tenere conto del “fuori” contribuisce a offrire un’immagine “fratturata” dell’uomo. ESISTE UNA “ANTROPOLOGIA DEL CORPO” Ogni società, anzi ogni epoca, ha modalità diverse di svolgere atti naturali o di avere cura del proprio corpo che agli occhi di alcuni possono sembrare “innaturali”.La malattia, il dolore…la morte assumono significati differenti a seconda del contesto sociale in cui un uomo vive. …… l’UOMO È UN “ORGANISMO BIOCULTURALE • ……grazie alla costituzione biologica retta da geni, strutture anatomiche, chimica, biochimica, fisiologia etc., rende l’uomo capace di CREARE e USARE la cultura…..che, a sua volta, diviene indispensabile per soddisfare i suoi “bisogni”. • Benchè ogni individuo, dal momento della sua nascita, può potenzialmente essere il portatore di fattori di variabilità all’interno del suo gruppo culturale, tuttavia il passaggio dalla condizione infantile a quella adulta avviene sempre attraverso un processo di selezione e di specializzazione: “noi tutti nasciamo con l’equipaggiamento adatto per vivere mille tipi di vita, ma finiamo con l’averne vissuta una sola” (Geertz, 1973) ……quella vita che è stato possibile organizzare attraverso le scelte messe a disposizione dalla vita stessa e nella cultura in cui viviamo CULTURA E CULTURE • In ambito Antropologico si identifica nel termine Cultura la capacità di creare e imitare comportamenti e idee che favoriscono la sopravvivenza della specie “in mancanza di programmazione genetica altamente specifica”. • Con il termine culture si indicano le tradizioni e i comportamenti appresi da ben definiti gruppi specifici. LA “CULTURA POPOLARE” Per Cultura Popolare intendiamo “…sistemi di pensiero, di comportamenti, d’abitudini espressi dagli ambiti sociali che sono rimasti in larga parte esclusi dalla partecipazione alla cultura egemone …” Essendo legata ad un luogo e alle persone di una determinata Regione, possiamo dire che in Italia sono presenti “tante culture popolari”. ETNOCENTRISMO…..ovvero COME NOI “VEDIAMO” GLI ALTRI Partendo dal presupposto che la cultura di una società tende, sotto alcuni aspetti, a rimanere tale da una generazione all’altra al fine di mantenere modelli di comportamento e di pensiero (trasmissione culturale), possiamo desumere che “questa cultura tramandata” sia l’unica valida e degna di essere perpetrata nel tempo.Tale atteggiamento viene chiamato: ETNOCENTRISMO “L’etnocentrismo consiste nella convinzione che i propri modelli di comportamento siano sempre normali, naturali, buoni, belli, o importanti e che gli stranieri, nella misura in cui vivono in modo diverso, si conducano secondo chemi di comportamento selvaggi, inumani, disgustosi o irrazionali.Le persone intolleranti verso le differenze culturali ignorano, di solito, il seguente fatto: se gli fosse stata trasmessa la cultura da un altro gruppo, quei modi di vivere ritenuti selvaggi, inumani, disgustosi o irrazionali ora sarebbero i loro” (Harris 1987). La consapevolezza che anche gli “altri” possiedono in modo analogo modelli in cui si identificano può essere la base su cui creare una connessione tra le nostre differenze con quelle degli altri. LA CULTURA NON PUÓ ESSERE ETNOCENTRICA È fondamentale accettare di considerare relative tutte le culture compresa la nostra! Ognuno di noi, soprattutto in queste epoche storiche, non può assumere i propri modelli come criteri assoluti di valutazione e conoscenza prendendo atto che ogni modello culturale è intrinsecamente degno di rispetto quanto tutti gli altri.Tale atteggiamento viene definito: RELATIVISMO CULTURALE MULTICULTURALITÀ - MULTICULTURALISMO Il multiculturalismo - secondo la definizione di - «descrive le caratteristiche sociali e i problemi di governance di qualsiasi società in cui convivono comunità culturali differenti che tentano di costruire una vita comune conservando, allo stesso tempo, qualcosa della loro identità “originaria” (Stuart Hall). “In senso antropologico, il concetto di multiculturalità si può sintetizzare come l’insieme delle norme e regole, dei costumi e delle abitudini, delle opere e degli artefatti di differenti società che si confrontano in un unico contesto geografico e storico.” ( tratto dalla rivista “VEGA” anno II, numero 2, agosto 2006. INTERCULTURALITÀ L’interculturalità può essere definita come un approccio sociale, di relazioni e di comunicazione, basato sulla convinzione che le diversità presenti in culture differenti dalla nostra possano rappresentare una enorme fonte di arricchimento, ma anche sull’evidenza che il confronto tra culture non necessariamente debba concludersi con il prevalere dell’una o dell’altra, ne con l’annullamento delle due per confluire in una cultura terza, nuova (concetto di transculturalità). È un progetto di interazione tra le parti. In una logica interculturale i processi di socializzazione non mirano all’integrazione delle diversità. Non si può pensare di rendere integro, di rendere uno ciò che è costitutivamente diverso. Ovvero lo si può fare, ma meglio sarebbe dire: si può tentare di farlo, cancellando, nella sua memoria, la sua diversità" (Bosi, 1998). TRANSCULTURALITÁ La lingua anglosassone connota il termine “transculturalità” assume due significati: • transculturality, il cui significato è definito come tutto ciò che si estende, passa, attraverso diverse culture; • transculturation, termine coniato da Fernando Ortiz , etnologo ed antropologo cubano, intorno alla fine degli anni ’40 allo scopo di definire lo specifico fenomeno di fusione e di convergenza di culture. Quest’ultima accezione riflette la tendenza naturale delle persone, nel tempo, a risolvere i conflitti, piuttosto che ad esacerbarli, piegando la propria ed altrui cultura verso un idem sentire, verso una cultura comune detta, appunto, “transcultura”. L’ANTROPOLOGIA APPLICATA……..UNA “VIA DI MEZZO” Questo “ramo” dell’Antropologia utilizza i dati raccolti dalle altre Aree al fine di risolvere problemi interculturali pratici.Nell’ambito sanitario (Antropologia Medica) il ricorso a peculiari concezioni culturali di salute e malattia può essere utile per introdurre nuove pratiche sanitarie pubbliche comprensibili e accettabili per i membri di un determinato nucleo sociale.In ambito agricolo contribuire a promuovere lo sviluppo delle risorse locali. IL RITO È una forma di comportamento ripetitivo che consta di una sequenza di atti, formule linguistiche, rappresentazioni visive legate a un insieme di credenze, giudizi o opinioni. Il Rito con i suoi Simboli ha funzioni psicologiche, sociali, protettive atte a drammatizzare e a risolvere conflitti latenti nel gruppo, per l’integrazione e il funzionamento della struttura sociale RITUALI-CERIMONIE-SIMBOLI Ogni comportamento sociale si muove attraverso atteggiamenti rituali e cerimoniali sia si tratti di “comunicare” con il “soprannaturale sia di evidenziare il valore sociale di una persona o di un gruppo, del loro status, ruolo, carisma, attitudini speciali etc. Il cerimoniale è quella funzione che rende efficace ogni rito La “comunicazione” del Rito si avvale simultaneamente di tutti i cinque sensi e di svariate tecniche rappresentative (canto, danza, suoni, drammatizzazione, immagini, oggetti). La moderna visione tecnicista spoglia l’Uomo della sua “fenomenologia” e lo priva di ogni significato simbolico che lo rende “rappresentazione” della Natura. “I Riti e i Simboli non sono un elemento irrazionale, solo perché non inquadrabili come mezzi per raggiungere scopi tecnologicamente orientati: sono il dispositivo concettuale che ci consente di interpretare il mondo anche quando si presenta sotto forme nuove o poco riconoscibili, e che ci permette di gettare uno sguardo su altre enciclopedie del mondo, cercando di rintracciare le interpretazioni che di esso hanno prodotto gli altri” NATURALIZZAZIONE E SACRALIZZAZIONE DEI SIMBOLI Anche i Simboli possono subire delle variazioni legate all’aspetto evolutivo della trasmissione culturale. Ogni singolo individuo può essere portatore di una modificazione di un simbolo determinandone una precarietà legata all’uso e funzione in un determinato momento storicosociale. Nonostante questo assunto nessuna società accetta che i propri Simboli siano precari e li difende circondandoli di “mistero” (sacralizzazione) oppure occultandoli nella routine quotidiana (naturalizzazione). •NATURALIZZAZIONE: i Simboli vengono nascosti nei gesti quotidiani (le buone maniere, le regole alimentari….etc. •SACRALIZZAZIONE: in questo ambito i simboli rientrano nel “mistero” e nella “sacralità” lontani, quindi, dalla vita di tutti i giorni. IL SIMBOLO Può essere definito come un oggetto, una persona o un evento al quale è stato attribuito un significato condiviso e che ha la particolarità di rappresentare qualche cosa diverso da sé. Il Simbolo fa parte della Cultura e può essere considerato come uno strumento cognitivo “che partecipa alla costruzione del sapere e al funzionamento della memoria…” (Sperber,1974) In sostanza il SIMBOLO è: •Un contenitore mnemonico plurisfacettato in cui si ritrovano valori, norme, credenze, sentimenti, ruoli e rapporti sociali; •Un mezzo per comunicare; •Un elemento fondamentale del “sapere collettivo” e del singolo individuo. L’uso dei Simboli è indispensabile nell’attuazione del Rito in quanto elementi atti a esprimere e comunicare verso terzi. IL SIMBOLO È UNO STRUMENTO DI COMUNICAZIONE SOCIALE Il Simbolo non deve essere considerato un segno linguistico retto da una sintassi che lo traduce in messaggio in quanto sarebbe estremamente riduttivo, tuttavia il Simbolo, visto anche all’interno di un rituale, è “comunicazione” anche se parziale. È la “cornice rituale” composta da persone, gesti, parole, tempi definiti e pertinenti che testimonia il fatto che si sta compiendo un “atto” con significato proprio (ad es. il tempo festivo rispetto a quello feriale, la sala parto rispetto all’ospedale, la finzione teatrale rispetto al quotidiano. La “cornice rituale” sottolinea l’indipendenza del simbolo rispetto alla verbalizzazione e, soprattutto, la variabilità culturale (vedasi ad esempio la “memoria olfattiva”:l’odore delle candele, dell’incenso, dello studio dentistico,gli odori emanati dal corpo etc.). POSSIAMO DEFINIRE L’UOMO UN “ANIMALE SIMBOLICO”? La risposta è SI in quanto “attraverso i Simboli dà continuità ad una tradizione culturale e crea continuità, elaborando nuovi simboli o trasformando quelli precedenti che si vengono ad arricchire di nuovi significati”. CATEGORIE DEI RITI • RITI DI PASSAGGIO • RITI DELLA REGALITÁ • RITI DI INVERSIONE I RITI DI PASSAGGIO RITI DI PASSAGGIO: chiamati anche RITI DI TRANSIZIONE SOCIALE si rinvengono in tutte le società. Hanno la funzione di collegare le trasformazioni del ciclo umano della vita a cambiamenti della posizione sociale all’interno della Società.I cicli fisiologici di ogni individuo sono legati a un cambiamento dello “status” sociale. Van Gennep evidenzia all’interno di ogni Rito di Passaggio 3 fasi con peculiarità specifiche: 1)fase di separazione (riti preliminari): rappresentano il distacco dell’individuo dalla posizione sociale che ricopriva 2)fase di margine o di transizione (riti liminari): l’individuo vive una sorta di “limbo” ricoprendo un ruolo “ambiguo”.È la fase più delicata! 3)fase di aggregazione che corrisponde alla reintegrazione sociale e all’acquisizione del nuovo stato (riti postliminari): l’individuo assume una nuova collocazione nella società, con diritti e doveri nuovamente ben definiti. RITI DI INTRODUZIONE: fanno parte dei riti di passaggio, sono azioni rituali messe in atto quando si entra in un ambito altrui (abitazione, territorio, corpo). RITI DI INIZIAZIONE: aderiscono alla struttura dei riti di passaggio e riguardano la transizione da uno stato all’altro sia esso fisiologico, sociale, o spirituale (battesimo, circoncisione, i digiuni. I “RITI” IN OSPEDALE Possiamo considerare l’ospedalizzazione come un rito di passaggio! L’ospedale puó essere il luogo dove una “persona malata” viene “trasformata” in una “persona sana”. Consta principalmente di DUE fasi consecutive: 1 DIAGNOSI 2 TERAPIA Non solo nelle culture “di tradizione” o sciamaniche ma anche nella società occidentale la diagnosi e il trattamento vengono compiuti in un tempo e in uno spazio rituale separati e circoscritti rispetto alla quotidianità (ambulatorio o ospedale). In ogni caso chi compie il rito “si veste” anche con un abbigliamento “rituale” (maschera, piume……camice). LA PUBERTÁ… LA PRIMA MESTRUAZIONE….. UN “RITO DI PASSAGGIO” O UNA INIZIAZIONE? Con la pubertà, che compare mediamente tra gli undici e i sedici anni, con alcune differenze presso le varie etnie e a seconda degli individui, la femmina entra in un nuovo regime fisiologico oltre che psicologico ed emozionale che ha tutte le caratteristiche di un Rito di Passaggio. Sarebbe più corretto indicarlo più genericamente come un Rito di Iniziazione anziché di pubertà, poiché la pubertà fisiologica e quella sociale non è detto che coincidano RITO O INIZIAZIONE? Esistono dei Riti della pubertà fisiologica che, seppur raramente, coincidano con quelli di iniziazione: le giovani in questo caso vengono isolate, talvolta considerate “morte e poi resuscitate”. In alcune culture, invece, ci sono solo Riti di iniziazione: sono Riti di separazione dal mondo asessuato a cui fanno seguito Riti di aggregazione a quello sessuale. “Cerimonie della prima mestruazione sono presenti anche presso popolazioni nelle quali non esistono riti di iniziazione: presentano un carattere più incisivo perché si tratta della prima comparsa di un fenomeno che in seguito sarà sempre accompagnato da riti speciali dovuti alla condizione di impurità sia della donna che del sangue mestruale”. LA DONNA “MESTRUATA” In alcune culture è ancora un tabù che la donna ha imposto a sé e agli uomini. In molte culture, compresa la nostra, spesso le mestruazioni sono viste con una sorta di disgusto fino alla credenza che ciò la donna mestruata tocca si sciupi. Per questo motivo presso alcuni popoli le donne mestruate vengono isolate così come quelle incinte (considerate altrettanto impure). Basti pensare agli Aborigeni della Terra del Fuoco che in certi casi mantengono tradizioni secondo le quali gli uomini ribellandosi ai “misteri femminili” propri della dèa Luna, guidati dal sole uccidevano tutte le donne adulte lasciando in vita solo le adolescenti ingenue non ancora iniziate IL RECINTO SACRO “La segregazione mensile nel recinto sacro femminile, tabù, è solo la continuazione dell’iniziazione che avviene in tale luogo con la prima mestruazione; ed è poi nello stesso luogo, centro naturale, sociale e psichico del gruppo femminile dominato dalle donne più anziane ed esperte, che avviene la nascita .” LA MUTILAZIONE COME INIZIAZIONE In altre culture la pubertà viene celebrata con riti di iniziazione che lasciano l’individuo mutilato mediante un vero e proprio Rito di separazione che lo aggrega automaticamente a un determinato gruppo in maniera definitiva in quanto l’aggregazione lascia segni indelebili. Sono rituali del genere la circoncisione, far saltare un dente (Australia), recidere l’ultima falange del dito mignolo (Sud Africa), tagliare o perforare il lobo dell’orecchio o il setto nasale, praticare tatuaggi o scarnificazioni, tagliare i capelli in un certo modo. Fanno parte di questi rituali anche l’escissione del clitoride, la perforazione dell’imene, la sezione del perineo e l’infibulazione. LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI Le mutilazioni genitali femminili vengono, in genere, praticate in alcuni paesi dell’Africa (Sudan, Nigeria, Costa d’Avorio, Uganda, Mali, Benin, Burkina Faso, Egitto, Etiopia, Eritrea, Somalia Gibuti) in Asia (Tailandia, Malesia) e in alcune parti della penisola araba e dell’estremo oriente. Per l’OMS le “mutilazioni” sono tutte quelle pratiche che riguardano la parziale o totale rimozione dei genitali esterni, le lesioni e le modificazioni, anche non escissorie eseguite a fini iniziatici e non terpautici. 4 TIPOLOGIE • Tipo 1: (sunna) escissione del prepuzio con o senza l’escissione di parte o dell’intera clitoride. • Tipo 2: (escissione) escissione del prepuzio e della clitoride insieme alla rimozione parziale o totale delle piccole labbra. Tipo 3: (infibulazione o circoncisione faraonica) escissione del prepuzio, della clitoride, delle piccole labbra con escissione parziale o totale delle grandi labbra e con sutura dei lembi rimanenti della vulva con fili di seta o spine di acacia, con occlusione pressoché totale dell’introito vaginale, lasciando solamente un piccolo foro di pochi millimetri per il passaggio dell’urina e del flusso mestruale. E’ la forma più grave ed estesa delle mutilazioni genitali femminili. Tipo 4: raggruppa pratiche “lesive” a carico dei genitali diverse tra loro, quali: • puntura, trafittura o incisione della clitoride e/o delle labbra; • cauterizzazione per ustione della clitoride e dei tessuti circostanti; • allungamento della clitoride e/o delle labbra (longininfismo); • raschiatura dell’orifizio vaginale (angurya) o taglio della vagina (gishiri); • l’introduzione di sostanza corrosive nella vagina per causare sanguinamento; • l’inserimento di erbe allo scopo di restringere la vagina (dry sex); • l’introduzione di oggetti per allargare la vagina. DEINFIBULAZIONE e RE-INFIBULAZIONE La cicatrice dell’infibulazione viene riaperta per ingrandire l’orifizio vaginale. Praticata al momento del matrimonio, nella fase finale del parto per permettere alla testa del neonato di uscire, o quando è necessario effettuare un’operazione vaginale o pelvica. Nel caso del matrimonio, in genere, l’apertura lasciata all’infibulata è troppo piccola per permettere l’introduzione del pene in erezione ed inoltre spesso l’orifizio vaginale è ricoperto da uno strato di pelle. Accade che i mariti delle giovani spose effettuino loro stessi questa operazione con metodi chirurgici brutali utilizzando una lama o un coltello. A volte accade addirittura che l’uomo tenti di sfondare lo strato di pelle con il proprio pene eretto, e tutto ciò significa ovviamente una grande sofferenza.” “Re-infibulazione: nuova infibulazione eseguita in vari casi: a una giovane con un’infibulazione inefficace; alla puerpera nel periodo immediatamente successivo al parto (su sua richiesta, col solo obiettivo di rendere più piccolo l’orifizio vaginale); quando una donna divorziata o vedova intende risposarsi; a una donna non più vergine che invece voglia presentarsi come tale al suo futuro marito ( sempre su richiesta della donna).” LA MALATTIA … una premessa NORME •NORME DI DIRITTO •NORME DI COMPORTAMENTO di alto contenuto valoriale, talvolta irraggiungibile (basi pensare all’eroismo o alla Santità!) •NORME D’USO che includono usanze, maniere,consuetudini. •NORME DI COSTUMI (mores) che fanno riferimento alla condotta da tenere in pubblico e in privata. DIFFICILMENTE UNA NORMA VIENE OSSERVATA AL 100%! In quanto il “confine” tra Norma e Valore è talmente “labile” che, sovente, vengono confuse…non solo ma la “nostra” Norma rischia di diventare un assunto assoluto facendoci scivolare nell’Etnocentrismo! La società moderna, fatta di “più culture”, può vivere secondo più norme che possono risultare addirittura antitetiche tra loro. Pur mantenendo fondamenti basilari le Norme possono, nel corso del tempo, venire modificate (….l’uso delle posate…del cellulare…..la donna manager..)…..quindi sono VARIABILI e ARBITRARIE, tuttavia MAI CASUALI. NORMALE-ANORMALE…..PATOLOGICO La MALATTIA è un evento (deviante) che viola la Norma Sociale e la “Normalità” (“l’incorporamento-embodiment-di questa struttura culturale nel corpo dell’individuo)……..GUARIRE è sinonimo di “un ritorno alla normalità” di una funzione o di un organo. Per il Medico il concetto di “normale” è dato dalla fisiologia (“scienza dell’Uomo normale”), dall’esperienza clinica, “dalla rappresentazione comune della norma in un ambiente sociale a un momento dato”. Il Medico vive il concetto di norma secondo due aspetti: uno statistico (costanti fisiologiche) e l’altro normativo (terapia). Per Parsons la malattia è una condizione “che rende incapaci di svolgere efficacemente i ruoli sociali” (Modello Funzionalista)…..in poche parole chi è normale è utile, inutile è, invece, colui che è malato. IL VALORE SOCIALE Per Valore Sociale si intende uno stato o condizione ritenuto desiderabile da un soggetto individuale o collettivo e in vista del quale esso orienta la sua azione e giudica delle azioni di altri soggetti……difficile da descrivere e da renderlo concreto. È la società che stabilisce i valori e, quindi, non sempre sono innati ed eterni. Anche nel caso della determinazione di “Valore” non si deve scadere nella visione etenocentrica.Le norme, i valori, il comportamento, i simboli, le credenze, i riti, la technè materiale e sociale, insieme, vengono considerati gli elementi costitutivi della CULTURA così come tutto ciò che in una società viene trasmesso da una generazione all’altra per via non genetica. Ogni società, per evitare la sua scomparsa, deve aderire ad un mondo valoriale omogeneo e comune a tutti i componenti della società stessa. Nella condivisione dei valori si trova il fondamento di identità, a fare di ognuno di noi quello che è in quanto appartenente ad altro da se stesso. La dimensione valoriale ha una funzione di orientamento fondamentale per l’Uomo. IL RUOLO SOCIALE È quell’insieme di aspettative che convergono su di un soggetto per il fatto di occupare una determinata posizione all’interno di un sistema sociale. Le Norme Sociali “prescrivono” in positivo le azioni da compiere e quelle da evitare: per l’individuo possono essere addirittura costrittive.In tal modo si definisce la “prescrizione di ruolo” che non deve essere confusa con il “comportamento di ruolo” che, a sua volta, si distingue in “conforme” e in “deviante”. Il ruolo sociale, tuttavia, viene permeato dalla “individualità” del soggetto. IL RUOLO SOCIALE DEL MALATO Un individuo che si ammala viene coinvolto non solo da un punto ma anche psicologico e sociale.Convive e partecipa più o meno attivamente a decisioni mediche e sociali.I ruoli vengono riadattati e i suoi atteggiamenti cambiano conformemente alla situazione affrontata. Si assiste ad una “risposta comportamentale alla malattia” (illness behavior) e cioè il modo con il quale una persona che provi dolore, disagio o altri segni di disfunzione, percepisce, valuta i suoi sintomi ed agisce di conseguenza” (Mechanic e Volkart, 1961).Ad esempio: mi sveglio con un forte mal di testa, posso decidere di prendere un analgesico e aspettare che mi passi, oppure….vado o chiamo il medico.In questo caso non rivesto ancora un “ruolo” di malato o di paziente ma ho agito di conseguenza ad un evento. La risposta comportamentale alla malattia e il ruolo del malato sono fortemente influenzati da fattori come l’appartenenza ad una classe sociale, o le differenze etniche e culturali. MALATO o PAZIENTE? Nel momento in cui la mia “normalità” viene “deviata” dalla malattia la società che mi circonda mi riconosce un ruolo: quello di malato (società) e quello di paziente (medico).Come malato ho il diritto di essere esentato dalle mansioni quotidiane e di essere assistito e curato in quanto bisognoso di aiuto, come controparte, devo “fare il possibile per guarire in fretta e cercare un aiuto competente (sanitario) e collaborare ai fini della mia guarigione. Il ruolo di “paziente” può essere definito come una estensione del ruolo di ammalato anche se dobbiamo sottolineare quanto non sia possibile distinguere un ruolo dall’altro. RUOLI E DECORSO DELLA MALATTIA All’interno del decorso della malattia è possibile identificare, da un punto di vista comportamentale e della definizione del ruolo, 5 passaggi essenziali (Foster e Anderson): •Fase dell’esperienza dei sintomi: “qualche cosa che non va” cui fa seguito il “riconoscimento dei sintomi” la loro interpretazione e la soggettiva risposta cognitiva ed emozionale. •Fase dell’assunzione del ruolo del malato: ricerca dell’aiuto competente in grado di risolvere la malattia (questa fase comprende anche l’automedicazione) e riconoscimento dello “status” da parte di famiglia, amici, colleghi di lavoro etc. .In questa fase diventa importante “dare un nome” alla malattia in modo da poterla delimitare, circoscrivere, in poche parole “conoscerla”! •Fase della ricerca dell’aiuto medico: che, in maniera autorevole, “istituzionalizza” o meno lo “status” di malato.A volte si assiste alla peregrinazione da più medici se la propria ansia di “diagnosi” non viene soddisfatta.La ricerca del medico è un evento che coinvolge la famiglia e il sociale del malato. •Fase della delega al medico del controllo della situazione: è una fase in cui è importante definire la natura della malattia, in quanto a seconda della tipologia di trattamento e di prognosi si potranno avere reazioni diverse.La tipologia della malattia (episodica, cronica, grave, mortale) produce un ulteriore ruolo e cioè quello di “dipendente da..”.La dipendenza può essere vissuta in più modi tra cui la riluttanza ad accettare di essere a lungo “dipendente” che si contrappone alla sensazione di sicurezza data dalla garanzia del trattamento.È una fase estremamente delicata soprattutto quando la malattia è cronica.In tale situazione, infatti, l’individuo viene sottoposto a visite plurime e a ricoveri ospedalieri che possono arrecare una perdita di contatto non solo con il “mondo fuori” ma anche con il proprio corpo.La malattia cronica è un evento che si protrae nel tempo in cui l’individuo si adatta……si trasforma e, non da meno, viene “stigmatizzato” (stigma = marchio) agli occhi degli altri (Goffman). •Fase di recupero della salute o di riabilitazione (preclusa al “malato cronico”): si abbandona il ruolo di ammalato.Questa fase è A questa fase partecipano famigliari e membri della comunità che, anche con rituali più o meno evidenti, celebrano il “RITORNO ALLA NORMA”. SALUTE E MALATTIA “Salute e malattia non sono cose sostanzialmente diverse” (Nietzsche 1926).Infatti, il concetto di malattia vive quello di salute e viceversa: NON È UNA BIPOLARITÀ OVVIA!La bipolarità, possiamo dire, è un fenomeno appartenente ad alcune culture, ad esempio per lo Scintoismo l’uomo è nel mondo e i suoi stati mutano; quello che oggi era non è più domani. Nella tradizione “cristiano-platonica” una affermazione come la precedente non può aderire perché gli uomini si aggrappano a rappresentazioni di identità: “morbus est affectus corpori contra natura insidens” (la malattia è una mutazione innaturale interna al corpo”.CHI È MALATO NON È NORMALE! PLATONE:la salute è una virtù somatica come la virtù, a sua volta, è espressione della salute dell’Anima Chi è malato non solo pecca, ma essersi ammalato può diventare una conferma dell’aver peccato.Non a caso i miracoli quasi sempre contengono una remissione dei peccati.La malattia viene usata per poter rinviare all’esistenza del peccato e delle sue conseguenze, di conseguenza la salute ha sempre a che fare con l’eliminazione o la remissione dei peccati.Chi guarisce non ripara solo un corpo ma, nell’ambito della tradizione, pone il paziente in uno stato di “grazia”……di qui la funzione sacerdotale dell’attività medica. SALUTE E MALATTIA:ILLUMINISMO E TECNICISMO La razionalizzazione della Scienza Medica si allontana dalla funzione sacerdotale e si concentra sul corpo come una sorta di macchina, un meccanismo di cui bisogna ripararne i difetti…… OGGI A partire dalla conferenza dell’OMS tenutasi da Alma Ata nel 1978 si orienta verso il concetto di salute quale elemento cardine della lotta alla malattia.Tale orientamento crea i presupposti per un approccio multidisciplinare contro la malattia in cui vengono coinvolti non solo il sistema sanitario ma anche i cittadini.Il cittadino viene responsabilizzato nei confronti del mantenimento del suo stato di salute e di quello della collettività. In certi casi, tuttavia, l’operazione è stata solo quella di sostituire il termine “terribile” come “malattia” con quello più “positivo” di “salute”……ma la sostanza rimane la stessa (ad es. il “centro di salute mentale”). Nella cultura occidentale l’individuo ha un ruolo attivo, deve essere vigile, consapevole, sempre in “tensione” . DEFINIAMO IL CONCETTO DI SALUTE •La salute come stato fisiologico del corpo umano.Con tale affermazione il modello biomedico si pone al di sopra delle culture.Come termine assoluto il concetto di salute non esiste in quanto una totale integrità fisiologica viene considerata come una chimera. •La salute come stato soggettivo.Tale presupposto aderisce al modello olistico e si “allontana” dalla definizione precedente.La salute viene posta come elemento che risente della variabilità culturale, degli aspetti fenomenici propri dell’individuo su cui viene accentrata l’assistenza e la considerazione dei suoi bisogni.È una definizione che può creare un’esasperazione della soggettività allontanando l’individuo dall vita sociale (con le sue norme, valori, linguaggi etc.). Possiamo definire che, in questo caso, il termine “olismo” viene inteso in senso riduttivo.•La salute come duplicità soma-psiche: una separazione tra mente e corpo, in accordo con il modello biomedico, si trova in totale contrasto con le acquisizioni provenienti della Medicina Psicosomatica anche se l’interpretazione dell’evento è identico ma rovesciato (il fattore scatenante la malattia non è un organo ma la Psiche).Questo aspetto apre numerose prospettive di approccio al malato. •La salute come equilibrio funzionale armonico: concetto molto astratto, difficilmente verificabile perché dipendente da elementi plurifattoriali (norma, cultura, realtà sociale). PREVENZIONE E MEDICALIZZAZIONE: UNA LIMITAZIONE? La continua ricerca di mantenerci “in salute” espone l’individuo al rischio di trascorrere una vita “eccessivamente” medicalizzata. Un atteggiamento del genere, se da una parte, grazie alle moderne acquisizioni in ambito biomedico, migliora la qualità della prevenzione, dall’altra espone l’individuo al rischio di un abuso di “medicalizzazione”. …..CHE COSA E’ LA MALATTIA? “Una forma elementare dell’evento”…… “Dare un senso all’evento-malattia non mette in gioco solo il credere o no ai virus, ai batteri o ai microbi, ma tentare di rispondere all’interrogativo: perché sono io ad essere colpito? E da chi?” (Augè,1984). Infatti quando parliamo della malattia che ci affligge “narriamo” del nostro corpo, della nostra storia, di quanto abbiamo sofferto e di quanto la malattia ci fa soffrire……di quanto tutto può essere il risultato di “un modo di vivere la nostra storia”. I “LIVELLI” DELLA MALATTIA Quando dobbiamo definire la “malattia” connotiamo questo evento con una molteplicità di aggettivi talvolta incongruenti fra loro.Per meglio definire la “malattia” si ricorre alla lingua inglese che ci permette di identificare tre livelli con significato ed esperienza diversi. 1.ILLNESS: è l’esperienza personale della malattia, come essa viene vissuta dal malato e dalla famiglia. E’ la percezione del proprio corpo malato e delle sue manifestazioni, delle difficoltà soggettive a “vivere la quotidianità e il sociale” causate dall’infermità. 2.DISEASE: la malattia viene interpretata dal medico, l’esperienza personale della malattia da parte del malato viene “ridotta” in: nomenclatura, tassonomia, nosologia medica.La malattia è una alterazione della struttura biologica o di un processo fisiologico. 3.SICKNESS: “comprensione della malattia all’interno di un gruppo in relazione alle forze macrosociali (economiche, politiche, istituzionali) e alle rappresentazioni simboliche”.Ad esempio l’inquinamento quale causa di tumore dove vengono coinvolti,industriali, fabbriche, politici ecc. “Sickness definisce anche il processo attraverso il quale i segni comportamentali o biologici che accompagnano la disease ricevono significato nel quadro della cultura” (ad esempio abuso di alcool, droga…..AIDS). Tendenzialmente si “perde” nell’Illness. LA MORTE LA MORTE QUALE EVENTO CHE DISTRUGGE IL RAPPORTO DELL’INDIVIDUO CON IL GRUPPO DI CUI FA PARTE E DA CUI TRAE LA STESSA IDENTITÁ SOCIALE Ci sono culture altre che della fine della vita ne hanno fatto il centro significativo dell’esistenza vivendolo serenamente se non addirittura di sollecito e concreto aiuto, sia per i vivi che per i morti. La nostra cultura spesso ha tacciato tali culture come segnate dalla superstizione considerandole solo come fonte inesauribile di stranezze buone solo per gli etnologi. Molte culture non solo parlano di un destino che va oltre il tempo di vita di ciascuno di noi ma propongono dei rituali funebri che consentono il passaggio del morto dal mondo dei vivi alla sua destinazione finale, quella ultraterrena. LA MORTE QUALE EVENTO CHE DISTRUGGE IL RAPPORTO DELL’INDIVIDUO CON IL GRUPPO DI CUI FA PARTE E DA CUI TRAE LA STESSA IDENTITÁ SOCIALE Il Gruppo avverte la morte di un uomo come una minaccia alla sua stessa coesione e continuità. Da tale assunto il RITO FUNEBRE “ha lo scopo di ristabilire l’equilibrio che la scomparsa di un individuo ha alterato: attraverso di esso il defunto viene distaccato dalla comunità dei viventi per essere integrato in quella dei morti e degli antenati. ……..È UN RITO DI PASSAGGIO! IL LUTTO La morte segna l’inizio di un periodo di lutto che trascina con sé una serie di doveri: i vivi manifestano il loro dolore, cambiano di colore l’abito e modificano le loro abitudini di vita. Il Gruppo avverte la morte di un uomo come una minaccia alla sua stessa coesione e continuità. Da tale assunto il RITO FUNEBRE “ha lo scopo di ristabilire l’equilibrio che la scomparsa di un individuo ha alterato: attraverso di esso il defunto viene distaccato dalla comunità dei viventi per essere integrato in quella dei morti e degli antenati. ……..È UN RITO DI PASSAGGIO! LA NORMA Per Norma Sociale si intende I)“Proposizione variamente articolata-o anche idea,rappresentazione collettiva….la quale prescrive ad un individuo o ad una collettività, come elemento stabile e caratterizzante della sua cultura…la condotta o il comportamento più appropriati (cioè giusti) cui attenersi in una determinata situazione, tenuto conto delle caratteristiche del soggetto, delle azioni da esso eventualmente subite, e delle risorse di cui dispone…” (Gallino, 1978). II)“Una regolarità nel comportamento osservato tale da designare una regola osservabile con frequenza presso una popolazione in una situazione data”. La Norma si evidenzia nel linguaggio corrente con frasi come: “si deve”- “è necessario”“bisogna”- “è giusto che”……fino all’imperativo “dite la verità”- “fai così”.Fa parte del patrimonio culturale di qualsiasi società. Ad ogni generazione vengono ripetuti e tramandati comportamenti considerati patrimonio insito nella trama sociale, e, di conseguenza “UNICI”ad avere “valore”.. “Le Norme Sociali sono strumenti necessari per attuare i valori ai quali una collettività si ispira o pratica, per regolare i comportamenti e i rapporti sociali tra i suoi membri e quindi per produrre forme di organizzazione”.