I GIOVANI E LA SVOLTA NELLA CULTURA DI MASSA Di Michele Serra su La Repubblica del 3 maggio 2011 La gravità e il silenzio con la quale l’oceano di ragazzi del concertone romano ha seguito anche le parti “istituzionali” della serata (dall’Inno di Mameli ai testi degli scrittori civili italiani alla solenne elegia per l’Italia di Morricone) è stata l’impressionante conferma di una vera e propria svolta nella cultura di massa e nella cultura politica di questo paese. Finché sono le migliaia di giovani di Biennale Democrazia, in una Torino pavesata di tricolore perfino nei ristoranti e nei bar, a prendere d’assedio dibattiti e concerti fortemente orientati in senso neo-patriottico e repubblicano, si può anche pensare a un’élite studentesca già orientata di suo da buone letture e provvidi maestri. Ma per quantità e qualità il pubblico romano era quanto di più popolare si possa concepire, studenti, precari, giovani operai e operaie, per giunta abituati alla partecipazione tumultuante e attiva delle adunate rock, non certo all’ascolto paziente e disciplinato. Mischiare Paoli e Caparezza, i Subsonica e Morricone, Finardi e Camilleri, la musica sinfonica e il pop, l’aplomb teatrale degli orchestrali e i guizzi scamiciati dei rapper, poteva creare qualche cortocircuito, qualche incomprensione. Non solo non è accaduto, ma è come se l’operazione (tecnicamente coraggiosa) degli organizzatori avesse già previsto, nel solito pubblico, un’insolita esigenza: quella di allargare le maglie del tradizionale “tifo”movimentista fino ad accogliere, e fare proprie, ragioni civili più profonde e meno di parte odi fazione. Eseguito tre volte e in tre forme diverse, l’Inno nazionale ha avuto lo stesso impatto di “Bella ciao”: è come se la piazza giovanile se lo fosse caricato in spalle, sentendosene per la prima volta non solo rappresentata, ma anche responsabile. Sullo sfondo, la recente lectio mameliana di Benigni a Sanremo, l’orazione di Saviano in tivù avvolto dal tricolore, il clima neo-risorgimentale e neo-resistenziale che il Centocinquantenario ha evocato quasi senza volerlo, per naturale reazione alla progressiva disintegrazione culturale e politica di un’identità costituzionale, repubblicana e antifascista che la folla del Primo Maggio ha voluto rivivere come garanzia contro la dissipazione di diritti messi in discussione, a cominciare dal diritto al lavoro e al futuro. Il vecchio Inno, con tutto il suo ingombro retorico e la sua aulicità, è stato adottato e cantato da artisti e pubblico in emozionante sintonia. E un’ovazione ha accolto il sobrio “Va pensiero” di Paoli, ricollocato dalla piazza nella sua giusta dimensione storica: canto fondante dell’unità d’Italia, che l’uso arbitrario e cervellotico della Lega non è riuscito a snaturare, né a scippare agli italiani.