VICIA FABA MAIOR Le fave appartengono alla famiglia delle leguminose, ne esistono numerose varieta'; la piu' nota e' la Vicia faba maior, una pianta da orto annuale con baccelli grossi e lunghi e con semi grandi e appiattiti. Baccello: è allungato, cilindrico, terminante a punta che contiene da 2 a 10 semi. Fiori: raccolti in brevi racemi che si sviluppano all’ascella delle foglie, ogni racemo porta 1-6 fiori, di colore bianco. Foglie: quasi tutte le specie della famiglia hanno foglie pennate o palmate Semi: con ilo evidente, inizialmente verdi e di colore più scuro (dal nocciola al bruno) a maturità. Fusto: ramificato alla base, alto da 70 a 140 cm. Apparato radicale: numerose ramificazioni nei primi 20 cm . I botanici sono generalmente concordi nell’ammettere che la fava si sia originata nei Paesi del Mediterraneo durante l’età del ferro e del bronzo e i numerosi reperti, in varie parti d’Europa, provano che ha rappresentato per millenni un elemento importante nell’alimentazione umana almeno fino a quando dal Nuovo Mondo cominciarono ad arrivare i fagioli. Da quel momento il loro declino fu rapido e irreversibile. Le fave recupereranno l’antico splendore, come alimento, soltanto dopo il 1970, quando la dieta “naturale” mediterranea tornerà nuovamente in auge. COLTIVAZIONE DELLE FAVE Conosciute da sempre, un tempo le fave erano diffusissime: si coltivavano in rotazione con il frumento per arricchire il terreno di azoto. Tra novembre e dicembre si preparavano i solchi, si deponevano i semi a postarella (a gruppi) e si ricoprivano di terra. Quando le piantine erano cresciute alcuni centimetri, si sarchiava, zappettando il terreno per liberarlo dalle erbacce servendosi di una piccola zappa. Quando le piante incominciavano ad avvizzire si falciavano, si facevano essiccare in piccoli covoni (manate di favi) e si battevano nell'aia o si calpestavano con gli animali. Per separare la furba, cioè i resti di foglie e fusti, dal seme si buttavano in aria, con un tridente. Le più piccole si davano agli animali; le più grandi si vendevano ai commercianti. Le radici delle leguminose presentano dei rigonfiamenti detti noduli, ogni nodulo contiene migliaia di batteri del genere Rhizobium capaci di fissare l’azoto cioè di trasformare l’azoto molecolare presente nell’atmosfera in ammoniaca o nitrato, composti assimilabili dalle piante. CREDENZE POPOLARI “Di tutti i legumi la fava è regina, cotta la sera, scaldata la mattina” . “Se si trova un baccello contenente sette semi si avrà un periodo di grande fortuna” “..dono che veniva dalle genti Sotterranee”.. CIBO LEGATO AI DEFUNTI Nell’antichità le fave erano il cibo rituale dedicato ai defunti e venivano servite come piatto principale nei banchetti funebri. I Romani le consideravano sacre ai morti e ritenevano che ne contenessero le anime, molto probabilmente questa credenza era legata ai caratteri botanici della pianta: Il fiore di fava, da cui, poi, si svilupperanno i baccelli contenenti i semi, è di colore bianco, maculato di nero, colorazione rara nel mondo vegetale e, da sempre, legata alla morte. Sembra, poi, che le macchie nere siano disposte in modo da formare la lettera greca “tau”, iniziale del termine greco “Tanatos”, che significa “morte”. Infine, il gambo della pianta è cavo e privo di interruzioni e nodi ed affonda le sue radici in profondità, fino a raggiungere il “regno dei morti”. Con l’avvento del Cristianesimo molte di queste credenze persero valore però, restò il legame tra fave e Commemorazione dei Defunti. In Toscana, in Veneto e in Calabria il 2 novembre era tradizione recarsi al cimitero e mangiare fave sulle tombe dei propri cari. “DOLCI DEI MORTI” In Umbria “…pei santi se preparavano le fave ce mettevi la pigna, le fave quelle cottore, quelle che se cociono proprio, perché ce stanno du’ tipi de fave quelle che se cociono e quelle che se mangiano crude, se metteano là sera a bagno poi la mattina le cocevi proprio pè la tradizione dè morti” (“Le opere e i santi” tradizione alimentare e festività rituale in provincia di Terni a cura di G. Baronti Secondo credenze popolari, nella notte tra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti tornano dall’aldilà e “I dolci dei Morti” simboleggiano sia i doni che i defunti portano ai propri cari sia l’offerta di ristoro dei vivi per il loro lungo viaggio. Un modo per esorcizzare la paura dell’ignoto e della morte. Uno dei dolci più diffusi è sicuramente la “fava dei morti”. PITAGORA E LE FAVE Pitagora (VI-V sec. a.C.) proibì severamente ai suoi discepoli di avere ogni tipo di contatto con questa pianta in quanto legata al mondo dei morti. E, secondo la leggenda, lo stesso filosofo, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave. Attualmente, alcuni storici ritengono che l’avversione di Pitagora per le fave potrebbe essere stata dettata dal fatto che nell’area di Crotone, dove aveva sede la Scuola da lui fondata, era al tempo molto diffuso il “favismo” malattia che veniva empiricamente (e correttamente) associata alla presenza o al consumo delle fave. Il favismo è una malattia ereditaria in cui si verifica una violenta reazione ad alcune proteine contenute sia nelle fave sia nel polline dei fiori . Non solo l’ingestione, quindi, ma anche la vicinanza di un campo di fave può causare una particolare forma di anemia detta emolitica perché causa la distruzione dei globuli rossi del sangue. Le zone endemiche per il favismo in Italia erano la Sardegna, l'Italia Meridionale ed il Delta del Po, le zone infestate dal plasmodium della malaria.