IL CORPO IN SCENA. Un evento di psicodramma e playback theatre di Marco Greco e Nadia Lotti SOMMARIO Gli autori descrivono un’esperienza di incontro tra psicodramma e playback theatre in occasione di una serata aperta al pubblico svoltasi a Torino il 10 febbraio 2006 presso il teatro di psicodramma del dott Greco. La prima parte di Marco Greco consiste in una breve descrizione dell’evento psicodrammatico arricchito da considerazioni e riflessioni sullo psicodramma ed il teatro. La seconda parte di Nadia Lotti descrive la performance di playback theatre con una breve analisi del significato che ha assunto in questo specifico contesto, utilizzato per realizzare la fase dello sharing. PRIMA PARTE: LA FASE DELLO PSICODRAMMA di Marco Greco 1. Una premessa A Torino, nel luglio del 2005, è nata l’Associazione MPM, Laboratorio di Metodologie Psicodrammatiche Moreniane, formata dagli studenti della sede di Torino della Scuola (affiliata al circuito di Giovanni Boria), che si sono già diplomati oppure sono in procinto di farlo. La sede dell’Associazione e della Scuola è in Via San Domenico 16. In uno spazio simile a una tavernetta, che si trova al piano inferiore nello stesso edificio del Teatro di Psicodramma, nell’ottobre del 2003 si era svolta una serata di playback theatre. In quell’occasione, a esercitarsi era stata una compagnia collegata alla scuola diretta da Nadia Lotti, affiliata alla scuola di playback di Jonathan Fox. A tre anni di distanza, psicodramma e playback theatre trovano ragioni di dialogo proprio nel medesimo luogo che, da pochissimo, ospita un corso di base di playback theatre condotto da Nadia Lotti. E questo ha portato all’idea di una serata che consentisse di sposare due metodiche imparentate, ma sinora realizzate indipendentemente. La data scelta per quest’occasione è il 10 febbraio 2006, giorno di inaugurazione delle XX Olimpiadi Invernali di Torino. Dunque l’Associazione MPM ed il Playback Theatre scelgono di presentarsi in una Torino silenziosa, raccolta allo stadio olimpico o davanti al televisore; il confronto con l’evento mediatico di così grande rilevanza è decisamente impegnativo. Nei giorni che hanno preceduto questo appuntamento, mentre si costruiva la scena o, meglio, la scenografia (poche assi da cantiere a formare il palco, cinquanta sedie, le luci e la moquette per rendere morbidi i passi dell’anima), Maestro Moreno mi si evocava continuamente. J.L. Moreno a Torino c’era stato nella primavera del 1954. Lo racconta la moglie Zerka in un articolo su “Atti dello psicodramma” con titolo ‘Quella sera al Carignano’ (1987): “La prima volta che venni a Torino accompagnavo mio marito J.L.Moreno che era stato invitato dalla professoressa Angela Massucco Costa dell’Università e da Adriano Olivetti, il leader dell’impero Olivetti. Durante le sue presentazioni, Moreno diede molta importanza alle dinamiche di gruppo, alla sociometria specialmente a quella dei gruppi piccoli. La sua proposta era di utilizzarle per umanizzare la struttura di gruppo in un contesto manageriale ed industriale. Moreno tenne alcune lezioni all’Università e allo stabilimento di Ivrea. In quell’occasione mi venne fatto dono di una “Lettera 22”, che stava a pennello nella mia borsa e che per parecchi anni mi fu molto utile soprattutto durante i numerosi viaggi in treno, in aereo, in albergo quando Moreno, preso dall’ispirazione, iniziava a dettarmi i suoi pensieri. Spesso non avevo un tavolo sul quale poggiare la macchina, ma una “Lettera 22” si poteva facilmente tenerla sulle ginocchia per trascrivere i discorsi di Geièl (era questo il soprannome di Moreno)”. (pag. 61-62). 2. Il riscaldamento. Primi oggetti Durante questa insolita serata torinese, le persone che arrivano vanno a sistemarsi nelle sedie predisposte. Questo è già teatro perché richiama ad un modello che ognuno ha introiettato, probabilmente da sempre, tanto quanto, analogamente, i temi archetipici dell’acqua, del fuoco, della terra. Lo spettatore di questa sera, non appena entra, incontra il palcoscenico. Su di esso vede una grande poltrona blu, di quelle con lo schienale alto, rivolta verso la platea, che è anche uditorio. Davanti ad essa, leggermente spostati a destra e a sinistra, vi sono due cubi con sopra alcuni oggetti: una racchetta da tennis di legno, priva di accordatura; un profumo da donna; un libro con la copertina foderata da un giornale (la terza edizione del 1977, quinta impressione del 1989 del Trattato di Psicoanalisi, di Cesare Luigi Musatti dell’editrice Bollati Boringhieri di Torino). Musatti non è propriamente una scelta del caso. Più che altro è un omaggio, in una sera che va riempiendosi di simboli e citazioni. Dunque Musatti, che scrive: Psicoanalisti e pazienti a teatro, a teatro! edito da Mondatori nel 1988. E con lui, un omaggio allo psicodramma analitico (o analisi psicodrammatica) che a Torino ha da sempre la sua sede naturale e storica. In un’intervista di Ottavio Rosati riportata sul numero del 1983 della rivista “atti dello psicodramma” (pag. 34) Musatti rivela: “…insieme a Franco Fornari e qualcun altro ho fatto dello psicodramma tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Una nostra collega era stata a Parigi a studiare lo psicodramma analitico con Lebovici e al suo ritorno decidemmo di fare un esperimento al Centro Psicoanalitico di Milano. Lo psicodramma è estremamente interessante per gli psicoanalisti. La verità è che la psicoanalisi è uno psicodramma. Quando mi dicono che io ho delle qualità di attore…bè, non è che io le abbia, ma certo mi piace recitare. Ho il gusto del recitare. Ma questo gusto mi viene da una certa vocazione all’identificazione con le situazioni altrui.” E, richiesto di esprimere un giudizio tecnico sullo psicodramma, risponde: “Direi che il sistema migliore di fare psicodramma, anche se più complicato indubbiamente, è quello di farlo con un gruppo di analisti e un solo paziente. Il paziente ha così il suo analista che è anche il regista dello psicodramma. Davanti a lui racconta cosa è successo, cosa gli è accaduto.” Da tutto questo, curiosamente, emerge in maniera arcaica la forma metodologica del playback theatre, con il narratore in veste di individuo, senza il gruppo; con un’energia comunicazionale “telica” necessaria all’avvenimento che nutre la relazione tra tutti. Per ciò che ha capito Musatti dello psicodramma ritroviamo, naturalmente, l’individuo e non il gruppo. E, dunque, il tema transferale: ”…nel mettere in moto il meccanismo di questo rapporto duale in cui consiste l’analisi, l’analista finisce col fare tutte le parti e quindi in un certo modo l’analista fa l’attore. Fa l’attore con un copione obbligato che gli è dato dalla situazione dell’analisi, dal modo in cui l’analisi procede. Però fa anche l’attore che improvvisa, che deve immaginare la situazione vissuta dal paziente e deve impersonare il personaggio che corrisponde alla vita del paziente. Per cui il paziente dice ‘Sì, è così, è così’”. (idem, pag.35). Laddove mi piace pensare che “Sì” sta, tornando al libro sopraccitato, per “psicoanalisti e pazienti” ed, “è così, è così”, per “a teatro, a teatro!” in quella sorta di ineluttabile destino che ha la psiche di venire rappresentata nei più diversi teatri o, più frequentemente, di sentirsi rappresentata, nell’universale bisogno di dialogo di comprensione con l’altro. 3. Il riscaldamento. Altri oggetti Un altro oggetto è un fermaglio, di quelli a bastoncino, che occorrono ad una capigliatura piuttosto lunga. Poi un piccolissimo mappamondo, sufficiente però a rendere l’dea, un po’ chapliniana, di avere il mondo tra le mani. Poi ancora una bottiglia vuota o, se si vuole, scolata. Penultimo oggetto: un telefono. Di quelli vecchi, in bachelite. Nero. Non l’ho detto, però quel telefono l’ho portato da Berlino. Nella mia mente sapeva di comunicazione in tempi e luoghi carichi di assoluta tragedia (altro collegamento con la Vienna post - bellica già evocata). Poco cambia se lo immaginiamo funzionare nel nostro paese, nel secolo appena superato. Infine, una corona. E’ sì costruita con mattoncini giocattolo, ma è inequivocabilmente una corona. Questa la scenografia, completamente diversa dai teatri che accolgono lo spettatore con il sipario chiuso. In questo caso il riscaldamento dei partecipanti inizia subito; non occorrendo (anzi!) un sipario pronto ad aprirsi, una scena o un attore che richiamino l’attenzione sull’evento teatrale che sta per aver luogo. Dunque, da bravo regista, avendo disposto la scenografia in quel modo, il direttore ha condotto via via alla provocazione chi è arrivato. Salutando tutti uno a uno, lui stesso rialzato sul palcoscenico, catalizza in quel verso l’attenzione. Va da sé che anche il regista - direttore, nel predisporre la scenografia e, poi, entrando in essa, attivando la scena, si è via via riscaldato. E l’entrata in scena è sì salire sul palcoscenico; ma, soprattutto è salutare le persone e aiutarle a prendere posto; evitando di dare spiegazioni alle domande che vengono poste. Qui accenno soltanto ad un contenuto di logistica metodologica. L’approccio del partecipante al teatro di psicodramma è, in questo caso, più somigliante a quello dell’ “open session” beaconiana che ad un’esperienza psicodrammatica di oggi, nella quale il gruppo è la forma della partecipazione dei singoli. Anche in una semplice sessione aperta, infatti, i partecipanti si raccolgono sul palcoscenico vuoto che chiede di essere riempito. Qui il palcoscenico è già, in un certo senso pieno e predisposto ad accogliere singoli, da esso riscaldati. 4. Moreno alla Komodienhaus I sabaudi sono abbastanza puntuali e così intorno alle 21,15 prendo la parola ed illustro il senso della serata. E, appena dopo, è il momento di svelare il perchè della poltrona, della corona e di tutto il resto. La sala è complice. Pronta all’accadimento. Prendo il testo di Andrea Cocchi “La Mente sul Palcoscenico. Lo psicodramma in teatro” che, nelle pagine iniziali (17 e 18), riporta la redazione autobiografica di Moreno della serata alla Komodienhaus con i viennesi, l’1 aprile 1921. E lo leggo. La versione completa la trovate sul testo. Qui riporto solo alcune frasi, data la notorietà del brano e dell’episodio. “Quella sera ero solo sul palcoscenico. Non avevo un cast di attori né un testo da recitare. …pubblico formato da più di mille persone. Quando fu alzato il sipario, sul palcoscenico non c’era che una poltrona in velluto rosso, dal telaio dorato e con uno schienale alto, come un trono regale. Sulla poltrona c’era una corona dorata. …Cercavo di curare il pubblico da una malattia, una sindrome culturale patologica condivisa da tutti coloro che si trovavano in teatro quella sera. …il tema era la ricerca di un nuovo ordine…Ciascuno secondo il suo ruolo, politici, ministri, scrittori, soldati, medici, avvocati, tutti furono da me invitati a salire sul palcoscenico, a sedersi sul trono, e ad agire come un re. Nessuno aveva potuto prepararsi in precedenza. Personaggi impreparati agivano una commedia improvvisata di fronte ad un pubblico altrettanto impreparato.” E, naturalmente, si ricorda come, in quella data, 85 anni fa, nascesse lo psicodramma… Dunque il gioco è l’omaggio ma, anche, quella dose di teatralità che fa dell’azione pure un fatto di estetica. Ed, in questo caso, il setting teatrale lo pretende. 5. Il riscaldamento. La prima consegna Sono tentato di scrivere : “l’azione”, al posto de: “la prima consegna”. Messa così, la forma è per sottolineare che l’azione già c’è e che la prima consegna interpreta (è questo, il senso psicodrammatico dell’interpretazione) solamente un’esigenza d’incominciamento che è nell’aria e che il direttore non deve far altro che raccogliere. Chiedo a tutti di alzarsi per andare a salutare le altre persone presenti in sala, con l’intento, dichiarato, di incontrare, in ispecie, quelle non conosciute. Per i più può non essere stata una sorpresa, trattandosi di una serata psicodrammatica, che quindi evoca, naturalmente, dinamiche non classicamente teatrali. Una certa ”animazione teatrale” si sarebbe accontentata di questo movimento. Viceversa, cosa rende psicodrammatica un’attività ricordo non sia l’azione fisica, anche se questa ne può far parte. Ma di ciò renderò conto nel corso delle righe. Dunque, dopo un congruo numero di minuti il direttore dà la seconda consegna, chiedendo di tornare a sedersi. Poi, ottenuto un clima di attenzione, la richiesta di provare a dire, con una parola, lo stato d’animo del momento. Non entro nei contenuti, ma segnalo come la classica “rottura del ghiaccio” sia un momento quasi necessario per sottolineare la veridicità del momento; aspetto niente affatto da trascurarsi in quest’operazione iniziale di vera e propria stipulazione di un accordo tra il regista - direttore ed i partecipanti; per chiarire sin da subito l’intento della serata, giustificata dalla metodologia psicodrammatica in ambiente teatrale; e non il contrario. Nel dire di sé, dopo l’incontro, anche fisico, dello spostarsi, accade che ciò che fino ad allora era percepito come una somma di singoli, possa, via via configurarsi come forma di un gruppo che è entità originale di persone che si sono, e che si stanno, per incontrare gli altri. Certamente l’incontrarsi di singoli per uno “scopo” comune aiuta. Così ritengo che Moreno, quando accoglieva le persone sui suoi palcoscenici (penso allo Stegreiftheater, a Beacon, alle occasioni pubbliche in giro per il mondo) una certa costruzione di una forma di gruppo tra i singoli ed il resto dei partecipanti, riuscisse ad ottenerla. Sottolineo questo aspetto contenutistico vista l’idea che Moreno abbia concretizzato una metodica per i singoli (protagonista ed ausiliari) più che per il gruppo in senso stretto. Daltronde ritengo sia nella natura stessa della meccanica psicodrammatica creare una comunicazione di natura gruppale che non può risolversi nella mera azione dei singoli. 6. La scelta del protagonista. L’azione psicodrammatica Alcune persone accettano di misurarsi con la poltrona evocativa; di prendere un oggetto simbolo tra gli altri e di mettere via via in parole il transito dei pensieri e delle emozioni, in quell’istante, così, seduti sulla “poltrona del potere” con l’oggetto, catalizzatore d’immagini tra le mani davanti al pubblico – uditorio. “Potere” nel senso di possibilità di dire , di affermare, di dichiarare, di rivelare all’interno di un contesto divenuto gruppale. Ora una persona, un oggetto, fino ad esaurirsi tutti. Fino alla corona, rimasta per ultima nelle mani di Annelise (buon nome da pseudonimo), votata protagonista dall’uditorio per alzata di mano, incuriosito dal suo definirsi “la regina dei folli”. Annelise poteva non accettare. Ed invece ha accettato, per dar vita ad uno psicodramma da fine dei tempi (quasi temi allegorici di quella Vienna post - prima guerra mondiale riproposti in filigrana nella sua personale vicenda). Tempo di passaggio a veder finiti lavori ed amori e guerre, per quei qualcosa e qualcuno che , nel futuro, dovranno per forza esserci. A seguito ancora dell’incontro, velatamente nostalgico, con il proprio Io di vent’anni, per trovar modo di dire alla propria madre ed alle madri di tutti i tempi e generazioni di lasciar andare le loro creature per luoghi che a loro non appartengono oltre. Prima di giungere alle conclusioni mi preme sottolineare alcuni contenuti di merito e di metodo. Può succedere, in un simile contesto, che il gruppo voti per un protagonista dai tratti significativamente istrionici, in nome della delega di soggetti passivi che richiedono al protagonista ed alla sua malcelata esigenza di palcoscenico: “facce ride!”. Nel nostro caso nulla di ciò è accaduto, a riprova del buon esito della costituzione del gruppo, attivato nella sua responsabilità di incontro per e con il protagonista e non nelle eventuali esigenze ludiche dei singoli. A differenza di altre esperienze di psicodramma su di un palcoscenico teatrale, non si sono adoperati ausiliari professionisti. Il protagonista ha scelto gli ausiliari tra il pubblico. Il direttore ha usato i termini di “alter ego” di “Io ausiliario” e così via, ogni vota introducendoli con una brevissima spiegazione per loro e per l’uditorio. Non si sono sparse lacrime catartiche nella scena. La tragicità è emersa senza sguaiatezza. La metodologia ha fornito strade e veicoli che non hanno consentito l’emergere di istrionicità né nel protagonista, né negli ausiliari. E nemmeno nel direttore, garante anche del regime gruppale al quale, necessariamente, rispondere. Uditorio - gruppo che, nel lavoro col protagonista, ha rappresentato il consueto serbatoio di ausiliari, perdendo un po’ (forse anche per non completa abilità del direttore) quella vivacità attiva dell’azione che lo dovrebbe caratterizzare. Quindi un setting che non ha definito una dinamica attori – spettatori – regista; bensì un contesto che ha richiesto un regista per dirigere un protagonista tra protagonisti. Ancora, la semirealtà del (o nel) palcoscenico teatrale ritengo sia qualcosa di diverso di quella che si definisce nel gruppo di psicodramma. C’è, infatti, qualcosa di semireale già nel distacco fisico così marcato del palcoscenico dal resto del setting teatrale; cosa che porta il protagonista di turno ad essere naturalmente distaccato, abbisognando solo più della definizione di un tempo e di un luogo in cui dare il “ciack” all’azione. 7. Alcune, prime, conclusioni A proposito di protagonisti, l’emergere di tematiche spiccatamente esistenziali: l’incertezza, il destino, l’età, le scelte ha condotto, in modo naturale, al playback theatre che ha consentito di concretizzare significativamente la partecipazione dell’uditorio nella quale ha preso forma la materia emersa grazie al protagonista stesso. Il lavoro col grande gruppo può conservare la “palcoscenicità”. In altre parole non credo tutto si possa risolvere in un sociodramma che vede il gruppo come contenitore protagonista dell’azione; proprio perchè il pubblico si attiva anche nel riferirsi, guidato, al focus preciso del palcoscenico. Come è stato descritto e come proseguirà nel processo attivato durante il playback. Il direttore si deve guadagnare il ruolo. Mentre in una sessione aperta l’alleanza è stipulata quasi in automatico, visto il setting del teatro di psicodramma e dello scopo che, bene o male lega i partecipanti, in un’azione teatrale con metodologia psicodrammatica ed, inoltre, con un grande gruppo, ritengo prevalga un’attesa, di certo curiosa, ma carica d’una sorta di pensiero sospeso e non sempre rassicurato. Dunque è in gioco il direttore che deve decidere sul ruolo da assumere. E lo deve fare fin dalla fase ideativa. E, detto questo, fin dall’incipit, tutti colgono, lui per primo, se sarà un istrionico mattatore o un direttore di psicodramma che, per una sera, torna alle origini del metodo; e non per liberarsi delle sue leggi vivendo, col pubblico un acting direttoriale, bensì per ribadirne, oltre alla sua “classicità”, l’aspetto della teatralità che apre l’individuo alla scena pubblica nella quale poter esprimere ogni sua potenzialità ed impotenzialità relazionali. SECONDA PARTE: LA FASE DEL PLAYBACK THEATRE di Nadia Lotti “Il teatro è la ricerca dell’Unità” Peter Brook 1. Il passaggio dallo psicodramma al playback theatre Lo psicodramma di Annelise “regina dei folli” è terminato. Marco, il direttore di psicodramma è sul palcoscenico al suoi fianco e annuncia al pubblico che passerà la conduzione della serata a Nadia, conduttrice di playback theatre. Nadia sale sul palco e dopo uno scambio attraverso una stretta di mano a Marco, per sancire il passaggio, si affianca ad Annelise e rivolgendosi al pubblico spiega: “L’ultima fase di uno psicodramma è quella della partecipazione dell’uditorio o sharing. E’ il momento in cui voi che avete assistito o partecipato allo psicodramma di Annelise potete portare i vostri vissuti ed esprimere, se volete, le risonanze emotive che la sua scena ha risvegliato in voi. Questa sera vivremo questo momento di condivisione attraverso il metodo del playback theatre. Per fare ciò abbiamo bisogno di attori e un musicista…” Nadia chiama sul palco i 4 attori e il musicista ed insieme sistemano lo spazio portando la poltrona blu in platea e sistemando 4 cubi sul fondo del palcoscenico. “Il playback theatre, ideato da Jonathan Fox, è una forma di improvvisazione teatrale sulle storie personali. Jonathan è uno psicodrammatista che ha messo a punto un metodo che si colloca tra arte, rituale e interazione sociale. Stasera non rappresenteremo le storie personali ma le emozioni che circolano in questo momento nella sala dopo la partecipazione a questo psicodramma. (Rivolta alla protagonista) E tu Annelise sarai lo spettatore speciale, ti accomoderai sulla poltrona blu per assistere alle rappresentazioni dei nostri attori. (Nadia la accompagna a sedere). Questo gruppo di attori ha partecipato ad un corso di due giornate di playback theatre e stasera si rende disponibile per assumersi il rischio mettere in scena e interpretare i temi che ci porterete attraverso delle tecniche di improvvisazione appena apprese. Vi chiediamo gentilmente di concederci solo un minuto per ritrovarci come gruppo, una fase fondamentale per riscaldarci al ruolo… sarà una cosa breve…ma intensa”. Il conduttore, gli attori e il musicista si dispongono in cerchio e tenendosi per mano si concentrano per qualche istante. “Il playback theatre si fonda sul rituale. Questo momento per noi ha il valore di un rituale di inizio per scandire il passaggio da spettatore ad attore e per creare una sintonia di gruppo, indispensabile per il lavoro di improvvisazione. Bene adesso che siamo pronti, ci presentiamo... ” 2. In breve… una performance. Nonostante il limitato tempo a disposizione e la poca esperienza degli attori si è comunque riusciti ad offrire una cornice rituale che ha consentito al pubblico di vivere in modo intenso l’esperienza di playback theatre. Non si può parlare in questo caso di una vera e propria performance sebbene in questo contesto abbia avuto lo stesso valore. L’alternarsi di momenti di interazione sociale, durante i quali il conduttore raccoglieva dal pubblico i vissuti, ed i momenti di azione scenica e musicale da parte degli attori e del musicista hanno fornito una struttura entro la quale vivere l’evento. L’idea di performance è intesa come un agire, un essere in atto, che si contrappone al concetto di spettacolo come esibizione, prestazione ed ha la funzione di far ri-vivere, ricostruire e ri-modellare l’esperienza umana. (Turner 1992) L’esperienza, intesa come vissuto, necessita però di un’organizzazione dei dati sensoriali ed emozionali. Occorre uno schema che possa dare un ordine ed una forma alle impressioni rilevate dalla persona. In questo caso il playback theatre ha fornito lo schema per consentire alle persone coinvolte nell’esperienza di vivere la fase che nello psicodramma viene definita “sharing”, attraverso una serie di fasi successive: Espressione Le persone che hanno assistito allo psicodramma hanno potuto esprimere il loro vissuto. Le cinque persone che sono inoltre sono state chiamate ad agire il ruolo di io ausiliario nella scena di Annelise (l’alter ego, il fidanzato, il lavoro, Annelise da giovane e la mamma) hanno potuto dire quello che hanno provato. Attraverso la parola i contenuti emotivi interni hanno trovato il modo per venire esternati e comunicati agli altri. La persona, attraverso la narrazione compie già una selezione. Nella formulazione delle frasi e nella scelta dei contenuti da trasmettere offre una sua prima interpretazione al tema che vuole portare. La verbalizzazione da parte della persona raggiunge così gli altri spettatori. Ognuno coglie significati che possono essere anche differenti fra loro. Ognuno, attraverso la propria sensibilità percepisce la verbalizzazione in modo diverso, dando maggiormente valore ad una parola piuttosto che ad un’altra, forse mettendo in atto dei confronti o dei parallelismi con la propria esperienza. Filtro Il conduttore raccoglie il racconto della persona che si è espressa. Chiede delucidazioni laddove non sembra chiaro, riformula sinteticamente alcune espressioni troppo lunghe. Il conduttore opera a sua volta una sintesi proponendo una interpretazione che viene però accordata al momento con la persona che può confermare o disconfermare, aggiungere o togliere particolari. Lo scopo del conduttore è andare all’essenza. E’ cercare di ridurre ai minimi termini, aiutare la persona a fare maggiore chiarezza, mettere ordine ai propri pensieri attraverso una sintesi. Il conduttore ha il ruolo di filtro. Deve condensare in poche parole ciò che è stato spiegato dalla persona. Deve fornire un tema solo tratteggiato da offrire agli attori che sono ora pronti per la rappresentazione scenica. Drammatizzazione Il conduttore consegna agli attori i temi emersi e dà indicazioni sulla forma espressiva da utilizzare. Gli attori rappresentano i contenuti attraverso una modalità simbolica. La loro funzione è quella di interpretare i temi offrendo nuove versioni e di tradurre le parole in azione scenica. Il loro ruolo ha una funzione di medium. Essi diventano un tramite tra il mondo interno della persona che ha parlato e la realtà esterna. Attraverso il livello simbolico della rappresentazione scenica si passa dal piano di realtà a quello di semirealtà. La scena costituisce un contenitore che consente di accedere ad un livello comunicativo più allargato, quello sociale. Il materiale interno della singola persona raggiunge l’intero pubblico: tutti possono vivere l’intensità emotiva delle parole del narratore. La narrazione del singolo è stata rielaborata in azione scenica ed ha raggiunto la collettività. Teatralizzazione Il pubblico assiste alla rappresentazione. Teatro, che significa guardare, sta ad indicare l’azione svolta dallo spettatore nel momento in cui il suo sguardo è rivolto ad una azione che si svolge. Il pubblico quindi è il teatro che guarda e vive le corrispondenze emotive che la scena innesca nel qui ed ora. Ognuno dal suo punto di vista percepirà sfumature differenti, le svariate sensibilità verranno colpite da particolari diversi. Ma l’insieme degli sguardi, la totalità della platea si sintonizza su una qualità di respiro che tende a armonizzarsi all’unisono. Si percepisce una sorta di respiro comune, che confluisce nell’applauso. L’applauso sancisce la chiusura dell’azione. Il battito delle mani è la modalità in cui il teatro degli sguardi si afferma portando il suo contributo. L’applauso è la voce del pubblico nel suo insieme che segna il ritorno sul piano di realtà. L’applauso ha una sua diversa intensità, ritmo e punteggiatura. Attraverso l’applauso il pubblico dice la sua e contribuisce a costruire la qualità dell’evento. Riconoscimento Il conduttore cerca lo sguardo del narratore. Se nell’incontro di sguardi non percepisce un consenso che esprime approvazione, pone delle domande tipo: “Ti sei riconosciuto?”. Il narratore può annuire o riprendere la parola per esprimere quegli aspetti che la scena ha reso più chiari o quei particolari che ha visto distanti dal suo racconto. Il più delle volte, anche se ci sono stati elementi discordanti dal suo vissuto, è sufficiente lasciare al narratore la possibilità di esplicitarne i motivi e riconoscersi per differenza. Molto raramente il conduttore decide di riproporre una scena che possa colmare questa mancanza, solo nel caso egli intuisca la necessità, da parte del narratore, di rivedere una nuova scena in caso di marcata frustrazione. In genere si confida nel fatto che anche se la scena non ha corrisposto esattamente alle esigenze del narratore, senz’altro avrà riscontrato il riconoscimento da parte di altre persone in platea. Il playback si rivolge principalmente al pubblico nel suo insieme, il narratore è una voce a cui va dato il suo valore, ma è importante lasciare fluire il processo di gruppo. E’ probabile che, se il pubblico nel complesso percepisce un vuoto, una mancanza, la successiva narrazione andrà a cercare di colmare quella assenza. Distanza Aver visto rappresentate le proprie emozioni sul palcoscenico crea distanza. Una distanza che permette di attribuire senso e significati. Il contributo degli attori ha inoltre offerto un di più che la persona può considerare, sia accettandolo sia rifiutandolo. Sentire tutto il pubblico che si fa attraversare dalle stesse vibrazioni provocate dalla scena sul suo racconto fa sentire la persona parte di un tutto, meno sola e più compresa. Dialogo Le narrazioni alternate alle scene si susseguono come le frasi di un discorso. Ogni narratore contribuisce con la sua parte, all’interno di un dialogo. Si può individuare un leitmotiv come all’interno di un brano musicale, un tema ricorrente che ritorna più volte per scandire la sua modulazione. Oppure il dialogo può caratterizzarsi con un ritmo tipo botta e risposta. Alcune volte il tono del dialogo è molto fievole e sommesso con un timbro opaco e poco deciso, altre volte invece le battute sono nitide ed esplicite. Il carattere del dialogo che si crea è da attribuire al tipo di pubblico, alla compagnia di playback ed al contesto in cui si svolge l’evento. Il compito della compagnia di playback è quello di facilitare il fluire armonico del discorso, di rendere più limpido ciò che si presenta offuscato e oscuro. E’ questa un’abilità che si matura attraverso pratica ed esperienza ma soprattutto richiede consapevolezza del valore di questa funzione del playback. Trasformazione Il potere trasformativo del playback è nelle mani della compagnia. E’ l’agente di cambiamento più rilevante. Essere sul palcoscenico significa prendersi la responsabilità di assumersi un ruolo molto complesso, che richiede un certo spessore personale. Significa saper accogliere con autenticità tutto ciò che emerge dal pubblico e restituirlo arricchito. L’arricchimento avviene solo se il performer ha davvero assorbito e fatto suo il tema del pubblico. E’ un compito difficile. Quando si è sul palcoscenico si sente profondamente ed intensamente il forte impatto emotivo originato dal rapporto con il pubblico. Dal palco, nonostante i riflettori e la distanza si percepisce ogni tensione, sospiro, umore che proviene dal pubblico. Il palcoscenico fa da specchio di amplificazione. Ma non ci si deve fermare lì. Solo se accolta, introiettata, elaborata e compresa dai performer l’ansia iniziale di un pubblico impreparato verrà trasformata in qualcosa che può portare ad un’evoluzione, ad uno sviluppo. D’altro canto tutto ciò che avviene sul palco acquisisce una rilevanza impressionante per il pubblico. Ogni piccolo fremito viene amplificato e moltiplicato per gli sguardi degli spettatori. I performer devono saper reggere questo potere esaltante. Occorre saper tenere dentro il tutto, l’insieme del concerto degli umori del pubblico per poi modulare con gradualità ma incisività motivi ed arie musicali. I performer sono i musicisti che riescono a trasformare in ritmi e melodie i suoni caotici e cacofonici di un’orchestra che cerca di accordare i diversi strumenti. 4. Un ritmo al respiro Durante il tempo dello psicodramma il ritmo era scandito dagli interventi del direttore e dal dramma che veniva agito da Annelise e dagli io ausiliari. Il tono della voce, le pause, gli accenti conferivano all’esperienza una particolare cadenza ritmica che potremmo descrivere come respiro. Lo psicodramma, per sua natura, si cura in primo luogo del respiro dell’anima del protagonista. L’uditorio si sintonizza su questa tonalità di respiro generato dalle persone in scena sul palcoscenico. Questo particolare tono può coinvolgere intensamente le nostre passioni, può colpirci profondamente, turbarci e impressionarci. Può infondere calma e sicurezza oppure noia e distacco. Il direttore non si cura del respiro dell’uditorio, egli e centrato sul protagonista, sul suo mondo psichico e lo srotolarsi della scena. Durante questo psicodramma Annelise ci aveva portato a respirare con lei il suo dilemma. Il pubblico ha sospirato con lei di fronte all’ineluttabile scelta fra l’amore e la realizzazione professionale. Il senso di confusione di quando ci si sente divisi ha superato il confine del palco ed ha pervaso la platea . Con lo svolgersi del dramma Annelise ha deciso di rinunciare ad entrambe le alternative e ha scelto di guardare dentro se stessa per ricercare quell’energia vitale che potesse aiutarla a trovare la strada giusta per sé. A conclusione dello psicodramma si poteva percepire nel pubblico un impalpabile stato di sospensione: Annelise aveva trovato la sua risposta e nel contempo probabilmente ogni spettatore sentiva dentro di sé l’insorgere di corrispondenze e identificazioni ma anche di dubbi e interrogativi. Qualcuno forse sentiva che questo dilemma aveva mosso in lui il bisogno di trovare altre soluzioni o di aprire nuovi scenari. Il playback theatre si è offerto per ascoltare il respiro del pubblico. Per consentire di connettere le risonanze fra le persone. Per integrare i diversi fiati fra loro nella ricerca di un respiro comune. Nel playback il ritmo viene scandito dai performer sul palco e dagli interventi degli spettatori. Il conduttore ha il compito di curare, supportato dal musicista, lo scandire dei tempi, degli accenti e degli intervalli. Il focus del conduttore è l’intera comunità presente. Nel momento dell’interazione sociale la sua attenzione è concentrata su diversi aspetti: il contenuto, il processo e il ritmo. Occorre dare fluidità ai momenti in cui ci si relaziona sul piano di realtà. E’ una fase delicata, un momento di passaggio. E’ fondamentale che il conduttore stimoli, accolga e contenga il fluire degli interventi secondo un ritmo preciso che anticipa e si accorda con il ritmo delle scene. Sul palcoscenico gli attori quella sera hanno giocato uno stile molto vivace dai toni accesi. Il gruppo aveva lavorato insieme solo da due giorni e, eccetto una persona, si trovavano di fronte ad un’esperienza completamente nuova, che non avevano mai vissuto nemmeno in veste di spettatori. Il forte senso di appartenenza, la fiducia reciproca, nel conduttore e nel metodo hanno catalizzato le energie della compagnia creata per l’occasione. Gli attori si sono offerti al pubblico con generosità e audacia. Il pubblico ha assistito ad una decisa virata di ritmo rispetto allo psicodramma. Le drammatizzazioni sono state intense, molto condensate nel tempo e con toni alti e decisi. L’utilizzo della parola è stato eccessivo e un’ po’ ridondante rispetto a quanto sarebbe stato necessario, ma ciò è da attribuire alla poca esperienza del gruppo nel suo insieme, e al bisogno forse di utilizzare la parola come collante per sentire con più incisività il resto del gruppo in scena. Anche la capacità di tipo trasformativa da giocare in prevalenza sul piano simbolico per cercare di cogliere e restituire nuovi significati alle narrazioni proposte non è stata sfruttata appieno. Gli attori non potevano contare di un retroterra esperienziale e di una cultura condivisa che gli avrebbe consentito di assumersi il rischio di andare molto oltre ciò che era stato narrato. Fare l’attore di playback è una sfida. Per gli attori della serata “il corpo in scena” la grossa sfida è stata passare da spettatore ad attore con spontaneità e freschezza. Un grosso fattore propulsivo è stato l’aver condiviso due giornate di formazione sul playback theatre in un clima di profonda condivisione e di aver sentito e compreso il valore del rituale. La consapevolezza di essere al servizio della comunità ha consentito alle persone presenti quella sera di vivere, come dice Peter Brook, il teatro come ricerca dell’unità. 5. Conclusioni L’incontro tra psicodramma e playback theatre è riuscito. Lo psicodramma inserito in un contesto teatrale ha beneficiato del playback come veicolo per costruire uno spirito di comunità; ed il playback ha sfruttato appieno la sua potenzialità integrativa con il ricco materiale offerto dallo psicodramma. I due metodi si sono legati tra loro attraverso un rituale comune. I modi differenti in cui il rituale è stato sostenuto hanno però seguito una soluzione di continuità che ha reso l’evento organico e unitario. Già dai primi momenti dello svolgersi dello psicodramma si è percepito fortemente la potenza del rituale. Il setting teatrale, con il palcoscenico e il pubblico rivolto verso di esso, già di per sé ha costituito una cornice che ha sostenuto le persone e le loro azioni. Quando il direttore di psicodramma ha rivolto al pubblico la richiesta di salire sul palcoscenico per scegliere un oggetto, le persone che hanno sentito il richiamo dell’oggetto si sono portate sul palco una dopo l’altra senza esitazioni, seguendo un’alternanza armonica che ha conferito al momento una sorta di solennità. Durante le scene di Annelise gli io ausiliari da lei scelti si sono prestati al gioco senza indugi e hanno seguito le direttive registiche senza uscire dal ruolo per chiedere precisazioni sul da farsi. Questo è il potere dello psicodramma a teatro. Le persone si lasciano portare dal flusso degli eventi seguendo forme e regole che non hanno bisogno di essere esplicitate. Nel teatro, con un pubblico numeroso, il rituale dello psicodramma acquista più valore che in uno studio con un gruppo ristretto. Allo psicodramma è seguito il playback theatre, con altre regole ed usi. Il pubblico ha percepito il cambio di registro, ma il contenitore rituale ha dato continuità all’esperienza. Il playback theatre si rivolge d’abitudine a contesti teatrali, anche se spesso si trova ad adattare il palcoscenico in spazi insoliti e informali. Talvolta soffre la difficoltà di confrontarsi con un pubblico che non è preparato o maturo per condividere. Altre volte ancora si interroga sulla propria efficacia in situazioni in cui le persone sembrano ancora troppo colpite dal proprio dramma personale per poterlo rivedere con una certa distanza. In questa occasione il playback è arrivato nel momento in cui un pubblico era pronto per la condivisione. Per condividere quel corpo che era stato messo in scena. Il corpo di un individuo nel corpo di un gruppo: “Il corpo in scena”. BIBLIOGRAFIA Brook P., La porta aperta, Anabasi, Milano, 1994 Il Mulino, Bologna, 1986 Fox J., Acts of Service. 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