Un empirismo minimale: perché si possa parlare di empirismo è necessario poter attribuire all’esperienza percettiva il compito di giustificare le nostre credenze e di renderle quindi responsabili rispetto al mondo di cui pure ci parlano. Se è lecito parlare di un empirismo, sia pure colto nella sua forma meno esigente, almeno questo deve poter valere: si deve poter sostenere che se credo che p sia vera, allora debbo poter affermare che il fondamento mediato o immediato della mia credenza è un determinato fatto di natura percettiva. “Nihil nisi punctum petebat Archimedes, quod esset firmum et immobile, ut integram terram loco dimoveret; magna quoque speranda sunt, si vel minimum quid invenero quod certum sit et inconcussum”. Il mito del dato Alla constatazione secondo la quale è lecito distinguere le conoscenze inferenziali da quelle che ci riconducono alla dimensione osservativa sembra essere possibile affiancare una tesi più impegnativa che ci invita a sostenere che le conoscenze non inferenziali sono direttamente fondate sull’esperienza e poggiano soltanto su essa. Non è una differenza da poco: ora non ci limitiamo più a sostenere che vi sono alcuni fatti che ci sembra di poter constatare muovendo da ciò che la percezione ci porge, ma vogliamo invece affermare che la percezione che ora abbiamo nella sua immediatezza e nella sua natura di dato antecedente ad ogni interpretazione concettuale è in grado di fondare la nostra credenza e racchiude in sé tutto ciò che è necessario per giustificarla. Una constatazione importante: per Sellars, il dato è un mito non in se stesso, ma se cerchiamo di avvalercene in una funzione fondazionale. Ciò che è incomprensibile non è il fatto che vi siano percezioni immediate, ma che esse possano fungere come fondamento di credenze. Il dato è un mito dunque solo nella sua funzione fondazionale – questo è quanto Sellars sostiene. Due argomenti. La critica del principio empiristico dell’astrazione. È davvero possibile intendere i concetti come se fossero un particolare genere di vissuti che sorgono dalle sensazioni grazie ad una qualche modificazione del loro contenuto psichico? No: è solo frutto di illusione credere che un concetto sia un’immagine, sia pur priva di un confine ben definito. Le cose non stanno così, i concetti non sono immagini, sia pure vaghe, ma un certo modo di impiegarle che può essere determinato solo se ci si dispone sul terreno intersoggettivo dei giochi linguistici. Di per sé un’immagine vaga non ci permette di individuare l’oggetto cui si riferisce e questo può far sorgere l’idea che quell’immagine abbia la valenza generale che è propria delle nozioni; le cose non stanno così: un concetto non è qualcosa che alluda in modo vago al suo referente e che, proprio per questo, possa equivocamente essere usato per indicare ora questo, ora quell’oggetto, ma è il veicolo di una determinazione ripetibile, di un senso che può essere applicato secondo una regola che svincola dall’occasione del suo occorrere la paradigmaticità dell’esempio. Il maestro fa così: traccia alla lavagna un triangolo e poi insegna al bambino ad avvalersene in un certo modo: propone un disegno e insieme un modo di avvalersene – una regola, appunto – che fa di ciò che è di fronte ai nostri occhi un paradigma della triangolarità. Propone un esempio e insegna un modo di avvalersene, e nel gioco delle approvazioni e delle riprovazioni sorge una regola d’uso che trasforma lo spazio dell’accordo in un concetto, in un certo modo di comportarsi che ha nella sua ripetibilità e nella sua intersoggettività i suoi contrassegni. Che cosa sia un triangolo non ce lo dice dunque un disegno fatto alla lavagna, ma un modo di impiegarlo che è sancito da un accordo intersoggettivo. Si muove, certo, da ciò che alla lavagna si mostra, ma l’immagine si fa modello solo in virtù di una procedura condivisa che le attribuisce una normatività. Due argomenti. L’impossibilità di una definizione ostensiva prelinguistica Si può definire ostensivamente il nome di una persona, il nome di un colore, di una sostanza, di un numero, il nome di un punto cardinale, ecc. La definizione del numero due: «Questo si chiama ‘due’» – e così dicendo si indicano due noci – è perfettamente esatta. – Ma come è possibile definire il due in questo modo? Colui al quale si dà la definizione non sa che cosa si voglia denominare con «due»; supporrà che tu denomini questo gruppo di noci! – Può supporlo; ma forse non lo suppone. Al contrario, se voglio attribuire un nome a questo gruppo di noci, l’altro potrebbe anche scambiarlo per un numerale. E allo stesso modo colui al quale do una definizione ostensiva del nome di una persona potrebbe interpretarlo come il nome di un colore, come la designazione di una razza o addirittura come il nome di un punto cardinale. Ciò vuol dire che la definizione ostensiva può in ogni caso essere interpretata in questo e in altri modi (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, op. cit., § 28). La triade incorente di Sellars «X esperisce il contenuto sensoriale rosso» implica «X conosce in modo non inferenziale che s è rosso». B. La capacità di esperire dati sensoriali non è acquisita. C. La capacità di conoscere fatti dalla forma x è φ è acquisita. A e B insieme implicano non C; B e C implicano non A; A e C implicano non B (ivi, p. 9). La soluzione di Sellars: se si abbandona A, l’esperire contenuti sensoriali diventa un fatto non cognitivo, un fatto che può anche costituire, in realtà una condizione necessaria, persino logicamente necessaria, della conoscenza non inferenziale, ma che rimane pur sempre un fatto che non può costituire questa conoscenza . La tesi A è per Sellars la tesi che esprime il mito del dato. Negarla vuol dire allora negare che sia lecito muovere dai dati sensoriali per leggerli alla luce della loro controparte conoscitiva e questo significa insieme distinguere nel concetto di dato sensoriale due piani interamente diversi – da un lato il piano della percezione come accadimento naturale che si situa nello spazio logico delle cause, dall’altro il piano dei giudizi di esperienza che si situano sul terreno dello spazio logico delle ragioni. Il concetto di dato sensoriale ci appare così come il frutto di un nothos logos da cui occorre prendere apertamente le distanze: “1. L’idea che certi episodi interiori – ad esempio sensazioni di rosso o di do # – si presentano negli esseri umani (e nei bruti) senza presupporre alcun processo di apprendimento o di formazione di concetti, e che questi episodi siano tali che, in loro assenza, sarebbe in un certo senso impossibile vedere ad esempio che la superficie esterna di un oggetto fisico è rossa e triangolare, o udire ad esempio che un certo suono fisico è un do #. 2. L’idea che certi episodi interiori siano le conoscenze non inferenziali del fatto che certi elementi sono, ad esempio, rossi o do #, insieme all’idea che essi rappresentino le condizioni necessarie della conoscenza empirica per il fatto di fornire la base evidenziale a tutte le altre proposizioni empiriche” (ivi, p. 10). Al fallimento del mito del dato fa eco l’ipotesi del coerentismo, come posizione che ci invita a prendere definitivamente commiato dall’empirismo e a sostenere che non è possibile alcuna giustificazione razionale dei nostri giochi linguistici. Il linguaggio come insieme dei giochi linguistici è coerente e ogni singola mossa è giustificata, come in una partita a scacchi, da altre mosse, ma non c’è un ancoramento razionale che ci consenta di dire che il nostro pensiero parla del mondo. Si parla di coerentismo per alludere a quella posizione filosofica che ritiene che il problema della verità non possa che giocarsi sul terreno della coerenza interna delle nostre opinioni, che non possono essere giustificate dall’essere così del mondo. Disponiamo le nostre proposizioni e le raccordiamo al mondo solo in un senso minimale – nel senso che i nostri pensieri ci servono per muoverci in questo nostro mondo; che ne parlino davvero, tuttavia, è qualcosa che non sembra possibile affermare. E ciò è quanto dire che nell’ipotesi del coerentismo il pensiero è davvero molto simile ad una partita a scacchi in cui ogni mossa ha una giustificazione interna alla scacchiera e una finalità esterna ad essa – vincere la partita. Di qui il problema di McDowell: “le ragioni […] per l’abbandono dell’empirismo consistono, schematicamente, nella tesi che non possiamo assumere una rilevanza epistemologica dell’esperienza senza cadere nel Mito del Dato, nel quale si suppone che l’esperienza, concepita in modo da non poter valere come tribunale, si ponga nondimeno come giudice nei confronti del pensiero empirico. Certamente, questo argomento ha la forma adatta per mostrare che dobbiamo rinunciare all’empirismo. Il guaio è che non mostra come possiamo farlo. Non fa nulla per rendere ragione della plausibilità della concezione empirista, secondo la quale possiamo dare un senso alla direzionalità verso il mondo del pensiero empirico solo se lo concepiamo come responsabile della sua correttezza nei confronti del mondo empirico, e possiamo comprendere la responsabilità nei confronti del mondo empirico solo in quanto mediata dalla responsabilità nei confronti del tribunale dell’esperienza, concepita nei termini degli impatti diretti del mondo sugli esseri che possiedono capacità percettive. Se ci limitiamo alle posizioni prese in esame […] le attrattive dell’empirismo non portano che all’incoerenza del Mito del Dato. Ma finché non viene data una ragione delle attrattive dell’empirismo, questo fatto è solo fonte di un perdurante disagio filosofico, non una ragione che ci alletti ad abbandonare l’empirismo” (ivi, p. XVIII). Una soluzione kantiana: il duplice fungere della ragione. La nostra esperienza percettiva è già permeata dalla dimensione del concetto e la presenza della spontaneità nell’esperienza è tale da non essere separabile dalla sensazione stessa. Il contributo che la sensibilità dà alla conoscenza non può essere nemmeno astrattamente disgiungibile dalla dimensione concettuale – dice McDowell e ciò equivale a sostenere che l’esperienza è attraversata da parte a parte dai concetti. Questa richiesta non è avanzata dal rifiuto del mito del dato, ma dalla necessità di pensare all’esperienza percettiva come una voce nello spazio logico delle ragioni. Non come un accadimento, ma come una ragione che può giustificare il nostro credere così. Una domanda importante: se il contributo che la sensibilità dà alla conoscenza non può essere nemmeno astrattamente disgiungibile dalla dimensione concettuale , se ogni esperienza percettiva è già subordinata alla norma del concetto, non stiamo forse cancellando semplicemente la differenza tra spontaneità e recettività? Che cosa differenzia l’esperienza sensibile nella sua apparente passività dalla libertà che caratterizza la spontaneità del pensiero? A questa domanda si deve cercare di dare una risposta perché la sensatezza delle considerazioni che abbiamo proposto poggia comunque sul fatto che spontaneità e recettività non siano la stessa cosa e operino anzi in modi differenti. La sensibilità ci ancora al dato, la dimensione concettuale lo illumina: il nodo che li stringe deve essere indissolubile, ma non può cancellare la specificità delle loro funzioni La soluzione che McDowell ci propone: il duplice fungere del concetto e la passività dell’esperienza concettualmente intesa. “Ho detto che, quando godiamo di un’esperienza, le capacità concettuali sono già utilizzate nella ricettività, non esercitate su materiali della ricettività che si suppongono antecedenti. E con ciò non voglio dire che vengano esercitate su qualcos’altro. Suona del tutto stonato, in questo caso, parlare di esercizio delle capacità concettuali. Farebbe pensare a un’attività, laddove l’esperienza è passiva. Nell’esperienza ci si ritrova gravati di un contenuto. Le proprie capacità concettuali sono già state messe in gioco, nel rendersi disponibile del contenuto, prima che si abbia una qualunque scelta in materia. Il contenuto non è qualcosa che si costruisce di propria iniziativa, come quando si decide che cosa dire a proposito di qualcosa. In effetti è proprio perché l’esperienza è passiva, un caso di ricettività in atto, che la concezione dell’esperienza che sto suggerendo può soddisfare il desiderio di un limite alla libertà – di quel limite che è all’origine del Mito del Dato” (ivi, p. 11). Una soluzione, in senso ampio, kantiano “la stessa funzione, che dà unità alle diverse rappresentazioni in un giudizio, dà dunque unità anche alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni in un’intuizione” (I. Kant, Critica della ragion pura, op. cit., p. 95) Kant ritiene che si possa parlare di un duplice fungere della ragione e distingue per questo una logica formale da una logica trascendentale, anche se poi ci invita a dedurre l’una dall’altra, dimostrando così implicitamente che ciò che agisce sul terreno del’esperienza, formandola nella modalità del giudizio, non è un pregiudizio oscuro e infondato, ma è la razionalità stessa. Il problema di Kant e la sua eco in Mente e mondo: come possiamo dire che l’esperienza è formata da concetti se i concetti non sono applicati all’esperienza? Cogliamo il carattere concettuale dell’esperienza solo perché possiamo disporla sullo sfondo del suo interagire con il pensiero come libero esercizio delle nostre capacità intellettuali: “In maniera del tutto generale, le capacità coinvolte nell’esperienza sono riconoscibili come concettuali solo sullo sfondo del fatto che chi le possiede è sensibile alle relazioni razionali che collegano i contenuti dei giudizi d’esperienza con altri contenuti giudicabili. Questi collegamenti danno ai concetti il loro posto come elementi di possibili visioni del mondo” (J. McDowell, Mente e mondo, op. cit., p. 12). “Le capacità concettuali poste passivamente in gioco nell’esperienza appartengono a una rete di capacità volte al pensiero attivo, una rete che governa razionalmente le reazioni agli impatti del mondo sulla sensibilità tese alla comprensione. Ed è parte dell’idea che l’intelletto è una facoltà della spontaneità – che le capacità concettuali sono capacità il cui esercizio avviene nel dominio della libertà responsabile – quella che la rete, nella forma in cui determina a un certo momento il pensiero del singolo soggetto, non è intangibile. Il pensiero empirico attivo si svolge sotto l’obbligo costante di riflettere sulle credenziali dei collegamenti, presunti razionali, che lo governano. Deve esserci una determinazione costante a rimodellare concetti e concezioni, quando la riflessione ce lo richiede. Certo, non esiste davvero la prospettiva che ci si possa trovare a dover rimodellare i concetti ai bordi estremi del sistema, i concetti più immediatamente osservativi, in risposta a pressioni provenienti dall’interno del sistema. Ma questa prospettiva, indubbiamente irreale, serve a evidenziare quello che è il punto rilevante per il mio scopo attuale. Il punto è questo: benché l’esperienza di per sé non si adatti bene all’idea di spontaneità, anche i concetti più immediatamente osservativi sono parzialmente costituiti dal loro ruolo in qualcosa che è, esso sì, appropriatamente concepito in termini di spontaneità” (ivi, p. 13). Insomma: il carattere concettuale dell’esperienza si manifesta nel fatto che l’esperienza funga da un lato come una voce che sembra fondare le nostre credenze, dall’altro come un parere che sembra possibile rivedere e discutere alla luce di altre voci. L’esperienza percettiva dice la sua nello spazio logico delle ragioni e se così stanno le cose, allora deve avere forma concettuale. Il fondamento della tesi secondo la quale il concettuale è senza confini è dunque nella constatazione che vi è un’appartenenza della dimensione percettiva allo spazio logico delle ragioni – quell’appartenenza che è chiamata in causa sia dal concetto stesso di un tribunale dell’esperienza, sia dalla possibilità del sapere di retroagire, sia pure in misura minimale, sul come della nostra esperienza percettiva. Si può, in altri termini, imparare a vedere e imparare a vedere meglio. Alcune domande rimaste aperte: 1. La posizione di McDowell implica l’idealismo 2. L’affermazione secondo la quale il concettuale è senza confini è fenomenologicamente proponibile? 3. Che dire del concetto di seconda natura di cui McDowell ci parla? 4. Si può sostenere che vi è una cesura così netta tra gli animali e l’uomo o questa tesi è semplicemente l’eco di un specismo teoricamente dubbio ed eticamente discutibile?