IL ‘SENSO’ DELLE PAROLE
Apprendimenti linguistici e vissuti
emotivi nei bambini adottati
Laura Monica Majocchi
Psicologa psicoterapeuta
Pergine Valsugana, 12 aprile 2014
Da “Bianca come il latte, rossa come il sangue”
Gli esquimesi hanno quindici modi di dire la parola
‘neve’.
Una diversa in base al colore, alla consistenza, alla
temperatura…, ma la neve è quella, no?
Puoi solo aggiungerci un aggettivo e vedere se puoi
andarci con lo snowboard, eppure gli esquimesi
vedono quindici tipi diversi di bianco.
Sai, amore, se come tutti gli eschimesi per la neve,
avessimo quindici modi di dire ‘ti amo’, io per te li
userei tutti.
Alessandro D’Avenia
Ascoltare ‘il linguaggio dei bambini adottati’,
i silenzi, le interruzioni, le tonalità, gli inciampi
le parole piene e quelle vuote (spesso per noi invece
così affettivamente significative e pregnanti come
‘mamma’, ‘papà’, ‘famiglia’, ‘per sempre’)
e quelle in via di ri-significazione
aiuta a percepire diversamente il loro mondo
profondo, le esperienze che gli sono appartenute e
che si portano dentro, ma anche i cambiamenti le
trasformazioni in atto..
‘amica’/‘sorella’
Surìa, bimba indiana giunta in Italia a 7 anni, a circa 6
mesi dall’adozione, usava in modo piuttosto
interscambiabile il termine ‘amica’ o ‘sorella’ per
riferirsi alla sorella maggiore cui si stava molto
legando.
‘Amiche’ erano per lei, da sempre, le compagne di
Istituto con le quali aveva a lungo condiviso gran
parte della sua quotidianeità ed esperienze, mentre
‘sorella’ rimandava ad un rapporto e ad un’intesa a
due particolare che solo di recente stava imparando
a conoscere in famiglia…
L’adozione del linguaggio
Le maggiori difficoltà nell’apprendimento della nuova
lingua si incontrano nei bimbi che, al momento
dell’adozione, non hanno ancora pienamente
sviluppato le loro potenzialità espressive di base
nella lingua madre.
O nei bimbi precocemente esposti ‘all’assenza/silenzio
dell’altro’ o a ‘linguaggi privi’ di risonanza affettiva.
La lingua appresa in Istituto spesso non è una lingua
emotivamente significativa, ma piuttosto una lingua
‘fredda’, strumentale, povera. Parole per connotare
‘azioni’ ed ‘eventi’ esterni, ma spesso non ci sono
‘termini’ per raccontare ‘il dentro’.
Non si tratta di semplici difficoltà ad apprendere
un’altra lingua, a sovrapporre (o ad affiancare) una
struttura linguistica ad un’altra.
Per molti bambini si tratta di difficoltà legate ad una
sfera più profonda, laddove le mancanze/interruzioni
delle esperienze di cura sperimentate hanno spesso
provocato carenze cognitive ed affettive che si
riflettono anche nella sfera del linguaggio.
L’accesso al linguaggio delle emozioni e degli affetti
(l’alfabetizzazione rispetto ai propri stati interiori) si
acquisisce all’interno di una relazione affettiva
significativa
Prima delle parole
IL LINGUAGGIO DELLA RELAZIONE
L’alternanza sperimentata tra l’assenza e la presenza
dell’adulto che interviene o meno con la risposta
adeguata alle comunicazioni preverbali emesse dal
bambino, costituisce il primo sostrato del linguaggio
che unisce il neonato alla madre.
Il senso del ritmo, e quindi degli spazi, delle ripetizioni
e degli intervalli, segnala la parte non ancorasimbolizzata dell ’ esperienza psichica, prima che
giunga ad essere detta.
Soprattutto
per
quei
piccoli
precocemente
istituzionalizzati (e magari lasciati nei loro lettini con
il biberon accanto e senza una presenza adulta che
segni il momento della poppata separato da quello
del riposo), è stato spesso impossibile distinguere tra
sé e l’Altro;
Lo stato di abbandono originario può determinare il
vissuto di uno spazio-tempo indifferenziato, senza
pause e senza possibilità di comprensione.
Un’impronta di base in cui l’assenza di un adulto
interamente dedicato si traduce in alterazioni nella
struttura e nella percezione del Sé.
LE RAFFICHE DI PAROLE
Anthony, bimbo ecuadoriano adottato all’età di 6 anni,
da qualche mese in Italia, parla incessantemente ‘a
raffica’, senza filtri, pause o possibilità di ‘ spazi
vuoti’ nella lingua d’origine.
Sempre, dicono i genitori, ‘da quando si sveglia a
quando va a dormire’. La qualità del suo dire sembra
assumere spesso la connotazione dell’urgenza e
dell’evacuazione (una modalità di scarica, più che di
contatto). Parole che dicono, dunque, innanzitutto
del suo non potersi fermarsi e dell’impossibilità di
tollerare ‘spazi vuoti’. Ma anche del suo ricercare
attenzione, visibilità, e centralità assolute.
Unico ‘piccolo’ inserito in Istituto in un gruppo di
adolescenti, quindi ‘senza la minima possibilità di
farsi ascoltare e di avere voce in capitolo’, racconta
in questo modo anche di una condizione esistenziale
assai impotente e frustrante, priva di riferimenti
affettivi, confini, protezioni ed argini di sorta.
Sveglio, intelligente e recettivo sul piano cognitivo,
sotto il profilo emotivo, invece, presenta elementi di
grande impulsività, disorganizzazione ed ambivalenza
affettiva, unitamente a scarsissima tolleranza alla
frustrazione.
AL SECONDO INCONTRO DI POST-ADOZIONE
EVOLUZIONI nella strutturazione delle FORME
rese possibili dal contatto con una MENTE
RECETTIVA e NON ESPULSIVA
GUTANO (BRUCO)
LA TARTARUGA
LA NAVE DEI PIRATI
Nella sequenza dei disegni si osservano progressive e
rapide trasformazioni dall’informe scarsamente
riconoscibile, da ciò che ha nome, consistenza e
struttura incerta (il gutano/gusano-bruco), agli
aspetti difensivi di ‘corazza’ anti-frammentazione
della tartaruga (parlando di Sé Antony diceva
abitualmente di essere un ‘ guapo ’ , un duro,
negandosi persino il diritto alla fragilità ed alle
lacrime), a quelli più ‘allargati’ e ‘strutturati’ del
gruppo-banda predatorio (la nave dei pirati) in cui
egli stesso sembrava perdersi e confondersi.
Un pirata depredato del suo diritto ad uno spazio
personale e differenziato.
In famiglia, nonostante il perdurare dell’impossibilità
a comprendere ed esprimere nella quotidianeità –ad
es. anche in merito al cibo o al gioco- desideri distinti
o a compiere scelte sentite come soddisfacenti e
‘proprie’, passando rapidamente da uno scenario a
quello opposto, Anthony aveva iniziato abitualmente
a ripetere più e più volte sia le domande da lui stesso
poste alle figure parentali, sia le indicazioni/risposte
ricevute, sollecitando protratte conferme e
convalide, verosimilmente nel tentativo di
interiorizzare spiegazioni, riferimenti, linguaggi e
significati condivisi.
Sul versante del linguaggio espressivo, unitamente
alla mancata acquisizione di alcuni suoni (mancanze
‘originarie’ presenti anche nella lingua madre), si
osserva la tendenza a contrarre frequentemente
termini e parole sull’onda del prevalere delle spinte
interne improntate all’urgenza emotiva.
Non poteva ‘perdersi nulla’.
ALTRE STORIE, LINGUAGGI E SVILUPPI
di bimbi arrivati con valide competenze
linguistiche
Jhon, bimbo ecuadoregno, adottato all’età di 5 anni e
precocemente istituzionalizzato, con una padronanza
linguistica ben sviluppata, dopo circa due anni
dall’arrivo in famiglia sosteneva con la mamma di
‘non essere mai nato’ prima del suo arrivo in Italia.
E, alle sollecitazioni materne che invece andavano a
confermare la sua esistenza precedente ed il fatto
che era nato dalla pancia di una mamma
dell’Ecuador, reagiva immediatamente tappandosi le
orecchie ed esprimendo grande risentimento e
rabbia.
In fondo lui raccontava “il suo non aver sentito di
esistere per qualcuno, prima…’
EFFETTI DEL TRAUMA SUL LINGUAGGIO
Leggendo anche solo il dossier di alcuni bimbi, ci si
rende perfettamente conto di come il trauma delle
perdite subite (specie se improvvise e recenti)
coincida con un ’ interruzione/congelamento del
pensiero e della parola.
Bimbi che, seppur grandicelli, non sanno riferire ‘il
loro nome’, né quello dei familiari, né le circostanze
in cui è avvenuto l’abbandono.
Consapevolezze e memorie che poi, talvolta,
vengono recuperate e re-integrate …
Come mi insegnò efficacemente una bimba nepalese
di circa 5 anni e mezzo che, a distanza di circa un
anno dal suo arrivo in Italia, si era presentata
all’incontro di post-adozione assai determinata a
farsi ri-conoscere da tutti nel suo ‘vero nome’, ossia
quello che ‘datole dalla sua mamma’ e non quello
‘ attribuitole dall ’ Istituto ’ , riferendo anche i
particolari del giorno in cui la mamma e la sorella
maggiore l’avevano portata in Istituto.
Come a dire: “Ora so chi sono e cosa mi è successo”.
Ma anche “Prova a dire tu che non è vero?”
O ancora i bimbi che, da un certo momento in poi,
iniziano a firmarsi con il doppio cognome: quello
d’origine e quello d’adozione.
Aspetti che si verificano spesso nel corso delle
psicoterapie, quando ‘fanno la loro comparsa’ nomi,
ricordi ed identità originarie e precedenti, solo in
apparenza ‘perdute’, ma più spesso attivamente
‘assopite’ e ‘secretate’, in altre aree della mente.
Altre volte queste ‘memorie’ emergono sotto forma
di comunicazioni/registri di tipo emotivo…. In attesa
che qualcuno sappia decodificare questo particolare
linguaggio interno.
Mary, bambina boliviana di 3 anni e mezzo, in Istituto
da circa un anno, ha vissuto un’impressionante
‘costellazione’ di abbandoni, separazioni e passaggi:
affidata dalla mamma alla nonna, dalla nonna al
papà, dal papà all’ospedale, dall’ospedale all’Istituto.
Permanenza, quest’ultima, intervallata da una breve
esperienza di adozione nazionale poi conclusasi con
la restituzione di Mary.
Dopo circa due anni dall’adozione, nonostante
l’evoluzione davvero molto positiva del legame di
attaccamento instaurato con le figure parentali e la
crescente sicurezza emotiva acquisita, presentava,
sul versante del linguaggio espressivo, ‘difficoltà di
accesso lessicale’.
Un suo modo di comunicare che, probabilmente,
diceva anche di ‘ quel suo essere rimasta troppo
spesso ammutolita, sola e senza parole’ di fronte alle
tante sparizioni subite.
E come altro poter esprimere tanto indicibile
‘smarrimento’?
LINGUAGGIO E REGRESSIONE
Gli aspetti regressivi possono interessare anche le
funzioni linguistiche, più frequentemente riguardano
il ‘ tono della voce ’ (le dissonanze create dal
‘parlare da piccolo’), ma in qualche caso anche
bimbi che passano dalla comunicazione ad emettere
soltanto suoni gutturali e/o vocalizzazioni.
A proposito del senso e del desiderio di tornare
indietro…
Manuel, 8 anni e mezzo, da un anno circa in Italia, una
sera, prima di addormentarsi, dice alla mamma che gli
è accanto:
“Vorrei ritornare bebè, ma nascere dalla tua pancia”.
E, recuperando il dialogo dei Bambini Sperduti in Peter
Pan, ripete: “La mamma è quella che ti cresce, che ti
cura se stai male, che ti legge il racconto prima di
dormire…”
Imparare una lingua significa anche imparare a
pensare: pensare sé stessi e pensare al mondo.
Ciò che risulta in genere difficile ai bambini adottati è
recuperare ed esprimere ‘ le interruzioni ’ , ‘ le
mancanze’ o ‘le perdite’ sperimentate.
LE PAROLE ‘PER DIRLO’
Sangita, 10 anni, dopo un rimprovero da parte dei
genitori:
“Allora perché non mi riportate in Nepal?”
E, alla domanda, “Vuoi tornare in Nepal?”, replica:
“Lì ci sono i miei genitori”.
Pianto sempre più dirompente.
“Uffa, perché mi hanno abbandonato? Perché non
sono mai venuti a trovarmi in Istituto?
Non so neanche dove sono nata.”
LINGUAGGI CIFRATI E SEGRETI
Nei percorsi di psicoterapia con i bambini adottati,
emergono spesso ripetute fasi di giochi ed indovinelli
di ‘linguaggi cifrati e segreti’ con cui al terapeuta
viene chiesto di acquisire familiarità.
Quasi a ‘rappresentare’ e ‘giocare’ in seduta, a
ruoli invertiti, le ‘ parti più indecifrabili ’ , quelle
legate alle proprie origini-altre ed alle vicende
sperimentate ‘altrove’.
L’approdo al pianeta marziano
Per Josè, bimbo colombiano di 8 anni adottato a circa
un anno e mezzo, si trattava di riuscire ad “accedere
al linguaggio degli alieni”, esseri che comunicavano
tra di loro “senza bisogno di parole”.
Mentre lui, con difficoltà di autoregolazione, temeva
nei suoi incubi notturni di ‘essere rapito, portato via
dai marziani’.
Lui che, molti anni prima, si era sentito strappare e
catapultare in un mondo estraneo e straniero e che,
per imparare a comunicare in italiano, aveva avuto
bisogno di molti cicli di logopedia!!!
Il Suo mondo ‘alieno’ non era dunque solo quello
originariamente perduto, ma anche il ‘nuovo’ con
cui aveva dovuto faticosamente imparare a
familiarizzare ed abitare.
Non a caso, giocava all’‘Esploratore Spaziale’.
Umano, ma con parti ed esperienze marziane che si
collocavano ‘prima’ e ‘al di là delle parole’ e che
bisognava imparare ad ascoltare, conoscere ed
integrare.
Il ‘Ponte’, Legame affettivo e di senso
Nirmala, ragazzina nepalese di 13 anni, racconta in
un toccante tema sulla felicità, l’emozionante e
temuto ri-congiungimento e ri-trovamento di una
sorella maggiore adottata anch ’ essa in Italia,
divenuta rapidamente per lei ‘il ponte’, legame
affettivo e di senso che le ha permesso di ‘ricollegare ’ e saldare, rendendole finalmente
integrabili, le due parti prima separate del suo
mondo: la storia precedente in Nepal, l’altra vita
come la chiamava lei, e la storia attuale in Italia,
questa vita.
“Una persona che c’era e ci sarebbe stata: il ponte
tra le due vite”.
Per Nirmala la felicità è potersi ‘sentire finalmente
intera’.
Nel testo si rivolge ai genitori ringraziandoli ‘per
essere sempre stati dalla sua parte’.
Lei, infatti, scrive “nella sua avventura non era sola,
aveva tutto l’appoggio di due persone che le erano
sempre state accanto e che l’avevano cresciuta con
pazienza, affetto, amore e senza la paura della
verità”