Luglio-Settembre 2011 n. 3 Anno XXV Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo II Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20900 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Luigia Ricciardone, Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Sommario Che cos'è e a cosa serve la pop filosofia («Vita e Pensiero» n. 1/10) - Simone Regazzoni: Il pensiero torni nelle piazze - Ciro De Florio, - Lorenzo Fossati: Dalla televisione al trattato - Roberto Presilla: Filosofia e cultura popolare Ignacio Provencio: La funzione nascosta della retina («Le Scienze» n. 515/11) David M. Nicol: Se l'hacker spegne la luce («Le Scienze» n. 517/11) Jolanda Stevani: Addio principe azzurro? («Psicologia contemporanea» n. 214/09) Che cos'è e a cosa serve la «pop filosofia» - Recentemente emerso anche in Italia, un nuovo approccio teorico rielabora il rapporto tra filosofia e cultura di massa. Da Aristotele a Lost, da Hegel a Matrix, opportunità (e azzardi) di una prospettiva accademicamente «eccentrica». Il pensiero torni nelle piazze Negli ultimi anni, si è diffusa anche in Italia una forma di filosofia che, sulla scia della definizione anglo-americana e di una suggestione deleuziana, è stata ribattezzata pop filosofia. Difficile, se non impossibile, tentare di darne una rigorosa definizione. Il fenomeno della pop filosofia, in costante crescita, non ha articolato fino a oggi, nelle sue diverse e spesso disparate forme, una seria riflessione attorno al proprio statuto filosofico - se si escludono prefazioni ad alcuni testi di pop filosofia, interviste agli autori sul tema e pochi altri momenti in cui si è cominciato a tracciare il profilo di un discorso teorico circa un nuovo e auspicabile rapporto tra filosofia e popular culture. E tuttavia, visto l'interesse sempre più ampio suscitato dalla pop filosofia in Italia, i tempi sembrano maturi per tracciare una mappa provvisoria del fenomeno e tentare di articolare alcune considerazioni preliminarissime che possano fornire un contributo a un dibattito ormai aperto, fuori e dentro l'accademia, attorno alla pop filosofia. Un dibattito che non è né marginale né secondario per la filosofia stessa: riflettere oggi sulla pop filosofia significa infatti, più in generale, riflettere su che cosa significhi fare filosofia nel XXI secolo. È doveroso, prima di entrare nel merito della questione, precisare che chi scrive non è semplicemente un osservatore esterno del fenomeno della pop filosofia. Ho scritto in questi anni, accanto a testi accademici, testi filosofici dedicati a fenomeni della pop culture; ho preso parte al dibattito attorno alla pop filosofia su quotidiani, riviste e siti come Rescogitans; ho inoltre partecipato a incontri pubblici sul tema insieme ad altri filosofi italiani. Da ultimo, poiché credo vi sia l'esigenza di ancorare questo significante vuoto, «pop filosofia», a un preciso significato filosofico, ho curato un volume di contributi internazionali di giovani filosofi e scrittori che si intitola precisamente Pop filosofia. Il mio sguardo e le mie osservazioni sono dunque quelle di un osservatore partecipe con un'idea ben precisa di pop filosofia. Proviamo, in sintesi, a ripercorrere l'avventura editoriale italiana della pop filosofia. Tra il 2005 e il 2006 vengono tradotti Pillole rosse. Matrix e la filosofia (curato, nell'edizione italiana, da Vincenzo Cicero) e I Simpson e la filosofia. Si tratta di volumi che raccolgono saggi di differenti autori, principalmente di indirizzo analitico, che affrontano con rigore, ma in forma divulgativa, i vari aspetti (estetici, etici, politici, epistemologici) di due grandi fenomeni della cultura pop: Matrix, il film dei fratelli Wachowski, e la sitcom animata I Simpson. Nel 2006 Umberto Curi pubblica il volume Un filosofo al cinema in cui, accanto a film considerati «d'autore», vengono analizzati, in forma non accademica, film come Minority Report (nel 2000 lo stesso Curi aveva pubblicato un libro su cinema e filosofia, Lo schermo del pensiero, in cui venivano prese in esame in modo originale opere come Titanic o Nove settimane e mezzo). Nel 2007 un gruppo di giovani filosofi, tra cui il sottoscritto, pubblica La filosofia del Dr. House, testo che affronta gli aspetti etici, logici ed epistemologici di una serie tv di successo, Dr. House, mescolando assieme prospettive analitiche e continentali. Sempre nel 2007 viene tradotto Woody Allen e la filosofia. Tra il 2008 e il 2009 vengono pubblicati: Harry Potter e la filosofia. Fenomenologia di un mito pop; Metallica e la filosofia. Libertà, autenticità, etica; La filosofia di Lost. Philosophy fiction; South Park e la filosofia; Cinefilosofia. I grandi filosofi spiegati attraverso il cinema; Piangere e ridere davvero. Feuilleton; Tormentoni! La filosofia nel juke-box; da ultimo, Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola. Il catalogo provvisorio è questo. Si possono forse aggiungere alcuni testi (ad esempio, alcune opere di Slavoj Zizek, da molti definito «pop filosofo») o escluderne altri. Ma il quadro di insieme non risulterebbe mutato nell'essenziale. Che cos'hanno in comune tutte queste opere che spesso, guardate più da vicino, si rivelano diversissime per impostazione, metodo e intenti (e anche qualità)? Almeno due caratteristiche: tutte chiamano in causa, in qualche modo, la popular culture; tutte si rivolgono a un pubblico di massa. Detto altrimenti: pop filosofia si dice in molti modi, ma questi molteplici modi condividono due esigenze strettamente legate. La prima è quella di intraprendere un confronto critico con la cultura di massa o pop. La seconda è quella di uscire dallo spazio accademico per rivolgersi a un pubblico di massa. Il termine «pop», in «pop filosofia», indica dunque sia l'oggetto cui questa forma di filosofia si applica, sia, per una sorta di contaminazione, la forma stessa di questa filosofia che sarà quindi popular. La pop filosofia, in questo senso, non è antiaccademica ma extraaccademica: si prefigge, per usare una formula gramsciana, di socializzare delle verità. Questo non significa tuttavia che essa non possa o non debba trovare spazio anche nell'accademia, dove per altro circola già in differenti forme. Benché la filosofia della cultura di massa o pop non esista ancora come disciplina accademica, si può dire che esiste anche nell'accademia italiana una filosofia attenta alla cultura di massa o pop. È indubbio che la pop filosofia, almeno in alcune sue declinazioni, esprima le esigenze condensate nel termine «pop» - occuparsi di cultura di massa e rivolgersi a un pubblico di massa - in modo ancora filosoficamente informe e, a tratti, ingenuo. Tuttavia, il fatto stesso che vi siano opere di pop filosofia e che si sia cominciato a riflettere su di esse è il sintomo che una certa chiusura filosofica di fronte alla cultura di massa e al pubblico di massa comincia a essere forzata, e che quella che Stanley Cavell chiamava «democratizzazione della filosofia» è in corso. Qualcuno potrebbe obiettare che la qualità filosofica delle opere di pop filosofia non sempre è altissima - e che dunque la pop filosofia rischia di essere una banalizzazione della filosofia. In realtà quest'obiezione non tiene conto di un dato essenziale: e cioè che un giudizio analogo potrebbe essere formulato anche per la produzione accademica. La qualità o meno dei testi filosofici che si occupano di cultura pop è una questione che deve essere discussa nel merito, caso per caso, e non attraverso generalizzazioni che rischiano solo di essere semplificazioni e che, al fondo, esprimono semplicemente un vecchio pregiudizio verso la cultura di massa considerata «cultura bassa», oggetto indegno di attenzione filosofica. La pop filosofia opera precisamente a partire dalla critica radicale di questo pregiudizio. Non si tratta di dire, per riprendere le parole di Fredric Jameson, «che sarebbe preferibile avere a che fare con i programmi della televisione, Il padrino o Lo squalo, piuttosto che con Wallace Stevens o Henry James» - posizione teoricamente debole, giustamente criticata da Jameson come forma populista di anti-intellettualismo di cui non si sente certo il bisogno. Si tratta, invece, di aprire un nuovo fronte filosofico in grado di misurarsi anche con le opere di cultura pop, che spesso non hanno nulla da invidiare alle presunte opere di «cultura alta». Oggi, se un filosofo scrive, ad esempio, su Jeff Koons, Damien Hirst o altri personaggi che calcano la scena dell'arte contemporanea, non vengono sollevate obiezioni. Ma si storce il naso e si evoca il rischio di una banalizzazione della filosofia se un filosofo scrive saggi sulle nuove serie tv americane. Nessuno naturalmente - né i filosofi né tantomeno i critici che si occupano di arte contemporanea - può dimostrare che la qualità estetica dell'arte contemporanea sia superiore a quella delle serie tv americane, mentre il contrario non sarebbe difficile. Ora, se c'è un merito che deve essere riconosciuto alla pop filosofia, è proprio quello di aver contribuito a decostruire tutta una serie di pregiudizi estetici e di aver cercato, nello spazio vasto e ricchissimo della cultura pop, nuovi oggetti con cui confrontarsi; abbandonando, ad esempio, le suggestioni dei critici d'arte contemporanea per seguire le preziose indicazioni che venivano da discipline snobbate dalla filosofia accademica. È il caso della critica televisiva: per quanto mi riguarda, posso dire che la mia attenzione verso le serie tv americane e la decisione di scrivere su di esse (prima Dr. House e poi Lost) è stata influenzata da studiosi della tv come Aldo Grasso, che hanno rappresentato un ottimo antidoto ai pregiudizi filosofici contro la cattiva maestra televisione. All'interno di questo quadro generale, tentare di definire in modo più preciso che cosa sia la pop filosofia significa inevitabilmente proporre una propria definizione di pop filosofia. Ed è quel che farò. Per parte mia, concepisco la pop filosofia non solo come una forma di filosofia che si occupa di cultura di massa, ma, più precisamente, come una forma inedita di decostruzione inscritta nel campo della cultura pop. Su questo punto penso infatti che abbia ragione Mark C. Taylor quando rimprovera a Foucault e Derrida di aver trascurato la cultura di massa. Non confrontarsi, oggi, con la cultura di massa, lasciando che siano altre discipline a occuparsene, significa, per la filosofia, trascurare un fattore fondamentale non tanto della costituzione dell'immaginario collettivo, bensì di quel sistema ad alta complessità che è la realtà stessa, nella misura in cui la fiction della cultura pop è oggi parte essenziale di questo sistema. Non esiste un solo mondo, una sola realtà in cui la cultura di massa circolerebbe. Esiste una molteplicità aperta di mondi interconnessi alla cui produzione, e al cui conflitto - ecco in che cosa consiste la guerra dei mondi partecipano, essenzialmente, i fantasmi della cultura di massa. La filosofia si trova immersa in questi mondi in cui realtà e fiction sono indissolubilmente intrecciate. E deve prendere parte alla loro trasformazione. La pop filosofia è un'agente di questa trasformazione. Ciò non significa semplicemente applicare un qualche metodo filosofico - nel mio caso la decostruzione - alla cultura di massa, bensì inscrivere in modo inedito, e usando tutte le risorse filosofiche, la decostruzione nello spazio della cultura di massa. Ma che cosa significa «usare tutte le risorse filosofiche»? Significa ricordarsi che non appena si esce dallo spazio dell'accademia (in cui la forma di scrittura privilegiata e accettata resta il saggio) la filosofia può far ricorso - come ha sempre fatto nella sua storia, fin dall'origine - a differenti generi di scrittura. Pop filosofia, dunque, come decostruzione immersa nel campo della cultura di massa che, utilizzando tutte le risorse filosofiche, si protende verso il fuori. Nulla a che vedere con il «pensiero del di fuori» di cui parlava Foucault. Qui il fuori è quello che per Aristotele era l'essoterico: ciò che è fuori inteso come ciò che è pubblico. Ripresa e trasformazione di una strategia vecchia quanto la filosofia stessa: la pop filosofia è anche un ripensamento del momento essoterico della filosofia. Come ricordava recentemente Sloterdijk: «Non dobbiamo essere titubanti nel pensare oltre i confini dell'attività accademica. La crisi complessiva dei nostri giorni dovrebbe spingere la filosofia che si è rinchiusa nel grembo delle università ad abbandonare il suo nascondiglio. Dobbiamo tornare nelle piazze e nelle strade, dobbiamo ricomparire sulle pages littéraires e sugli schermi, nelle scuole e nei festival popolari per restituire al nostro mestiere, il più gaio e il più malinconico del mondo, l'importanza che gli è dovuta anche nella vita non accademica. Gli uomini chiedono in modo così pressante che cos'è la vita buona e cosciente. Chi crede di sapere la risposta o vuole rispondere con un'altra domanda deve ora farsi avanti e parlare». Simone Regazzoni Dalla televisione al trattato Cosa c'entrano con la filosofia un cantante come Johnny Cash, una band come i Metallica, una moto come l'Harley Davidson, un fenomeno sociale come Facebook, un regista pulp come Quentin Tarantino, un inseparabile «compagno di strada» come l'iPod, un gioco d'azzardo come il poker, uno sport come il baseball, un serial di culto come I Soprano o la grande saga de Il Signore degli anelli... solo per citare alla rinfusa dal catalogo della serie «Popular Culture and Philosophy» della prestigiosa Open Court Publishing Company di Chicago, Illinois? Semplificando e radicalizzando, le possibili risposte sono due: da un lato quella del famigerato «cattedratico», che disdegna ogni apparentamento con ambiti dell'umano estrinseci alla sua titolarità, men che meno con forme considerate basse o deteriori della cultura (celebre in tal senso l'intervento di John Searle che, in Occidente e multiculturalismo, sottolineava con veemenza come non sia la stessa cosa lo studio di Shakespeare e quello dei fumetti); dall'altro il sincretico e democratico «pasticcione», che ritiene al contrario che si dia autentica cultura solo nella commistione e nella contaminazione di discorsi disparati, in un ideale melting pot di idee, concetti e pratiche. Al di là della drammatizzazione del contrasto, il punto interessante resta il fatto di un'esigenza o di un interesse filosofico diffuso, che si esprime nei titoli della collana citata e nelle altre pubblicazioni di quella variegata costellazione nota come pop philosophy. Il nocciolo della questione sembra essere l'alternativa tra due differenti idee di filosofia: per la prima queste occasioni (Lost, Star Trek o Woody Allen) si colgono per divulgare dei contenuti, e quindi si assume che la filosofia sia una disciplina specifica, con propri problemi e soprattutto con un proprio metodo; per la seconda la filosofia è una delle narrazioni possibili, ed è posta sullo stesso piano di altre narrazioni come loro estensione, prolungamento o sottoinsieme (semplicemente un po') più sofisticato. Del resto già Platone utilizzava i miti e le narrazioni sia per esemplificare le sue tesi, sia per prospettare quelle soluzioni cui la sola ragione non avrebbe altrimenti attinto, e privilegiare un movimento a scapito dell'altro pregiudicherebbe la comprensione dei suoi intenti. Oggi, tuttavia, mentre è chiaro quando il medico o lo scienziato fanno divulgazione, cercando di spiegare ai non specialisti i risultati della loro ricerca o i termini di un problema specifico, è meno chiaro quello che il filosofo sta facendo, forse perché non è sempre chiaro neppure a lui: il film, la fiction, il pubblico dibattito sono l'occasione e il pretesto per comunicare, per avviare «la filosofia» vera e propria, oppure coincidono effettivamente con essa? In quest'ultimo caso, infatti, «filosofica» sarebbe una pratica o una narrazione più o meno caratterizzata, ma comunque indistinguibile dall'occasione in cui appunto viene esercitata e non comunicata. Mentre è insomma chiaro ne La fisica di Star Trek o ne La fisica dei supereroi quale sia la parte narrativa e quale quella scientifica (il Dottor Spock non è il Professor Bohr, Clark Kent non è Ludwig Boltzmann), nei vari titoli su La filosofia e... il confine è sempre tracciato o addirittura tracciabile? A ben vedere, non tracciare tale confine non significa lasciare impregiudicato il discorso, ma al contrario evidenzia una scelta teorica precisa (ancorché non sempre consapevole) da parte dell'autore, che tende appunto a concepire la filosofia non come una scienza rigorosa, ma come l'espressione di una visione del mondo, secondo una versione rinnovata del contrasto tra Husserl e Dilthey. Dopo l'immortale scena di Io e Annie, in cui Woody Allen in fila al cinema sbugiarda un fanfarone che strologa su McLuhan chiamando a testimone proprio lui, che stava appostato dietro un cartellone pubblicitario, è sempre difficile citare (o ancor più criticare) lo slogan per cui il mezzo è il messaggio; tuttavia sembra a questo punto indispensabile distinguere tra l'approccio a, il discorso su o il rapporto con qualcosa dal qualcosa stesso, cioè dall'oggetto cui ci stiamo riferendo. Nel caso della filosofia, essa si occupa di tutto, sia nel senso che si occupa tradizionalmente della totalità (dei principi supremi o dei fondamenti ultimi della realtà o del pensiero), sia nel senso che può occuparsi di ogni cosa, cioè ogni cosa è passibile di un'indagine filosofica (dalla religione all'arte, dalla scienza ai supereroi). Certamente ogni uomo si interroga sulla vita, l'universo e tutto quanto, e se qualcuno cerca od offre la sua soluzione con la filosofia, altri lo fanno scrivendo poesie o romanzi, o ancora girando fiction: magari riescono anzi più efficacemente nell'impresa, ma non per questo stanno tutti facendo la stessa cosa (e in ogni caso, come sa chi ha letto Douglas Adams, la risposta è 42). Quale sarebbe allora lo specifico della filosofia, che sembra negato o assai ridimensionato da alcuni «pop» filosofi? La filosofia guarda al mondo da una prospettiva universale, cercando di coglierne gli aspetti strutturali al di là delle differenze specifiche, che sono al contrario essenziali nell'articolazione dei vari saperi umani. Nel caso di Lost, per esempio, il filosofo non si concentra sul personaggio di Sayid per come è interpretato dall'attore, per l'efficacia delle battute che gli sono assegnate, per la complessità dell'introspezione psicologica, per la sua funzione nella vicenda; in una parola, non lo considera narrativamente, ma come archetipo o ideal-tipo, per quanto cioè incarna di universale, nella misura in cui ci permette come mezzo di considerare l'idea che rappresenta. Evidentemente tutte le questioni non considerate dalla filosofia sono tutt'altro che secondarie, e sono anzi quelle più pertinenti a una narrazione televisiva, ma in quanto tali non sono filosofiche, perché sono appunto particolari, legate a un ambito specifico, mentre la vocazione intrinseca della filosofia è precisamente quella di prescindere da ogni caratterizzazione individuale (seguendo la linea tracciata da Aristotele nel primo libro della Metafisica): proprio della filosofia sarebbe dunque tener conto della ricchezza delle dimensioni della realtà, dei vari mondi possibili descritti, colti in quella loro essenza che vale in quanto irriducibile a un'altra. Sarebbe insomma probabilmente un pessimo film quello che pretendesse d'essere «filosofico» e rischierebbe di rivelarsi pessima filosofia quella che si volesse «cinematografica». Se quanto detto finora riguarda quello che Husserl avrebbe rubricato come relativo all'«atto» intenzionale, si tratta ora di considerare appunto l'«oggetto»: posto che si sia distinto, come prima si diceva, tra il discorso su qualcosa dal qualcosa stesso, e posto che la filosofia in quanto tale non abbia un oggetto specifico, occorre vedere quale sia l'oggetto della pop philosophy. Ammesso e niente affatto concesso che resti al giorno d'oggi valida la distinzione tra cultura alta e cultura bassa, solo apparentemente la pop philosophy si occupa di cultura pop: essa la utilizza in realtà come mezzo, come strumento, per cogliere i temi affrontati dalla cultura pop. La usa insomma come lente di ingrandimento, come periscopio o torcia per cogliere indirettamente quelle realtà che la tradizione filosofica ha invece tematizzato direttamente. Viceversa, la narrazione in quanto tale è oggetto di altre, differenti indagini, quali la teoria della narrazione, la critica letteraria, musicale, cinematografica, teatrale, televisiva... che presuppongono competenze tecniche specifiche che il filosofo può solo malamente e approssimativamente imitare. La pop philosophy non guarderà, per esempio, all'evoluzione di Batman dalla «Golden Age» al Dark Knight di Frank Miller, alla diffusione della pubblicazione o all'impatto del personaggio sull'immaginario collettivo statunitense, quanto piuttosto all'abisso interiore che provoca vertigine in lui e nel lettore, alle conseguenze del trauma che lo ha generato, alle implicazioni morali del desiderio di vendetta e riscatto, al tema della sua doppia personalità; punterà cioè lo sguardo su quanto di universale e - appunto - filosofico la sua lettura ci permette di cogliere. Con questo abbiamo concesso quel che andava concesso al «parruccone» menzionato in apertura; ma non è necessario concedergli altro, perché forse è lui stesso una delle cause del presunto male che condanna. Ci si potrebbe infatti soffermare più attentamente sull'intrinseca difficoltà dei filosofi di oggi a condividere il proprio sapere con il non specialista, in base a idiosincrasie caratteristiche e speculari: quelli di impronta «analitica» sembrano quasi vittime di un tecnicismo che rende incomunicabile (se non francamente trascurabile) il loro lavoro per l'uomo comune, quelli «ermeneutici» o «postmoderni» peccherebbero di una gergalità non meno ostica, di primo acchito forse più seducente ed evocativa, ma certo non in grado di presentare la filosofia come qualcosa di utile o significativo. In entrambi i casi la filosofia si presenta come qualcosa di «esoterico» o «iniziatico», ma sempre e comunque in modo diverso da come potrebbero farlo le altre scienze: mentre di queste, infatti, si percepisce l'utilità e la consistenza, e la propria incomprensione è vissuta come un'inadeguatezza (più o meno colpevole), la filosofia rischia invece di confermare un'immagine di sé come inutile fumisteria, incompresa perché incomprensibile. Se insomma nei confronti della filosofia si nutrono aspettative che la filosofia attuale, in modi diversi, finisce con il deludere, e se è pur vero che l'unico rimedio alle delusioni è il non nutrire aspettative, è anche vero che le aspettative nei confronti della filosofia potrebbero essere legittime e, dunque, che disattenderle potrebbe essere la colpa della filosofia attuale. Mentre la cultura pop, americana ma non solo, dai fumetti alle serie tv, ha l'innegabile merito di riuscire a esprimere concetti e contenuti rilevanti in modo adeguato alla sensibilità contemporanea, forse ci troviamo in una fase della filosofia che Franz Brentano chiamerebbe «decadente», essendo venuto meno un interesse vivo e puramente teorico. Andando allora alla ricerca di precedenti, potremmo trovarne nel Settecento tedesco in cui fiorì una Popularphilosophie (che a causa della finitezza del proprio contenuto, secondo Hegel, sarebbe stata costretta a cercare all'esterno i propri motivi), o nel periodo tra la fine dell'Ottocento e la Prima guerra mondiale in cui operò Georg Simmel (che filosoficamente si occupò della moda, del denaro, della metropoli e della cultura in genere). Se queste analogie sono pertinenti, ci troveremmo allora in un periodo di trasformazione e di passaggio, perché è in questi casi che la filosofia si è spesso, se non sempre, fatta «pop». Da questo punto di vista la pop philosophy risponde a un'esigenza e a un bisogno condivisi e oggettivi: smarcandosi tanto dagli strali di Searle quanto da superficiali e postmoderni cultural studies, il suo specifico potrebbe essere una sorta di terza via che aiuti a comprendere quella ricchezza e quell'abbondanza dell'essere che, grazie a una lettura un po' eterodossa di Paul Feyerabend, va conquistata con ogni strumento e ogni arma disponibili, dalla televisione al trattato. Ciro De Florio Lorenzo Fossati Filosofia e cultura popolare Il fenomeno della pop filosofia - dell'incrocio tra filosofia e cultura popolare - non è nuovo: la produzione essoterica di Aristotele era famosa, così come lo erano altri testi e autori. Lo stesso si può dire per altri periodi e altre figure, quando a una tradizione più o meno dotta, più o meno accademica, se ne è affiancata una popolare: anche se il fenomeno si è ripetuto più volte nella storia della cultura occidentale, esso non ha comunque una storia uniforme. Anzi, la filosofia popolare ha avuto forme assai diverse nel corso dei secoli, il che presenta una difficoltà: mentre è relativamente facile stabilire che cosa appartenga alla tradizione filosofica (i canoni dei manuali di filosofia sono piuttosto coerenti, per esempio) non è altrettanto semplice indicare una tradizione comune per la filosofia diffusa. Figure e testi della filosofia popolare non sono ben conservati, non sono passati alla storia come è successo per testi ovviamente difficili e sicuramente meno aperti al pubblico. Persone diverse per estrazione e cultura hanno nei secoli selezionato dei testi, trasmettendoli alle generazioni future: lo stesso non è accaduto per opere che miravano a una diffusione più ampia, capaci di intercettare motivi e figure della cultura del momento. Forse chi è innamorato della tradizione rifiuta, quasi per definizione, la cultura popolare: la cultura «alta» porta a essere fuori sincronia con un mondo il cui cuore batte per le serie tv, per i fumetti o per la musica. Per non parlare dei videogiochi o dello sport: sono passioni che sembrano fare a pugni con la capacità di riflettere sugli umani destini, sull'esistenza di Dio, sulle domande ultime alle quali il filosofo dovrebbe dare una risposta per non perdere la sua presunta utilità sociale. Un tempo sarà accaduto lo stesso per il gioco del lotto, la caccia o i giochi del circo: passioni capaci di accendere l'interesse di molti, e anche di suscitare riflessioni sulla loro dimensione di «senso». Nonostante il loro indubbio interesse per molti, le opere dedicate a questi aspetti della vita hanno avuto un successo meno duraturo. Nella tradizione sono stati invece conservati testi magari difficili, su cui hanno lavorato diverse generazioni di studiosi. Leggere la Metafisica di Aristotele obbliga a confrontarsi con un testo oggetto di riflessioni sedimentate in una lunga storia di commenti: anche per questo è un punto di riferimento per la nostra cultura. Emerge qui un'ulteriore articolazione della differenza tra i testi della tradizione «alta» e quelli della cultura popolare: non solo i primi sono conservati, ma sono anche oggetto di studio ripetuto e accurato. La tradizione «alta» non è insomma tale per un pregiudizio intellettualistico: anche se indubbiamente non manca chi ne fa uso in quel modo, essa è frutto di scelte ripetute, che riconoscono in essa i vertici di un certo modo di pensare. Per rendersi conto del perché un testo sia un «classico», a volte non c'è modo migliore che leggere i testi coevi che non godono dello stesso status. Anche se variabile e discutibile, l'appartenenza alla tradizione parte dalla percezione di trovarsi di fronte a qualcosa di eccelso: vale lo stesso per l'arte, quando si prende in esame la pittura di Michelangelo o la musica di Bach. Così avviene anche per molte opere contemporanee: anche alcuni film, dischi di jazz, fumetti e così via sono considerati dei classici, mentre altri sono (abbastanza) universalmente riconosciuti come meno «belli». Non è detto, insomma, che la tradizione sia in quanto tale qualcosa di «chiuso»: se Adorno, forte della sua competenza musicale, aveva un giudizio negativo sul jazz, questo giudizio può essere rivisto in nome di una diversa percezione della bellezza della musica. Anche per la filosofia si può notare come autori non pienamente apprezzati in un'epoca godano successivamente di maggior fortuna: si pensi a Leibniz, la cui opera logica è stata pienamente apprezzata e rivalutata solo agli inizi del XX secolo. L'appartenenza alla «tradizione» implica da una parte il riconoscimento di un'opera come eccellente, dall'altra una frequentazione dell'opera stessa che ne rivela aspetti inediti: per questo si può continuare a leggere un classico e il classico rimane attestato nella tradizione. Le parole che abbiamo usato potrebbero suggerire che un classico diventi tale in seguito a una scelta, a un fiat arbitrario, ma non è così: come ogni processo storico, il consolidamento di una tradizione implica un laborioso processo di elaborazione, revisione, approfondimento, riscrittura. Periodicamente si può rendere necessaria una sorta di semplificazione, un riaccostarsi all'opera al di là di quello che la tradizione ha depositato. Si può addirittura chiamare in questione il concetto stesso di tradizione, per una «decostruzione» che rappresenta la massima espressione critica riguardo alla tradizione stessa. A volte questa diventa una necessità generazionale: come scriveva Guccini, la sua generazione non credeva «in ciò che spesso han mascherato con la fede, nei miti eterni della patria o dell'eroe». La decostruzione teorizzata da Derrida può essere intesa come la messa in discussione del concetto stesso di filosofia, con esiti diversi ma accomunati in una prospettiva analoga. La filosofia diventa un discorso tra gli altri, che può mescolarsi con tutto perché in ultima analisi è solo uno stile di scrittura. In altre parole un filosofo scrive in un certo modo, un po' complicato, mentre un pubblicitario scrive in modo icastico e accattivante: sono solo generi letterari. E così la filosofia pop e quella «accademica» sono due generi letterari contigui, rispetto ai quali ciascun autore può prendere posizione in base alle scelte che ritiene più opportune, dato che ogni tentativo di organizzazione dei contenuti non farà che produrre altri miti. Questa immagine presenta un quadro sproporzionato: da una parte si esagera l'arbitrarietà del classico (solo un mito collettivo), dall'altra si presume che sia possibile sfuggire a questa logica mediante la messa in discussione di ogni mitologia possibile. Ogni testo classico andrebbe demitizzato per rivelarne un nocciolo originario, legato presumibilmente a una forma di repressione sociale. Ma se tutto è mitologia, la stessa critica decostruttiva diventa una mitologia pericolosa, perché nel nome del rifiuto della repressione sociale finisce per assecondare l'irresponsabilità, come sostiene Putnam. La critica della tradizione richiede piuttosto di usare le risorse a nostra disposizione per provare a distinguere ciò che è mito da ciò che non lo è, per mettere ordine nei nostri pensieri. È qui che emerge una seconda e seria difficoltà del rapporto tra filosofia pop e filosofia: il progetto educativo che sta alla base. In effetti la storia ci permette di cogliere questo dibattito in una luce del tutto ironica, se lo accostiamo alla riflessione sulla paideia proposta da Jaeger. Nel confronto tra Isocrate e Platone si contrappongono due modi diversi di concepire l'educazione del giovane ateniese: da una parte, l'idea di un sapere perfettamente innervato nella vita pubblica, flessibile quanto ai contenuti ma costante nella ricerca del successo; dall'altra, un percorso articolato che mira ad acquisire un punto di vista critico sulla realtà. La ricerca di uno stile efficace nell'esprimere le proprie opinioni si contrappone alla ricerca della verità tout court: forse non è un caso che la tradizione consideri Platone un filosofo eminente e Isocrate invece un retore. Non si tratta qui di dare un giudizio su quale sia la disciplina migliore: è chiaro però che per fare filosofia non basta riflettere sul senso di una qualsiasi esperienza, ma occorre - per dirla in modo davvero troppo sbrigativo - partire di lì per cercare di arrivare alla verità. Una riflessione filosofica implica quindi una responsabilità etica precisa: una valutazione critica del proprio sapere volta a stabilire se sia vero oppure no, in modo da poter basare su di esso l'azione libera. In questo gioco può benissimo darsi che le domande del profano - chi siamo, dove andiamo, che si mangia a cena... debbano subire una purificazione e una trasformazione, e che per questo sia necessario impadronirsi di un linguaggio difficile e di concetti complessi. Ma, ed è questo il bello, non c'è nessun obbligo a farlo: si può scegliere di andare fino in fondo oppure fermarsi non appena si trova una risposta minimamente plausibile, il che a volte è la scelta migliore, visto che l'andare fino in fondo non porta necessariamente a trovare una risposta soddisfacente. In questa ricerca si coglie il paradosso dell'attività filosofica, la cui «utilità» ammesso che ci sia - non dipende dai risultati pratici, ma dall'attività in sé. Accade lo stesso per la matematica, i cui confini sono parimenti nebulosi, tanto che forse la miglior definizione è la seguente: matematica è ciò che fanno i matematici. Un matematico fa matematica anche quando si occupa di biologia o di politica, se prova a costruire un modello matematico di qualcosa, altrimenti è solo un uomo con degli interessi. Un filosofo si può occupare (e forse dovrebbe occuparsi) anche di ciò che è al di fuori dell'accademia, ma sempre con lo scopo di far filosofia: se lo scopo è semplicemente quello di aggiungere un'opinione tra le altre, un genere letterario tra gli altri, sta scegliendo la via di Isocrate e non quella di Platone. La pop filosofia è insomma filosofia - se la fa un filosofo che vuole arrivare fino a una verità oppure pop, quell'insieme estremamente variegato e flessibile di contenuti che Pascal chiamerebbe divertissement. Si può scegliere di fare l'una o l'altra cosa, ma non tutte e due insieme. Roberto Presilla («Vita e Pensiero» n. 1/10) La funzione nascosta della retina - Il nostro organismo regola il ciclo giorno/notte grazie a neuroni specializzati che si trovano negli occhi. Lo studio di queste cellule potrebbe favorire nuovi interventi contro il jet lag e altri disturbi. Negli anni venti Clyde E. Keeler, che studiava per il dottorato ad Harvard, scoprì due fatti sorprendenti nei topi che allevava nella sua mansarda. Il primo fu che la progenie era completamente cieca, e il secondo che, pur essendo ciechi, le loro pupille conservavano la capacità di contrarsi in risposta alla luce ambientale, anche se più lentamente. Molti anni più tardi i ricercatori hanno ampliato l'osservazione di Keeler, dimostrando che i topi manipolati geneticamente per eliminare i coni e i bastoncelli - i recettori della luce coinvolti nella visione reagivano alle variazioni di luce regolando l'orologio circadiano, ossia il timer interno che sincronizza l'attività ormonale, la temperatura corporea e il sonno. Di giorno i topi effettuavano le consuete attività diurne e di notte quelle notturne. Riuscivano a farlo benché la loro retina fosse priva dei fotorecettori, le cellule che gli occhi dei vertebrati usano per formare le immagini, e a dispetto del fatto che la rimozione chirurgica degli occhi abolisse questa capacità. Forse il fenomeno è comune a molti mammiferi, compreso l'uomo: esperimenti recenti hanno dimostrato che anche presone non vedenti possono regolare i loro ritmi circadiani e restringere le pupille in risposta alla luce. Una spiegazione di questo paradosso è che i fotorecettori dell'occhio necessari alla visione non sono responsabili della regolazione del calcolo temporale dell'attività diurna, un compito delegato ad altri recettori. Eppure fino a poco tempo fa l'idea che gli occhi avessero fotorecettori diversi dai coni e dai bastoncelli sembrava assurda. La retina è uno dei tessuti più studiati dell'organismo, e gli unici fotorecettori di cui conosciamo l'esistenza negli occhi dei mammiferi sono i coni e i bastoncelli. Tuttavia ci sono indicazioni sempre più convincenti che gli occhi dei mammiferi, compresi quelli umani, abbiano fotorecettori specializzati che non si occupano della formazione delle immagini. Le molecole di queste cellule specializzate nella rilevazione della luce sono diverse da quelle dei coni e dei bastoncelli e si collegano a parti differenti del cervello. Pertanto, come le orecchie presiedono insieme al senso dell'equilibrio e all'udito, così i nostri occhi sono essenzialmente due organi in uno. Questa scoperta potrebbe aiutare chi ha problemi nella regolazione dell'orologio biologico. Il jet lag è la manifestazione più lampante di desincronizzazione circadiana, la perdita di sincronizzazione tra il ciclo giorno/notte e il nostro orologio interno. Si ritiene che lavorare nei turni di notte aumenti il rischio di patologie cardiovascolari, disturbi gastrointestinali, tumore e di sindrome metabolica, una patologia che aumenta il rischio di diabete di tipo 2 e di infarto cerebrale. Alcuni incidenti industriali fra i più noti, come l'incagliamento della superpetroliera Exxon Valdez, l'esplosione all'impianto della Union Carbide nel 1984 a Bhopal in India e la fusione parziale del nocciolo nella centrale nucleare di Three Mile Island nel 1979, sono avvenuti durante il turno di notte, quando l'attenzione dei lavoratori era compromessa. Inoltre milioni di persone che vivono a latitudini settentrionali o meridionali estreme soffrono di disturbo affettivo stagionale, una forma spesso grave di depressione che avrebbe fra le sue cause la risposta a una mancanza di luce durante le brevi giornate invernali. Una conoscenza migliore di come il terzo tipo di fotorecettore controlla i ritmi circadiani e le emozioni suggerisce oggi alcune vie per ridurre al minimo gli effetti negativi del jet lag, dei turni di notte e delle lunghe notti invernali. Sensibili ma trascurati L'esistenza di organismi dotati di organi di rilevazione della luce non usati nella formazione di immagini è nota da tempo. Una variazione di luce potrebbe segnalare a un animale la sua esposizione ai predatori o a danni da radiazioni ultraviolette. Molte specie animali hanno evoluto adattamenti, come la mimetizzazione attiva o l'evitamento della luce, per ridurre al minimo le conseguenze dell'esposizione. Ma pur richiedendo qualche sistema di rilevazione della luce, gli adattamenti non implicano necessariamente la vista. Per esempio, nel 1911 lo zoologo e futuro premio Nobel Karl von Frisch scoprì che esemplari ciechi di un pesce della famiglia dei ciprinidi si scuriscono se sono esposti alla luce. Un danno alla base del cervello aboliva però la risposta, il che indusse von Frisch a proporre l'esistenza di fotorecettori visivi nel cervello profondo. Molte specie animali hanno queste cellule sensibili alla luce. I passeri, per esempio, modulano l'orologio circadiano anche senza gli occhi, come ha dimostrato Michael Menaker, dell'Università del Texas ad Austin. Esperimenti successivi hanno confermato che gli uccelli hanno nel cervello cellule sensibili alla luce. Una quantità sorprendente di luce penetra attraverso le penne, la pelle e il cranio di un uccello attivando queste cellule. La possibilità che almeno alcuni mammiferi avessero recettori della luce non coinvolti nella visione attirò per la prima volta l'attenzione dei biologi negli anni venti, quando Keeler riferì dei suoi incroci domestici dei topi. Poiché l'anatomia della retina era ben conosciuta, si ipotizzò che l'organo mancante sensibile alla luce avesse una sede diversa dagli occhi. Ma all'inizio degli anni ottanta gli studi di Randy J. Nelson e di Irving Zucker dell'Università della California a Berkeley su roditori privi di occhi sembrarono mettere in dubbio l'ipotesi. Questi animali erano incapaci di regolare i ritmi biologici al ciclo della notte e del giorno, suggerendo che i recettori sensibili alla luce avessero sede nell'occhio. Menaker, trasferitosi nel frattempo all'Università dell'Oregon, aveva iniziato a indagare se gli occhi del topo avessero un ruolo nelle risposte di sensibilità alla luce che non richiedono la formazione di immagini. Insieme a Joseph Takahashi e a David Hudson, studiò topi mutanti privi di coni e bastoncelli funzionali, con l'eccezione forse di pochi coni scarsamente attivi. Con sorpresa dei ricercatori, i topi ciechi riuscivano a limitare l'attività alle ore notturne e rimanere relativamente inattivi durante il giorno, proprio come i topi dotati di una visione completa. Una possibile spiegazione di questo comportamento era che i pochi coni asfittici sopravvissuti conservassero in qualche modo una risposta non visiva alla luce. Tuttavia nel 1999 il gruppo di ricerca di Russell Foster all'Imperial College di Londra usò topi mutanti totalmente privi di coni e di bastoncelli per dimostrare che queste cellule non erano necessarie per le risposte non visive alla luce. Questo lasciava aperta una sola spiegazione: l'occhio doveva contenere un tipo di fotorecettore ancora da scoprire. L'ipotesi suonava come un'eresia. Le cellule della retina implicate nella formazione delle immagini sono note dalla metà dell'Ottocento, e l'idea che un'altra cellula sensibile alla luce nella retina fosse passata inosservata per quasi 150 anni sembrava assurda. Eresia vincente Ma la ricerca che io e Mark Rollag iniziammo a metà degli anni novanta presso la Uniformed Service University di Bethesda, nel Maryland, contribuì a dimostrare che Foster aveva ragione. Rolleg stava studiando una forma differente di fotoricezione non visiva: la mimetizzazione negli anfibi. Le cellule pigmentate della coda dei girini si scuriscono in presenza della luce, una risposta adattativa che favorisce l'occultamento dell'animale. Le cellule, i melanofori dermici, conservano la risposta anche quando sono rimosse e coltivate in vitro. Insieme a Rollag identificammo nelle cellule in coltura una nuova proteina la cui composizione è straordinariamente simile alla classe di pigmenti proteici, le opsine, che permettono ai coni e ai bastoncelli di rilevare la luce. Abbiamo chiamato la nuova proteina melanopsina. La somiglianza con le opsine conosciute indicava in modo chiaro che la melanopsina era la molecola capace di attivare la risposta di inscurimento. Curiosi di sapere se la melanopsina svolgesse un ruolo in altre cellule specializzate nel rilevamento della luce, abbiamo studiato altri tessuti della rana - di cui conosciamo la sensibilità diretta alla luce - per esempio particolari aree del cervello, e poi l'iride e la retina nell'occhio. È risultato che né i coni né i bastoncelli contenevano questa nuova proteina sensibile alla luce. Con nostra sorpresa l'abbiamo trovata in particolari neuroni della retina, le cellule gangliari, da sempre considerate insensibili alla luce. La retina dei vertebrati è un'elegante struttura a tre strati. Lo strato più profondo contiene i coni e i bastoncelli, perciò la luce deve attraversare gli altri due strati prima di essere rilevata per la visione. Poi l'informazione in arrivo dai coni e dai bastoncelli è trasferita allo strato intermedio, dove è elaborata da differenti classi di cellule, che comunicheranno infine il segnale elaborato allo strato superficiale, composto essenzialmente da cellule gangliari. Lunghi assoni, vettori del segnale, si estendono dalle cellule gangliari e trasmettono l'informazione al cervello lungo il nervo ottico. Nel 2000 io e i miei colleghi scoprimmo i primi indizi che una frazione molto piccola di queste cellule gangliari era direttamente sensibile alla luce. Osservammo poi che il 2 per cento delle cellule gangliari della retina contiene melanopsina e che una piccola percentuale di queste cellule la contiene anche nella specie umana. Nel 2002 gli esperimenti di David Berson e colleghi alla Brown University confermarono la nostra teoria. Essi hanno disattivato i coni e i bastoncelli e riempito le cellule gangliari contenenti opsina con un marcatore colorante. Poi hanno asportato le retine dagli occhi dei topi e dimostrato che le cellule nervose marcate si attivavano quando erano esposte alla luce. Poiché i coni e i bastoncelli erano disattivati, la risposta indicava che queste particolari cellule gangliari erano capaci di rilevare la luce, oltre a ritrasmettere i segnali dai coni e dai bastoncelli. L'ipotesi fu rinforzata da prove emerse nel 2002, quando Samer Hattar della Johns Hopkins University e collaboratori hanno dimostrato che alcuni assoni della retina del topo si collegano al nucleo soprachiasmatico - l'area che regola l'orologio interno - e che altri assoni si collegano all'area del cervello che controlla il restringimento delle pupille. Inoltre le cellule gangliari collegate a quelle aree sono le stesse che contengono melanopsina. Queste scoperte indicavano tutte la stessa soluzione al nostro enigma: cellule gangliari fotosensibili consentivano a topi privi di coni e bastoncelli funzionali di restringere le pupille e di conservare l'organismo in sintonia con il ciclo luce/buio. Tuttavia i topi senza occhi, e dunque privi totalmente della retina, perdevano questa capacità. Rimaneva un ultimo test. Abbiamo pensato che, se avessimo incrociato topi normali in tutto tranne che per l'assenza del gene della melanopsina, questi, incapaci di produrre il pigmento, non avrebbero manifestato risposte non visive alla luce. Ciò che accadde in seguito confermò l'espressione «la scienza è un'amante crudele». Proprio quando pensavamo di avere afferrato la soluzione, rimanemmo letteralmente senza parole scoprendo che i topi privi di melanopsina regolavano quasi normalmente i ritmi circadiani. Un ultimo ostacolo Per spiegare lo smacco, abbiamo considerato la possibilità che nella retina si annidasse un ulteriore fotorecettore non visivo. Un'eventualità improbabile per una serie di ragioni, ma soprattutto perché il genoma completo del topo sequenziato nel periodo in cui stavamo completando gli studi sui nostri topi knockout - non conteneva altri evidenti geni per i fotopigmenti. La seconda ipotesi era che i coni, i bastoncelli e le cellule gangliari fotosensibili agissero insieme nel controllo delle risposte non visive alla luce. Quest'ultima possibilità è stata verificata quando abbiamo prodotto topi mutanti privi di coni, bastoncelli e melanopsina. Questi «frankentopi» non mostrarono alcuna risposta visiva o non visiva alla luce e si comportavano come se i loro occhi fossero stati rimossi chirurgicamente. Ne abbiamo quindi concluso che coni, bastoncelli e cellule gangliari contenenti melanopsina lavorassero di concerto per trasferire al cervello l'informazione non visiva. In realtà stanno emergendo prove che le cellule gangliari fotosensibili funzionino anche da condutture per trasmettere l'informazione luminosa non visiva dai coni e dai bastoncelli al cervello, proprio come le altre cellule gangliari trasmettono informazione visiva alle aree visive di quest'ultimo. Nel 2009 tre differenti gruppi di ricerca, tra cui il nostro, concepirono un metodo per uccidere le cellule gangliari fotosensibili nei topi senza influenzare le altre parti dell'organismo. Benché avessero conservato la visione, i topi tendevano a confondere il giorno e la notte e avevano difficoltà a contrarre le pupille. In altre parole, le cellule gangliari specializzate sono necessarie per generare le risposte non visive alla luce, ma il sistema ha una forma intrinseca di ridondanza: le gangliari possono rivelare in modo autonomo la luce oppure ritrasmettere l'informazione da coni e bastoncelli, o da entrambi. L'enigma era finalmente risolto, almeno nei topi. Sono poi emerse le prove che la stessa cosa vale nell'uomo. Nel 2007 Foster e collaboratori hanno pubblicato uno studio su due pazienti ciechi privi di coni e bastoncelli funzionali l'equivalente umano dei topi di Keeler - e che tuttavia riuscivano ancora a regolare i ritmi circadiani una volta esposti periodicamente alla luce blu. Le lunghezze d'onda della luce blu, dove la loro risposta era ottimale, erano precisamente nella stessa gamma rilevata dalla melanopsina, come risultò da misure effettuate dal nostro gruppo in collaborazione con quello di Berson, nelle quali costringemmo linee cellulari normalmente non fotorecettive a produrre melanopsina. Ora queste cellule rispondono alla luce attivandosi in risposta alla luce blu. Ma l'aspetto forse più interessante è la nostra scoperta che la melanopsina, quando è colpita dalla luce, avvia una cascata di segnali chimici dentro queste cellule, simile più a quello che succede nei fotorecettori dei moscerini o dei calamari che nei coni e nei bastoncelli dei mammiferi. Anche stavolta l'evento non era inatteso. Infatti, anni prima avevamo ravvisato che la sequenza genica della melanopsina assomigliava più alle sequenze geniche dei fotopigmenti degli invertebrati che a quelle dei vertebrati. Pertanto nei mammiferi la melanopsina sembra il fotopigmento di un sistema fotorecettivo primitivo in precedenza sconosciuto, ospitato nella retina insieme al cugino più «evoluto», il sistema visivo. Oltre all'interesse puramente scientifico, la scoperta di questo nuovo organo «nascosto» potrebbe avere ricadute cliniche, poiché indica un legame, in precedenza sfuggito, tra la salute degli occhi e quella mentale. Alcune ricerche sostengono che l'esposizione alla luce blu aumenterebbe la consapevolezza, contrastando il jet lag o la privazione del sonno, e attenuerebbe il disturbo affettivo stagionale, un problema comune alle alte latitudini, che può causare depressioni invalidanti e indurre al suicidio. Sembra naturale ipotizzare che la terapia della luce sia efficace perché colpisce le cellule gangliari fotosensibili. Altri studi hanno dimostrato che i bambini ciechi colpiti da patologie come il glaucoma, che influenzano le cellule gangliari della retina, corrono un rischio maggiore di soffrire di disturbi del sonno rispetto ai bambini ciechi per altre cause. Individuare il grado di salute delle cellule gangliari fotosensibili potrebbe dunque aprire la via a una nuova classe di trattamenti per un'ampia gamma di disturbi. Ignacio Provencio («Le Scienze» n. 515/11) Se l'hacker spegne la luce - I virus informatici hanno iniziato a colpire sistemi di controllo industriali. Il prossimo bersaglio potrebbe essere la rete elettrica. L'anno scorso si è diffusa la notizia di un virus informatico che è riuscito a penetrare tra le maglie dei sistemi di sicurezza degli impianti nucleari iraniani. La maggior parte dei virus si diffonde senza criterio, ma Stuxnet aveva un obiettivo specifico, che non era neppure collegato a Internet. Stuxnet era installato nella chiavetta USB di un tecnico al di sopra di ogni sospetto. Una volta collegata la chiavetta a un computer dell'impianto di sicurezza, il virus si è diffuso silenziosamente per mesi, alla ricerca di qualche altro computer che fosse connesso a un'apparecchiatura semplice come un controller logico programmabile, una piccola scatola di plastica piena di circuiti usata per controllare componenti degli impianti industriali: valvole, ingranaggi, interruttori e motori elettrici. Una volta individuata la preda, Stuxnet vi è penetrato e, senza dare nell'occhio, ne ha assunto il controllo. I controller colpiti erano collegati alle centrifughe, il cuore delle ambizioni nucleari dell'Iran. Migliaia di queste apparecchiature lavorano uranio per trasformarlo in uranio arricchito necessario a realizzare un ordigno nucleare. In condizioni operative normali, le centrifughe ruotano tanto rapidamente che il loro bordo esterno si muove a una velocità vicina a quella del suono. Stuxnet ha incrementato questa velocità fino a 1600 chilometri all'ora, superando il limite oltre cui, secondo un recente rapporto dell'Institute for Science and International Security, probabilmente il rotore sarebbe stato distrutto. Allo stesso tempo, Stuxnet ha inviato falsi segnali ai sistemi di controllo, indicando che tutto era normale. Sebbene l'entità del danno al programma nucleare iraniano resti sconosciuta, nel 2010 gli ispettori dell'International Atomic Energy Agency hanno riferito che l'Iran ha dovuto sostituire circa 1000 centrifughe nell'impianto di arricchimento di Natanz tra la fine del 2009 e l'inizio del 2010. Stuxnet ha dimostrato quanto le apparecchiature industriali possano essere vulnerabili agli attacchi informatici: il virus ha infettato, e probabilmente distrutto, un equipaggiamento ritenuto sicuro senza essere rilevato per mesi. È un esempio inquietante di come uno Stato o un gruppo terroristico potrebbero usare una simile tecnologia contro l'infrastruttura civile di un qualunque paese del mondo. Sfortunatamente, la rete elettrica è più facile da penetrare rispetto a un impianto nucleare. Possiamo immaginare questa rete come un circuito gigantesco, ma in realtà è composta da migliaia di componenti distanti tra loro diversi chilometri che agiscono in modo coordinato. La fornitura di energia elettrica che fluisce nella rete deve aumentare e diminuire in parallelo con la domanda, mentre i generatori devono distribuire energia in fase con la frequenza, 60 cicli al secondo (50 in Italia, N.d.t.), a cui funzionano gli altri componenti della rete. Sebbene l'interruzione del funzionamento di un singolo componente abbia limitate ripercussioni su questo circuito esteso, un attacco informatico coordinato su molteplici siti potrebbe danneggiare il sistema in modo così ampio da compromettere gravemente la capacità di una nazione di generare e distribuire elettricità per settimane, forse per mesi. Considerando le dimensioni e la complessità della rete, un attacco coordinato richiederebbe probabilmente un tempo e uno sforzo significativi per essere messo in atto. Stuxnet è il più sofisticato virus per computer mai visto, il che fa ipotizzare che sia opera dei servizi segreti di Israele o degli Stati Uniti, o di entrambi. Ma il codice di Stuxnet ora è disponibile su Internet, e quindi aumentano le probabilità che un gruppo di malintenzionati possa adattarlo per attaccare un nuovo bersaglio. Probabilmente al momento un gruppo meno sofisticato dal punto di vista tecnologico, come al Qaeda, non ha le competenze per infliggere un danno significativo alla rete elettrica, che invece potrebbe essere inflitto da hacker mercenari cinesi o dell'ex Unione Sovietica. L'intrusione Un anno fa ho partecipato alla simulazione di un attacco informatico simulato alla rete elettrica, insieme a rappresentanti dei gestori della rete, delle agenzie governative e delle forze armate statunitensi (anche le basi militari dipendono dalla rete elettrica, una circostanza che non è sfuggita al Pentagono). Nello scenario simulato i finti aggressori sono riusciti a penetrare in diverse sottostazioni di trasmissione, mettendo fuori uso dispositivi raffinati e costosi che assicurano che la tensione rimanga costante via via che l'elettricità percorre le linee ad alta tensione. Alla fine dell'esercitazione, alcuni dispositivi sono stati distrutti, privando di elettricità uno Stato dell'ovest degli Stati Uniti per molte settimane. I computer controllano i dispositivi meccanici della rete a ogni livello: dagli enormi generatori alimentati da combustibili fossili o da uranio fino alle linee di trasmissione che vediamo nelle strade. La maggior parte di questi computer usano sistemi operativi comuni come Windows e Linux, che sono vulnerabili alle intrusioni quanto i computer degli utenti privati. Un codice di attacco come Stuxnet è efficace per tre motivi: questi sistemi operativi implicitamente si fidano del fatto che i programmi usati siano sicuri; spesso hanno difetti che consentono un'intrusione da parte di malware (software progettati per infiltrarsi nei sistemi informatici e danneggiarli o rubare dati, N.d.t.); le caratteristiche degli impianti spesso non permettono l'uso delle difese già disponibili. Anche sapendo tutto questo, fino a poco tempo fa un progettista di sistemi di controllo avrebbe giudicato impossibile un attacco da remoto ai sistemi cruciali di un impianto proprio perché non sono direttamente collegati a Internet. Poi Stuxnet ha mostrato che anche le reti di controllo prive di connessione permanente sono vulnerabili: il malware può essere inserito con una chiavetta USB che un tecnico può collegare al sistema di controllo, per esempio. Quando si tratta di circuiti elettronici critici, anche il più piccolo buco può lasciar entrare un hacker intraprendente. Si consideri il caso di una stazione secondaria di trasmissione, punto di passaggio nel viaggio dell'elettricità da un impianto di potenza alla nostra abitazione. Le stazioni secondarie ricevono la corrente ad alta tensione da una o più centrali, sincronizzano le correnti alternate, riducono la tensione e indirizzano l'elettricità in diverse linee in uscita per la distribuzione locale. A controllo di ciascuna di queste linee c'è un interruttore automatico, pronto a tagliare l'elettricità in caso di guasto. Quando un interruttore su una linea di uscita scatta, tutta l'energia elettrica che avrebbe trasportato fluisce verso le linee rimanenti. Non è difficile immaginare che, nel caso in cui tutte le linee siano ai limiti della loro capacità, un attacco informatico che tagli metà delle linee di uscita può sovraccaricare le rimanenti. Questi interruttori sono stati controllati da dispositivi collegati a modem raggiungibili per telefono dai tecnici. I numeri relativi non sono difficili da trovare: già trent'anni fa gli hacker avevano creato programmi in grado di chiamare tutti i numeri in un commutatore telefonico e di registrare quelli a cui rispondono i modem. I modem collegati agli interruttori di un circuito hanno un unico messaggio di risposta a una chiamata, che rivela la loro funzione. Questa circostanza, insieme con blande misure di autenticazione che spesso difendono impianti del genere, come quelle basate su password facili da indovinare o quelle che addirittura ne sono prive, rende possibile l'uso di questi modem per entrare nella rete di una sottostazione. Una volta dentro, si potrebbe cambiare la configurazione del dispositivo in modo che sia ignorata una condizione pericolosa che altrimenti porterebbe un interruttore a proteggere gli equipaggiamenti. D'altra parte non è detto che i sistemi più recenti siano più sicuri dei modem. Sempre di più, i nuovi dispositivi distribuiti nelle sottostazioni potrebbero comunicare tra loro con radio a bassa potenza, la cui portata tuttavia va spesso oltre i confini della sottostazione. Chi attacca può raggiungere la rete nascondendosi con il suo computer nei boschi circostanti. Le reti Wi-Fi criptate sono più sicure, ma un attacco sofisticato può violare la crittografia grazie a programmi già disponibili. In queste condizioni, si può mettere in atto un attacco man-in-themiddle in cui le comunicazioni tra due dispositivi sono intercettate o in cui tali dispositivi sono ingannati ad accettare come legittimo il computer dell'intruso. Così, il malintenzionato può inviare messaggi fraudolenti per ingannare gli interruttori del circuito e farne scattare alcuni con l'obiettivo di sovraccaricare le altre linee oppure assicurandosi che non scattino nel corso di un'emergenza. Una volta che un intruso o un malware si è introdotto nel sistema che aveva puntato, come primo passo di solito tenta di diffondersi il più possibile. Ancora una volta, Stuxnet illustra alcune di queste strategie: prolifera usando un meccanismo del sistema operativo denominato autoexec: ogni volta che un utente effettua il log-in, i computer con sistema operativo Windows leggono ed eseguono il file Autoexec.bat. Tipicamente, il programma localizza i driver della stampante ed esegue una scansione per la ricerca di virus o altre funzioni di base. Inoltre, Windows assume che qualsiasi programma con il nome corretto sia affidabile. Gli hacker quindi cercano il modo di alterare il file Autoexec.bat così che esegua il codice fraudolento. L'aggressore può anche usare metodi più astuti che sfruttano l'economia dell'industria elettrica. A causa della deregolamentazione, negli Stati Uniti diversi gestori in concorrenza condividono la responsabilità del funzionamento della rete e l'energia elettrica è generata, trasmessa e distribuita grazie a contratti ottenuti con aste on line. Questi mercati operano a molteplici scale temporali: in uno può essere commercializzata l'energia per la distribuzione immediata e in un altro quella per la richiesta di domani. La divisione commerciale di un gestore deve avere disponibile un flusso costante d'informazione in tempo reale dalla sua divisione operativa per concludere affari in modo rapido e intelligente. Viceversa, il reparto operativo deve sapere quanta energia produrre per soddisfare gli ordini che arrivano alla divisione commerciale. Ed è proprio questo il punto debole. Un hacker potrebbe penetrare nella rete commerciale, sottrarre nomi utente e password e usare queste identità rubate per accedere ai network operativi. Altri attacchi potrebbero diffondersi sfruttando piccoli programmi chiamati script inclusi nei file. Questi script sono molto diffusi, per esempio i file pdf contengono spesso script che aiutano la visualizzazione del contenuto, ma sono anche un pericolo. Una società che si occupa di sicurezza informatica ha recentemente stimato che più del 60 per cento di tutti gli attacchi mirati usa script nascosti in file pdf: la semplice lettura di un file corrotto può consentire a un hacker l'accesso al vostro computer. Si consideri l'ipotetico caso in cui un potenziale aggressore entri nel sito web di un venditore di programmi e sostituisca un manuale on line con uno fraudolento simile al primo. L'aggressore telematico poi invia a un ingegnere dell'impianto elettrico un'e-mail contraffatta che induce la vittima a scaricare e ad aprire il manuale fraudolento. Andando on fine per scaricare un manuale aggiornato, l'inconsapevole ingegnere apre le porte del suo impianto a un Cavallo di Troia. Una volta all'interno, comincia l'attacco. Cerca e distruggi Un intruso in una rete di controllo può inviare comandi con risultati potenzialmente devastanti. Nel 2007 il Department of Homeland Security, responsabile della sicurezza interna degli Stati Uniti, ha condotto un attacco all'Idaho National Laboratory con nome in codice Aurora. Durante l'esercitazione, il ricercatore nelle vesti di un hacker si è fatto strada in una rete connessa a un generatore di potenza di medie dimensioni, che come tutti i generatori produce corrente alternata a 60 cicli al secondo. A ogni ciclo, il flusso di elettroni comincia a muoversi in una direzione, inverte il senso e ritorna al suo stato originario. Il generatore quindi deve muovere gli elettroni nella stessa direzione ed esattamente in fase con il resto della rete. Durante l'attacco Aurora, il nostro hacker ha inviato comandi on/off in rapida successione agli interruttori di un generatore di prova, mettendolo fuori fase rispetto alla rete: questa funzionava in un senso e il generatore nell'altro. In effetti, l'inerzia meccanica del generatore è andata contro l'inerzia elettrica della rete, perdendo il confronto. In un video viene mostrata l'enorme macchina di acciaio sobbalzare come se un treno avesse investito l'edificio. In pochi secondi, l'ambiente si è riempito di fumo. Gli equipaggiamenti industriali possono rompersi anche quando sono spinti oltre i loro limiti: quando girano troppo velocemente, le centrifughe si disintegrano. In modo simile, un aggressore potrebbe indurre un generatore elettrico a produrre un picco di energia che supera il limite di ciò che le linee di trasmissione possono sopportare. L'eccesso di energia dovrebbe dunque essere dissipato sotto forma di calore, ma se si protraesse per un tempo sufficientemente lungo potrebbe causare un cedimento e infine una fusione. Se la linea danneggiata è a contatto con qualcosa - un albero, un pannello pubblicitario o un edificio - potrebbe creare un enorme cortocircuito. I relé di protezione possono prevenire questi inconvenienti, ma un attacco informatico potrebbe interferire con il loro funzionamento, producendo un danno. Inoltre, un attacco potrebbe alterare l'informazione diretta a una stazione di controllo, impedendo agli operatori di sapere che qualcosa non va, come in quei film in cui i criminali inviano false immagini a chi è di guardia. Anche le stazioni di controllo, stanze con grandi schermi simili alla «stanza dei bottoni» del dottor Stranamore, sono vulnerabili agli attacchi. Gli operatori della stazione di controllo usano gli schermi per monitorare i dati raccolti dalle sottostazioni a cui poi inviano i comandi per cambiarne le impostazioni. Spesso queste stazioni sono responsabili del monitoraggio di centinaia di sottostazioni costruite sul territorio. La comunicazione di dati tra stazione di controllo e sottostazioni è basata su protocolli specifici che possono essere vulnerabili. In un attacco man-in-the-middle, un hacker può inserire un messaggio o modificarne uno che guasti uno o entrambi i computer. Un aggressore potrebbe anche cercare solo di inserire un messaggio formattato in modo opportuno ma fuori contesto, un non sequitur digitale in grado di determinare un guasto della macchina. Gli aggressori potrebbero anche cercare di ritardare i messaggi che viaggiano tra stazioni di controllo e sottostazioni. Di solito il ritardo tra una misurazione del flusso di elettricità della sottostazione e l'elaborazione dello stesso dato da parte della stazione di controllo è limitato, altrimenti sarebbe come guidare un'auto vedendo solo dove si era dieci secondi prima. Questo tipo di mancato controllo della situazione in tempo reale ha contribuito al blackout del nord-est degli Stati Uniti del 2003. Molti di questi attacchi non richiedono programmi sofisticati come Stuxnet, ma semplicemente gli strumenti standard di un hacker. Per esempio, spesso gli hacker assumono il comando di reti formate da migliaia o anche da milioni di comuni computer (denominate botnet) che istruiscono a eseguire le loro istruzioni. Il più semplice tipo di attacco botnet inonda un sito web con messaggi fasulli bloccando o rallentando l'usuale flusso di informazioni. Questi attacchi, chiamati denial of service, potrebbero anche essere usati per rallentare il traffico tra stazione di controllo e sottostazioni. Le botnet potrebbero mettere radici negli stessi computer delle sottostazioni. Nel 2009 la botnet Conficker si è infiltrata in dieci milioni di computer: chi la controllava avrebbe potuto cancellare il disco rigido di un qualsiasi computer collegato al network, se solo l'avesse voluto. Allo stesso modo, una botnet come Conficker avrebbe potuto entrare in alcune sottostazioni della rete elettrica e chi la controllava avrebbe potuto ordinare qualunque cosa in ogni momento. Secondo uno studio del 2004 della Pennsylvania State University e del National Renewable Energy Laboratory, la scelta attenta di poche stazioni - circa il 2 per cento, o 200 in totale - avrebbe messo fuori uso il 60 per cento della rete elettrica. Per provocare un blackout nazionale, è sufficiente l'8 per cento. Che cosa fare Quando viene a conoscenza di un possibile problema di sicurezza di Windows, Microsoft normalmente distribuisce un aggiornamento (patch). Singoli utenti e aziende in tutto il mondo aggiornano il loro software e si proteggono dalla minaccia. Sfortunatamente, sulla rete elettrica le cose non sono così semplici. Mentre la rete elettrica usa lo stesso tipo di hardware e di software che usa il resto del mondo, i responsabili delle centrali elettriche non possono semplicemente predisporre una patch per un difetto rilevato in un programma. Il sistema di controllo della rete non può essere escluso per manutenzione per tre ore ogni settimana: deve funzionare in modo continuativo. Gli operatori della rete elettrica nutrono anche un conservatorismo profondamente radicato. Le reti di controllo sono state attive da molto tempo, e gli operatori hanno ormai un metodo di lavoro consolidato. Per questo tendono a evitare qualunque cosa possa minacciare la disponibilità della rete o possa interferire con le operazioni ordinarie. Di fronte a un pericolo reale e imminente, la North American Electric Reliability Corporation (NERC), un'associazione che riunisce operatori di rete, ha predisposto un insieme di misure per proteggere l'infrastruttura critica. Ora agli impianti viene richiesto di identificare i loro aspetti critici e di dimostrare, nel corso di valutazioni validate dalla stessa NERC, che possono impedire un accesso non autorizzato. Purtroppo, le valutazioni in materia di sicurezza, come quelle finanziarie, non possono essere esaustive. Quando si scende nel dettaglio, lo si fa solo in modo mirato, anche per una forma di condiscendenza. La strategia di protezione stabilisce un perimetro di sicurezza elettronico, una sorta di linea di Maginot telematica. La prima linea di difesa è il firewall, un dispositivo attraverso cui devono passare i messaggi elettronici. Ogni messaggio ha un'intestazione (header) che indica da dove arriva il messaggio, a chi è indirizzato e quale protocollo è usato per interpretarlo. Sulla base di questa informazione, il firewall permette ad alcuni messaggi di passare mentre altri vengono bloccati. Il lavoro dei responsabili delle validazioni è rendere sicuri centinaia di firewall, assicurando che un impianto sia configurato correttamente e non lasci passare, né in entrata né in uscita, traffico indesiderato. Tipicamente, chi si occupa delle validazioni identifica alcuni aspetti critici, controlla i file di configurazione del firewall, cerca di simulare i modi in cui un hacker potrebbe violare il firewall. Tuttavia, i firewall sono tanto complessi che è difficile analizzarli in modo completo: in questo possono venire in aiuto alcuni programmi. Il nostro gruppo dell'Università dell'Illinois a Urbana Champaign ha sviluppato il Network Access Policy Tool, programma che ora è usato sia dai gestori sia dai consulenti per la valutazione della sicurezza. Questo programma, che non deve collegarsi alla rete perché necessita solo dei file di configurazione del firewall dell'impianto, ha già permesso di trovare diverse strategie che potrebbero essere sfruttate dagli aggressori. Il Department of Energy degli Stati Uniti ha elaborato una tabella di marcia che definisce una strategia con cui migliorare la sicurezza della rete elettrica entro il 2016. Un obiettivo specifico è realizzare un sistema in grado di riconoscere un tentativo di intrusione e di reagire in modo automatico che avrebbe bloccato un virus come Stuxnet non appena uscito dalla chiavetta USB. Ma un sistema operativo come può sapere di quali programmi fidarsi? Una soluzione riguarda una tecnica crittografica denominata funzione hash a senso unico. Una funzione hash prende un numero incredibilmente alto, per esempio tutti gli 1 e gli 0 del programma, e lo converte in un numero più piccolo, che serve da «firma». Poiché i programmi sono di grandi dimensioni, è altamente improbabile che due programmi differenti diano la stessa firma. Si immagini che ogni programma che intenda «girare» su un sistema debba per prima cosa essere analizzato da una funzione hash. La sua firma è confrontata con un elenco di riferimento: se il confronto non va a buon fine il programma è bloccato. Il Department of Energy raccomanda anche altre misure, che riguardano per esempio la sicurezza fisica delle stazioni di lavoro (si pensi ai chip nei tesserini di identificazione), e sottolinea anche la necessità di un controllo più stretto sulla comunicazione tra i dispositivi all'interno della rete. La dimostrazione di Aurora del 2007 ha coinvolto un dispositivo fraudolento in grado di ingannare il dispositivo di controllo di un generatore facendogli credere che quelli inviati fossero comandi degli uffici competenti: il risultato è stata la distruzione del generatore. Si tratta di passi importanti, che richiederanno tempo, denaro e risorse. Se intendiamo proseguire sulla strada di una rete elettrica più sicura nei prossimi dieci anni, occorre mantenere il passo, sperando che il tempo sia sufficiente. David M. Nicol («Le Scienze» n. 517/11) Addio principe azzurro? - Che cos'è e come funziona lo speed dating? Una pratica ormai ampiamente diffusa non solo negli Stati Uniti ma anche in Canada, Australia, Europa e ora anche in Italia. Lo speed dating nasce nel 1998 a Los Angeles da un'idea del rabbino Yaacov Deyo e di sua moglie Sue, prendendo spunto dall'antica tradizione ebraica del shidduch, ossia l'incontro tra giovani ebrei da tenersi segreto fino al matrimonio. Né il rabbino né sua moglie, all'epoca, avrebbero però mai pensato che lo speed dating sarebbe diventato una specie di gioco gestito da organizzate ed efficienti agenzie, con tanto di siti specializzati in Internet. Le regole generali dello speed dating sono sostanzialmente le stesse ovunque si giochi. Gli incontri sono organizzati perlopiù presso bar e ristoranti e coinvolgono solitamente da venti a ventiquattro persone selezionate all'interno di una determinata fascia di età: per iscriversi è sufficiente registrarsi in Internet fornendo i propri dati personali, in modo che gli organizzatori possano poi informare gli interessati sul programma della serata; la quota di partecipazione si paga al momento dell'ingresso nel locale. All'arrivo, i partecipanti vengono registrati con un numero e dotati di un blocchetto; la campana suona e il gioco comincia: un apposito coordinatore dirige la serata, che scorre all'insegna di un vero e proprio carosello di «abboccamenti» con le donne che restano sedute ai tavolini, mentre gli uomini, forse unico retaggio della cavalleria tipica del corteggiamento vecchio stile, scivolano da una sedia all'altra ogni seiotto minuti, a seconda del regolamento. Questo schema è finalizzato a far sì che ciascuno dei partecipanti sia messo nella condizione di poter conversare con tutti gli esponenti del sesso opposto per un intervallo di tempo che, seppure breve, consenta ai giocatori di apporre sul proprio blocchetto il fatidico giudizio, dal quale dipenderanno le sorti di un'eventuale storia futura: i «sì», oppure i «no», decretati sulle schede personali in riferimento ad un determinato interlocutore, rappresentano, infatti, la base sulla quale lo staff dell'organizzazione procederà a rilevare le possibili affinità di coppia. Le persone che risulteranno appaiate da questa embrionale sintonia saranno poi messe al corrente e lasciate libere di decidere se procedere o meno sulla via della reciproca conoscenza. Perché lo speed dating? In un'epoca e in una società nella quale trascorrere il tempo con calma ci fa sentire derubati di qualcosa di estremamente prezioso, tanto che la rapidità sembra essere la parola d'ordine, non è poi così sorprendente che anche le modalità e le caratteristiche dell'approccio romantico siano cadute nella trappola della «velocizzazione». Il cerimoniale del corteggiamento, che un tempo si dipanava fra tentativi, attese, incertezze, conferme, ripensamenti, in un clima di suspence, di aspettativa, ma anche di cospicuo investimento di energie personali, non sembrerebbe più funzionale in un'epoca in cui anche la tecnologia cospira contro l'attesa in funzione dell'immediatezza. Sognare romantici Principi azzurri e tenere Cenerentole da conquistare sembra così cedere il passo al pragmatismo, per cui ciò che davvero importa è trovare un partner dotato di requisiti che risultino utili nelle battaglie della vita quotidiana. In questo quadro costituito dalla fretta e dalla praticità, cosa c'è di meglio che tradurre un possibile preludio romantico in una rapida negoziazione a tavolino, durante la quale, uomo e donna, su un piede di assoluta parità, scoprono, in una sorta di gioco, le carte che giudicano migliori e più salienti? Funziona davvero lo speed dating? Per stare al passo con i tempi, e non si tratta solo di una metafora, non resta dunque che cercare di capire come possa funzionare questa modalità di incontro, vale a dire se sussistano e siano necessari determinati presupposti perché due persone, in una manciata così esigua di minuti, otto se non di meno, siano davvero in grado di individuare nell'interlocutore quel qualcosa che faccia loro presagire di avere trovato un partner adeguato e talvolta definitivo. Un ulteriore punto da chiarire è quello relativo alle caratteristiche che trasformano uno speed dating in un incontro di successo e, ancora, se donne e uomini si cimentano in questa pratica secondo il medesimo punto di vista, ossia con aspettative e coinvolgimento analoghi. Come sottolineano i ricercatori americani Eli J. Finkel e Paul W. Eastwick (2008) della Northwestern University, la letteratura sulla percezione interpersonale, così come le ricerche condotte da Nalini Ambady e Robert Rosenthal (1992), sulla percezione relativa a piccole porzioni del comportamento sociale, e da David Kenny (1994), sulle percezioni a partire da «zero conoscenza», costituisce un ottimo trampolino di lancio per indagare il fenomeno dello speed dating: da tali studi è infatti emerso che le persone sono realmente in grado di esprimere giudizi sociali accurati e differenziati anche sulla base di osservazioni o interazioni estremamente ridotte. Altri ricercatori americani, Marian L. Houser, Sean M. Horan e Lisa A. Furler (2008), riportano che, nonostante il tempo per scambiarsi informazioni sia estremamente ristretto in uno speed date di media durata, gli studi svolti sull'argomento hanno comunque messo in evidenza la potenziale esistenza di una serie di elementi comunicativi che influiscono significativamente sull'esito di questa forma embrionale di interazione: tra essi, la comunicazione dell'attrazione reciproca e l'esternazione di una comunanza di interessi. In sostanza, se due estranei si trovano attraenti dal punto di vista sia fisico che sociale, si percepiscono simili e manifestano atteggiamenti di gradimento reciproco, vi sono consistenti probabilità che al primo incontro faccia seguito un secondo appuntamento. Nel contesto dello speed dating, l'importanza dei fattori comportamentali a scapito di elementi ritenuti di solito rilevanti nel determinare le scelte interpersonali, come l'entità dei guadagni personali oppure il credo religioso, è stata confermata anche da una ricerca svolta da alcuni psicologi dell'Università della Pennsylvania su più di 10.000 speed dater (Kurzban e Weeden, 2005). Infine, esistono delle differenze, tra i due sessi, per quanto riguarda l'analisi dei comportamenti comunicativi tipici di una prima interazione. Dagli studi emerge, in generale, che le donne tendono a essere più attente e accurate nella valutazione della comunicazione non verbale e sono maggiormente competenti nell'interpretare i segnali facciali rispetto ad altri canali comunicativi; tuttavia, l'accuratezza percettiva femminile diminuisce quando l'interlocutore fornisce informazioni menzognere. Questo può essere uno svantaggio in un contesto come quello dello speed dating, nel quale l'esagerazione e la bugia possono rappresentare allettanti strumenti di riuscita (elemento che peraltro rappresenta una delle maggiori critiche che sono rivolte a questo tipo di approccio). In sintesi, possiamo dire che rispetto ad altre modalità di socializzazione i vantaggi offerti dallo speed dating non sono da trascurare: innanzitutto, ogni partecipante può contare sul fatto che anche gli altri compagni sono motivati dalle sue stesse finalità; in secondo luogo, accettazione o rifiuto rimangono sulla carta e non c'è l'obbligo di impegnarsi in spiegazioni faccia a faccia, più o meno imbarazzanti. Infine, ma questo forse è l'elemento di primaria importanza, già in partenza si sa che anche il dispiacere prodotto da uno speed date infelice sarà... di breve durata. Non solo per amore Lo speed dating fornisce ai ricercatori una preziosa opportunità, quella di acquisire nuove e importanti informazioni sulle dinamiche dell'attrazione interpersonale e di studiare le relazioni diadiche potenzialmente romantiche «dal vivo», consentendo anche di investigare in maniera immediata ambiti quali i processi decisionali, il pregiudizio, l'emozione, la memoria, la socializzazione e la personalità in generale. Come affermano Finkel e Eastwick (2007), gli psicologi sociali e cognitivi potrebbero utilizzare questa procedura per studiare l'associazione tra il piacere interpersonale e il successivo ricordo dell'interazione, così come gli psicologi delle organizzazioni e del lavoro potrebbero avvalersene per indagare se la propensione di una persona a stringere rapporti di lavoro dipende dalla similarità percepita nell'interlocutore. Insomma, le vie dello speed dating sembrano infinite. Quando lo speed dating funziona Fabrizio, libero professionista di 40 anni, e Giovanna (entrambi i nomi sono fittizi a protezione dell'anonimato), grafica pubblicitaria di 45, si sono conosciuti proprio durante un incontro di speed dating; sono fidanzati da tre anni e convivono da circa un anno: nel corso di un'intervista ho raccolto le loro impressioni sull'esperienza di speed dater, sentiamo cosa ne è emerso. Entrambi raccontano di aver sentito parlare del gioco da amici e di aver voluto «provare» più che altro per divertimento e per fare qualcosa di diverso dal solito. A proposito del suo primo speed dating Giovanna ricorda: «Cinque anni fa la trovai un'idea fresca, frizzante, moderna. Un modo carino per conoscere nuove persone. Ricordo che ne uscii entusiasta. Ho partecipato a diversi speed dating nell'arco di un paio d'anni e ovviamente nei primi c'è più emozione e interesse». Fabrizio, da parte sua, in merito alle sensazioni provate nel corso del suo unico e «galeotto» speed dating confessa: «Ci si sente un po' come in catena di montaggio... Ti alzi e ti risiedi e ricominci da capo in pochi minuti; all'inizio c'è un po' di imbarazzo, ma passa presto». Sia Giovanna che Fabrizio concordano sul fatto che il tempo previsto dal gioco non sia sufficiente per fare conoscenza, però come sottolinea Giovanna: «È qui che entra in gioco la fortuna e l'intuizione. Comunque, una volta finito il gioco, in genere ci si scambia ancora qualche chiacchiera, magari al bancone del bar, ed è lì che si approfondisce la conoscenza». Anche nell'ambito dello speed dating sembrano valere le regole generali sulle differenze tra i sessi in tema di attrazione. A proposito della prima cosa che lo colpisce delle sue interlocutrici, Fabrizio dichiara: «Lo sguardo e il modo di parlare... l'aspetto fisico cerchi di notarlo già dall'ingresso al locale!». Giovanna, invece, a tale riguardo, riferisce di notare soprattutto «se è sicuro di sé, tranquillo, a suo agio e se sa affrontare una conversazione anche su argomenti diversi». Una delle critiche principali rivolte allo speed dating riguarda il fatto che nel corso del gioco, per dare di sé un'immagine maggiormente accattivante, si può facilmente cadere nella tentazione di dire bugie: «Io non ho mai mentito», afferma Giovanna, «ma conosco ragazze che mentivano su molte cose. Una ad esempio si spacciava per hostess, perché era convinta che avrebbe rimorchiato di più». Il fatto che questo tipo di gioco stia riscuotendo un grande successo è ormai innegabile. «In poco tempo e in un luogo circoscritto trovi altre persone che come te sono disposte a nuove amicizie e/o relazioni», spiega Fabrizio e Giovanna aggiunge: «Tutti noi abbiamo sempre poco tempo a disposizione e trovarsi una serata già organizzata fa comodo a tutti. L'invito ti arriva qualche giorno prima con sms sul telefonino, bisogna solo dare la conferma e il gioco è fatto». In questo caso, gli intervistati sono due speed dater, per così dire, «riusciti». Qual è allora il segreto del loro successo? In questo la confessione di Giovanna è rivelatrice: «Penso che nell'arco di tempo previsto dal gioco non sia possibile innamorarsi, però... nel mio caso sì! A mia discolpa però voglio precisare che lo avevo già notato mentre facevamo la fila per l'iscrizione. Un vero e proprio colpo di fulmine e quindi, se consideriamo che il colpo di fulmine colpisce appunto in un attimo, allo speed dating i 3 minuti sono un tempo lunghissimo per innamorarsi!». Ma non sarà che allora, divertimento e comodità dello speed dating a parte, quello che alla fine funziona è il caro, vecchio e proverbiale colpo di fulmine...? Jolanda Stevani («Psicologia contemporanea» n. 214/09)