Da: Giuseppe Limone, Filosofia del Diritto, in Filosofia del Diritto. Concetti fondamentali, a cura di Ulderico Pomarici, Giappichelli, Torino, 2007. Filosofia del diritto di Giuseppe Limone 1 .Il quesito La domanda “che cos’è la filosofia del diritto?” può avere molteplici implicazioni e percorsi. Essa si scioglie nelle domande “che cos’è la filosofia?” e “che cos’è il diritto?”, alle quali la risposta può essere variegata e complessa. Proveremmo, qui, innanzitutto, a interrogare il sintagma ‘filosofia del diritto’, osservando come lo si possa intendere in due sensi diversi, appartenenti – per noi – a un unico volume di significato. “Filosofia del diritto”, infatti, ruota intorno a un genitivo, leggibile secondo due accezioni diverse: quella di un genitivo oggettivo e quella di un genitivo soggettivo. Due accezioni da assumere, a nostro avviso, contemporaneamente, come concorrenti a un unico significato. ‘Filosofia del Diritto’ ha, in questo senso, un valore complesso in cui si parla non solo della filosofia che si occupa del fenomeno sociale che chiamiamo Diritto, ma, al tempo stesso, della filosofia che può riconoscersi in tale fenomeno implicata: come complesso di scelte, di valori, di visioni, di idee, di selezioni di possibilità. Filosofia del Diritto, pertanto, è sia filosofia che si occupa del Diritto, sia filosofia che ricerca la filosofia già ‘immateriata’ nel Diritto che c’è. 2. Filosofia e Diritto Ma che cos’è ‘Filosofia’ e che cos’è ‘Diritto’? Preferiremmo muovere da una distinzione capitale, portata in auge da Martin Heidegger, il quale, come è noto, ha scritto: “La scienza calcola, la filosofia pensa”. La scienza calcola. La scienza misura il suo oggetto come un dato che non mette in discussione e che, anzi, assume come premessa del discorso. E, nel farlo, misura, all’interno del suo oggetto, tutte le possibili relazioni, strutture, funzioni. Misurazione compiuta attraverso passi logici anch’essi misurati (‘algoritmici’): il ‘metodo’. Che è la strada attraverso la quale la scienza conosce il suo oggetto per sezionarlo noeticamente in tutte le possibili relazioni, strutture, funzioni. 1
La filosofia pensa. Mentre la scienza identifica e calcola significati, la filosofia apre la domanda sul senso. Essa indaga il suo oggetto, insieme col lessico in cui arriva: studiandone i presupposti, mettendolo in rapporto con le prospettive possibili, coi valori, coi caratteri dell’interpretazione e del linguaggio, coi limiti della conoscenza e del pensiero, con l’incidenza del metodo sull’oggetto, con le condizioni di possibilità del guardare e del guardato, col complessivo mondo dell’agire, con l’essere profondo della realtà, con l’esistere umano e con le sue domande di senso. E, nel far questo, la filosofia mette in questione tutto ciò che le appare come un dato, scoprendolo come un problema. In quanto attività investigante sui presupposti, infatti, la filosofia è una straordinaria forza di demistificazione dell’ovvio e, perciò, di vigilanza critica nei confronti del reale e delle sue forme. In questo senso, essa è interrogazione che muove dai più radicali centri di senso dell’esistenza umana, per investire ogni possibile oggetto da cui esigere risposte. Sulla sua consistenza conoscitiva sembra opportuno, perciò, fin da ora, indicare due profili di riflessione. In primo luogo, in quanto l’attività filosofica nasce all’incrocio tra forza critica e fantasia speculativa. In secondo luogo, in quanto l’attività filosofica è aperta alle necessità originarie di ogni pensante (ogni uomo è naturalmente filosofo) ed è abbisognevole di capacità critiche e talenti che non è facile a tutti conseguire. Dicevamo che la scienza calcola e la filosofia pensa. Non va certamente trascurato, in proposito, che fra il ‘calcolare’ e il ‘pensare’ si dànno molte zone di frontiera – liminali, di sovrapposizione e d’incrocio. Una tale considerazione conduce ai molteplici modi in cui scienza e filosofia sono chiamate a collaborare e a interagire. Non a caso, il livello filosofico dell’investigare emerge sempre – prima o poi – dal seno stesso delle scienze, le quali, a un certo livello del loro calcolare, avvertono un bisogno teorico ineludibile: sia – in termini verticali – nel riflettere sul senso del loro operare, sia – in termini orizzontali – nel rompere le paratíe disciplinari in nome di un’epistemologia della complessità. Si pensi, oggi, all’emergere incontenibile, dal seno delle stesse scienze, di interrogazioni filosofiche miranti a saperi transdisciplinari, epistemologici, bioetici, biogiuridici, biopolitici, biofilosofici. In questo senso, se il calcolare della scienza si pone a un livello primo, il pensare che essa propizia si colloca al livello secondo di un meta‐calcolare riflesso, donde si apre lo spazio alla filosofia. Ma che cos’è il Diritto? Varie sono state le risposte a una tale domanda. Il diritto è stato visto, volta per volta, come modello inscritto nella natura, o nella vita, o nella ragione umana, o come norma, o rapporto, o istituzione, o come attività dello spirito, o come libera creazione dei commerci, o come elaborazione simbolica della pressione psico‐sociale, o come previsione concettuale delle sentenze del giudice, o come ordinamento imposto da un’Autorità idonea a farsi obbedire, o come complesso fenomeno interpretativo fondato su una scienza delle precomprensioni (in quest’ultimo caso, ‘ermeneutica’). 2
Noi pensiamo che, andando oltre le sfaccettature indicate, vada fatta una precisazione preliminare. In una prima approssimazione, infatti, può dirsi che il diritto va visto a due livelli di fondo: 1. come la complessiva attività pratica con cui una società – strutturata o no in Stato – si autoregola in un ordine garantito. 2. Come il risultato in cui quest’attività si deposita, facendosi conoscere e rispettare. Osserviamo. Non c’è società umana che possa vivere senza un ordine, il quale, quindi, ne è imprescindibile condizione di possibilità. Ma ogni società si avvale di più strategie di persuasione all’ordine: il costume, l’etica, le credenze comuni, la religione, l’economia, il buon gusto, il buon senso, le regole di convenienza, le sanzioni sociali, il diritto. Si tratta di forme regolatrici, configurabili come tanti circoli attraverso cui una società mira, per la sua conservazione, a darsi un ordine, ossia strutture vincolanti di comportamenti prevedibili e ripetibili nel cui quadro far vivere stabilmente attività, cómpiti, richieste, aspettative. Ma tali forme di persuasione all’ordine non sempre conseguono il proprio scopo. Se proviamo a pensare a tali strategie come a tanti circoli inscritti in uno più grande, possiamo accorgerci che il diritto costituisce, almeno nelle società più evolute, il circolo più interno e più duro, quello in cui l’attività autoregolatrice si esprime in una forma più stringente e più forte, capace di strutturare – attraverso vincoli imposti e aspettative tutelate – un ordine garantito. “Ordine”, infatti, è l’insieme delle strutture prevedibili e ripetibili entro le quali può svolgersi stabilmente la convivenza umana. Esso è “garantito” nella misura in cui l’attività regolatrice che lo pone sia capace di imporre complessivamente l’osservanza delle sue regole. In questo senso, la “garanzia” è null’altro che l’idoneità strutturale della forza regolatrice a rendere “effettiva” – almeno in certi limiti – l’osservanza di quanto da essa disposto, mentre l’“effettività” è null’altro che il concreto svolgersi dei comportamenti, almeno nelle linee generali, secondo l’ordine imposto. Si pensi, per un esempio, all’importanza di garantire dalla volubilità la parola data. Il Diritto, quindi, è sia l’attività pratica con cui una società regola sé stessa in forme vincolanti, sia il prodotto in cui una simile attività si sedimenta. Si tratta di due piani che non vanno confusi. Molto spesso, invece, soprattutto nell’era contemporanea, le dottrine giuridiche e filosofico‐giuridiche li confondono, riducendo di fatto, consapevolmente o inconsapevolmente, il primo livello al secondo. La dottrina giuspositivistica, per esempio, considerando come unico Diritto esistente l’ordinamento formale imposto da un’Autorità capace di renderlo effettivo nel sociale, riduce il primo piano al secondo, espellendo dall’orizzonte conoscitivo il primo. Si tratta di un’estromissione che è fonte di molti equivoci e conseguenze. 3
3. Forme di diritto e forme di conoscenza Una società, quindi, nel suo autoregolarsi come convivenza stabile, si dà un Jus – un Diritto. Ma un tale Jus essa si dà in un vissuto comune, sedimentandosi storicamente in ragioni giuridiche e valoriali: attraverso una consuetudine, più o meno identificata con pratiche e credenze religiose, attraverso strutture oracolari o sapienziali o giurisprudenziali, attraverso princípi sociali condivisi, attraverso forme di monopolio della forza (“Stato”) che si traducono in Leggi. Un “Jus” può – non ‘deve’ – darsi in forma di “Lex”. Ciò che è costitutivo del Diritto come prodotto dell’attività pratica della società regolatrice, infatti, non è il manifestarsi in legge di uno Stato, ma la sua idoneità strutturale a determinare un (minimo di) ordine garantito. Ciò significa che, anche quando una società evoluta si è configurata in Stato, non cessa affatto di esistere, intanto, quell’attività sociale autoregolatrice che – in modo meno cosciente e visibile – continua a generare componenti essenziali del Diritto, che s’incrociano con l’Ordinamento giuridico formale in tutti i luoghi in cui il diritto, attraverso soggetti concreti, si fa: guidandone l’identificazione, decidendone le connessioni logiche, modellandone i significati, valutandone la forza, precisandone l’estensione. Si tratta di punti d’incrocio in cui il Diritto, pur provenendo da luoghi diversi del sociale (la coscienza civile, morale, religiosa; il senso della storia; i costumi; il buon senso; etc.) viene, in punti apicali e ultimativi, identificato e fatto vivere come mirante a un unico ordine garantito. È questa la profonda ragione per cui alcuni degli autori più avvertiti, soprattutto in epoca moderna, hanno preferito distinguere – anche sulle orme romanistiche e su quelle vichiane – fra Jus e Lex: il Jus come il prodotto essenziale e complesso che ogni società si dà in ragioni giuridiche e valoriali sedimentate per realizzare un ordine antropologico garantito; e la Lex come una possibile modalità in cui, a opera dello Stato, un tale Jus può completarsi e specificarsi, ma senza che mai la Lex cessi di far esistere il ‘Jus’, che pur sempre la sottende e la circonda, la precede e la eccede. Il Diritto, quindi, è un fenomeno sociale che si pone come capace di dare, alla società umana e ai gruppi in essa operanti, un ordine, almeno esterno, garantito. Il convivere degli uomini, come si sa, è fatto di relazioni. Relazioni di cooperazione, di conflitto, di organizzazione e perfino (in certi limiti) di indifferenza. Vi si osserveranno, fra l’altro, relazioni di cooperazione nel conflitto e di conflitto nella cooperazione. Si tratta di relazioni indissociabili dalla vita umana. Non possono esserci, infatti, uomini senza relazioni. Né relazioni senza un minimo di ordine garantito. Se la relazione è, perciò, una struttura essenziale per l’esistere umano, il diritto è una struttura essenziale per la relazione. Non a caso un autore – Vincenzo Tomeo – ha parlato del diritto come della struttura del conflitto. Si precisi: il diritto è struttura delle relazioni, cui 4
garantisce l’ordine. E lo fa, almeno negli stadi più evoluti, non solo regolando i comportamenti per impedirne il conflitto e per consentirne la cooperazione, ma anche per regolare, a un primo livello, il conflitto fra le azioni; a un secondo livello, il modo con cui si confligge; e, a un terzo livello, il modo con cui si confligge nell’interpretare le norme che regolano il conflitto. Come dire che il diritto non determina solo le regole per non litigare, ma le regole sul come litigare e le regole sul come litigare sulle regole che regolano il litigare. Ubi societas, ibi jus. La filosofia del diritto, pertanto, non indaga un fenomeno eventuale della vita degli uomini, ma strutturale. E lo fa secondo due prospettive, da combinare: 1. Sia in quanto è attività della società che si autoregola, sia in quanto è diritto da essa generato; 2. sia in quanto è ‘Diritto’, sia in quanto, nel suo costituirsi come Diritto, contiene e deposita in sé una filosofia. 4. Ordine Ma che cos’è ‘ordine’? Il concetto di ‘ordine’, come è noto fin dal dibattito medievale, implica un duplice livello: un ordine ordinante (‘ordo ordinans’) e un ordine ordinato (‘ordo ordinatus’). C’è, in ogni assetto, un ordine pensante e volente che si traduce in ordine realizzato. Si tratta di una distinzione che, trasferita sul piano del diritto, apre la strada a molte distinzioni ulteriori, importanti e specifiche, anche se collocate a più scale di analisi e non sovrapponibili fra loro. Si pensi a quella fra Diritto formale – depositato in un ‘ordinamento’ – e Diritto effettivo, depositato nel funzionamento reale delle ‘Istituzioni’. Oppure si pensi alla distinzione fra ‘Costituzione formale’ (quella scritta nella Legge fondamentale di uno Stato) e ‘Costituzione materiale’ (quella effettivamente vivente nella prassi, anche evolutiva, degli Organi supremi). Un’attenzione prevalente all’uno o all’altro profilo del discorso genererà atteggiamenti dottrinali diversi nei confronti del diritto (normativismo e istituzionalismo, ad esempio) e atteggiamenti disciplinari diversi nei confronti dello stesso (filosofia del diritto e sociologia del diritto, ad esempio). Ma un ‘ordine’ non implica necessariamente l’idea di un ordine giusto. Come scrive Borges parlando della sua «Biblioteca di Babele»: « ... gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)» 1 . Un ‘ordine’ implica, infatti, una prevedibilità e una ripetibilità di forme che consentano uno strutturarsi stabile di attività e di aspettative. Ma un tale ordine, se è giuridico, deve essere garantito. Là dove il concetto di garanzia implica quello di idoneità strutturale a rendere effettivo, in modo più forte e stringente, la prevedibilità e la ripetibilità stabilite. Si pensi, in proposito, a quelle forme di garanzia che vengono chiamate “sanzioni”: previsioni punitive e/o premiali e/o invalidanti, appartenenti a una Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1995, p. 78. 1
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strategia idonea a imporre un ordine, almeno esterno, nelle relazioni sociali. Si pensi, tra le possibili figure di sanzione, alla costrizione, all’esecuzione forzata, alla rimessa in pristino della situazione violata (‘reductio in integrum’), al risarcimento dei danni, ad altre forme di riparazione, all’invalidazione degli atti compiuti, alla privazione o restrizione della libertà, all’inflizione di pene fisiche o pecuniarie e, nella più recente evoluzione giuridica, alla predisposizione di misure ‘premiali’ capaci di indurre al comportamento positivamente apprezzato dal diritto. Occorre, cioè, un ‘ordine ordinante’ idoneo a tradursi di fatto – almeno in certi limiti – in un ‘ordine ordinato’. Tali sanzioni, nel comportare un ordine di vincoli, presuppongono, al tempo stesso, un ordine di poteri, capaci di rendere effettivi quei vincoli. I quali, a loro volta, presuppongono un ordine di regole (non necessariamente scritte) che attribuiscano quei poteri. Il diritto potrà essere indagato, pertanto, a livello fenomenico, ontologico, semantico, teleologico, logico, metodologico, valoriale, epistemologico, sociale, politico‐istituzionale. In ciò che è, in ciò che intende essere, in ciò che può essere, in ciò che dovrebbe essere, in ciò che non può non essere, in ciò che deve poter essere, nelle sue articolazioni d’essere, nella sua ragion d’essere, nel suo fondamento d’essere, in ciò che complessivamente significa all’interno dell’esistenza umana. Si distinguerà, quindi, nell’attività filosofica che investiga sul Diritto, un’Assiologia del Diritto, una Teoria generale del Diritto (col suo lessico specifico: diritto soggettivo, diritto oggettivo; norma e ordinamento; ordinamento giuridico: unità, coerenza, completezza; validità, efficacia, giustizia, effettività), una Teoria dello Stato (col suo lessico specifico: sovranità e suo fondamento: divisione dei poteri; Stato di diritto; Stato sociale, etc.), una Logica del Diritto (col suo lessico specifico: norme contrarie, contraddittorie, subalterne; norme regolative e costitutive; il problema delle lacune nell’ordinamento giuridico, etc.), una Filosofia del linguaggio giuridico, un’Ermeneutica del Diritto, una Critica delle Istituzioni giuridiche, una Metafisica del Diritto, un’Epistemologia della scienza giuridica, una Teoria dell’argomentazione, una Filosofia degl’istituti giuridici nella storia civile. 5. Dalla ragione scientifica all’illuminismo: il Diritto nella modernità L’era moderna si apre, come è noto, fra il Cinquecento e il Seicento, con le grandi scoperte geografiche, con l’invenzione della stampa, con la Riforma luterana, con la discussione di un ‘diritto naturale razionale’ (di un diritto naturale, cioè, che la ragione, natura dell’uomo, emancipandosi dal fondamento teologico, riconosce nella natura dei soggetti umani in quanto razionali: giusrazionalismo), con la nascita dello Stato moderno e delle sue visioni teoriche 6
(Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu, Rousseau), con la nascita dei canoni della scienza nuova e del suo metodo (Copernico, Keplero, Galileo, Bacone, Cartesio, Newton, Leibniz, Vico). In un tale contesto, la nuova concezione della scienza, istituendo un diverso paradigma della ragione, che si emancipa dall’ipoteca del divino e preferisce muovere dal fondamento del pensiero, individuerà, come caratteristica del nuovo modo di investigare sul vero, l’incontro metodico delle esperienze con la ragione: e, di qui, la sperimentalità, la ripetibilità, la misurabilità, la prevedibilità, la riproducibilità e controllabilità delle verifiche, insieme con la possibile artificialità derivante dal riprodurre sperimentalmente il compreso, nell’ambito della fondamentale soggettività ponente dell’attività ricercatrice. In questo senso, nel Settecento, il movimento dell’illuminismo, nascendo in Francia e irradiandosi in Europa, darà vita, nelle diverse sue declinazioni, a un grande fenomeno di trasferimento dei princípi della scienza moderna, dello Stato moderno e della coscienza religiosa moderna sul piano politico‐sociale. Si tratta di quell’illuminismo di cui Kant ha lapidariamente scritto che è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in nome della ragione. Il Diritto tenderà ad acquistare così – nel dibattito fra gl’illuministi – una sua forma e un suo valore, strutturalmente legati al configurarsi dello Stato moderno e alla sua idea di sovranità. In questo evento complesso, il baricentro teorico dell’illuminismo giuridico sarà costituito da una Ragione legislatrice, chiamata a dare le basi a un diritto razionale, semplice, uguale, capace di garantire i diritti naturali dei consociati. La potestà legislatrice, in un tale discorso, deve essere illuminata dalla ragione e, quindi, idonea a porsi come unica produttrice di diritto e come autrice di una semplificazione razionale che elimini ogni altra fonte, allo scopo di garantire una disciplina, in quanto razionale, unica e unificante. In questa concezione, secondo le linee emergenti dal dibattito, le leggi prodotte dalla Ragione legislatrice dovranno essere: pre‐
date (ossia poste in essere prima dei comportamenti da normare), scritte, poche, semplici, chiare, astratte, generali, stabili, costituenti un ordine coerente e completo. Ognuna di queste caratteristiche strutturali ha un suo specifico senso. Attraverso tali prescrizioni razionali al potere legislativo, infatti, il movimento illuminista tendeva a porre limiti – più che di contenuto – di struttura all’Autorità sovrana: ciò affinché essa, qualunque cosa disponesse, si sottoponesse, nel disporlo, a forme che assicurassero, sempre e necessariamente, la precostituzione e la chiarezza del disposto, la sua valenza per tutti, la sua stabilità nel tempo, la sua complessiva coerenza e la sua radicale completezza. Si veniva a perseguire, così, come fine fondamentale della ragione legislatrice, l’idoneità strutturale della norma a disciplinare ex ante – e quindi senza interventi ex post – tutti i comportamenti e le situazioni possibili. In una simile concezione sulla sostanza e sui limiti razionali del potere sovrano, si trattava, in realtà, di pensare, più che le regole, le regole con cui pensare le regole. Collocandosi, 7
quindi, in un’ottica, più che regolatrice, meta‐regolatrice. Vediamo. Le leggi, in base alla filosofia implicata in una simile strategia di pensiero, dovranno essere poche, semplici e chiare: per essere comprese senza equivoci da chi le applica e da chi vi è sottoposto. Dovranno essere, inoltre, astratte e generali: per essere uguali per tutti nello spazio; e stabili, per essere uguali per tutti nel tempo. Se le leggi fossero, infatti, solo astratte e generali e non stabili, l’uguaglianza di trattamento normativo garantita nello spazio sarebbe aggirata dalla disuguaglianza di trattamento nel tempo. Le leggi, infine, dovranno costituire un ordinamento completo, perché solo in tal caso, prevedendo tutti i casi possibili, saranno veramente affidate al potere del legislatore (diventando uguali per tutti) e non rimesse all’arbitrio del giudice, che si esprimerebbe caso per caso, trasformandosi, così, in un irrazionale legislatore. Le leggi, quindi, dovranno costituire un ordine coerente e completo. Esse non saranno, perciò, né contraddittorie né lacunose: là dove ne va non della bellezza letteraria dell’ordinamento, ma della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini. È prefigurata, qui, a ben vedere, in termini di ingegneria normativa, quella situazione strutturale dello Stato che si chiamerà “divisione dei poteri”, per la quale il potere legislativo è l’unico depositario della funzione di normare in via astratta e generale, laddove al potere giudiziario compete soltanto la funzione di applicare la norma al caso concreto: senza poter nemmeno interpretarla, perché la possibilità interpetrativa significherebbe pur sempre la sostituzione di più norme a una norma sola, con la contestuale creazione – da parte del giudice – di norme per i casi singoli e, quindi, usurpatrici del potere di normare in via astratta e generale, spettante solo al legislatore. Il giudice deve solo rilevare la norma. Egli è semplicemente la bocca che pronuncia le parole della legge sul caso a lui sottoposto. Il modello del suo giudizio è il sillogismo. Si tratta, in realtà, della concezione attraverso cui , affidando il compito di creare leggi (astratte, generali, stabili, coerenti, complete) al solo potere legislativo e nessun potere creativo al giudice, si intende assicurare la libertà del cittadino. Sostanziata nel fatto che egli sarà sottoposto a una legge che conosce con chiarezza e da prima, emanata per tutti, tale da non consentire a nessuno – nemmeno al giudice – di interpretarla secondo l’arbitrio e il caso. Risulta, a ben vedere, prefigurato, in queste caratteristiche strutturali per le norme e le leggi, quel particolare valore giuridico che si chiamerà “certezza del diritto”. Valore per il quale, da un lato, la regola deve poter essere conosciuta senza equivoci fin dal tempo che precede il comportamento tenuto e per il quale, dall’altro lato, la regola deve essere stabile nel tempo. La certezza del diritto, in realtà, intende assicurare una situazione in cui i soggetti sottoposti alla norma siano sottratti a ogni incertezza e a ogni precarietà. Una tale opzione valutativa porrà, d’altra parte, alla scienza futura il problema teorico su se sia possibile un ordinamento senza lacune o – altrimenti 8
detto – su se una norma possa veramente prevedere tutte le situazioni possibili, dovendo conoscere quindi, per prevederle, tutte le condizioni di possibilità della sua previsione. Si badi. E’ proprio a partire dalla crisi teorica della possibilità di concepire un ordinamento completo, senza lacune – il quale, nella sua intenzione di fondo, intende conferire massima fiducia al legislatore e minima al giudice –, è proprio a partire da una tale crisi che si svilupperà, nel Novecento, una concezione ermeneutica del diritto. La quale, esprimendo precise sensibilità filosofiche e filosofico‐giuridiche (Heidegger, Gadamer, Betti) e considerando ineludibile il problema teorico dell’interpretazione, proprio al momento interpretativo e alla scienza delle sue precomprensioni assegnerà, nel costituirsi del diritto, il ruolo fondamentale. Si darà vita, così, a una diversa sensibilità nella concezione del legislatore e del giudice, attribuendosi, di fatto, una maggiore fiducia al giudice e alla sua potestà di intervenire – sulla base della scienza ermeneutica – nella più consapevole conoscenza e ponderazione del caso concreto. 6. Jus e Lex Il processo filosofico e politico avviato dall’illuminismo giuridico tenderà a conferire, pertanto, razionalità al potere, conducendo in Europa – anche attraverso l’evento della rivoluzione francese e dei suoi riflessi – al movimento delle codificazioni, con cui il diritto di un territorio verrà concentrato in un’unica fonte di produzione, di origine statuale: la Lex. Da un lato, quindi, si chiederà al potere sovrano di esprimersi in forme razionali e, dall’altro, si tenderà a rendere il potere sovrano l’unico produttore di diritto. Ciò concorrerà certamente a un’unificazione delle fonti di produzione giuridica e a una semplificazione delle norme, ma mirerà, al tempo stesso, a ridurre tutto il Jus a Lex, facendo pagare la semplificazione del diritto con la sua riconduzione alla volontà politica. Con una conseguenza importante: il progressivo occultamento del Jus, che, riconosciuto o no dal produttore della Lex, pur continua a sussistere nella vita giuridica delle società. Sotto forme meno visibili e consapevoli, pur recessive o latenti, infatti, ogni società continua a generare il suo Jus e a renderlo, in soggetti e momenti topici, identificato e vivente. La prassi di una volontà formalizzata in ‘Lex’ con la quale si imponga che il ‘Jus’ non ci sia, non può infatti annichilire la considerazione teorica del suo effettivo perdurare. Potranno, infatti, passare tempi anche lunghi in cui la Lex, decretando l’inesistenza del Jus, ne renda invisibile il perdurare (e nel plurisecolare tempo degli Stati moderni ciò è di fatto accaduto). Ma il possibile oscuramento del Jus non ne annichilisce affatto l’esistere, né significa che non ci saranno più tempi in cui il Jus possa riapparire alla luce. La Lex, infatti, non può – per l’impossibilità 9
teoretica che non lo consente – decretare qual è il Diritto e che il Jus non c’è. Perché il Diritto – di cui la stessa Lex è espressione – la sottende e la supera da ogni lato, e non solo nei luoghi della considerazione filosofica ma nei luoghi e nei soggetti reali in cui ogni conoscenza coglie il farsi del diritto. Luoghi e soggetti topici in cui il diritto si fa e di cui ogni disconoscimento sarebbe non solo falso, ma inefficace. C’è il diritto come attività autoregolatrice della società e il diritto come prodotto della stessa. Ma, fra i due livelli, ce n’è uno ulteriore e preciso, che è venuto il tempo di disoccultare: è il diritto inteso come il complesso di orientamenti vissuti con cui l’attività sociale regolatrice guida all’identificazione del diritto esistente e alla sua interpretazione. E’ diritto, infatti, non solo quello riconosciuto dai funzionari attuatori dello stesso (Herbert Hart), ma anche quello continuamente emergente, attraverso soggetti topici, negli orientamenti di principio che guidano al riconoscimento e all’interpretazione dello stesso, facendolo apparire alla luce. Attraverso soggetti, luoghi e tempi il cui disconoscimento sarebbe non solo falso ma inefficace. Il Diritto formale, in definitiva, non può decretare – sostituendosi alla teoria – di essere l’unico Diritto. Decretare che il sole non esiste non significa l’annichilimento del sole! Se proviamo a scavare nel livello intermedio fra l’attività autoregolatrice della società e il diritto formalmente prodotto, se scaviamo cioè in quello che abbiamo chiamato il complesso degli orientamenti di principio che guidano all’identificazione e all’interpretazione del diritto esistente, possiamo trovare più falde, strettissimamente connesse e viventi: i valori, i princípi, le norme. Ma fra i princípi stessi bisogna distinguere. E’ necessario, infatti, non confondere fra i princípi enucleabili dall’ordinamento stesso – i ‘princípi generali dell’ordinamento’ – e i princípi che, pur intersecando l’ordinamento, non derivano da esso. Così come, ancora più a monte, sono individuabili orientamenti di principio che guidano alla stessa identificazione e allo stesso rimodellamento del diritto che esiste. Nell’architettura qui individuata, pertanto, si distinguerà fra valori, princípi e norme. Là dove i princípi, collocati topologicamente fra i valori e le norme, sono, da un lato, continuamente esposti ai valori e, dall’altro, mirati a tradursi in norme senza mai esaurirsi in esse, perché orientano sempre oltre di esse eccedendone i confini. Mentre le norme, quindi, si esprimono in classi definite – di fatti, di comportamenti, di situazioni – in cui si circoscrive in modo esclusivo il loro dominio regolatore, i princípi non si esauriscono mai in classi determinate e orientano, con razionalità strategica, sempre oltre la loro tipicità Si badi. La collocazione dei princípi fra valori e norme non è solo topologica, ma epistemologica: dice l’essere dei princípi. Si potrebbe anche dire, con linguaggio geometrico, che il ‘principio’ è la figura che si pone fra la tendenza dei valori al limite della loro attuazione operativa e la tendenza delle norme al limite della loro riconduzione all’intero. Il ‘principio’ è, in questo senso – fra i valori e le 10
norme – il luogo geometrico che costituisce il limite comune fra queste due tendenze al limite. 7. Il diritto moderno: caratteristiche strutturali delle norme Nell’imporsi di un ordine scritto e unificato, come è facile capire, l’ordine ordinante acquista, almeno per certi versi, una sua cospicua autonomia rispetto all’ordine ordinato. Il che, d’altra parte, significa, il progressivo complessificarsi dei modi strutturali di cui quell’ordine scritto, per diventare ordine effettivo nel sociale, si dota. Un illustre giurista contemporaneo, Sergio Cotta, ha sottolineato le forme specifiche del diritto nei confronti delle altre attività umane, individuandole in alcuni tratti normativi. Il Diritto, infatti, soprattutto nella sua forma moderna, si esprime in alcune costanti modalità: a. Esso regola comportamenti esteriori e non interiori (“esteriorità”). Si tratta di un preciso guadagno teorico realizzato soprattutto in età moderna. Si pensi come in Hobbes sia esplicitamente sancita la distinzione fra il diritto, che si occupa dell’esteriorità, e l’etica, che si occupa dell’interiorità. Una confusione fra i due livelli genererebbe, infatti, un diritto inquisitorio sulle intenzioni che, con l’era moderna, esce dai parametri della civiltà giuridica. Al diritto moderno non interessa che l’obbligato adempia imprecando dentro di sé, ma che adempia. Il che non significa che il diritto non possa attribuire rilievo alle intenzioni (se compiute, ad esempo, per dolo o per colpa), ma significa che una tale valutazione il diritto compie – ove la compia – sempre in presenza di un comportamento esteriore. Per i comportamenti interiori isolatamente presi, il diritto moderno, per sua scelta strutturale, si astiene dal normare. b. Il Diritto regola comportamenti e situazioni modellati in tipi (“tipicità”). Si tratta di una caratteristica che non sussiste con eguale nettezza in un diritto che pure è diritto, come il consuetudinario. O in un diritto – pur sempre diritto – che sia tutto processualizzato e garantito secondo regole, volta per volta decretate da sapienti, da interpetri di costumi o di dèi, o da re. c. Il Diritto regola in modo eteronomo e non autonomo, dal momento che la norma giuridica non deriva dallo stesso soggetto che vi è sottoposto (“eteronomia”). d. Il Diritto regola secondo una strategia di comandi e permessi congiunti, perché comanda e permette nel senso che comanda nello stesso tempo in cui permette e permette nello stesso tempo in cui comanda (“imperativo‐
attributività”). Anche qui, si tratta, a ben vedere, della caratteristica di un diritto pervenuto a una sua maturazione formale e, in quanto tale, a una sua unificazione. e. Il Diritto regola secondo una strategia di coordinazione, allo scopo di 11
impedire fenomeni di contraddittorietà, contrarietà, incongruenza sia tra le norme sia tra le figure create (“coordinazione”). Vale, anche qui, la considerazione di cui al punto precedente. f. Il Diritto regola secondo una strategia sanzionatoria di traduzione del disposto in forme sociali corrispondenti, allo scopo di rendere effettivo il risultato voluto, per lo meno nei comportamenti esteriori (“garanzia”). Tutto ciò fa emergere con nettezza alcuni tratti distintivi nel rapporto fra l’etica e il diritto. Mentre al diritto, infatti, basta l’osservanza esteriore, all’etica una tale osservanza non basta affatto, perché rimane, per essa, decisiva l’intenzione conforme alla coscienza; mentre nel diritto si dà una puntuale tipizzazione dei comportamenti regolati, nell’etica è decisivo, almeno in ultima analisi, il rapporto fra la coscienza interiore e la situazione concretamente vissuta; mentre al diritto è consustanziale l’eteronomia, l’etica, soprattutto nell’era moderna, non è pensabile senza autonomia; mentre nel diritto il ‘comandato’ e il ‘permesso’ sono indissolubilmente congiunti, ciò non è necessariamente osservabile nell’etica; mentre nel diritto, soprattutto nella fase moderna, si dà coordinazione tra le figure create, ciò non accade affatto nell’etica; mentre nel diritto, per la sua traduzione in comportamenti effettivi, è necessaria la garanzia, questa è assolutamente assente nell’etica. Un uomo può, infatti, essere buono, eppure ciò non gli garantirà alcun premio. Anzi, troppo spesso il comportamento buono incontra misconoscimenti e castighi: il rischio è strutturalmente connesso all’azione etica, che opera per coscienza e senza garanzie. Le precedenti considerazioni mostrano quanto il diritto sia, rispetto all’etica, forma specifica. Esso è, infatti, diritto non per i motivi e i contenuti che possono alimentarlo (etici, economici, ideologici, tecnici, di convenienza sociale, di opportunità congiunturale, etc.), ma per il fatto che la sua forma è strutturalmente destinata a realizzare un ordine garantito. Giuseppe Capograssi scriveva che il diritto è discreto. Esso, cioè, a differenza dell’etica, si accontenta del comportamento esteriore. Eppure da questa sua discrezione, che chiede il minimo, emerge un intero ordine, che nemmeno l’etica saprebbe assicurare. Non a caso, l’antica sapienza cristiana insegna che la bontà di tutti non garantisce l’ordine, perché anche fra i buoni può esserci conflitto. 8. Etica giuridicizzata, etica nel diritto, etica del diritto Giova qui dissipare una precisa illusione teorica – vera fata morgana – che può gravemente oscurare la percezione speculativa dei rapporti fra etica e diritto. Potrebbe, infatti, pensarsi che sarebbe massimamente auspicabile tradurre l’intera etica in diritto. Si distingua, in proposito, fra un’etica giuridicizzata, un’etica nel diritto e 12
un’etica del diritto. Se si volesse che un’etica si traducesse tutta in diritto, si determinerebbe una situazione in cui si comanderebbero con sanzioni esterne tutti i comportamenti che l’etica chiede innanzi tutto alle intenzioni. Si determinerebbe, cioè, uno stato di polizia. Ciò significa che non è etico che tutto l’etico sia diritto. Altra cosa è che alcuni contenuti etici, importanti per l’ordine esterno, siano imposti nell’ordine giuridico (etica nel diritto). In tal caso, la scelta nasce dalla decisione di imporre con sanzioni determinate comportamenti, valutati come imprescindibili per l’ordine sociale. Altra cosa ancora è che il diritto, nei limiti delle proprie caratteristiche strutturali, scelga le modalità eticamente più proprie al suo modo d’essere: ad esempio, attraverso la certezza del diritto e/o aperture all’equità (etica del diritto). 9. Caratteristiche strutturali della razionalità giuridica Aggiungeremmo alle considerazioni strutturali di Sergio Cotta alcuni tratti che riguardano sia l’attività regolatrice che genera diritto, sia lo stesso diritto generato. Il diritto, infatti, in entrambe le accezioni individuate, soprattutto nelle sue forme più evolute, risponde a una razionalità strategica, a una razionalità processuale e a una razionalità analitica (‘scompositiva’). a. Il Diritto risponde a una razionalità strategica, nel senso che non fa sua una razionalità parametrica. E’ noto che la differenza fra razionalità parametrica e razionalità strategica consiste nel fatto che, mentre la prima individua un modello, da applicare ai fatti, che rimane fisso al mutare dei fatti stessi, la seconda, invece, come nel gioco degli scacchi, individua un modello che, tenendo conto dell’eventuale mossa del destinatario del gioco, ne pre‐assuma la possibilità, adeguandovisi al proseguimento dell’azione. Chi, nel gioco degli scacchi, operasse con la razionalità parametrica e non con quella strategica, perderebbe la partita. Si badi. Quando una norma viene inserita nel corpo vivo delle azioni di una società, essa è introdotta in un agone di tensioni mobili, dove si osservano reazioni all’azione normante, non consistenti solo in una possibile osservanza, ma anche in una strategia di violazioni o di aggiramenti (comportamentali, interpretativi, esecutivi). Una norma giuridica – così come l’attivita regolatrice della società che in essa si esprime – non potrebbe realizzare il suo obiettivo se non perseguisse una razionalità strategica, che, in quanto tale, precostituisca – sia nella sua azione complessiva di mutamento delle norme sia nella predisposizione dei loro dettati – la risposta a possibili violazioni e/o aggiramenti. Una diversa razionalità fallirebbe l’obiettivo strutturale del Diritto. La razionalità strategica, quindi, a ben vedere, 13
caratterizza il diritto in entrambi i suoi livelli.: sia nella modalità con cui la società genera e muta il diritto, sia nelle modalità attraverso cui viene predisposta la regola giuridica. Si tratta di due diverse forme: 1. della modalità, svolgentesi nel tempo, con cui viene pensato e modificato il diritto (modalità complessiva e diacronica); 2. della modalità, strutturata nella regola, attraverso cui questa viene modellata, anche prescrivendo speciali esigenze formali (modalità decentrata e sincronica). b. D’altra parte, il Diritto risponde a una razionalità processuale. Perché – riscuota osservanza o no – viene concepito e strutturato in vista di un’applicazione, ossia di un processo che ne garantisca l’attuazione: processo che – anche se di fatto non seguisse – deve poter esserci. Ossia: la processualità, pur potendo non esserci, deve poter esserci. L’eventualità del processo deve costituire una precisa struttura del pensare giuridico, ossia della sua razionalità processuale. E’ in questa luce, in realtà, che diventano comprensibili i vari ‘formalismi’ di cui il diritto si dota e che potrebbero sembrare inutilmente gravosi e fuorvianti rispetto ad autentiche esigenze di valore. c. D’altra parte ancora, il Diritto corrisponde a una razionalità analitica, scompositiva. Perché, per poter pervenire alla puntuale sua applicazione, deve poter definire, scomporre, individuare con circostanziata precisione gli elementi del suo oggetto. In questo senso, il diritto, come sottolinea Enrico Opocher, non disciplina – se disciplina – “la” libertà, ma “le” libertà, tutte tipicamente nominate; non disciplina “il” tempo, ma i tanti possibili eventi temporali (decorsi qualificati, termini ordinatòri e perentòri, termini dilatòri, termini di usucapione, scadenze, etc.); e non disciplina “la” società o “la” socialità”, ma i concreti singoli individui che agiscono in essa, in quanto inclusi nel suo tipo. Il Diritto esercita una razionalità che abbisogna di scomporre e spezzettare il suo oggetto, per raggiungerlo applicativamente in modo preciso. Se il Diritto non impiegasse una simile razionalità, fallirebbe il suo obiettivo. 10. Ordine sintattico, ordine semantico, ordine giusto Se pensiamo alle caratteristiche strutturali di cui Sergio Cotta parla, ci accorgiamo che un tale ordine di norme si presenta, fondamentalmente, come ordine sintattico. Si sta parlando, cioè, qui, di caratteristiche strutturali di un diritto che assicura un ordine a prescindere dai significati sociali di cui sia portatore. L’ordine sintattico è, infatti, un ordine fondato sul puro funzionamento dei nessi relazionali fra le componenti – fra i ‘pezzi’ – a prescindere dall’ordine dei significati. L’ordine sintattico in quanto tale, come è riscontrabile all’interno di una proposizione linguistica, può prescindere da un qualsiasi ordine semantico, allo stesso modo in cui una proposizione linguistica 14
può essere sintatticamente corretta a prescindere dal suo significato, e addirittura a prescindere dall’esistenza di un qualsiasi significato. Nell’orizzonte di una pura funzione sintattica, ad esempio, una sentenza non è affatto necessario sia ‘giusta’: basta assolva la sua funzione sintattica, consistente nel chiudere definitivamente, con atto del terzo, il conflitto fra i contendenti. E’ solo questo che l’ordine sintattico del diritto chiede, non altro. Ma c’è, qui, una considerazione decisiva da fare. Se è vero che un ordine sintattico può prescindere da un ordine semantico, l’ordine sintattico del diritto, se è reale, implica sempre e necessariamente un minimo di ordine semantico condiviso. Un ordine del diritto che intendesse prescinderne, cadrebbe, prima o poi, come un castello di carte. D’altra parte, anche l’ordine semantico può prescindere dalla giustizia – da un ordine giusto. Un ordine semanticamente condiviso, infatti, non è necessariamente un ordine giusto. Ma, anche qui, c’è una considerazione da fare. Se un ordine semantico può prescindere da un ordine giusto, un ordine semantico del diritto non può prescindere da un minimo di ordine giusto, ossia da un minimo di risposta a una domanda forte di giustizia, sollevata sotto pena di intollerabilità (è, come si sa, la formula di Gustav Radbruch). Un ordine semantico che non rispondesse mai a una domanda forte di giustizia, prima o poi, col crescere delle esigenze di questa, imploderebbe da sé. Ergo, un ordine sintattico del diritto implica sempre un minimo di ordine semantico condiviso; un ordine semantico del diritto implica sempre un minimo di ordine giusto, ossia un minimo di risposta alla domanda di giustizia. Si badi. Si possono relativizzare e demolire tutte le risposte alla questione della Giustizia, mai la domanda. Che emerge, innanzitutto e per lo più, non direttamente dall’individuazione di un concetto, ma dall’imporsi di un rifiuto reale. Di un intollerabile. Che emerge non come figura concettuale, ma, innanzi tutto e per lo più, da un improvviso sfondo di condizioni non previste. Apparendo alla luce, per così dire, non dal pensato, ma dall’impensato. In forma pascaliana diremmo che il rifiuto dell’intollerabile è gravido di un mondo noetico di cui il rifiuto non sa. E di cui la noesis stessa non sa. Ma di cui deve sapere. E che solo l’investigazione filosofica può, da dentro, illuminare. Dicevamo: l’ordine sintattico del diritto, pur indipendente dall’ordine semantico, non può prescindere da un minimo di ordine semantico condiviso; l’ordine semantico del diritto condiviso, pur indipendente dall’ordine della giustizia, non può prescindere da un minimo di ordine giusto, ossia da un minimo di risposta a una domanda forte di giustizia, elevata sotto pena di intollerabilità. Proviamo ora a guardare il rapporto fra ordine sintattico, ordine semantico e ordine giusto secondo un’articolazione fra coni verticalmente sovrapposti e reciprocamente innestati in una sequenza di vertici e basi. Il minimo comune 15
cui si riferisce l’ordine sintattico, quello cui si riferisce l’ordine semantico e quello cui si riferisce l’ordine giusto verranno a configurarsi come coni più piccoli, individuati e messi in comune dai reciproci innesti. Si ascenderà, così, – lungo la linea ideale che va dal cono più basso al più alto – dall’ordine sintattico all’ordine semantico all’ordine giusto, disegnando un collegamento fra vertici, difficile ma percorribile, che congiunge ordine imposto, ordine condiviso e ordine giusto: ossia il cammino che lega Lex, Jus e Justitia. 11. La società fra attività autoregolatrice e diritto formale: il problema dei “princípi” Dicevamo che il Diritto non è solo il prodotto formale e visibile dell’attività della società che si autoregola per realizzare un ordine, almeno esterno, garantito, ma è anche l’attività della società che a quello scopo si autoregola. E dicevamo che il Diritto, anche nei suoi stadi più evoluti, non è solo il prodotto formale e visibile, linguisticamente e logicamente unificato, di questa attività, ma anche il prodotto più ampio che nella società vive come all’ordine giuridico destinato: sia orientando a regolare i comportamenti sociali sia guidando a identificare il diritto esistente e le sue interpretazioni. E nulla toglie a questa considerazione di fondo il fatto che il diritto formale, dichiarandosi l’unico esistente, non riconosca altre forme. Il problema, infatti, di che cosa sia Diritto, non lo decide il Diritto formale che si autodichiara l’unico, ma chi di fatto lo crea e chi scientificamente lo vede, per lo meno in quei punti d’incrocio apicali il cui disconoscimento sarebbe inefficace. Si pensi, in proposito, a quelle sedi e a quei momenti apicali in cui il diritto viene prodotto e deciso: ai momenti topici, cioè, in cui esso è praticato, cercato, trovato, dichiarato, costituito, interpetrato, applicato, eseguito, fatto vivere, anche nonostante ogni affermazione formale contraria. In queste sedi – nodi effettuali della rete giuridica – chi identifica il diritto come tale permanentemente lo istituisce e lo fa vivere. Questo Diritto, in realtà, nasce sotto la pressione permanente dell’attività sociale regolatrice che in determinati soggetti, in modo più o meno riflesso, matura. Un fatto è certo: un tale Diritto – lo si voglia o no – si fa o concorre a farsi decisione giuridica e ordine giuridico. E concorre a identificare, intersecare, modellare e rimodellare significati giuridici. Se è vero, quindi, che il diritto è quello identificato – e permanentemente re‐
istituito – da chi ha la forza di renderlo vivente e indisconoscibile; se è vero che il diritto non è solo quello formale, ma anche quello vivente in forme reali, concorrendo a rimodellare identificazioni e interpretazioni; e se è vero, infine, che il diritto è, al tempo stesso, l’autoregolazione vissuta e costante con cui una società orienta i comportamenti ricognitivi e interpetrativi del suo diritto; da 16
tutto ciò deriva che il diritto si esprime non solo in un ordinamento formale ma in orientamenti vissuti e riflessi che sono “principi”. Per giunta, giuridici, in quanto esteriormente vincolanti. Si tratta di “principi” che non appaiono – almeno innanzi tutto e per lo più – per investigazione razionale diretta, ma, piuttosto, per emersione contrastiva da situazioni concrete che, all’improvviso, bucando il tessuto del previsto, ne accendano l’impensato. E valga il vero. Ronald Dworkin, in un passo del suo testo più noto, I diritti presi sul serio, ricorda: “Nel 1889 un tribunale di New York, nel famoso caso Riggs v. Palmer, doveva decidere se una persona, designata erede nel testamento di suo nonno, potesse ereditare in base a quel testamento, sebbene a tale scopo avesse assassinato il nonno. Il tribunale iniziava il suo ragionamento con questa ammissione: «E’ vero che le leggi che disciplinano la stesura, la prova, gli effetti dei testamenti e la trasmissione della proprietà, se interpretate alla lettera, e non potendosi in alcun modo o in alcuna circostanza attenuarne la forza e gli effetti, attribuiscono questa proprietà all’assassino». Ma il tribunale continuava osservando che «tutte le leggi, come tutti i contratti, possono essere attenuate nel loro operare e nei loro effetti dalle generali e fondamentali massime del common law. A nessuno sarà permesso di trarre profitto dalla propria frode, o di trarre vantaggio dal suo illecito, o di fondare una pretesa sul suo comportamento iniquo, o di acquisire una proprietà per mezzo di un delitto»”. E Dworkin conclude: “L’assassino non ottenne la sua proprietà 2 ”. A ben vedere, nella situazione prospettatasi ai giudici emergeva un fatto che appariva nuovo in quanto non previsto prima: risultava nominato erede dal testatore colui che l’aveva assassinato. Si trattava, a dire il vero, di un fatto che poteva essere percepito come ‘nuovo’ solo alla luce di una considerazione cruciale. Solo alla luce, cioè, della considerazione – da cui risultava difficile prescindere – che non fosse concepibile come prevista con favore dall’ordinamento una situazione in cui l’assassino potesse ereditare dall’assassinato. In realtà, in una situazione come questa si avvertiva, imperiosa, la rivolta della coscienza comune contro una qualsiasi interpretazione che vedesse in questo caso un qualsiasi caso di successione ereditaria, solo occasionalmente accompagnato dalla circostanza che l’erede era anche l’assassino del testatore. La coscienza comune si rivoltava, cioè, davanti all’ipotesi che il fatto accaduto potesse considerarsi non dissimile dagli altri casi di successione ereditaria, e quindi non nuovo. Ma una tale percezione di ‘novità’ non era, a ben vedere, la mera percezione di un ‘dato’, ma di un punto di vista. Infatti, l’identificazione di un tale fatto come ‘nuovo’ nasceva dalla percezione dell’ordinamento come lacunoso sul punto. E, d’altra parte, la percezione dell’ordinamento come lacunoso sul punto nasceva, a sua volta, dal bisogno ineludibile di assumere nella situazione data un’altra regola che, restringendo l’area semantica della regola positivamente normante, escludesse dalla successione ereditaria l’erede assassino sulla base del principio R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 91. 2
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che non si potesse succedere in questo caso, perché sarebbe stato violentemente iniquo il poter trarre profitto da un proprio delitto. Intendiamoci. Se si ragionasse, qui, invece, secondo il modello con cui Hans Kelsen giuridicamente ragiona, ossia secondo la concezione del più radicale giuspositivismo, in questo caso non ci troveremmo davanti a nessun fatto ‘dissimile’ o ‘nuovo’ o ‘non previsto’ – e, quindi, non ci troveremmo davanti a nessuna lacuna dell’ordinamento. Per Kelsen, infatti, l’ordinamento giuridico, nella sua positività, dovrebbe essere considerato, anche in una tale situazione, niente affatto lacunoso. Perché esso, non indicando esplicite eccezioni alla possibilità di ereditare, prevede in realtà, in questo caso, che il chiamato all’eredità possa succedere al testatore che l’abbia nominato a prescindere dal delitto da lui consumato, non avendo rilevanza alcuna, per l’ordinamento giuridico considerato (altrimenti l’avrebbe disposto), la circostanza per cui il chiamato all’eredità abbia ucciso il testatore. Per la concezione kelseniana, infatti, affermare, contra l’ordinamento positivo, che esso avrebbe dovuto prevedere un tal caso come dissimile dagli altri – da disciplinare, quindi, con una regola diversa – significherebbe semplicemente affermare che si desidererebbe che in questo caso l’ordinamento avesse disposto diversamente da come ha disposto. Il che vuol dire che la pretesa ‘lacuna’ contestata all’ordinamento giuridico positivo è, in questo caso, null’altro che l’avvertita discrepanza morale fra l’ordinamento giuridico esistente e l’ordinamento giuridico desiderato. Ma, come si sa, secondo il modello giuspositivistico, l’ordinamento giuridico desiderato non è diritto. L’idea di ‘lacuna’ quindi, in tali coordinate di pensiero, diventa null’altro che il travestimento ideologico del proprio desiderio di vedere, in quel punto della fattispecie, operare un diverso ordinamento – o un diverso suo segmento. Il problema del ‘principio’ nasce qui. Ci si domanda, a questo punto: l’idea che il significato della norma debba essere semanticamente ristretto secondo il principio per cui nessuno può trarre vantaggio dal proprio delitto, nasce da un mero desiderio di sottrarsi all’ordinamento giuridico – ossia, da una vaga aspirazione morale a uscire dalla sua cogenza tassativa – oppure nasce, invece, da un vincolante principio giuridico, enucleabile dallo stesso ordinamento o altrove? Precisiamo un primo punto. Oggi, a meno che non si voglia ragionare secondo il modello kelseniano, l’incompletezza strutturale dell’ordinamento giuridico – di ogni ordinamento giuridico – è stata oggetto di convincenti argomentazioni. Ci basti qui ricordare la serrata discussione svolta da Norberto Bobbio in Teoria dell’ordinamento giuridico, là dove egli individua le deficienze di quelle teorie – come quella dello ‘spazio giuridico pieno e vuoto’ e quella della ‘norma generale esclusiva’ – che intendevano dimostrare in modo rigoroso la completezza di ogni ordinamento giuridico. Né va dimenticata, in proposito, anche la teoria dell’incompletezza di Kurt Gödel, valida per ogni sistema teorico, e quindi anche per un sistema giuridico. Né va soprattutto trascurato 18
che un sistema di norme non può essere completo non solo perché non può prevedere, di fatto, la totalità dei casi possibili, ma anche e soprattutto perché, pur nello sforzo di prevederli, non può conoscere la totalità delle condizioni che sottostanno al suo sistema di previsione. Un ordinamento giuridico, quindi, è, contrariamente a ogni pretesa scientifica di completezza, sempre incompleto, per lo meno nel senso che ci sono situazioni ermeneutiche in cui, come osserva ancora Bobbio, non è possibile dimostrare se si debba applicare la ‘norma generale esclusiva’ o la ‘norma generale inclusiva’, le quali accompagnano ogni norma – essendo, fra l’altro, impossibile la presenza permanente di una metanorma che in via astratta e generale decida. Infatti, anche se è sempre pensabile la presenza di un criterio positivizzato con cui distinguere quando si debba applicare una ‘norma’ e quando un’altra, non è pensabile che, a una seconda potenza, esista sempre un criterio positivizzato con cui distinguere come interpretare quel criterio – ossia con quali criteri si debbano interpretare i criteri. Il risultato teorico è che resta, sempre, in un ordinamento giuridico, un varco ermeneutico ineludibile e indecidibile. E la lacuna, per Bobbio, è configurabile proprio in questa luce: come l’assenza di una norma che, applicandosi a norme, permanentemente predecida se debba – sul punto – applicarsi la ‘norma generale esclusiva’ o la ‘norma generale inclusiva’. Un tale fenomeno di indecidibilità interpretativa mostra come il linguaggio abbia una sua costitutiva ambiguità: donde una situazione ermeneutica in cui non è pensabile la presenza permanente di una norma che stabilisca, in generale e una volta per tutte, come sciogliere tale ambiguità (ove, infatti, una tale ‘metanorma’ esistesse, sarebbe pur sempre anch’essa da interpretare – in un indomabile e indominabile regresso all’infinito). Non a caso, Herbert Hart ha sostenuto che il diritto ha sempre una struttura aperta: ossia, costitutivamente esposta a più interpretazioni possibili, di cui mai è predecidibile in via astratta e generale la chiave ultimativa 3 . Tali osservazioni possono mettere in luce, in realtà, come sia proprio la concezione kelseniana a rivelarsi, su un tale punto, surrettiziamente ideologica, se e in quanto essa medesima muove dalla finzione, non confessata, che l’ordinamento giuridico esistente contenga già tutte le soluzioni per tutti i casi e che, in questa chiave, a quest’unico ordinamento occorra riferirsi per regolare tutte le situazioni possibili. O, ancora più precisamente, potrà dirsi che la concezione kelseniana della cosiddetta ‘dottrina pura’ sceglie – fra le tante possibili finzioni – la sua, occultando che è pur sempre una finzione. H. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991. 3
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12. Per uno statuto epistemologico della persona La situazione dei nostri tempi è certamente inquietante. Ma nella storia dei popoli è importante non solo cogliere la realtà massiva che inquieta, ma anche ciò che, pur debole, esprime, in punte alte e circoscritte, un progresso morale dell’umanità. Come già osservava Giuseppe Capograssi, la Dichiarazione Universale del 1948, rovesciando il rapporto fra sovranità e diritti individuali, costituiva un progresso morale cruciale anche se gli Stati firmatari fossero stati ad essa ipocritamente indotti dalla percezione di una pubblica opinione mondiale al cui giudizio si sentivano sottoposti. Si osservi. Ricorre sempre più, nelle Dichiarazioni, nelle Costituzioni e nelle Convenzioni, la ‘persona’. Che è, forse, oggi la nuova scoperta – scoperta d’antico! – del Jus. Come si è in più sedi sottolineato, la persona non è la semplice nozione dell’uomo in generale. Perché essa è, almeno in una prima approssimazione, l’uomo concreto, visto nella sua irriducibile singolarità. In quanto tale, l’idea di ‘persona’ non è sovrapponibile a quella di ‘individuo’. ‘Persona’ e ‘Individuo’, infatti, hanno significato uguale e senso diverso. Sia la persona sia l’individuo si riferiscono al singolo uomo concreto (uguale significato), ma, mentre nella percezione epistemologica dell’‘individuo’ non rileva la differenza di uno da un altro, nella persona la distinzione di ognuno da ogni altro è a fondamento del suo senso. Occorre partire, quindi, da una ‘dignità epistemologica’ della persona che concettualmente preceda la sua ‘dignità assiologica’. Come dare, in questo senso, le linee di uno statuto epistemologico della persona? Essa è coglibile all’incrocio fra tre coordinate, non separabili, pena lo snaturamento del loro senso: unicità, relazionalità, profondità. 1. La persona è unicità. Essa non è copia di un’altra. Non è seriale. Non è fungibile. E’ un novum. Un originale. Essa è necessaria a sé stessa: in lei ne va di lei e di tutta lei. Non s’individua col cognome, ma col nome. E, d’altra parte, dire ‘persona’ implica un paradosso logico, perché si dice, con una parola, ciò che non può dirsi con una parola; perché si dice, con la sua idea, ciò che non è suscettibile di idea; perché si dice, con la sua classificazione, ciò che non è classificabile. La persona è unicità. Di cui è segnale, in un evento non solo reale ma epistemologico, il dolore. 2. La persona è relazionalità. Essa è e manca d’essere. In quanto tale, è difettiva. Potrebbe, qui, richiamarsi Agostino, esplorando le sue riflessioni sul male metafisico. La persona, come dice Pietro Piovani, est in quanto deest. Essa, in quanto difettiva e cosciente di mancare, è relazione, bisognosa di relazione, capace di relazione. Difettiva e fragile, e oscuramente cosciente della sua condizione. Essa non ‘ha’ relazioni: ‘è’ relazione. Perché non è atomo irrelato. Né è pensabile al di fuori delle sue relazioni come realtà precedente le stesse, a 20
prescindere dai rapporti in cui vive, dai gruppi cui appartiene, dalla cultura in cui opera, dal tempo in cui è incardinata. La persona è cura. In me, ne va dell’altro; nell’altro, di me. Come la stessa scienza sperimentale mostra, un uomo muore non solo per mancanza di cibo, ma di relazioni. E, d’altra parte, la dimensione costitutiva della relazionalità si coglie non solo sul piano sincronico – nello spazio – ma, insieme, su quello diacronico – nel tempo. La persona, infatti, in una trama di simmetrie di cui nemmeno si avvede, cerca nel tempo tracce altrui e semina tracce di sé. Si fa fecondità di tracce (atti, opere, figli, ricordi, scritti, documenti d’arte, il proprio medesimo nome), verso la quale fecondità è comportamento simmetrico la spinta profonda a un’ermeneutica delle tracce altrui (atti, opere, figli, ricordi, scritti, documenti d’arte, i nomi altrui, tutta la frantumata archeologia che si dà). E’ la storia della civiltà. Di cui, nella sua tessitura profonda, è segnale la ‘pietà’. 3. La persona è profondità. La ‘profondità’ non è una condizione mistica, né la semplice ‘interiorità’, ma il complesso di possibili che nella persona vivono e che non potranno mai in toto darsi alla luce. Aristotele diceva che “quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura” 4 . Questa ‘natura’ non dice la persona. La quale, infatti, non è soltanto lo sviluppo e la storia in cui si è espressa. Non è solo ciò che è stata, ma tutto ciò che poteva essere e non fu. Essa è centro di possibili. Lo sviluppo dice l’essere del genus che nella persona si dà, non la persona. Se ne desume una profondità a più livelli: 1. una profondità di livello primo, che è la storicità in quanto sviluppo nel tempo; 2. una profondità di livello secondo per la quale la persona è più di ciò che appare; 3. una profondità di livello terzo, che è il mondo dei possibili, cui appartiene, insieme con l’emerso, tutto ciò che non ebbe il tempo o le condizioni per darsi alla luce: in ogni uomo, infatti, quiescono tanti percorsi possibili – tanti ‘io’ possibili – su cui non c’è possibile sguardo esaustivo; 4. una profondità di livello quarto, per cui quel ‘centro di possibili’ si dà non come catena di cause, ma come un’istanza di fondo abitata da una domanda di senso. Un tale ‘possibile’ è, nell’orizzonte della persona, dimensione costitutiva del suo essere ciò che è. E, quindi, un infinito. Un infinito di potenza non qualsiasi ma determinata: un transfinito. Si tratta di una ‘profondità’ che, vista ex post, è ‘possibilità’ (come resistenza alla totalizzazione concettuale), e, vista ex ante, ‘libertà’. Perché la libertà è la profondità al grado avvenire. Il cui essere è il possibile: un posse – non solo dynamis ma enérgheia in cammino – da cui emerge un’istanza profonda, radicalmente irriducibile alla catena meccanica delle cause da cui pur fluisce: l’interrogazione del senso. La persona – infinito possibile abitato da un’istanza di senso – è un abisso ontologico. Abisso – Ab‐Grund – il cui fondamento – il cui Grund, – è nella relazione con gli altri, divisi eppure indivisibili da lui. Grund dal quale la sua Aristotele, Politica, 1252 b, 30. 4
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possibile forza acquista sponda, limite, specchio, provocazione al risveglio, messa in forma, possibile luce. La persona, abisso ontologico, è più di quello che appare. E, in quanto tale, pudore. Che è il sentimento dei confini e il timore complesso a non varcarli e a non farli varcare. Perché si teme che, da un lato, si scrutino i propri punti di fragilità e, dall’altro, si riduca l’oggetto scrutato a un repertorio di dati, a una pura catena di cause, senza domanda di senso e senza libertà. Chi oggettiva e banalizza l’altro, infatti, tende a ridurlo a una copia. A una riproducibile copia. Rispetto a ogni atteggiamento che ci riduca a copia, la resistenza indomabile – ontologica resistenza, ben prima che psicologica – è il ‘pudore’. Di cui si rivelano espressioni fenomenologiche forti il rispetto dei vivi, la venerazione dei morti, il timor sacro di punizioni, l’idea di un Dio Provvidente, la percezione di un Senso che erompa da una catena di cause di cui appare paradossale la causa. In questo senso, la persona è più di ogni preteso giudizio definitivo su essa, perché la sua profondità si pone oltre ogni definitività. Con tutto ciò che, in termini etici e giuridici, consegue. Se la pietà dice la relazione e il pudore la profondità, può cogliersi, qui, un nesso profondo fra esse. Si delinea infatti, alla scala della persona, un rapporto fra relatio e revelatio 5 . La persona, cioè, nella sua differenza, è costitutiva apertura, orizzontale e verticale. In essa, la ratio è relatio e revelatio. Là dove si tratta di cogliere, in termini filosofici e non soltanto teologici, il senso dell’agostiniano ‘Dio mi è più intimo della mia intimità’. Sentiero sul quale ci si può avviare anche a partire da prospettive molto diverse: da una riflessione filosofico‐psicologica come quella di Ignacio Matte Blanco e da una riflessione biofilosofica come quella di Antonio Damasio. Émile Benveniste sottolinea il nesso coglibile – nella costellazione semantica dell’‘aidòs’ greco (il ‘pudore’) – fra ‘pudore’ e ‘onore’. Se il pudore, infatti, spinge al profondo rispettare, l’onore sollecita, soprattutto, al profondo agire. E il ‘pudore‐onore’ si rivela, in un tale contesto, centro di radicamento della dignità. La quale è una ‘majestas’. Di carattere onto‐epistemologico ben prima che assiologico. Fatta di prerogative e di vincoli. Di attrazione e di rispetto. Di diritti e doveri originari. Costituendo fine in sé. Nel significato complesso del poter porsi come fine e del non poter sottrarsi alla propria forza di fine. In questo senso, la dignità è una ‘maiestas’ in cui si rivela una traccia del sacro. Còlto nei limiti della ragione. Il ‘sacro’, infatti, assunto nella sua origine dal ‘numinoso’, nasconde una forza assoluta che è fonte primordiale di ammirazione e terrore. E che, come tale, comanda e vieta, assolutamente domina, lega. A pena della vita. In quanto comanda e vieta, è fonte di diritti e doveri; in quanto domina, fonte di soggezione e rispetto; in quanto lega, fonte di una condivisione essenziale a cui è impossibile sfuggire. Sul doppio livello della ‘revelatio’ ha insistito più volte il teologo Bruno Forte. Per altri versi, si veda V. Vitello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano, 2004. 5
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In questa dignità vive il valore cruciale che Giambattista Vico, nel De Uno, chiama, in opposizione a Hobbes, l’Homo homini deus. In cui, non a caso, si dànno i valori dell’unicità, del pudore e della pietà: dell’unicità, della profondità e del legame. Una frase scherzosa dice che in ogni grasso c’è un magro che fa sforzi immani per essere riconosciuto. Espunto ogni possibile scherzo da una tale espressione, potremmo trarne l’immagine per capire come in ogni corpo (corpo intelligente complesso, ‘pensoso’) ci sia una persona che cerca di essere riconosciuta. Marc Augé ha scritto che un uomo concreto si delinea all’interno di un’appartenenza biologica, di un’appartenenza culturale e di un’appartenenza storica 6 . Ma un tale uomo è ancora un seriale individuo: esso non intercetta quell’unità di senso che è la ‘persona’. Che è – all’interno di più appartenenze – un atto di esistere unico, relazionato, profondo. Non confondibile col fondo comune da cui pur emerge. Si badi. Nel paradigma epistemologico della persona è riconoscibile, in qualche misura, uno statuto assiologico 7 . A ben guardare, tre atti negano la persona, violandone nichilisticamente le coordinate. a. “Tu per me non sei che una copia, un ente seriale”. Perché – per me – in te non c’è traccia di te, e in un tale non esservi traccia, ne va di te. b. “Io non ho per te nessun interesse, perché per me sei un assente”. In me di te non c’è traccia, né ci sarà. Io non ho alcuna cura di te. Esattamente nei termini radicali in cui Kolja Krasotkin si rivolge al compagno Kartasëv nei Fratelli Karamazov, durante il funerale del piccolo Iliuscia, quando gli intima di tacere, dal momento che “nessuno parla con voi, e non desidera neppur sapere se ci siate o no al mondo” 8 . E’ il massimo attacco d’indifferenza sferrato da chi non vuol sapere nulla dell’altro: da quel Kolja che pur, poco prima, dichiarava ad Alioscia di invidiare chi può morire, come martire ignoto e innocente, per l’intera umanità. Qui, la contraddizione fra un’umanità come mera nozione generale e una persona in carne e ossa è lampante: chi si dichiara disposto a morire eroicamente e oscuramente per l’umanità, non è disposto a sopportare la presenza di una sola persona! c. “Io di te mi sono appropriato, conoscitivamente e praticamente”. E non solo vietandoti comportamenti, ma favorendoli e potenziandoli, e soprattutto impossessandomi di te. Quali, invece, gli atteggiamenti che negano queste negazioni? Diremmo che sono il riconoscimento dell’altro, la compassione per l’altro e il pudore. Là dove il riconoscimento dell’altro avviene non per intersezione concettuale di dati Marc Augé, L’uomo trino e uno, in “Micromega”, n. 4/ 2005, pp. 103 ss. Né ciò significa ‘fallacia naturalistica’: sul punto, Giuseppe Limome, Il sacro come la contraddizione rubata, Jovene, Napoli, 2000, pp. 31 ss. 8 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino, 1993, p. 1013. 6
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(‘calcolo logico’), ma per intuizione: quella che coglie, dell’altro, l’irriducibile simplicitas. Si badi. Una ‘persona’, pur unica, non è mai pensabile elidendo gli spazi intermedi che la legano alla famiglia, ai gruppi, alle patrie, alle culture di appartenenza. Una persona non può essere pensata se non nella sua rete di relazioni. Davanti all’alternativa fra individuo e rete di relazioni ci mettono, invece, soprattutto negli Stati Uniti, le teorie ‘liberali’ e quelle ‘comunitarie’. L’idea di ‘persona’ è, in un tale contesto dilemmatico, la strada che ne rompe la struttura, dissolvendone i termini. Perché questa ‘persona’ è la singolarità concreta che, stando in tutti i gruppi in cui è radicata, è indissolvibile in essi. Ciò che caratterizza questa ‘persona’ è non l’uguaglianza, ma la differenza. Dal cui luogo essa invoca la sua dignità – ossia il suo diritto a una considerazione universale, corrosiva di ogni ‘universale’ formulato troppo presto. 13. L’irriducibile e la radice Se interroghiamo la persona come unicità, essa è, in un tale orizzonte, irriducibile. In tre sensi specifici, esprimenti un livello verticale e un livello orizzontale: nel senso che una persona non è riducibile a un’altra (altrimenti sarebbe un complesso seriale: una copia); nel senso che essa non è riducibile in parti che epistemologicamente la precedano; e nel senso che non è riducibile a una Totalità che epistemologicamente l’assorba. In questo senso, la persona sta fra indivisibilità (in parti), indissolvibilità (nel Tutto) e infungibilità (con altre persone). In quanto indivisibile – o, più specificamente, in quanto divisibile solo per sé stessa e per l’unità – la persona, come altrove dicevamo, ha lo statuto teorico di un numero primo. Essa sta alle pretese sue parti come sta alla Totalità. Se chiamiamo ‘p’ le parti, ‘P’ la persona e ‘T’ la Totalità, abbiamo: p: P = P: T La persona, quindi, è il medio proporzionale fra le parti e la Totalità. Posto che il medio proporzionale fra estremi è la loro comune radice, la persona è, fra l’universo atomistico e l’universo totale, la loro comune radice. Una tale ‘irriducibilità’ acquista ulteriori significati, se la si interroga non solo sull’asse dell’unicità, ma, al tempo stesso, su quello della profondità e della relazione. La persona, infatti, è irriducibile a ciò che ci appare e a una qualsiasi totalizzazione concettuale; così come è irriducibile alle sue relazioni sociali e al suo mondo storico. Pertanto, essa non si riduce né a una componentistica 24
biologica, né fenomenica, né relazionale, né culturale, né storica, né concettuale. Essa è – tout court – l’irriducibile. E, in quanto tale, non semplice individuo o membro di una classe, ma un mondo. Un universo. E il mondo, il suo multiverso. 14. Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo Nella temperie d’oggi è forse possibile rivisitare e reimpostare alcune categorie venerabili consegnateci dalla tradizione. Parleremmo, qui, innanzitutto ma non soltanto, di “giusnaturalismo” e di “giuspositivismo”. Veniamo al “giusnaturalismo”. E’ fin troppo noto che questo termine è equivoco, perché – in quanto allude a un supposto “diritto di natura”, ove si accetti che una “natura” esista e che abbia un suo “diritto” (un suo principio strutturale) – il ‘giusnaturalismo’ può riferirsi a un diritto strutturato sia nel cosmo, sia negli esseri animati, sia negli esseri razionali. Quale sia un tale principio, a questo punto, è domanda possibile e necessaria: che potrà avere, nell’universo giusnaturalistico, risposte diverse. Non a caso, il ventaglio potrà andare da un puro “diritto della forza” (e si sa quanto i sofisti – e non solo essi – abbiano insistito su questo punto) a un “diritto degl’istinti”, a un “diritto dei sentimenti”, fino a un “diritto della ragione”. E’ noto quanto il cosiddetto “giusnaturalismo moderno” si sia fondato su quest’ultima opzione (il diritto naturale come diritto della ragione, con particolare riguardo alla ragione soggettiva), fino al punto da essere chiamato, più correttamente e inequivocamente, “giusrazionalismo”. Veniamo al “giuspositivismo”. E’ altrettanto noto che anche un tale termine si pone, a rigore, come equivoco, perché – in quanto allude a un “diritto positivo (posto con forza effettiva da una Potestà) – può riferirsi sia al mero insieme di comandi del sovrano sia a un ordinamento normativo formalmente e linguisticamente ricostruito dalla scienza giuridica attraverso un procedimento permanente di elucidazione. Siamo perfettamente consapevoli che le categorie qui presentate appartengono a un universo problematico nel quale concorrono molte altre possibili istanze dottrinali. Basti pensare, soltanto, al “diritto libero”, all’ermeneutica, al “realismo giuridico” (nelle sue molteplici varianti), alle forme di un giuspositivismo atipico essenzialmente fondato su “princípi” (Ronald Dworkin), e ad altre ancora. Pur nella consapevolezza della complessità del dibattito, vorremmo richiamare l’attenzione su un punto. Guardando al giuspositivismo, se assumiamo come termine di riferimento maturo quello kelseniano, ci si può domandare: che cos’è mai lo Stato, ossia l’ordinamento giuridico che nelle sue forme lo consuma? E’ Kelsen stesso che, come è noto, fin dagl’inizi del suo percorso intellettuale, risponde: lo Stato, e il diritto in cui esso si esprime, è 25
l’organizzazione della forza (Macht). Più tardi, Kelsen stesso sarà ancora più disincantato e preciso: lo Stato, e il diritto in cui esso si esprime, è l’organizzazione della violenza (Gewalt). Ci si domanda: se il diritto è l’organizzazione della forza, una tale concezione non appare affatto lontana da quella di chi ha sostenuto un giusnaturalismo della forza. Certo, si tratta di un giusnaturalismo puntualmente specificato, in quanto attribuisce una preferenza simbolica a quella forza organizzata che è lo Stato: ma, ciò precisato, l’iscrizione del giuspositivismo in un “giusnaturalismo della forza” non può essere negato. Certamente, nella decostruzione del testo kelseniano vanno tenuti in conto essenziale altri fattori: l’idea razionale di ordine, l’idea formale di linguaggio, l’idea linguistica di proposizione normativa, l’idea epistemologica di scienza moderna. In questo senso, il diritto è concepito come l’organizzazione di una forza che si esprime in un ordine logico‐linguistico di cui è, al tempo stesso, a livelli diversi di intervento strutturale, co‐generatrice e ricostruttrice la ragione scientifica – ossia la scienza giuridica. Questo è certamente vero, ma non inficia la considerazione fondamentale: spogliato di ogni orpello, il giuspositivismo è un giusnaturalismo della forza: della forza statuale in quanto effettiva, riflessa ed elucidata nelle forme di un ordine logico‐linguistico co‐generato e ricostruito dalla ragione della scienza nelle forme della modernità. Non a caso, come si sa, il giuspositivismo è nato, per una paradossale eterogenesi dei fini, dalla positivizzazione statuale del giusrazionalismo in epoca post‐illuminista. Ma il diritto pensato dai giuspositivisti oggi è messo sempre più in crisi da due processi diversi e convergenti: da un lato, il crescere di fenomeni di globalizzazione e di aggregazioni soprastatuali che fanno decrescere la forza dello Stato, anche dal punto di vista strettamente ordinamentale. Dall’altro, il crescere di una sensibilità, culturale e teorica, verso quei diritti che non sono diritti qualsiasi, giuspositivisticamente e giustatualisticamente fondati, ma diritti più forti, a valenza (statuale e/o suprastatuale) costituzionale. In realtà, il processo in atto, più che determinare ex novo un fenomeno, semplicemente rende visibile ciò che nei tempi precedenti, pur invisibile, continuava giuridicamente a sussistere: ossia l’esistenza – di cui dicevamo – di un diritto come attività della società nel suo complesso, mirante a un ordine garantito. In questo senso, i processi indicati fanno solo riapparire alla luce ciò che già c’è. Non producono, ma rivelano. Si noti. Non c’è diritto che non sia riconosciuto e fatto vivere – attraverso soggetti a ciò deputati – nel suo evolversi. Ma è fondamentale sottolineare che dietro e sotto il fatto dell’evolversi del diritto vive – talpa celata ma indisconoscibile – un principio non visto: quello della necessità di rimodellare continuamente l’identificazione del diritto che la società si dà; così come è fondamentale sottolineare che dietro e sotto il fatto dell’evolversi del diritto 26
vivono, proprio a partire da un tale principio, i sempre nuovi princípi – consapevoli o inconsapevoli – con cui si rimodellano interpretazioni e applicazioni. Se a monte del diritto c’è il suo riconoscimento (Herbert Hart), a monte del suo riconoscimento c’è l’attività regolatrice di una società che attraverso adeguati soggetti origina e mette in circolo princípi di identificazione – fra i quali, a un livello primo, di fondo, il principio del dover continuamente rimodellare individuazione e interpretazioni del diritto e, a un livello secondo, i principi più specifici attraverso cui rimodellare l’una e le altre. Una più matura consapevolezza dei processi globali in atto, insieme con la nuova sensibilità teorica per i diritti fondamentali, spinge ad andare oltre le tante – pur raffinate – concezioni del diritto: per passare dalla filosofia del diritto alla filosofia dei diritti e dalla filosofia dei diritti alla filosofia della dignità. Dignità che è, in senso etico e giuridico, il fondamento del diritto ai diritti. E del diritto ai doveri. La cultura che oggi s’impone, infatti, all’attenzione come risposta alta alle sfide della globalizzazione è una cultura non dei diritti tout court, ma dei diritti fondamentali, ossia di quei diritti che prevalgono sulle stesse leggi. Diritti la cui sostanza etica e giuridica celata è la dignità di ogni essere umano, assunto nella sua concretezza e nella sua differenza da ogni altro. Dignità che è pertinente al singolare, non a un genus o una species. E che è da intendere non solo al grado passivo, come mera aspettazione di soccorsi, ma al grado attivo, come promozione di identità relazionate e di possibilità. Su questi diritti fondamentali oggi esistono molte Carte internazionali – Carte che non riguardano solo il mondo occidentale ma anche quello islamico, orientale, africano. Si tratta di Carte differenti che, seppur in lessico giuridico, sono un diversificato commentario al problema della dignità. Il cui fondamento, prima e più che nella potestas degli Stati, è, per impiegare un modello caro ai Romani, nell’auctoritas di un Jus degno di riconoscimento e di ossequio. È giunto, forse, il tempo in cui mettere in discussione la necessità giustificativa della sola “ragione”. Assumendo come criterio strutturale un principio altro, non necessariamente sostitutivo ma, almeno, qualificativo: la “persona”. Si tratta di ripartire, cioè, da un’ontologia del singolare che rimetta in questione la ragione. A differenza di questa, infatti, la persona non prescinde dal singolare, dal corpo, dal vissuto, dalla fragilità, dalla condizione mortale, dalla narratività, dall’universalità iscritta nel singolare. Il giusnaturalismo moderno è raccolto nell’idea di una ragione che scopre nella ragione dell’uomo il suo diritto naturale: di valore universale, di natura razionale. Si tratta di una ragione come principio cognitivo che scava in una ragione come principio ontologico, còlto alla scala dell’uomo. Di una ragione sempre più criticata e pluralizzata dal pensiero contemporaneo 9 . Sul punto, l’ormai classico Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Liguori, Napoli, 9
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Occorre un mutamento di prospettiva che tocchi tutti e due i livelli del percorso individuato (quello ontologico e quello cognitivo): identificando un principio personale (una ‘ragione personale’) come principio cognitivo che scavi in ogni differente persona il principio ontologico della sua singolarità. Intendendo quest’ultima come atto di esistere unico, relazionato, profondo. Sono maturi, cioè, i tempi per passare dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Attraverso un giudizio riflettente, impiegato in forma nuova, in cui muovere dal singolare per cercare un universale mai concluso. L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è la persona. Essa non è l’essere umano in generale, ma l’uomo concreto e la sua idea. Frutto di uno sguardo empirico e di un giudizio riflettente. Là dove si coglie radicata un’idea – a grado singolare – con valenza universale, così come Kant la coglieva nell’opera d’arte. Questa persona è, in quanto tale “bene comune”. Si tratta di realizzare – qui – una vera rivoluzione nel concetto di bene comune. Non solo in senso etico, ma epistemologico. Perché si postula che anche il singolarissimo, proprio di una persona, sia però, in quanto degno di considerazione universale, “bene comune”. Donde l’imperativo che nessuna maggioranza, per quanto ampia, possa mai lederne la consistenza. Si tratta di compiere, in nome della persona, oltre Kant, una rivoluzione copernicana al quadrato che non ribalti la prima rivoluzione ma la radicalizzi. Se è vero, infatti, che la civiltà umanista – e, a suo modo, quella kantiana – aveva posto al centro la soggettività umana, la “rivoluzione copernicana al quadrato” di cui parliamo è quella che porrà, se ne avrà intellettualmente la forza, al centro della soggettività umana il suo vero centro – centro di centro – ossia l’uomo concreto, distinto da ogni altro e guardato come irrimediabile e intotalizzabile novum: la persona. Occorre criticamente riflettere a fondo sulla scelta – che alcuni teorici fanno – del corpo come del luogo più accomunante e comune. Se è vero, infatti, che il corpo ci accomuna, è proprio questo medesimo corpo che ci singolarizza e ci divide. Il mio dolore corporeo non è il tuo, anche se fossimo accomunati dal massimo di solidarietà viscerale. Eppure, è proprio qui lo scavo teorico da compiere: al massimo livello di profondità. Bisogna riuscire a pensare il “comune” non solo al primo livello – al piano di quel ‘comune’ che prescinde dalle singolarità in esso radicate –, ma, a un secondo e a un terzo livello, al piano, più radicale, in cui è quello stesso comune ad avere il volto del ‘singolare’ ed è quello stesso singolare a costituire il ‘comune’. Perché il tuo dolore, che è tuo, è comune. E perché ogni ‘comune’ ha un rivelarsi al singolare. Così come il tuo corpo, che è tuo, è comune pur restando tuo. Il che sarà vero anche per il ‘corpo vivente’ nel suo significato più complesso, che dice tutto ciò che sei e non una tua semplice parte. Bisogna, cioè, teoreticamente guadagnare il livello in cui è lo stesso ‘comune’ a essere il ‘singolare’ perché è lo stesso singolare a essere comune – e in una prospettiva in cui mai il ‘comune’ annichilisca il ‘singolare’, 2000. 28
perché quest’ultimo resta, per il giudizio riflettente che vi si ràdica e ne muove, il suo ‘universale concreto’, il suo ‘comune’ – ossia il comune del ‘singolare’ come singolare nel luogo comune. In questo orizzonte, la singolarità, restando singolarità, perché e in quanto personale, è bene comune. L’idea contemporanea dei diritti fondamentali custodisce, a nostro avviso, nell’era della globalizzazione, questo straordinario strato filosofico, a sua insaputa. Essa, infatti, istituisce l’orizzonte di un “tuo” che, restando tuo, è bene comune. E che, in quanto tale, costituisce argine invalicabile nei confronti di qualsiasi maggioranza, comunque qualificata, che ritenga di poter disattenderne la consistenza. In questo senso, l’enucleazione di diritti fondamentali della persona è un commentario – in un catalogo mai chiuso – all’idea stessa del “bene comune”. È qui il nucleo teorico di un “giuspersonalismo” speculativo che lavora attraverso il giudizio riflettente come categoria speculativamente militante. Senza dimenticare che solo all’interno di un’etica della relazione – in quanto tale, aperta – può intercettarsi la persona come bene comune. Perché la tua libertà, i tuoi diritti e la tua differenza sono parti costitutive e fondanti del bene comune, in quanto parti costitutive e fondanti di noi tutti e di me. 15. Per una lettura a strati Dicevamo che i princípi stanno fra i valori e le norme. E che tutte e tre le figure – valori, princípi e norme – vivono insieme confuse nella società umana che si regola in un ordine. Se, proseguendo sulle orme della civiltà romana e di Vico, il Jus è lo strato delle ragioni giuridiche storicamente sedimentate nel vissuto di una società e la Lex l’eventuale precetto statuale della Potestà che le circostanzia e le completa, è qui teoreticamente introducibile un ulteriore strato di analisi: lo strato dei bisogni antropologici primordiali che permanentemente soggiace sia al ‘Jus’ sia alla ‘Lex’. I quali, pur a contenuto storico variabile, si manifestano in una storicità che si rivela null’altro che la forma variabile della necessità di storificarsi. Ci troviamo, quindi, di fronte a tre strati: esprimenti, nella loro struttura antropologica cogente, l’archeologia di un’esperienza giuridica universale. Se ricostruiamo ora il percorso del diritto dalle norme ai princípi ai valori, possiamo scoprire che in un tale cammino a ritroso, procedendo dalle ragioni delle parti (‘norme’) alle ragioni dell’intero (‘princípi’ e ‘valori’), noi riconosciamo l’architettura a strati di un Jus risalendo – lungo i ‘principi generali dell’ordinamento giuridico’, i ‘principi del diritto’, gli orientamenti di principio al diritto e i valori – fino alle fonti di legittimazione dell’ordine sociale, 29
alla sua giustificazione valoriale e al suo ordine di necessità. Fino al principio dell’equità come costitutivo del diritto 10 . Fino ai principi vichiani dell’umanità (come reciproco soccorrersi fra gli uomini) e del pudore (come messa in forma e in confini della libertà). Fino al principio, ove siano i tempi maturi, per cui il diritto di esistere è il fondamento dell’esistere del diritto. 16. Per un nuovo paradigma della ragione Crediamo siano maturi oggi i tempi per una nuova concezione epistemologica della ragione. Per una ragione che, apprendendo dalle coordinate della persona (unicità, relazionalità, profondità) assuma dalla relazione una sua ineludibile fonte intersoggettiva (nella persona, la ‘ratio’ è ‘relatio’) e dalla forza positiva dei sentimenti la fonte del senso (nella persona, la ‘ratio’ è ‘revelatio’). Si tratta di aprire a una ragione che sappia definirsi secondo un modello non già teoreticamente concluso, ma in cammino, a partire dalla propria singolare e storica diversità e, insieme, dal pudore e dalla pietà. Il pudore, infatti, non è solo un bisogno ineludibile. Esso è anche, per un pensiero speculativo che con esso si confronti, una sfida teoretica: la domanda – rivolta al potere, alla conoscenza e alle categorie della scienza – sul se io possa essere inteso come esaurito dallo sguardo che – in modi anche sofisticati – mi vede dall’esterno. Sul se io possa essere fatto coincidere col repertorio dei dati che il potere e la scienza possono conseguire di me. Un tale ‘pudore’ non può non essere profondamente connesso alla ‘pietà’. E con la speranza che il varco ad essi non sia mai chiuso. Parliamo del pudore come limite e misura di civiltà. Perché sostanza soggiacente a ogni ‘rispetto’ e argine verso ogni ‘ragione’. E parliamo della pietà come senso del legame nella condivisione, dei sentimenti (‘compassione’) e della fragilità (‘sunt lacrimae rerum et pecora mortalia tangunt’). Il pudore e la pietà, infatti, sono sentimenti di confine. Custodi di un allarme e di una soglia. Che vale in due forme, doppiamente simmetriche: nel soccorrere e nel rispettare; nel non varcare e nel non far varcare. Soglia la cui complessa struttura, in termini di ‘diritti’ e ‘doveri’, individua la ‘dignità’. Soglia la cui persistente negazione segna la catastrofe di una civiltà. Da quando la modernità – nel suo lavoro di rifondazione analitica che tutto ha consumato di sé, compreso il suo fondamento – si è trovata a rendere conto a sé stessa del senso della sua rifondazione, la sua eredità teorica, di cui tanto bene dà conto la storia del Novecento, si è paradossalmente rovesciata. G. B. Vico, De uno universi iuris principio et fine uno, in ID., Opere giuridiche. Il Diritto universale, introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze, 1974. Vedi anche G. M. Chiodi, Equità. La categoria regolativa del diritto, Guida, Napoli, 1991. 10
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Non riesce ad apparire più vero, infatti, che porsi il problema del senso sia un problema senza senso, perché, al contrario, appare senza senso proprio il porsi problemi di verità a prescindere dal senso. Come in una nemesi storica, noi assistiamo forse, oggi, a una vendetta consumata da un particolare fatto sui fatti: da quel fatto che, pur negato, sempre irresistibilmente risorge e che è il bisogno di senso. Se nel mondo contemporaneo è certamente un fatto l’urgere del desiderio, tra questi fatti, anche se non riducibile ad essi, è il desiderio di senso. Se è vero che, come Ludwig Wittgenstein insegna, l’immortalità della vita non risolverebbe il problema della vita 11 , è anche vero che l’onnipotenza della ragione non risolverebbe il problema della ragione. Perché, come già in altrove scrivemmo, “la ragione può, certo, sostenere che domandare il senso è problema privo di senso, ma non può – nemmeno invocando Wittgenstein e la settima proposizione del Tractatus – sottrarsi all’ulteriore obiezione: come negare senso al fatto del continuo bisogno di senso e come riconoscere senso, intanto, a una ragione che questo fatto neghi?”. Ne nascono paradossi cruciali. A. La ragione, divenuta potenza tecnologica, non asciuga, ma alimenta, i suoi bisogni di fondamento e di senso. B. Più la ragione scientifica diventa ricca di dominio, più diventa difettiva di certezze. L’idea ischemica che la ragione rappresenta di sé, si rivela una para‐noia della ragione – ossia un proprio raddoppiamento mimetico consumato in una invisibile prigione. Si dà una paranoia della ragione proprio là dove occorrerebbe una sua metà‐noia 12 , che riesca a farla scoprire virtuosamente s‐
fondata. Sfondata in tre punti che costitutivamente le sfuggono, consegnandola alla radicale sua difettività: a. in senso orizzontale (l’apertura costitutiva alla relazione con l’altro); b. in senso verticale (l’apertura costitutiva a un profondo possibile, mai concettualmente consumabile, cui non disappartiene il mondo delle emozioni, dell’inconscio, della non computerizzabile vita); c. in senso riflessivo (l’apertura costitutiva alla propria difettiva e itinerante novità). Simile al tiranno di platonica memoria, che tutto può sugli altri e nulla su sé, la ragione contemporanea tutto può dire su quanto essa fonda, nulla dei suoi fondamenti. Tale esito ha, a nostro avviso, profondamente da fare con la rivoluzione che nascostamente si annuncia, oggi, per linee invisibili, nei rapporti confinari fra tecnologia, scienza, filosofia, religione, arte e poesia. Si tratta, in realtà, di pensare a una ragione che si ponga, da un lato, come relazione e, dall’altro, come apertura alla profondità e al senso. Come apertura alla compassione e al pudore. Là dove la ragione rifiuta la propria autotrasparenza fondativa, la propria autoriflessione esclusiva e la propria onniscienza inclusiva. Scoprendosi felicemente s‐fondata. Sia in senso orizzontale (il rapporto con l’altro), sia in senso verticale (il rapporto col possibile e col Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico‐philosophicus, a cura di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1964, proposizione 6.4312, p. 80. 12 Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma‐Bari, 2005, p. 123 e passim. 11
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senso), sia in senso riflessivo (il rapporto col sé). Una tale ragione, in quanto tende alle coordinate della persona, costituisce la persona come principio epistemologico indagante atto a cogliere la persona come principio ontologico indagato. 17. La scienza giuridica come conoscenza del mondo civile e la filosofia del diritto come diritto alla filosofia All’emersione di una ragione epistemologica nuova apre varchi possibili la stessa stagione contemporanea. Siamo, oggi, infatti, davanti a una nuova frontiera di paradossi, che possono risultare, al tempo stesso, esiziali e virtuosi. Perché viviamo in tempi in cui, per l’esponenziale progresso tecnico‐scientifico, si dànno situazioni nuovissime e decisive: a. E’ sempre più grande la capacità della tecnoscienza di generare effetti straordinari e di lunga durata ed è sempre più piccola la capacità della stessa di prevedere, calcolare e invertire tanta parte di questi effetti (evento della complessità come paradosso della inversione delle quantità cognitive); b. un numero sempre più piccolo di uomini può determinare un effetto sempre più devastante nella vita di tutti gli altri (paradosso della inversione delle quantità sociali); c. in angoli sempre più circoscritti del mondo (si pensi ai possibili effetti combinati dei processi di miniaturizzazione, di nanotecnologizzazione e di indeterminazione) possono generarsi eventi sempre più devastanti nella vita di aree sempre più grandi (paradosso della inversione delle quantità spaziali). Tutto ciò apre a una falda di princípi cui, forse, non si era pensato. Donde il varco a un’onto‐epistemologia del singolare, vista nella sua capacità di farsi universale, rendendo provvisoria ogni formulazione di universale già conclusa. Dicevamo che non c’è possibile ordine sintattico del diritto senza un minimo di ordine semantico condiviso e che non c’è possibile ordine semantico del diritto senza un minimo di ordine giusto, ossia di risposta a una domanda forte di giustizia. Si può proseguire dicendo che non c’è possibile ordine giusto che non risponda alla domanda di una persona – di ogni persona – nel suo essere atto di esistenza unico, relazionato, profondo, il cui nucleo sia la dignità e il cui centro di radicamento sia in quella singolarità che si autocertifica, senza possibile dubbio, nel dolore. Perché il dolore è l’evento che m’incrocia e m’interroga nella mia insostituibile singolarità. Là dove non posso dubitare che sono io a soffrire e non tu, né un pensiero universale in me. Il dolore, infatti, fa gravitare me su me stesso e qui. Attestando la mia singolarità e il mio presente. Aprendo alla rottura della mia unità inconscia incantata. E schiudendo alla possibile attesa di un senso. Se il dolore è l’atto della singolarità irriducibile, una ragione degna di questo nome non può essere insensibile al dolore di una persona – anche e a 32
maggior ragione se è muto. E non può non tradurre una tale opzione in etica e, per quanto possibile, in diritto. Implicando in tal gesto un riferimento alla compassione e al pudore. Ovvero, alla relazione e alla profondità. I tre coni di cui dicevamo, rappresentativi di rapporti epistemologici figurati fra mondi noetici (ordine sintattico, ordine semantico, ordine giusto), richiamano qui, a ben vedere, nel loro percorso ascendente, una quarta figura. Almeno a un certo livello della civiltà giuridica, infatti, non c’è possibile ordine giusto senza un minimo di ordine buono. Ciò, in un significato del ‘bene’ che non si limiti a differenziarsi dal ‘giusto’ trasformando le prescrizioni universali negative (‘Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te’) in prescrizioni universali positive (‘Fa agli altri ciò che vuoi sia fatto a te’), come invece in Thomasius, ma che esprima quel valore – fine in sé – che, al proprio sommo, rompe ogni ragione simmetrica, facendo della dissimmetria la sua regola, con una promotrice e misericorde gratuità. Ma un tale ‘bene’ significa, in realtà, il passaggio dall’ordine giusto all’ordine buono. Di cui punto essenziale è l’ordine di un fine in sé, la persona. La quale sempre eccede l’ordine del diritto. Anche se, a un certo livello di civiltà, può cominciare a far gravitare quest’ordine verso di sé. Nei limiti della sostenibilità. Il che accade nella misura in cui dell’attività sociale autoregolatrice – che è diritto – entri a far parte, in modo esteso e profondo, il principio paradossale della persona, ossia delle persone. Pur eccedendo radicalmente il diritto, la ‘persona’ ha precise incidenze sullo stesso: 1. Costituendo, nei confronti di ogni Diritto, criterio di fondazione e test permanente di falsificazione. 2. Destrutturando l’architettonica del rapporto fra ‘pubblico’ e ‘privato’. 3. Demistificando il criterio dell’astrattezza e generalità come forma di giustizia. 4. Spingendo a decostruire la ‘giustizia’ in termini di ‘persone’. 5. Costituendo un riferimento, più che alla potestas, a un fondamento antico, l’auctoritas, intesa come forza valoriale matrice di rispetto, indipendente dal potere e dalla negoziazione di consensi. Dicevamo che la scienza calcola, la filosofia pensa. Possiamo anche dire: la tecnologia calcola, la persona pensa. Esistono, così, una scienza del diritto e una tecnologia del diritto che calcolano, come esistono una filosofia e una persona che pensano. Ciò non significa istituire ostilità strutturali fra istanze, ma un confronto ineludibile. Senza calcolo, saremmo deprivati di ogni progresso; senza pensiero, saremo privi di ogni civiltà. La radice – l’errante radice – di questa dignità civile del pensare è la filosofia. E, oggi, nella filosofia, in nome di un nuovo paradigma della ragione, la persona. Triplicemente s‐fondata: verso la diversità (propria e altrui), verso la relazione con l’altro, verso la profondità. Attraverso il riconoscimento dell’altro, la compassione per l’altro e il pudore. La persona è il diritto di resistenza originario e la nuova misura. Elevati da ognuno nei confronti di ogni sistema (concettuale, etico, politico, giuridico) che si arroghi come chiuso. Se lo ‘statuale’ si è storicamente posto come argine 33
rispetto al ‘privato’ e il ‘costituzionale’ rispetto allo ‘statuale’, urge oggi, nell’universo globale, un ‘bene intangibile’ nei confronti di qualsiasi potere, pubblico e/o privato, che abbia la forza e la volontà di disporne. È stato lapidariamente scritto da Vico, a conclusione della Scienza nuova: “Se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”. Condizione del sapere è la pietà. Il nostro tempo sembra in preda a un nichilismo che si caratterizza non per crisi di valori, ma, più radicalmente, per crisi di domanda di valori. Se l’idea di persona costituisce, però, al tempo stesso, uno stadio importante – a orizzonte di millennio – nell’attuale temperie di civiltà, la società contemporanea – sperimentando paradossalmente nella sua conflittualità radicale l’impossibilità dell’ir‐relazione – può autocomprendersi oggi come l’atto plurimo del con‐esserci di persone – di atti di esistere unici, relazionati e profondi – da cui assumere fondamento, domanda, misura e prove di falsificazione. Se, vichianamente, riflettere sul diritto è indagare sulla sua intrinseca filosofia e se riflettere sulla sua filosofia è formarsi conoscitivamente sul suo incarnarsi civile, meditare sulla filosofia e sul diritto è poter meditare senza tregua, speculativamente e in concreto, sulla sostanza cruciale della civiltà. 34