PEIRCE Guglielmo. Cronache-militari-del-regno-di

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Guglielmo Peirce
LE CRONACHE MILITARI DEL REGNO DI NAPOLI E L’EVOLUZIONE TECNICO-TATTICA
DELLA GUERRA VERSO IL DECLINO DELL’EGEMONIA SPAGNOLA (1668 - 1707).
Prima stesura depositata alla S.I.A.E.-SEZIONE OLAF con
il n. di repertorio 9912821 e con decorrenza 14.5.2008.
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Le cronache militari del Regno di Napoli e l’evoluzione tecnico-tattica
della guerra verso il declino dell’egemonia spagnola (1668-1707).
by Guglielmo Peirce.
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Alla memoria di mia madre,
d’ogni virtù ornata e d’ogni lode degna.
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Prefazione.
Questa cronologia militare commentata, ricavata principalmente dalle raccolte di avvisi a
stampa e di giornali privati manoscritti del Regno di Napoli, anche se purtroppo lacunosa
come inevitabilmente finiscono per essere tutte le cronologie di tempi lontani, si propone di
fornire al lettore una sufficiente contezza sia dell’organizzazione e dei contributi militari del
Regno di Napoli nell’ultimo periodo del dominio spagnolo sia dell’importante evoluzione
tecnico-tattica che si ebbe allora nell’arte della guerra, evoluzione i cui precisi termini e tempi
non abbiamo in verità mai trovato da alcuno adeguatamente indagati; e quand’anche tali
argomenti marziali risultassero come al solito emarginati dall’ortodossia storiografica ufficiale,
pur tuttavia questa nostra fatica dovrebbe perlomeno risultare sufficiente anche a mostrare
nel suo insieme un nuovo, inedito e interessante affresco della Napoli di quei tempi; quello
cioè che si può ricavare appunto mettendo insieme, come tessere di un mosaico, gli aspetti
militari e gli avvenimenti bellici della sua storia, illuminati però necessariamente da
un’adeguata competenza in materia. A coloro poi che talvolta ci chiedono che senso ha
profondere tanto impegno e tanta parte della propria vita in una ricerca storica di questo tipo,
a quelli che negano importanza al conseguimento del fine storico in generale, cioè alla
storiografia, e quindi non apprezzano l’indagine storica, ai tanti che insomma affermano che
nella vita bisogna guardare avanti e non indietro, a tutti costoro non risponderò facendomi
scudo, come tanti, di Cicerone che, tra le tante virtù che attribuiva alla storia nel suo De
oratore (lb. II [IX]), la diceva anche magistra vitae, perché allora effettivamente mi si dovrebbe
spiegare come è possibile che dopo millenni di lezioni di storia si sia arrivati, per esempio, ai
sommi orrori della seconda guerra mondiale; l’osservazione che invece mi sento di fare a
favore della storia è molto meno pretenziosa e cioè che l’uomo si guarda così spesso indietro
per un motivo molto semplice, perché è in sua facoltà farlo; al contrario, se guarda avanti, non
può vedere quasi nulla, non avendoci difatti il Creatore dotato di capacità divinatorie.
Presupponendo che il nostro lettore abbia certo già una sufficiente conoscenza del
contesto storico-geografico in cui si svolsero gli avvenimenti che narriamo, ci siamo astenuti
dal premettere una scolastica e ritrita introduzione in tal senso; ci siamo pertanto solo limitati
a iniziare col descrivere per sommi capi la struttura militare che la Spagna aveva dato o
concesso al Regno di Napoli, perché anche questo è uno di quegli argomenti storici che si
credono ben conosciuti e invece lo sono molto poco.
L’opera si sarebbe certamente potuta di molto arricchire con ulteriori e più costanti
ricerche, specie approfittando maggiormente dei fondi diplomatici dell’Archivio di Stato di
Venezia e di quello Vaticano, il che ci avrebbe senza alcun dubbio permesso di mitigare
molto più decisamente certa propagandistica ipocrisia – talvolta anche mendacità - di regime
che sempre si riscontra negli avvisi ufficiali, ma il crudele e veloce sfiorire della vita non ce ne
concede il tempo. Il lettore noterà inoltre che le numerosissime citazioni inserite sono
purtroppo prive della menzione dei numeri delle pagine o dei fogli delle opere richiamate, un
corredo questo che gli sarebbe stato come sempre certamente molto utile, ma che
sfortunatamente, quando ci si addentra in campi di ricerca vastissimi e sostanzialmente
inesplorati, non sempre si ha tempo di preparare, a meno di non rassegnarsi a un notevole
rallentamento della ricerca stessa e quindi a un numero inferiore di risultati. A causa del
tempo che ci è mancato il lettore non troverà purtroppo nemmeno un indice dei nomi, altro
strumento certamente utile a chi sia interessato a ricerche particolari; ma cercheremo di
aggiungerne uno nel prossimo futuro e comunque gli ricordo che, giacché questa è
un’edizione elettronica, i nomi sono facilmente rintracciabili con le apposite funzioni di ricerca
di cui ogni programma di scrittura informatica è dotato.
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Per alleggerire la narrazione e agevolarne la lettura, avremmo certo potuto evitare di
cadenzarla anche con una datazione settimanale, ma riteniamo questo uno strumento utile a
indurre nel lettore una maggiore compenetrazione in avvenimenti che, come sempre succede
a quelli ormai molto lontani nel tempo, finiscono per sembrare sempre più fiabeschi che
realmente accaduti. Sicuramente alcune delle tantissime date da noi menzionate possono
esser errate e ciò a causa del modo discontinuo e lacunoso con cui - e negli avvisi e
soprattutto nei giornali manoscritti - si usava riportare la datazione, un elemento ancora
ritenuto allora dalla storiografia poco significativo; posso comunque assicurare il lettore che
l’errore, quando c’è, può facilmente riguardare il giorno in cui avvenne un certo fatto, ma
raramente la settimana, rarissimamente il mese e mai l’anno.
Ringrazio innanzitutto il mio carissimo amico ing. Giancarlo Boeri, insuperabile
ricercatore, per il gran numero di appunti, tratti da archivi nazionali e stranieri, da lui nel
tempo messi a mia disposizione, materiale senza il quale questo mio studio sarebbe
certamente risultato molto più lacunoso, e ciò nell’ambito di una reciproca collaborazione
ormai trentennale; ringrazio inoltre, come sempre, il personale archivistico e bibliotecario
napoletano tutto per il tanto, immancabile e cordialissimo aiuto sempre prestatomi nel corso di
decenni di ricerca.
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Introduzione.
Riteniamo necessario premettere che molti studiosi, talvolta anche noti storici, sbagliano
di molto e di grosso quando, riferendosi al reame di Napoli del periodo 1504 - 1707, lo
chiamano ‘vice-regno’, perché, a prescindere dalla considerazione che tra le forme di regime
che in ogni tempo gli stati e le nazioni si sono date quella di ‘vice-regno’ non è mai esistita, è
chiaro che quello di Napoli era un regno a tutti gli effetti, cioè uno dei vari regni e stati
appartenenti alla corona di Spagna, e, poiché questa non poteva essere presente fisicamente
in tutti, ne conferiva il vice-regnato e il capitanato o capitania generale, ossia il potere di
governo reale subordinato, a viceré da lui nominati; erano quindi regni governati da viceré,
cioè da personaggi con personali poteri di vice-regnato, e non ‘viceregni’ quelli in cui,
unitamente ad alcuni stati feudali d’altro genere, si dividevano le Spagne; insomma proprio
per la stessa ragione per cui lo Stato o Ducato di Milano, anche se di proprietà feudale della
suddetta corona, non era per questo degradabile a ‘vice-stato’ o a‘vice-ducato’. Quello di
Napoli era anzi considerato, per quanto riguarda l’Italia, il ‘Regno’ per antonomasia e infatti vi
era comunemente chiamato semplicemente il Regno, in considerazione che, pur essendoci
anche quelli di Sicilia e di Sardegna, esso era di gran lunga il più grande, popolato e
importante dei tre. Il viceré di Napoli, immancabilmente uno spagnolo se non solo interino, era
di solito stato in precedenza al governo di stati o di regni meno grandi e impegnativi; per
esempio Francisco de Benavides de Avila y Corella conte di San Estévan fu nel 1675
nominato viceré di Sardegna, nel 1678 di Sicilia e nel 1688 di Napoli. Perché il lettore possa
farsi un’idea della differenza d’importanza che comportavano i vice-regnati dei detti regni,
diremo che il duca di S. Germano, viceré del regno di Sardegna, i cui emolumenti erano per
ordine del re, come del resto tante spese dello Stato di Milano, a carico dell’erario di Napoli,
prendeva nel 1668 ducati 550 il mese, mentre esattamente due anni più tardi Pedro de
Aragón duca di Segarbe e Cardona, viceré di quello di Napoli, tra stipendio da viceré e
capitano generale del regno, aggiusto di costa (‘indennità di sopraspesa’) e stipendio di
capitano di una compagnia di uomini d’arme, ne percepirà più di 3.191 (A.S.N. Tes. An. Fs.
354.) La stessa carriera facevano generalmente i capitani generali del mare, passando da una
squadra di galere meno importante a una più importante, e talvolta anche quelli dell’artiglieria.
Il viceré, cui spettava il titolo di Eccellenza, unico nel regno a goderne, era del re pure
luogotenente perché il sovrano era anche capitano generale dei suoi eserciti, era inoltre
capitano generale del Regno di Napoli e infine anche capitano della sua compagnia di lancieri
a cavallo della guardia vicereale; egli, detto per sommi capi, era assistito da un consiglio detto
il Collaterale per le faccende che riguardavano l’amministrazione finanziaria e giudiziaria e da
un Consiglio di Stato e Guerra, i cui consiglieri si chiamavano reggenti di cappa corta, per
quanto riguardava invece gli affari esteri e militari.
Tutti i ministeri del regno finivano per avere necessariamente qualche competenza che
sconfinava nel ramo militare, ma ci soffermeremo solamente sull’amministrazione della
giustizia, perché questa aveva spesso bisogno, come del resto ancora oggi nell’Italia
meridionale, di essere coadiuvata dall’esercito; governata da un ministro detto Gran
Giustiziere e da una corte suprema, il Sacro Regio Consiglio, era amministrata principalmente
dal tribunale detto Gran Corte della Vicaria, il quale si divideva in Vicaria Civile e Vicaria
Criminale e aveva questo nome perché il suo proreggente, il quale disponeva di una sua
guardia personale di alabardieri, esercitava teoricamente questo ruolo non in prima persona,
ma solo come ‘vicario’ del viceré. Dal predetto tribunale dipendevano i capitani di giustizia,
detti anche capitani di strada, oggi diremmo ‘commissari di polizia’, i quali erano 16 nel 1670,
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da 15 a 18 al tempo del viceré di los Vélez, solo 12 invece nel 1702, e ognuno dei quali aveva
una paranza (it. ‘apparenza, squadra, schiera, rivista militare’) composta di un caporale e
dieci guardie, dette queste anche fanti, soldati, guidati o birri (dal lat. Forse da birri, ’mantelli
con cappuccio’, o più semplicemente da viri, ‘uomini’); questi poliziotti avevano il rango di
soldati e infatti erano armati d’archibugio e comandati da un undicesimo uomo, detto caporale
come nell’esercito; da una registrazione di esiti di Cassa militare del 1670 risulta che il
capitano di giustizia Carlo Vassallo prendeva un soldo di dieci ducati mensili, il suo caporale
di sei e ognuno dei suoi dieci soldati di tre (ib.)
C’era poi, secondo per importanza, un tribunale delegato da quello della Vicaria
Criminale e detto Regio Tribunale (del Commissario) di Campagna, il quale aveva sede a S.
Antimo e la cui giurisdizione copriva la provincia di Terra di Lavoro, essendo questa
particolarmente importante perché limitrofa alla capitale e, allora come oggi, pullulante di
briganti; procedeva soprattutto contro i seguenti delitti: grassazioni di strada pubblica, porto
illegale d’armi, sequestri di persona, incendi dolosi di pagliai, allora molto frequenti nelle
inimicizie campestri, e pirateria marittima. Questo commissario di campagna, il quale all’inizio
del Settecento prenderà, nella persona di Gregorio Mercado, il nuovo più pomposo titolo di
soprintendente generale della campagna, era un giudice togato e il più delle volte un nobile
titolato, godeva delle preminenze di giudice di Vicaria ed era coadiuvato da un secretario e
mastro d’atti (‘cancelliere’), da due scrivani, di cui uno ordinario, da una sua polizia giudiziaria
chiamata squadra o compagnia del tribunale di campagna, la quale era costituita da sette a
dieci soldati, due ligatori (‘aguzzini’) ed era comandata da un capo di squadra o caporale.
In ognuna delle altre province la giustizia ordinaria era invece amministrata da una
Regia Udienza Provinciale costituita da quattro auditori togati supportati da un caporale di
campagna, detto comunemente barricello o bar(i)gello, e dalla sua squadra di circa 40 soldati
di campagna, di cui una metà a cavallo; in tempi di particolare virulenza del brigantaggio si
formavano anche temporanee squadre di campagna soprannumerarie o straordinarie,
costituite da un numero di fanti che poteva andare generalmente da un minimo di una ventina
a un massimo di una novantina, come per esempio ordinavano un ordine reale del 21 maggio
1679 e un altro del 1682. C’erano poi il Tribunale del Gran Almirante per l’amministrazione
della giustizia marittima civile e uno militare detto Regia Audizione Generale dell’Esercito, a
cui era soggetta anche l’armata di mare e di cui diremo nel corso di questa trattazione.
Al tempo oggetto di questo nostro studio, ossia alla fine del dominio spagnolo, il Regno
di Napoli aveva una popolazione di circa due milioni e mezzo d’abitanti e la città di Napoli,
che un secolo prima aveva contato 200mila abitanti, ora ne aveva invece circa 350mila, cioè
si era all’incirca ritornati al numero di abitanti anteriore alla terribile peste del 1656, la quale
aveva fatto in tutto il regno ben 600mila vittime; questa popolazione cittadina era in quei
secoli considerata immensa perché pochissime erano le città europee che potevano vantarne
un simile numero. Eppure, tanto per dirne una, si fornivano ogni anno alla Spagna all’estero
migliaia di nuovi soldati, cifre quindi molto consistenti rispetto al totale della popolazione e
che non potevano non incidere negativamente sulla demografia del regno. La ragione della
gran prolificità dei napoletani era attribuita dai commentatori del tempo all’abbondanza del
cibo, sia terrestre sia marino, dovuta alla feracità dei luoghi, alla minor necessità di legna da
ardere, vista la clemenza del clima, e al poco consumo di vino, data la bontà e purezza
dell’acqua potabile; infatti alla grande produzione, anche spontanea, di verdura, frutta e pesce
si aggiungeva la disponibilità, altrettanto grande, del grano e dell’olio d’oliva pugliesi, in gran
parte riservati appunto alla capitale per evitare che una loro penuria provocasse pericolose
sommosse dei suoi turbolenti abitanti; per lo stesso motivo il prezzo del pane era calmierato e
tenuto costantemente fisso, anche in tempi di carestia, a 4 grana per ogni 22 once (quindi gr.
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596,64, se calcoliamo l’oncia gr. 27,12), essendo una libbra di pane divisibile in 24 once
(quindi gr. 650,88), a ciò aggiungendosi che per legge ognuno poteva farsi il pane
privatamente; questo prezzo del pane è un parametro da ricordare perché da esso possiamo
ricavare con buona approssimazione il costo della vita e il valore di soldi, stipendi, rendite e
insomma di una qualsiasi somma del tempo. C’era poi un gran fenomeno di urbanesimo
specie nobiliare, non tanto per la gran vita sociale che naturalmente si faceva nella capitale,
ma soprattutto perché chi risiedeva ufficialmente a Napoli o sposava una napoletana godeva
di benefici fiscali; coloro poi che a Napoli nascevano, i cosiddetti orti (dal lat. orior, nasco), ne
godevano ancora di più, tanto da non aver nulla da invidiare ai cives dell’antica Roma.
La capitale era inoltre principale meta di un fiorente commercio interno e nel regno si
produceva di tutto in abbondanza, quindi frumenti, legumi, frutti d’ogni tipo, carni vaccine,
ovine e suine, latticini, vini, miele, spezie, legnami, lane, sete, canapa, cotoni, minerali d’ogni
genere, salnitro, corallo ecc. Per esempio rinomati e fiorentissimi centri di produzione di panni
di lana erano Pie’ di Monte d’Alife nel Casertano e Cerreto Sannita, le cui pannine di prima
sorte (‘di prima qualità’) potevano quasi reggere il confronto con l’importato pregiatissimo
panno d’Inghilterra.
La facilità con cui ci si poteva dunque procurare da mangiare aveva educato quel popolo
allo scarso interesse per il lavoro - in napoletano non a caso detto fatica – e la possibilità
climatica di vivere all’aperto per la maggior parte dell’anno aveva impedito la formazione di
una più organizzata attività produttiva al coperto che superasse il semplice artigianato, ossia
di un’industria e di una diffusa mentalità industriale come quelle che invece, per opposti
motivi, si erano formate e radicate nell’Alta Italia, specie nel Milanese, un difetto che
purtroppo si può costatare ancora oggi; di conseguenza il lavoro a Napoli mancava, come si
legge in una relazione del 1697 scritta dal sabaudo Giovanni Operti, un inviato straordinario
alla corte di Napoli al quale dobbiamo gran parte delle suddette considerazioni:
… Da quest’immensità di popolo ne proviene per secondo che, non potendo tutti viver di
reddito né tutti di giusta industria o per l’eccessivo numero degli operarii o per la mancanza
delle opere, molti si trovano poi astretti a rivolgere il loro studio alle frodi e male arti, nelle quali
hanno qualche particolar attitudine, e con ansia perniciosa pensano di tanto meglio riuscire
quanto che col favor della moltitudine si lusingano di stare occulti e di poter più lungamente e
impunemente durare…
Dunque una inevitabile propensione alla delinquenza che si andava ad aggiungere a
quella altrettanto nota e perniciosa ricordata da Livio nel suo Libro VIII, 22 a proposito della
popolazione greca che abitava le due vicine città di Palepoli e Neapoli (gente lingua magis
strenua quam factis).
In realtà tutte le forme d’artigianato di qualità erano a Napoli presenti e lo erano anche la
metallurgia bellica e la meccanica delle armi da fuoco; molto importante era poi l’attività delle
costruzioni navali e abbondantissima la produzione di corsieri, ossia di cavalli da guerra
grandi e potenti, con la presenza in tutto il regno di numerosissime razze (‘allevamenti’), di cui
prima era la Real Razza di Puglia, appunto di proprietà reale, ma molto ammirata era anche
quella del principe di Bisignano di casa Sanseverino, grossi corsieri che raggiungevano alla
spalla i sette palmi napoletani d’altezza, cioè circa m. 1,70, e non a caso lo stemma del regno
raffigurava appunto un cavallo bianco; i cavalli del regno si usavano quindi soprattutto per la
cavalleria pesante, per il traino di carrozze e d’artiglieria, insomma per tutti quegli usi in cui a
quegli animali era richiesta più forza che destrezza; se ne facevano poi importanti regali,
come per esempio la sceltissima muta da otto che alla fine del gennaio 1690 il suddetto viceré
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conte di San Estévan inviò a Roma in omaggio al cardinale Ottoboni, nipote del pontefice.
Oltre a questa dei corsieri, erano produzioni ed esportazioni d’eccellenza del regno di Napoli
anche le artiglierie, specie le colubrine, le galere, i remi di galera e infine, anche se questa
ancora più sinistra in verità, polveri piriche, bombe e granate, sia quelle piccole da lancio
manuale sia quelle grosse reali che si lanciavano invece con le bocche da fuoco.
Molto fiorente era anche la fabbricazione di carrozze e calessi, veicoli che infatti
intasavano le strade della capitale, non amando i napoletani camminare, neanche per brevi
tratti, a ciò portati, come scrivevano i cronachisti, sia da una naturale pigrizia sia dal desiderio
di ostentazione; infatti le persone benestanti, incluse le prostitute d’alto bordo, usavano non
solo muoversi per la città in carrozza, ma anche farsi seguire da un secondo veicolo che
portava i loro lacchè, ossia gli armigeri privati. Sterminata era a tal proposito la categoria dei
famigli, brulicando le case signorili di camerieri, sguatteri, cuochi, lacchè, giardinieri, facchini,
stallieri, cocchieri, segettari (‘portantini’), volanti (‘cursori di carrozza’), e altri ancora, cioè una
folla di domestici che, accoppiata alla suddetta abitudine all’ostentazione, consumava
inevitabilmente qualsiasi fortuna familiare. Generalizzata e tradizionale era poi la propensione
delle donne di condizione plebea alla prostituzione e degli uomini al suo sfruttamento,
comodità che era infatti sempre la prima offerta dalla città ai conquistatori stranieri, i quali
anche per questo e non solo per l’abbondanza del vino e del cibo erano attratti dal mito di
Napoli; città zeppa di vizio, ma allo stesso tempo tra le prime al mondo per quanto riguarda gli
apparati esteriori del culto religioso e la superstiziosa credulità.
Numerosissimo era anche il personale giudiziario, nella sola Napoli più di 3mila persone
tra avvocati, giudici, cancellieri, portieri e simili, dovendosi ciò all’esser i napoletani anche
particolarmente litigiosi e portati - tutti quelli di una qualche condizione - a chieder subito
consiglio al loro avvocato per qualsiasi minuzia; poco amavano invece il mestiere delle armi,
essendo naturalmente mal disposti verso qualsiasi forma d’ordine, subordinazione e
ubbidienza, allora come oggi irriguardosi del prossimo se non quando dal formale rispetto
calcolavano poter venir loro un utile.
Ricorderemo infine a tal proposito una divertente, ma molto amara barzelletta che si
affermò nell’Italia del Seicento, che si può leggere in La piazza universale del Garzoni e che
fu riproposta dal Croce (Vite di soldati spagnoli a Napoli). Premesso dunque che la Spagna,
non essendo molto popolata, non disponeva di un numero di soldati sufficiente a presidiare
tutto il suo vastissimo impero e quindi era costretta talvolta ad arruolare anche uomini
fisicamente imperfetti, narrasi che, giunto a Napoli un coscritto spagnolo che aveva la
disgrazia di una vistosa gobba sul petto - così quella che spesso si vede nell’iconografia
tradizionale della maschera di Pulcinella, costui dunque era uscito di casa per una prima
passeggiata in città; lo videro alcuni giovani sfaccendati napoletani, i quali non ressero alla
tentazione di canzonarlo per quel suo difetto, anche se evidentemente, trattandosi di un
soldato spagnolo, vollero farlo in maniera più garbata del loro solito, e infatti uno di quegli
infingardi così motteggiò il soldato: Signor spagnolo, la valigia si porta di dietro, ma voi la
portate invece davanti? E quello, con sussiego tutto iberico, prontamente rispose: Così si usa
in paese di ladri. Parole queste con cui il sagace soldato voleva dire che in tal modo una
valigia si poteva sorvegliare e difendere meglio dai tanti grassatori che infestavano le strade
di Napoli e del regno in generale, di cui non pochi, per esempio, si aggiravano la notte per la
città per rapinare chi si attardava a tornare a casa oppure, trasportando una scala di legno
sulle spalle, per poter così, allora come oggi, introdursi nelle case dalle finestre e svaligiarle
mentre i malcapitati casigliani dormivano, non ostanti i reiterati bandi che questo trasporto di
scale vietavano severamente e che punivano con la pena di morte le rapine e i furti, anche
minimi, che fossero stati commessi di notte. Una città quindi sempre dedita a demolire sé
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stessa e, come il conte Ugolino, a divorare i suoi stessi figli; una miopissima e asociale
popolazione incapace di costruire alcunché di grande o molto importante senza
un’imposizione forestiera e che d’altra parte dal contatto con lo straniero ha sempre cercato
non di trar frutto, ma solo un immediato, effimero profitto, comportamento questo
controproducente, autolesionista e, come notava il suddetto Operti, causa anch’esso,
unitamente alla predetta naturale abbondanza, della quasi totale mancanza di un commercio
estero:
… non potendo le medesime nazioni (estere) volentieri contrattare in paesi dove le merci
siano soggette alla frode o gli uomini siano in opinione di fraudolenti.
Anche quando erano portati all’estero a combattere i regnicoli erano accompagnati da
una pessima nomea, come si può evincere, per esempio, da una relazione della battaglia
d’Asti del 1615, vinta dai franco-piemontesi di Carlo Emanuele I di Savoia sugli ispanonapoletani del governatore di Milano, Juan de Mendoza marchese de la Hinoyosa, relazione
scritta da un anonimo di parte savoiarda e che si conserva tra i manoscritti della Biblioteca dei
Gerolamini di Napoli:
… In quella battaglia furono ammazzati da 800 napoletani, furbi e mariuoli, che la furbizia è
nata in quelle terre….
In effetti il comportamento delle reclute regnicole nei confronti delle popolazioni con cui
venivano a contatto non era certo uno dei migliori e a questo proposito torna alla mente la
relazione scritta dalla Savoia nel 1589 dal residente veneziano presso la corte sabauda
Francesco Vendramin, nella quale si descriveva la rovina e la desolazione in cui versava
allora quella regione, martoriata da recenti carestie e pestilenze che avevano fatto ben
130.000 vittime e non solo:
… E finalmente, per compimento di tutti i mali, è sopraggiunta la guerra presente, oltre al
passaggio di tante genti eretiche (‘franco-svizzere’) che l’hanno attraversata più volte e
particolarmente di quei soldati napoletani di Sua Maestà Cattolica che passarono in Fiandra
due anni (‘or’) sono, i quali fecero maggior danno a que’ popoli in passando (‘nel passare’)
che se fossero stati in paesi di loro proprii nemici…
Questa pessima reputazione, diffusa in Europa in ogni tempo e per ogni dove, era tale
purtroppo da nascondere completamente alcuni innegabili pregi del popolo napoletano, quali
soprattutto il fervido e incessante giudizio critico verso la legge e l’autorità, la grande
coesione all’interno delle famiglie e la generale, anche se interessata, disponibilità a
collaborare, se non con la società nel suo complesso, certamente però con il prossimo in
generale.
C’erano poi molte istituzioni a favore del benessere popolare e cioè sei ospedali gratuiti,
un ospizio per i poveri, diversi conservatori (‘orfanotrofi’), dove si dava agli orfani un’identità
anagrafica e s’insegnava loro un mestiere, un ospedale per i neonati abbandonati, otto banchi
pubblici che non solo custodivano il denaro privato gratuitamente, ma prestavano su pegno
a chi avesse bisogno di denaro senza alcun interesse sino alla somma di 12 ducati per pegno;
molto diffusa e lodata era inoltre la pia pratica dell’elemosina, tant’è vero che, allora come oggi,
le strade brulicavano di mendicanti, di cui non pochi erano stranieri che venivano a Napoli
da altri paesi anche lontani, per esempio dalla Francia, perché era risaputo all’estero che
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a Napoli l’accattonaggio era molto redditizio, potendosi impunemente esercitare anche
con molestia e tracotanza, e i cronisti del tempo lamentavano a volte l'impossibilità di
camminare liberamente per le vie cittadine senza dover sopportare di esser disturbati
continuamente da tanti pitocchi. Come se non bastassero i mendichi, la città era anche
infestata da falsi questuanti e taglieggiatori, da vagabondi e lazzaroni, da lacché
attaccabrighe e da smargiassi, da ladri e spadaccini rapinatori. Eppure si trattava allora
d'una città potenzialmente ricca d'ogni possibilità di lavoro sia artigianale che operaio e nella quale
non c'era commercio, manifattura o arte meccanica che non fosse esercitata; pertanto
l’argomento della mancanza di lavoro non è credibile e, d’altra parte, l’Operti apertamente
contraddice questa sua tesi laddove parla di una naturale attitudine al delitto che affliggeva
i napoletani, attitudine che però in verità, a leggere anche gli osservatori stranieri in Sicilia,
interessava quasi tutto il Meridione d’Italia e non solo la Terra di Lavoro.
Bisogna infatti anche dire che l’abbondanza di malviventi e malintenzionati non
era un problema che affliggeva solo il regno di Napoli, perché altrimenti bisognerebbe spiegare
perché la giustizia veneziana si era sempre distinta per il più alto numero di condanne a
mutilazioni che si eseguissero in Italia e quella dello Stato della Chiesa per il più alto numero
di pene capitali, tant’è vero che tanti nel Lazio, in Umbria o nelle Marche, vedendosi perseguiti
dalla legge, magari anche a torto perché con la sola colpa di essere parenti di delinquenti,
passavano il confine con il regno di Napoli preferendo ridursi tra le montagne dell’Abruzzo
a vivere di volgari grassazioni e rapine, scambiando archibugiate con i birri regnicoli e i
fanti spagnoli, piuttosto che farsi sicuramente afforcare nel loro paese.
Da parte sua il popolo napoletano e regnicolo in genere non amava né gli spagnoli,
a causa dell’asprezza e dell’arroganza con cui abitualmente quelli gli si rivolgevano, né i
francesi a ragione sia della continua propaganda fatta dagli spagnoli occupanti contro i
transalpini sia, gelosamente, della licenza ed eccessiva confidenza con cui questi trattavano
le donne, anche quelle che incontravano per la prima volta; ciò non ostando, essendo in
effetti i predetti motivi di tipo solo formale, esso si era sempre diviso in filo-asburgici
e filo-angioini, essendo quelle le due casate dominanti più importanti con cui nella loro
storia avevano dovuto ricorrentemente fare i conti. Si può poi dire che, poiché nelle
pubbliche manifestazioni dovevano sopportare molto frequentemente le violente e
pericolose piattonate d’alabarda che gli alabardieri svizzeri di lingua tedesca della guardia
del viceré dispensavano senza risparmio alla folla, perché in tal maniera si aprisse o si
allontanasse, i napoletani non amavano nemmeno gli alemanni o todeschi in generale.
Le forze militari che difendevano questo vasto regno erano volutamente alquanto
esigue, perché gli spagnoli non avrebbero mai dotato nessun loro possedimento, specie il
Regno di Napoli, essendo considerati da loro i suoi abitanti, specie dopo le rivolte del 1547 e
del 1647, gente infida e facile alle ribellioni, di un esercito nazionale tanto forte da essere in
grado un giorno di rivolgersi contro di loro; perciò la difesa degli stati e dei regni a loro
soggetti non era mai affidata a ben addestrate forze autoctone, bensì a pochi presidiari
spagnoli, destinati inoltre in verità, come i castelli, più a tenere a freno le popolazioni locali
che a opporsi a un eventuale invasore, e soprattutto a estemporanei e improvvisati soccorsi
dall’estero da organizzarsi volta per volta all’occorrenza e da trasportarsi velocemente dove
necessario con le varie squadre di galere di cui la Spagna disponeva nel Mediterraneo
occidentale, in attesa magari di altre, più corpose, da far poi arrivare più lentamente con
l’armata dei grandi vascelli oceanici. A ciò si aggiunga che il Regno di Napoli era lontano dai
confini francesi e quindi, a differenza della Catalogna, della Fiandra e della stessa Milano,
non era come quelle tormentato da frequenti, sanguinose e dispendiose guerre che si
combattessero sul suo stesso territorio; esso al tempo del dominio spagnolo era dunque
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sostanzialmente presidiato da un unico – anche se numeroso - reggimento di fanteria di
grande esperienza di quella nazione, il quale era detto tercio fijo de infanteria española od
anche terzo antico degli spagnuoli, essendo infatti uno dei più vecchi dell’esercito spagnolo;
nel corso dei due secoli della sua esistenza esso fu formato da un numero di fanti che variò
nel tempo dai 2mila ai 5mila e di compagnie che andò dalle 20 alle 48, ogni compagnia
essendo formata da un numero di soldati che andò comunque, in conformità all’evoluzione
tecnico-tattica della guerra, gradualmente decrescendo dai 300 delle origini ai 100 della
seconda metà del Seicento, come conferma anche la già citata relazione del residente
sabaudo a Napoli Giovanni Operti scritta nel 1697; dovevano essere rigidamente spagnoli,
ma il personale non proprio combattente poteva essere anche regnicolo e infatti, per esempio,
nel 1682 il tamburo maggiore di questo tercio si chiamava Giacomo di Natale. Questo corpo
aveva, come del resto anche avevano tutti gli altri spagnoli civili e militari residenti a Napoli,
un proprio ospedale chiamato Ospedale di S. Giacomo, il santo protettore della nazione
spagnola, e, in caso di carcerazioni, gli spagnoli avevano diritto a essere rinchiusi in un
carcere anch'esso tutto loro e cioè il Carcere di S. Giacomo, carcere di solito guardato da sei
dei loro fanti; inoltre un giudice militare particolare, detto auditore del terzo, anch’egli
regolarmente di nazionalità spagnola – per esempio nel 1682 si chiamava Pedro Mesones amministrava la giustizia a questi fanti in una casa per cui la cassa militare pagava regolare
pigione.
Non ostanti le molteplici interpretazioni fantasiose che di questo nome tercio siano state
date nel corso del tempo dagli studiosi, persino da quelli spagnoli coevi a partire dallo stesso
Sancho de Londoño, perché il reggimento di fanteria spagnola post-rinascimentale si
chiamasse così è invece prestissimo detto. Verso la metà del Cinquecento la Spagna volle
istituire un formale presidio militare permanente nei suoi possedimenti italiani e cioè nei regni
di Napoli e di Sicilia e nel ducato di Milano; divise allora anche amministrativamente in tre
parti pressoché uguali (tre ‘terzi’ appunto) il suo grosso colonnello di fanteria portato in Italia
originariamente da Consalvo de Córdoba e che, già materialmente e strategicamente
suddiviso, stava in guardia di quei possedimenti e ne stabilì ufficialmente uno in ognuno
d’essi, ottenendosi così il tercio de Nápoles, il tercio de Sicilia e il tercio de Lombardia.
Quest’etimo è spiegato in due parole dall’ambasciatore veneto Girolamo Ramusio nella
seguente apposita nota che volle aggiungere alla sua relazione di Napoli del 1597:
La fanteria spagnuola (om.) si dice anco il terzo, perché è tripartita in Sicilia, Napoli e Milano.
La cosa è dimostrata dalla circostanza che questo nome tercio non si trova nei documenti
anteriori al 1535, anno in cui appunto anche la Lombardia divenne per ultima un dominio spagnolo;
dunque effettivamente, come affermò - qui giustamente - il Londoño, i terzi nacquero in Italia,
anche se poi la loro nuova struttura di comando e - di conseguenza - anche il loro nome furono
estesi a tutti i corpi di fanteria della monarchia spagnola nel mondo. Questo nuovo nome
convenzionale di tercio sarà in uso sino alla fine del Seicento, quando, volendo imporre
Filippo V all’esercito spagnolo il più moderno modello organizzativo francese, si tornerà
a quello di reggimento. Il declino del tercio trascinerà con sé, gradatamente e malinconicamente,
quello dell’intera potenza militare spagnola, crepuscolo che d’altronde si era reso già visibile
sin dalla Guerra dei Trent’anni per motivazioni che così spiegava il Montecuccoli e che ricordano
talune di quelle che tanto tempo prima avevano portato alla fine dell’antica Roma:
Fu la Spagna formidabile al mondo co’ suoi eserciti e per essi la di lei grandezza nell’auge,
ma, come in progresso di tempo la stima delle armi e le ricompense declinarono e i premii al
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merito de’ soldati istituiti in favore di professioni straniere degenerarono, così a mano a mano
di tanta monarchia sfiorar videsi la grandezza, solo col rimetter l’arme in credito riacquistabile.
Il tercio non era dunque comandato da un capo di colonnello (detto poi per brevità
semplicemente colonnello), come lo erano stati i precedenti corpi rinascimentali della fanteria
spagnola e come continueranno a essere i trozos di cavalleria, bensì dal maestre de campo,
ufficiale maggiore già importantissimo, ma subordinato al colonnello comandante.
Curiosamente in Francia i predetti titoli erano invece usati in maniera inversa, essendosi
infatti i comandanti dei reggimenti di cavalleria, eccezion fatta per quelli di mercenari stranieri
e per quelli di dragoni, sempre chiamati mêtres-de-camp e i loro secondi majors (da sargentsmaiors), mentre, per quanto riguarda la fanteria, verso il 1534 Francesco I aveva conferito la
dignità di colonel d’infanterie al premier capitaine d’ogni legione, ma nel 1568, sotto Carlo IX,
il nome del comandante di reggimento fu cambiato in mêtre-de-camp, cioè in quello che già si
usava nella cavalleria; infine, nel secolo seguente, il re Luigi XIV volle che nella fanteria si
ritornasse ai titoli di colonel e di lieutenans- colonels (de la Chesnaye des Bois). C’è inoltre
da notare che in Francia il cavalleggero francese, il semplice soldato, si chiamava maître e
non soldat come il fante (ib.)
La suddetta fanteria spagnola di Napoli, il cui soldo era pagato dalla cassa militare del
regno e non dalla Spagna, era impiegata - né quella d’alcun altra nazione era autorizzata a
esserlo, tanto meno quella regnicola - come guarnigione delle piazzeforti e dei maggiori
castelli e piazzeforti sia del regno propriamente detto (Napoli, Capua, Gaeta, Baia, Brindisi,
Manfredonia, Pescara, l’Aquila ecc.) sia dei Presidi di Toscana, ossia sostanzialmente i luoghi
fortificati d’Orbitello (oggi ‘Orbetello’), Talamone, Port’Ercole e Porto Longone, i quali, non
ostante la lontananza dai confini del regno, appartenevano alla Corona di Spagna sin dal
1557, essendo stati in precedenza invece della repubblica di Siena, e, poiché situati a metà
del Mar Tirreno, era considerati strategicamente molto importanti ai fini del controllo delle
rotte marittime, anche se in realtà tale importanza si rivelò più volte essere sopravvalutata. Le
compagnie di questo terzo formavano inoltre il nerbo delle spedizioni militari che s’inviavano
di tanto in tanto a combattere le bande di fuorusciti e fuorgiudicati (‘banditi, esiliati’) che
infestavano gli Abruzzi e fungevano regolarmente da fanteria di marina a bordo delle galere
del regno; le loro capitanie non potevano esser date, tranne eccezioni da autorizzarsi, a
ufficiali italiani, come proibiva - e probabilmente anche ribadiva - una vecchia istruzione reale
del 14 giugno 1626:
Carta: que no se den compañias de infanteria españolas a italianos, pero que, si pareziere
justo dispensar con algunos, sele consulte (B.N.N. Ms. XI.A.21).
Le frontiere settentrionali del regno erano difese in Abruzzo da compagnie del suddetto
terzo fisso degli spagnuoli, le quali si alternavano al presidio del castello dell’Aquila e degli
altri luoghi fortificati di quella provincia, e nel territorio di Fondi da compagnie di dragoni. Nel
1683 un secondo terzo fisso, chiamato terzo nuovo per distinguerlo dal primo, fu formato per
dare un impiego a fanterie italiane e iberiche imbarcate su una flotta spagnola che allora
sostò diversi mesi nel porto di Baia per necessari raddobbi, ma questo corpo, frutto d’un
impossibile connubio di nazionalità, ebbe brevissima vita.
Le milizie del regno più antiche erano però altre e cioè 20 compagnie di cavalleria, poi
aumentate a 22, arruolate con criteri ancora strettamente feudali, le quali avevano in origine
fatto parte dell’esercito del Gran Capitano Consalvo de Córdoba, ma ora, per loro statuto,
potevano essere adunate e impiegate solo per la difesa del regno e non si poteva inviarle a
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combattere all’estero; si trattava di 16 compagnie di hombres de armas - i quali sin dal 1631
non erano più lancieri, bensì cavalli corazze (‘corazzieri’), ognuna di 60 uomini più ufficiali,
inoltre di tre di archibugieri a cavallo e di una di (e)stradioti o crovatti (‘croati’), ossia di lancieri
leggeri balcanici. L’armamento dei suddetti cavalli corazze del tempo che stiamo trattando è
ben descritto dal Montecuccoli:
I reggimenti di cavalleria sono oggidì armati di mezze corazze, cioè di petto, di schiena e di
morione (‘borgognotta’; nap. murrione) con più lame di ferro insieme commesse da dietro e
da’ lati, acciocché difendano il collo e le orecchie, e di manopole che coprano la mano sino al
gomito. Il petto deve essere a prova del moschetto e le altre pezze (‘pezzi’) a prova della
pistola e della sciabla. Portano per offesa pistole e spade lunghe e ferme che feriscono di
punta e di taglio e la prima fila può anche aver moschettoni.
In effetti questi corazzieri non portavano dunque più una vera e propria mezza corazza,
ossia un intero corsaletto di ferro pesante, come avevano fatto sino a un recente passato, ma
solo un petto e schiena. Altrove lo stesso suddetto generale spiegherà meglio che la mezza
corazza, se, come avrebbe sempre dovuto essere, cioè a botta di pistola, avrebbe reso inutili
gli archi che ancora allora usavano largamente in battaglia i turchi e che la celata di questi
soldati doveva essere un caschetto con lunghe code posteriori per la protezione del collo, con
orecchione per quella delle orecchie e con un ferro dinanzi al naso per la difesa di questo;
inoltre chiederà manopole senza le dita di ferro, perché accessori che davano più impaccio
che protezione. Per quanto riguarda il moschettone di cui dice il Montecuccoli, esso non è
altro che una versione più corta, da cavalleria appunto, del moschetto leggiero della fanteria;
più, tardi, diffusosi nella fanteria l’uso del fucile, sarà una versione più corta di questo.
Perché alla fine del Cinquecento il re Enrico IV di Francia aveva introdotto questi cavalli
corazze e qual era la loro tattica? Nel Medioevo, non esistendo ancora la fanteria di linea,
bensì solo quella ausiliaria, compito della cavalleria era stato quello di opporsi ad altra
cavalleria; ma, col Rinascimento, nacquero le battaglie di fanteria, ossia formazioni compatte
di picchieri che, ben organizzate e disposte sul campo, osavano opporsi alla cavalleria
medievale e questa, per aver ragione di loro, doveva romperne tale compattezza; infatti, una
volta rotte i loro battaglioni, i fanti non erano più in grado di opporre un valido contrasto agli
armatissimi ed esperti huomini d’arme a cavallo. Questi, con una tattica inventata dalla
cavalleria francese e poi adottata in tutta Europa e cioè lancia in resta e in piccoli gruppi
(squadroncelli) di 20/25, si lanciavano dunque a capofitto nelle formazioni di fanteria nemica,
caricandole e fendendole con le punte delle loro lance sino a uscirne dalla parte di dietro o
anche dai fianchi e lasciandole così disfatte; dopodiché i disordinati fanti nemici diventavano
facile preda sia delle cavallerie leggere (lancieri leggeri, archibugieri a cavallo, croato-stratioti
ecc.) sia delle fanterie leggere. Ma, per attuare questa tattica occorreva ricca nobiltà a
cavallo, cioè gente molto ben armata, montata, equipaggiata, esercitata e soprattutto fedele e
coraggiosa, la quale purtroppo a ogni guerra diminuiva vistosamente, sia perché dalle
suddette cariche molti non uscivano vivi sia perché erano sempre più numerose le famiglie
nobili che, economicamente rovinate dalle distruzioni portate appunto dalle continue guerre,
non erano più in grado di far fronte all’onere delle costosissime monture e cavalcature dei loro
giovani rampolli mandati a combattere. Durante le sanguinose guerre di Francia della
seconda metà del Cinquecento, trovandocisi dunque ormai a corto di giovani nobili votati alla
morte, si provò a risolvere il problema volgarizzando gli huomini d’arme, cioè trasformandoli in
cavalli leggieri, nella fattispecie in lancieri armati d’armature più grezze e sottili, quindi molto
meno costose, e soprattutto montati su cavalcature molto più piccole e comuni dei giganteschi
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e proibitivi corsieri da sfondamento che usavano gli huomini d’arme; si poté pertanto adibire a
questo ruolo molta gente squattrinata non nobile, anzi d’umile origine, quindi priva di quegli
ideali di fedeltà e di eroismo che caratterizzavano la nobiltà francese, e il risultato fu di
conseguenza pessimo, dedicandosi perlopiù tali genti maggiormente a derubare e a vessare
le popolazioni delle campagne, amiche o nemiche che fossero, che a combattere in campo il
nemico.
Dopo decenni di tale fallimentare esperienza, si arrivò a Enrico IV, grande condottiero e
intenditore di arte della guerra, il quale immaginò (o forse l’idea fu di qualche suo generale) di
rompere la fanteria nemica in altra maniera e cioè non più fendendola con le lance, bensì
schiacciandola, come sotto rulli compressori, con corpi sodi di cavalleria fatti di centinaia di
corazzieri armati di pistole, i quali anch’essi non necessariamente dovevano essere nobili,
avevano bisogno di un armamento molto meno sofisticato e di cavalcature modeste. A
differenza della precedente, questa innovazione ebbe un gran successo tattico, nascendo
dunque così l’arma dei corazzieri, e fu presto imitata in tutta Europa, anche in Inghilterra, dove
prenderanno poi anche il nome di ironsides. In affetti non si trattava di una tattica del tutto
nuova, in quanto già introdotta nel Quattrocento dalla cavalleria borgognona e presto adottata
anche da quella spagnola; solo che allora questi grossi squadroni erano stati formati da
lancieri pesanti e non da pistolieri a cavallo come adesso.
Con l’introduzione dei cavalli corazze gli impegni militari feudali della nobiltà del regno,
cambiarono alquanto, ma non cessarono per nulla, continuandosi infatti a concedere a titolati
il capitanato delle loro compagnie e conservando i baroni (‘feudatari’) l’obbligo teorico di
brandire le armi e servire, quando a ciò chiamati, a difesa del regno con le loro persone e con
qualche uomo a cavallo in numero variabile, cioè dipendente dall’estimo del loro feudo, ma in
realtà quest’obbligo era ormai per consuetudine soddisfatto col pagamento di un balzello di
guerra straordinario.
Nel Cinquecento c’era stata a Napoli pure una compagnia di balestrieri a cavallo,
medievali antesignani degli scoppietteri e degli archibugieri a cavallo, questi ultimi poi detti
dragoni, ma, a seguito dei rapporti negativi che allora giungevano a Madrid e che questo
corpo descrivevano come del tutto obsoleto, disutile e inoltre così carente in armi e cavalli che
non lo si passava mai in rivista, con ordine reale dell’8 agosto 1575 se ne era decretata
l’abolizione e la riforma dei suoi 31 soldati, trattenendosi in servizio il solo capitano (que el
capitán de vallestreros se podrà excusar consumiendo esta compañia por no ser necessaria).
Per quanto riguarda i corpi di guardia reale, bisogna distinguere quelli di semplice
(avan)guardia vicereale da quelli di guardia del corpo, questi così detti perché facevano la
guardia solo al corpo dei sovrani, non avendo la loro superiore anima bisogno d’essere
guardata, ma al massimo solo ben assistita da consiglieri spirituali. Il viceré di Napoli
disponeva dunque per avanguardia vicereale di una compagnia di lancieri pesanti borgognoni
(‘valloni), la quale nel 1690 fu abolita e sostituta da due di cavalli corazze, ognuna di circa 100
soldati più ufficiali, dove di conseguenza in tal maniera una poteva fungere da (avan)guardia
e una da (retro)guardia; a queste però negli ultimi anni ne furono preferite due di dragoni,
mentre alla fine del Cinquecento aveva avuto per avanguardia anche degli archibugieri a
cavallo. I suddetti lancieri erano tali due volte, perché, oltre a esser armati di lancia, tutti quelli
che in altre compagnie sarebbero stati soldati semplici lì avevano invece l’antico grado di
lance spezzate, ossia in teoria di aiutanti del capitano, ma in pratica si trattava di vicecaporali.
Con le funzioni ufficiali di guardia del corpo aveva il viceré una compagnia di 100
gentiluomini o cavalieri montati su bellissimi cavalli, i quali erano metà spagnoli e metà italiani
(nel 1681 però, come vedremo, ridotti a 50), in parte pagati direttamente dal re di Spagna, e si
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chiamavano familiari di palazzo o continui, nome quest’ultimo che derivava appunto dalla
continuità del loro servizio, cioè sia che si fosse in tempo di guerra sia di pace senza alcuna
interruzione, prerogativa però d’altri tempi, medievale, perché ora tutti i corpi di palazzo
servivano in continuità; ma, a prescindere dal loro numero effettivo, sempre di molto inferiore
a quello ufficiale, questo loro servizio di guardia era più onorario che altro e infatti li troviamo
menzionati solo nei libri-paga, praticamente mai nei giornali o negli avvisi ufficiali del regno
laddove si descrivono cavalcate o altre manifestazioni pubbliche. Nel 1674 i continui a carico
del re erano venti e prendevano 200 ducati l’anno cadauno. L’effettiva custodia della persona
del viceré era invece affidata a una compagnia di 72 fanti alabardieri mercenari (una volta un
centinaio) detta guardia alemanna, ma non si trattava d’austriaci o di tedeschi, come il nome
farebbe pensare, bensì di svizzeri di lingua tedesca, presenza questa comune a molte corti
europee, perché l’alabarda era arma considerata molto adatta alle mischie di guerra e quindi
anche a respingere le calche popolari; detta compagnia era sempre comandata da un nobile
capitano italiano o spagnolo, spesso da un parente dello stesso viceré, e spagnolo era
perlopiù anche il suo luogotenente; il soldo complessivo pagato a questa compagnia, ufficiali
inclusi, per il mese di giugno 1670 fu di ducati 327 e grana 8 (A.S.N. Tes. An. Fs. 354),
mentre il totale per il periodo dicembre 1681 – giugno 1682 (dunque mesi 7) saranno ducati
2.474. 3. 15, il che significa che, a distanza di 12 anni, il soldo di base non era cambiato (ib.
ma fs. 352).
Oltre alle milizie ordinarie il regno disponeva sin dal 1563, cioè da quando l’aveva
dapprima costituita il viceré Parafan de Rivera duca del Alcalá (1559-1571) e poi, nel 1580,
riordinata il viceré Juan de Zuñiga principe di Pietra Perzia (1579-1582), di una milizia
territoriale di fanteria detta il Battaglione, la quale, esistendo in realtà con diversi nomi in tutti i
maggiori stati e regni italiani (cernide, sargentie, bande, milizie forensi o paesane ecc.), era
stata formata sul modello di una simile istituita in Spagna solo qualche anno prima
principalmente per difendere i territori costieri dalle incursioni dei turco-barbareschi; non si
trattava di un arruolamento, bensì di un'elezione e ogni sette anni si eleggevano appunto a tal
incarico cinque fanti ogni 100 fuochi, ossia uno ogni cento famiglie, essendo il fuoco o nucleo
familiare valutato mediamente di cinque persone. Il numero delle compagnie da formare,
ognuna delle quali, in osservanza alle norme tattiche di quei tempi, doveva essere costituita
da 300 fanti, cioè 200 archibugieri e 100 picchieri, non era stato originalmente prescritto, ma
nel 1615, anno in cui questa milizia fu riordinata dal viceré Pedro Fernando de Castro conte
di Lemos (1610-1616), esse era fissato in 74; nel 1687 il viceré Gaspar de Haro marchese del
Carpio le aumentò a 112, riducendone però la forza a 230 uomini ciascuna e ciò non in
osservanza a più moderne formulazioni tattiche, come si potrebbe pensare, bensì per ridurne
la dispersione in territori troppo ampi, il che ne aveva sino allora reso difficile il governo e le
periodiche adunate; quindi da allora in poi ogni compagnia avrebbe dovuto contare solo 20
moschettieri, 50 picchieri (10 di cui armati anche difensivamente di corsaletto) e 180
archibugieri.
Allo stesso suddetto scopo difensivo dei territori costieri c’era poi anche una cavalleria
leggera appunto territoriale, nota vulgo come la Sacchetta, la quale era stata fondata dal
viceré Antonio Perrenot cardinale di Granvelle (1571-1575) e stabilita dapprima in 1.200
uomini nelle sole province di Terra d’Otranto e Terra di Bari, eleggendosi un cavalleggero
ogni 100 fuochi; poi presto, nel 1577, il viceré Yñigo Lopez de Mendoza Hurtado marchese di
Mondejar (1575-1579) la portò a 3mila uomini, forza che fu poi confermata, ma variata nel
numero delle compagnie, nel 1614 dal suddetto conte di Lemos, suddividendosi quindi in
compagnie di 50 o di 100 uomini allora in maggior parte lancieri leggeri e in minore
archibugieri.
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In seguito alla guerra per la ribellione di Messina (1674-1678), temendosi un possibile
contagio di quell’episodio sul continente, per non mettere troppe armi in mano alla
popolazione la descrizione di miliziani del Battaglione fu nel 1678 diminuita per quella volta di
ben cinque volte e così per ogni 100 fuochi si descrisse un solo fante. Verso il 1680 il
Battaglione contava circa 17mila fanti e la Sacchetta circa 3.500 cavalleggeri armati però ora
di carabina e suddivisi in compagnie da 50 uomini, nel 1692 invece rispettivamente circa
20mila e 4mila; alla fine del Seicento i fanti erano 22mila divisi in 120 compagnie.
Questi miliziani erano teoricamente obbligati a periodiche riviste, ma in realtà erano
chiamati a raccolta ed eventualmente anche in servizio effettivo solo in caso di necessità; essi
non godevano di soldo fisso, bensì d'importanti indennità ed esenzioni fiscali elargite dalle
loro stesse Università (comuni); quando però erano chiamati a prestare un servizio attivo
ricevevano una piccola paga solo per quel numero di giorni in cui si chiedeva loro di servire I
loro statuti ne proibivano l’impiego all’estero, ma questa proibizione restò spesso lettera
morta. In ogni provincia del regno c'era un sargente maggiore preposto alle predette milizie
territoriali; egli provvedeva alla loro convocazione a scadenze fisse per passarle in rassegna
e farle esercitare nel maneggio delle armi e nelle manovre ed evoluzioni sul campo. Il rinnovo
dell'elezione di questi miliziani avvenne poi ogni otto anni e quindi per un tal periodo erano
obbligati a tenersi a disposizione.
I predetti due nomi con cui erano popolarmente conosciute queste milizie, le quali
saranno abolite da Carlo di Borbone nel 1743, nascevano dall’esser nella prima metà del
Cinquecento la fanteria di un esercito generalmente disposta in campo in un'unica grossa
formazione a imitazione di quella svizzera, allora quasi sempre vincente, cioè appunto in un
solo grande battaglione, e all’esser i miliziani di quella cavalleria dotati di una sacca da sella
per i loro effetti personali detta appunto sacchetta.
Poiché sia il Battaglione sia la Sacchetta erano per statuto ambedue corpi che, proprio
come i suddetti uomini d’arme, si dovevano adunare e impiegare solo per la difesa nazionale
e non si poteva quindi inviarli a combattere all’estero, gli abitanti del regno erano inoltre
chiamati regolarmente alle armi per la formazione di tercios di fanteria e compagnie di
cavalleria ordinarie e regolari da mandarsi in paesi stranieri, perlopiù nell’Italia Settentrionale,
in Catalogna, in Fiandra e talvolta anche in America, a combattere le guerre che la Spagna
conduceva ricorrentemente contro le altre grandi potenze europee; inoltre bisogna tener
presente che di fanterie napoletane fisse erano guarnite sia le galere dei particolari (‘privati’)
genovesi dei d’Oria duchi di Tursi sia l’armata di mare spagnola del Mar Oceano sia,
periodicamente, anche la Catalogna. Bisogna chiarire che non era affatto facile arruolare nel
Regno di Napoli, perché i suoi abitanti, naturalmente restii all’ordine e alla disciplina, non
amavano il servizio militare, al contrario di svizzeri e tedeschi che lo consideravano invece un
mestiere come un altro e il mercenariato un’ottima opportunità di guadagno; non a caso i
cimeli e i ricordi della Napoli militare sono sempre stati rarissimi e sconosciuti ai più. Pertanto,
per quanto riguarda la fanteria, si ricorreva regolarmente all'arruolamento forzato di
vagabondi e mendicanti e di miliziani del Battaglione, a quello di pena alternativa per
condannati a lunghe reclusioni, a quello che, come vedremo, prometteva in cambio una
buona somma di denaro e infine a quello di veri e propri ragazzi, per cui con una recente
cedola reale si era dovuto ribadire che era vietato assoldare minori di quattordici anni. I
coscritti di cavalleria erano invece giuoco forza persone più civili e qualificate, se non
addirittura nobili, o di già acquisita esperienza militare.
I comandi dei nuovi corpi erano sempre affidati agli stessi ufficiali maggiori regnicoli a
cui era stato conferito l’incarico di arruolarli e mai a spagnoli.
Un tercio di napolitani, cioè di regnicoli, era sin dal Cinquecento imbarcato in
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permanenza sull’armata oceanica spagnola e da fanteria di marina napoletana era pure
tradizionalmente guarnita la squadra dei particolari genovesi dei d’Oria, prima principi di Melfi
e in seguito, già da Carlo, secondogenito del principe Gian Andrea d’Oria (1539-1606), duchi
di Tursi, feudo della Basilicata che gli spagnoli dicevano Tursis. Questi corpi napoletani
all’estero ricevevano le nuove reclute di rimpiazzo e spesso anche il soldo e i rifornimenti dal
Regno di Napoli, considerato dalla Spagna il più ricco dei suoi possedimenti e quindi
continuamente molto spremuto da quella Corona a titolo di contribuzioni di guerra e altre
imposizioni e in aggiunta alle rimesse, ufficialmente spontanee, che esso faceva ai sovrani a
titolo di puro regalo; secondo un anonimo relatore che scriveva per Carlo VI d’Austria, solo
queste ultime ammontavano a ben 118 milioni di ducati per quanto riguardava unicamente il
periodo che andava dal regno di Filippo II a quello di Filippo IV.
Oltre alle predette cavallerie ordinarie e territoriali, si arruolavano ogni tanto compagnie
di cavalleria straordinaria, le quali perlopiù s’inviavano all’estero perché andassero a servire
nei vari teatri di guerra; invece dal 1675, troviamo infatti compagnie di cavalli corazze di
stanza in permanenza a Napoli col nome di cavalleria di nuova leva; inoltre dal 1701, essendo
l’Austria divenuta inopinatamente una pericolosa nemica, numerosi terzi spagnoli, detti
perlopiù provinciali perché andavano a servire nelle province della corona, e alcuni reggimenti
francesi cominciarono a esser inviati nel Regno di Napoli per aumentarne le difese e opporsi
all’incombente invasione; ma questa è storia che leggeremo nelle stesse Cronache che
seguono.
L’artiglieria del regno permanente era in effetti solo quella di cui erano dotati i castelli, le
fortezze e le torri, poiché del traino d’artiglieria da campagna solo lo stato maggiore era
sempre in servizio, ma, per quanto riguarda tutto il resto, esso non era permanente e si
formava volta per volta solo in caso di contingenti necessità di guerra, appaltandosene il
lavoro direttamente a una moltitudine di carrettieri, a evitare ruberie di buoi, cavalli e foraggi
e un uso privato di animali pubblici; il solo approntamento di quello che si rese necessario nel
1675 a causa delle turbolenze di Messina costò alla cassa militare ben 72.820 ducati (A.S.N.
Tes. Ant. Fs. 135 I). L’artiglieria da campagna era finalmente diventata efficace e importante
come quella d’assedio sin dalla guerra dei Trent’anni, quando era stata risolutiva in certi fatti
d’arme, per esempio nella grande battaglia di Nördlingen del 1634, dove la forte fanteria
stataria svedese, perso l’appoggio delle sue ali di cavalleria pesante, presto sconfitte e
scacciate dal campo, era rimasta facile e indifeso bersaglio appunto dell’artiglieria nemica,
restandone del tutto disfatta. Gli artiglieri e i loro allievi, anche se dispersi nei vari castelli e
luoghi fortificati del regno, erano però istituzionalmente riuniti in una compagnia, la quale
aveva una regola simile a quella delle compagnie cavalleresche e una scuola in cui i predetti
allievi erano istruiti ed esercitati. In effetti non c’era da parte della Spagna una sufficiente
attenzione a questa importantissima arma e lo dimostra un reale ordine dell’11 gennaio del
1685, il quale, essendo stati formati a Napoli degli impieghi soprannumerari d’artiglieria e
precisamente un gentiluomo, due aiutanti, un capitano dei petardi e due artiglieri semplici, ne
imponeva la cessazione immediata perché i preesistenti reali ordini proibivano la creazione di
tali stipendi; detto ordine reale fu ribadito da un altro simile nel 1695 ed erano quelli appunto
tempi in cui le leggi si dovevano di tanto in tanto confermare perché tendevano a perder la
loro forza con l’andar del tempo. La fonderia dell’artiglieria era situata in Castel Nuovo di
fronte all’arsenale e produceva ottime bocche da fuoco, spesso anche innovative, anche se
non in quantità pari a quella prodotta per esempio dalla fonderia di Genova, la quale si era
invece specializzata in una produzione di tipo commerciale, ossia abbondante ma di qualità
molto inferiore, spesso ottenuta con il riciclo di residuati di guerra importati all’estero, specie
dalla Francia, quali bombe (‘palle di ferro o di bronzo cave e piene di polveri piriche’) crepate
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e altre ferramenta residuali. La Real Polveriera, ossia la fabbrica delle polveri da sparo, di cui
molto si avvaleva la Spagna per le sue necessità belliche, era sita per sicurezza lontano dalla
città di Napoli e cioè in località Torre dell’Annunziata.
Le fortificazioni consistevano in quasi una trentina tra castelli, cittadelle, fortezze e
piazze fortificate situate lungo tutte le frontiere, terrestri o marine che fossero; c’era poi una
collana di centinaia di torri d’avvistamento costiere poste generalmente in posizione elevata
su capi e promontori e si trattava insomma di quel sistema di difesa confinaria allora comune
a tutti i maggiori stati marittimi europei inclusa l’Inghilterra. La difesa del confine terrestre
settentrionale del regno era affidata soprattutto al presidio della piazzaforte e castello di
Gaeta a ovest e al castello dell’Aquila e ad altre fortificazioni abruzzesi minori a est. La città di
Napoli era difesa da quattro castelli regi, i quali però, proprio perché effettivamente tali, ossia
delle fortificazioni di sola pietra, di tipo quindi ancora medievale, servivano, come del resto
anche quello dell’Aquila in Abruzzo, più a tenere a freno la popolazione che a preoccupare gli
invasori stranieri; si trattava del castello di S. Eramo, di quello dell’Ovo, di quello Nuovo e del
Torrione del Carmine. Il primo, costruito al tempo dell’imperatore Carlo V su un’originaria
fortificazione normanna detta Belforte e in seguito ampliata da Carlo II d'Angiò, prese, come
del resto lo stesso monte, il nome di Castello di Sant'Erasmo da una vicina e antica chiesetta
dedicata al detto santo, il quale fu vescovo di Formia e protettore della gente di mare, mentre
gli spagnoli lo chiamavano S. Telmo, riferendosi invece al loro beato Pedro Gonzalez Telmo,
ipocoristico (‘sincope’) quest’ultimo di vari antroponimi germanici come Cuntelmo, Lantelmo,
Rotelmo, Plitelmo ed altri, il quale era protettore dei marittimi di ponente, ossia oceanici, per
cui alla fine, per questo nome, si giungerà alla contaminazione e al compromesso storico di
‘S. Elmo’; questo era l’unico ad avere, anche se privo di terrapieni, una forma alla moderna,
cioè stellare a sei angoli, la cui maggior parte orientale era stata ricavata tagliando lo stesso
monte, ma la sua artiglieria era balisticamente poco efficace poiché, situato molto in alto
rispetto al corpo della città, doveva necessariamente tirare di ficco, vale e a dire dall’alto in
basso, il che significava che i suoi colpi andavano a conficcarsi in un solo bersaglio e non
potevano quindi ‘spazzare’ gli insediamenti del nemico come facevano invece i colpi sparati a
livello o di punto in bianco, cioè orizzontalmente al suolo.
Il secondo, proteso nel mare, era stato fondato dai normanni sulle rovine di un
insediamento romano detto palazzo di Lucullo e aveva preso il nome di Isola e Castello di San
Salvatore da una cappella dedicata al detto santo posta all'interno del castello stesso, ma in
seguito, rinnovato e fortificato dal viceré Juan de Zuñiga conte di Miranda (1586-1595) al
tempo del re Filippo II, il quale tra l’altro vi fece fare un ponte per unirlo alla terraferma,
prevalse il nome di Castel dell'Ovo e non per la sua forma ovoidale, bensì in considerazione
che molto coinvolto da una delle leggende virgiliane che, chissà perché, nacquero nel
Medioevo, e che, per brevità omettiamo di raccontare; essendo il più lontano dal corpo della
città, in esso, più che in quello di S. Eramo, non solo si carceravano i nobili, i quali spesso
potevano essere o diventare pericolosi congiurati, ma si conservavano anche le riserve di
polveri. Il terzo, detto Nuovo perché il suo primo nucleo era stato costruito dai normanni al
posto di un preesistente convento quando tutti gli altri castelli di Napoli erano già esistenti,
era stato poi in seguito potenziato prima da Carlo I d’Angiò, poi da Alfonso I d’Aragona, infine
trasformato in fortezza con baluardi, fossati e contromine dal viceré Pedro de Toledo
marchese di Villafranca al tempo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo; in esso si trovava la
Regia Monizione, ossia i magazzini d’armi, vestiari e altri generi militari per l’esercito nati dalla
vecchia armeria medievale. Trovandosi questo castello sito sulla riva del mare e molto vicino
al palazzo reale, uno dei più belli d’Europa, a cui lo univa uno stretto ponte levatoio, esso
serviva ora soprattutto da immediato rifugio per la Corte in caso di bisogno; ma il viceré e la
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sua famiglia disponevano anche di una scala segreta che dagli appartamenti reali portava al
sottostante arsenale e che potevano quindi utilizzare per andare a imbarcarsi segretamente in
caso di fuga o comunque di un necessario incognito.
Il Regio Torrione del Carmine, posto anch’esso sulla marina, ma più a sud, era stato in
origine per l’appunto solo un grosso torrione incorporato nelle mura difensive costiere della
città, destinato a tenere a freno la turbolenta popolazione del Mercato, ma, poiché al tempo di
Filippo IV, in occasione della rivoluzione di Masaniello, si era dimostrato del tutto insufficiente
allo scopo, anzi i rivoltosi se ne erano subito impadroniti con pochissimo sforzo, subito dopo il
viceré Yñigo Valez y Tassis conte di Oñate (1648-1653) l’aveva tanto potenziato da dargli la
consistenza e l’aspetto di un vero e proprio castello e infatti anch’esso alzava stendardo come
gli altri. C’era poi all’estremità del molo portuale, ossia all’imboccatura della darsena, la Torre
di S. Vincenzo, la quale, pur essendo guardata da un suo torriero, amministrativamente
faceva parte del complesso fortificato di Castel Nuovo e quindi dipendeva da quella
castellania; si trattava in effetti di un piccolo fortilizio il cui nucleo originario, cioè la torre,
sembra risalisse al tempo di Carlo I d’Angiò ed era tradizione che in essa i buoni padri di
famiglia facessero incarcerare i figli disobbedienti. Infine, all’estremità dell’argine portuale
c’era un altro fortino, detto questo di S. Gennaro, il quale era munito d’artiglierie. Una volta
era stato una fortificazione militare anche il Castello di Capuana, antica dimora dei re di
Napoli, ma poi dal 1537, cioè dal tempo del viceré Pedro de Toledo marchese di Villafranca,
sede dei regi tribunali di Napoli non militari, cioè quelli del Sacro Consiglio, della Regia
camera della Sommaria, della Regia Zecca di Pesi e Misure e della Gran Corte della Vicaria,
tribunale civile e penale, e, poiché anche il sistema difensivo murario che nel 1528 aveva
retto all’assedio di francesi di Odet de Foix visconte di Lautrec, era ormai da quella parte
semiscomparso, la città era ora sì difesa dalla parte del mare, ma praticamente indifesa verso
la grande pianura e solo un esercito posto in campagna avrebbe potuto colà opporsi a un
invasore.
I presidiari di castelli e fortezze dovevano essere, per motivi di fedeltà e quindi di
sicurezza, esclusivamente spagnoli naturali e infatti con una vecchia carta reale del 24 giugno
1585 si elogiava il viceré del tempo per aver licenziato da tali presidi gli jenízeros
(‘giannizzeri’), cioè i regnicoli figli di padre spagnolo e di madre italiana (… essendo egli nato
in Napoli figlio di spagnuolo e li chiamano giannizzeri… Fuidoro, 1672), perché il loro impiego
nei castelli era contrario alle ordinanze in vigore; spagnoli dovevano essere anche i torrieri o
caporali delle torri, anzi il sistema delle torri d’avvistamento, tanto generalizzato ed esteso nel
Cinquecento dagli spagnoli per la sua utilissima e insostituibile funzione, aveva, nel suo
aspetto d’istituzione, anche proprio il fine dichiarato di dare una casa e un reddito vitalizio a
quei soldati spagnoli del Regno di Napoli, i quali, ormai vecchi e sposati, fossero divenuti
disutili al servizio operativo, come già si legge in una carta del 27 gennaio 1575, con cui la
Real Corte di Madrid contestava al viceré del tempo che la maggioranza di dette torri
risultasse allora esser stata invece affidata a italiani e ordinava quindi di porvi rimedio. Questi
spagnoli presidiari fissi si potevano valutare in circa 1.500 od anche più a seconda dei periodi
storici e non erano da non confondersi quindi con i fanti delle compagnie del tercio che pure
s’inviavano a rotazione a presidiare detti castelli e fortezze nelle province più minacciate dal
nemico o dai banditi, tant’è vero che le compagnie di fanteria spagnola che restavano a
presidiare Napoli raramente superarono il numero di quattro.
Sarebbe stato improprio comunque appesantire questo nostro lavoro anche con lunghe
dissertazioni sulle fortificazioni del regno, potendosi il lettore interessato avvalere dei grossi
lavori del Mauro () e del Russo (), ambedue di facile reperimento nelle biblioteche napoletane;
ci limitiamo qui pertanto a ricordare i tre principali concetti che ispiravano l’arte della
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fortificazione al tempo in esame, concetti che il più delle volte dagli studiosi di oggi restano
poco o nulla compresi, perché le fortificazioni che il tempo ci ha lasciato sono solo quelle
lapidee, cioè di tipo ancora arcaico-antico-medievale, mentre quelle dette, a partire dal tempo
della Controriforma, alla moderna, fatte di grandi terrapieni spessi perlomeno 8 o 9 metri e alti
non meno di 5,50/6 metri, inoltre rigorosamente incamiciati di muratura perché si
mantenessero il più a lungo possibile in forma - ma in mancanza d’una adeguata cava di
pietra nelle vicinanze si poteva incamiciarli di lotte di prato o di fascine, si sono queste opere
naturalmente disfatte e deformate in breve tempo per la loro stessa natura terragna, a
differenza appunto dei più antichi castelli medievali, molti dei quali sono tuttora
sufficientemente integri, anche se talvolta molto cambiati da trasformazioni successive;
possiamo dunque oggi vedere queste fortificazioni alla moderna negli antichi disegni e
progetti, scoprirne qua e là qualche vestigia nel terreno e ravvisarne il tracciato nelle
fotografie aeree. Una seconda loro principale caratteristica, ossia le opere distaccate esterne
al fossato d’acqua – intendiamo dire rivellini, mezzelune, corone e strade coperte, sono ancor
più presto sparite non solo perché cancellate dal tempo, ma anche perché abbattute dai
posteri, i quali le hanno a torto considerate inutili ingombri, architettonicamente e
storicamente poco interessanti; eppure queste difese distaccate esterne erano di gran lunga
le più importanti, essendo infatti quelle che avevano il compito di mantenere gli assedianti più
tempo possibile lontani dalla controscarpa, luogo dove eminenze e concavità potevano
favorirne l’insediamento vicino, la costruzione di trincee e l’istallazione di batterie, e di
sostenerne quindi in sostanza i primi urti, ruolo questo che il semplice fossato pieno d’acqua
non era certo più in grado di sostenere; senza di esse qualsiasi terrapieno, anche il più
robusto, sarebbe presto o tardi crollato sotto il martellamento continuo delle batterie
d’assedio.
Dunque, espressi i primi due concetti ispiratori delle fortificazioni della seconda metà del
Seicento, cioè le opere esterne e l’uso, allora comunque ormai già inveterato, del terrapieno
incamiciato, molto più flessibile, assorbente e resistente al colpo di cannone rispetto a quanto
fosse stato il semplice muro lapideo medievale, dal quale oltretutto schizzavano
correntemente schegge pericolosissime per l’incolumità degli stessi assediati, il terzo e ultimo
era che misure e distanze andavano commisurate alla portata efficace del moschetto di
fanteria in uso nella seconda metà del Seicento, ossia sulle 120 tese francesi (circa 210
metri), in quanto, raggiunta questa distanza, il proiettile cominciava a perdere forza sino a
estinguersene del tutto il tiro verso le 150-160 tese; infatti è notorio che la fortificazione non è
altro che una difesa dalle armi offensive nemiche e una protezione per quelle amiche, quindi
deve evolversi di pari passo con l’evoluzione di tali armi. Commisurare la costruzione delle
fortificazioni alla portata del cannone era pressoché impossibile, sia perché questa era arma
dalla portata e potenza molto varia sia perché anche di più saltuario, complicato e costoso
uso della moschetteria.
Partendo dai suddetti tre pacifici concetti principali, poi ogni ingegniero o architetto
aveva sue personali convinzioni per quanto riguardava le forme e le lunghezze, ma
soprattutto le angolazioni di fianchi e cortine, per cui c’era chi ancora considerava accettabili
le certo ormai vecchie concezioni del romano Pietro Sardi o addirittura quelle ancora più
vecchie del bolognese Francesco de’ Marchi, chi invece considerava ormai all’avanguardia
quelle del francese Vauban, chi preferiva le realizzazioni del preclaro olandese Coehoorn
ecc.
Le forze di mare napoletane erano basate essenzialmente sulla squadra o stuolo di
galere, le quali erano state nel Cinquecento alcune decine, ma ora erano, alla fine del Seicento,
solo otto poiché, come del resto era avvenuto nelle marinerie di tutte le altre potenze
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marittime mediterranee, le galere erano andate gradatamente riducendosi di numero sia
per la concorrenza vincente dei grandi vascelli a prevalente vela quadra, ora molto più usati
in guerra a causa dell’ormai adeguata e sufficiente manovrabilità nautica da essi raggiunta nel
corso del Seicento, sia perché si trattava adesso di galere più capienti, quindi più
equipaggiate, attrezzate e potenti delle vecchie galere ordinarie sottili del Cinquecento.
L’arsenale, adiacente al palazzo reale e protetto dai cannoni del sovrastante Castel
Nuovo, era grande e comodo, potendocisi sia costruire contemporaneamente molte navi e
galere sia conservare tutti i materiali e le armi necessarie a un armamento marittimo e infatti
per questo conteneva anche una sua Regia Monizione; inoltre in esso trovavano sia
temporaneo alloggiamento sia scuola di primo addestramento i soldati di nuova leva destinati
a essere imbarcati e inviati oltremare ai vari fronti di guerra. Il Regno di Napoli era noto anche
per l’eccellenza dei suoi remolari, ossia degli operai specializzati nella fabbricazione di remi
da galera, e il centro di più antica tradizione in tal senso era Cetraro in Calabria, abbondando
infatti la vicina Sila, oltre che di pini adattissimi alle alberature navali, anche di vaste faggete,
ma si andavano a caricare remi anche alla foce del fiume Tusciano, oggi località Spineta
(Battipaglia); la Spagna si avvaleva moltissimo di questa produzione per rifornirne i suoi
arsenali e pertanto ordinava ricorrentemente al viceré di Napoli la spedizione di migliaia di
aste di remo a Barcellona.
Gli alti vertici militari di terra e di mare erano innanzitutto quattro cariche più onorifiche
che operative e le cui competenze sfumavano pertanto le une in quelle dell’altro; si trattava
del capitano generale del Regno, ossia lo stesso viceré, del gran contestabile, luogotenente
del re in guerra, del governatore dell’armi, il quale nel 1702 percepiva uno stipendio di mille
scudi il mese e del grande almirante, capo di tutto il ramo marittimo militare, arsenale incluso.
Invece gli alti ufficiali veramente operativi erano altri e cioè innanzitutto il mastro di campo
generale, vero capo sia della fanteria sia della cavalleria e sia era affiancato da due tenenti
generali fissi e da uno soprannumerario, inoltre da due aiutanti di tenente generale fissi e da
uno soprannumerario; dal 1677 anche nell’esercito del Regno di Napoli fu introdotta la figura
del sargente generale di battaglia, destinata a sostituire quella predetta di tenente di mastro di
campo generale e a prendersi gli aiutanti di questo. C’erano poi il capitano generale della
cavalleria, la quale sino al 1685 ebbe anche un luogotenente generale, il capitano generale
dell’artiglieria (in Francia grand-maistre de l’artillerie), il quale era coadiuvato da un tenente
generale alcuni ufficiali subalterni detti gentiluomini dell’artiglieria, l’ingegniero delle
fortificazioni e il suo aiutante, un cappellano maggiore del Regno, gli uffici militari della
Scrivania di Razione, quindi della Contaduria (‘computisteria’), Pagatoria e Veditoria
(‘provveditoria’) Generale, i quali si occupavano dell’amministrazione e della contabilità
dell’esercito, cioè dei razionamenti, degli acquisti, delle riviste, delle ispezioni commissariali e
delle paghe, essendoci un pagatore della fanteria, uno della cavalleria, uno delle monizioni,
uno delle galere e uno dei castelli; c’erano ancora il personale della Regia Monizione di
Castel Nuovo, il monizioniero d’Aversa, tradizionale quartiere della cavalleria, e quello della
piazzaforte di Capua, l’auditore generale dell’esercito con il personale della sua audienza cioè
del suo tribunale militare, già più sopra menzionato, il quale dipendeva dal gran contestabile,
e infine il capitano generale della squadra di galere, assistito questo da un tenente generale,
comandante in seconda detto in spagnolo quatralbo, perché la sua galera si riconosceva da
un piccolo vessillo appunto di forma quadra e di color bianco e non perché comandasse
quattro galere (‘quattro alberi’), come poi erroneamente si è creduto, tanto più che la galera
non aveva un solo albero, bensì due. Lo stato maggiore delle galere comprendeva anche, tra
gli altri, un algozino reale e un cappellano maggiore.
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Cronache 1668-1707.
1668. In quest’anno, mentre Napoli era governata dal viceré spagnolo Pedro Antonio Ramón
Folch de Aragón duca di Segarbe e Cardona (1666-1671), il trattato di Lisbona, con cui la
Spagna riconosceva finalmente l'indipendenza del Portogallo e il suo impero coloniale, Ceuta
in primis, e la pace d’Aquisgrana che nel maggio poneva invece fine alla cosiddetta Guerra di
Devoluzione tra Spagna e Francia per il predominio sulla Fiandra, avevano procurato
all'Europa occidentale un altro di quei brevi periodi di non-belligeranza di cui ogni tanto
riusciva a godere non ostante la continua bellicosità della Francia, regno che il diarista
napoletano Innocenzo Fuidoro (pseudonimo di Vincenzo d'Onofrio) definiva una nazione così
barbara e tiranna che non sa stare un quarto d'ora in schietta amicizia col suo prossimo,
accomunandola così con l'impero ottomano, di cui la Francia stessa aveva sempre cercato
l'alleanza, tacita o dichiarata che fosse, per controbilanciare la potenza marittima
mediterranea della Spagna con la sterminata armata di mare del Gran Turco; forse il senso di
colpa per aver in tal modo tanto nociuto alla cristianità portò poi la Francia prima ai pesanti
bombardamenti d’Algeri e d’altre città costiere dell'Africa settentrionale negli anni 1683-1684
e in seguito a quella conquista dell'Algeria iniziata nel 1830 e con cui si dava molto tardiva
fine alla pirateria barbaresca che per tanti secoli e fino allora aveva infestato e tanto
dannificato le riviere cristiane del Mediterraneo con innumerevoli lutti, dolori e distruzioni.
Napoli aveva sempre partecipato alle vicende belliche della Spagna con invio di uomini
e di mezzi ai vari teatri di guerra e a questa poco conosciuta realtà storica si riferisce, per
esempio, un rogito del 6 gennaio 1668 stipulato dal notaio napoletano Francesco Antonio
Montagna e conseguente a un partito (appalto) per la fornitura di 2500 vestiti di monizione,
ossia abiti militari, destinati all’infanteria italiana, cioè a quella reclutata tra i regnicoli che di
quando in quando era raccolta e inviata all'estero. Il partitario (appaltatore) era in
quest’occasione tal Antonio Fasanella, il quale, come si legge nel documento conservato alla
Sezione Militare dell'Archivio di Stato di Napoli, aveva già consegnato alla Regia Monizione
500 dei suddetti vestiti nel precedente dicembre e s’impegnava ora di consegnare i residui
2.000 in quattro rate da 500 ognuna, ultima di cui scadente alla fine del vegnente aprile.
Alle 19 del venerdì 24 febbraio lasciarono Napoli cinque galere che portavano nei
Presidi di Toscana circa mille fanti per mutarne e contemporaneamente raddoppiarne la
guarnigione a causa delle minacce francesi; si trattava di 800 fanti spagnoli e 200 italiani di
nuova leva, quelli del terzo fisso e questi invece condannati a pene detentive a cui la
condanna era stata convertita a servire nell’esercito per le esigenze della guerra. Erano stati
a tal scopo tolti dal remo delle galere anche e soprattutto quei pochi spagnoli che, avendo
commesso gravissimi reati, vi erano stati condannati; si trattava di una pena che solo molto
eccezionalmente s’infliggeva a rei di nazionalità spagnola e, quando pure vi si arrivava, si
liberavano poi dopo poco tempo, come confermerà il Fuidoro con la sua seguente
annotazione datata 8 giugno 1669:
… La mattina seguente fu mandato in galera lo spagnolo per ordine del viceré, dove per poco
tempo vi dimorarà, com’è costume.
Le suddette galere torneranno infatti a Napoli sabato 10 marzo con i 500 spagnoli che
avevano formato la vecchia guarnigione di quelle fortezze, per dove l’11 aprile ripartiranno
portandovi altri 800 fanti italiani di nuova leva. Poiché questi avvicendamenti di presidiari
avvenivano regolarmente e periodicamente in tutti i principali presidi del regno e delle piazze
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marittime di Toscana che dal regno dipendevano ed erano pertanto avvenimenti ripetitivi, ci
limiteremo d'ora in avanti a riportare solo quelli che eccedeva l'ordinarietà delle cose.
Mercoledì 21 marzo tornava frattanto a Napoli dalla Spagna Luise Poderico, uno dei
militari napoletani che più si era distinto all’estero raggiungendo infatti l’altissimo grado di
capitano generale; invece tra i militari più importanti allora residenti nel regno si distingueva
fra’ Titta (Gioan Battista) Brancaccio (il fra’ stava, com’è noto, a significare cavaliere
gerosolimitano o di Malta), il quale era capitano generale dell’artiglieria e governatore
generale dell’armi dei Presidi di Toscana, mentre tenente generale dell’artiglieria era allora lo
spagnolo Gabriel de Acuña.
Oltre a quella del Brancaccio, le altre principali cariche militari del regno erano in quel
tempo esercitate da Vincenzo Tuttavilla duca di Calabritto, il quale era allora mastro di campo
generale dell'esercito e dei presidi fermi, e da Gioannettino d’Oria, generale della squadra di
galere di Napoli.
Mercoledì 23 maggio, essendo arrivata nella rada di Napoli la squadra delle cinque
galere pontificie con il loro generale fra’ Vincenzo Rospigliosi, cavaliere di Malta e nipote del
pontefice Clemente Nono, la quale si stava recando al soccorso di Candia, assediata dagli
ottomani, il viceré de Aragón uscì a incontrarla con le sette galere di Napoli e, dopo averla
fatta salutare con lo sparo di tutti i cannoni, accolse il Rospigliosi nella sua Capitana e lo
condusse a terra. L’ospite si reimbarcherà poi sulla sua squadra per ripartire domenica 27
carico dei regali ricevuti e cioè di sei cavalli della razza (‘allevamento’) reale di Napoli, molti
vitelli, canditi, botti di vino e altri rinfreschi per le galere e infine una gran quantità di finissime
biancherie regalategli dalla viceregina. Lunedì 28 maggio si pubblicò anche a Napoli la pace
conclusa tra Spagna e Portogallo dopo ben 28 anni di sanguinosa guerra, a ciò spinta la
prima dalla necessità di potersi così opporre più validamente in Fiandra alle possenti forze
francesi. A luglio giunse a Napoli la notizia dell'assassinio del viceré di Sardegna, Manuel
Mendoza marchese di Camarassa, commesso da alcuni nobili cagliaritani ribelli; si trattava
del quinto viceré ucciso in Sardegna e perciò era nato a Napoli il proverbio che valevano di
più gli asini sardegnoli che i cavalli napoletani, con chiaro riferimento, oltre che agli animali
domestici più tipici dei due regni, anche alla circostanza che mai i napoletani erano riusciti a
uccidere un loro viceré, anche se spesso taluni dei nobili l'avevano potuto probabilmente
desiderare. Per riprendere il controllo di quell’isola nella notte del venerdì 3 agosto si
spedirono a quella volta sei galere della squadra di Napoli, mancando infatti la sola Capitana
del detto d’Oria, lasciata a Napoli perché priva di paghe, e quattro di quella di Sicilia, le quali
portavano a bordo, oltre ai loro soliti equipaggi, 2.100 fanti, tra spagnoli, italiani e 800
alemanni; tutte queste galere non erano comandate dal d’Oria, perché costui, probabilmente
per motivi connessi alla detta mancanza di paghe, era in questione col viceré e di
conseguenza loro condottiero in questa spedizione era Fadrique de Toledo y Ossorio
marchese di Villafranca e duca di Ferrandina, capitano generale della squadra di galere di
Sicilia dal 5 giugno 1666 sino al 21 marzo 1670, quando diventerà generale di quelle di
Napoli, per poi assumere il 3 gennaio 1671 il governo pro interim del regno sino a tutto il
seguente febbraio in sostituzione del viceré de Aragón partito quel giorno per Roma, dove si
recava a far atto d’obbedienza al nuovo pontefice Clemente X; infine sarà per due anni viceré
di Sicilia (1674-1676). Dopo qualche giorno però si vide questa spedizione tornare indietro
richiamata da un oscuro contrordine. Fu presto eletto nuovo viceré di Sardegna il napoletano
Francesco Tuttavilla duca di S. Germano, fratello del predetto Vincenzo, il quale aveva
pertanto lasciato poco prima il governo delle province spagnole di Navarra e di Guipuzcoa.
I detti 800 alemanni erano arrivati da poco a Napoli per essere impiegati nella difesa del
regno allora esposto agli insulti francesi; il Fuidoro paragonava la regolarità e abbondanza
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della paga da loro pretesa e percepita alla scarsezza e solito ritardo del soldo che invece si
pagava agli spagnoli, vero nerbo delle difese del regno:
Le milizie spagnuole quasi con quel poco soccorso (‘parte di paga’) si mantengono ed è
miracolo che non sia successo abbottinamento (leggi ammotinamento) e saccheggiare la
città; li alemanni, in numero di 800 arrivati a Napoli, ben pagati e alloggiati alli Studi
(‘Università’) e a Chiaia, guastano (‘costano’) 600 docati il giorno di paghe con il depiù delli
letti.
Mercoledì 25 luglio fu inaugurata la nuova grande darsena voluta dal suddetto viceré de
Aragón, essendo la precedente molto esposta ai venti di scirocco e di levante; si trattava di
una profonda e larga escavazione fatta in riva al mare, accanto all’arsenale, e corredata
all’intorno da nuovi magazzini per tutti gli arredi necessari alle galere e da un ospedale per
forzati e schiavi di galera. L’inaugurazione avvenne facendovi il loro primo ingresso le sette
galere della squadra reale napoletana e due di quella di Sicilia che si trovavano in visita a
Napoli con il loro generale Federico de Toledo marchese di Villafranca e duca di Ferrandina,
il tutto con grande accompagnamento di salve dei cannoni e della moschetteria e archibugeria
della fanteria spagnola e mentre a detta cerimonia assisteva la viceregina dall’alto del
pallonetto (‘belvedere’, sp. mirador) di palazzo. Con il nuovo suddetto ospedale si aboliva la
vecchia e sdrucita pulmonara, ossia la ‘galera ospedale’, che si trovava da sempre al molo di
Napoli e nella quale forzati e schiavi malati molto pativano e la si sostituiva con un vero e
proprio nosocomio sito in effetti addirittura nel complesso del palazzo reale, avendo fatto
ristrutturare infatti a tal scopo dei locali che si trovavano dalla parte del mare sotto il predetto
corridoio panoramico detto pallonetto e che fu a sua volta trasformato in nuova Scrivania di
Razione, questa prima d’allora situata in un vecchio edificio che si trovava fuori del recinto
dell’arsenale; quest’ultimo, proprio per far posto a detta nuova grande darsena, ai nuovi
magazzini e a un alloggiamento per i soldati di nuova leva destinati a esser mandati
oltremare, era stata diminuito di diverse arcate, ma senza nulla perdere della sua grande
potenzialità costruttiva.
Sabato 4 agosto, giorno di S. Domenico, si pubblicò anche a Napoli la predetta pace tra
Spagna e Francia stipulata nel maggio precedente ad Aquisgrana e ci furono per questo
cerimonie pubbliche e una bella e grande sfilata delle corporazioni cittadine, il tutto
accompagnato da salve di tutte le artiglierie dei castelli.
In quel periodo Candia, tenuta dai Veneziani, sosteneva con difficoltà veementi assalti
dei turchi e Napoli, Malta, la Sicilia e lo Stato della Chiesa, avevano già inviato colà dei
soccorsi nel giugno dell'anno precedente; ora, mercoledì 12 settembre, era spedita per ordine
reale una grossa partita di munizioni da guerra ai veneziani di Candia per mezzo di una gran
nave inglese appositamente venuta a Napoli per caricarla. Nello stesso settembre furono
intanto licenziate le suddette fanterie alemanne che, come abbiamo detto, erano giunte solo
mesi prima, cioè quando la guerra contro la Francia era ancora in corso, perché ovviamente
ora non più occorrevano:
Si sono cominciati a partire l'alemani e quelli che sono remasti per partirse ancora, non
avendo le paghe ritenute da’ loro colonnelli e pagate dalla regia corte, vanno pezzendo per
Napoli.
Perché ora i colonnelli degli alemanni trattenessero le paghe dei loro soldati non
sappiamo, né era loro costume giacché i mercenari tedeschi e svizzeri erano, come abbiamo
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appena accennato, proprio quelli che più si facevano economicamente rispettare, essendo
considerati da questo punto di vista insaziabili e, se non pagati puntualmente, facili allo
sbandarsi e alle rivolte; comunque, per loro fortuna o sfortuna, queste soldatesche
mercenarie - si trattava di 600/650 uomini residui per il trasporto marittimo di cui da Pescara a
Trieste, con relative razioni alimentari, si fece partito sabato 22 settembre, come risulta da un
atto notarile originale - saranno presto assoldate dai veneziani per la guerra di Candia, isola
di cui era allora governatore generale dell'armi un vecchio napoletano, cioè fra’ Vincenzo
della Marra, il quale era stato prima capitano generale della cavalleria dell’esercito spagnolo
di Pedro de Aragón marchese di Povar e poi mastro di campo generale dell'esercito
veneziano, ossia comandante di tutta la fanteria della Serenissima; egli, dunque tra i più
distinti e importanti ufficiali generali napoletani del tempo, morirà purtroppo nel corso di
questa sfortunata difesa di Candia.
1669. Da un avviso di Milano, nel quale si cita una corrispondenza da Roma del 30 gennaio
1669, risulta che, evidentemente tra la fine dell’anno 1668 e l'inizio di questo, fanterie
napoletane di nuova leva erano giunte da Napoli a Barcellona, dove se ne doveva formare un
terzo, ossia un’unità di fanteria simile al reggimento, da inviarsi a servire nei Paesi Bassi e il
nobile napoletano Titta (Gioan Battista) Pignatelli si era recato alla Corte di Madrid per
ottenerne la patente di maestro di campo, titolo equivalente a quello di colonnello nella
cavalleria. Un altro avviso, anch'esso milanese, riportando lettere da Napoli del 17 aprile di
questo stesso 1669, c’informa che da quel porto erano in partenza sia le galere napoletane
sia quelle delle altre squadre tirreniche della monarchia spagnola per andare a portare aiuto
all'armata veneta impegnata nella difficile difesa di Candia, isola che purtroppo nell’ottobre di
questo stesso 1669 cadrà in potere dei turchi, non ostante la strenua resistenza dei veneziani
comandati da Francesco Morosini e aiutati pure dalla Francia, la quale si apprestava
anch'essa a inviare un’armata, ossia una flotta da guerra, in soccorso di quell'importante
isola; nella timorosa attesa del passaggio di tale armata, nel maggio il viceré di Napoli fece
rinforzare i presidi costieri del regno perché, anche se tra Spagna e Francia si era, come
sappiamo, ristabilita la pace, sempre possibili occasionali atti d’ostilità. Mercoledì 22 dello
stesso maggio partirono ancora per la Sardegna tre galere napoletane che portavano 550
fanti spagnoli e italiani per rinforzare l’ancora non ben radicato governo del duca di S.
Germano, nuovo viceré di quella turbolenta isola, mentre vi convergevano anche spedizioni
militari provenienti da Spagna, Milano e Sicilia; per esempio il viceré di quest’ultima, il duca di
Alburquerque, vi inviò con le galere 300 soldati spagnoli del presidio di Palermo; le tre
predette galere faranno ritorno l’8 giugno. Tra le milizie provenienti dalla Spagna c'era anche
il terzo napoletano del mastro di campo Marzio Origlia duca d'Arigliano, il quale ne aveva
assunti il grado e il comando in Portogallo sin dalla fine del 1659; il suo terzo aveva infatti
valorosamente combattuto in quella guerra e poi, dopo la campagna in Sardegna, sarà
trasferito nei Paesi Bassi unitamente ad altri due terzi italiani; colà parteciperà alla sfortunata
difesa di Maastricht nel 1673 e infatti fu tra i reparti che uscirono da quella città dopo la sua
capitolazione. Dallo stato degli ufficiali morti in quell'assedio abbiamo ricavato un elenco di 12
compagnie che facevano parte del predetto terzo dell'Origlia o che probabilmente lo
costituivano per intero e tra loro c'è da notare una novità assoluta per le fanterie della Spagna
e cioè un’intera compagnia di granatieri, specialità esistente solo da pochi anni e che fino
allora era stata impiegata nei terzi solamente distribuita in ragione d’alcuni granatieri per ogni
compagnia. Ecco dunque l'elenco delle predette compagnie con i nomi di dieci dei loro
capitani comandanti:
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01. Compagnia del mastro di campo.
02. Vincenzo Sicola.
03. Velori.
05. Lubuan.
06. Velasco.
07. Duro
08. Bracie (sic).
09. Romaunio (forse ‘Romano’).
10. Dortasupi (sic).
11. Caponegro.
12. Compagnia dei granatieri.
Le perdite del terzo durante la difesa di Maastricht erano state notevoli, essendosi infatti
ridotto il suo piede, ossia la sua forza, a soli 175 uomini; pertanto nel luglio dello stesso anno
l'Origlia poi ricevette 530 fanti italiani giunti dalla Spagna a rinfoltire i suoi scarsi ranghi ridotti
ormai a soli 175 uomini. In seguito i francesi smisero d’attaccare l'Olanda e cominciarono
invece ad assalire la Fiandra spagnola, dove fu quindi trasferito l'Origlia con il suo terzo,
prima a presidiare Namur e poi Carlemont, questa più coinvolta nelle operazioni di guerra.
L'Origlia fu poi promosso sargente generale di battaglia e all'inizio del 1677 parteciperà al
fallito tentativo di soccorrere S. Omer assediata dai Francesi. La pace di Nimega del 1678
durò solo pochi anni e infatti nel 1682 l'Origlia si troverà a comandare la difesa di
Lussemburgo insieme col principe Chimay, governatore di quella piazza. A cominciare dal 21
dicembre di quell'anno i francesi lanciarono su quella disgraziata città ottomila bombe da
mortaio, le quali appena vi lasciarono in piedi una decina di case malferme. Bruxelles si
arrese onorevolmente il 6 giugno del 1683, ma nella primavera dell’anno seguente il re di
Francia, volle approfittare ancora della potenza dei suoi nuovi mortai e, dichiaratosi mal
soddisfatto del comportamento di Genova, le inviò contro un’armata di vascelli, legni da fuoco
o brulotti, galere e palandre da bombe e carcasse a scaricarvi, nei giorni di Pentecoste, un
diluvio di fuoco. In aiuto del capoluogo ligure accorse il governatore di Milano, Juan
Henriquez de Cabrera conte di Melgar, con soldatesche spagnole, napoletane e lombarde e
l'Origlia fu richiamato dalla Fiandra col nuovo incarico di governatore dell'armi regie in
Genova, ma, quando vi giunse, la questione era ormai risolta e le ostilità terminate. Questo
terribile bombardamento di Genova lasciò una gran paura delle bombe francesi, timore che
per molti anni a venire trasparirà spesso nella stesura degli Avvisi, specie di quelli editi
nell’Alta Italia.
A proposito delle suddette palandre da bombe, ci sembra opportuno spiegare meglio
che cosa fossero. In effetti risulta che questo tipo di esiziali vascelli sia stato inventato e usato
per la prima volta nel 1586 all’assedio d’Anversa da Federico Giambelli, un ingegniero italiano
che serviva nell’esercito di quel grande capitano generale che fu il duca di Parma Alessandro
Farnese; in seguito Maurizio d’Orange-Nassau (1567-1625) si era servito di una di queste
batterie naviganti, nel frattempo battezzate dai francesi machines infernales, per bombardare
e incendiare Le Havre; avvenuti poi i suddetti bombardamenti d’Algeri, sembra che, durante le
ultime guerre combattute da Luigi XIV, inglesi e olandesi avessero progettato di usare una di
queste machines infernales nel bombardamento di Saint Malo del 1695 (de la Chesnaye). In
effetti si trattava di vascelli, non si sa se ai suoi inizi cinquecenteschi tondi o remieri, usati
come batterie galleggianti di mortari e quindi adeguatamente trasformati; in seguito furono
usati anche da altre nazioni e poi tralasciati, finché verso il 1680 un ufficiale francese,
Bernard Renaud d’Eliçagaray, la ripresentò come sua invenzione e la propose per dare una
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lezione alla città d’Algeri, covo di dannosissimi ladroni di mare, idea che fu accolta da Luigi
XIV; si trattava ora certamente di un vascello tondo, ossia di un veliero a prevalente vela
quadra, di cui si costruirono all’inizio cinque esemplari, e si trattava di un’imbarcazione molto
forte di legno, a fondo piatto, priva di ponti, ma fornita di corsie e che serviva unicamente
come batteria galleggiante da mortai, potendosi però usare solo in tempo di calma perché di
basso bordo come le galere; era infatti armata, oltre che d’alcune bocche da fuoco
tradizionali, soprattutto di due di tali mortiferi pezzi lanciabombe montati ognuno su un suo
supporto girevole radicato su un bassissimo falso ponte costruito sul fondo di cala, il quale
serviva loro da pedana di sostegno, e la Francia fu con essa in grado di mettere in atto
intensissimi e rovinosi bombardamenti marittimi, oltre a quelli, anche spesso decisivi, che già
con simili mortari metteva in atto nelle guerre di terra; si veda per esempio quello terribile di
Bruxelles che avverrà nel 1695. A queste micidiali batterie di mortai naviganti, capaci di
lanciare le loro bombe a un chilometro e mezzo di distanza, fu dato in Italia l’improprio nome
di palandre a bombe, non appropriato perché palandre non era altro che il frutto di una
contaminazione tra palandarie, nome basso-medievale con cui erano chiamati dai cristiani i
vascelli turchi passacavalli, cioè dei velieri ottomani attrezzati e adibiti soprattutto al trasporto
di tali animali, e l’alto-medievale chelandre o salandre, specie di galeotte bizantine appunto a
due ordini di remi per lato e con equipaggio complessivo di circa 150 uomini, attrezzate a
lanciare il fuoco greco contro i vascelli e le istallazioni costiere del nemico per mezzo di
macchine di bordo ruotanti atte a sollevare e catapultare gravi pesi e dette γέρανοι in greco e
grues in latino, le quali quindi in un certo senso potevano essere ricordate da queste moderne
batterie galleggianti. In Francia invece furono conosciute come galiotes à mortiers, galiotes à
bombes o machines infernales (ol. spring-schip, bombardeerd-galjoot), nome che si rifaceva
non alle galeotte mediterranee, vascelli questi remieri, ma a quelle oceaniche olandesi, le
quali erano invece dei velieri a prevalente vela quadra; bisogna infatti ricordare che, con inizio
dal Seicento, gli olandesi daranno questo nome di galeotte – probabilmente in paragone ai
grandi galeoni - a dei loro vascelli tondi di media grandezza e di tutto rispetto, generalmente
lunghi dagli 85 ai 90 piedi francesi, con cui essi raggiungeranno anche le Indie, nonché a vari
altri tipi di vascelli più piccoli, alcuni di una forma che stava tra quella dei predetti e quella
delle pinasse (dal fr. espinace; lt.md. spinachium), altri di basso bordo che serviranno da
yachts, ossia da ’avvisi’, e altri ancora da pesca; questi vascelli saranno caratterizzati, oltre
che dall’alberatura en fourche, soprattutto dall’aver la loro maggiore larghezza in
corrispondenza della sommità della prua. Dette nuove galeotte da bombe francesi furono
inaugurate nel terribile bombardamento d’Algeri dell’agosto del 1682, azione eseguita da
un’armata comandata dall’ammiraglio Abraham du Quesne e composta di 11 vascelli
(‘velieri’), cinque galere, cinque galeotte lanciabombe capitanate dal suddetto Monsieur
Renaud, tre brulotti, alcuni velieri a flauto e diverse tartane, armata che, pur provocando alla
città corsara grandissime rovine e 700 morti, non poté però portare a termine il suo compito
perché, assalita da una burrasca, dovette lasciare la rada d’Algeri prima del previsto; ma il
bombardamento del giugno-agosto dell’anno seguente, eseguito con sette delle predette
galeotte, riuscirà comunque ancora più devastante per la città corsara, anche se nel corso di
questo il du Quesne, essendosi rifiutato, per motivi non ben chiari, di adoperare due enormi
mortai di cui uno lanciava bombe da ben 84 quintali di polvere, sarà sostituito nel comando da
Anne-Hilarion de Costentin de Tourville. Ulteriormente aumentate a 10, questi micidiali
vascelli francesi saranno poi adoperati anche nel famigerato e terribile bombardamento di
Genova del maggio 1684, durante il quale essi, ora comandati dal cavaliere di Malta des
Gouttes, ancoratisi davanti alla torre della lanterna e ai borghi nei pressi del Bisagno,
lanceranno in 12 giorni sulla disgraziata città ben 13.300 bombe; qui di nuovo il du Quesne,
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appoggiato dal suo subordinato duca di Vivonne, contesterà gli ordini e sarà sostituito dal de
Tourville; i genovesi si arrenderanno e pagheranno una forte indennità, ma anche i francesi
avranno subito forti perdite e i loro tanti commercianti residenti a Genova saranno rovinati.
Nell’estate dell’anno successivo toccherà a Tripoli, bombardata da un’armata di 16 galere, 15
vascelli e cinque palandre uscita dai porti della Provenza e costretta ad accordi di pace con
l’immediato pagamento di un tributo e il rilascio di 180 schiavi cristiani, incluso un nobile
inglese, i quali saranno portati a Tolone; infine, la Francia userà le sue lancia-bombe ancora
contro Algeri nell’agosto del 1688 e in quest’ultimo bombardamento saranno lanciate sulla
città corsara, di cui era allora dey il rinnegato corso Hadji Hussein, detto dai cristiani Hassan
Mezzomorto, ben diecimila bombe, cioè tutta la scorta a disposizione della squadra francese.
Non sappiamo se queste galeotte fossero sotto il comando di un apposito ufficiale generale o
sotto quello del capitano generale delle galere, allora Louis de Rochechouart, duca di
Mortemar. La Francia otterrà quindi da quest’innovazione grossi risultati e ulteriore prestigio
militare, restandone molto impensierita la stessa Costantinopoli, ma presto se ne doteranno
anche le altre potenze marittime.
Tornando ora all’Origlia, diremo che fu poi nominato capitano generale dell'artiglieria del
Regno di Napoli, incarico che sino a quel tempo era stato in pratica condiviso dal già ricordato
e ormai defunto fra’ Gian Battista Brancaccio, morto infatti il 19 febbraio 1686, e da Diego de
Quirosa, generale dei castelli del regno, e rivide così finalmente la sua patria dopo ben
quarant'anni d’assenza, esercitandovi però contemporaneamente per un anno anche la
funzione di mastro di campo generale pro interim, finché questa, nel seguente 1687, fu
conferita a Fernando Gonzales de Valdés, capitano generale dell’artiglieria del ducato o Stato
di Milano, con lo stipendio che avevano preso i suoi predecessori più un soprassoldo di 200
ducati mensili. Nel 1688 sarà anche vicario generale dei Presidi di Toscana, dove si temeva
un attacco dell'armata francese con quel suo enorme potenziale distruttivo costituito dalle
galeotte bombardiere e da un micidiale tipo di proiettile detto carcassa, il quale rassomigliava
a una grossissima granata ed era usato dai francesi col massimo profitto; fortunatamente
l'attacco non ci fu. Lo Stato dei Presidi di Toscana era in pratica quell’insieme di quattro
fortificazioni (Orbitello, Talamone, Port’Ercole e Piombino) di cui solo l’ultima, una piazza
fortificata, non apparteneva al Regno di Napoli, bensì al principe di Piombino, e che in teoria
doveva fargli da antemurale di difesa, mentre in pratica riuscì a tal fine quasi sempre
pressoché inutile. Le guarnigioni di queste fortificazioni si mutavano una volta l’anno, colà
portate dalle galere, ma talvolta, quando la situazione internazionale destava delle
preoccupazioni, vi si mandavano dei rinforzi straordinari; accenneremo quindi a questi
avvicendamenti solo quando presenteranno caratteri o significati particolari.
Lasciando ora le vicende di Marzio Origlia, ritorniamo alla fine del 1669, quando cioè il
più gran problema che travagliava il Regno di Napoli era senza dubbio la presenza di più di
mille banditi attivi nell'Abruzzo e a cui non si riusciva a trovare un definitivo rimedio. Il
brigantaggio abruzzese era infatti difficilissimo da estirparsi sia per l'asperità di quella
provincia, sia perché era aizzato e sostenuto da agenti francesi e veneti, sia perché quei
masnadieri erano fuorusciti che avevano le loro basi nel confinante stato pontificio dove,
anche se messi alle strette dai soldati del regno, potevano sempre trovare rifugio e
protezione, anche se non dichiaratamente; si diceva inoltre a Napoli che i caporali di
campagna abruzzesi, ossia gli ufficiali della polizia giudiziaria provinciale, fossero conniventi
con i banditi e con loro spartissero i proventi delle rapine e delle razzie:
(Luglio 1670) Li banditi per ogni provincia fanno quello che vogliono e spartono con li caporali
di campagna e alcuno delli presidi spagnuoli (Fuidoro).
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Lo stesso diarista sei mesi dopo estenderà il concetto anche alla capitale del regno,
facendo però ora nome e cognome:
(Gennaio 1671) Veramente, si sentono per la città assai ladroni, ma, perché tengono tutti
soggezione di contribuire a capitan Carlo Vassallo, capo di birri assassini e fur(fan)ti, quando
uno di costoro non ha più di che contribuirgli, allora lo fa perire…
È questo della corrotta connivenza dei tutori dell’ordine del tempo un argomento sul
quale il Fuidoro spesso torna nel corso delle sue cronache. Bisognerà attendere il governo
dell'intelligente e risoluto viceré Gaspar de Haro marchese del Carpio per poter finalmente
vedere il tristo fenomeno del brigantaggio debellato, anche se solo per qualche tempo, nella
maggior parte del regno.
Frattanto in questo stesso 1669 il napoletano Francesco Arboreo Gattinara dei conti di
Sartirana, marchese di S. Martino, era stato nominato governatore della piazza di Tarragona
dopo esser stato prima capitano di fanteria, poi capitano di cavalleria, mastro di campo di
fanteria sia napoletana che lombarda, generale dell'artiglieria nell'esercito d'Estremadura e
contemporaneamente governatore di Èvora, generale dell'artiglieria nell'esercito di Galizia;
sarà in seguito, proseguendo nella sua non comune carriera, mastro di campo generale del
principato di Catalogna e poi di Sicilia, infine viceré di Sicilia pro interim con carta reale del 25
giugno 1675; cominciata dunque questa sua eccezionale carriera negli anni trenta del secolo,
viveva ancora nel 1693.
Un avviso di Milano, riportando una corrispondenza da Genova del 1° gennaio
successivo, informerà poi che negli ultimi giorni di quest'anno era approdata in quel porto una
grossa barca carica di fanteria spagnola; la stessa aveva poi proseguito per Napoli, dove
avrebbe dovuto sbarcare detta fanteria destinata al rinforzo delle guarnigioni dei castelli di
quel regno.
1670. Caduta dunque Candia in potere dei turchi, così come Malta e la Sicilia rinforzavano le
loro difese costiere potendo essere i prossimi obiettivi degli ottomani, anche nel Regno di
Napoli ci si cautelava e nel gennaio del 1670 s’inviarono alcune compagnie di fanteria e
cavalleria alle marine d'Otranto per rinforzarne i presidi contro possibili incursioni dei corsari
turco-barbareschi. All'inizio di marzo poi, poiché i suddetti corsari effettivamente comparivano
in buon numero lungo i litorali del regno, il viceré ordinò che sia i fanti del Battaglione sia i
cavalleggeri della Sacchetta si tenessero pronti a qualsiasi improvviso ordine di portarsi
laddove ci fosse pericolo che i corsari tentassero di sbarcare; qualche giorno dopo ordinò
anche che si assoldassero genti a piedi e a cavallo nella stessa città di Napoli e nei suoi
sobborghi per rinforzare le guarnigioni delle piazze e dei luoghi più importanti delle marine di
levante del regno. In quel mentre lunedì 10 marzo avevano lasciato Napoli quattro galere con
400 fanti spagnoli destinati al potenziamento dei presidi della Sardegna poiché ci si aspettava
che avvenissero nuove turbolenze in quell'isola.
Venerdì 14 di marzo detto, ore 24, alle gradelle (‘gradini’) di San Giovanni Maggiore fu
ammazzato un figliolo d’anni dodici, gridando ‘marioli, marioli!’. Li furono rubbati certi pochi
carlini e, al griddo che fece, fu ucciso con una pugnalata che gli passò il core; si dice
pubblicamente che fussero stati soldati spagnuoli, quali non hanno più che grana otto il giorno
a testa e una razione di pane e si arrabiano (Fuidoro).
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Fu questo del viceré de Aragón, odiosissimo ai soldati, un periodo in cui la cassa
militare napoletana versava in notevoli ristrettezze e, non essendo pagato il soldo per mesi e
mesi, i soldati spagnoli si davano, come del resto tutti gli altri in Europa, alla diserzione, al
crimine o nel migliore dei casi provocavano disordini; soprattutto lo facevano quelli che
riuscivano a trovarsi fuori quartiere di notte per motivi di servizio o per licenza.
Attorno al 20 marzo, accompagnato da cinque galere di Sicilia, tra le quali la Capitana e
la Padrona, arrivò a Napoli il già ricordato Fadrique de Toledo y Ossorio marchese di
Villafranca e duca di Ferrandina, il quale veniva a prendere possesso della sua nuova carica
di capitano generale dello stuolo di galere di Napoli.
Secondo una corrispondenza da Napoli del 22 aprile riportata da un avviso di Milano
altri rinforzi per i presidi di Puglia stavano ora per partire dalla capitale e cioè si stava
allestendo una galera per condurvi alcune compagnie di fanteria spagnola, mentre tre altre
compagnie di cavalleria napoletana sotto il comando di Luigi Poderico pure stavano per
incamminarsi per quella stessa provincia.
40 soldati spagnoli fuggirono da Napoli verso luglio e si rifugiarono nello Stato della
Chiesa; dove furono poi indultati per intercessione del marchese di Astorga, allora
ambasciatore di Spagna a Roma, ma futuro viceré di Napoli, e se la cavarono così con la sola
condanna a servire nello Stato di Milano. I tentativi di diserzione dei fanti del tercio però si
susseguivano:
A 10 settembre sono stati condotti in galera 13 soldati spagnuoli per aver macchinata la fuga
e non li giovò il dire che fuggivano perché non potevano essere pagati e che si morivano di
fame (Bulifon).
Altri 28 di loro, i quali in seguito invece riuscirono a disertare, furono ripresi nell'aprile
del 1671 dalle squadre dei soldati di campagna di cui abbiamo già detto e, quando furono
riportati a Napoli sabato 3 maggio, alcuni loro commilitoni cercarono di liberarli azzuffandosi
con i birri che li conducevano, ma senza riuscirci.
Lunedì 24 novembre di questo 1670 tre galere napoletane sarebbero dovute partire per
portare la soldatesca destinata a dare il cambio al presidio di Porto Longone, ma non
poterono farlo perché la maggior parte dei marinai, a cui si dovevano ben 22 paghe arretrate,
erano per questo motivo fuggiti; la partenza avverrà poi sabato 29 dopo che i fuggitivi saranno
stati convinti a tornare con il pagamento di quattro delle suddette paghe.
(Giovedì 4 dicembre): Il doppo pranzo di detto giorno, festa di S. Barbara, la compagnia de’
soldati di detta santa del Castello Nuovo, chiamati bombardieri, andorno conforme il solito in
ordinanza per la Città, facendo diverse salve.
Nel predetto avviso c'è da notare l’epiteto Città, il quale era attribuito alla sola capitale
così come alla sola antica Roma quello di Urbs, mentre tutti gli altri abitati del regno erano
chiamati terre e quindi terrazzani i loro abitanti; non a caso infatti gli unici a godere
pienamente di tutte le prerogative di cittadino, specie quelle fiscali, erano gli abitanti di Napoli,
il cui numero si valutava allora tra i seicento e i settecentomila, numero enorme per una città
di quei tempi. C'è poi da spiegare che la compagnia dei bombardieri (‘artiglieri’) di Napoli era
unica del regno e doveva pertanto comprendere tutti gli artiglieri sparsi nei vari castelli e
presidi del reame, dipendendo essa direttamente dal generale dell'artiglieria, allora ancora
fra’ Titta Brancaccio; una simile compagnia esisteva in tutti i regni e gli stati soggetti alla
corona di Spagna. Questa carica di generale dell’artiglieria comportava non solo il comando
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di tutti gli artiglieri del regno sparsi nei vari presidi, ma anche del treno d'artiglieria (dalla
pronuncia francese di train), il quale sarà già presente nel 1673 e che nel 1674 includerà
artiglieri sia ordinari sia straordinari. Dipendeva inoltre da questo generale la Regia Scuola
degli Artiglieri e il 28 febbraio del 1675 il viceré marchese di Astorga avrebbe dovuto
promulgare una prammatica per intimare ai capitani di giustizia della città di Napoli e ai loro
caporali e birri di smetterla d'incarcerare gli scolari di detta scuola per porto d'armi, perché ciò
era loro concesso per privilegio militare.
1671. Nel gennaio di quest'anno cominciarono ad arrivare in più riprese a Napoli dalle marine
di Puglia, da Bitonto e da Lecce tutte le compagnie di cavalleria ordinaria che in quei luoghi
erano acquartierate, pronte a intervenire contro tentativi di sbarco dei turchi, compresa quella
di lance della guardia del viceré che aveva invece accompagnato il de Aragón ai confini con
lo Stato Ecclesiastico, perché dovevano sottoporsi alla riforma che si era resa necessaria;
riforma poteva significare soppressione di compagnie dai ranghi ormai troppo scarsi con
incorporamento dei soldati residui nelle altre compagnie per rinfoltirne, oppure poteva voler
dire soppressione di terzi o compagnie non più necessarie perché esauritasi la campagna di
guerra per cui tali corpi erano stati costituiti; infine - e molto probabilmente questo era il caso
suddetto, si trattava di diminuire i ranghi di compagnie eccezionalmente aumentati per
affrontare possibili eventi bellici e quindi di riportarli al consueto piede del tempo di pace e ciò
perché il numero delle compagnie di cavalleria ordinaria del regno era istituzionalmente fisso.
A proposito di questo termine piede usato sin dal Rinascimento nel senso di consistenza,
forza, numero di effettivi, esso derivava dallo schierare in campo gli uomini a distanze diverse
a seconda se in pace (più larghi) o se in guerra (più serrati), distanze che si calcolavano
appunto in piedi; evidentemente i sargenti avevano tacche diverse sull’asta della loro
alabarda, asta con cui misuravano le distanze da tenersi tra uomo e uomo, ad indicare la
lunghezza del piede da usarsi in tempo di pace e quella, un po’ più breve, del piede da usarsi
in tempo di guerra, cioè per gli schieramenti più serrati.
(Inizio di febbraio:) Il doppo pranzo di detto giorno fu portata la testa del capo bandito lo
Schiavo, così detto per esser veramente schiavo nero, fatta li giorni passati dalla gente di
Corte nelle campagne di Salerno.
La religione cristiana non consentiva che si riducessero in schiavitù se non gli infedeli e
quindi gli schiavi che si potevano trovare nell'Europa centro-occidentale erano
esclusivamente di religione mussulmana od animista, spesso dunque anche africani; questi
schiavi, se non erano adibiti alla voga nelle galere, potevano servire a terra privati cittadini
come domestici e in tal caso dovevano vestire totalmente di bianco in maniera che, se
avessero tentato la fuga, quest'insolito abbigliamento li avrebbe resi subito riconoscibili; viene
pertanto da pensare che la maschera di Pulcinella, tradizionalmente rappresentata con il viso
coperto da una gran maschera nera e con un abito bianco di taglio alquanto mediorientale,
potrebbe essere appunto nata da uno schiavo africano veramente esistito.
Nel primo pomeriggio del sabato 7 febbraio fu mandata a servire nelle regie galere una
catena di 12 criminali inquisiti per diversi misfatti e condannati appunto al remo dal Tribunale
di Campagna, il quale poi li aveva inviati a Napoli perché fossero eseguite le rispettive
sentenze. La condanna alla galera era all’incirca frequente secondo la necessità di nuovi
galeotti che la squadra di galere del regno poteva avere in un dato periodo; quando tale
necessità si presentava, allora i giudici usavano convertire a quella pena moltissime
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condanne a morte o a lunghe pene detentive. Giovedì 19 dello stesso febbraio la compagnia
di lance della guardia lasciò nuovamente Napoli per andare ai confini del regno a ricevere il
viceré che tornava da Roma e che rientrò infatti a Napoli mercoledì 25 con pomposa
cavalcata pubblica alla cui testa erano tutte le compagnie di cavalleria presenti nella capitale.
Nei giorni precedenti a questo rientro si erano notati frattanto nel porto di Napoli diversi
vascelli inglesi, i quali ne attendevano altri per andare poi tutti insieme in corso contro i legni
barbareschi che infestavano ininterrottamente il Mediterraneo e danneggiavano
evidentemente anche i traffici marittimi inglesi con il Levante.
Domenica 8 marzo giunse notizia che nei pressi di Nola c'era stato uno scontro armato
tra le cosiddette genti di corte, ossia la polizia giudiziaria provinciale, più conosciuti come
soldati di campagna, di cui poi diremo, e 20 briganti capeggiati dal capo-brigante conosciuto
come Abbate Cesare (al secolo Cesare Riccardo o Riccardi), un chierico figlio di un notaro di
Cimitile (ipocoristico grafico di Cimiteriale), il quale si era dato al brigantaggio nel 1669 con il
fratello maggiore Felice per aver ucciso, per motivi d’onore, Alessandro Mastrillo duca di S.
Paolo; delle sue imprese molto ancora si sentirà a Napoli parlare.
In questi giorni, d'ordine reale, si spalmavano, cioè si carenavano, tutte le galere della
squadra del regno e si provvedevano di tutte le cose necessarie, affinché fossero poi pronte a
intervenire dovunque l'armata turco-barbaresca avesse portato la sua minaccia in quei mari
meridionali, come anche si doveva fare in Sicilia alle galere di quella squadra, di cui era allora
capitano generale Francisco Diego Bazan Y Benavides marchese di Baiona, essendolo costui
stato dal 15 agosto 1670 sino al 9 aprile 1674, quando passò a comandare la squadra di
galere di Spagna. Lunedì 9 marzo giunsero in porto a Napoli tre grossi vascelli dell'armata
reale spagnola dell’ammiraglio Papacino, tra cui quello Almirante e quello Capitano di detta
armata, i quali erano venuti principalmente per trasferirsi poi Baia a darsi carena, ossia per il
carenamento, e a bordo di cui c'erano, oltre ad alquanti soldati spagnoli, anche qualche
centinaio di soldati sardi imbarcati appunto in quell’isola; come spesso allora facevano i
vascelli militari, portavano anche delle mercanzie e in questo caso si trattava di prodotti della
Sardegna.
Dare carena a un vascello e spalmarlo significava riparare il calafataggio della parte
immersa dello scafo con stoppa incatramata e bitume poi ripristinare lo strato di sego
protettivo; allora infatti si usava spalmarla appunto di sego caldo, il quale, una volta
rappresosi all'aria, ma soprattutto avrebbe reso; in più avrebbe offerto anche un po’ di
protezione contro l'aggressione della teredine e l'attecchire delle alghe.
Prima di varare un vascello ben calafatato con stoppa incatramata e pegola o di rimetterne
in mare uno dal calafataggio ripristinato, non si usava, come oggi, ricoprirne la parte immersa
del vivo ('opera viva’) con pitture antivegetative, ma si procedeva alla sua spalmatura, operazione
in uso da tempo immemorabile e che consisteva appunto nel distendere e poi ben lisciare uno
strato di sego (fr. anche oint; ol. smeer, roet, reussel) a caldo su tutta la parte dello scafo
destinata ad immergersi, timone incluso, cioè dalla carena o primo sino alla metà d’un altro
legno detto contovale di mezzana sito alla linea di galleggiamento; il risultato era che il vascello,
una volta asciugatosi e induritosi – ma non troppo - il sego, divenuta in tal modo la sua cala
(‘carena’) levigata e scivolosa, avanzava poi nel mare più facilmente e a una velocità maggiore,
perché opponeva così minor resistenza all'acqua marina, la quale scorreva più dolcemente lungo
i suoi fianchi e sotto il suo fondo; gli inglesi, per aumentare quest’effetto mescolavano il
sego con sapone, ma probabilmente in tal maniera lo strato di spalmatura durava di meno. Era
comune opinione degli uomini di mare che un vascello ben spalmato di recente guadagnasse il
dieci per cento di velocità in più d'un altro che non lo fosse e si diceva che le galeotte
dei corsari barbareschi fossero velocissime proprio perché erano spalmate di continuo;
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d’altro canto il sego non poteva preservare né abbastanza né a lungo il legno immerso
dall'inevitabile attaccarsi delle brume.
La spalmatura di sego liquefatto s’usava però per i soli viaggi di breve corso quali erano
per esempio quelli mediterranei; in quelli di lungo corso diretti verso ovest (oceanici) e
verso sud (tropicali), specie se da farsi nei caldi mari equatoriali, s’adoperavano altri
metodi per contrastare l'opera distruttiva della teredine marina ed il primo era quello di
sostituire il semplice sego con una mistura antivegetativa composta di sego, olio di balena,
zolfo, resina o pegola e vetro pesto, detta in fr. cou(r)roi, couroy, courée o courret (ol. pap),
mistura che permetteva d’estendere la durata del carenamento a caldo che si faceva ai vascelli
oceanici anche a tre anni, il che significava ovviamente un bel risparmio. Questo preparato
seicentesco non era in effetti altro che un derivato di una più vecchia mistura che i lusitani
avevano imparato a usare nel Rinascimento per rinforzare e proteggere le superfici esterne ed
emerse dei loro vascelli diretti alle Indie Orientali, cioè di quelli che facevano i viaggi più
deterioranti; ricoprivano infatti le opere esterne dello scafo con un preparato di consistenza
bituminosa, detta gala gala o gale gale o galegala, appresa, come si diceva, dai cinesi, i quali
l’usavano appunto per preservare il fasciame dei loro vascelli dagl’insulti atmosferici e marini.
Tale mistura, applicata in uno strato spesso un’oncia sia sul vivo che sul morto del vascello,
faceva sul legname fortissima presa e ne rendeva la superficie talmente dura e resistente da
ricevere spesso poco danno anche dai colpi dei deboli cannoni petrieri dell’artiglieria
navale rinascimentale; per ottenerla si pestavano in mortai con grossi pestoni del gesso,
acqua calda, olio di pesce, chiare d'uova o altra colla equivalente, ma scelta tra le più
economiche, infine zucchero di palma, quest'ultimo abbondantissimo a Lisbona; nel
pestare si aggiungeva continuamente stoppa di canape trita o tagliata minuta finché il tutto
fosse ben incorporato.
Naturalmente, col progressivo aumento di potenza dell’artiglieria navale in atto già dalla
metà del Cinquecento, la gloriosa gala gala non sarà più in grado di respingere nessun colpo di
cannone; questa funzione sarà comunque ora talvolta assunta dall’adozione del contrabbordo
o raddoppio del fasciame esterno del vascello da guerra, cioè di quello che i francesi
chiamavano soufflage o doublage, il che significava in sostanza aggiungere un secondo strato di
tavole sul primo del vivo, specie su quello della zona oggi detta ‘bagnasciuga’, mantenendo però
tra i due una sottile intercapedine piena di misture antivegetative, per uno spessore
aggiuntivo complessivo che poteva andare dai tre agli otto pollici, ma il cui scopo principale non
era comunque né quello di proteggere il primo fasciame dalla teredine né tanto meno di difenderlo
da qualche colpo d’artiglieria, bensì di dare stabilità ad un vascello che rollasse e si tormentasse
troppo sotto la velatura, cioè, un vascello geloso, come ancora si diceva, uno che non si riusciva a
metter bene in stiva perché difettoso di costruzione nello scafo o nell’alberatura e si poteva
riconoscere facilmente anche quando stava alla fonda, in quanto appunto molto probabilmente
sarebbe stato in giolito (fr. en jolly, en travail, en tourment, in cargue, à la bande), cioè, pur
stando all'ancora, si sarebbe pressoché coricato ora da un fianco ed ora dall'altro per effetto
delle traversie portuali.
Il contrabbordo [ol. (ver)dubbeling, voering] fu introdotto dagli olandesi, i quali cominciarono
a raddoppiare il fasciame inchiodandovi sopra uno strato d’assi di quercia o d'abete bianco o
rosso, strato spesso un pollice e mezzo, e ponendo tra questo fasciame aggiuntivo e quello
preesistente misture di materie anti-bruma, specie la predetta courée, la quale, contenendo spesso
in questo caso tra i suoi principali elementi anche pelo di bovino (fr. ploc), prendeva per
sineddoche anche appunto il nome di ploc e di conseguenza la sua applicazione quello di
plo(c)quer; ma poteva a volte detta courée contenere anche del rame, metallo del quale
evidentemente si conosceva la velenosità, mentre alcuni, ritenendola anch’essa sgradita alla
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teredine, invece di tale mistura usavano solo della semplice carta grigia, ossia della grossa carta
grezza; anche la chiglia talvolta si raddoppiava spalmandola prima del suddetto ploc e poi
applicandovi sopra un asse di quercia o faggio detto in francese fausse-quille.
Prima del 1690 poi, sempre gli olandesi, costatato che i risultati che si ottenevano con questo
contrabbordo, il quale certo pure serviva ad isolare l’interno dall’eccessivo calore del sole, non
ripagavano però del notevole rallentamento procurato al corso ed alla manovrabilità dei vascelli
così appesantiti, presero a rivestire il fasciame del vivo di sottili strati di ferro e soprattutto di
piombo, metodo questo già usato dai romani nell'antichità, come provò il ritrovamento di quelle
famose navi di Traiano nel lago di Nemi poi barbaramente incendiate dai soldati tedeschi durante
la seconda guerra mondiale; e queste lamine, dapprima semplicemente gettate ed in seguito - con
nuova e più utile invenzione - laminate, s’inchiodavano così strettamente da non lasciare alcun
spazio tra una testa di chiodo e l'altra; ma pure con questo secondo metodo non ottennero risultati
utili, probabilmente anche questa volta a causa dal peso eccessivo che così gravava sul
vascello. Spagnoli e portoghesi frattanto, ispirandosi anche loro all'efficacia della vecchia
gala-gala, provavano a rivestire il vivo di più strati di miscugli a base di calce, sostanza che,
se si era dimostrata efficace contro la teredine, aveva però il difetto di bruciare il fasciame; i
portoghesi provarono anche a carbonizzare con il fuoco l'esterno del fasciame, in modo da opporre
alla teredine uno strato di carbone spesso un dito, ma questo metodo, oltre che dimostrarsi
d'effetto incerto, risultò anche molto pericoloso perché praticandolo si rischiava di mandare a
fuoco l'intero vascello.
Nel Settecento si cominciò poi a rivestire il fasciame di sottili lamine di rame inchiodate con
chiodi dello stesso metallo; queste lamine si posero dapprima combacianti e poi, dalla metà del
secolo, ad orlo sovrapposto e quest'ultimo metodo si dimostrò infinitamente superiore a tutti
gli altri precedenti, non solo perché in grado di preservare completamente il fasciame dalla teredine,
ma anche perché in tal maniera a questo nemmeno potevano aderire alghe e oloturie e ciò sia per
la politezza del rame sia per la velenosità del verderame che si andava formando; inoltre
quest'ultimo tipo di contrabbordo era quello che appesantiva e quindi ritardava di meno il
vascello, garantendogli così maggiore governabilità; infine, quando si voleva togliere questo rame
per carenare il vascello, se ne perdeva ben poco. L'efficacia del rame nella lotta alle formazioni
zoo-vegetali sul fasciame immerso dei vascelli fu poi universalmente riconosciuta, tanto che,
quando nell’Ottocento si cominciò a fare le navi non più di legno, ma di ferro, superandosi
così il problema più grave, ossia quello della teredine, non essendo possibile, specie per motivi
di corrosione elettrolitica, inchiodarvi sopra le sottili lamine di rame, s’ideò il sistema che tutt'oggi
si adopera e cioè pitture 'antivegetative' a base di composti del rame, da applicarsi però su altre
isolanti dette 'anticorrosive'.
La sera dello stesso lunedì 9 marzo si dette sepoltura, nella chiesa di S. Domenico, al
genovese Gioannettino d’Oria, il quale era stato un tempo generale delle galere di Napoli ed
era morto il giorno precedente dopo lunga malattia.
In questi giorni il viceré aveva inviato tre compagnie di cavalli comandati dal tenente
generale della cavalleria ordinaria del regno fra’ Virgilio Vaglio nelle terre dei feudatari di
Conversano e di Nola per ristabilire l'ordine pubblico che costoro avevano infranto brandendo
le armi l'un contro l'altro; si diceva che sarebbero poi state inviate colà altre compagnie,
mentre i due contendenti erano stati convocati a Napoli dal viceré a render ragione del loro
grave comportamento. Fu in seguito notizia che le predette tre compagnie, evidentemente
ricompostasi quella lite, erano state divertite verso le marine di Puglia perché si temevano
tentativi di sbarco dei turchi; le medesime furono poi acquartierate a Bari, Lecce e Lucera. Si
seppe anche che presso Cimitile c'era stato un lungo scontro a fuoco tra la gente di corte e i
briganti del già nominato Abbate Cesare; in effetti in questo periodo si vedevano arrivare a
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Napoli parecchie teste di briganti uccisi dalle squadre di campagna e nello stesso predetto
lunedì 9 marzo vi fu condotta anche quella del capo-brigante d'Amore, ucciso nelle campagne
d'Abruzzo. Tra il 20 e il 27 marzo furono inviate altre soldatesche in Puglia, provincia ora più
che mai minacciata dalle incursioni ottomane, e si trattò di due compagnie di fanteria e di
cinque di cavalleria, tra le quali ultime era quella detta dei croati, ossia composta di soldati
reclutati negli insediamenti croato-macedono-albanesi del regno. Partì per la Puglia anche il
generale dell'artiglieria fra’ Gioan Battista Brancaccio, ma tutti i preparativi di difesa di quella
provincia dipendevano dal generale Luise Poderico, nominato infatti comandante in capo di
tutti i presidi costieri pugliesi.
Giovedì 9 aprile, ben provviste d'ogni cosa a Napoli, ne lasciarono il porto per la loro isola
le tre galere di Sardegna, tra le quali spiccava la nuova galera Capitana di quella piccola squadra,
la quale era stata appena varata nell'arsenale partenopeo; era questo un cantiere di
grand'esperienza nella costruzione di questo tipo di vascelli sottili, le galere appunto, e di barche,
ossia di piccole e medie imbarcazioni a vela latina, mentre raramente vi si erano costruite nella
sua storia galeazze o galere grosse di tipo veneziano e appena sufficiente vi era stata la pratica
fatta nella costruzione di quei grandi vascelli che una volta si erano chiamati tondi, legni dallo scafo
largo e rotondeggiante e dalla prevalente velatura quadra, i quali si erano suddivisi nel
passato principalmente in navi, galeoni e bertoni e ora invece generalmente in navi e vascelli da
guerra. Nel corso della prima metà del Seicento il galeone era infatti divenuto un tipo di
vascello obsoleto, usandone ancora per qualche tempo solo i turchi col nome di sultane così
come gli stessi ottomani saranno anche gli ultimi a dismettere le loro galeazze chiamate maone;
ma il nome di galeone resterà, usato però solo dagli spagnoli ed in maniera generica, ad indicare
cioè tutti i grandi mercantili da tre o quattro ponti che s’inviavano nelle Indie Occidentali; anzi gli
spagnoli, appunto perché ormai persasi la tipologia distintiva dei veri galeoni, giungeranno
presto a chiamare così tutti quei vascelli – grandi o piccoli, mercantili o da guerra che fossero –
che ogni anno s’inviavano a Cartagena e Portobello, ossia nei porti di quello che allora era il
grande Perù, vascelli che, se impiegati in viaggi diversi da quello, perdevano però questo
improprio nome; allo stesso modo essi chiameranno galeonistas i mercanti che commerciavano
con le Indie Orientali ed inoltre riservavano il nome di flota o flotilla solo al convoglio navale che
invece inviavano più a nord, a Nueva Vera Cruz, porto della Nuova Spagna.
Si profittò di questa spedizione per inviare rinforzi di fanteria in quell'isola e cioè 250
soldati italiani, cioè napoletani, di nuova leva, tra cui ben 100 condannati dalla Vicaria
criminale. In questo periodo continuava frattanto l'offensiva dei briganti in varie province del
regno e fu notizia che una banda di quelli aveva saccheggiato Rocchetta in Abruzzo; altri
avevano predato barche siciliane e calabresi nelle marine di Camerota al Cilento. Giunse poi
dalla Fiandra Juan de Toledo, fratello del conte d’Oropeso, il quale era venuto a esercitare la
sua nuova carica di mastro di campo del terzo fisso degli spagnoli che presidiava il Regno di
Napoli fin dai tempi della conquista spagnola; probabilmente si trattava di un capitano di
cavalleria, perché era da tale grado che di solito si tornava alla fanteria con la promozione a
mastro di campo. Sabato 25 aprile furono condannati a servire al remo delle regie galere
napoletane 12 soldati spagnoli che avevano disertato ed erano poi stati ripresi; altri che
avevano capeggiato questa defezione si trovavano ancora in prigione nell’attesa di ricevere
peggior castigo. Il diarista che riporta questa diserzione in massa non ce ne spiega la causa,
ma in genere i soldati spagnoli, sempre disciplinati, ubbidienti, pazienti e tolleranti d'ogni
sacrificio, qualità quest'ultima che soprattutto ne faceva la miglior fanteria del mondo,
arrivavano a questa estrema forma di ribellione collettiva solo se portati alla disperazione
dall'intollerabile miseria in cui cadevano quando per molti mesi si ritardava il pagamento del
loro soldo; il che talvolta accadeva. Alla fine d'aprile giunse una confortante notizia dall'eterno
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fronte aperto contro il brigantaggio; la squadra dei soldati dell’Udienza (tribunale) provinciale
di Montefuscoli, dopo aver sostenuto un lungo e duro scontro con i briganti, era riuscita a
carcerare i due compagni più confidenti dell'Abbate Cesare e di un terzo aveva guadagnato la
testa, la quale, insieme con i suddetti due carcerati, sarebbe presto stata portata a Napoli.
Nel primo pomeriggio di domenica 3 maggio alcuni guidati o guidatici, ossia ex-briganti
che erano stati accordati (‘indultati’) a condizione che si arruolassero nella sbirraria
(‘sbirraglia’) o nelle squadre di campagna, i quali insieme con alcuni birri ordinari transitavano
nei quartieri spagnoli della città con l'incarico di portare certi soldati spagnoli disertori nelle
carceri di S. Giacomo, carceri appunto riservate ai militari iberici, sebbene si fossero forse
scelti quel giorno e quell’ora per dar meno nell’occhio, furono affrontati da altri soldati
spagnoli che volevano liberare i loro commilitoni arrestati e, non ostante la resistenza
opposta, guidati e birri furono costretti ad abbandonare i loro prigionieri dopo che ben tre di
loro erano stati uccisi dagli assalitori. Questi guidati, sebbene spesso molto più efficaci dei
normali birri nelle loro operazioni di polizia, contribuivano naturalmente non poco, con il loro
stile da briganti, a quel discredito delle forze dell'ordine durato secoli soprattutto nel
meridione.
Furono in seguito inviati ancora altri rinforzi ai presidi costieri pugliesi, sempre per tema
di uno sbarco turco, e si trattava stavolta di due compagnie di fanteria spagnola, una destinata a
Viesti e l'altra a Monte S. Angelo, località quest'ultima ben nota per esser considerati i suoi alberi
tra i migliori d'Europa per ricavarne legname da costruzioni navali. Era infatti venuto avviso che
da Gallipoli erano state avvistate diverse caravelle turchesche, chiamando così infatti i cristiani,
da sempre e impropriamente, i caramusali turco-barbareschi, vascelli a prevalente vela quadra,
dalle stesse preziose funzioni che erano state una volta delle caravelle rinascimentali e che, anche
se, come quelle, poco adatte alle grandi battaglie di linea, erano però ora nel Seicento molto usati
per la guerra di corso dai turco-barbareschi, specie dagli algerini, anzi addirittura costruiti
appositamente in sostituzione dei vascelli remieri del secolo precedente con un conseguente
accresciuto danno per i cristiani; questi vascelli portavano sotto l'unica coperta da mille a 1.500
salme di carico; inoltre, quando erano armati a guerra, presentavano 18 o più bocche da fuoco e
erano montati da cinquanta a sessanta uomini. Per contrastare dunque più efficacemente le
incursioni di quei corsari, de Aragón inviò subito gli ordini necessari al governatore regio di quella
città circa la guardia dei litorali vicini e il munizionamento della locale fortezza.
Sabato 16 maggio il viceré si recò a visitare le carceri della Vicaria criminale e, con il
pretesto di salvar loro la vita, a un buon numero di carcerati commutò la pena di morte parte
in servizio di guerra in paesi lontani, parte in servizio di presidio chiuso, ossia in lavori forzati
in presidi militari lontani da Napoli, e parte in servizio di galera a tempo, cioè non a vita.
Inoltre la mattina del lunedì 1° giugno maggio arrivò a Napoli una catena di 38 delinquenti
condannati al remo per diversi misfatti ed erano inviati dalla regia udienza di Montefuscoli;
costoro furono immediatamente messi a servire sulle galere napoletane.
Era in questo periodo mastro di campo del terzo napoletano dell'armata reale oceanica
della Spagna, cioè dell'unità di fanteria partenopea che da tempo quasi immemorabile faceva
da fanteria di marina a bordo di quei grossi vascelli a vela quadra che avevano la funzione di
proteggere gli interessi della Spagna tra le due lontane rive dell'Oceano Atlantico, il marchese
di S. Crispino di casa Simonetti de Leon, casata originaria di Taranto.
Il Giannone scriveva che nel giugno di quest'anno i turchi effettivamente approdarono
nella provincia di Bari e rapirono 150 contadini facendoli loro schiavi, ma forse egli si
confonde con un avvenimento successivo di cui poi diremo. Nello stesso giugno furono poi
arruolati facchini regnicoli su tre navi sarde che si trovavano in secco a Baia da circa tre mesi
per i lavori di carenamento, cioè di spalmatura, come abbiamo detto che allora si usava dire;
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gli operai specializzati in questo lavoro, oggi chiamati carenanti o picchettini, si dicevano
invece allora appunto spalmatori e in caso di grossi lavori affluivano da tutte le marine del
regno generalmente a Baia, cantiere di carenamento per eccellenza. Avvistatesi altre vele
turchesche al largo d’Otranto, giovedì 11 giugno altre due compagnie di fanteria spagnola
furono spedite a quella volta, mentre alcuni giorni prima già vi erano state inviate le
compagnie di cavalli dei capitani Tomaso Guindazzo e Mattia Galiano, la prima per Lecce e la
seconda per le marine pugliesi; ma quella del Guindazzo fu poi trasferita a Corigliano, luogo
soggetto a frequenti scorrerie turco-barbaresche, per ordine del preside (‘prefetto’) di quella
provincia Marc'Antonio di Gennaro, personaggio quest'ultimo che presto ritroveremo in
sfortunate circostanze.
Avvisiamo ora il lettore che, anche se stavolta abbiamo riportato i nomi di due semplici
capitani di compagnia, in seguito lo rifaremo solo in occasioni particolari e ciò per non
appesantire ulteriormente la pletora di nomi di mastri di campo, di ufficiali maggiori e generali
che si riscontra necessariamente in questa nostra esposizione.
In questi giorni fecero ritorno a Napoli due galere della squadra del regno, le quali, nel
passare presso l'isola di Ponza, avevano predato un’imbarcazione corsara con 18 turchi e un
cristiano rinnegato; tornò poi pure a Napoli una feluca partenopea che aveva portato a Malta
Cesare Pignatelli, esponente di una delle principali famiglie napoletane, e ciò fu in luglio e
portò la notizia che, in un sanguinoso scontro tra sei galere maltesi e tre grossi vascelli
algerini avvenuto nel luogo detto le saline di Candia, era morto tra gli altri il cavaliere
gerosolimitano napoletano fra’ Olimpio Antinori e vi era rimasto ferito il fratello del marchese
di Cardito di casa Girondi, anch'egli napoletano. Arrivarono anche nel porto della capitale
sette grossi vascelli spagnoli da guerra, venuti per andare in corso nel Mediterraneo
meridionale e impedire così ai turchi ogni sbarco che volessero tentare sulle marine cristiane;
trovandosi però tali vascelli scarsi di gente, si andavano assoldando nel Napoletano in fretta
e furia uomini per guarnirli, cioè per equipaggiarli. In precedenza erano stati indultati per
servire in guerra 12 compagni dell'Abbate Cesare Riccardo, il noto capo-brigante già
menzionato e che ancora più volte menzioneremo, ed erano stati trattenuti (‘rinchiusi’) negli
alloggiamenti dell'arsenale di Napoli nell’attesa del prossimo imbarco di gente; nulla di più
facile quindi che siano stati poi imbarcati sui predetti vascelli spagnoli, i quali ripartirono
comunque abbastanza presto mentre restavano ancora in sosta i tre che erano arrivati il 9
marzo per far carenamento.
La mattina del sabato 27 giugno fu data la mostra, cioè si passò in rivista, tutta la
fanteria spagnola acquartierata a Napoli e in seguito, martedì 7 luglio, il viceré marchese di
Villafranca inviò al mastro di campo del terzo fisso spagnolo un gran regalo, vale a dire un
bellissimo tiro a sei; insomma fu come gli avesse oggi donato un’automobile Ferrari; nel
frattempo mercoledì 1° luglio si era fatta la rivista e data la paga alle soldatesche e
marinaresca imbarcate sui tre vascelli spagnoli ancora a Napoli, i quali, nella notte dl
successivo giovedì, salparono per tornarsene a Cadice. Sabato 4 luglio si venne a sapere che
nei giorni precedenti corsari turchi avevano predato tre barche cariche di grano e olio nei mari
di Puglia; facendosi poi il timore di sbarchi turchi sulle coste orientali del regno, non ostanti i
provvedimenti presi, sempre più fondato, si ordinò di marciare su Lecce e Otranto alle milizie
del Battaglione e della Sacchetta delle province di Capitanata, Contado di Molise, Terra di
Bari, Lecce e delle due Calabrie; arrivati a quelle destinazioni, i capitani di quelle compagnie
vi avrebbero trovato ulteriori ordini e si ordinò pure a tutti i presidi, oggi diremmo ‘prefetti’, di
quelle province e ai governatori delle fortezze di quelle marine di rifornire le predette milizie
d’ogni sorta di munizioni da guerra e da bocca (viveri) per un completo presidio e per un
lungo tempo e d’opporre la più decisa resistenza a ogni sbarco che i turchi volessero tentare
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su quelle coste.
Verso la fine della prima decade del mese di luglio tre galere papaline fecero sosta nel
Golfo di Napoli, due a Pozzuoli con il loro comandante di squadra, il commendator Bolognetti,
e una invece venne a ormeggiarsi proprio a Napoli; domenica 12 ne arrivò una quarta, la S.
Catarina, comandata dal cavalier Malaspina, il quale manifestò subito la sua insoddisfazione
per esser stato accolto dai forti di Napoli con lo sparo di un solo colpo di cannone; quanto
fossero allora considerate importanti le formalità di saluto marittimo e come facilmente
potessero diventar causa di controversie diplomatiche e qualche volta addirittura di fatti bellici
è cosa nota. La sera del lunedì 13 luglio Federico de Toledo marchese di Villafranca e duca
di Ferrandina, generale delle galere del regno, Beltrán de Guevara conte del Vasto e altri
titolati partirono con la galera Capitana e tre altre della squadra di Napoli per la corte di
Madrid, da cui il duca era stato convocato. Fu poi notizia che le galere di Malta, uscite in
corso verso la Calabria, avevano incontrato dieci caravelle turchesche e, essendo di forze
inferiori a quelle del nemico, si erano ritirate sotto la protezione dei cannoni della Roccella,
dove allora si trattenevano nell’attesa di poter o combattere o proseguire il loro viaggio. In
quel tempo si spalmavano le galere del regno per mandarle così in traccia delle caravelle dei
corsari turchi che avevano nei giorni precedenti predate due tartane regnicole.
Sabato 8 agosto arrivò a Napoli una catena di 20 delinquenti condannati al remo dal
Tribunale di Campagna e furono subito mandati a servire sulle galere della squadra; furono
invece indultati per servire in guerra e rinchiusi pertanto nell'arsenale due capi-briganti,
corrispondenti dell'Abbate Cesare, insieme coni loro compagni ed erano chiamati per
soprannome uno Scatantrone e l'altro Cornacchia; alla fine dello stesso mese d’agosto furono
poi condotti a Napoli due briganti vivi e la testa del loro capo, i quali erano stati presi dal
caporale di campagna Michele di Crescenzo e dai suoi soldati nelle campagne di Marzano.
Venerdì 21 agosto si cominciò a far leva di reclute per servizio dei suddetti tre vascelli
spagnoli, a cui si era già fornita una gran quantità di polvere pirica e di miccio; il mese
successivo, fornitisi anche i necessari viveri, vi vennero infatti imbarcati 400 nuovi soldati, i
quali nel frattempo, perché non fuggissero, erano stati come il solito tenuti rinchiusi negli
alloggiamenti reclusori dell’arsenale, e nella notte del sabato 12 settembre questi vascelli, a
cui nel frattempo se n’era aggiunto un quarto, salperanno per Cadice dove si sarebbero uniti
al resto dell'armata di Spagna in partenza per le Indie Occidentali. I napoletani erano infatti,
come si sa, spesso portati dalla Spagna a presidiare e a combattere anche nel Nuovo Mondo.
La mattina del giovedì 27 agosto morì Enrico Pons de León, cavaliere di S. Giacomo,
tenente della compagnia di lance della guardia e cameriero maggiore del viceré. Mercoledì 2
settembre fu data di nuovo la mostra alla fanteria spagnola e lunedì 7 settembre fu, come ogni
anno, festeggiata con cappella reale nella Real Chiesa del Carmine Maggiore e salva
d’artiglieria altrettanto reale sparata da tutti i castelli e dalle galere, fu commemorata la tanto
importante vittoria riportata a Nördlingen nel 1634 dagli imperiali cattolici comandati da
Ferdinando d’Austria (1609-1641), figlio cadetto di Filippo III e detto il Cardinale Infante, sugli
svedesi comandati da Bernardo di Sassonia-Weimar, subentrato al defunto re Gustavo-Adolfo
nel comando dell’esercito svedese, il quale in quella battaglia, in cui tanto si distinsero i terzi
napoletani, finì pressoché distrutto; nel pomeriggio del giorno seguente, festa della Natività
della Madonna, il viceré si recò, com’era tradizione, alla funzione che si teneva nella chiesa
dei padri Canonici Lateranensi detta della Madonna di Pie’ di Grotta, sita alla fine del borgo di
Chiaia, con un pomposo corteggio che passava lungo una bella parata militare di fanteria
spagnola e di cavalleria schierate lungo la riva e, dall’altro lato, presso una lunga ala di
popolo festante; il viceré passava con le sue più belle e ricche carrozze, seguito dalla sua
compagnia di lance della guardia e da un lungo corteggio di carrozze nobiliari; le soldatesche
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sparavano due salve di saluto sia all’andata di tale corteo sia al suo ritorno e la festa
terminava a tarda sera con una salva reale delle artiglierie dei castelli. È di questo 1671 un
documento manoscritto che si conserva nel fascicolo 404 del fondo Scrivania di Razione
dell’Archivio Militare di Napoli e che registra i pagamenti delle competenze spettanti al
predetto viceré de Aragón:
All’ecc.mo don Pietr’Antonio d’Aragona, duca di Segarbe e di Cardona, viceré, luocotenente e
capitan generale per Sua Maestà in questo regno per suo soldo a raggione di ρ (scudi) 24.000
castigliani per anno a’ raggione di reali 11 per docato e a’ grana 11¼ per ogni reale, moneta di
questo regno (ossia ducati di Napoli 2.475 il mese).
Alla detta Eccellenza per il suo aggiusto di costa (‘sopraspesa’) a’ raggione di ρ (scudi) 6.000
castigliani l’anno valutati ut supra (sono ducati di Napoli 618, reali 3 e grana 15 il mese).
Alla detta Eccellenza per suo soldo come capitano di una compagnia d’huomini d’arme del
Regno a’ raggione di ρ (ducati) 1.180 l’anno (cioè 98.1.13 il mese).
Alla detta Eccellenza per li ρ (scudi) 3.600 de 11 reali di platta (‘argento’) castigliani l’anno che
ordinò Sua maestà, pagandoseli in questo regno durante il suo governo per li ρ (scudi) 4.000
di moneta di Valencia che li cessorno in quel Regno, valutati detti ρ 3.600 a’ reali 11 per
docato e a’ grana 11¼ per reale moneta di questo Regno.
Gasti secreti: A D. Diego Ortiz de Ocampo, Secretario di Sua Maestà e di Stato e Guerra di
Sua Eccellenza per tanti che, d’ordine di detta Eccellenza, ha speso in cose secrete del Real
Servizio, de’ quali non ha da dare conto in nessun tempo (sono ducati 56.992.4.13 in soli
cinque mesi!)
Abbiamo aggiunto i suddetti gasti secreti (‘spese segrete’) perché in realtà si trattava di
denaro della cassa militare a cui attingeva senza dover renderne conto a nessuno, in teoria
per spese di stato, il che in effetti ingigantiva i suoi emolumenti personali ufficiali e gli
permetteva anche di essere munifico con quelle persone che gli servivano; insomma, se si
pensa che 12 mesi di soldo di tutta la sua guardia alemanna, cioè dei 72 alabardieri svizzeri,
ammontavano a ducati 3.956 reali 2 e grana 10, è chiaro che un viceré guadagnava un sacco
di soldi e in quei pochi anni di vice-regnato a Napoli poteva accumulare una bella fortuna!
Ancora 24mila + 6.000 scudi castigliani e 1.180 ducati napoletani prenderà nel 1682
anche il viceré marchese di Los Vélez, mentre, per gasti secreti fatti per suo conto dal suo
Segretario di Stato e Guerra nel primo semestre di detto anno, gli saranno rimborsati ducati
47.303. 3. 0 (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
A ottobre Antonio de Silva lasciò la carica di commissario di campagna, ossia di primo
magistrato del Tribunale di Campagna, per riprendere, ma pro interim, quella d’auditore
generale dell'esercito e, nello stesso mese, arrivarono e ripartirono due vascelli da guerra
inglesi dopo essersi riforniti di vettovaglie e altro. 40 delinquenti trasmessi in catena a Napoli
dal Tribunale di Campagna, perché condannati al remo, furono venerdì 30 ottobre inviate a
servire sulle regie galere napoletane e nella stessa giornata fecero ritorno nel porto della
capitale le galere di Napoli che avevano condotto in Spagna Federico de Toledo marchese di
Villafranca e duca di Ferrandina; queste galere erano guidate da Beltrán de Guevara conte
del Vasto, il quale era stato nel frattempo nominato governatore generale della squadra di
Napoli perché vacante ne era al momento il posto di capitano generale; giungerà però
all’inizio dell’anno seguente dalla corte di Madrid una notizia chiarificatrice e cioè che il detto
duca di Ferrandina era stato fatto sì nuovo viceré del Messico, però con la ritenzione del
generalato delle galere di Napoli, e per tanto al marchese di Pescara sarebbe stato presto
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conferito pro interim il governatorato delle medesime.
Che il numero dei forzati di galera disponibili fosse eccezionalmente ora eccedente le
necessità è dimostrato dalla ben rara circostanza che lunedì 9 novembre il viceré ordinò che
si liberassero 50 remiganti che avevano finito – chissà da quanto tempo – di scontare la loro
pena e altri 50 fece svincolare lunedì seguente; si usava che questi poveri disgraziati fossero
portati in processione religiosa nella chiesa di S. Paolo dei padri teatini e là dentro, dopo che
avessero reso grazie al Signore e a S. Gaetano, protettore dei forzati, fossero finalmente
liberati dalle catene e lasciati liberi di tornare alle loro case e paesi.
A novembre s’intese che il caporale di campagna Michele Merolla, il quale era di stanza
con la sua squadra alla Costa, aveva sostenuto con i suoi uno scontro a fuoco con naturali di
Piedimonte per certe non meglio specificate questioni che con quelli erano sorte e vi erano
stati dei morti. In questo stesso novembre Francesco Navarretta (‘Francisco Navarrete’),
auditore del terzo spagnolo, prese possesso anche del carico (incarico) di giudice civile di
Vicaria ora conferitagli; frattanto il viceré aveva richiamato a Napoli tutte le milizie che aveva
inviato alle marine del regno perché era giunto ormai l'inverno, stagione che non permetteva
più ai turchi d’organizzare sbarchi importanti.
All'inizio di dicembre il nuovo commissario di campagna Francesco Moles sostituì tutti gli
ufficiali e caporali delle sue compagnie che erano stati nominati dai suoi antecessori;
evidentemente si sentiva la necessità di una buona scattivazione di quelle forze dell'ordine; il
viceré invece conferì il governo della città di Taranto al sargente maggiore Simonetto Russo
in sostituzione di Pompeo Cabanilla, il quale passava a quello di Monopoli.
Venerdì 4, festa di S. Barbara protettrice di tutti castelli di Napoli, si riunirono come ogni
anno i bombardieri di quelli e nel primo pomeriggio andarono in tradizionale ordinanza militare
per la città, mentre i loro cannoni facevano diverse salve in onore di quella santa. Fu poi a
Napoli una notizia che sarà il primo sintomo di una situazione che si aggraverà presto tanto
da provocare addirittura una guerra ai confini meridionali del regno:
... stante la scarsezza e gran penuria de’ grani (conforme viene scritto) che corre nella città di
Messina, si è publicato aver li messinesi arrestato e pigliato 19mila tomola di grano che erano
a questa volta, nel passare che faceva per il Faro, facendo anche il simile con l'orgio e altre
vettovaglie che di là passano.
Venerdì 18 arrivarono a Napoli da Roma 20 carriaggi che portavano i bagagli personali
del nuovo viceré del regno, Antonio Pedro Álvarez Ossorio Gomez d’Ávila y Toledo marchese
di Veleda, Astorga e S. Román, il quale, come tanti altri viceré di Napoli, era stato promosso a
questa altissima carica passandovi da quella d’ambasciatore di Spagna presso la Santa
Sede, assunta questa nel 1667; il suo predecessore de Aragón aveva già da qualche tempo
cominciato a spedir via i suoi effetti personali e infatti il precedente 3 dicembre aveva lasciato
il porto di Napoli una grossa tartana sulla quale egli aveva fatto imbarcare ben 800 casse di
mobilio, due lussuosissime carrozze e dieci cavalli, insomma aveva lasciato l’appartamento
reale quasi del tutto privo d’arredi. È vero che era consuetudine che si comportassero così
tutti i viceré quando lasciavano il loro vice-regnato, a Napoli od altrove che l’avessero
esercitato, essendone questo, se non il solo, il principale motivo per cui in detto appartamento
non c’è oggi forse più nulla dei secoli del vice regnato; ma certo quella del de Aragón fu
notata e ricordata come una delle maggiori depredazioni che il predetto palazzo abbia subito
nella sua storia e non a caso egli sarà poi accusato di aver frodato anche le rendite regie. Il
Fuidoro così scriverà di lui nel suo diario all’inizio dell’anno seguente:
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… stava molto malinconico e intenerito, tanto è profondo il dolore che ha di lasciare queste
Indie napolitane, che si vorrebbe anco portare in Spagna questo terreno, tanta è l’avidità de’
danari e di regnare.
Al de Aragón, il quale era, come pochi sanno, anche un appassionato d’ingegneria
militare e proprio in questo 1671, suo ultimo anno di permanenza a Napoli, aveva fatto
pubblicare il suo trattato Geometría militar, Napoli doveva però la costruzione, oltre che della
nuova darsena e della nuova sede della Scrivania di Razione, di cui abbiamo già detto, anche
di molte altre importanti opere pubbliche, quali i bagni di Pozzuoli, l’armeria reale e il granaio
del Castel Nuovo, il grande ampliamento del preesistente piccolo alloggiamento militare di
Pizzo Falcone, iniziato nel 1667 e terminato nel 1670, dove saranno da ora in poi
acquartierati tutti i fanti del terzo fisso degli spagnuoli, i quali in precedenza avevano invece
tradizionalmente e in maggioranza sempre trovato alloggio in case private, specie nel
quartiere sito a monte di via Toledo e detto appunto ancora oggi i quartieri spagnuoli,
apportando così agli sfortunati cittadini infinito fastidio, quando non anche ladronecci e
angarie d’ogni genere; infatti non a caso il nome spagnolo con cui tali militari erano chiamati,
cioè guapos, dal germanico Wape, arma, significando quindi semplicemente uomini armati, si
traduceva in napoletano con smargiassi, questi più tardi detti infatti guappi e oggi camorristi vedi anche il settecentesco vapos, a Palermo, con il significato di bravi od occasionali guardie
del corpo. Fu questa un’innovazione che si sarebbe invece dovuto adottare sin dal secolo
precedente ai fini del buon ordine sia militare sia civile, ma che forse ebbe anche i suoi
aspetti negativi in considerazione che, in un certo modo, isolò la guarnigione spagnola da
quel tessuto sociale cittadino a cui essa si era invece fino allora sufficientemente
amalgamata. Così infatti nel 1667 aveva scritto il Rubino di questi nuovi alloggiamenti:
D. Pietro Antonio de Aragona, viceré inclinatissimo e tutto dedito alle fabriche e
massimamente alle grandiose, non contento d’aver dato principio dall’anno passato a una
famosa tarcina (‘darsena’) per dar porto sicuro alla città di Napoli, che ne stava mal provista,
(om.) fece cingere in quest’anno di forti mura il luogo del presidio di Pizzo Falcone, prima non
ben munito, con innalzarvi dentro bellissimi edifici per l’abitazione della milizia spagnola, che
dispersa si vedeva in varie parti della città con disturbo de’ cittadini, riunendola tutta in quel
luogo, che, reso con bella architettura in forma di cittadella, e capace di 4.000 e più fanti, fa
mostra di una grandiosa fortezza.
La compagnia di lancieri pesanti borgognoni (‘valloni’) della guardia del viceré, più tardi
sostituita da due compagnie di cavalli corazze, aveva invece i suoi quartieri al borgo di Chiaia
nel grande palazzo di Federico de Toledo marchese di Villafranca e duca di Ferrandina, per il
cui affitto la cassa militare pagava nel 1682 la notevole pigione di 30 ducati mensili; per
l’alloggio della guardia alemanna si pagava invece la pigione di tre appartamenti,
evidentemente grandi abbastanza, siti nel frontespizio del giardino del conte di Mola nella
strada di Toledo.
Probabilmente la realizzazione più meritoria del de Aragón fu però l’albergo dei poveri,
istituito nel 1667, come anche racconta il Rubino, e che circa un secolo dopo sarà ripreso e
ampliato da Carlo III di Borbone:
Poi che, avendo visto questo ottimo principe ripiena la città di Napoli di una moltitudine troppo
grande di mendici, non solo molesti a’ cittadini per le loro soverchie importunità nell’andar
d’intorno cercando l’elemosina, ma anco vagabondi e oziosi, ripieni di vizi e alieni dal santo
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timor di Dio per la lor vita licenziosa, acciò si togliesse via dalla città gente ‘sì poltronesca e
molesta, dedita solo a cumular denari e vivere in libertà, in pregiudizio de’ veri poveri
bisognosi, (om.) stabilì d’instituire un ospizio (om.) intitolandolo l’Ospizio de SS. Pietro e
Gennaro, (e) ordinò col seguente banno che fra il termine di otto giorni ivi si racchiudessero
tutti i mendici che si ritrovavano per la città (om.) quale termine elasso, tutti quelli che si
ritroveranno mendicando per la città incorrano ‘ipso tunc’ nella pena di sfratto dal Regno…
Napoli dunque allora come oggi, con la differenza però che non ci sono più gli spagnoli
a mettervi ordine.
1672. L'anno 1672 si apriva con la nomina ad auditore generale dell'esercito conferita al
giudice Diego Galiano, incarico lasciato da Antonio de Silva perché divenuto questi nuovo
consigliere del Collaterale, ossia del supremo consiglio che assisteva il viceré. Martedì 5
gennaio il viceré fece dare la solita mostra generale a tutta la fanteria spagnola della città e,
con sicuro gran giubilo della marinaresca delle galere, le liberò (fece mettere in pagamento’)
ben otto paghe arretrate; frattanto stavano per partite per Manfredonia quattro compagnie di
fanti spagnoli destinati a guarnire quattro navi granarie colà caricate per Napoli, in
considerazione che i corsari turco-barbareschi ne avevano catturate alcune l’anno
precedente. L’11 gennaio furono inviati a servire nelle regie galere napoletane altri 12
condannati al remo per diversi delitti, i quali erano stati in precedenza trasmessi alla Gran
Corte della Vicaria criminale dal Tribunale di Campagna. Il 16 s’incamminarono per
Manfredonia quattro compagnie di fanti spagnoli destinate a imbarcarsi sulle navi frumentarie
che in quel porto stavano caricando grano per la Sicilia, la quale, a causa di scarsità di
raccolti e di speculazione, pativa allora una gran carestia e chiedeva rifornimenti di cereali,
oltre che al Regno di Napoli, alla Fiandra, a Livorno e ai mercanti marsigliesi; queste
soldatesche servivano a evitare che altre navi pugliesi, nell'attraversare il Canale di Sicilia,
allora detto Canale di Reggio, fossero predate dai messinesi con barche armate, cosa che ora
sistematicamente avveniva, spinti quelli dalla fame e approfittando quelli egoisticamente della
posizione dominante della loro città sul Canale di Sicilia. Si trattava, come abbiamo già
ricordato, dei prodromi della rivolta e della sanguinosa guerra di Messina che, originata infatti
dalle difficoltà d’approvvigionamento di derrate che affliggevano quella città, sarebbe poi
scoppiata in tutta la sua gravità qualche anno più tardi; da questo momento andranno dunque
moltiplicandosi le notizie della pirateria esercitata dai siciliani sulle navi granarie che, inviate
a Napoli dai partitari di grano dolce e di grano forte della Capitanata, passavano per i loro
mari. Strana sorte allora quella della Sicilia, la quale era stata nel secolo precedente il
granaio dell’Europa meridionale; infatti nel 1573 il diplomatico veneziano Leonardo Donato,
riferendo in una sua relazione inviata al senato della Serenissima, tra l’altro, della gran
produzione di grano che in Sicilia si otteneva (… la singolare abondanza de’ grani che per
benefizio de’ suoi vicini e lontani produce), diceva che ne usufruivano Venezia, Genova, la
Savoia, la Goletta, Malta, i regni di Catalogna e Valenza e si nutriva di biscotti (‘gallette’)
siciliani tutta l’armata di mare della corona di Spagna (… di modo che quello che si cava è
veramente quantità inestimabile, Albéri, Le relaz.) Comunque mettere le mani sul grano
portato dalle navi onerarie che venivano dalla Puglia quando queste s’immettevano nello
Stretto di Messina, era sempre stata impresa sin troppo facile e prima dei messinesi l’avevano
nel passato, in tempi di carestia, spesso compiuta i maltesi, i quali però più onestamente si
limitavano allora a intercettare, sequestrare e dirottare i cargoes a Malta, obbligando poi i loro
padroni a vendere colà le derrate che portavano, come successe per esempio nel 1636 e nel
1648.
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Ora, afflitti gli stessi siciliani dalla mancanza di quella fondamentale derrata, erano
costretti a piatirne all’estero o addirittura a impadronirsene con facili e vili atti di pirateria ai
danni sia del proprio regno sia di altri appartenenti alla stessa corona! Il prossimo viceré di
Napoli, il marchese di Astorga, si adopererà personalmente perché i senatori di Messina si
convincessero a disarmare le loro predette barche piratiche promettendo personalmente il
rifornimento granario della città, ma ciò non ostante la penuria di grano e pane in Messina
continuò.
Nello stesso mese di gennaio Pompeo Almirante, auditore delle regie galere di Napoli, fu
nominato dal viceré nuovo auditore e capo di rota di Lecce e questa è una nomina che sapeva
tanto di una deposizione. Il 2 febbraio lasciò Napoli la solita compagnia di lance della guardia,
allora comandata, ma solo per le esigenze operative, da un certo capitano Spes, mentre
alfiere col soldo di 197 ducati l’anno ne era in questo periodo lo spagnolo Cristóbal de Zuñiga,
per recarsi alla frontiera con lo Stato Ecclesiastico ad aspettarvi il predetto nuovo viceré di
Napoli, il marchese di Astorga, il quale si prevedeva che avrebbe lasciato Roma il giorno 4. Si
seppe in questo inizio mese che una squadra dei soldati di campagna aveva sostenuto uno
scontro a fuoco d’alcune ore con la banda del capo-brigante Abbate Cesare nei pressi
d’Arienzo, scontro in cui alla fine la gente di corte aveva prevalso e aveva fatto prigionieri tre
briganti portandoli a S. Antimo, ossia alla sede del Tribunale di Campagna; uno di loro era
stato lasciato, ben custodito, in quelle carceri, mentre gli altri due erano stati trasferiti a Napoli
su di un carro e portati in Vicaria. In questi giorni era poi tornato a Napoli il figlio del nobile
Antonio Miradoys, il quale era stato sequestrato dall'Abbate Cesare e per il cui ricatto
(riscatto) il padre aveva pagato ben 18 mila ducati; antica industria dunque quella dei
sequestri di persona nel meridione d'Italia!
L’11 febbraio il viceré uscente Pedro de Aragón si recò in carrozza a incontrare il nuovo
viceré a Capo di Chino, località collinare sovrastante la capitale, e ci andò accompagnato da
una compagnia di cavalli corazze, dalla guardia dei suoi tedeschi, ossia degli alabardieri
alemanni, da 26 carrozze, da due trombetti e da una compagnia di fanteria spagnola. I due
entrarono poi in Napoli dalla Porta di Capuana, entrata tradizionale dei regnanti, dove furono
salutati dalle salve dell'artiglieria dei castelli, prime quelle di S. Eramo, e poi, giunti che furono
nel largo di Palazzo, dalla moschetteria di alcune compagnie del terzo di fanteria spagnola
colà squadronate. La mattina del giorno 25 Pedro de Aragón e la duchessa di Feria sua
moglie lasciarono finalmente Napoli, imbarcandosi poi a Pozzuoli da dove, diretti in Spagna,
furono accompagnati da quattro galere napoletane.
Il giorno 29 furono portate in Napoli due teste di briganti compagni dell'Abbate Cesare, i
quali erano stati uccisi dalla gente di corte nelle campagne tra Lapio e Montemiletto; un altro
delinquente fu fatto impiccare, con insolita procedura, nel casale d'Arzano dal commissario di
campagna Francesco Moles.
Il ricatto fatto nelli mesi passati dall'Abbate Cesare nel casale della Barra, con prendersi Diego
Gallo, fu dall'istesso in questi giorni rilassato e mandato graziosamente in sua casa senza
sborso di denaro.
Il predetto episodio avvenuto a Barra, casale che è oggi un quartiere della città di
Napoli, dimostra quanto vicino alla capitale agisse impunemente il famigerato Abbate Cesare;
ma in questo periodo i briganti imperversavano anche nel Cilento e infatti dopo il 10 marzo si
seppe che l'auditore Migliore, il quale stava andando via mare verso la provincia di Cosenza,
essendo stato colà trasferito, era stato catturato con tutta la sua roba da una flottiglia di
feluche di briganti che si dirigevano verso Palinuro:
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Di più corse voce che un’altra squadra de’ banditi fosse andata, sotto nome di Corte, dentro il
castello di Camerota e preso il figlio di Carlo Mazzella, cognato del marchese di quel luogo, il
quale trovatosi in quel punto in un altro quarto della casa, dopo essersi rinserrato bene
cominciò a tirare archibuggiate di maniera tale che ammazzò due banditi, ma non per questo
fu rilasciata la preda del povero cognato.
Anche i presidiari di Toscana non avevano ricevuto le loro paghe per un lungo periodo:
(Marzo 1672:) Il signor viceré ha fatto rimessa di ventimila ducati pigliati a cambio per far
pagare i soldati de’ Presidi di Toscana, quali devono avere 14 mesate e son mantenuti
solamente con un pane di monizione…(Fuidoro).
Giovedì 31 marzo fu pubblicato bando contro i numerosissimi mendicanti che
infestavano la città; quelli forestieri, i quali venivano a Napoli attratti dalla grande propensione
alla carità dei napoletani, propensione che esiste ancora oggi, dovevano uscire dal regno, i
regnicoli dovevano tornare ai loro paesi e gli inabili dovevano essere ospitati nell’ospizio dei
Ss. Pietro e Gennaro, istituzione caritativa di Napoli fatta proprio per loro.
Si intese poi ancora che l'Abbate Cesare Riccardo era entrato nel villaggio di Ielsi alla
testa di 60 masnadieri e l'aveva saccheggiato e poi incendiato, del che avuta notizia, il
preside di Lucera aveva spedito contro di loro l'auditore Gallo con molta gente di corte.
Giungevano infatti a Napoli frequenti avvisi e dicerie sulle imprese dell’Abbate Cesare, un fra’
Diavolo del Seicento, il quale era considerato altrettanto imprendibile, e il 2 aprile fu emesso
bando che poneva 3mila ducati di taglia su questo capo-brigante morto o vivo (e non vivo o
morto come più pietosamente preferiremmo dire oggi). L’8 aprile furono frattanto mandati a
servire nelle regie galere altri 20 inquisiti di vari delitti, condannati al remo dal Tribunale di
Campagna, e pertanto condotti a Napoli; il 12, Martedì Santo, arrivò invece la testa di un
brigante fatta dalla gente di Corte nelle campagne d’Arzano; il giorno seguente furono
condotti nella capitale quattro briganti vivi presi nel Cilento e questi facevano parte della
banda di Cent'anni, altro famigerato capo-brigante il cui cognome augurale si ritrova ancor
oggi nel Napoletano. Iniziatosi frattanto mercoledì 13 aprile ad arruolare fanti in tutto il regno
per formarne nuovi reggimenti per l’estero richiesti da Madrid, il 17, giorno di Pasqua, furono
portate a Napoli quattro teste di briganti uccisi dai soldati di campagna di S. Angelo a
Fasanella. Infine, partiti il 30 da Napoli 140 soldati spagnoli e una cinquantina di birri, pratichi
della campagna, contro la banda del Riccardo, a un bivacco nacque tra i due gruppi un
alterco presto seguito da uno scontro sanguinoso e ne restarono uccisi otto spagnoli e dieci
poliziotti; probabilmente quest'episodio trovava la sua origine in un’altra rissa tra soldati
spagnoli e birri che era avvenuta a Napoli nel marzo precedente, ma questa senza vittime.
Fu di quei giorni anche la nomina a suoi vicari generali - con autorità di alter ego - che il
viceré conferì a quattro notabili per intensificare questa vera e propria guerra contro il
brigantaggio e a loro affidò le 12 province del regno perché le liberassero dai briganti. Al
consigliere Diego Soria marchese di Crispano furono affidate ben sei province e cioè Terra di
lavoro, Principato Citra, Principato Ultra, Contado di Molise, Basilicata e Capitanata, e fu
dotato di 80 uomini tra soldati di campagna e guidati, tra cui un trombetta, un mastro d'atti e
alcuni scrivani; gli altri tre vicari generali ebbero in giurisdizione due province ciascuno delle
sei restanti. Il marchese di Crispano si mise in campagna con la sua gente già lunedì dopo
Pasqua - il 18 aprile, in persecuzione dei briganti e specie del capo-brigante Abbate Cesare
Riccardo.
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Un primo risultato fu l'uccisione del capo-brigante detto Caporale Severo, la cui testa fu,
come il solito, inviata a Napoli a inequivocabile testimonianza della sua morte; ma poi la
situazione dell'ordine pubblico nelle campagne delle province circostanti la capitale divenne
sempre più preoccupante e confusa e il viceré, oltre alla grande attività impressa alle squadre
dei soldati di campagna e a quelle dei soldati delle udienze provinciali, fu costretto a
incominciare a ricorrere anche alla solidissima fanteria spagnola e incominciò con lo spedire
120 di quei fanti ben armati al bosco della Cerra (‘Acerra’), località in cui erano avvenuti
episodi delinquenziali particolarmente gravi; altri 6O spagnoli inviò poi il viceré a Marigliano,
ma tra i birri, specie se briganti accordati, e i fanti spagnoli non correva generalmente, come
sappiamo, molto buon sangue:
... a Marigliano dove, avendo anche il Viceré inviato altri 60 spagnuoli, all'arrivo di questi,
venendo urtato casualmente un guidato da un spagnuolo, passarono tra loro alcune sconcie
parole; ma, dalle parole accesisi maggiormente a sdegno, furo all'armi e con l'armi si attaccò
tal briga tra la squadra di tutti i guidati e li soldati spagnuoli che ne restorno morti e feriti
dall'una e l'altra parte da 18 persone.
Si infittiscono in questa primavera del 1672 le cronache del brigantaggio:
... fu condotto carcerato in Napoli un certo giovane che serviva per cappottiero
(‘guardarobiero’) al capo bandito Abbate Cesare Riccardo e sui compagni e fu preso in
vicinanza di Marcianisi da uno alguizzino (‘carceriere’) di detta terra.
Le notizie delle imprese dell'Abbate Cesare si alternano a quelle sul Cent'anni, il quale,
come abbiamo detto, era un altro famoso capo-banda del tempo; si diceva ora che questi,
braccato, avrebbe allora deciso di cambiar vita e che pertanto avesse ammazzato quattro
briganti di Camerota che prima erano stati suoi compagni e in seguito, per alcuni disgusti
intervenuti tra loro, si erano da lui separati; si diceva inoltre che egli, presentando questa
strage come un servizio reso alla giustizia, avesse tentato di guidarsi, ossia d’arruolarsi tra gli
ex-briganti accordati che, appunto sotto il già detto nome di guidati, erano affiancati ai soldati
di campagna o delle udienze nella persecuzione dei criminali alla macchia; ma il
sopraintendente di campagna non l'aveva voluto ammettere nelle sue squadre, giudicando
evidentemente che non ci fosse da fidarsi del suo pentimento, e allora il Cent'anni, per
guadagnarsi tale indulto, sembrava si fosse risolto di liberare l'auditore Migliore, il quale si
trovava tuttora in sua mano sequestrato nell’attesa che fosse pagato un sostanzioso riscatto,
sperando dunque in tal modo di riuscire a ottenere un aggiustamento con la Corte, cioè con la
giustizia reale; ma quanto ci fosse di vero in tutte queste voci non sappiamo, anche se in
effetti il 9 giugno seguente arrivò veramente a Napoli l'auditore Migliore liberato dal Cent'anni
senza veruno ricatto. Il 16 maggio avvenne poi nella capitale un curioso episodio, il quale
dimostra a qual punto si fosse aggravato il fenomeno del brigantaggio e quanta paura se ne
avesse ormai nella stessa città di Napoli:
Lunedì 16 detto, il doppo pranzo, furono appiccati nel Mercato tre banditi compagni del capo
bandito Cent'anni e, mentre già si era giustiziato il primo, occorse che, entrando in quel punto
a caso in Napoli una squadra di soldati di campagna per la porta del Carmine che era là fuora,
si levò voce fra il numeroso popolo spettatore di quella giustizia (esecuzione) che l'Abate
Cesare con 100 compagni era venuto a prendersi i condennati; alla qual voce, posta in
bisbiglio la gente, subito si pose in fuga e, con la fuga scapulandosi anche una carrozza,
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maggiormente scompigliò il popolo; per il che, andando sossopra tutto il Mercato, i spagnuoli
del Torrione serrarono i rastelli e si posero in difesa e la gente, per ridursi in salvo, perdé chi la
cappa e chi il cappello e poco mancò che gl'altri due giustiziandi non fuggissero, mentre le
guardie ancora si erano quasi tutte date in fuga; ma, vistosi alla fine esser stata vana la voce,
quietatosi il tutto, si eseguì la giustizia con gl'altri due condennati, restandovi nel scompiglio
morti due fanciulli e molti malconci per la cascata che fecero.
Questo episodio dimostra quanto poco rassicurante fosse l'aspetto dei soldati di
campagna e quanto simile fosse il loro abbigliamento a quello degli stessi briganti che
perseguivano!
Dopo il 20 di questo stesso mese di maggio arrivarono a Napoli tre catene di delinquenti,
inviati stavolta dalle udienze provinciali di Lecce, Trani e Cosenza e condannati alle galere, a
cui furono subito condotti. Nella notte del 30 maggio due delle galere lasciarono i loro
ormeggi per portare nei Presidi di Toscana la solita muta dei presidiari, ma stavolta, poiché si
temevano atti ostili da parte dell'armata marittima di Francia, con un rinforzo di tre compagnie
per un totale di 500 fanti spagnoli; stava dunque iniziando quella guerra d'Olanda che
terminerà solo sei anni più tardi. Queste galere scortavano tre tartane cariche di remi da
galera destinate alla squadra di Spagna e infatti queste dovevano poi proseguire per la
penisola iberica; tutto il convoglio era comandato dall’attivissimo generale dell'artiglieria del
regno fra’ Titta Brancaccio, il quale si recava a ispezionare quelle piazze della cui difesa era
responsabile. La sera del giovedì 2 giugno giunse da Barcellona un vascello carico di fanteria
spagnola, la quale, d’ordine del viceré, fu subito visitata da sanitari e provvista di tutto il
necessario.
Altre due catene di 50 condannati al remo dal Tribunale di Campagna giunsero nella
capitale il 18 giugno, poi il giorno 23 vennero 30 inquisiti inviati dal sopraintendente generale
della campagna Diego Soria e infine ancora 38 condannati trasmessi alle galere arrivarono la
mattina del 25; un mese dunque, questo di giugno, rivelatosi molto proficuo al rinfoltimento
dei ranghi delle ciurme; infine la sera del 27 partirono dal porto di Napoli due galere che
andavano in Calabria, dove un’imbarcazione mussulmana era andata a traverso in quelle
marine, cioè aveva dato in terra accidentalmente, e il suo equipaggio era stato fatto schiavo e
tenuto a disposizione di dette galere.
Fu avviso in Napoli che una squadra dei marchetti fusse entrata dentro il Larino (paese presso
Campobasso) e ivi presosi per ricatto il signor don Francesco Carrafa, figlio del già don
Diomede e della signora donna Cornelia Muscettola, pretendendone 4.000 docati di ricatto.
In qualche contrada del regno, per esempio nel territorio di Vallo della Lucania, i briganti
erano chiamati infatti marchetti, ma da dove provenisse questo nome e se esso fosse da
ricollegarsi al nome di qualche antico capo-banda non sappiamo. Più tardi si disse però che il
sequestrato era stato rilasciato dietro pagamento di soli mille ducati.
Alla fine di giugno arrivarono dalla Calabria due tartane cariche di soldati di nuova leva, i
quali furono subito sbarcati e rinchiusi nell’arsenale. Nella prima decade di luglio si seppe che
Carlo Raimone, una volta famoso capo-brigante e ora guidato, essendo giunto a
Tavernanova, non lontano da Napoli, con 40 compagni, era uscito alla testa di costoro da
quella terra in caccia dell'Abbate Cesare, ma poi, a causa di divergenze con la gente di corte
era stato incarcerato da un caporale di questa, il quale, non contento gli aveva anche fatto la
testa e il macabro trofeo era stato portato al commissario di campagna.
All’inizio di luglio il viceré, la sua corte e gli ottimati della città si mettono d’accordo per
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una prima uscita in pubblico vestiti della sciamberga o giamberga (Fuidoro, Bulifon), ossia da
una nuova foggia di vestiario militare che allora si stava diffondendo negli eserciti di tutta
Europa e che in Francia era diventato di gran moda anche per uso civile, perché ritenuta più
pratica ed elegante di tutte quelle fogge nazionali sino allora tradizionalmente usate; essa era
detta anche vestir alla franzesa, proprio perché appunto introdotta a Napoli dai francesi, e
anche vestir di campagna, perché appunto ora preferita nelle campagne militari, e si basava
principalmente sull’uso della marsina, indumento d’origine germanica e detto infatti in Francia,
ancora nel 1681, brandenbourg; i francesi avevano cominciato a usarlo per difendere la
cavalleria dal freddo invernale, ma per gli aspetti militari di questa moda francese detta anche
vestir di campagna, nel senso però di campagna militare e infatti era un vestiario da soldato
adottato negli eserciti già da quasi quarant'anni, rimandiamo ad altra nostra opera già
pubblicata (Boeri-Peirce); qui diremo solamente che si trattava sostanzialmente del
giustoacorpo o marzino (ipoc. di marzialino), poi marzina, marsina, indumento d’origine
tedesca, lungo fino al ginocchio, da indossarsi sulla camisciola (a Napoli giamberghino),
anch’essa di panno, che caratterizzerà, sia per il vestiario militare sia per quello civile, i primi
tre quarti del Settecento e che era detto a Napoli veste d’aggiustacore o volgarmente
giamberga dal nome del maresciallo di Francia conte di Schomberg che, come abbiamo già
detto, lo fece adottare dall’esercito portoghese da lui comandato.
Il viceré aveva scelto un giorno in cui dall’amenissima costa di Posillipo si poteva
assistere a un’arregata (‘regata’) simile a quella che si teneva tradizionalmente a Venezia e
che però a nel regno di Napoli si teneva con le feluche napoletane (dal lt. fulica, ‘folaga’),
velocissime imbarcazioni velico-remiere tra le più piccole del Mediterraneo, le quali erano
presentate alla competizione dai vari quartieri costieri della città:
Domenica doppo pranzo 3 detto (luglio) il signor viceré si trasferì in gondola a pigliar fresco in
Posilipo con il seguito di alcuni titolati, li quali tutti, assieme con Sua Eccellenza, si viddero
vestiti di una nuova foggia, detta ‘alla sciamberga’, cioè un calzone, una marsina e croatta al
collo, che rendevan vaga vista, e con tale occasione si vidde in mare la corsa di quantità di
feluche tra loro disfidate, cioè quelle di Porto Salvo, quelle di S. Lucia e quelle della Conciaria,
di cui rimasero vincitrici le prime, con ottenere in premio un pallio di cinque canne di tela d’oro
e 50 docati in danari, e a vederle concorse molta nobiltà, dame e popolo. (de Blasis).
Nello stesso luglio il marchese di Astorga cominciò subito addirittura a pretendere che i
suoi cortigiani e tutta la nobiltà che voleva frequentare la sua corte si vestissero secondo i
dettami della nuova moda, la quale all’inizio fu però solo una contaminazione tra quella
preesistente spagnola e la nuova francese:
… ma non si poteva comparire avanti a Sua Eccellenza se non si vestiva con sciamberga e
con guarnire la gola di una corvatta bianca, per parte di collare (om.) Questo modo di vestire
alla francese, tirato alla spagnuola, è stato coltivato in Napoli, come scrissimo in questi
notamenti, dal signor marchese di Astorga ed è quasi simile all’uso moderno di Francia dalli
calzoni in poi, che sono alla spagnuola, e le scarpe. (Fuidoro).
Invece poi lo stesso viceré introdusse anche la scarpa con chiusura a fibbia che
caratterizzerà il secolo seguente:
… anzi, con nuova invenzione non vista ancora, portava una fibietta con ligatura dell’orecchine
delle scarpe, nella qual erano bellissimi diamanti… (ib.)
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Lo stesso Fuidoro riportava un gustoso sonetto del poeta marinista napoletano Antonio
Muscettola (1628-1679) a proposito di questa nuova moda che, a causa delle pretese del
viceré, era divenuta a Napoli un’urgenza generale:
Giorno sacro a sciamberghe, i lumi tuoi
Non osino offuscar nubi insolenti
Né del Tirren l’immaculati argenti
Turbo di vento impetuoso annoi.
A pena Febo da’ balconi Eoi
Porge agli egri mortali i rai lucenti
Che si veggono errar, lieti e frementi
I sciambergati, i sciambergandi eroi.
Chi minaccia il sartor gli ultimi danni
Chi vuol che il tracollaro si sommerga
Chi va, chi vien, chi si misura i panni.
Resti la torre a sospirar Rimberga
Che a noi pesati et odiosi affanni
Val più di cento piazze una sciamberga (ib.)
Gli spagnoli avevano cominciato a usare il predetto indumento nel 1669, facendolo
indossare a un reggimento della guardia, che da quello prese infatti addirittura il nome, come
riportava Giovanni Battista Pallavicino, residente genovese a Madrid dal 1668 al 1676:
(1669:) Fu considerato e proposto dal signor marchese di Aytona, magiorduomo maggiore
della regina e della gionta di governo, che, per rendersi Sua maestà stimata ed essequiti più
prontamente i suoi ordini, fosse necessario formarsi un regimento di tremila huomini delle
migliori genti ed officiali della Spagna con titulo di guardia reale, che poi pigliò il sopranome di
‘Chiamberga’ perché i soldati e capi, che avevano militato contro il Portogallo, vestivano tutti
alla forma che vestiva l’essercito de’ portoghesi che fu comandato da monsieur di
Schomberg…
Nel detto reggimento si arruolò il fior fiore dei militari spagnoli e lo stesso marchese di
Aytona ne fu fatto colonnello, essendone ancora il comandante otto anni dopo. Fu proprio
l’adozione di questa marsina, sostanzialmente uguale per tutti gli eserciti europei, avvenuta
gradatamente nel continente dagli anni Sessanta del secolo in sostituzione dei vari, molto
diversi e spesso meno pratici vestiari nazionali tradizionali, che fece nascere la necessità
anche di colori uniformi per potersi così continuare a distinguere in battaglia non solo una
nazione dall’altra, ma anche, nella stessa nazione, un corpo militare dagli altri, non essendo
infatti sufficiente affidarsi al solo servirsi delle bande (fr. écharpes), cioè le fasce distintive dai
diversi colori dinastici, perlopiù di seta, che si erano sino allora universalmente indossate o a
tracolla o in vita sul vestiario militare appunto per meglio distinguere in guerra una nazione o
fazione dall’altra, un metodo che però nei secoli era stato dai benpensanti sempre criticato
perché si prestava facilmente a inganni e a far attribuire ad altri i propri crimini di guerra.
Nacque dunque così in Europa l’uniforme militare, potendosi infatti considerare quella che
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spesso nei secoli precedenti avessero portato singole compagnie di guardia reale solo una
livrea, non dissimile da quella della servitù di palazzo, e non un’uniforme nazionale; il
processo non fu comunque per nulla breve lungo e infatti, a leggere la seguente
corrispondenza da Venezia, ancora nel 1693 un corpo indossante vestiti tutti dello stesso
colore era da notarsi:
11 aprile 1693. Sono arrivati a questo Lido 500 dragoni levati dal conte Monincausa, vestiti
tutti a una divisa…
Le due fogge, quella alla spagnuola e quella alla franzesa, convissero comunque a lungo
nel vestiario civile, specie in quello professionale e cerimoniale; infatti nella sua lettera sulla
già ricordata cavalcata pubblica del 29 maggio 1702 in onore del cardinale Carlo Barberini il
Bulifon accennerà, oltre alle due compagnie di cavalli corazze della guardia del viceré con
uniformi gialle guarnite di velluto dello stesso colore e di larghi e copiosi pizzilli (‘trine,
merletti’) d’argento, anche ai 12 capitani di giustizia a cavallo vestiti di nero alla spagnuola e a
81 cavalieri napoletani, i quali incedevano invece vestiti alla franzesa.
Sabato 9 luglio una galeotta dei corsari turco-barbareschi approdò a S. Vito e Nola di
Bari e il suo equipaggio si mise a scorrere la campagna facendovi 15 schiavi. La mattina del
martedì 19 giunsero nel porto di Napoli 14 vascelli grossi da guerra olandesi provenienti da
Smirne e venuti a rifugiarsi a Napoli per timore dei franco-inglesi che avevano mosso
grand’armata ed eserciti contro l'Olanda, la quale godeva però dell'appoggio degli austrospagnoli; questi vascelli ripartirono il giorno 30 diretti alle loro basi, dopo che si era ormai
saputo con certezza di una tregua d'armi stipulata con gli inglesi. Seguì l'ingresso in Napoli
d’altri briganti in ceppi, portati questi dal tenente di campagna di Salerno, mentre giungeva
voce che il solito Abbate Cesare Riccardo si fosse unito, presso Taranto, alla banda del
Caporale Centomiladiavoli, anche quest’antesignano del più famoso capo-brigante fra’
Diavolo, se non altro per il curioso soprannome; ma sull'Abbate Cesare se ne contavano tante
e tante se ne dissero anche sulla sua morte, avvenuta nell'agosto di questo 1672 nei pressi,
come sembra, di Matera, senza però che mai si giungesse a una versione ufficiale dei fatti
realmente accaduti in quell’occasione, perlomeno a livello d’informazione popolare. Alcuni
riportarono infatti quella morte in un modo, altri in un altro e tale incertezza depone per
qualche occulto tradimento; l'unica cosa sicura fu la sua testa, arrivata a Napoli il 13 agosto,
portata sulla punta di un palo e accompagnata da tre trombetti e 60 soldati di campagna, tutti
a cavallo; procedeva in questo macabro corteo anche un fido compagno dell'Abbate Cesare
ligato a una bestiola, il quale era invece stato preso vivo dalla stessa gente di corte. Dopo che
il corteo ebbe fatto il giro della città mostrando a tutti i suoi trofei, la testa fu posta in una
gabbia di ferro e così esposta, appesa a un torrione fuori la porta di Capuana, e il brigante
vivo, certo Pietro de Petrillo, fu incarcerato in Castel Nuovo perchè, sottoposto alla tortura,
confessasse i nomi dei fautori della sua banda. Non era infatti un mistero che vari stati
stranieri avevano interesse a far sorgere e a mantenere dei torbidi nel regno nel tentativo di
destabilizzarlo o perlomeno di indebolirne la reattività militare e quindi i sostenitori e i
finanziatori delle più grosse e agguerrite bande di fuorusciti e briganti andavano cercati in
Francia, potenza da sempre interessata a indebolire quella spagnola e a impadronirsi del
Regno di Napoli in base ad antiche pretensioni angioine, a Venezia, repubblica oligarchica
che temeva di perdere la sua influenza e il controllo dei traffici marittimi che si svolgevano in
quello che allora si chiamava ancora non Mare Adriatico, bensì Golfo di Venezia, e infine nello
stesso Stato della Chiesa, dove i banditi e i briganti del regno, specie quelli abruzzesi,
trovavano rifugio e protezione, avvalendosene il Pontefice come cuscinetto tra sé e la
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potenza spagnola nel meridione d'Italia. La fine dell'Abbate Cesare, anche se questi era stato
il più pericolo e famoso brigante del suo secolo, non significò comunque certo la fine del
brigantaggio, fenomeno ormai troppo endemico nel regno e sulle cui cause non ci cimentiamo
perché il discorso ci porterebbe fuori del tema militare di questa nostra modesta trattazione; ci
basti dire che sbagliavano i pur quasi sempre acuti ambasciatori veneti quando, leggendo al
senato della Serenissima le loro relazioni sul Regno di Napoli, asserivano che il brigantaggio
meridionale era dovuto agli eccessivi gravami fiscali imposti dall'amministrazione spagnola,
gravami che riducevano i contadini in miseria e alla disperazione, spingendoli così a lasciare i
loro campi e a darsi alla macchia; che avrebbero dovuto allora dire o fare i laboriosi lombardi
oppressi anch'essi dalle stesse gabelle e angherie spagnole e per lo stesso secolare tempo e
in più terribilmente dannificati dagli eserciti stranieri che continuamente passavano,
alloggiavano, campeggiavano e si combattevano nel loro stato? La verità e che la
delinquenza è una tendenza etnica come tante altre, insopprimibile nel Meridione d’Italia e
puntualmente riaffiorante, specie quando le condizioni socioeconomiche di un popolo sono
prodotto dell'ingiustizia.
Venerdì 12 agosto Pedro de Toledo, mastro di campo del tercio spagnolo, dette al
Collaterale giuramento di fedeltà per la nomina reale a membro del Consiglio di Guerra.
Lunedì 15 agosto una squadra di soldati di campagna della provincia di Salerno portò a
Napoli la testa del capo-banda conosciuto come Spinatorta, ucciso in quelle stesse
campagne, e domenica 21 fu portata quella di un ignoto capo-brigante di S. Germano, ucciso
anch'egli nelle campagne del suo paese; non ostanti però questi frequenti successi delle
forze dell'ordine i briganti non perdevano la loro audacia, tanto da assalire un giorno anche il
procaccio di Sora scortato da ben sei soldati. Lunedì 29 fu inoltre portata a Napoli anche la
testa del famigerato capo-bandito Cent'anni, fatta nelle campagne di Pisciotta, e con la sua
anche quelle di un suo fratello e di un suo nipote insieme con un brigante giovanissimo
catturato vivo; giovedì 1° settembre arrivò poi la testa di un compagno di quello che era stato
il capo-brigante Mussotorto, ucciso nelle campagne di Salerno dalla solita gente di corte,
mentre un’altra quelle squadre portava due briganti vivi.
Il brigantaggio del tempo, sebbene molto diverso da quello d’oggi perché
sostanzialmente rurale, non lasciava per questo però indenni i centri abitati e in certo modo
anche la stessa città di Napoli, dove infatti nello stesso predetto giovedì, in seguito a un
omicidio importante avvenutovi due giorni prima, furono arrestati tutti gli abbati che si
riuscirono a trovare in città e furono più di cento. Erano costoro persone che prendevano
l'abito da chierici e al più arrivavano ad assumere i primi ordini, ma non per vera vocazione
religiosa bensì solo per poter godere delle tante immunità e prerogative ecclesiastiche,
mentre in effetti spesso sotto quell'abito portavano armi e commettevano scelleratezze e
delitti. Otto di questi furono infatti trovati con armi addosso e, essendo inquisiti anche per altri
reati, furono arrestati e mandati nel castello di Baia; gli altri, trovati non inquisiti, furono
lasciati liberi. Il Fuidoro, a proposito dei tanti delitti che si commettevano, così in questo mese
di settembre scriveva nel suo diario:
Gran cosa è in questa città che si ammazzano più uomini che bestie, il che nel vero è cosa di
gran meraviglia né accade così facilmente negli altri paesi.
Martedì 6 settembre furono inoltre incarcerati alcuni birri (poliziotti urbani, come già
sappiamo), i quali, in compagnia d’altri come loro e spacciandosi per gente di Corte (soldati di
campagna), avevano la notte precedente rapinato gruppi di devoti che andavano in
pellegrinaggio alla Madonna di Monte Vergine; assalitili infatti nei pressi della seconda
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fontana di Poggio Reale, li avevano spogliati di tutto e lasciati solamente in camicia; il giorno
dopo fu, come il solito fatta salva reale da tutte le fortezze per commemorare la grande vittoria
di Nördlingen del 1634 e l’8, in occasione della festa della Natività della Madonna, ci furono le
solite sfilata a parata al borgo di Chiaia. In questi giorni era frattanto giunta voce a Napoli che,
morto il famigerato Abbate Cesare, suo fratello Felice Antonio Riccardo, mal visto dal resto
della banda, era uscito dal regno con i due compagni più fidi e con loro si era incamminato
verso Venezia; ciò a riprova di quanto fosse diffusa la convinzione che i banditi e i briganti del
regno erano istigati e appoggiati anche da quella repubblica. Fatta la solita mostra della
fanteria spagnola lunedì 12, il 15 s’intese delle imprese di un nuovo capo-brigante, Nicola
Rosato della Pia, il quale rapinava tra Ariano e Avellino, e ci fu anche avviso in quello stesso
giorno che il commissario di campagna aveva fatto impiccare un compagno del capo-brigante
Diluvio nella terra di Lauro nell'Avellinese. Tornarono a Napoli domenica 18 settembre le
quattro galere napoletane che avevano portato in Spagna l'ex-viceré Pedro de Aragón; esse
erano rimaste diversi giorni nel porto di Civitavecchia trattenute da venti contrari e
raccontarono che avevano avuto problemi di saluti marittimi nel porto di Livorno; il 26 il già
nominato Diego Soria fece impiccare a Mugnano un bandito chiamato Pezzilluccio, compagno
del defunto Cesare Riccardo, il quale era stato preso a Marigliano mentre se ne andava
travestito sperando di non esser così riconosciuto; si seppe ancora che a Somma il
commissario di campagna Francesco Moles aveva invece fatto impiccare due compagni del
capo-brigante Domenico Aniello Scala, il quale si era unito alla banda del fratello dell'Abbate
Cesare e anche a quella del capo-brigante Diluvio, formando così un gruppo numeroso di 43
briganti; il 16 ottobre entrerà poi in Napoli la testa di un compagno del predetto capo-brigante
Scala, ucciso nelle campagne vicine a Napoli dalla predetta gente di corte.
In quel mentre arrivò a Napoli un ordine reale del 20 settembre con cui si proibiva per i
soldati napoletani la pena del disterro, cioè della relegazione in un presidio del regno molto
lontano dalla propria terra, senza che ciò fosse dovuto a una precisa condanna giudiziaria
(benché fusse col pretesto d’officio o dignità). Domenica 2 ottobre si commemorò la vittoria
marittima di Lepanto, avvenuta domenica 7 ottobre 1571, festa di S. Giustina, con salve della
fanteria spagnola squadronatasi in città e delle artiglierie dei castelli. Il 18 ottobre l'auditore
generale dell'esercito condannò alle galere cinque soldati di cavalleria e tre marinari, tutti
disertori, i quali, mentre fuggivano per mare, erano stati presi nelle acque di Terracina
intendendo essi sbarcare nello Stato Ecclesiastico; e le ciurme delle galere dovevano essere
in questo periodo ben folte se il giorno 28, festa dei SS. Apostoli Simone e Giuda, furono
liberati dalle catene che li teneva avvinti ai loro banchi ben 50 forzati che avevano ormai
scontato la loro pena; essi andarono in processione con tutte le loro catene, com'era
tradizione, alla chiesa di S. Paolo a render grazie però a un altro santo, cioè a S. Gaetano, e
dopo una breve orazione furono scatenati e mandati liberi alle loro case. Questo 1672, povero
di cronache militari propriamente dette giacché anno di sostanziale pace per il regno,
continua però a esser ricco delle imprese dei cosiddetti soldati di Corte, ossia di quella polizia
giudiziaria provinciale divisa in squadre comandate da caporali e sparse per l'intero Regno di
Napoli che stiamo infatti così spesso nominando.
Nel primo pomeriggio del 3 novembre fu portata nella capitale la testa del capo-brigante
Diluvio, vecchio compagno del defunto Abbate Cesare Riccardo, il quale si era poi messo per
proprio conto; in uno scontro con la gente di corte nelle campagne di Eboli anche lui però
aveva perso la vita e la testa, secondo la feroce ma necessaria procedura di un tempo in cui
ovviamente non esisteva la documentazione fotografica e quella anagrafica era limitata ai
registri parrocchiali. Spesso, allora come oggi, si creavano tra i briganti e i possidenti di terre
lontane dai maggiori centri amministrativi connivenze che i secondi, taglieggiati dai primi,
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erano costretti ad assumere con questi, allora come oggi, per mantenere buoni rapporti; nella
sera del predetto giorno 3 fu per esempio e d'ordine del viceré carcerato a Napoli in castello
Horazio de Luca, persona molto facoltosa che aveva appunto dato ricetto ad alcuni briganti
nelle sue proprietà. Martedì 16 novembre s’imbarcarono per la Sardegna su un vascello a
nolo 400 fanti di nuova leva divisi in due compagnie e tenuti sino allora nell’arsenale, dove ne
restavano così ancora ben 1.200 che ci si preparava a spedire invece a Barcellona mettendo
a partito il loro passaggio marittimo. Nel primo pomeriggio dello stesso 16 furono inviati alle
galere nove inquisiti di molti e diversi delitti perché condannativi dal solito Tribunale di
Campagna; una catena di 18 altri delinquenti, pure condannati al remo da quel tribunale,
giunse a Napoli la mattina del 28 e anche costoro furono subito portati a servire nelle regie
galere napoletane, la cui Padrona, ossia la vice-Capitana della squadra, era il precedente
giorno 24 partita per Genova dove andava a prendere un nipote del viceré che veniva a
Napoli a prender possesso della sua nuova carica di tenente della compagnia delle lance
della guardia; in effetti poi, il mese successivo, il viceré conferirà a questo suo nipote anche la
nomina a governatore di Pozzuoli, onde incrementare evidentemente le entrate del congiunto.
Sono state mandate in Sardegna 2 compagnie d'italiani di quelli condannati a servire che da
lungo tempo erano dentro l'arsenale e si è fatto bene a levar questa gente facinorosa da
Napoli.
Anche quest'ultimo avvenimento è della fine del mese di novembre; tempo in cui il viceré
assegnò anche diverse nuove cariche pubbliche; per esempio fece Gasparo Valenzuola,
tenente della sua guardia, governatore della città d’Aversa, e mise al suo posto un suo nipote.
In quel tempo in Europa continuava a est la guerra contro i turchi, i quali avevano invaso
estesi territori della Polonia, e a ovest contro i franco-inglesi, marciando il principe d'Orange
verso Liegi con un esercito di 23/24mila uomini, la cui la cavalleria spagnola era comandata
dal napoletano Michele Cajafa. Il 7 giugno si era poi combattuta una grande battaglia navale
a Solebay nel Suffolk, cioè sulla costa orientale della Gran Bretagna; la flotta olandese
comandata dal viceammiraglio Michiel Adriaen de Ruyter, governatore della flotta armata
degli Stati Generali d’Olanda aveva sorpreso in quella località quelle alleate di Gran Bretagna
e di Francia, rispettivamente comandate da Edward Montagu duca di York e dal
viceammiraglio conte Jean d’Êtrées, le quali si preparavano a un’azione congiunta contro
l’Olanda; la battaglia era finita senza vincitori né vinti, ma gli olandesi avevano così ottenuto
di scongiurare la suddetta grave minaccia.
Domenica 4 detto (dicembre), festività della gloriosa vergine e martire Santa Barbara, la
compagnia dei bombardieri e aiutanti di tutte le castelli di Napoli adorno per la Città in
ordinanza facendo varie salve, con visitare anco la chiesa della Santissima Annunciata dove si
conserva la testa di detta Santa.
Erano tempi quelli in cui Napoli le reliquie dei santi, specie le estremità anatomiche e le
ampolle di sangue, abbondavano; basti ricordare soprattutto la testa di S. Gennaro, reliquia
questa che colà allora pure si conservava e solo alla sua presenza una volta si scioglieva
(ribolliva,come allora si diceva) il sangue dello stesso santo, mentre oggi pare che basti
esporlo al suo busto d’argento o nemmeno a quello, e inoltre una gamba intiera dell'apostolo
S. Andrea che si conservava a S. Chiara e poi, in concorrenza con il suddetto, si scioglieva
nel regno anche il sangue di altri santi, per esempio quello di S. Giovanni Battista, il quale,
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custodito dalle monache benedettine, si conservava nella chiesa di S. Gregorio Armeno e si
scioglieva il giorno 29 agosto d’ogni anno con ogni maggior ricca pompa e sacra
magnificenza, tant’è vero che era tradizione che vi assistesse la viceregina; inoltre, a Minori
presso Amalfi, si scioglieva il sangue di S. Pantaleone, patrono di quell’amena cittadina, e, se
ben ricordo, ciò ancora avveniva alcune decine d’anni fa.
Il giorno 6 il generale dell'artiglieria fra’ Titta Brancaccio fece ritorno a Napoli dalla visita
fatta alle fortezze dei Presidi di Toscana.
Lunedì 12 detto fu avviso come, essendosi vicino Montesarchio incontrati alcuni soldati di
campagna della squadra del consigliero don Diego Soria con una truppa di guidati sotto la
condotta del caporale Michele de Crescenzo, erano venuti tra loro alle mani e ne erano rimasti
undici morti di questi secondi.
Per il suddetto potente Soria verso la metà di dicembre arrivò dalla Spagna la nomina a
straticò (‘capitano a guerra’) della città di Messina. L’omosessualità non era perdonata, specie
nei ristretti ambiti delle galere, e di conseguenza le conversioni degli schiavi mussulmani al
cristianesimo non sempre erano spontanee:
Martedì 20 detto (dicembre), essendo stati condennati a esserno appiccati su di una galera
della squadra di Napoli due schiavi di quella per aver commesso vizio nefando, fu eseguita la
sentenza solo con un di essi, il quale si era volentieri fatto cristiano; e l’altro, mostrandosi
renitente di venire alla Santa Fede, essendosi venuto all’atto di bruggiarlo vivo, intimorito
dall’orrenda morte, disse volersi far cristiano, per il che, doppo averlo, quanto fu possibile,
catechizzato, giovedì seguente 22 detto fu su la medesima galera doppo il battesimo
appiccato.
Apertosi nel corso di questo 1672 un conflitto tra la confederazione polacco-lituana e
l’impero ottomano, il 27 agosto era caduta in mano turca la fortezza di Kamianets-Podilskyi in
Ucraina e poi, in seguito ad altri eventi bellici negativi, la detta confederazione era stata
obbligata alla pace di Buczacz (18 ottobre), con cui cedeva a Maometto IV vaste estensioni di
territorio ucraino e accondiscendeva al pagamento di un tributo; era questa una delle poche
guerre europee a cui non partecipavano soldatesche napoletane.
1673. All'inizio di quest'anno si seppe dell’arresto di parecchi nobili, senza penetrarsene però
la causa; probabilmente si erano accertate altre complicità nella recente congiura del principe
di Macchia. La sera del venerdì 13 gennaio giunse dalla Spagna un vascello che portava una
compagnia di fanteria di quella nazione, destinata alla recluta del terzo fisso, e nei primi giorni
del mese successivo ne giungerà una seconda genovese che porterà altri 100 di quei soldati.
In quel mentre la Spagna aveva chiesto al Regno di Napoli un’altra leva per la nuova guerra
che le mire imperialistiche della Francia avevano acceso con l'aggressione, oltre che del
principato di Catalogna, ora anche dell'Olanda; bisognava dunque preparare 6mila uomini e
12mila cantara (misura di peso divisibile in 100 rotoli) di polvere pirica e di corda-miccia per
mandarli dove si ordinerà con le galere. Questa nuova guerra non sarà però pubblicata a
Napoli ufficialmente prima del 13 dicembre 1673, secondo una prassi che voleva il
riconoscimento formale dei conflitti solo quando questi erano già completamente in atto.
Lunedì 30 gennaio morì a Napoli il famoso Loise Poderico, il quale aveva raggiunto i
massimi vertici della carriera militare, essendo stato più volte capitano generale; ai suoi
solenni funerali parteciparono tutti i principali ufficiali vestiti a lutto, quattro compagnie di
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cavalleria, tra cui quella della guardia del viceré, e cinque di fanteria spagnola, insomma un
piccolo esercito.
Si era nel frattempo già raccolto in regno un nuovo terzo di 1.200 coscritti sotto il
comando del mastro di campo Titta (Gioan Battista) Pignatelli, evidentemente appena tornato
in patria a questo scopo, e si sarebbe dovuto mandarlo in Catalogna su tre legni che a tal
scopo erano in porto a Napoli sin dal 17 gennaio e che erano già stati caricati di tutte le
necessarie munizioni; non ostando che i soldati fossero stati poi imbarcati sabato 4 febbraio,
questi legni non riuscivano però a salpare e così commentava, lo stesso giorno, il nunzio
apostolico di Napoli:
(Napoli, 4 febbraio:) Più per mancanza di denaro che di vento stanno immobili li vascelli che
devono transportare in Catalogna il 3° di don Titta Pignatello…
I suddetti vascelli salperanno finalmente per Barcellona solo il 10 successivo, dopo
però che alla spedizione si sarà dovuto aggiungere un quarto vascello perché si potesse
imbarcare tutti gli uomini e tutti i materiali previsti. Crediamo opportuno a questo punto
chiarire che, comparendo frequentemente nelle nostre cronache la parola vascello, con essa
ancora a quei tempi si voleva spesso indicare a Napoli qualsiasi tipo d'imbarcazione e non
solo una grossa nave da guerra, come invece all’estero si stava già incominciando a fare.
Il mastro di campo Gioan Battista Pignatelli perderà presto la vita in Catalogna nella
battaglia del fiume Ter vinta sui francesi dal napoletano Francesco Tuttavilla duca di S.
Germano, il quale era l’anno precedente tornato in Spagna dalla Sardegna come viceré di
Catalogna; fu colpito infatti a una coscia da una cannonata e, sebbene l'arto gli fosse segato
dai chirurghi, non sopravvisse. A quell'epoca le ferite degli arti riuscivano molto spesso
mortali in considerazione che, usandosi risolvere la frantumazione delle ossa con la semplice
amputazione, spesso il ferito moriva per dissanguamento o per infezione post-operatoria o
per complicazioni cardiache dovute all'eccessiva sofferenza. Era in quel tempo in Catalogna
un altro terzo napoletano guidato da un Pignatelli, cioè quello di Domenico (altrove Diego),
figlio del duca di Bellosguardo, il quale sarà però, come vedremo, molto più fortunato del
congiunto raggiungendo alte cariche; inoltre a un napoletano, il duca di Monteleone, era stato
affidato in quell'esercito il mastrato di un terzo spagnolo, onore rarissimo e riservato solo a
quegli italiani o valloni che, avendo ricevuto dal sovrano il titolo di grandi di Spagna, erano
equiparati agli spagnoli a tutti gli effetti di carriera e nel conferimento d’onori e privilegi.
Attorno al 20 febbraio il viceré riunì il Consiglio di Guerra ponendo all’ordine del giorno
la necessità di potenziare l’armamento e le guarnigioni dei Presidi di Toscana a causa della
minaccia portata in quei mari da vascelli francesi e inglesi col pretesto di traffici commerciali e
si pensava di affidarne il comando al capitano generale dell’artiglieria Gioan Battista
Brancaccio; si decise una leva straordinaria di 600 fanti da inviare appunto in quei presidi, ma
la cosa andò per le lunghe a causa della ricorrente penuria di denaro, dovuta, come si
mormorava, solo all’avarizia del viceré, il quale era persino in arretrato di quattro mesi con il
pagamento della sua famiglia, ossia dei suoi servitori, e pertanto questi si erano quasi
ammutinati; più volte in seguito si leggerà, nei dispacci del nunzio apostolico, del
comportamento quasi rapinoso di questo viceré e del suo sistematico non pagare i debiti.
Nella notte del martedì 28 febbraio morì il luogotenente di mastro di campo generale Letizia;
sarà sostituito dal viceré, come da suo viglietto del sabato l’11 marzo, con Domenico Durante,
scelto tra i molti pretendenti di quell’impiego.
A quanto si legge in una vasta storia di Brescia, sarebbe di questo 1673 una grossa
fornitura d'armi da fuoco e da taglio che Napoli ricevette dalla detta città da sempre
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all'avanguardia in Italia per la gran quantità d'armi d'ogni genere che riusciva a produrre e a
fornire a tutti i potentati italiani e spesso anche all'estero. Avrebbe dunque in tal occasione
Napoli, pur essendo essa stessa produttrice di armi, acquistato da Brescia ben 11mila
moschetti, 12mila archibugi, mille carabine, duemila pistole, 8mila picche e 300 partigiane; ma
in verità questa data del 1673 sarebbe da verificarsi, in considerazione che una simile ingente
fornitura sarebbe molto più giustificata se di qualche anno più tarda, cioè se coincidente con
la guerra di Messina, episodio in cui Napoli si trovò a dover provvedere completamente alle
necessità di un intero esercito asburgico.
Pur continuando a chiedere leve di regnicoli la Spagna non tralasciava però per questo
di pensare anche alla difesa dei suoi possedimenti italiani. Nella seconda metà di febbraio
giungeva infatti a Napoli dalla penisola iberica un convoglio di tartane che portava più di mille
soldati spagnoli, i quali, appena arrivati, furono rivestiti e lasciati poi di presidio nella Capitale,
permettendosi così, mentre lunedì 25 marzo giungeva anche una tartana dalla Sardegna che
portava 120 coscritti in quell’isola arruolati, a otto compagnie di loro commilitoni già in Napoli
di partire il 29 marzo per andare a rinforzare di uomini e munizioni i Presidi di Toscana, portati
da tre vascelli e due tartane a noleggio, in cui pure erano stati imbarcati alcuni regnicoli
condannati a servire in guerra; ciò perché il timore d’ostilità francesi nel Tirreno era sempre
presente e giustificato. Uno di questi vascelli però, distaccatosi alquanto dagli altri durante la
navigazione, fu assalito e catturato in corrispondenza delle marine laziali da tre caravelle
turchesche, cioè da quei caramusali barbareschi di cui abbiamo già detto; vi perirono ben 200
soldati e 60 marinai e a Napoli si criticò poi aspramente l'inspiegabile circostanza che gli altri
vascelli non fossero intervenuti in soccorso di quello aggredito. Forse i barbareschi avevano
agito troppo rapidamente, disponendo di legni più veloci, e infatti avevano attaccato un
convoglio non formato di galere come il solito; ma caso aveva voluto che, come aveva scritto
il Fuidoro il mese precedente, delle sette galere di Napoli allora ben tre non erano più in
grado di navigare in considerazione che sderinate, ossia piegate all’indietro come se
avessero le reni spezzate, evidentemente a causa di fasciame marcito facevano acqua nei
locali di poppa, e le altre quattro dovevano essere già impegnate in altre missioni; d’altra
parte allora già si pensava che vascelli d’alto bordo e ben armati fossero in grado di
difendersi da soli. A bordo del vascello perduto c'erano anche numerose famiglie dei soldati
spagnoli e tutti coloro che furono fatti prigionieri dai corsari poterono però in seguito esser
riscattati con il pagamento di denaro secondo l'uso del tempo; d’altro canto anche i turcobarbareschi persero in quella battaglia una di dette loro caravelle, la quale, abbandonata
dall’equipaggio perché evidentemente troppo danneggiata dalle cannonate, andò ad arenarsi
sul litorale laziale; dentro la stessa fu trovato quasi tutto, tranne però i barili di polvere,
evidentemente gettati in mare prima della battaglia per timore che una cannonata li colpisse e
facesse saltare tutti in aria.
Alla fine della prima settimana d’aprile si riunì a palazzo il consiglio di guerra per
discutere delle preoccupanti notizie che aveva ricevuto il residente veneziano a Napoli e che
dicevano la formazione di una massa di soldatesche turche alla Vallona, pronte a imbarcarsi
sull’armata di mare ottomana. Certo, dopo la caduta di Candia, antico baluardo della
cristianità, i turchi e i mori loro vassalli scorazzavano ormai con ritrovata tracotanza nel
Mediterraneo. In quei giorni lasciava Napoli per i Presidi di Toscana il suddetto generale
dell’artiglieria Gioan Battista Brancaccio, per cui il nunzio apostolico annotava amaramente
che, in seguito a questa partenza, si poteva dire che l’unico capitano italiano di qualche
pregio che restasse a Napoli era Marc’Antonio di Gennaro. Altra preoccupante notizia di quei
giorni fu che la galera S. Giuseppe aveva rischiato di naufragare.
Sabato 29 aprile entrò in città una compagnia di nuova leva arruolata in qualche
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provincia del regno e poi, mentre lettere da Tursi e Gravina portavano notizia che i banditi
lucani avevano saccheggiato il paese di Cirigliano, con altre missive del 14 maggio da Lucera
martedì 16 si seppe che il 13 erano sbarcati i turchi e, messe in ordine ben 14 loro bandiere
(‘compagnie di fanteria’), avevano attaccato S. Nicandro, distante dal mare circa dieci miglia,
e che sembrava che la stessero saccheggiando, per cui il preside di quella provincia si era
mosso con un nerbo di gente per andare ad affrontare il nemico; subito allora il viceré fece
partire per quella terra il soccorso già deciso nel suddetto ultimo consiglio di guerra e cioè
600 fanti spagnoli seguiti giovedì 1° giugno da tre compagnie di cavalli comandate dal loro
tenente generale - poi anche commissario generale – il veneziano fra’ Virginio Valle e, a
questo proposito, il già nominato diarista napoletano Fuidoro osservava malignamente - o
meglio realisticamente - che questi soldati, i quali faranno ritorno a Napoli col Valle nella
seconda metà di novembre, avrebbero di sicuro fatto in quella zona più danno di quanto
fossero riusciti a farvi gli stessi turchi, riferendosi chiaramente al peso del loro alloggiamento
e del loro sostentamento che sarebbe gravato su quelle Università (comunità) e alle razzie a
cui i soldati si davano di solito impunemente nelle campagne. A proposito del tenente
generale Valle, diremo che egli mantenne il predetto suo alto grado per lungo tempo, poiché
già l’occupava nel 1670 e ancora l’occuperà nel 1680. In seguito il viceré mandò ordine alle
compagnie di fanteria spagnola che si trovavano in Abruzzo di calare alle marine per
contrastare eventuali tentativi di sbarco nemici anche su quella coste, mentre, avvistate due
barche di corsari turche dalle coste della Calabria, domenica 4 giugno quattro galere
napoletane lasciarono Napoli per unirsi a quelle di Sicilia e di Malta in una spedizione che
ripulisse i mare meridionali dai corsari turco-barbareschi; all’inizio del mese seguente
cattureranno infatti una prima galeotta corsara con un equipaggio di 27 greci e due turchi, i
quali erano sbarcati presso Catanzaro in caccia di abitanti da fare schiavi. In seguito si
ordinerà a dette galere di restare a incrociare in quei mari anche per tutto il mese d’agosto.
Verso il 22-23 giugno il viceré scese nell’arsenale per vedere la nuova galera Capitana
che vi si stava fabbricando e per porre il primo chiodo alla costruzione di un’altra, da lui
battezzata S. Antonio, sollecitando nel frattempo le maestranze perché i due nuovi legni
fossero varati nella seguente primavera; occorrevano infatti non meno di dieci mesi per
costruire una galera. Giovedì 6 luglio fu data la solita mostra generale dalla fanteria spagnola
di Napoli.
Nel diario del Fuidoro, tra gli avvenimenti del luglio, così si legge:
Sono entrate (a Napoli) qualche numero di gente assentate (‘reclutate’) alla guerra e radunate
a forza per le provincie da mercanti capitani di tal negozio; chi si è arrollato per disperazione,
chi a forza e chi per provar pane e sono d’ogni età.
La tragedia della guerra s’innestava dunque in una realtà di disperazione sociale e da
essa trovava anche alimento, perché il mandare a combattere i tanti poveri disgraziati o
sfaccendati del regno era allora considerato un bene per una società che in tal modo si
liberava di tantissimi malintenzionati e uomini disutili, e molto si applaudivano a Napoli i viceré
che più a ciò si dedicavano.
In questo luglio il suddetto Fuidoro anche lamentava l’eccesso del lusso e delle spese
fatte dai napoletani per adeguarsi alle sempre nuove mode e novità che venivano dalla
Francia, e quindi, giamberghe, giamberghini, cravatte, camiciole e calzette di seta, scarpe con
alti calcagnini, lunghe parrucche, dette allora perucche od anche cavigliere posticcie, ecc.:
… Gli spagnuoli anco non ci rimediano perché ci vonno tenere così debilitati per la loro
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sicurezza.
Tra il 14 e il 15 luglio giunsero a Nisida dieci galere francesi, mettendo pertanto tutti in
allarme, ma si limitarono a comprare cibo e altre mercanzie e poi ripartirono, comportandosi in
sostanza così correttamente da far smettere per qualche tempo ai napoletani di dir male dei
francesi. Lunedì 17 luglio un soldato della compagnia di cavalleggeri croati si suicidò con la
sua pistola, si disse perché maltrattato dal suo capitano, il quale era chiamato a Napoli
Vincenzo ed era succeduto a Lucas, conosciuto questi a Napoli come Lucacchio e ricordato
come un bravo soldato; ma, in un suo dispaccio alla Corte Vaticana, il nunzio apostolico
riferisce questo episodio in modo del tutto differente, soprattutto perché considera il detto
Lucacchio ancora in servizio:
Avendo Lucachi, capitano d’una compagnia di croati a cavallo, ferito il suo cornetta (‘alfiere’),
è stato posto (agli arresti) in castello…
Alla fine di luglio erano disponibili mille nuovi fanti italiani (‘regnicoli’), pronti, ben
addestrati e in attesa di essere inviati in Fiandra. Il 4 settembre partirono per Longone e per
poi scorrere il mare le quattro uniche galere di Napoli che erano allora, come abbiamo detto,
in condizione di navigare; il 16 novembre prese possesso della sua carica il nuovo generale
delle galere di Napoli, cioè a Giovan Battista Ludovisio principe di Venosa e di Piombino,
marchese di Populonia, signore di Scarlino e delle isole d’Elba, Montecristo e Fiocco,
marchese della Colonna, conte di Conza ecc. con una cerimonia in cui, come il solito, si
videro dette galere coperte di fiamme e bandiere.
L’avara gestione della cosa pubblica fatta dal marchese di Astorga si poteva costatare
anche in questa fine di luglio e così infatti si legge tra i dispacci del nunzio apostolico:
(Napoli, 5 agosto:) La soldatesca qui è così mal pagata che molti della medesima vanno
elemosinando, onde stà tutta irritata col signor viceré…
Verso il 10 di agosto giunsero in porto due tartane cariche di fanteria spagnola di nuova
leva, mentre lunedì 14 tornarono le quattro galere napoletane dalla loro missione nei mari
meridionali, avendo fatto preda d’una fusta dei turchi e d’una galeotta di greci e, poiché questi
ultimi erano sudditi della Repubblica di Venezia, si cominciò a discutere se si trattava o no di
buona preda e se bisognava restituirla a quello stato. Inoltre presso Ponza due galere del
granduca di Toscana avevano la settimana precedente catturato due galeotte, un bergantino
e una barca dei corsari turco-barbareschi ed erano poi andate in caccia di due galere
bisertine. Giungevano in quei giorni notizie di diversi sbarchi dei turco-barbareschi sulle
marine del regno e la più grave era quella che deponeva per una scarsa vigilanza delle coste;
sbarcati di notte i turchi da cinque galeotte presso Gallipoli, avevano trovato torrieri e cavallari
addormentati e quindi s’erano senza alcun contrasto inoltrati nell’interno e avevano fatto
schiavi 70 abitanti, tra uomini e donne, e ucciso cinque bambini lattanti; una settimana dopo si
seppe ancora che, sbarcati nella provincia d’Otranto altri corsari da cinque fuste di S. Maura
in Grecia, avevano catturato 80 persone e ucciso altre quattro che avevano tentato di
difendersi.
Finalmente sabato 19 agosto la soldatesca acquartierata nella capitale fu passata in
rivista generale e pagata, specie 1.200 fanti regnicoli di nuova leva che si trovavano
nell’arsenale; tra di loro c’erano 80 banditi accordati e circa 220 condannati la cui pena era
stata commutata nell’obbligo di servizio militare all’estero. Sabato seguente, proveniente da
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Genova, fece ritorno a Napoli la galera S. Giuseppe, cioè quella che nella prima parte
dell’anno aveva rischiato il naufragio; poi giunsero tre galere pontificie con il loro generale
commendator Bolognetti, mentre nella notte tra il 4 e il 5 settembre quattro delle napoletane
salpavano per andare a incrociare lungo le spiagge laziali, un tratto di costa sempre
particolarmente infestato dai corsari nemici.
Giovedì 14 settembre due compagnie di fanti spagnoli lasciarono Napoli marciando
verso l’Aversano; esse avevano la missione di punire gli abitanti dei feudi di Gianserio
Sanfelice marchese di Frignano, i quali si erano ribellati all’autorità regia. Mercoledì 11
ottobre il viceré fece cavaliere dell’abito (‘ordine’) di Calatrava il capitano della sua guardia
alemanna José Manriquez e poi, verso il 20, il corriero ordinario di Spagna portava la notizia
della nomina del principe di Piombino al generalato delle galere di Napoli; il nuovo generale,
giunto a Napoli, lunedì 20 novembre fece passare in rassegna tutta la gente di galera.
Martedì 12 dicembre arrivò una tartana che portava a Napoli altri soldati spagnoli di
nuova leva; in quel tempo, a causa delle nuove ostilità contro la Francia, fu proclamato bando
di allontanamento dal regno di tutti i francesi che vi risiedevano.
In quel mentre in Europa era continuata la guerra franco-anglo-olandese e Luigi XIV
aveva nel giugno preso con assedio l’importante città di Maastricht, possedimento che sarà
poi restituito alle Province Unite d’Olanda con la pace di Nimega del 1678. Inoltre, nello
stesso giugno c’erano anche state tre importanti battaglie navali presso le coste olandesi;
Inghilterra e Francia non avevano infatti rinunziato ai loro piani di invasione dell’Olanda e le
loro flotte, comandate dal Rupert, principe palatino del Reno, e dal già ricordato d’Êtrées, si
erano dapprima scontrate con quella olandese del viceammiraglio generale Michiel de Ruyter,
coadiuvato dai viceammiragli Cornelis Tromp e Adriaen Banckert, nelle acque di Schooneveld
due volte, cioè il 7 e il 14 giugno, senza che nessuno riuscisse a prevalere, come era
successo l’anno precedente; ma poi nel terzo e definitivo scontro di Texel, avvenuto il 21
agosto, gli olandesi erano risultati vincitori e l’invasione era stata di nuovo sventata. In seguito
a queste belle imprese di difesa del loro stato compiute dagli olandesi, gli inglesi si
convinsero a trattative di pace, la quale sarà firmata il 9 febbraio seguente a Westminster,
mentre la guerra contro la Francia continuerà fino al 1677; nel frattempo c’era stato però
anche l’assedio di Bonn, durato dal 3 al 12 novembre, dove la guarnigione francese e
dell’Elettore di Colonia, assediata da un esercito ispano-impero-olandese tra i cui comandanti
c’era anche l’italiano Raimondo Montecuccoli, era stata costretta ad arrendersi.
Era poi in questo 1673 ripresa la guerra della confederazione polacco-lituana contro
l’impero ottomano e l’11 novembre a Chocim il capitano generale polacco Jan III Sobiewski
aveva sconfitto i pasha Hussain, Süleyman e Kaplan, vittoria che gli varrà l’ascesa al trono di
Polonia. Alla detta battaglia le artiglierie polacche erano affidate al noto balistico Kazimierz
Siemienowicz, autore di un trattato d’artiglieria tradotto in tutte le principali lingue europee e in
cui il Siemienowicz, in questo secondo solo all’imperiale Conrad Haas (1509-1576), aveva
teorizzato l’uso militare della forza reattiva della polvere da sparo, cioè aveva progettato dei
razzi non più solo pirotecnici, bensì portatori di cariche esplosive; poiché a Chocim alla
battaglia campale si affiancò anche l’assedio della locale fortezza turca, è credibile che, come
dicono, ne abbia fatto uso o primo uso in quella occasione; i razzi erano infatti armi con tiro
ad arcata assimilabile a quello dei mortari, quindi adatti a un uso ossidionale.
1674. Cinque galere napoletane che, salpate da Napoli sabato 30 dicembre precedente per
portare ai Presidi di Toscana dieci compagnie spagnole, di cui sette in muta e tre di rinforzo di
quei presidi, raccontarono al loro ritorno che avevano dato la caccia a due tartane corsare
francesi in cui s’erano imbattute; il 20 febbraio lasceranno poi la capitale altre cinque
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compagnie di fanti spagnoli, probabilmente di quelle che erano da poco tornate dai suddetti
Presidi, ma queste andavano in Abruzzo a combattere il brigantaggio che affliggeva quella
provincia. In quel mentre, verso la metà di gennaio, essendo stato rinnovato un vecchio
ordine di Filippo IV che ordinava, ora a proposito dell’esercito di Catalogna, che sempre si
desse, per quanto riguardava gli avanzamenti di carriera, la precedenza agli ufficiali spagnoli
rispetto a quelli di altre nazionalità, anche quando fossero di umile origine, adesso come
allora c’era stata una protesta degli ufficiali italiani, i quali s’erano doluti di ciò con il viceré;
molti s’erano spinti sino a dare per tal motivo le dimissioni e, privi del loro stipendio, per poter
vivere avevano chiesto l’aiuto della Città di Napoli. Mentre si pensava di istituire magari una
nuova tassa a loro favore, il viceré promise d’interessarsi della questione e, poiché in seguito
le cronache non più accenneranno a dette proteste, c’è da pensare che i nobili ufficiali
regnicoli fossero stati in qualche modo acquetati.
All’inizio di febbraio s’allestivano due galere destinate a salpare per Genova, dove si
recavano a fornirsi di nuovi arsili o fusti o gusci, cioè a cambiarsi gli scafi evidentemente ormai
vecchi e sdruciti; perché, invece di andare a comprare dai genovesi, non si costruissero due
scafi nuovi nell’arsenale di Napoli è presto detto; era uso del tempo che, quando la
sostituzione si dimostrava urgente e non c’era quindi tempo di aspettare nuove costruzioni,
regni e stati marittimi si andassero a rifornire all’estero, laddove cioè avevano notizia che ci
fossero appunto degli arsili disponibili. Mercoledì 7 marzo s’imbarcarono su tre grossi vascelli
d'alto bordo, due dei quali erano arrivati a Napoli già la sera del giovedì 18 gennaio, e si
trattava di uno maiorchino, uno veneziano e uno inglese, i quali, a tal scopo noleggiati,
dovevano portare in Catalogna i 1.200 soldati regnicoli di nuova leva che erano stati arruolati
in osservanza dell'ordine reale dell'anno precedente e che, rinchiusi nell’arsenale come
abbiamo già detto, erano stati posti sotto la guida del sargente maggiore di battaglia Antonio
Guindazzo, appena tornato in patria per una licenza di sei mesi dopo aver servito all’estero
per ben 30 anni, in Catalogna, Spagna e Fiandra; a causa di venti contrari la partenza
avvenne però solo il 19 seguente e ci si può facilmente immaginare in quale disagio,
affollamento e ristrettezze quei poveri soldati fossero stati costretti a vivere a bordo in quei 12
giorni! Certo le galere, anche se molto più anguste e scomode, erano, per i trasporti militari,
molto più vantaggiose, perché non avevano bisogno di aspettare venti favorevoli per mettersi
in viaggio. Le suddette soldatesche arrivarono in Spagna il mese successivo, segnalandosi
però da colà l'arrivo di soli 1.100 napoletani, mentre il Guindazzo riceverà le nomine di
capitano generale dell’artiglieria di Catalogna e di governatore di Tarragona.
Sabato 7 aprile fu varata la galera Capitana la cui costruzione era iniziata più di dieci
mesi prima ed era presente il capitano generale della squadra Giovan Battista Ludovisio
principe di Piombino.
La mattina di domenica 10 giugno approdò a Nisida la squadra delle galere di Sicilia col
viceré di Sicilia principe di Ligny, il quale passava al vice-regnato di Milano, mentre il suo
posto era stato affidato pro interim al già menzionato marchese di Baiona, allora generale di
quelle galere. Il 12 altri 500 soldati regnicoli di nuova leva, portati da cinque galere, salparono
per la Catalogna per il recupero della piazza di Perpignano allora in mano dei francesi; era in
quel tempo, come abbiamo già ricordato, viceré e capitano generale del principato di
Catalogna un napoletano, Francesco Tuttavilla duca di S. Germano; egli, nato nel 1604,
aveva iniziato la sua carriera come alfiere nel terzo napoletano del mastro di campo Girolamo
Maria Caracciolo marchese di Torrecuso, morto il 17 agosto 1662 nelle guerre di Portogallo, è
si trovò quindi a militare sull'armata oceanica spagnola dell'ammiraglio Federico de Toledo
quando questa riconquistò S. Salvador del Brasile; divenne poi capitano, tenente generale
della cavalleria napoletana, mastro di campo generale prima in Andalusia, durante le guerre
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del Portogallo, e poi dell'esercito del Regno di Napoli. Riformato poi essendo venute a
mancare nuove esigenze belliche, ricominciò da capo, come allora usavano gli ufficiali
riformati, da semplice fante armato di picca, ma alla prima occasione fu fatto sargente
maggiore, poi tenente di mastro di campo generale, poi ancora mastro di campo di un terzo di
napoletani e nel 1643 fu chiamato in Catalogna come generale dell'artiglieria e in quel
principato combatte durissima guerra. In seguito fu inviato come governatore in Tarragona
con il titolo militare di mastro di campo generale, partecipò alla guerra di Portogallo come
vicario generale di don Giovanni d'Austria, divenne viceré di Navarra e poi di Sardegna
quando, come abbiamo già detto, vi era stato ucciso il suo predecessore marchese di
Camarassa, e ridusse all'ordine quell'isola governandola per cinque anni; infine, dopo la
dichiarazione di guerra presentata dalla Francia, fu nominato viceré di Catalogna e
Rossiglione e contro i francesi guerreggiò appunto nel Rossiglione, regione dove i transalpini
del maresciallo tedesco Frédéric Armand Meynard conte ( poi duca) di Schomberg (16151690) conosceranno in questo stesso primo anno di guerra una bruciante sconfitta.
Anche in seguito alle predette ultime spedizioni di milizie napoletane, negli anni 16741678 risulteranno al servizio della Spagna diversi terzi di fanteria napoletana, tra i quali quelli
dei mastri di campo Domenico Pignatelli, Gioan Battista Pignatelli, Restaino Cantelmo
principe di Pettorano e fratello del duca di Popoli, Gioan Battista Caracciolo dei duchi di
Martina e Orazio Coppola dei duchi di Canzano; quest’ultimo nel 1693 risulterà sargente
generale di battaglia nell'esercito di Catalogna, sarà poi governatore di Girona in Catalogna e
infine, dal 1702, generale dell’artiglieria del Regno di Napoli. Il predetto Cantelmo, il quale era
stato capitano di cavalleria sin dal 1675, due anni dopo già era mastro di campo di un terzo
napoletano nella guerra di Sicilia e, tornata Messina all'obbedienza regia, era tornato a Napoli
e poi era appunto stato inviato in Catalogna con il suo terzo e altre soldatesche. Sarà poi in
Fiandra dove, essendogli stato riformato il suo detto primo terzo perché evidentemente ormai
troppo povero di effettivi, avrà, all'inizio di settembre del 1686, 400 reclute napoletane da
unire ai resti del precedente per la formazione di un altro terzo di piede vecchio, cioè
strutturato in una maniera che ormai le ultime ordinanze spagnole stavano un po’ dappertutto
modificando. Nel marzo del 1687 sarà promosso sargente generale di battaglia e, per i suoi
particolari meriti, gli sarà concessa la speciale prerogativa di conservare anche il comando
del suo ultimo terzo, cosa piuttosto rara per un ufficiale generale; tornato infine a Napoli, vi
sarà generale dell'artiglieria e il 19 marzo del 1702 arriverà per lui dalla Spagna anche la
nomina a mastro di campo generale dell'esercito del regno.
Tornando ora alle cronache dell'anno 1674, diremo che il viceré marchese di Astorga,
conferito a Francesco della Sala il comando del presidio di Orbitello, spedì in Abruzzo di
nuovo cinque compagnie di fanti spagnoli, molto probabilmente in muta di quelle che aveva
inviato il 20 febbraio, mentre continue erano state in questo primo semestre dell’anno le
notizie di banditi uccisi e di altri portati a Napoli in catene; poi, passato Jose Manriquez,
capitano della sua guardia alemanna, al presidato di Chieti, mise al suo posto Antonio
Moscoso Ossorio, governatore d’Ischia, sostituito questo a sua volta da Francisco Miranda.
Giovedì 12 luglio arrivò da Palermo una feluca in cui il viceré di Sicilia informava quello di
Napoli che dal giorno 7 precedente tutto il popolo della città di Messina si era ribellato e
armato contro il malgoverno del loro straticò Diego Soria marchese di Crispano; era questa la
prima notizia di quella ribellione di Messina che presto si trasformerà in una vera e propria
ennesima e sanguinosa guerra, la quale era destinata a protrarsi fino al 1678 grazie all'aiuto
militare in agosto richiesto e subito concesso dalla Francia, sempre pronta a sostenere i
torbidi che nascevano nei possedimenti spagnoli in Italia. Mentre immediatamente si
richiamavano a Napoli le compagnie di fanti spagnoli che guardavano le province d’Abruzzo e
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s’inviava ordine a quelle di Calabria di armarsi e tenersi pronte per qualsiasi evenienza,
mercoledì 18 salpò la prima spedizione militare per Milazzo, dove si era stabilito di far piazza
d'armi contro i rivoltosi; si trattava di 400 soldati spagnoli suddivisi in quattro compagnie e di
pochi altri soldati regnicoli sulle uniche due galere che erano rimaste a Napoli ed erano state
a tal scopo in fretta e furia spalmate (‘carenate’), essendo le altre 5, come abbiamo visto,
partite il mese precedente per la Catalogna, mentre altre soldatesche passavano a Milazzo da
Reggio, dove era allora governatore e capitano a guerra il mastro di campo puteolano
Simonetto Rosso, e altre si attendevano dalla Sardegna; in effetti, essendosi inviata in
Catalogna anche la squadra siciliana, si riuscirà a raccoglierne una di 13 galere e cioè due di
Napoli, una di Sicilia, cinque genovesi del duca di Tursi e cinque di Malta. Mentre dopo
qualche giorno arrivava al viceré di Napoli una lettera dei messinesi in cui protestavano
fedeltà al re e dichiaravano di aver preso l’armi solo contro il marchese di Crispano, per aver
questi violato i loro privilegi, si arruolavano in tutta fretta fanterie a Napoli e nel resto del
regno, accrescendole con molti delinquenti mandati a Napoli dai tribunali provinciali e si
armavano anche i baroni di Calabria Ultra per dare un personale contributo alla guerra così
vicina ai loro feudi. Martedì 24 luglio il nunzio apostolico così scriveva al suo governo in
Roma:
… ‘fra tanto si è mandato don Marc’Antonio di Gennaro a Reggio per far ivi piazza d’armi,
risoluzione stimata universalmente impropria, perché, in ragione dell’arcivescovo di Reggio
morto, fratello di don Marco Antonio, uomo vendicativo, il nome de’ Gennari è odiosissimo in
quelle parti, oltre cha, stando quel paese esausto, non ha bisogno d’un ministro rapace…
Infatti il di Gennaro, il quale era stato prima capitano in Fiandra, poi sargente maggiore
in Estremadura, mastro di campo in Catalogna fino al 1672, nella notte del sabato 21 era
partito con diverse feluche, con la nomina a preside delle due Calabrie e di governatore
dell’armi della piazza d’armi da stabilirsi a Reggio, con il compito di evitare che il contagio
rivoluzionario si estendesse al continente e con ordine di mettersi a disposizione del viceré
pro interim di Sicilia nonché capitano generale di quella squadra di galere Francisco Diego
Bazan Y Benavides marchese di Baiona, per il quale in effetti sin dal 9 aprile precedente
decorreva la promozione al generalato della squadra di Spagna, ma che evidentemente, in
considerazione dei sempre più gravi problemi politici e militari ora collegati al suo viceregnato interinale, non era stato ancora in Sicilia sostituito e non aveva potuto quindi
tornarsene in Spagna. In quel mentre proprio sabato 21 e il giorno seguente i messinesi
avevano dai baluardi preso a cannonate il castello del Ss. Salvatore, il quale era ancora in
mano dei realisti, e questi avevano replicato colpo su colpo; ma, pur assediando il castello, si
preparavo essi stessi a sostenere un assedio e scavano trincee e tagliate (‘contromine’) e,
raccoltisi in ben 12mila, si spinsero sino a Spatafora, cioè fino a sole sei miglia dal campo
realista di Milazzo contro Messina, dove già si andavano raccogliendo soldatesche; poi,
chiuso il porto della città con una catena a evitare l’arrivo di soccorsi al palazzo del governo,
dove erasi rinchiuso il Soria, minarono in quattro punti detto edificio e ne fecero saltare in aria
tutta quella parte che comprendeva la cavallerizza; lo straticò, vedendo tanti dei suoi soldati
rimasti uccisi o feriti dall’esplosione, si arrese onorevolmente e con patti e venerdì 3 agosto,
in ordine militare, uscì con tutti suoi - soldati e merli (‘realisti’) - dal palazzo e si ritirò nel
castello, le cui opere murarie soprastanti il terrapieno erano state tutte demolite dalle
cannonate dei rivoltosi. Ottenuto questo successo i malvizzi (i ‘tordi’, ossia i ribelli) si dettero
alla caccia degli avversari e appiccarono in più volte per un piede circa 160 merli, due donne
(oggi diremmo ‘due collaborazioniste’) e, con il taglio della testa dovuto ai nobili, giustiziarono
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un cavaliere di casa Cappardi perché genero di Tomaso Cirino, uno dei capi del partito filospagnolo. Arrivarono a Milazzo anche le galere dell’ordine di Malta con il loro generale
Spinola e con Francesco Carafa priore della Roccella, il quale portava 500 soldati mantenuti
a sue spese.
Alla fine di luglio si pubblicò un indulto per quei banditi che avessero accettato di andare
a servire da militari nella guerra di Messina, ma non ebbe alcun successo, come poi il 14
agosto scriverà al suo governo il nunzio apostolico:
Non v’è stato pure un bandito che si sia valso dell’indulto, segno del poco timore che s’ha
della Corte…
Nei primi giorni di agosto il corriero ordinario di Spagna recò la triste notizia della morte
di Gioan Battista Pignatelli, mastro di campo del terzo italiano in Catalogna, morto dopo dieci
giorni da una cannonata che lo aveva colto in una gamba.
Il di Gennaro arrivò a Reggio la notte del 29 luglio; mentre subito, per ordine del viceré
di Napoli, inviava ai messinesi un tenente di mastro di campo generale con un messaggio che
proponeva la sospensione delle ostilità, la fine degli atti di rivolta e contemporaneamente
prometteva indulgenza reale e giustizia, proposta che non ebbe però alcun successo, anche
immediatamente scrisse indispettito al detto viceré d’aver trovato a Reggio solamente non più
di 1.200 fanti e 250 cavalli, oltretutto male in ordine e sprovvisti di viveri; malgrado fossero in
arrivo 2mila ducati siciliani mandati all’uopo dal suddetto marchese, egli preferì non aspettare
e avvalersi del denaro portato dagli ufficiali pagatori di Napoli arrivati il 9 agosto e pare che,
non essendo questo sufficiente, aveva dovuto metter mano alla sua borsa e anticipare 500
ducati per un urgente acquisto di grano e orzo. Gli arrivò poi dal marchese di Baiona ordine di
trasferirsi immediatamente a Milazzo ed egli vi arrivò nella notte del 10 agosto con 500 uomini
e con il grado di mastro di campo generale appena conferitogli dal detto marchese, essendo
stato sostituito nel comando pro interim a Reggio con il preside di Catanzaro, il duca di Santo
Vito, il quale sarà a sua volta rimpiazzato dal mastro di campo marchese del Tufo, il quale
arriverà a Reggio il 12 settembre, mentre altri 750 uomini erano portati a Milazzo dalle cinque
galere di Malta che si trovavano a Reggio per dare una mano, ma che avevano fretta di
tornare alla loro isola; egli aveva contemporaneamente inviato il suo sargente maggiore Paolo
Mongino con altri 600 a occupare Taormina, come ordinato dal detto marchese.
In quel mentre a Napoli non si avevano per nulla le idee chiare sul come affrontare la
situazione, giacché mancavano soldi e soldati per affrontarla; il Collaterale di guerra non
s’intendeva e la Giunta di Stato e Guerra del viceré non brillava per acutezza; a questo
proposito leggiamo ancora il suddetto nunzio:
(Napoli, 11 agosto:) … Il Collaterale di Cappa Lunga ha perse affatto le staffe, non sa quello
voglia, la materia è molto differente dalla sua professione che non è altra che di legge, perché,
avendo quasi tutti li reggenti avvocato, non se stende più avanti il loro valore; quelli che
intervengono alla Giustizia (‘Consiglio’) di Guerra sono il mastro di campo generale, il quale
per merito del fratello duca di S. Germano è a questo posto e, avendo lontano il fratello, non
ha vicino l’attività (‘non sa che fare’); il generale Brancaccio, (è) soldato vecchio e buono per
operare, ma (è anche) di quelli noti che nelle congregazioni si contentato di dire sempre ‘in
eodem’ (‘sono a favore’); il tenente generale della cavalleria cavaliere Valle, veneziano, che,
per aver già trattato la ribellione di Condé, ha questo posto, nel resto non vale molto; il
maestro di campo del terzo spagnolo è soldato, ma tanto mostruoso per la grossezza che è
inutile all’operare e poco atto al parlare, ecco tutto il Consiglio di Guerra.
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A Milazzo era nel frattempo incominciato l’afflusso di numerose milizie inviate sia dai
baroni di Sicilia sia dalla piazza d’armi di Reggio, anche se non tante da giustificare la
menzogna di avervi già riunito un esercito di 15mila uomini, detta evidentemente per
spaventare i messinesi, mentre erano molto più credibili le notizie che dicevano a Reggio
essersi in pochi giorni ammassati circa 5mila soldati tra fanti e cavalli. Tenutasi giunta di
guerra a Milazzo nella stessa notte del 10, il di Gennaro cominciò subito ad anteporre diverse
difficoltà all’apertura delle ostilità contro i messinesi e a dire che era il viceré di Napoli che gli
aveva ordinato di tentare prima la strada della trattativa; prevalse comunque il parere di
Orazio della Torre, uomo del suddetto marchese di Baiona, il quale era invece per iniziare
subito con le azioni di guerra, e quindi si organizzò una spedizione per impadronirsi di luoghi
alti presso Rometta detti li Colli, i quali erano in mano dei ribelli, con 700 spagnoli e 300 fanti
del Battaglione, essendo i primi governati dal principe di Belvedere di casa Carafa, per questo
evidentemente grande di Spagna, e i secondi da Francesco d’Allegranza; stabilita nella detta
Rometta, luogo a metà strada tra Milazzo e Messina, una seconda piazza d’armi, le forze del
di Gennaro ne uscirono e, dopo un primo successo iniziale, furono però caricate così
decisamente dai messinesi, circa 3mila fanti e 600 cavalli comandati dal cavaliere di Malta
siciliano fra’ Tomaso Crisasi, i quali, usciti all’improvviso da tre fortini e un vallone, fecero
fuggire a rotta di collo tutti i realisti; ed ecco a tal proposito un brano di una lettera privata del
di Gennaro inviata il 20 agosto a qualche suo confidente da Rometta, dove egli si era poi
ritirato:
… ma i nostri fuggirono tutti, anco li spagnuoli, senza restarne più che 4 o 5; si procurò farli
ritornare con buone parole e con rigori, ma non si poté conseguire niente, perché si buttavano
tutti a terra, e, ancorché si avanzò con altri 200 uomini di soccorso con la persona del col.
Bondibendi, ma né l’uno né l’altro volsero avanzarsi. Cosa molto miserabile l’aver da
combattere con gente come questa, senza valore, senza ubedienza né timore di Dio, già che
rubbano le case, le persone e le chiese (om.) Si fece la ritirata con ordine e con una perdita di
20 uomini tra morti e feriti, tra’ quali uno solo di reputazione dell’abito (‘dell’ordine’) di S.
Giovanni chiamato Gioan Gicaliero, cavaliere abile, al quale tagliorno la testa gridando ‘viva
Maria e il re di Francia!’
Io mi detengo in questo campo aspettando gl’ordini del sig. marchese di Baiona e, se una
volta torno (‘se mi riesce di tornare’) a Melazzo, come spero, procurerò di (‘da’) questo di
ritirarmene in Reggio, risoluto a non perdere la vita e reputazione con questa gente
(ruba)galline, ladroni e disubbedienti, senza pane, senza denari, senza monizioni e senza
officiali, che necessitano di avere tolta (‘di essere oltretutto liberati da ‘) una giunta di toghe,
che parlano a sproposito (A.S.V. Nun. Nap.)
Che le forze affidategli fossero tutt’altro che buone e preparate, come qui denunciato dal
di Gennaro medesimo, era sicuramente vero, ma che un comandante in capo dimostrasse
tanto poco polso da non riuscire a mantenere in campo nemmeno l’ottima fanteria spagnola e
inoltre tanta mancanza di determinazione da pensare a squagliarsela quanto prima possibile
era certamente molto grave e pregiudizievole per il buon esito della guerra.
Sabato 18 agosto si era riunita a Napoli la predetta Giunta di Guerra, la quale aveva
deliberato la leva di 3mila nuovi fanti e 600 cavalli, riservandosi il viceré di pubblicarne a
breve le nomine degli ufficiali; la sera dello stesso 18 erano arrivate tre galere della
Repubblica di Genova, le quali ripartiranno poi solo la mattina del sabato 25 per Messina
comandate dal loro commissario generale Gioan Agostino Durazzo di conserva con altre due
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della stessa repubblica che già si trovavano in darsena a Napoli e con una nave e due
tartane che portavano 400 fanti di nuova leva tenuti fino allora nell’alloggiamento-reclusorio
dell'arsenale e prima di quel giorno non ancora pronti per l’imbarco; questi velieri portavano
inoltre bastimenti da vivere e da guerra, bombe e artifici di fuoco per opprimere l'ostinazione
delli messinesi, infine 2mila vestiti per i soldati e 50mila scudi per il loro soldo. Il marchese di
Astorga faceva nel frattempo pure marciare alla piazza d'armi di Reggio buona parte delle
altre milizie disponibili, mentre si aveva notizia da Milazzo che erano colà giunti due vascelli
provenienti da Finale e che portavano due interi terzi di fanteria, cioè uno di milanesi e uno di
borgognoni (‘valloni’), e poi che vi erano anche arrivate le galere di Napoli, Sicilia e Sardegna;
inoltre il nuovo governatore militare di Reggio era riuscito frattanto a introdurre in soccorso
300 briganti calabresi accordati nel predetto castello del Salvatore in Messina, la cui
guarnigione era dunque rimasta fedele e resisteva all'assedio dei messinesi, e inoltre
raccolse nella stessa Reggio 1.500 soldati del Battaglione. Queste milizie territoriali si
stavano, in effetti, riunendo non solo in Calabria, bensì in tutto il regno, giacché, come
abbiamo già detto, loro obbligo istituzionale principale era la difesa dei confini e delle marine
in caso d’aggressione da parte di qualsiasi nemico; ma non davano buona prova di sé, a
giudicare da quanto ne scriveva in quei giorni il suddetto nunzio apostolico di Napoli a
proposito delle grandi difficoltà di gestione della crisi che il viceré marchese di Astorga stava
incontrando:
…Per le faccende di Messina, ridotte a segno di diventare le guerre de’ Paesi Bassi in piccolo,
si tengono continui Collaterali (om.) La soldatesca del ‘Battaglione’ riesce peggiore di qual si
sia più perfida nazione, non perdonando né a robba né a onore né a cose sagre, in modo che
si puol temere la continuazione de’ disturbi (‘sedizioni’) dalla Giustizia di Dio, che viene ‘sì
empiamente irritata…
Questi giudizi sono più gravi di quello che sembrino perché, per essere proposti come
membri di quella milizia, bisognava essere persone di un certo reddito e d’una certa qualità e
istruzione, cioè appartenenti alla parte migliore della società provinciale, dovendone pertanto
essere teoricamente esclusi poveracci, mendicanti, vagabondi e malviventi; invece il
comportamento di tali miliziani era un altro chiaro segno che il determinarsi della ‘questione
meridionale’ non si può ascrivere a dure e crudeli dominazioni straniere bensì a endemie
nazionali; d’altra parte, per portare un esempio molto calzante, la Lombardia dovette
sopportare negli stessi secoli e per uno stesso tempo un’identica dominazione spagnola,
avendo in più la disgrazia di dover essere campo di battaglia e di passaggio di svariati eserciti
stranieri pressoché continuamente, circostanza che invece al regno di Napoli, per la sua più
felice posizione geografica, fu in quei secoli risparmiata.
Certo bisogna dire anche che i miliziani del Battaglione erano dal governo spagnolo
mandati alla guerra di Messina abbastanza allo sbaraglio, come si può leggere in una
relazione da Milazzo del successivo 19 ottobre; in essa infatti, mentre si chiedeva un urgente
invio di rinforzi, perché le forze colà a disposizione erano insufficienti a qualsiasi azione e non
potevano far altro che restarsene chiuse in quel campo, si definivano detti miliziani gente del
tutto inutile perché del tutto disarmata e addirittura priva di vestiti:
… porque de los Vatallones no ay que hacer (om.) porque estan esnudados, particularmente
los de la isla (di Sicilia)
Si faceva sì anche leva di nuovi fanti, ma - come abbiamo già ricordato - non per
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costituire nuovi terzi, ma solo per reclutare, ossia per rinfoltire i ranghi di quelli già esistenti; si
levavano però nuove compagnie di cavalleria, arma questa molto più blasonata della fanteria
e quindi meno sensibile ai richiami rivoluzionari. Iniziava così una sanguinosa e difficile
guerra che avrebbe ulteriormente impoverito le già sfruttate risorse del Regno di Napoli:
... E tutte le spese della presente guerra contro de’ messinesi ribelli, contro i francesi in
Germania e in Fiandra e nello Stato di Catalugna in Perpignano la maggior parte esce da
questo impoverito Regno e perciò la soldatesca spagnuola vive col solo pane di monizione e
senza paghe da più mesi...
Ci si riferiva qui ovviamente ai soldati spagnoli rimasti di guarnigione a Napoli. Intanto la
guerra contro la Francia procedeva male in Fiandra, dove combattevano naturalmente anche
reparti napoletani; di una prima sconfitta subita il 16 giugno a Sinzheim dagli imperiali,
comandati dal duca Carlo di Lorena e dal generale Caprara, a opera dei francesi guidati dal
visconte de Turenne non sembra si sia parlato a Napoli e di una sostanziale seconda ottenuta
l'11 agosto in Belgio a Seneff, località tra Nivelles e Charleroi, dal principe di Condé
sull’esercito ispano-tedesco-olandese di Guglielmo III d’Orange si ebbe dal governo
napoletano solo notizia distorta, in considerazione che la si presentò invece come una
disfatta dei francesi, i quali in realtà ottenevano successi anche nella Franca Contea,
sottraendola così all'influenza spagnola, e nel Palatinato. Anche ignorata fu la terza vittoria
francese, cioè quella ottenuta il 4 ottobre a Entzheim presso Strasburgo dal de Turenne sui
confederati condotti ora, oltre che dai predetti Carlo di Lorena e generale Caprara, anche dal
duca di Borneville, mentre ne era ufficialmente capitano generale Guglielmo III d’Orange.
Frattanto nel settembre, tra le numerose soldatesche confederate che raggiunsero l'Olanda
per difenderla dai francesi, c'era un reggimento di fanteria comandato dal napoletano Pietro
d'Ávalos.
In Sicilia, mentre il castellano di Matagrifone si arrendeva, a dire di tutti vigliaccamente,
ai rivoltosi, sembrava che il di Gennaro si fosse un po’ riabilitato accorrendo con la sua
cavalleria al soccorso di Rometta, città guardata da 300 fanti e che i messinesi avevano
tentato di sorprendere. Il 23 agosto arrivò a Reggio nuovamente la squadra di Malta, sulla
quale furono imbarcate molte munizioni da guerra e viveri per andare a cercare d’introdurli un
po’ alla volta nell’assediato Castello del Salvatore, il cui castellano, questo invece un valoroso
portoghese, giurava che non si sarebbe mai arreso, tanto più che detta fortificazione era
difficilmente cannonabile da terra, pressoché impossibile da offendersi con le mine e l’unico
modo per prenderlo sarebbe stato scalarne le mura con un diluvio di gente come facevano gli
eserciti ossidionali ottomani. Pubblicatosi frattanto a Milazzo un indulto per i rivoltosi, fu
presentato ai messinesi dai genovesi, i quali tentavano di mediare, e precisamente da un
cavaliere di casa Grimaldi inviato dal generale Spinola, ma la precondizione dei rivoltosi era
sempre la stessa inaccettabile e cioè che prima gli spagnoli ritirassero tutte le loro forze dal
Messinese e che poi si cominciasse a trattare; al contrario a Milazzo arrivavano rinforzi e cioè
due vascelli carichi di fanteria e scortati dalle galere di Genova e la squadra di Malta che
portava i suddetti 500 uomini pagati dal priore Carafa e tre altri corpi di fanteria, tutti
imbarcatisi il 29 agosto a Reggio; il mese successivo però, in seguito a contrasti di
precedenza con le galere di Genova, il generale Spinola, generale di quelle di Malta, ripartì
con la tutta la sua squadra riportandola a Reggio. Nonostante i suddetti rinforzi, la situazione
del corpo di spedizione realista continuava però a non essere per nulla rosea, come si legge
in una missiva di quei giorni:
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… (i messinesi) hanno fatte varie tagliate alla campagna (‘barricate verso l’interno’), sono ben
provveduti di tutto né se li è fin ora serrato il mare (‘bloccato il porto’), le fortezze, fuori che il
Salvatore, sono in loro mani; a Melazzo (invece) a pena sono 3mila uomini, mal provveduti e
poco in gambe, essendo l’aria cattiva (‘l’igiene insufficiente’) e li corpi poco avvezzi ai
patimenti… (A.S.V. Nun. Nap. 82)
Si aggiunga a ciò che i messinesi ricevevano segretamente viveri di contrabbando dalla
stessa Calabria e ciò nonostante fossero stati emessi bandi rigorosissimi contro questi traffici,
infine che nella stessa Messina s’esultava con suono delle campane e scariche a salve
perché il re di Francia aveva pubblicamente dichiarato loro il suo appoggio e che avrebbe
mandato un’armata a soccorrerli.
Sabato 8 settembre il viceré marchese di Astorga partecipò come il solito aIla
processione della Madonna di Piedigrotta, ma questa volta, a dimostrazione ch’erano tempi di
guerra, si fece accompagnare da due compagnie di cavalleria e da tutte le quattro di fanteria
spagnola che erano solitamente di presidio a Napoli. Mentre a Messina entrava il giorno 12 il
marchese di Santa Caterina di casa Gattola, inviato dal di Gennaro a portare a quel ribelle
senato una lettera responsiva del viceré di Napoli, e si nutrì poi qualche preoccupazione per
lui perché a tutto il giorno 17 non aveva fatto ancora ritorno, a Reggio nei giorni 12, 13 e 14
dello stesso settembre arrivavano otto compagnie del Battaglione di Basilicata, a Napoli lo
stesso predetto lunedì 14 settembre giunse un grosso vascello da guerra maiorchino che
portava 700 fanti veterani milanesi e tedeschi (bellissima gente) inviati dal governatore di
Milano principe di Ligny perché fossero impiegati nella guerra e infatti ripartirono per Milazzo
mercoledì 19 seguente, avendo preso a Napoli a bordo anche 400 spagnoli che erano stati
sottratti ai Presidi di Toscana, mentre partivano in quei giorni per la stessa destinazione molti
altri legni carichi di provvisioni da guerra e si preparava ancora un primo nucleo di convoglio
di quattro tartane per mandarvi altre genti e munizioni, tra cui due compagnie di cavalli (di
queste che sono di presidio fin dal 1648 a guastar danari in Napoli.) Dovendosi poi portare
provvisioni anche ai Presidi di Toscana ed essendo tartane e galere napoletane tutte
impegnate per la guerra ai confini di casa, si preparava anche la nave veneziana Sansone
all’uopo noleggiata. Arrivarono a Napoli in quel mentre anche lettere dal Messinese datate 12
settembre, nelle quali si raccontava che i regi avevano tentato un paese presso Scaletta
(Zanclea) occupato dai rivoltosi, questi avevano alzato bandiera bianca e, quando detti regi
avevano pertanto preso ad avvicinarsi fiduciosi allo scoperto, i messinesi avevano invece
proditoriamente sparato una salva di moschettate uccidendone circa 70, mentre in
quell’occasione i realisti si erano anche accorti che i siciliani che stavano dalla loro parte
erano altrettanto traditori poiché sparavano verso i ribelli senza palla; inoltre nei giorni 14 e
15 cinquanta feluche armate dei ribelli scorsero la costa di Catona presso Reggio,
impegnando in lunghi conflitti a fuoco le forze realiste che le guardavano; infine, essendosi
arreso ai rivoltosi, dopo il castello di Matagrifone, anche quello di Gonzaga, al castellano di
questo era stata fornita una feluca perché potesse allontanarsi, mentre si facevano imbarcare
tutti i suoi uomini su una tartana, la quale nel porto del Faro era stata poi assalita e depredata
dal corsaro malvizzo Gioseppe Mandeo, detto il Tiranno, il quale fece decapitare tutti i merli
che trovò a bordo di quel legno, dei cui corpi poi otto fece appendere per un piede sulla
stessa tartana e gli altri gettare a mare.
Il di Gennaro continuava a scrivere a suoi confidenti lettere scoraggiate e scoraggianti:
(Milazzo, 12 settembre:) È in tutti generalmente afflizione in questa guerra, perché le cose
vanno sempre di male in peggio per non esservi capitale né modo di pigliare risoluzione,
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essendo la gente di ambidue i regni non più di 3mila e di tanta mala qualità che ieri da 50
cavalli de’ messinesi furono messi in fuga 150 delli nostri e 200 fanti e questo successe alla
parte (‘dalle parti’) della Scaletta.
Non ci potemo impegnare a nessun posto, perché sapemo di certo che non si ha da far niente
e ne ha da succedere (‘che non c’è nulla che si può fare senza che ne consegua’) una
disgrazia, perdendosi l’onore e la vita. Tutti li castelli di Messina si sono persi, solo è rimasto il
Salvatore, il quale, attaccato da tante parti, non so come possa resistere; il Faro (‘il porto’) è
sempre stato aperto per che non s’è avuto con che serrarlo ed, ancorché si facci quanto si
può per toglier a’ messinesi la comunicazione col paese vicino, non si è conseguito nissun
utile, perché escono di Messina 40 feluche ogni notte, se ne vanno alla Bagnara (Calabra) e
la mattina se ne ritornano cariche di tutto il bene di Dio, ed anco seguitano (‘inseguono’) le
nostre. Non si hanno potuto conseguire (‘ottenere’) in due regni sei bergantini, anzi, per
mettere in ordine una galeotta, si mandò a Palermo e, doppo un mese essendone tornata
questa mattina, ancora non stanno fatte le vele; sono cose che mi fanno perdere il giudizio.
Le galere di Malta e di Genova servono di sola prospettiva (‘fanno solo da bello sfondo’) e non
più; l’armata di Francia si sta aspettando, conforme i messinesi pubblicano, ed i nostri soccorsi
(sono invece solo) in profezia.
… L’espugnar Messina con armi per terra è una supposizione falsa e spropositata, stando
circondata di colli così forti per natura che si fanno impraticabili… (ib.)
È del 16 settembre una relazione ufficiale inviata dal di Gennaro al viceré di Baiona in
cui gli riassume tutto il suo operato sino allora e fa delle considerazioni sugli ulteriori
preparativi di guerra a suo avviso necessari:
… Quando al 10 agosto presi il comando (a Milazzo) trovai 54° spagnuoli, 400 uomini di
‘Battaglione’ che vennero con le galere con le quali io passai qua e 1.300 siciliani e questi
senza capitano, alfiere e sargento, senza apparecchi di provisioni, pochissime monizioni e
senz’alcun capo (om.) trovai sino al n.° di 300 cavalli, inclusi in quelli la compagnia di
borgognoni guardie di Vostra Eccellenza, che se componeva d’80 uomini, 200 della condotta
di don Augustino Cavalaro e 48 assoldati dal principe d’Aragona.Tutta questa cavalleria,
eccettuata la compagnia de’ borgognoni, stava senza alcun capo, poiché gli mancavano
capitano, tenente, alfiere e tutti gl’altri officiali, tanto che si vidde Vostra Eccellenza obbligata di
nominare alcuni capitani di cavalli i quali elessero per officiali alcuni soldati de ‘ borgognoni,
con che venne a scemarsi (di soldati semplici) quel corpo… (ib.)
La relazione con il resoconto della giunta di guerra in cui si era deliberato di andare a
soccorrere i castelli di Gonzaga e Matagrifone e con la relazione del conseguente sfortunato
scontro de li Colli, dal di Gennaro ora descritto in maniera più formale e naturalmente senza
più lasciarsi andare alla suddetta privata disperazione, ma comunque sempre dipingendo una
situazione militare del tutto rovinosa:
… E come poteva Vostra Eccellenza operare dalla parte della Scaletta, mancandoli il mezzo
principale che è la gente di spirito (‘ardimento’) ed avendosi (invece) da combattere con gente
fortificate (‘d’esperienza’)? E, se si va nella pianura, non vi è cavalleria, poiché quella che
Vostra Eccellenza tiene è tanto vile che li giorni passati 450 di questi fuggirono da 50
dell’inimici, se pure erano tanti (om.)
Quel che si è mancato di fare in questa operazione è stato il non aver serrata la
comunicazione del Faro, che a Vostra Eccellenza è stato impossibile perché, se ha armato
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dieci felluche, l’inimici ne hanno armate 30; li bergantini che si sono avuti a moneta Vostra
Eccellenza non l’ha potuti (ri)avere; le galere di Malta e di Genova che assistono a Vostra
Eccellenza sono (solo) di prospettiva, perché nessuna di queste vuole operare a qual si può
(‘a qualsivoglia cosa si possa’), scusandosi con li pretesti che dicono sappia Vostra
Eccellenza, ed anche dicono d’aver fatto assai di (‘già molto col’) trasportare la gente da una
parte all’altra (om.)
Signore, ancorché io sia di parere incontrario a quelli che pensano d’espugnar Messina a
forza d’armi, (om.) ad ogni modo, quando Vostra Eccellenza abbia quei 4.000 fanti con effetto
(‘effettivamente’) e 600 cavalli de’ quali possa fidarsi - dico quattromila fanti per quelli che
potessero andarsi perdendo alla giornata, si potria (om.) e soprattutto è necessario, per
assicurare la riduzione di Messina, che concorrano tutte le galere di Sua Maestà con l’armata
reale (om.), ricadendo a Vostra Eccellenza di sollecitare al Signor Viceré di Napoli e (al)
Governatore di Milano che l’assistano con gente pagata, poiché di quelle di questo Regno (di
Sicilia) e del Battaglione di Napoli non se ne può fare capitale alcuno (ib.)
Il di Gennaro era dunque per prendere Messina per fame e non per assalti. Il 17
settembre passò per Reggio un convoglio di 15 feluche scortate da una galeotta e da tre
bergantini; erano legni carichi di provvisioni da guerra e di viveri per il Castello del Salvatore,
il quale ancora resisteva proprio perché ben armato e provvisto; disponeva infatti di 30
cannoni grossi e colubrine oltre a una quantità di pezzi minori, era difeso da 500 fanti
spagnoli divisi in cinque compagnie e dai predetti briganti calabresi ed disponeva nei suoi
magazzini di munizioni e viveri per un anno. Il giorno seguente questo convoglio catturò al
Faro di Messina un petacchio mainoto, cioè appartenente a gente di Maina in Grecia, e lo
trovò carico di grano destinato alla città di Messina. In quel mentre il viceré di Napoli teneva
continue consulte del Collaterale per discutere la crisi di Messina, mentre qualsiasi altro
argomento era rimandato a tempi migliori; si diceva che in uno di quei consessi si fosse
deliberato di servirsi delle compagnie baronali d’uomini d’armi, anche se, come sappiamo, i
loro statuti non lo avrebbero consentito, e ciò perché Messina era così vicina ai confini del
regno da costituire per esso una concreta minaccia; alla fine del mese giunsero a Napoli una
polacca e una tartana genovese cariche di 180 soldati spagnoli con il loro capitano Gabriel de
Alcázar ed altri ufficiali; tutti costoro erano stati fatti prigionieri per mare dai tunisini ed erano
stati riscattati con denaro portato a Tunisi da un frate trinitario, ordine che da secoli esercitava
appunto questo benemerito incarico a favore di quegli schiavi cristiani di Barbaria per i quali
parenti od istituzioni avessero raccolto la somma richiesta dai barbareschi per liberarli; le
cronache non ci dicono se costoro fossero stati poi riportati in Spagna per il necessario riposo
o se siano invece subito stati impiegati sul fronte di Messina.
Stavano gli assedianti organizzando d’introdurre soccorsi di soldatesche regolari nel
castello del S. Salvatore e forse sulla giusta strada per prendere Messina per fame, quando il
29 settembre, accolti da acclamazioni, salve d’artiglieria e stendardi del re di Francia, nove
vascelli francesi – sette grandi e due piccoli, i quali erano apparsi in rada già il 26, entrarono
nel porto della città ribelle e sbarcarono nella città 2mila soldati, viveri e munizioni, esigendo
però dai messinesi una pesante contropartita, la quale alcuni quantificavano in 200mila scudi;
si passò così dalla semplice rivolta a un vero e proprio confronto militare, mentre
convergevano su Messina tutti i velieri da guerra e inoltre tutte le squadre di galere di cui la
corona di Spagna disponeva nel Mediterraneo; un’armata di 22 velieri sotto il comando di
Melchor de la Cueva arrivò infatti poco dopo al Faro di Messina, infondendo così nuove
speranze ai difensori del castello di S. Salvatore, ora cannoneggiato, oltre che da terra dai
ribelli, anche da mare dall’armata francese, principale fortificazione della città di Messina,
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mentre si continuava a rifornirlo a mezzo di convogli di feluche e tartane inviate da Napoli e
da Reggio, rifornimenti però che ora erano diventati molto più difficili a causa della presenza
in quei mari delle suddette due armate antagoniste; infatti per esempio una tartana nel
seguente ottobre inviata con rifornimenti destinati alle due galere napoletane che si trovavano
a Milazzo era stata intercettata dall’amica armata spagnola, la quale ne aveva tenuto il carico
per sé.
Mentre a Milazzo arrivavano altre tartane di provvisioni da Reggio, sabato 6 ottobre il di
Gennaro inviava una seconda relazione al viceré di Baiona; in essa dava i suoi suggerimenti
sui preparativi da fare durante il prossimo inverno per affrontare ben preparati le operazioni di
guerra, ora più complesse perché contro messinesi e francesi, che si prospettavano per
l’anno seguente; egli per esempio chiedeva la preparazione di un treno d’artiglieria composto
di 12 cannoni da batteria, otto minori e due trabucchi e inoltre di un buon numero di carriaggi
per il trasporto di viveri, munizioni e bagagli; inoltre egli, che per il momento aveva solo 2mila
fanti e alcune centinaia di cavalli (‘soldati montati’), diceva di aver bisogno di un esercito di
15mila fanti e mille cavalli e, per quanto riguardava i primi, così scriveva:
… e li 13mila che mancano s’hanno da comporre di spagnuoli, alemanni e milanesi e non del
Battaglione, perché questa gente è di molta spesa e di nessun profitto… (ib.)
Consigliava ancora che l’armata di Spagna che era in arrivo fosse mantenuta nel teatro
di guerra per tutto novembre e che a dicembre fosse mandata a svernare non in Spagna,
perché troppo lontana, bensì a Napoli, cioè a Baia, come poi fu, mentre le soldatesche
imbarcatevi fossero in massima parte lasciate a terra in Sicilia per la guardia dei porti, in
modo da non gravare il regno di Napoli anche di questa incombenza; terminava la sua lettera
al di Baiona con quel po’ di sincerità che la subordinazione militare spagnola del tempo, dalle
caratteristiche ancora feudali, solo gli concedeva:
… e, se tutto questo non previene Vostra Eccellenza in questo inverno, in modo che alla fine
di marzo si trovi pronto, ci troveremo nell’istessi travagli che abbiamo esperimentato sin ora.
Sappia Vostra Eccellenza condonare il mio ardire (ib.).
Sennonché pochi giorni dopo, cioè martedì 9 ottobre, fortemente cannoneggiato e
ripetutamente assalito da francesi e ribelli, si arrese anche il castello del Salvatore, resa a cui
aveva certamente anche molto contribuito la morte del coraggioso castellano portoghese,
avvenuta il 4 precedente, a seguito di una ferita al capo provocatagli da una scheggia di
sasso. I vincitori, per premiare la sua decisione di cedere le armi, concessero alla guarnigione
di uscire liberamente, mentre i francesi ponevano così loro presidi in tutti i castelli e forti
messinesi e iniziavano con i loro ingegneri a riparare le fortificazioni di quello del Salvatore. Il
giorno dopo la caduta di detto castello arrivò al Faro di Messina un’armata regia di 22 vascelli
comandata da Melchor de la Cueva, mentre a Trapani giungevano 25 galere delle squadre
della corona di Spagna, attendendosi inoltre un’armata olandese di 40 vascelli proveniente da
Barcellona. Il de la Cueva non poté far altro che trasferirsi a Milazzo, anche perché i suoi
vascelli, molto malconci a seguito d’una forte burrasca incontrata nel viaggio, avevano
bisogno di riparazioni.
Avuta il viceré marchese di Astorga notizia della caduta del castello con qualche ritardo,
perché le comunicazioni tra il vice-regnato di Sicilia e quello di Napoli erano diventate
alquanto discontinue, fece subito premunire la costa calabrese che fronteggia il Faro di
Messina, a evitare che sia la ribellione sia i francesi potessero sbarcare impunemente sul
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continente – già si aveva notizia che i popoli calabresi si rifiutavano di pagare i dazi regi;
inoltre concesse molte patenti per l’arruolamento di nuovi corpi sia di fanteria sia di cavalleria.
Domenica 14 ottobre, approfittando del buon tempo finalmente arrivato, lasciava Napoli per
Milazzo un altro convoglio, questo di ben 18 legni tra tartane e petacchi, il quale trasportava
le suddette due compagnie di cavalleria, le quali sembra che nel frattempo fossero però
diventate tre, 450 fanti spagnoli divisi in cinque compagnie e molte provvisioni ed attrezzature
da guerra. Il 25 i messinesi, padroni ormai del loro porto ed armati 15 legni, tra tartane e
brulotti, con la scorta ora di quattro vascelli francesi si portarono nuovamente alla Bagnara in
Calabria, dove comprarono dai locali gran quantitativi di viveri e legnami, evidentemente già
preparati per loro, e, pagatoli puntualmente, se ne tornarono poi a Messina indisturbati, anche
perché, alla notizia del soccorso francese, le galere della Repubblica di Genova e quelle
maltesi erano state dai loro governi ritirate dal teatro di guerra, non volendo questi stati
mettersi in guerra con la Francia; arrivò in quel mentre anche notizia a Napoli che i militari
della guarnigione del castello del Salvatore, a cui era stato permesso d’imbarcarsi purché
abbandonassero il teatro di guerra, erano stati catturati per mare dall’armata di Francia e, con
l’accusa di non aver osservato i patti, accusa strana in quanto i francesi non avevano
partecipato alle trattative di resa, erano stati riportati a Messina e condannati a lavori forzati
come schiavi. Altra notizia poco simpatica fu che tre tartane che portavano 300 soldati
milanesi a Milazzo avevano dato la caccia a una di Civitavecchia carica di grano inviato ai
messinesi dall’ambasciatore di Francia a Roma; questa però si era rifugiata a Palo (Ladispoli)
sotto la protezione di quel castello, il cui castellano aveva infatti costretto le inseguitrici ad
allontanarsi sparando lor contro quattro cannonate; il viceré di Astorga aveva subito reagito
spedendo a sua volta tartane armate con soldati veterani a quella volta, mandando nel
contempo al governatore di Gaeta istruzioni di utilizzare vascelli eventualmente presenti in
quel porto per intercettare sia la detta tartana diretta con il grano per Messina sia altre due
che si aveva notizia l’ambasciatore francese stesse facendo caricare pro Messina a
Civitavecchia; una delle dette tartane armate prenderà presto una barca con sette francesi, i
quali recavano messaggi del loro per i messinesi, e la rimorchierà a Napoli la notte del
martedì 30 ottobre.
La guerra si metteva male, soprattutto a causa della lentezza con cui gli spagnoli
l’avevano iniziata; ben 8 o 9mila messinesi andarono ad assaltare Scaletta e s’impadronirono
facilmente del vicino posto fortificato di S. Placido, mentre si disperava che la stessa Scaletta
potesse resistere vista lo svantaggio delle forze. Tartane ed altri legni francesi, sebbene
talvolta intercettati dalle galere di Malta, avevano cominciato ad andare in Barbaria a caricar
grano per la città ribelle, mentre viveri ed altre provviste continuavano ad arrivare
nascostamente dalla vicina Calabria, e infatti Diego Soria marchese di Crispano, mentre da
Milazzo si recava a prender moglie a Reggio con due galere, s’era imbattuto in cinque feluche
reggine cariche di viveri e, sottoposti a tormenti quei marittimi, seppe che si trattava di
provviste per i messinesi ordinate da gentiluomini reggini che, travestiti da marinai, si
trovavano anch’essi a bordo di quelle, allora fece impiccare tutti seduta stante, azione che
trovò però molte critiche a Napoli per la sua crudeltà:
… . risoluzione che qui è stata giudicata troppo rigorosa e non confacevole punto al tempo
(ib.)
Il di Astorga infatti sempre temeva che la ribellione si estendesse alle Calabrie e, mentre
consumava intere giornate in inutili giunte di guerra e del Collaterale, cominciava a dichiarare
aperta insoddisfazione per come il di Gennaro conduceva la guerra, giudicandolo addirittura
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meritevole di decapitazione, mentre si era sparsa la voce che il generale, incapace di
controllare la situazione, avesse abbandonato Milazzo e si fosse ritirato a Reggio, dove fosse
stato anche mal accolto; secondo altri, egli era invece tornato in Calabria perché il suddetto
viceré lo aveva palesemente privato della sua fiducia. Egli aveva però reagito alle critiche e
inviata alla Corte di Madrid una relazione in difesa del suo operato che colà aveva trovato
completo credito; infatti verso la metà di novembre gli arrivò a Napoli dalla Spagna la patente
regia per la carica di mastro di campo generale.
Il 13 novembre i messinesi davano un assalto generale alla Scaletta, sempre tenuta da
un presidio regio, ma ne erano respinti con più di 70 perdite tra morti e feriti; il 15 moriva a
Napoli il sacerdote Andrea Rubino, autore delle interessantissime sebbene non molto note
cronache da noi più volte qui citate; si trattava di ben 30 tomi manoscritti con gli avvenimenti
napoletani dal 1647 sin a questo stesso novembre 1674.
Mentre finalmente i vascelli regi prendevano un grosso legno messinese appena uscito
dal suo porto per andare in cerca di viveri e poi, nelle acque di Capo Spartivento, anche una
tartana francese carica di riso per Messina, il di Astorga mandava in corso un’altra tartana
armata, la quale, unitasi alle altre già in mare, ne predava una diretta anch’a Messina con un
carico di grano; continuavano poi a salpare da Napoli e Baia tartane che portavano viveri e
munizioni per l’esercito regio di Milazzo, il quale, ciò malgrado, si diceva che patisse per
mancanza di viveri; un convoglio di 16 di queste, giunto quasi al termine del suo viaggio, fu
assalito da tre legni armati messinesi e cioè da due galeotte e da un bergantino appena
costruito in quell’arsenale, ma gli assalitori furono respinti: Ecco per esempio una lista di
carico fatto a Baia nel detto novembre su altre 12 tartane che si trattenevano colà in attesa
del tempo favorevole per salpare, e destinato però questo non all’esercito di Milazzo bensì
all’armata spagnola:
260 botte di vino lacrima;
500 cantara di biscotto e anco biscotti bianchi;
64 canne di legne;
Da 200 cantara di tosino e salami, ove, galline, nassi (‘ananassi’), avendole (‘mandorle’)
e zuccari per quelli che possono cascare ammalati;
300 cantara di polvere;
miccio;
palle di moschetti e d'artigliarie e altri fornimenti di guerra (A.S.N. Sez.Mil.)
Spieghiamo che per vino lacrima s’intendeva in quei secoli semplicemente il vino bianco,
il quale costituiva in effetti tutta la produzione vinicola del Regno di Napoli, invece quello
rosso si chiamava vino greco; per tosino s’intendeva il lardo salato, mentre il biscotto non era
altro che la galletta dura cotta al forno appunto due volte, ma talvolta anche tre, e che,
conservata in botti come quasi tutti i cibi conservati del tempo, sostituiva il pane fresco
nell'alimentazione militare, soprattutto marittima; nassi sta probabilmente per ananassi, cioè
un altro alimento dolce tra quelli destinati ad arricchire l'alimentazione dei malati; ma lasciamo
per ora questo discorso sui generi alimentari militari. Le suddette 12 tartane salparono il 25
novembre scortate da quattro grosse altre armate in corso e guarnite di soldati spagnoli, le
quali sarebbero poi rimaste in quei mari siciliani per intercettare i soccorsi inviati ai messinesi,
mentre qualche giorno prima, per fermare il viaggio da Civitavecchia di alcune tartane da
carico francesi dirette a Messina, avevano preso il largo altre due tartane e cinque feluche
armate; in genere queste ultime, essendo imbarcazioni troppo piccole e leggere per portare le
pesanti bocche da fuoco di bronzo, erano armate con una semplice petriera di ferro a prora,
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ma anche ben equipaggiate con cinque soldati spagnoli armati di moschetto e cortella (‘daga’)
per ciascuna; inoltre per accentuarne la grande velocità, avevano la carena spalmata sì del
solito sevo, ma con particolare accuratezza. In quei giorni comunque la Corte di Napoli
concluse con Andrea Bragati ed altri noti mercanti un vantaggioso partito con il quale essi
assicuravano il rifornimento di viveri a tutto l’esercito di Milazzo sino alla prossima primavera
per soli 300mila ducati, mentre altri ne avevano richiesti 500mila.
Promulgatasi in quel mentre un’amnistia a favore dei briganti che intendevano arruolarsi
per andare a servire nella guerra di Sicilia, a novembre 150 briganti dei 300 che erano stati
indultati in Abruzzo entrarono in Napoli per esser poi imbarcati per Messina, ma si rifiutarono
d’alloggiare nell'arsenale, deposito sospetto perché da quello si partiva in genere per le
campagne in paesi lontani da cui quasi mai si tornava o forse anche per timore di finire ai
remi delle galere che proprio alla darsena dell'arsenale regolarmente attraccavano. Questi
briganti accordati si comportavano poi in guerra generalmente con valore, specie gli
abruzzesi, montanari bellicosi come gli scozzesi, con cui si formavano fanterie considerate le
migliori del regno, seguite al secondo posto da quelle calabresi. Il 29 novembre l’armata
spagnola nelle acque di Messina soccorse con successo il casale di Scaletta assalito dal
nemico e i messinesi, dopo molti assalti e tentativi di impadronirsi di quel borgo fortificato,
furono costretti a ritirarsi definitivamente con notevoli perdite; al quel risolutivo soccorso della
Scaletta aveva partecipato anche il di Gennaro con 800 soldati; inoltre s’ebbe notizia a Napoli
che tre borghi preso Milazzo, i quali s’erano uniti al partito messinese, s’erano arresi per fame
all’assedio dei regi. Ritenendosi ormai inutile trattenere ancora in servizio le milizie del
Battaglione e della Sacchetta, le quali s’erano dimostrate così poco marziali, si era data loro
licenza di tornarsene ai loro luoghi di provenienza con un pagamento finale di cinque o sei
ducati a testa, per cui ne restavano ora, tra Reggio e Milazzo, solo non più di 700.
Verso la metà di dicembre Messina era allo stremo per mancanza di viveri e sembrava
che stesse per arrendersi, quando provvidenzialmente entrarono nel suo porto navi francesi
cariche di grano. Qualche giorno dopo arrivarono invece a Palermo 24 galere dalla Spagna
via Sardegna e si trattava di cinque di Napoli, cinque di Sicilia, sette dei particolari genovesi
del duca di Tursi, due di Sardegna e cinque di Spagna, le quali erano state trattenute dal
maltempo in Sardegna per ben 40 giorni, durante i quali c’era stata a bordo un’epidemia con
gran mortalità; esse giungevano di conserva con otto vascelli da guerra olandesi e recavano
alla Sicilia il suo nuovo viceré, cioè Federico de Toledo marchese di Villafranca e duca di
Ferrandina, il quale non volle trattenersi a Palermo e volle invece proseguire subito per
Milazzo, mentre raggiungevano in quei giorni l’isola anche il napoletano Andrea d’Ávalos
principe di Montesarchio, il quale sin dal precedente 26 agosto era il nuovo generale della
squadra delle galere siciliane, e Fernando Ravanal, mastro di campo generale al posto del di
Gennaro, il quale ne era così finalmente esonerato; comunque, non ostando ora che gli
spagnoli disponessero ora di 24 galere e di un numero di vascelli salito prima a 29 e poi a 32,
misteriosamente non attaccarono i soli sei francesi in porto a Messina e per questo il de la
Cueva, come il de Gennaro, sarà presto molto criticato.
Giungerà poco dopo dalla Spagna a Milazzo anche il già ricordato Antonio Guindazzo
con 1.500 soldati di cavalleria maiorchini veterani, per i quali si prese a inviare in più riprese i
necessari cavalli dal regno di Napoli, e con l’incarico di capitano generale della cavalleria
dell'esercito che si andava raccogliendo in quella piazza d’armi (dove gionto, numerò pochi
soldati nella raccolta di molta gente non avvezza alle fatighe di Marte né costante alla penuria
dell'oro). Questa costatazione del Guindazzo, riportata dal Filamondo, sembrava dar ragione
al predetto di Gennaro, il quale, come vedremo, dovrà poi discolparsi del cattivo andamento
della prima fase di questa guerra. A Napoli frattanto si nominavano due nuovi mastri di campo
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e cioè il duca di Martina di casa Caracciolo e quello di Canzano di casa Coppola, inoltre fu
fatto commissario generale della cavalleria Giulio Sersale dei principi di Castelfranco.
Mentre i messinesi assediati, riducendosi sempre di più le loro razioni alimentari, erano
tormentati dalla fame, gli spagnoli colsero qualche altro successo prendendo il forte di S.
Placido e presidiando la Torre del Faro per ostacolare eventuali altri soccorsi stranieri agli
assediati. Si attendevano frattanto da parte imperiale 4mila tedeschi da inviare al campo
trincerato di Milazzo, perché a Napoli, pur esigendosi le imposte di guerra dai baroni del
regno, non si pensava affatto a costituire nuovi terzi di regnicoli da inviare a quella guerra e
ciò perché questi avrebbero dovuto combattere una ribellione che, data l'estrema vicinanza ai
confini del regno, avrebbe potuto facilmente contagiarli con grave pregiudizio per ambedue i
possedimenti spagnoli di Napoli e di Sicilia.
1675. Mentre i messinesi tentavano nuovamente la Scaletta e S. Placido e qualche tartana
francese, forzando il blocco navale, riusciva a rifornire di un po’ di viveri la città ribelle, e i
regi, avendo occupato la torre del Faro e la Lanterna, erano ora più fiduciosi del buon esito
della guerra, giovedì 3 gennaio alle ore 20, ossia alle 16 di oggi, giunse in porto a Messina un
soccorso di ben 20 vele francesi e cioè otto vascelli da guerra con 4mila uomini da sbarco,
sette altri carichi di grano per un totale di ben 50mila tomola, tre tartane cariche d’altri generi
e due brulotti; l’armata spagnola che stava lì in rada nulla fece per ostacolarla, se si
eccettuano quattro cannonate prive d’effetto sparate da una sua galera. Il viceré di Astorga
incolpò di questa inerzia non tanto il marchese del Viso, generale delle 11 galere di Spagna
allora presenti in quel teatro di guerra, quanto Melchor della Cueva, perché invece di tenere il
mare, come le dette galere, se ne stava con i suoi 23 galeoni all’ancora alla fossa di S.
Giovanni; invece sembrava che il viceré di Sicilia, il marchese di Villafranca, se la fosse presa
con ambedue i generali, minacciando di togliere loro il comando e di conferirlo al napoletano
principe di Montesarchio. Dopodiché gli spagnoli tentarono di far entrare nel porto di Messina
due brulotti camuffati da velieri francesi per appiccare il fuoco all’armata nemica ormai colà
ben ormeggiata, ma ne furono impediti dalla catena di ferro che, allacciata a grossi legni di
sostegno, impediva l’accesso.
Martedì 8 gennaio il Fuidoro appuntava l’arrivo a Napoli di 50 tedeschi a cavallo armati
di terzette, quindi si trattava di un’intera compagnia, presumibilmente di corazzieri, la quale, in
considerazione che, insolitamente montata, era giunta via terra; da dove venissero questi
soldati e chi li avesse inviati, non sappiamo, ma era questo un periodo di convulsi preparativi
e movimenti militari in cui non tutto è ben definibile e riconducibile; arrivarono poi a Napoli via
Civitavecchia due galere napoletane che erano in viaggio per Milazzo per portarvi
soldatesche spagnole e durante la navigazione molti si erano ammalati di qualche morbo
contagioso; la squadra di galere del regno mancava da Napoli dal giugno dell’anno
precedente, quando cioè era partita per la Spagna e poi da lì si era trasferita a Milazzo per la
guerra scoppiata in Sicilia.
Sabato 19 arrivò notizia da Milazzo che dai vascelli francesi arrivati ultimamente a
Messina erano sbarcati 4mila soldati veterani e mille ufficiali militari e civili, ai quali i
messinesi avevano assegnato come quartieri due castelli della città, mentre da Gaeta
segnalavano l’avvistamento di altre 30 vele francesi; Luigi XIV dunque evidentemente deciso
d’investire nella ribellione messinese forze veramente impegnative. Crebbe subito l’ardire dei
messinesi, i quali scacciarono gli spagnoli da tutti i posti fortificati che avevano negli ultimi
tempi occupato e si preparavano a ritentare anche la Scaletta, dove s’andò a ritirare il
generale Bragamonte, rinchiudendosi il di Gennaro invece nel forte di S. Placido; per esempio
il giorno 4 gli spagnoli avevano abbandonato il posto della Lanterna, dopo avervi però
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lasciato dei barili di polvere accesi che lo fecero saltare.
Le galere della Corona di Spagna continuavano a intercettare tartane francesi cariche
di viveri per Messina, ma né le loro squadre né l’armata dei vascelli, tutte in effetti poco
provviste e preparate per azioni di guerra, riuscivano a ostacolare i soccorsi maggiori e, come
se ciò non bastasse, uno dei suddetti vascelli, la Gagliarda di Fiandra, s’era andato a
fracassare sulla costa del Faro.
(Napoli, 22 gennaio:) È arrivato da Melazzo un offiziale che racconta il poco ordine con che si
camina in quell’esercito, non distinguendosi a pena il soldato dal capitano (A.S.V. Nun. Nap.)
A Napoli aumentò poi ulteriormente l’apprensione quando si vide passare nelle acque
di Capri una flottiglia di 28 vele francesi anch’esse dirette a Messina e si cominciò a parlare
d’armare il baronaggio per la guardia delle marine del regno; nei primi giorni di febbraio Vi
arrivò Diego Soria marchese di Crispano, il cui malgoverno a Messina era considerato la vera
causa della ribellione e quindi di tutti i mali che ne erano derivati.
Tra il 10 e l’11 febbraio i vascelli francesi del di Valbel tentarono di ripartire forzando il
debole blocco che gli spagnoli avevano posto al porto di Messina e in un combattimento nelle
acque del Faro ebbero la meglio, perdendosi uno dei velieri spagnoli e ammontando le
perdite umane dei regi a 30 morti e 100 feriti; dopo tale battaglia 16 vascelli si portarono con il
loro ammiraglio Melchor de la Cueva a Napoli, dove arrivarono la sera di sabato 16 febbraio e
in seguito a Baia, nei cui cantieri avrebbero ricevuto i necessari lavori di raddobbo, essendo
infatti quest’ultimo un porto particolarmente attrezzato allo scopo. I soldati e i marinai di questi
vascelli, laceri e impagati da molto tempo, si ritennero in diritto di darsi perciò alla busca, cioè
alla razzia militare ai danni delle masserie dell'agro puteolano, dove infatti rubavano i prodotti
della terra e gli animali e dove violentavano le donne sodomizzandole, probabilmente
pensando così di ridurre il rischio di contagio venereo o forse anche per esser questo reato
meno perseguito dello stupro vero e proprio. Diversi di loro furono però affrontati e uccisi dai
paesani, gente che, come la maggior parte dei contadini del tempo, era tutt'altro che mite; per
esempio nelle cronache napoletane si definiscono talvolta sia i posillipini sia i capresi genti
dai costumi feroci, ossia violenti e bellicosi.
Era giunta quest’armata a Baia non solo recando molti feriti, ma anche colpita da
un’epidemia molto contagiosa, probabilmente tifoidea, e infatti ne restarono affetti molti dei
servienti (‘infermieri’) e due medici degli ospedali napoletani in cui soldati e marinari erano poi
stati ricoverati, ossia gli italiani agli Incurabili e all'Annunziata, gli spagnoli al loro ospedale di
S. Giacomo e a quello delle galere alla darsena. A tal proposito osservava sempre il Fuidoro:
... e le infermità sono cagionate alli soldati dall'aver bevuto acque putride e corrotte a Melazzo
e dall'immondizie di chi è stato con biancheria sporcata per più mesi addosso; e li soldati
novelli, detti bisogni, sono stati più maltrattati, avendo non solo bisogno delle camise, ma anco
di vestiti e quelli cenci così ammorbati anco debilitano la salute col cattivo odore e l'esserno
stati tre o quattro mesi su le galere per partire da Spagna a Melazzo. Infatti, la Dio grazia e
delli gloriosi San Gennaro e santi protettori di Napoli, ogni giorno escono sani quelli che
entrorno nelli spedali e, con l'essere stati polizzati e nettati, bruggiati li cenci e fatti bagni di
vino tepido con erbe odorose, si vanno recuperando le pristine forze e salute; li feriti non può
negarsi che ne sia pericolato alcuno e altri che ne restano storpiati.
Fortunatamente infatti di 500 ricoverati ne morirono in detti ospedali solo una
cinquantina ed era questo per quei tempi un ottimo risultato; per bisogni s’intendevano
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appunto le reclute spagnole (dallo sp. del tempo visoños), le quali erano così chiamate perché
venivano appunto a soddisfare i ‘bisogni’ d’uomini che avevano i vari corpi militari della
Spagna in Europa, in Africa e nel Nuovo Mondo. Il de la Cueva fece istanza al viceré perché i
fondi per il raddobbo e il carenamento dei suoi vascelli stanziati dall’erario del regno fossero
amministrati direttamente da lui, ma non gli fu concesso; quando però poi, nella prima decade
di marzo, il di Astorga gli chiederà mille uomini della sua armata perché li s’inviassero a
Regio, invece di tenerli lì a Baia a oziare e fare danni alla popolazione, egli si rifiuterà,
asserendo che si trattava d’uomini di mare e non di terra e che comunque senza un ordine
reale in tal senso non poteva privarsene.
Intanto anche la Francia, giacché il conflitto diventava sempre più importante, inviava in
quelle acque una vera e propria potente flotta sotto il comando di Louis-Victor de
Rochechouart duca di Mortemart e di Vivonne (1636-1688) e si trattava di ben 22 vascelli da
guerra che portavano quattro battaglioni di fanteria (Picardie, Piedmont, Curssal e Louvigny),
600 soldati a cavallo e 300 della guardia reale; dalla flotta francese, giunta a Messina verso la
metà di febbraio, arrivò alla città un altro buon soccorso di vettovaglie e pertanto il 28 aprile
seguente nella cattedrale di quella città si farà un pubblico giuramento d’obbedienza al re di
Francia e si trattò di un vero e proprio omaggio feudale – con baci e inginocchiamenti - dato
dai senatori messinesi ai rappresentanti di detto re. In seguito i francesi, vedendo il campo di
Milazzo poco presidiato perché la maggior parte degli imperiali era fuori all’assedio di
Messina, tentarono d’assaltarlo sia da terra che da mare, ma i vascelli non poterono
avvicinarsi abbastanza a causa del vento contrario e il tentativo fallì; i messinesi poi
assediavano Scilla e la Torre del Faro, le quali erano state occupate dai regi, e la seconda
cadde quasi senza resistenza. Essendosi inoltre allontanata, come sappiamo, anche l’armata
di mare spagnola, i vascelli francesi avevano ora campo libero nelle acque calabresi e
pertanto andavano sulle coste di Castiglione e di Fiume Freddo a rifornirsi di viveri e di
bestiame, generi che comunque pagavano ai locali puntualmente; inoltre s’impadronivano
delle tartane cariche d’olio pugliese che, dirette a Napoli, risalivano lo Stretto di Messina,
mentre altre loro tartane granarie giungevano impunemente alla città ribelle. Al contrario la
piazza d’armi di Reggio era a secco di provviste perché l’allora suo comandante marchese del
Tufo aveva dovuto cedere all’armata di mare tutte quelle che aveva; nella prima decade di
marzo il detto marchese sarà nominato governatore dell’armi di una delle province del regno
ed al comando di Reggio verrà un altro vecchio soldato, cioè il generale dell’artiglieria Titta
Caracciolo Pisquizj duca di Martina.
Anche lo Stato di Milano cominciava a contribuire allo sforzo bellico contro i francomessinesi e in cambio però una cedola reale del 16 febbraio imponeva al viceré di Napoli
d’assistere, d’ora in poi, il principe di Ligny, governatore di quello stato, non solo con la ormai
istituzionale rimessa di 10mila scudi il mese, il quale era da spendersi ufficialmente per il
pane di monizione, ossia per il sostentamento delle milizie di stanza in Lombardia, ma anche
con il corrispettivo delle pensioni, cioè degli stipendi che si dovevano ai corpi svizzeri e
grigioni al servizio milanese; ciò perché la cooperazione economico-politico-militare tra i vari
possedimenti della monarchia di Spagna era sempre molto pronta ed efficace e Napoli
sostenne, per tutto il periodo del dominio spagnolo sul Milanese, gran parte delle spese di
guerra cui quell'antico ducato doveva far fronte continuamente, essendo il suo territorio
antemurale degli altri possedimenti spagnoli in Italia. Mentre la Sicilia feudale armava circa
4mila cavalli contro Messina e verso il 22 febbraio si seppe a Napoli la triste nuova che un
vascello che portava fanterie milanesi per Milazzo risultava disperso in mare, il 5 marzo
giunsero a Napoli due altri vascelli con 600 soldati alemanni provenienti dalla Lombardia e si
trattava del corpo di fanteria del colonnello conte Fabio Visconti, corpo detto a Milano
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impropriamente tercio viejo, in considerazione che le fanterie europee, eccezion fatta di quelle
spagnole, napoletane, milanesi e valloni, non si ripartivano in terzi, bensì nei più antichi e
tradizionali reggimenti. Questi alemanni - intendendosi per tali tutti gli europei di lingua
tedesca e quind’anche gran parte degli svizzeri, ben riforniti di viveri a Napoli, proseguirono il
10 successivo per il campo di Milazzo sulle galere del duca di Tursi. All'inizio dello stesso
marzo arrivarono a Gaeta altri due vascelli con 700 soldati esperti pure provenienti dal
Milanese e destinati a Milazzo, mentre dei già menzionati promessi 4mila alemanni imperiali,
ossia sostanzialmente austriaci, 2.500 – come informava l’ambasciatore di Spagna a Venezia
- erano attesi per il 20 marzo a Trieste, dove sarebbero stati imbarcati per i porti adriatici del
regno, per proseguire poi via terra per Napoli e infine ancora via mare per Milazzo; per la leva
dei residui 1.500 s’aspettava che il viceré di Napoli spedisse i 12mila ducati ancora necessari
(A.S.V. Nunz. Nap.) Forse erano per questi ultimi i 4mila vestiti di panno di Piedimonte d'Alife
per cui si fece partito nella prima metà dell'anno; in effetti, i sarti militari napoletani, abituati da
secoli a fornire gli abiti per la guardia degli alabardieri svizzeri del viceré, erano perfettamente
in grado di fabbricare vestiario di foggia alemanna. S’inviarono pure da Milano il reggimento
alemanno del colonnello conte de Buquoy e otto compagnie di cavalleria smontata, ossia
priva di cavalli, ma, se queste soldatesche fecero tappa a Napoli o se il predetto reggimento è
da identificarsi nei 700 soldati sperimentati più sopra nominati non sappiamo, perché a questo
punto gli arrivi di soldatesche per la guerra di Messina diventano convulsi e sia i diaristi sia gli
avvisi ufficiali non riescono più a segnalarli tutti.
Venerdì 15 marzo le soldatesche dell'armata di Spagna che si trovava a Baia e il cui
risarcimento procedeva molto lentamente fecero mostra (rassegna) a Pozzuoli divise in due
terzi, uno di spagnoli e uno d'italiani; probabilmente si trattava proprio dei due famosi terzi di
fanteria di marina che da antica data guarnivano (equipaggiavano) le armate navali spagnole,
specie quella oceanica. Ci furono in quell'occasione le solite discussioni tra le due nazioni per
chi dovesse avere il diritto d'avanguardia, ossia di precedenza dei reparti da passare in
rivista, e il Fuidoro scrive che l'unica avanguardia che gli spagnoli erano sempre pronti a
lasciare in guerra agli italiani era quando c'era da andare all'assalto di fortificazioni nemiche,
mentre erano altrettanto pronti a pretenderla per sé quando c'era più da saccheggiare che
pericolo. In effetti i soldati italiani erano, negli eserciti multinazionali del tempo, considerati
ipocritamente i più bravi nel dare gli assalti, ma in realtà, essendo questo tipo di
combattimento generalmente sanguinosissimo per gli assalitori, i quali dovevano infatti
arrampicarsi sulle rovine della breccia, sotto il fuoco disperato dei difensori, gli spagnoli
preferivano sacrificarvi gli italiani, considerati poco efficaci in tutte le altre fazioni di guerra e
usati così come carne da macello. Questo episodio di Pozzuoli fa capire comunque quanto il
diritto d'avanguardia fosse considerato importante dai soldati del tempo; infatti in quella
circostanza non c'era né da combattere né da saccheggiare, bensì solo da star fermi in parata
per esser passati in rivista. In realtà non era una questione d’onore, ma di opportunità di
carriera, perché chi aveva diritto alla precedenza - in parata, ordinanza o battaglia che fosse l’avrebbe poi goduta anche nella progressione delle nomine. Il Collaterale, in seguito a tali
animate discussioni e memore evidentemente delle proteste in materia avvenute all’inizio
dell’anno precedente, si riunì per deliberare in materia:
(Napoli, 19 marzo:) E’ stato sempre indeciso il punto della precedenza fra i soldati spagnuoli
ed italiani, per il che molte volte furono nate gravi discordie, come l’anno passato succedé in
Catalogna, onde fu li giorni della scorsa settimana discorso e risoluto in Collaterale a favore
degli spagnuoli; il che ha causato gran commozione fra questi officiali italiani, che mostrano di
non voler cedere, se bene per evitare qualche disordine si dice che possa dal signor viceré
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pigliarsi qualche mezzo termine (ib.)
Gli scontri nel territorio di Scaletta e S. Placido continuavano con alterna fortuna, ma la
sostanza era che i messinesi continuavano ad assediare la prima, il cui presidio era
comandato dal suddetto generale della cavalleria Guindazzo:
(Napoli, 16 marzo:) Scrive don Antonio Guindazzo dalla Scaletta che, avendo respinti doi volte
da quel posto li messinesi, ma che ancora questi non avessero levato l’assedio, onde dentro
si penuriava molto di viveri e d’altre cose necessarie per fare lunga resistenza, non avendo il
generale né meno un matarazzo per dormire (ib.)
Qualche giorno dopo si seppe che il suddetto Guindazzo, forse proprio perché costretto
a dormire per terra, s’era ammalato di una grave febbre e quindi, per farsi meglio curare,
aveva lasciato la Scaletta e s’era fatto portare in un posto più tranquillo; il simile aveva fatto il
colonnello conte Fabio Visconti, il quale si trovava ora a Reggio anch’egli ammalato. Il
Guindazzo però, dopo alcuni giorni di detta violenta febbre, morirà e, prima sostituito pro
interim da certo generale Giannini, solo all’inizio del seguente novembre arriverà per Diego
Bracamonte la nomina ufficiale a generale della cavalleria di Sicilia. Giungeva invece ora
dalla Spagna, come del resto da tempo già si ventilava, la patente di governatore generale
dell’armata di mare al solito, vecchio, esperto e fedelissimo napoletano Andrea d’Ávalos
principe di Montesarchio e la destituzione dai relativi incarichi di comando marittimo sia per il
marchese del Viso sia per il de la Cueva sia per altri ufficiali dell’armata stessa; anzi costoro
furono addirittura incarcerati unitamente al marchese di Baiona, figlio di quello del Viso, il
quale era giunto a Napoli dalla Sicilia; il de Cueva, portatovi da una galera napoletana e
accompagnatovi dal capitano della guardia del viceré, fu rinchiuso nella fortezza di Gaeta, il
suo intendente generale invece nel castello di Baia. Altri mutamenti d’incarichi di quei giorni
furono il presidato e comando generale della provincia di Cosenza a Camillo di Dura, vecchio
e meritevolissimo soldato, e il passaggio del preside di Montefuscoli al presidato di
Catanzaro.
Come se l’ostile presenza dell’armata di mare francese non bastasse, le squadre di
galere napoletana e siciliana dovettero anche subire in quei giorni funeste sciagure; la
Padrona di Sicilia naufragò nel Golfo di Policastro con perdita di tutta la gente imbarcata; la
Santa Teresa di Napoli s’andò a fracassare a terra presso Palinuro, ma questa volta tutti si
erano salvati, anzi i remieri forzati avevano approfittato delle circostanze per fuggire su
imbarcazioni rubate, ma erano poi stati quasi tutti ripresi da armigeri dei feudatari di quei
territori costieri e cioè del principe della Scalea e del marchese di Torrecuso di casa
Caracciolo; infine, due galeotte napoletane impegnate a contrastare i rifornimenti marittimi
francesi a Messina, dopo essersi scontrate nella rada di Reggio con alcuni vascelli dei
transalpini usciti dal detto porto siciliano e averli respinti con l’aiuto delle artiglierie della
fortezza reggina, erano naufragate in una violenta burrasca levatasi in quelle acque.
Quest’ultima triste notizia sarà recata a Napoli la sera di venerdì 29 marzo dalle due galere
napoletane Padrona e S. Antonio arrivate da Palermo in sole 30 ore di traversata, non male
per quei tempi.
Mercoledì 27 marzo uscì dal Torrione del Carmine, cioè da uno dei quattro castelli di
Napoli, una di quelle consuete ronde del tercio degli spagnoli, le quali erano costituite
generalmente da 6/8 fanti e si aggiravano nei quartieri di Napoli come farebbero oggi le
pattuglie dei carabinieri; questa, arrivata nei pressi dei quartieri militari di Porta Capoana, si
azzuffò con soldati di cavalleria napoletana, di questi di nuova leva, scalzoni vestiti e bestiali,
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scrive il Fuidoro, e si finì con due morti; secondo il nunzio apostolico invece i soldati spagnoli
non erano di ronda, bensì dell’armata in sosta a Baia, ed i morti erano stati tre – due spagnoli
ed uno regnicolo, essendosi però registrati anche parecchi feriti. La suddetta cavalleria di
nuova leva era detta anche cavalleria estraordinaria, per distinguerla dalle 20 compagnie
ordinarie tradizionali ed è questa la prima volta che compare nelle cronache napoletane.
Pronte nel porto un altro convoglio di tartane a noleggio da inviare a Reggio, domenica
30 marzo vi furono imbarcate cinque compagnie di cavalleria, delle quali due della predetta
nuova leva e due delle vecchie, e la sera del giovedì seguente, nonostante il tempo cattivo
che per il momento non ne permetteva la partenza, un terzo di 500 fanti di nuova leva
comandato dal mastro di campo Andrea Coppola duca di Canzano e finalmente costituito per
un conflitto che si dimostrava sempre più grave; insieme con questi uomini s’imbarcarono
pure 200 fanti del Battaglione originari di Capua e d’Aversa ed entrati nella capitale il 27
marzo precedente e infine altre due compagnie di cavalli, di cui una di nuova leva sotto il
comando di un fratello del predetto duca (forse Gaetano o forse Nicolò Coppola) e l'altra del
capitano Tomaso Guindazzo, congiunto del suddetto generale della cavalleria. Migliorato il
tempo, dopo qualche giorno tutte queste milizie partirono portate da un totale di 14 tartane,
due delle quali trasportavano attrezzature da guerra, ma, a quanto aveva scritto al suo
governo qualche giorno prima il nunzio apostolico, non andavano in guerra con molto
entusiasmo:
(Napoli, 19 marzo:) Si sono noleggiate dalla Corte sette tartane nelle quali devono imbarcarsi
doi compagnie di cavalli delle vecchie, che passano a Reggio, e, non avendo potuto fare il
viaggio per terra come desideravano, lo fanno di mala voglia per mare a causa del pericolo
che possono correre abattendosi con legni inimici (ib.).
A proposito del suddetto Andrea Coppola accenneremo ora alla sua carriera militare e
cominceremo dai primi anni '60, quando cioè egli combatteva in Portogallo col grado di
mastro di campo di fanteria napoletana e fu infatti a capo di diversi terzi di questa nazione e
partecipò alle più importanti battaglie di quella guerra (Evora, Estremox, Villa Viciosa); per i
meriti acquisiti in quelle guerre godette poi di una mercede reale di 300 ducati l’anno (A.S.N.
Tes. An. Anno 1670, fs. 354); fu poi mastro di campo nella guerra di Messina e in Sicilia
ottenne la nomina a sargente generale di battaglia; fu poi governatore di Catania, vicario
generale della costa meridionale di quel regno e conquisto più tardi, con una sorpresa, la
mole di Tauromina (oggi ‘Taormina’), tenuta dai francesi, i quali poi l'assediarono
ostinatamente nel tentativo di recuperarla, ma il Coppola la difese con successo e alla fine
recuperò anche Augusta, presa nel corso di quella guerra dalla flotta francese. Comandò una
condotta navale napoletana che sbarcò soldatesche in Galizia e, convocato dal re a Madrid,
fu promosso dapprima membro del supremo consiglio di guerra di Spagna, in seguito mastro
di campo generale e governatore generale dell'armi delle province di Guipuzcoa e Navarra,
dove difese Fuenterabia dal vano assedio francese e governò quelle terre per ben otto anni;
infine, nel 1693 sarà viceré e capitano generale d'Orano e Tremisen in Africa.
Nella notte di domenica 7 aprile giunse a Napoli un vascello genovese che portava 700
soldati milanesi (del ‘Battaglione’ di quello Stato...tutta gente di valore e di fresca), i quali
furono poi trasbordati su due altri legni e inviati contro Messina, e c’è subito qui da notare il
positivo giudizio che accompagnava queste milizie territoriali lombarde, a differenza di quanto
purtroppo abbiamo più volte visto a proposito di quelle regnicole. L’8 partì per Reggio il suo
nuovo governatore dell’armi e cioè il capitano generale dell’artiglieria e membro del Real
Consiglio di Guerra fra’ Titta Brancaccio, personaggio di grande spicco nell'organizzazione
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militare napoletana; egli manterrà questo governatorato fino al luglio del 1676, mentre nella
carica di capitano generale dell'artiglieria, la quale comportava in quel periodo un soldo
mensile di 300 scudi castigliani, era stato sostituito pro interim da Giovann’Antonio Simonetta
Pons de León marchese di S. Crispiero, il quale era però vulgo conosciuto come Santa
Cristina - da dove nascesse questo nomignolo non sappiamo; costui era stato prima capitano
della compagnia di lance di Francesco Tuttavilla duca di S. Germano e poi il 29 luglio 1664
era stato nominato dal re mastro di campo del terzo vecchio dei napoletani dell’armata reale
del Mar Oceano, incarico onoratissimo, in sostituzione di Fabrizio de’ Rossi, il quale era
divenuto sargente generale di battaglia. Si seppe poi esser arrivati nel frattempo a Milazzo
550 soldati alemanni che vi erano da tempo attesi.
Il 14 aprile fecero il loro ingresso nella capitale le milizie del Battaglione di Terra di
Lavoro e Principato e furono alloggiate nell'arsenale sotto la personale sorveglianza del
commissario di campagna:
…quale procede con tutto rigore e dispietato senza misericordia; s’inserrano nell'arsenale per
imbarcarsi e si vedono appresso di questi ch'entrano accompagnati dalle mogli, dalli figli e
dalle madri e con gran dispendio e favore, vendendosi le loro robbe per poternosi riscattare e
fare lo scambio chi ha questa comodità, e vi sono apposta alcuni farinelli che tengono una
sorte di gente disperata a spese loro per venderle in quest’occasione per scambio e ne
traggono guadagno a spese di chi ha bisogno; e con maraviglia di quelle persone che dicono
che si potria pigliare a forza quella sorte di gente ch'è dissutile, come si suol fare, essendoci in
ogni tempo vagabondi in ogni città che non hanno arte alcuna e viziosi discutili.
Questi miliziani del Battaglione e della Sacchetta, come abbiamo già detto, avevano il
compito di difendere il regno, ma in cambio godevano d’alcuni privilegi, tra cui quello, solo
sulla carta, di non poter essere obbligati a servire all'estero.
Domenica 21 a li Quartieri (oggi ‘Quartieri spagnoli’) ci fu una rissa tra soldati spagnoli e
soldati di campagna e poiché, i primi avevano snudato le spade i secondi spararono e
uccisero tre spagnoli; gli uccisori fuggirono e dei loro compagni furono carcerati, ma poi,
riconosciutasi la responsabilità degli spagnoli, saranno scarcerati. La sera di venerdì 26
giunsero a Ischia quattro galere della squadra di Sicilia che portavano il principe di
Montesarchio, novello governatore generale dell’armata di mare, e i marchesi del Viso e di
Baiona; il principe venne a Napoli la sera seguente e dichiarò di non potersi considerare
ancora nel suddetto suo nuovo incarico perché lo aveva sì saputo per lettera, ma in effetti non
ne aveva ricevuto ancora patente ufficiale; questa infatti arriverà a Napoli solo alla fine della
prima settimana di maggio.
Nei suddetti giorni s’imbarcarono per Reggio altri 160 cavalli e 500 soldati del
Battaglione di Terra di Lavoro, mentre s’inviava una partita della predetta cavalleria di nuova
leva verso le marine del Capo d'Otranto, dove si temevano attacchi degli ottomani, i quali
erano alleati di Sua Maestà Cristianissima il re di Francia contro Sua Maestà Cattolica il re
delle Spagne; inoltre un rinforzo di due compagnie di fanti spagnoli, per un totale di 300
uomini, e di munizioni partì su una galera napoletana per il presidio di Longone la sera del 29
aprile. In quel mentre altri 800 soldati alemanni, i quali erano sbarcati a Pescara provenienti
da Trieste, erano arrivati a Napoli via terra la sera di domenica 28 e martedì 31 furono spediti
a Reggio su un convoglio di 22 tartane che portava anche tre compagnie di cavalli di nuova
leva guidate dal loro commissario generale Giulio Sersale dei principi di Castelfranco, altri
600 soldati del Battaglione di Terra di Lavoro e una gran quantità di munizioni e attrezzature
da guerra. Erano partiti questi alemanni sudditi dell’imperatore, privi del conte loro colonnello,
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il quale, ammalatosi a Capua e rimasto infermo nella capitale, vi morirà lunedì 13 maggio;
giunti a destinazione felicemente, nonostante il costante maltempo che avevano incontrato in
viaggio, fu dai reggini molto ammirata la loro disciplina e la loro abilità nell'eseguire gli
esercizi militari, abilità che condividevano con i francesi, mentre non altrettanto si poteva dire
di spagnoli e italiani, a causa del carattere individualistico e del comportamento indipendente
che questi avevano, carattere e comportamento che quindi si riflettevano anche nelle
manovre e figurazioni di parata. Si seppe poi che i detti alemanni si erano lamentati d’esser
stati ingannati, perché arruolati con la prospettiva di dover servire di presidio a Napoli e non
di andare a combattere la guerra di Messina.
E’ probabilmente con quest’ultima spedizione che partì per il fronte di Messina anche la
nuova compagnia di cavalli corazze montati, ossia già provvisti di cavalcature, del capitano
Restaino Cantelmo, il quale nel 1677 ne lascerà però il comando al capitano Nicola Pignatelli
perché promosso nel frattempo sul campo mastro di campo di un terzo di fanteria napoletana;
il Cantelmo inizia così una delle più prestigiose carriere che siano mai toccate a ufficiali
napoletani. Una registrazione della dotazione d'armi della predetta compagnia ci permette di
sapere come andavano effettivamente armati questi cavalli corazze. Essi dunque portavano
spada (sciabola, se francesi), una coppia di lunghe pistole d'arcione e carabina - infatti in altri
stati italiani, per esempio in quello della Chiesa, chiamavano questi soldati carabine, mentre il
loro armamento difensivo consisteva in guanti e stivali di cuoio e la cosiddetta corazza, la
quale trova il suo nome dall'esser stata in origine, cioè nel Cinquecento, fatta di durissimo
cuoio e ora invece era formata dai seguenti pezzi di metallo pesante nero:
borgognotta (ossia una celata con tesa latero-posteriore);
spallacci;
petto;
mignoni (cioè mezzi bracciali);
scarselloni (vale a dire copri-fianchi e cosce).
Quando, nell'ultimo quarto del Cinquecento e durante le guerre di Francia, Enrico di
Navarra aveva inventato la suddetta specialità dei cavalli corazze, detti in Francia prima
pistoliers e più tardi cuirassiers, questi andavano armati, in considerazione che ad armi da
fuoco, della sola coppia di pistole d'arcione ad acciarino ruotante e mina (‘pietra focaia’; fr.
pierre de mine), chiamate in Italia terzette, forse perché lunghe circa un terzo dell'archibugio o
del moschetto, ma poi nella seconda metà del Seicento, essendosi le armi a ruota confermate
nel corso della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) di troppo imbarazzante caricamento e
sebbene la loro accensione fosse meno facile a far cilecca sia di quella del moschetto sia di
quella del fucile, alle suddette pistole a ruota furono sostituite pistole a grillo e focile (‘selce
focaia’; fr. pierre à fusil), inoltre fu aggiunta una carabina, ossia un corto fucile di tre piedi di
lunghezza e di grande potenza in considerazione che a canna spessa e rigata e caricamento
compresso, il quale si otteneva con l’uso di una bacchetta di ferro e non di legno come quelle
adoperate di norma per le altre armi da fuoco. Infatti carabine, invece di cavalli corazze, erano
ora spesso, specie in Italia settentrionale, questi soldati alla spagnola chiamati, come aveva
fatto per esempio l’anonimo cronista del de Blasiis, quando scrisse della visita a Napoli del
principe romano Savelli, arrivato a Napoli sabato 9 aprile 1672, e come farà più tardi pure il
nunzio apostolico di Napoli in una sua corrispondenza del 24 aprile 1685; ma si trattava di un
nome molto improprio perché li assimilava ai più antichi carabins francesi, i quali erano
tutt’altra cosa perché facevano parte della cavalleria leggera e non di quella pesante.
A proposito del predetto termine focile, bisogna chiarire che con esso s’indicava la pietra
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focaia e non l’accialino (‘acciarino’), come invece si crede comunemente oggi; in materia poi
di armi da fuoco di questo periodo, è proprio di quest’anno una grossa importazione d’armi da
Brescia, la più importante produttrice d'armi in Italia e una delle prime in Europa, che si ritrova
registrata nel fondo Reali ordini dell’Archivio di Stato di Napoli:
9.000 moschetti di calibro con suoi fiaschi, fiaschigli e forchiglie.
9.000 archibugi di calibro con suoi fiaschi e fiaschigli.
1.000 cherubini (od anche carubini e carobini, sp. caravinas) con cascie e focili a grillo
alla spagnuoli.
1.400 para di pistole con cascie e focili a grillo alla spagnuola.
6.000 picche di faggio con loro ferri di Brescia alla spagnuola.
Le prime due sono armi di fanteria con accensione a miccio, ma era già in corso in
Europa la loro sostituzione con il cosiddetto moschetto leggiero, cioè con un’arma, anch’essa
a miccio, ma leggera quasi quanto l'archibugio e potente quasi quanto il vecchio e pesante
moschetto di Biscaglia; si trattava di un’arma sufficientemente leggera, perlomeno quello ora
portato dalla fanteria in campagna, perché, si potesse usare senza la forchetta d’appoggio;
era invece necessario continuarne l’uso per i moschetti usati nei presidi, tuttora più lunghi e
pesanti. Il Marzioli voleva che i fanti abbandonassero la forchetta, non solo perché ora la loro
suddetta arma era più leggera, ma anche perché l’uso di tale strumento ritardava ovviamente
l’esecuzione dello sparo.
Sarà che l’invenzione dell’accensione a grilletto e fucile era stata fatta dai francesi dopo
il 1630, cioè durante il regno di Luigi XIII, come sosteneva Aubert de la Chesnaye des Bois
(op. cit.), ma in ogni caso la Spagna sarà, come poi vedremo, l’ultima grande potenza
europea ad abbandonare quella a miccio e particolarmente il pesante moschetto di Biscaglia,
di cui, per esempio, ancora risulteranno armati nel 1705 i fanti spagnoli di presidio in Sicilia,
come con meraviglia scriverà nella sua relazione d’allora l’inviato di Filippo V in quell’isola
monsieur de Bedusar [S.H.A.T. Vincennes, A1-1867 (324].
In effetti anche dal suddetto de la Chesnaye sappiamo da che quest’arma era talvolta
usata nella difesa delle piazze ancora ai suoi tempi, ossia alla metà del Settecento (ib.).
Pesi e misure delle suddette armi bresciane ci sono date da una classificazione
anch’essa bresciana del 1667, da cui però per semplicità non riporteremo le misure originali
in once e piedi bresciani, ma ne daremo direttamente l'equivalente approssimativo in grammi
e centimetri calcolato tenendo conto delle varie interpretazioni che si danno oggi di quelle due
misure; diremo solo che il moschetto tirava palle di piombo da circa un’oncia napoletana (gr.
27,12) - misura questa equivalente a un dodicesimo di libbra in Italia e a un sedicesimo
invece in Spagna, Fiandra, Alemagna e in altri paesi europei - con una carica di polvere di
monizione (fr. poudre de magasin) di poco più di mezza oncia, mentre la palla della terzetta o
pistola pesava circa un lotto, cioè mezza oncia:
CANNA
moschetto
archibugio
carabina
terzetta
PESO (gr.) LUNGHEZZA (cm.) CALIBRO (gr.)
da 759 a 976 da 110 a 142
651 a 759
95 a 110
434 a 542
63 a 80
217 a 380
30 a 55
da 34 a 54
20 a 34
18 a 54
16 a 27.
La terza e la quarta sono invece armi di cavalleria, la quale però presto adotterà il
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moschettone, riservando la carabina a pochi tiratori scelti; il moschettone era, come abbiamo
già detto, una versione più corta e comoda del moschetto leggiero della fanteria, in
considerazione che in cavalleria le armi da fuoco lunghe erano di difficile e impacciato
maneggio; è singolare come questo nome di moschettone sia stato in seguito per metonimia
attribuito a quel tipo di gancio metallico a molla che si adopera oggi per vari usi, ma che,
d’invenzione militare, allora reggeva appunto il moschettone di cavalleria. La suddetta
carabina (alterazione di cherubino, cioè il toro alato della mitologia mesopotamica; infatti in
calabrese ancor oggi carubina) non è però da confondersi né con la più antica arma di
cavalleria dallo stesso nome, ma con accensione ad acciarino ruotante e mina, che si usò
sino alla Guerra dei Trent’anni, né tanto meno con quella che allora usavano turchi e arabi,
ossia un moschetto più lungo e potente, ma non a canna rigata né con la cosiddetta longue
carabine di cui si talvolta si legge nella letteratura sulle guerre americane del Settecento;
essa era infatti un’arma lunga circa tre piedi con accensione a grilletto e fucile e che si
distingueva dalle altre armi da fuoco portatili del suo tempo per le sue caratteristiche tecnicobalistiche e cioè per esser a canna rigata e per esser caricata con una carica di polvere più
fina e potente e a palla forzata da una bacchetta non di legno, bensì di ferro perché non si
spezzasse; era quindi, anche se più corta del moschetto e dell'archibugio, di quelli più spessa
di metallo, più potente e più precisa. Maggiore era il vento, ossia la differenza tra il calibro
della palla rispetto a quello della canna, e minore era la precisione di tiro e quindi, ad
aumentare l’esattezza del tiro di queste armi, da cui molta precisione appunto ci si attendeva,
senza dover necessariamente spingere giù per la canna rigata palle di misura troppo giusta e
quindi col pericolo che vi restassero incastrate, si usava talvolta, specie negli eserciti
imperiali, rivestirle di pelle di montone, così, pur lasciando poco vento, per la loro morbidezza
esteriore non s’incastravano; questo steso stratagemma usavano i turchi per ridurre il vento
anche delle palle dell’artiglieria. Oltre ai cavalli corazze di tali carabine pure si armavano un
paio di soldati bersaglieri in ogni compagnia di cavalleggeri e cioè quelli più esperti e abili nel
tiro, affinché ce ne si potesse servire in occasioni e necessità particolari.
La gittata (fr. portée) media del moschetto leggero era di circa 120 passi geometrici o
veneziani, misura allora autorevole in tutta l’Italia, oppure si poteva dire di circa 120 tese di
Francia, essendo questa una misura molto vicina alla precedente; ma, aumentando un po’ la
sua carica di polvere ordinaria, poteva raggiungere i 140 o 150 passi, e, poiché detto passo
geometrico corrispondeva a m. 1,735 di oggi, oscillava quindi tra i 210 e i 260 metri, il che
allora era molto, se si pensa che invece, per colpire un nemico coll’archibugio, bisognava
praticamente essergli tanto vicino da poterlo guardare negli occhi, e, per quanto riguarda la
pistola, addirittura era necessario quasi appoggiargliela addosso. In ogni caso, per fare
sicuramente un buon tiro, bisognava cercare di sparare a bersagli posti a metà o al massimo
ai due terzi della gittata possibile, perché farlo a quella intera era solo una combinazione
fortunata.
Nel 1684 il moschetto regolamentare in dotazione alla fanteria francese doveva esser
lungo di canna 3 piedi e 6 pollici di Francia e di cassa 4 piedi ed 8 pollici, mentre doveva
avere un diametro di bocca di 8 linee, la palla di 7 linee (calibro) e uno spessore di metallo
che andava dalle quattro linee alla culatta a una linea alla bocca; il focone doveva essere a
otto linee dall’estremità posteriore della culatta. In fondo un’arma da fuoco a quei tempi era
fatta di pochi pezzi: la piastra o placca di ferro quadrangolare trattenuta al lato destro della
cassa o fusto a mezzo di tre viti e di un rivetto o cavicchio e a cui erano attaccati il bacinetto
del polverino d’innesco, questo, formato di quattro pezzi di ferro e posto in corrispondenza del
focone, e, un po’ più avanti, il serpentino porta-miccio; il serpentino, attaccato alla suddetta
piastra a mezzo di una vite, aveva l’estremità anteriore tagliata in due lamine tra le quali si
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poneva l’estremità del miccio e poi le si stringeva a mezzo di una vite perché lo trattenessero;
la chiave, un ferro a forma di S molto allungata, posto sul dorso della cassa e la cui estremità
anteriore era collegata alla estremità inferiore del serpentino, detta grilletto, in maniera che,
stringendo con la mano destra la chiave in modo da avvicinarla alla cassa, si agiva su
serpentino facendone così discendere l’estremità col miccio all’indietro sul polverino del
bacinetto. La cassa, fatta possibilmente di legno di noce, ritenuto il migliore per quest’uso,
aveva il calcio lungo, largo e piatto, perché, destinato a rinculare sul petto del soldato, gli
facesse il meno male possibile; la bacchetta per caricare doveva invece essere di legno di
quercia ed era tenuta sotto la canna da tre anelli porta-bacchetta di ferro; il miccio infine, per
esser sicuramente buono doveva esser di corda molto stretta e secca, perché quella fatta di
fresco aveva sempre un certo contenuto di umidità (Manesson Mallet).
Naturalmente, fatta la suddetta necessaria classificazione delle armi da fuoco
d’ordinanza, non faremo parole del loro maneggio, perché esuleremmo troppo dal nostro
tema, ma, a chi interessasse, consigliamo d’aspettare la pubblicazione del nostro prossimo
studio, quello cioè che riguarderà l’arte della guerra nel secolo precedente, non essendo
detto maneggio nel Seicento sostanzialmente cambiato.
Tornando ora alle cronache militari napoletane, diremo che all’inizio del maggio 1675
giunse finalmente dalla Spagna del denaro da spendersi per il risarcimento dei vascelli che
erano ancora in sosta a Baia, lavori che, affidati ora al principe di Montesarchio, si stavano di
molto sveltendo Si stavano inoltre allestendo tre galere dello stuolo del Regno perché
sarebbero presto dovute passare in Catalogna sotto il comando del principe di Piombino;
quello di Messina non era infatti allora l’unico fronte bellico che la corona spagnola affrontare.
Nel mentre la cavalleria territoriale detta della Sacchetta era concentrata e dislocata in
Calabria e nella stessa Sicilia in appoggio all'esercito operante sotto Messina e contro
eventuali sbarchi francesi sul continente ed inoltre si provvedevano castelli e fortezze del
regno di viveri e munizioni come si doveva in tempo di guerra. Martedì 7 maggio arrivarono a
Napoli circa 400 tra dalmatini e schiavoni regolarmente arruolati, i quali erano anch’essi
sbarcati nei giorni precedenti a Pescara, e dovevano proseguire per il teatro di guerra
siciliano; tra essi si contavano circa 30 predicanti (probabilmente monaci greco-ortodossi)
inviati alla guerra però questi come carcerati con commutazione di pena. Verso la metà di
questo mese di maggio si videro arrivare inoltre a più riprese altri miliziani del Battaglione,
gente finalmente atta alla guerra (uomini scielti ed atti all’armi) e dopo pochi furono imbarcati
su parecchie tartane noleggiate.
(Napoli, 18 maggio:) In Aversa e Capua sono arrivati altri 500 alemanni ed altri mille in
Venafro, dove si fanno qualche poco riavere prima di farli venire qui, avendoli maltrattati il
viaggio (A.S.V. Nun. Nap. 83)
Era quest’ultima notizia un po’ vecchia, perché due giorni dopo 800 di questi alemanni
provenienti dai porti adriatici già entravano in Napoli; molti di loro si erano effettivamente
ammalati in viaggio a causa della piovosità della stagione e furono pertanto subito ricoverati
negli ospedali cittadini, dove erano generalmente curati con bagni nel vino caldo a cui erano
aggiunte erbe medicinali e spezie; questo trattamento empirico ed efficace guariva molti dalle
malattie da raffreddamento meno gravi ed era sicuramente graditissimo da quegli uomini
tradizionalmente tanto attratti dal vino italiano.
Lo stesso lunedì 20, pure ammalato e in più molto amareggiato da pesanti critiche alla
sua conduzione della guerra, rientrava nella capitale Marc'Antonio di Gennaro, sollevato dal
suo incarico di mastro di campo generale contro i messinesi; lo si era infatti accusato
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d'incapacità, visti i risultati sinora molto negativi, e col pretesto della sua tarda età gli si era
ordinato di tornare in patria. Egli inviò in sua difesa un lungo memoriale alla regina
protestando di aver fatto tutto il possibile e cioè quanto segue:
… aver tenuto in Sicilia il comando di pochi fanti spagnuoli, non più che cinquecentocinquanta,
e una compagnia di guardia del Viceré d'ottanta cavalli borgognoni (‘valloni’) (a quattrocento
del Battaglione, mille trecento siciliani, ducentoventi cavalli del paese dar nome di soldati
esser onta della milizia), a’ quali si riducevano tutte le truppe che empivano le lettere de’
ministri a Sua Maestà, seminudi, mezzo disarmati, necessitosi anco del pane. Con questo
esercito esser stato destinato al riacquisto di una piazza cinta di validissima muraglia, coronata
di baloardi, ogn'un d'essi non inferiore a un castello, da popolo altiero, da briosa nobiltà
habitata e difesa (Filamondo).
Egli rimostrava ancora d’aver dovuto condurre un assedio non facile senza soldati,
ingegnieri, viveri, comandanti e in sovrappiù erano poi sbarcati in aiuto dei rivoltosi francesi;
ma la sua accorata difesa a poco gli servì e, angustiatissimo dalle critiche e dalle accuse che
gli erano state portate, ne morì poco tempo dopo, cioè il 6 agosto di quello stesso anno; era
stato dapprima sostituito pro interim dal mastro di campo generale Vincenzo Tuttavilla duca di
Calabritto, ma già ora definitivamente da Fernando Garcia Ravanal, uno spagnolo che era
prima stato mastro di campo del terzo detto (de la Mar) de Nápoles, ossia di uno dei terzi fissi
spagnoli di stanza in Lombardia, così tradizionalmente chiamato non perché fosse costituito
da regnicoli, ma perché tanto tempo prima, quando era arrivato a Milano, non proveniva
direttamente dalla Spagna, bensì dal basso Tirreno; costoro, sebbene disponessero ora di
soldati esperti sbarcati dalla sopraggiunta armata spagnola e in seguito anche di salde
fanterie alemanne, non riuscirono però a far molto meglio del di Gennaro, in considerazione
che ormai si avevano di fronte anche i francesi.
Mercoledì 29 maggio entrarono in città altri 500 alemanni, i quali furono poi presto
imbarcati assieme ad alcune compagnie di cavalleria; in quei giorni intanto lettere inviate
dalla Francia da informatori del principe di Lignì avvisavano della possibilità che i francesi
stessero programmando di sbarcare in Calabria e allora il di Astorga intimò ai baroni di
recarsi subito nei loro feudi ad organizzare misure di difesa, ma molti di quelli non volevano
partire, troppo abituati alla loro bella vita nella capitale, ai loro ricchi palazzi, i quali spesso
finivano per dare il nome a interi quartieri di Napoli, come per esempio il palazzo del duca di
Forcella e quello del marchese del Vasto. In questo periodo, già tanto difficile per il regno a
causa della guerra che si combatteva alle porte di casa, aveva ripreso nuovo vigore il
brigantaggio alimentato dagli agenti stranieri, specie francesi, e si ebbe ora notizia del
saccheggio di Balvano commesso da 1.300 banditi e briganti d'Abruzzo, Basilicata e Terra di
Lavoro, mentre il primo anno di guerra contro Messina si avviava a costare 1.800.000 ducati
di spese militari e non si erano ancora nemmeno pagati i soldati; le difficili condizioni
economiche del regno, dovute in massima parte all'intensificarsi della pressione fiscale,
costringevano frattanto molti plebei senza mezzi né lavoro ad arruolarsi volontariamente
nell'armata spagnola in sosta a Baia.
Il 1° giugno tenne mostra la fanteria spagnola allora nelle disponibilità del viceré di
Napoli e risultarono 48 compagnie per un totale di 4.204 soldati, laddove, se i tempi fossero
stati ordinari e non con una guerra così vicina, il terzo fisso degli spagnoli di Napoli, come da
un vecchissimo ordine reale del 20 settembre 1636, avrebbe dovuto contare solo 24
compagnie di 100 uomini l'una e, andando ancora più indietro, come da risoluzione del
Consiglio d’Italia madrileno del 17 marzo 1625, solo 20 da 100 fanti invece delle precedenti
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26 da 100; ma ora, poiché si temeva che la ribellione dei messinesi, appoggiata ora dalla
Francia, potesse contagiare anche il Regno di Napoli, con successivo ordine reale del 1°
ottobre di questo stesso 1675 il re ne avrebbe addirittura ordinato l’aumento a 6mila piazze
(posti) e avrebbe inoltre incaricato il viceré di non permettere assolutamente, né in questo né
in altri corpi, la presenza di piazze supposte od inutili, ossia di quelle non effettivamente
operative, dette generalmente piazze morte, che si concedevano e pagavano a veterani, cioè
a persone non più in servizio perché troppo anziane, a vedove di deceduti, a invalidi, ecc. –
c’è da notare che a quel tempo il termine veterani aveva, perlomeno tra le nazioni suddite
della Spagna, ancora il senso che aveva preso nella tarda romanità e cioè quello di soldati
licenziati dal servizio perché troppo anziani. Al detto proposito un ordine reale del precedente
12 maggio aveva confermato il reclutamento di otto soldati di soli 14 anni nella compagnia del
terzo fisso spagnolo che era comandata dal capitano Antonio Fernandez e ciò in deroga alle
disposizioni che proibivano di levare soldati d’età inferiore ai 17 anni, stante la contingente
grande necessità di soldati spagnoli che c’era ora nel Regno di Napoli a causa della grave
ribellione di Messina, deroga che fu presto ripetuta per un altro ragazzo, questo di anni 15.
Sabato 1° giugno, poiché s’erano avvistate altre vele francesi nelle acque di Capri,
s’inviarono bombardieri di rinforzo a Gaeta e nelle isole. Mentre entravano in Napoli molti
banditi pugliesi accordatisi con la Corte tramite i feudatari locali, come per esempio il principe
della Torella, per andare a servire in guerra in cambio dell’amnistia, il 4 giugno lasciò il porto
di Napoli un convoglio formato da tre vascelli maiorchini d'alto bordo, due petacchi e 12
tartane con destinazione Reggio e Milazzo; questi legni portavano circa 2.000 uomini, tra cui
1.200 alemanni e così ne restavano a Napoli ricoverati negli ospedali cittadini solo 200
ancora ammalati; gli altri erano milizie del Battaglione del Vallo di Novi costituite in terzo dal
summenzionato Titta Caracciolo Pisquizj duca di Martina, il quale ne aveva ricevuto la patente
di mastro di campo, e si trattava di milizie che poi furono unite ad altre inviate a Reggio via
terra; v'era infine una compagnia di nuova leva di cavalleria leggera balcanica, i cosiddetti
(e)stradioti o croati, comandata dal capitano Andrea Cicinello dei principi di Cursi. Due tartane
trasportavano attrezzature e munizioni da guerra e la consistenza di questo convoglio,
riportata dal Fuidoro in maniera piuttosto confusa, è però confermata da altre fonti. Questa
soldatesca fu sbarcata a Palermo, da dove la fanteria fu tragittata con le galere verso Milazzo,
mentre il Cicinello vi conduceva via terra la sua cavalleria; mancavano però i detti alemanni, i
quali erano invece stati sbarcati a Tropea da dove avrebbero dovuto proseguire
evidentemente a piedi il loro viaggio per Reggio, ma, colà giunti, non essendo stati ancora
rispettati gli accordi di soldo presi con loro all’atto dell’arruolamento, si erano insubordinati.
Sabato 4 giugno entrò nel porto di Messina un altro soccorso francese di sei vascelli e
14 polacche, mentre alla metà del mese a Napoli arrivarono altri 200 alemanni, i quali,
bisognosi di riposo, furono tenuti a Napoli tranquilli per un paio di settimane, ma poi, all’inizio
di luglio, ebbero ordine d’imbarcarsi per la Sicilia. S’erano avute in questi giorni notizie di un
tentativo francese di sorprendere Milazzo, ma senza che se ne sapessero i particolari perché
il marchese di Villafranca non si preoccupava assolutamente d’inviare relazioni al viceré di
Napoli, ma solo direttamente alla corte di Madrid, e ciò quindi senza alcun riguardo
dell’importantissimo ruolo svolto dal regno di Napoli in quella guerra; comunque si seppe poi
con sicurezza che i francesi, fallita Milazzo, s’erano impadroniti dello strategico casale di Ivizo
e poi avevano tentato di sbarcare presso Reggio, ma erano stati respinti dalla resistenza
opposta dalle forze del mastro di campo Andrea Coppola duca di Canzano, sebbene queste
avessero avute molte perdite perché battute sulla costa dai cannoni navali nemici caricati a
palle di moschetto. Poi il nemico tentò con quattro vascelli di sbarcare anche presso Barletta,
ma ne fu anche qui respinto dal duca d’Andria accorsovi con 300 suoi vassalli; allora detti
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vascelli, catturato un cargo granario veneziano ed uno raguseo carico di fave, incendiatone
un altro maltese perché si era difeso a oltranza, si ritirarono verso Messina lasciando le
popolazioni costiere impaurite e con l’armi in pugno.
Gli arrivi di soldati alemanni a Napoli erano in quel mentre continuati e il 3 luglio
partirono all'alba cinque galere napoletane e una siciliana che, sotto il comando di Beltrán de
Guevara conte del Vasto portavano a Palermo circa mille soldati tra spagnoli, italiani e
alemanni; questi ultimi rifiutarono d'imbarcarsi prima di essere pagati e ciò secondo il loro
costume mercenario di ricevere sempre alcuni mesi di paga anticipata, obbligando così il
viceré a cedere e ad accontentarli. Sennonché, arrivate che furono a Palinuro, queste sei
galere furono respinte indietro da un forte scirocco contrario sino a Nisida, dove furono
costretta a sostare per qualche giorno prima di riprendere il viaggio; arriveranno poi
comunque a Palermo felicemente. Molto malcontento per la mancanza del soldo, questo
invece ormai molto posticipato, regnava invece sulla flotta spagnola a Baia e un giorno che il
di Astorga passava davanti a uno di quei vascelli, probabilmente questo in porto a Napoli, i
marinai lo insultarono e gli gridavano:
Vuestra Excelencia pague nosotros, moremos de hambre, no tenemos dinero.
Lo stesso diarista scriveva che questi uomini (che hanno abiti addosso così schifi e
sporchi), quando scendevano a terra, attaccavano briga, rubavano e rapinavano, altri
svergognavano alla francese le femine in Pozzuoli e Fuorigrotta. Abbiamo già cercato di
capire i motivi per cui preferivano questo tipo di violenza carnale; i puteolani comunque si
vendicavano terribilmente e pare che riuscissero ad ammazzarne addirittura 250! Pur se il
lavoro di carena (‘carenamento’) dei 16 vascelli e dei due brulotti che costituivano questa
flotta, costato 32mila ducati, sembra sia stato pagato da Madrid, e non da Napoli come
farebbe pensare un lungo documento di forniture militari di cui poi diremo a proposito del
1678, la permanenza a Baia di quest’armata era già costata all'erario napoletano 600mila
ducati e ne sarebbero serviti altri 184mila per pagarne i marinai e i soldati del suo terzo di
fanteria di marina spagnola comandato dal mastro di campo Antonio de Guzman; del terzo
d'italiani di questa stessa squadra invece non più si parla, forse perché in quel mentre inviato
alla guerra di Messina.
(Napoli, 6 luglio:) Per impedire che gli spagnuoli dell’armata, che sono in Pozzuoli, non
venghino in Napoli la notte a rubare, fu resoluto dal Collaterale di tenere una compagnia de’
soldati a Pie’ di Grotta, come si è pratticato. Ieri sera però, verso un’ora di notte (‘cioè verso le
21 di oggi’), riuniti li suddetti dell’armata fino al n° di 400, s’incaminarono verso questa città e,
riconosciuti dalla detta compagnia, dissero di voler essere a parlare al signor Viceré, acciò che
li facesse pagare, altrimenti sarebbero morti di fame. Li trattenne il capitano di detta
compagnia con le buone e, presasi l’incombenza di venire in nome loro a parlare a Sua
Eccellenza, lo fece e, fattosi il suddetto sapere in tutto al maestro di campo generale Tuttavilla
ed al principe di Montesarchio, questi mandariono colà alcuni officiali, che, avendo promesso
loro farli pagare in tutt’oggi, li fecero ritirare ne’ loro quartieri (A.S.V. Nun. Nap.)
Domenica 14 luglio arrivò a Napoli Gabriel de Cevallos, castellano della fortezza di
Castellazzo a Messina, il quale era stato trattenuto prigioniero in quella città sino al 7
precedente e poi liberato dal Vivonne; raccontò che i francesi disponevano di 4mila fanti e
350 cavalli, di cui 600 erano cavalieri - per due terzi giovanniti, quindi milizie scelte, che da
essi erano presidiati tutti i 15 posti fortificati della città, porte incluse, non fidandosi dei
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messinesi e mutandone la guardia ogni sei ore; anzi, sempre per mancanza di fiducia, essi
avevano licenziato tre terzi dei ribelli e cioè il de Aberna, il Crisolfi, fatto di milizie cittadine, e
quello del barone di Miccichè. I predetti posti fortificati, dotati complessivamente di più di 200
bocche da fuoco, erano i seguenti:
Porta Reale.
Landria.
Matagrifone.
Torre Vittoria, da poco terminata.
Castellazzo.
Gonzaga.
Forte di don Pietro Faraon.
S. Verite.
Don Blasco.
S. Giorgio.
Castello del Salvatore.
Forte di S. Carlo.
Palazzo.
Forte Seleni.
Bastioncello alla Marina.
Il de Cevallos riferiva ancora che le riserve di viveri erano tenute sulle navi francesi in
porto e che erano scaricate solo quando necessario, dovendole però la città pagare ai
transalpini puntualmente se ne voleva poi ricevere delle altre, che il pane era di cattiva
qualità, che mancavano carne e legna e che il giorno 6 era arrivato un ennesimo soccorso
francese, questo di ben 30 vele, tra cui cinque vascelli da guerra; in totale, quando lui era
andato via, i francesi disponevano a Messina di 26 vascelli da guerra, dieci brulotti e 24
galere, queste però mal armate e con pochissima ciurma. Sennonché poco dopo fu diffusa
un’altra relazione del de Cevallos, questa propagandisticamente molto meno scoraggiante e
nella quale si diceva infatti che il detto sabato 6 s’era tenuta a Messina mostra generale delle
milizie presenti e che non si trattata di più di 3mila uomini in tutto, genti di cattiva qualità
perché in parte reclute senza esperienza e in parte arruolati forzosamente, e che dei 350
cavalli solo 150 erano ancora montati, perché, avendo i francesi lasciati gli animali a
pascolare liberamente nella campagna, i paesani li avevano rubati per andarseli a vendere
nell’entroterra. Dopo il loro ritiro dal tentativo di Milazzo, i francesi tenevano ora la maggior
parte delle loro soldatesche a Ibizo; molte donne del Milazzese erano già state da loro
violentate e quelle messinesi non potevano uscire da casa, essendo purtroppo la mancanza
di rispetto per il sesso debole, come si sa, uno storico difetto bellico francese, alquanto
bilanciato comunque dall’opposta ottima consuetudine di pagare puntualmente tutti i viveri e
tutte le provviste che i loro eserciti compravano o confiscavano per necessità alle popolazioni,
amiche o nemiche, in cui in guerra s’imbattevano:
(Napoli, 20 luglio:) … Si trovano ogni giorno morti 5 o 6 ed alle volte 10 o 15 francesi per
causa d’onore e li hanno ridotti che non possono le donne uscir di casa, perché
pubblicamente le maltrattano, e non sono molti giorni che ad una donna ‘passarono mostra’
18 francesi e ad un’altra due la tenevan ferma ed il terzo usava con essa (A.S.V. Nun. Nap.
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Quale fosse il confine tra propaganda e verità nella detta relazione del de Cevallos non
sappiamo. Come se non bastasse nelle acque di Napoli l’ostile presenza di galere francesi, le
quali predavano allora barche nei pressi di Ponza, martedì 16 luglio galere bisertine
predarono due tartane in quelli di Gaeta. Alle prime galere di Francia seguì dopo il 20 presto
un’intera armata, fatta di 35 tra vascelli e brulotti e 22 galere, che incominciò a trattenersi tra
Ischia e Procida e a catturare imbarcazioni, poi si avvicinò al promontorio di Posillipo e poi
anche a S. Lucia, da dove le furono sparati alcuni colpi di cannone, mettendo in subbuglio e
allarme tutta la città e tutto il golfo, mentre il principe di Montesarchio, suoi ufficiali e
soldatesche s’imbarcavano sui vascelli spagnoli ancora a Baia per esser pronti a prender
eventualmente il mare e di notte si faceva guardare da cavalleria la spiaggia di Chiaia,
mandandosi inoltre domenica 28 alcune compagnie d’alemanni a Castell’a Mare a bordo di
barconi. Infine verso il 30 luglio i francesi, non avendo trovato spunti per tentativi di sbarco,
cominciarono ad allontanarsi e a spostarsi nel golfo di Salerno; i detti alemanni furono
riportati perciò a Napoli, ma, scambiati dapprima per il nemico, provocarono alquanta
confusione.
Giungevano di quando in quando a Napoli notizie di episodi di guerra marittima nel
Canale di Sicilia; il 28 luglio un altro convoglio francese aveva portato rifornimenti a Messina
e ne aveva scaricato per sei giorni di seguito; le galere di Napoli e di Sicilia avevano preso un
legno francese e lo avevano rimorchiato nel porto di Reggio, dove l’armata di Francia aveva
poi spinto un brulotto ed incendiato detto legno catturato assieme ad un’altra tartana per non
lasciarlo nelle mani del nemico; sei galere di Napoli avevano trasportato mille alemanni da
Milazzo a Scaletta e poi avevano dovuto andare a rifugiarsi nel porto di Augusta per sfuggire
alla caccia dei vascelli francesi; le galere francesi si stavano spalmando nel porto di Messina,
mentre a Reggio avveniva una baruffa tra soldati italiani e spagnoli.
Ad agosto l’armata francese, forte appunto di una ventina di galere e di una trentina di
velieri, uscì da Messina comparve ad Augusta richiamatavi da una congiura anti-spagnola dei
suoi abitanti e il giorno 17 se ne impadronì imbarcandone inoltre grossi carichi di grano; di
questa perdita - grave perché quello era il porto-granaio della Sicilia, portò notizia a Napoli il
24 del detto mese una feluca proveniente da Milazzo. Nel tentativo di riprendersi Augusta, gli
spagnoli inviarono verso quella città sia della fanteria sia 12 compagnie di cavalli con il loro
commissario generale Antonio Olea e comandante in capo di questa spedizione era Lazaro
de Aguirre, generale dell'artiglieria del regno di Sicilia; un Miguel de Aguirre, congiunto e
forse figlio di Lazaro, risulterà dal 1685 alfiere della compagnia di lance del viceré di Napoli,
ma la conduzione della guerra, anche senza il de Gennaro, era ora di nuovo oggetto di molte
critiche, perché, pur contando ora l’esercito di Sicilia 13mila fanti e 1.200 cavalli, non
compiendo alcuna azione di rilievo non si riusciva a capire se era sufficiente o insufficiente. Si
diceva che il marchese di Villafranca non era soldato, che il Ravanal non godeva di
apprezzamento da parte dei suoi ufficiali, che il nuovo generale della cavalleria, il
settentrionale Giannini, essendo italiano, non trovava abbastanza subordinazione tra i soldati
spagnoli e si vociferava che si stesse per dare anche prematuro cambio al marchese di
Astorga.
Nello stesso periodo arrivarono da Ragusa di Dalmazia 400 marinai per l'armata
spagnola che spalmava a Baia; quella piccola repubblica infatti, pur essendo del tutto
autonoma, era anche un protettorato della corona di Spagna, alla quale era affidata la sua
difesa; per esempio nel 1678 il viceré di Napoli marchese di Los Vélez, avutone richiesta
dagli stessi ragusei, concederà loro, con l’avallo di Madrid, una missione di esperti militari
comprendente un tenente di mastro di campo generale, dieci capitani riformati, un ingegniero,
alcuni bombardieri e altri ufficiali, tutti a stipendio regio, impegnandosi inoltre a fornir loro al
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più presto anche un armamento di 500 moschetti, 500 archibugi, 100 cantara di polvere, 100
di palle e 50 di miccio. Per tutto il regno si proseguivano nel mentre quelle leve di regnicoli a
cui all'inizio della sollevazione di Messina si era cercato, come si è detto, di rinunziare il più
possibile per evitare contagi rivoluzionari; ma ormai gli uomini servivano in abbondanza
perché si era arrivati a una vera e propria guerra. Da Reggio si segnalava infatti l'arrivo di una
flotta francese di ben 86 vele e ciò dimostrava quanto tenesse la Francia a tenere il maggior
numero possibile di forze imperiali impegnate contro Messina, a evitare così che
intervenissero negli altri teatri di guerra europei. Era intanto uscita dalla città ribelle l'armata
di Francia e nello stesso luglio fu già in vista di Napoli; il viceré fece allora in tutta fretta
munire d'artiglierie e fanterie il baluardo di S. Lucia, quello presso il ponte della Maddalena, la
costa di Posillipo e fece imbarcare soldatesche sui vascelli che si trovavano nel porto, ma le
galere francesi, tentato solo un accostamento a Torre del Greco e a Resina, si ritirarono
accompagnate da qualche colpo di cannone sparato contro di loro dai castelli del golfo. In
seguito a questo episodio Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle raccolse a Torre
dell'Annunziata più di mille paesani di Bosco (oggi Boscotrecase) e d’Ottaiano (oggi
Ottaviano), i quali, atti alle armi e sotto il suo comando, avrebbero dovuto difendere quelle
marine da nuovi tentativi d'approccio del nemico. S’inviarono inoltre a Procida 80 fanti
spagnoli con quattro cannoni e munizioni e a Castellammare e Sorrento 500 alemanni a
guardia di quella costiera. Triste era comunque allora la situazione del regno:
... e fra tanto l'armata francese domina il mare di Messina e li banditi il regno e li turchi le
marine di Puglia dove fanno continue prede.
La sera di giovedì 29 agosto lasciarono Napoli due galere di Spagna e una del duca di
Tursi che portavano via i marchesi di Viso e di Baiona e per Milazzo 16 grosse tartane cariche
di fanterie italiane ed alemanne per circa 1.500 uomini, inoltre di munizioni, attrezzi, viveri e
una somma di denaro per le esigenze belliche, mentre si veniva a sapere che mille fanti e 300
cavalli sotto il comando del già nominato generale Giannini e di quello dell’artiglieria di Sicilia
erano usciti dalla predetta Milazzo per andare a tentare di riprendere Augusta ai francesi, i
quali vi ci stavano fortificando con un presidio di 1.500 fanti e 300 cavalli e più di 100 pezzi
d’artiglierai, e che intere compagnie d’alemanni stavano in Sicilia passando al nemico, per cui
dai 4.500 venuti da Trieste erano ormai ridotti a soli 2mila; come se ciò non bastasse, gli
italiani di guarnigione da Reggio fuggivano in tal numero che il governatore dell’armi fra’ Titta
Brancaccio si era visti costretto a rinchiudere i rimanenti. Frattanto finalmente, nello stesso
agosto, s’erano inviati alla flotta spagnola a Baia 18 razionali (ragionieri) della Regia Camera
della Sommaria, incaricandoli di pagare a soldati e marinai otto mesi di paga arretrata, con
una spesa complessiva di 134mila ducati; gli uomini pagati spesero tutto immediatamente in
generi di prima necessità e cominciarono col comprarsi le mutande di camise e calzonetti.
Il 10 settembre dal vice-regnato di Sardegna arrivò a Napoli il suo nuovo viceré
Fernando Joaquín Fajardo marchese di Los Vélez, Molina e Martorel e il 28 dello stesso mese
l’armata di Spagna lasciava finalmente Napoli per tornare nei mari di Sicilia sotto il comando
d’Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio, già capitano generale dello stuolo di galere regie
di Sicilia sin dal 26 agosto 1674 e lo sarà sino al 16 luglio 1683; era ormai completamente
risarcita e provvista, a spese dei napoletani, di tutto quanto il necessario, dopo una
permanenza di ben sei mesi trascorsa tra Baia e Napoli, ma i soldi spesi dall’erario di Napoli
erano evidentemente bastati solo per metterla in condizione di raggiungere il teatro di guerra,
perché già il 9 dicembre seguente il viceré di Sicilia Fadrique de Toledo y Ossorio marchese
di Villafranca e duca di Ferrandina (1674-1676) scriveva da Milazzo a quello di Napoli
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sollecitandogli la rimessa dei 12mila ducati il mese e dei rifornimenti per il sostentamento
della detta armata che Napoli doveva, per ordine regio, accollarsi (Giuliano, Vol. I, p. 336).
Alla fine della prima decade d’ottobre due feluche venute da Milazzo portarono la cattiva
notizia che i francesi di Augusta appoggiati da altri appositamente sbarcati avevano con
un’improvvisa sortita respinto gli spagnoli accampati all’esterno di quella piazza, ma che in
seguito giunse anche quella più confortante che l’assedio era ripreso. Sabato 30 novembre
arrivò a Napoli da Milazzo una delle galere del duca di Tursi, la quale si stava dirigendo a
Genova dove andava a mutar scafo, essendo evidentemente il suo ormai non più in grado di
navigare. Altre armate anti-francesi convergevano intanto su Messina e si aveva infatti notizia
che don Giovanni d'Austria stava per lasciare Barcellona con 30 vascelli, mentre lo stesso
predetto 30 novembre arrivarono a Napoli anche dieci velieri dell'armata d'Olanda che si era
disunita a causa del maltempo incontrato e si trattava di sei vascelli e quattro brulotti, i quali,
aggiuntosi nel frattempo un undicesimo, salperanno il 20 successivo per Palermo, porto a cui
erano in questo mentre giunti altri 22 vascelli del de Ruyter. La flotta olandese entrerà nel
porto di Palermo il 21 dicembre, accolta dal giubilo della popolazione accorsa al molo.
(Lunedì, 9 dicembre:) Questo giorno sudetto furno inviate 2 feluche da Sua Eccellenza con
30mila docati contanti al campo di Riggio e a Melazzo per pagar li soldati. Si deve considerare
li patimenti delle nostre soldatesche e quanti denari si sono accumullati da questo Regno per
questa guerra e aver arricchito li capi, e li poveri soldati solamente con un miserabile pane di
monizione e malamente fatto.
Non sappiamo come fosse fatto a quel tempo il pane di monizione a Napoli; in Francia,
per esempio, un buon prodotto per i soldati era considerato, a norma di regolamenti, quello
fatto di due terzi di frumento e un terzo di segala e al soldato ogni due giorni ne toccavano tre
libbre (quindi gr. 1.952,64, se continuiamo a calcolare l’oncia gr. 27,12). Anche in Catalogna
le cose non andavano troppo bene per i soldati napoletani, sia perché i francesi del suddetto
maresciallo conte di Schomberg, entrato nel giugno in quel principato, aveva conquistato
Girona difesa dal reggimento delle guardie del corpo italiane del re di Spagna, sia perché essi
non avevano mai avuto buoni rapporti con quelli spagnoli e ora le cose erano andate anche
peggiorando:
Insorte nel 1675 le solite contese tra le nazioni spagnuola e italiana, l'una per non riconoscere
uguale, l'altra malamente soffrendo(la) superiore, rinonciarono le cariche tutti i cavalieri
napolitani, ciò senza uscir da’ termini dell'obedienza, come protestativo di non consentire al
pregiudicio loro si permette (Filamondo).
Questo storico non ci narra però com'e quando questa forma di protesta fu poi ritirata.
Frattanto la guerra nell’Europa centro-occidentale era proseguita con alterna fortuna; infatti
dapprima il 5 gennaio il visconte de Turenne aveva sconfitto presso Colmar (‘Turckheim’) il
principe elettore di Brandenburgo Federico Gugliemo, poi il 27 luglio, alla battaglia di
Salzbach, aveva di nuovo sconfitto gli imperiali, ma ne era rimasto ucciso, e allora il conte
Montecuccoli, capitano generale dell'esercito imperiale, per cercare di trar profitto da tale
morte, aveva subito attaccato il 1° agosto ad Altenheim l'esercito francese ora comandato dal
conte de Lorge e dal marchese de Vaubrun, ma era stato sconfitto e, restato ucciso in tal
battaglia il de Vaubrun, i francesi ripassavano il Reno sotto la guida del de Lorge, a cui per
tale successo otterrà poi il bastone di maresciallo di Francia; ma successivamente, l’11
agosto, un altro maresciallo di Francia, il de Créquy, era stato battuto a Konzer Brücke presso
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Trier (‘Treviri’) dal duca Carlo di Lorena, da quello di Brunswick-Lüneburg e da altri principi
tedeschi collegati contro la Francia. Anche gli svedesi, alleati della Francia e comandati in tal
occasione da Woldemar von Wrangel, nel tentativo di invadere il Brandenburgo dai loro
possedimenti in Pomerania, sebbene sensibilmente superiori di numero, erano stati
severamente sconfitti il 28 giugno a Fehrbellin dal maresciallo di campo Georg von
Derrflinger, il quale comandava l’esercito di quello stesso Federico Guglielmo I, grande
elettore del Brandenburgo, che non era invece riuscito a superare i francesi del de Turenne.
Si era frattanto pure riaccesa la guerra dei polacco-lituani contro l’espansionismo dell’impero
ottomano e il 24 agosto e in una battaglia che si era svolta presso la città di Lwów (oggi Lviv)
Jan III Sobiewski aveva sconfitto l’esercito turco di Ibrahim Shyshman, successo poi seguito
tra il settembre e l’ottobre dall’eroica resistenza della cittadella della città di Trembowla,
durata sino al risolutivo soccorso portatole dal Sobiewski.
Militava in questo periodo in Fiandra un colonnello di cavalleria di casa Carafa; il suo
reggimento nel novembre prese quartiere d'inverno a Gand insieme con altri reparti di
quell'esercito; un altro reggimento Carafa serviva inoltre nell'esercito del Sacro Romano
Impero e tra il febbraio e il marzo dell'anno successivo sarà trasferito in Pomerania.
1676. La guerra s’inaspriva sempre di più e, mentre il marchese di Villafranca, approfittando
dell’arrivo dell’alleata armata olandese del viceammiraglio de Ruyter, usciva in campagna con
5 o 6mila uomini, una nuova battaglia navale fu combattuta tra Lipari e Stromboli il 7 e l’8
gennaio di questo 1676; l'armata francese del du Quesne, forte di 22 vascelli e sei brulotti,
mentre era in rotta d’avvicinamento a Messina, fu affrontata da quella ispano-olandese del de
Ruyter, la quale, oltre a contare 31 vascelli, tra grandi e piccoli, inclusi sei brulotti e il vascello
spagnolo da 50 cannoni Nuestra Señora del Rosario del cap. Mateo de Laya y Cabez,
comprendeva anche nove galere di Spagna, Napoli e Sicilia, restandone dopo uno scontro di
otto ore sostanzialmente sconfitta con la perdita di due vascelli, tra cui la Reine d’80 cannoni
e l’altro di 60, e due brulotti e il severo danneggiamento di alcuni altri legni, perdendovi gli
ispano-olandesi solo un capitano e altri sei uomini; i maltrattati legni francesi si ritirarono
verso Ustica seguiti a distanza dagli olandesi e non poterono così portare subito altri soccorsi
ai messinesi, i quali frattanto vedevano i loro nemici ottenere successo anche a terra perché il
Villafranca riconquistava uno dopo l’altro i casali di Messina. Dopo circa una settimana
ambedue le armate furono rinforzate, quella di Francia dai vascelli francesi usciti da Messina,
portandosi così al numero complessivo di 40, e quella d’Olanda dai vascelli del Montesarchio,
arrivando pertanto a 41 più 14 galere. Approfittando poi del maestrale favorevole, l’armata di
Francia entrerà a Messina e sbarcherà il suo carico, ma poi salperà per la Francia
Dopo la suddetta battaglia navale, il de Ruyter, disgustato dal comportamento dilatorio
dei suoi alleati, dichiarò terminato il tempo che gli era stato concesso dagli Stati d’Olanda, e
all’inizio di febbraio portò la sua armata a ritirarsi a Napoli, mentre a Messina giungeva
impunemente un’altra armata francese di 36 vascelli con gente da sbarco; colà però lo
raggiunsero ordini perentori del principe d’Oranges che gli imponevano di raggiungere subito
nuovamente il teatro di guerra e di restarvi sino alla fine del conflitto, pertanto egli si riporterà
in Sicilia e il 23 febbraio la sua armata, la quale includeva allora 17 vascelli da guerra più altri
12 piccoli d’appoggio, si presentò davanti a molo di Palermo e fece sosta in quel porto per
circa un mese.
In quel mentre domenica 19 gennaio il de los Vélez aveva inviato al marchese di
Villafranca ben 100mila ducati, dei quali 80mila da pagarsi agli olandesi. Il 30 gennaio fu
catturato nel Napoletano il brigante Felice Riccardo, fratello del già giustiziato Cesare, il quale
era infatti ritornato nel regno e scorreva la campagna alla testa di un gruppo di fuorusciti, tra i
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quali due religiosi, fra’ Pietro Saccomanno e Domenico Mignone (Bulifon); offrì 15mila ducati
per essere liberato, ma invano:
Mercoledì 11 di marzo 1676 fu mandato sopra un carro ad arrotarsi nel Mercato notar Felice
Riccardo e la sua testa portarsi a Cimitile sua patria e il suo corpo in quarti posto per quelle
strade da lui rotte e insanguinate di sangue umano per omicidi, ricatti e procacci svaligiati
(Fuidoro).
Mentre a Napoli si davano patenti per nuove leve di coscritti, all’inizio di marzo arrivò
notizia di altri disordini avvenuti a Reggio tra militari italiani e spagnoli; diversi capitani, cioè
Gerolamo Caracciolo, Orazio Coppola, fra’ Giuseppe Grondi, fra’ Fabrizio Marulli e Giovanni
della Croce, avevano buttato giù la porta della casa del tenente di mastro di campo generale
spagnolo Tomaso Cabanilla e lo avevano bastonato e ferito, andandosi poi a rifugiare nel
convento di S. Domenico per evitare l’arresto.
All’inizio di marzo s’incendiarono a Napoli gli uffici della Scrivania di Razione, siti, come
sappiamo, da circa otto anni nello stesso palazzo reale, cioè nello spazio prima utilizzato
come pallonetto, ossia come corridoio belvedere sul mare, e andarono così distrutte, tra
l'altro, tutte le carte relative alle leve e alla contabilità militare dei tempi precedenti, il che
spiega abbastanza l'estrema scarsità della documentazione rimastaci per quanto riguarda gli
anni sin qui esaminati.
Mentre continuavano ad arrivare a Napoli dalla Sicilia richieste di uomini e denaro, pur
costando già a Napoli il solo soldo dell’esercito in Sicilia 30mila ducati il mese, il 29 marzo
3mila regi che avevano occupato un posto dei messinesi nei pressi della località Cappuccini
sul colle dell’Agliastra, ma che non avevano potuto trincerarvisi perché sconsideratamente
mancanti della attrezzatura da scavo, furono assaliti e sbaragliati da messinesi e francesi
sbarcati dai vascelli, lasciando sul campo più di 400 dei loro migliori uomini, tra cui il conte di
Buquoy, un vallone che era colonnello di un reggimento alemanno di 1.300 fanti, e molti
capitani, oltre i feriti. Come nel caso dello scontro de li Colli dell’anno precedente, anche i
soldati di nazione spagnola erano fuggiti al sopraggiungere del nemico, il che dimostra come
la tradizionale solidità della fanteria spagnola fosse ormai un ricordo del passato. Il cadavere
del Buquoy fu molto vilipeso dai messinesi, i quali gli tagliarono la testa e la portarono al duca
di Vivonne; questi, disgustato da tanta barbarie, ordinò che si ricomponesse la salma. Del
detto reggimento alemanno il viceré de Toledo fece allora colonnello il capitano di cavalleria
napoletano Andrea Cicinelli, nomina subito criticata perché si trattava di un giovane che
aveva avuto esperienza solo di quella guerra e non conosceva né il modo di combattere né
tanto meno la lingua degli alemanni; ciò aumentò la già preesistente insoddisfazione di quella
nazione per il gran ritardo nelle paghe e i patimenti, per cui gli ufficiali migliori si licenziarono
e a Napoli, oltre ai servitori del colonnello e di altri ufficiali morti in quello scontro, ne
arrivarono lamentandosi alcuni che erano di ritorno al loro paese, incluso un tenentecolonnello, probabilmente quello che si era visto scavalcare dal giovane Cicinelli; quest'ultimo
sarà poi governatore di Siracusa, sargente generale di battaglia nei Paesi Bassi e morirà tra il
1693 e il 1694.
Dopo detto grave insuccesso, gli spagnoli prenderanno a devastare sistematicamente
tutto il circondario di Messina e anche quello d’Augusta, in modo da fare terra bruciata attorno
ai francesi, i quali si stimava allora che fossero, tra Messina, Augusta e i loro vascelli, i quali
erano allora 33, circa 4mila e altrettanti i messinesi alle armi, comandati anche questi da capi
transalpini, mentre gli spagnoli avrebbero dovuto essere circa 6mila, di cui 4mila in
campagna.
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Il giorno di Pasqua il viceré marchese di Astorga, accompagnato dalla compagnia di
lance della sua avanguardia e da quattro compagnie di cavalleria di nuova leva, si recò alla
festa di S. Maria a Pugliano, altra tradizione religiosa del Napoletano.
La notte di sabato 18 aprile fecero inoltre vela per Milazzo sette galere che portavano in
quella piazza soldatesche spagnole (le galere navigavano a vela come tutti i normali legni a
velatura latina e usavano i remi solo in caso di bonaccia e in azioni di guerra); esse però
avrebbero fatto prima sosta a Gaeta per imbarcare il loro generale Giovan Battista Ludovisio
principe di Venosa e di Piombino; sulle stesse s’imbarcò il capitano generale di vascelli Diego
de Ybarra, il quale però dopo solo qualche giorno perderà la vita nel combattimento navale di
cui ora diremo. Il 20 aprile il de Ruyter infatti, essendo, come già abbiamo detto, a capo delle
armate congiunte d’Olanda e di Spagna, venne a battaglia contro quella di Francia nelle
acque meridionali del golfo di Catania Augusta; egli disponeva di 34/36 vascelli e galere, tra
olandesi e spagnoli, e sei tra brulotti e altri legni d’appoggio, i francesi invece di 29 vascelli,
tra grandi e piccoli, otto brulotti e sembra anche cinque fragate, ossia piccoli legni velicoremieri che nulla avevano a che fare con quelle che, con inizio dal secolo successivo,
saranno invece le moderne fregate o fregate leggiere oceaniche a due ponti, dalla stazza di 8
o 900 tonnellate da 2mila libbre, dai 16 ai 25 cannoni, introdotte dagli inglesi in questo
diciassettesimo secolo. Una sorte simile a quello di fregata avrà il nome di corvetta ed anche
quello di brigantino (ingl. brick).
Elenchiamo qui di seguito solo i legni spagnoli, i quali erano comandati dall’ammiraglio
Francisco Pereira Freire de la Cerda, perché come sempre le armate spagnole o includevano
qualche legno napoletano o perlomeno avevano a bordo anche soldati e marittimi napoletani;
avvertiamo però il lettore, che non essendo un elenco frutto di nostre originali ricerche, è
probabile che includa errori e omissioni:
Nuestra Señora del Pilar (capitana reale) 74 cannoni, più di mille uomini a bordo.
Santiago, detta Nueva Real, 80 c.
San Joaquín, 80 c.
San Juan, 80 c.
Santa Ana, 60.
Nuestra Señora del Rosario y las Ánimas, 50 c.
Sant’Antonio di Napoli (napoletano.), 46 c. 500 uomini.
San Felipe, 44 c.
San Salvador de Flandes (ammiraglia di Fiandra), 42 c.
San Carlos, 40 c.
San Gabriel, 40 c.
Nuestra Señora de Guadalupe.
Lo scontro fu duro e sanguinoso, senza che se ne potesse vedere alla fine un vero
vincitore, e l’ammiraglio olandese, salito su un luogo alto della poppa per guardare più
lontano, fu colà raggiunto a una coscia da una cannonata nemica che lo fece anche
precipitare in basso, restandone così gravemente ferito che, portato dalla sua armata a terra a
Siracusa, vi morì il 30 seguente, mentre l’armata francese si andava a riunire prima ad
Augusta e in seguito tornava a Messina a risarcirsi.
Giovedì 30 aprile giunsero da Genova quattro vascelli con circa 2mila fanti milanesi e
alemanni comandati dal mastro di campo Francesco Maria Pallavicino; ripartirono per Milazzo
il martedì successivo e, colà giunti, se ne ammalarono ben 500. Il campo di Milazzo già da
quando costituito s’era infatti subito guadagnata una nomea di località insalubre,
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probabilmente perché l’igiene delle acque potabili e delle latrine non vi era curata
abbastanza, ma può anche darsi che i detti fanti vi fossero arrivati già contagiati a causa della
grande promiscuità in cui a quei tempi ancora si viaggiava.
Nel maggio i franco-messinesi tentarono un’importante sortita da Messina, ma, attaccati
vigorosamente dalla cavalleria nemica, la quale si dimostrava così ulteriormente il nerbo di
quell’esercito di Sicilia, dovettero ritirarsi con circa 300 tra morti e feriti; in quel mentre banditi
calabresi accordati dalla corte di Napoli e che erano invece entrati in Messina passando così
al nemico furono inviati dai francesi a scorrere le campagne di Catanzaro per obbligare gli
spagnoli a impegnare colà proprie forze, cosa che infatti avvenne e si dovette infatti da Napoli
inviare soldatesche per scacciare da Maratea 150 briganti che se ne erano impadroniti. Alla
fine dello stesso mese il principe di Valle partì per andare a combattere per la casa d’Austria
nell’est europeo; tornerà a Napoli non prima di due anni dopo.
Il 2 giugno nella rada di Palermo l’armata francese del de Vivonne - forte, secondo le
cronache napoletane, di 60 vascelli tra velieri e galere, ma secondo altre fonti di un numero
sensibilmente minore - sorprese quella d’Olanda, ora comandata dal vice-ammiraglio Nane, e
quella di Spagna del capitano generale Diego de Ybarra, per un totale di 27 velieri, tra cui il
vascello napoletano Sant’Antonio, e 19 galere, il tutto dispiegato in un mal disposto ordine di
battaglia, e le attaccò con brulotti e con lance che andavano a inchiodare al fasciame dei
vascelli nemici ordigni incendiari detti camicie infocate; non ostando che dalla città si portasse
aiuto all’armata con lo sparo dell’artiglieria delle sue fortezze, il fuoco così appiccatovi ebbe
ragione dell’armata ispano-olandese e il primo dei molti vascelli che finirono incendiati fu
proprio l’ammiraglia spagnola, Nuestra Señora del Pilar, cioè la Gran Reale, così grande da
esser definita dall’Auria una mobile cittadella, la quale esplose e vi perì lo stesso de Ybarra. I
vascelli spagnoli erano sostanzialmente li stessi che avevano combattuto ad Agusta, ma in
più c’erano ora 19 galere, tra napoletane, siciliane e spagnole, la cui presenza in quell’altra
precedente battaglia la storia non ci ha invece riportato, e altri che finirono incendiati, oltre a
tre olandesi che poi affondarono, furono la San Felipe, la San Salvador de Flandes, la
Sant’Antonio di Napoli, sembra anche la Santa Ana, però poi recuperata, e infine due galere,
la San José e la San Salvador; ma anche in questo caso, salvo errori e omissioni.
Venerdì 19 giugno arrivò a Napoli da Reggio notizia che i duchi di Martina e di Canzano,
per una questione di precedenza, si erano sfidati a duello davanti ai loro terzi squadronati in
campagna, tanto che anche i rispettivi soldati avevano cominciato ad azzuffarsi con qualche
morto e ferito; era però giunto tempestivamente a dividerli il generale Brancaccio e i due
mastri di campo erano stati puniti con qualche giorno di sequestro, cioè di arresto. Andrea
Coppola duca di Canzano dopo alcuni mesi, promosso sargente generale di battaglia, lascerà
il comando del suo terzo e arriverà da Napoli a sostituirlo Marino Carafa, fratello del duca di
Matalona (poi ‘Maddaloni’), il quale sarà però comandato per Milazzo solo nel giugno
dell’anno seguente. Lunedì 22 salpò per Milazzo una galera genovese arrivata a Napoli la
settimana precedente; portava a quell’esercito di Sicilia il suo nuovo mastro di campo
generale, cioè il milanese Sammartino conte di Sartirana. Venerdì 3 luglio arrivò poi una
feluca da Milazzo con la notizia che i franco-messinesi avevano assalito di nuovo la Scaletta
e ne erano stati respinti anche da lì, come si diceva, con la perdita di più di 300 uomini e
invece di pochissimi spagnoli; si seppe pure che una feluca inviata a Palermo da negozianti
napoletani con un carico di pezze di scarlattina fu predata dai francesi.
Il 10 luglio il marchese di Villafranca intimò al nuovo mastro di campo del terzo fisso di
Sicilia, un cavaliere di casa Angul, di lasciare il regno di Sicilia entro 24 ore; questi era
arrivato dalla Spagna solo da qualche giorno e si era subito reso inviso al viceré per aver
parlato apertamente contro di lui. Partecipata con una lettera questa sua decisione al viceré
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di Napoli, questi commentò privatamente che chi bisognava sostituire era il marchese stesso,
il quale aveva dimostrato un’avversione particolare per i migliori comandanti che la Spagna
aveva inviato alla guerra di Sicilia, avendo già fatto incarcerare nella fortezza di Termini un
cavaliere di Malta aragonese per gli stessi motivi, e che con questo suo modo di fare avrebbe
finito per provocare la perdita di quel regno. Nella settimana tra il 12 e il 19 luglio due galeotte
corsare turche sbarcarono uomini nei pressi di Capo d’Otranto per catturare abitanti da fare
schiavi, ma furono fortunatamente respinti con l’uccisione di cinque o sei nemici. Sabato 18
arrivò dalla Spagna al già menzionato marchese di Santa Cristina la nomina a generale
dell’artiglieria e a nuovo governatore dell’armi delle Calabrie in sostituzione del Brancaccio ed
egli dunque dichiarò che si sarebbe presto incamminato per Reggio per andarVi a prendere
possesso della sua nuova carica; il giorno seguente furono fatti imbarcare su alcuni legni già
da qualche tempo in attesa nel porto di Napoli 250 soldati del nuovo mastro di campo Titta di
Palma e sarebbero partiti il giorno seguente alla volta di Milazzo accompagnati da una scorta
di galeotte e feluche.
Lunedì 28 settembre arrivò a Napoli con tre galere del duca di Tursi il marchese di
Villafranca, sostituito nel governo di Sicilia da Aniello Guzman marchese di Castel Rodrigo e
giunse anche la notizia che i francesi, ricevuti dalla Francia dei rinforzi, erano all’offensiva nel
Messinese e nel Siracusano con circa 8mila fanti e 800 cavalli; approfittando infatti anche
della conquistata supremazia sul mare, 25 galere francesi presero Melilli, la quale poi, non
avendo forze sufficienti per mantenerla, i transalpini smantellarono e abbandonarono e il 18
ottobre Tauromina (‘Taormina’), sito fortificatissimo che dava adito a Catania e il cui
comandante, conte Carlo Ventimiglia, s’era forse proditoriamente subito arreso, mentre
ancora i franco-messinesi tentavano Scaletta assediandola strettamente; ambedue le
suddette città, avendo opposto resistenza al nemico, furono anche crudelmente saccheggiate;
assalirono inoltre Carlentini, dovendo correre alla difesa di quest’importante luogo lo stesso
suddetto nuovo viceré. Gli scontri s’intensificavano e in uno tra la cavalleria del generale
Bragamonte e i transalpini che si ritiravano da Melilli restarono uccisi diverse centinaia di
questi e gravemente ferito il generale della cavalleria francese marchese di Villedieu, mentre
a Taormina era rimasto ferito e catturato il già ricordato giovane colonnello Andrea Cicinelli;
verso la metà del mese una galeotta di Milazzo catturò una feluca che recava in Francia una
richiesta di rinforzi inviata dal duca di Vivonne.
Verso il 25 ottobre salparono da Napoli due tartane cariche di provviste per le galere che
si trovavano a Palermo, mentre altre attendevano in porto quattro compagnie di cavalleria che
anche si dovevano inviare in Sicilia su richiesta del marchese di Castel Rodrigo; non essendo
ancora questi altri legni in ordine di viaggio, i soldati delle dette compagnie ciondolavano per
Napoli già da qualche tempo. Nello stesso ottobre gli spagnoli dichiararono piazza d'armi
Catania, mentre operava contro i franco-messinesi anche il terzo napoletano di Titta
Caracciolo Pisquizj duca di Martina, corpo alla cui recente costituzione abbiamo già
accennato; ma s’incominciò poi a sentire che la guarnigione della Scaletta non poteva più
reggersi per mancanza di munizioni e che aveva perso un pozzo importante guardato dal
terzo di Milano ed infatti la sera di domenica 15 arriverà a Napoli la pessima notizia che la
piazza aveva capitolato il 7 novembre, rendendosi poi il 10 e andandosi infine, come da
accordi, la guarnigione a ridurre a Reggio portatavi da legni francesi, avvenimento che aveva
fatto subito pendere di nuovo dalla parte dei francesi le fortune della guerra e provocato
tumulti e risvegliato malumori anti-spagnoli in tutte le principali città siciliane, dove già la
repressione politica sanguinosa del viceré, la quale aveva colpito anche i nobili, stava
contribuendo non poco ad aumentare le fila del partito filo-francese.
Non ostante la gravità della guerra che si combatteva alle frontiere meridionali del
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regno, ai napoletani si richiedeva anche di non dimenticare il loro impegno universale al
servizio della corona di Spagna e pertanto nel marzo precedente si erano approntati 500 fanti
regnicoli di nuova leva, i quali, d'ordine di Sua Maestà, il mastro di campo Cecco Caracciolo
marchese di Grottola aveva levato e doveva condurre in Spagna per reclutare i terzi
napoletani che colà militavano. Notevoli sono dunque per quest'anno le tracce di leve che ci
sono pervenute attraverso i rogiti concernenti partiti del vestiario militare; abbiamo infatti mille
vestiti di fanteria appaltati al partitario Gregorio Fontana, 1.500 a Domenico Testa e 4.000 a
Donato Maffeo, tutti di panno peluzzo di Piedimonte strafino, ossia di una delle migliori qualità
di tessuto di lana che il Regno di Napoli fosse in grado di produrre.
(Napoli, 3 novembre:) Maltrattati a causa di donne dalli soldati spagnuoli li giorni passati due
soldati corsi di quelli che fin’ora si sono qui arrollati, questi s’unirono in truppa e in due volte
ammazzarono circa 18 spagnuoli e, benché questi ministri abbiano mandati in galera due di
essi corsi, li più colpevoli, pure puol temersi che il rumore si rinovi, massime per
l’inconveniente di lasciar abitare li suddetti corsi nelli quartieri de’ spagnuoli a Pizzofalcone
(A.S.V. – Nun. Nap. 86).
Gli altri corsi furono subito strettamente consegnati a Pizzo Falcone, quartieri ai quali il
Collaterale fece a tal uopo porre delle guardie, e si pensava di completarne al più presto la
leva per inviarli a Reggio e così liberarne la città.
Lunedì 16 novembre furono poi finalmente imbarcate le suddette quattro compagnie di
cavalleria richieste dal viceré di Sicilia e otto di fanteria, quattro italiane e quattro spagnole,
queste da sbarcarsi a Tropea, dove si temevano attacchi del nemico; le nove tartane
avrebbero dovuto salpare il giorno seguente, ma detta partenza fu rimandata perché si erano
appena avvistate 12 vele francesi, tra cui quelle di galere, alle Bocche di Capri, ma poi si dirà
che il rinvio avveniva solo per i soliti motivi e cioè per il maltempo; in seguito, la sera di lunedì
23, le predette soldatesche furono tutte sbarcate perché a bordo consumavano provviste e
perché i cavalli vi morivano. Finalmente la sera del 29 novembre le dette tartane, reimbarcati i
soldati, poterono finalmente partire scortate da sei galere; queste però, arrivatisi alle Bocche
di Capri, a causa del forte vento contrario che arrivò a spezzare lo sperone d’una di esse,
dovettero tornarsene indietro lasciando le tartane a proseguire da sole; sulla precarietà
nautica delle pur veloci galere torneremo più avanti. Incontrata una vera e propria burrasca,
cinque delle nove suddette tartane arrivarono ugualmente a Reggio, ma le altre, disperse dal
vento nello stesso golfo di Napoli, dovettero far ritorno in porto e queste portavano i già
menzionati e indisciplinati soldati corsi, i quali, appena scesi a terra, evidentemente
terrorizzati dai pericoli corsi nel fallito tentativo di traversata, fuggirono da tutte le parti,
mancandone così più di 100 in breve tempo, né si sapeva da che parte s’erano incamminati;
ad evitare altre fughe, furono ripartiti come guarnizione di marina sulle dette galere le quali
erano in attesa del ritorno del buon tempo per riprendere il viaggio per Palermo, dove si
recavano per scortare poi da lì a Finale Ligure un convoglio di dieci legni che vi andava a
imbarcare 3mila soldati milanesi destinati in Sicilia, e inoltre si stavano provvedendo del
necessario quelle del duca di Tursi che dovevano portare a Genova il marchese di
Villafranca.
Martedì 8 dicembre giunse notizia dell’arrivo a Messina d’un imponente rinforzo
francese con sbarco di ben 4mila fanti e 400 cavalli, mentre Milazzo era ormai bloccata
avendo i franco-messinesi ormai in loro mano tutti i posti e casali d’intorno ed essendo anche
padroni del mare; a questo punto dunque la Francia aveva saputo far tornare le sorti della
guerra a suo favore e il nunzio apostolico in data 22 dicembre così scriverà al suo segretario
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di stato a Roma:
Importando molto che Vostra Eminenza sappia il vero stato delle cose de spagnuoli in queste
parti, ho cercato attentamente di rinvenirle; per quello che tocca il governo politico, è debole,
perché in due regni (Napoli e Sicilia) non vi sono viceré sufficienti a reggere la carica che
sostentano; il (ramo) militare è in peggior stato, non essendovi veruna immaginabile forma e
direzione, perché non è in armata capitano veruno di rispetto. L’armata di mare è totalmente
disordinata; le galere della squadra di Genova, che stavano un poco all’ordine, ora sono
anche queste in stato tale che non possono navigare; il maggior sostentamento (disponibile)
per la futura campagna è di (soli) scudi 300mila… (ib.)
Negli ultimi giorni dell’anno arrivarono a Napoli 100 soldati di nuova leva arruolati nel
territorio di Capua e furono rinchiusi nell’arsenale dove, com’era d’uso, sarebbero stati istruiti
agli esercizi militari.
Nel corso di questo 1676 frattanto nell’Europa settentrionale, nell’ambito della guerra
nordica di Scania iniziata nel 1674, il 1° giugno gli alleati dano-olandesi comandati
dall’ammiraglio generale olandese Cornelis Tromp avevano ottenuto nel Mar Baltico, nelle
acque tra le isole di Bornholm ed Öland, una grande vittoria navale sulle pari forze svedesi
dell’ammiraglio Lorentz Creutz, battaglia nella quale erano affondati cinque vascelli svedesi,
tra i quali il Kronan, uno dei più grandi del suo tempo. Gli svedesi si erano però presto rifatti a
terra e infatti il ventunenne re Carlo XI e il suo maresciallo di campo Simon Grundel-Helmfelt
avevano dapprima sconfitto il 17 agosto a Fyllebro presso Halmstad l’esercito danese
comandato dal generale mercenario scozzese Jackob Duncan e poi di nuovo il 4 dicembre a
Lund presso Malmö, pur con molte perdite di uomini e bandiere in una sanguinosissima
battaglia, quello capitanato dallo stesso trentenne re di Danimarca Cristiano V e dal generale
Carl von Arensdorff. In quel tempo, negli ultimi mesi dell’anno, il re e condottiero polacco Jan
III Sobiewski aveva ottenuto altri importanti successi militari contro i turchi costringendoli così
alla pace di Zurawno.
1677. Mercoledì 20 gennaio i suddetti soldati corsi salparono finalmente per Reggio portati da
tre galere. A metà del mese successivo arrivò al viceré la ferale notizia che le otto tartane che
portavano le summenzionate soldatesche milanesi da Finale a Palermo erano incappate in
una burrasca nelle acque di Porto Longone e due erano naufragate con perdita di circa 400
uomini; e, come se questo non bastasse, alcuni uomini di comando delle stesse, salvatisi su
un piccolo battello di salvataggio, erano poi rimasti preda di una saettia di corsari mori, per cui
il viceré, per negoziarne il riscatto, spedì immediatamente, la notte di lunedì 15 febbraio, un
corriero a Livorno, evidentemente perché detti corsari usavano poi fermarsi ad accettar riscatti
sulle coste degli stessi mari in cui avevano appena compiuto delle razzie. Altre due delle
dette tartane, molto danneggiate dalla burrasca, si dovettero fermare a Porto Longone e
quindi a Palermo ne videro poi arrivare solo quattro.
Alla fine della prima settimana di marzo seppesi dalla Spagna che si sarebbe presto
inviato in Sicilia il tercio della guardia reale detto della ciamberga, nome questo dovuto
evidentemente all’esser quello il primo spagnolo reggimento di fanteria spagnola ad andar
vestito di quel nuovo indumento marziale, il quale avrà poi tanto successo da caratterizzare
sia il vestiario militare sia quello civile per circa un secolo e mezzo. Negli stessi giorni,
pressato dalle continue istanze in tal senso dal marchese di Castel Rodrigo, il viceré
marchese di Astorga ordinò che si assentassero, cioè si arruolassero, nuovamente le milizie
del Battaglione e della Sacchetta in tutto il regno per trarne al più presto un nuovo corpo da
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inviare in Sicilia, mentre già alla metà del mese nell’arsenale di Napoli si ammassavano
soldatesche di nuova leva e provvisioni belliche. Domenica 14 marzo arrivò un corriero con
dispacci di Sicilia che riferivano l’arrivo di altri vascelli francesi a Messina e di scontri presso
Milazzo e Taormina, nei quali i francesi avevano ancora avuto la meglio.
Per alleggerire il fronte siciliano, i francesi cercarono d’aprirne un altro assaltando
Piombino, me ne furono respinti e forse fu per il concretizzarsi di queste minacce che nel
mese d’aprile di questo 1677 si levavano soldati anche nei Presidi di Toscana; più tardi in
Sicilia i transalpini, sorpreso nottetempo dal nemico, persero il borgo e castello della Motta,
perdita che presto provocò la ritirata francese dalla stessa Tauromina, da quel castello
sovrastata.
Martedì 13 aprile si trovava a Napoli il conte milanese Barbò, il quale aveva sino allora
militato a Milazzo, ma era ora stato nominato nuovo generale dell’artiglieria e governatore
dell’armi di Reggio in luogo del San Crispiero. Venerdì santo 16 aprile morì il viceré di Sicilia
marchese di Castel Rodrigo dopo pochi giorni d’indisposizione, a causa, si diceva, delle
conseguenze d’una vecchia ferita interna ricevuta in Catalogna; arriverà a Palermo in
sostituzione pro interim il luogotenente provvisorio di viceré Ludovico Fernandez Portocarrero
cardinale di Toledo, liberando così dalla gravezza della vice-reggenza la consorte del Castel
Rodrigo, cioè Eleonora de Mora.
È del 22 aprile una cedola reale indirizzata al viceré di los Vélez, dove il re Carlo II,
richiamandosi alla recente abolizione nell’esercito di Fiandra della figura di luogotenente di
mastro di campo generale, in considerazione che questa andava sostituita dalla nuova figura
di sargente generale di battaglia recentemente introdotta in tutti gli eserciti della Spagna come
coadiutrice di varie figure generali e cioè sia di quella del mastro di campo generale sia di
quella del generalissimo (capitano generale) sia di quella del governatore dell’armi,
concedeva che, per quanto riguardava gli altri eserciti, la carica di luogotenente di mastro di
campo generale potesse per ora restare e coesistere con quella di sargente generale di
battaglia; però, dove a costui venissero dai predetti generali superiori affidati incarichi
meritevoli di aiutanti, gli si dessero quelli del tenente di mastro di campo generale.
Nella notte tra il 26 e il 27 salparono da Napoli per la Sicilia cinque galere del duca di
Tursi che portavano soldatesche e una somma di denaro per le esigenze di guerra. In un'altra
missiva del 1° maggio indirizzata al suo governo, il nunzio apostolico a Napoli esprimeva un
altro sconfortante giudizio dello stato della guerra:
Ho cercato destramente di sapere lo stato della Sicilia in questo principio di campagna e trovo
che le cose de’ spagnuoli vanno di male in peggio; poca gente mal comandata e peggio
pagata e però (‘perciò’) più d’aggravio che sollievo a’ siciliani. Le diffidenze della nobiltà
cresciute a gran segno dopo la carcerazione d’otto nobili palermitani condotti in questi castelli
ed in gran parte senza fondamento… Melazzo ha fortificazioni grandi e malfatte che non si
puol sperare molta difesa in caso d’attacco. Palermo è poco forte, Siracusa potrebbe
resistere. Se alli francesi arrivano li decantati soccorsi, l’isola è in grande pericolo… (ib.)
In effetti circa una settimana dopo arrivarono a Messina altri vascelli francesi, tra i quali
il pregevolissimo Grand Louis, accolti da tre giorni di festeggiamenti, e sbarcarono un po’ di
fanterie svizzere e molte provvisioni, mentre si diceva di dispute tra i comandanti spagnoli e
che il generale Bracamonte si fingeva indisposto a Catania. Intanto, continuando gli scontri di
terra ora con alterna fortuna, i messinesi s’erano messi a scorrere le coste calabre con piccoli
legni sottili, vale dire remieri, e avevano predato delle feluche, per cui sabato 22 maggio partì
per Reggio il suddetto conte Barbò, nuovo governatore dell’armi di quella città, al quale era
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stata fornita una dotazione di galeotte e feluche con la quale guardare quelle coste da simili
scorrerie, e il giorno seguente salparono due galere che portavano rinforzi e provvisioni agli
ora certo più trascurati presidi di Toscana. Nel regno di Napoli frattanto si sollecitava
l’adunata del Battaglione, si continuavano le nuove leve e si allestivano legni per trasportarle
in Sicilia
Nel giugno a Messina i francesi, sbarcate anche tutte le genti di marina dai vascelli,
passarono di nuovo in rivista le loro forze e risultarono circa 9mila fanti e 600 cavalli, ma
sembrava che aspettassero ancora rinforzi portati da otto loro galere che si trovavano allora a
Civitavecchia, probabilmente le stesse che poi arriveranno effettivamente a Messina il giorno
13 luglio. mentre il 27 del suddetto mese arrivarono a Palermo soccorsi per la causa di
Spagna e cioè sette grossi vascelli da guerra - quattro olandesi e tre spagnoli, dai quali
sbarcarono 1.300 soldati con vari comandanti e tra questi i più cospicui erano il duca di
Borneville, il quale veniva a prendere il comando in capo dell’esercito regio come mastro di
campo generale e che poi, contrariamente a quanto suddetto dal nunzio, pare trovasse le
maggiori piazze militari del regno di Sicilia in buono stato di difesa, e il marchese di Villafiel,
al quale si conferiva invece il generalato dell’armata di mare. All’inizio di luglio, tanto per
ricordare al regno che nel Mediterraneo c’erano ancora anche i soliti nemici di sempre, cioè i
mussulmani, vele corsare turco-barbaresche fecero alcuni schiavi in località Saline d’Otranto;
inoltre, lettere del 5 luglio da Reggio riferivano che, sbarcati presso Cariati e nelle terre di
Carucoli e Strongoli in Calabria circa 300 franco-messinesi, avevano predato gran quantità di
bestiame e, sequestrati due personaggi facoltosi di quei luoghi, se n’erano tornati a Messina;
infine, giungerà notizia che il procaccio di Bari era stato aggredito e svaligiato dai banditi
pugliesi. Lunedì 12, dettero mostra le soldatesche che si erano approntate per Reggio e si
trattava dei 700 fanti del nuovo terzo del mastro di campo Restaino Cantelmo, i quali, come
era d’uso, appena rassegnati si facevano subito imbarcare ad evitare che poi ne fuggissero
ancora, risultando così mancanti dai ruoli; salparono la notte seguente, ma dovettero subito
andare a mettersi sotto la protezione dei cannoni di Capri per evitare vele francesi che erano
state avvistate verso Ischia. La stessa predetta notte salparono pure le galere di Napoli per
recare provvisioni ai Presidi di Toscana, ma avrebbero proseguito il viaggio fino a Genova per
portarvi Melchor de la Cueva, il quale tornava a Madrid; torneranno a Napoli sabato 31 luglio,
avendo compiuto la traversata da Genova in soli tre giorni per sfuggire all’inseguimento
d’alcuni vascelli francesi. Martedì 27 luglio entravano frattanto in Napoli due compagnie di
schiavoni (‘dalmatini’) arrolati da un notabile raguseo e prendevano alloggio in attesa d’essere
anch’esse imbarcate per la Sicilia.
All’inizio d’agosto arrivarono notizie più confortanti e cioè che a Palermo erano
felicemente arrivate le tartane cariche di provvisioni inviate ultimamente da Napoli e altre da
Finale con soldatesche lombarde; che nelle acque di Trapani siciliani vascelli corsari olandesi
avevano preso cinque tartane francesi e affondatene altre due; che bande di villani avevano
fatto razzie nel Taorminese, uccidendo e catturandone molti francesi di quei presidi, e infine
che da Messina fuggivano molti disertori francesi, essendone arrivati a Palermo in una
settimana più di 70.
Nell'agosto salparono da Napoli sei galere e nove tartane sotto il comando di Nicola
Pignatelli (giovine spiritoso e di grande aspetto) per portare rinforzi all'armata di Spagna
impegnata contro Messina. In quest'anno tornò a Napoli dalla Catalogna il mastro di campo
Antonio di Gaeta marchese di Montepagano, figlio di quel Cesare che era stato anch'egli
mastro di campo; era latore d’ordine reale che gli si dovesse dare un terzo napoletano di
nuova costituzione e infatti, assoldati mille fanti, li portò con le galere a Finale e poi a militare
nel Milanese; fu in seguito governatore dell'importante piazza di Sabbioneta nella stessa
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Lombardia e nel 1681, essendo stato riformato il suo terzo, s’imbarcò a Genova e tornò in
patria con la ritenzione del soldo di mastro di campo e con ordine reale che gli si formasse un
altro terzo; invece, evidentemente su sua stessa richiesta, ciò non avvenne e ottenne invece
ben più importanti incarichi e infatti fu prima preside della provincia di Montefuscoli e poi di
quella dell’Aquila.
Nella seconda metà di agosto si riferiva da Reggio che, in occasione di un’altra mostra
data dal corpo di spedizione francese a Messina, si trovarono presenti in quel porto 34 legni
da guerra transalpini, di cui 16 galere; ma pochi giorni dopo, sempre da Reggio, veniva
invece notizia che l’armata francese era uscita in mare, forte di 21 galere, 20 vascelli da
guerra e sette brulotti e molte tartane cariche d’attrezzi d’assedio, temendosi che volesse
tentare Reggio o Catania; in effetti poi l’armata, la quale era allora padrona di quelle acque,
comparve davanti a Milazzo e ne fu scacciata dai cannoni di quelle fortificazioni.
Domenica 29 agosto fecero vela per la Sicilia galere e tartane, le quali, oltre alle solite
provvisioni, portavano sette compagnie di soldatesca e tra queste le suddette due di
schiavoni; ma, a causa delle sfavorevoli condizioni atmosferiche, dovettero andare a ripararsi
prima a Nisida e poi, come sembrava, a Massa in attesa che le stesse migliorassero;
fortunatamente dopo meno di dieci giorni arrivò da Palermo notizia che le dette galere erano
arrivate colà, mentre probabilmente le tartane stavano invece dirigendosi a Milazzo. Nel
settembre, usciti da Messina anche per terra, i francesi in numero di 5mila fanti e mille cavalli
erano avanzati il giorno 10 sino a Mascali, da dove minacciavano Catania, mentre con forze
pressoché pari il duca di Borneville li fronteggiava, trovandosi nelle vicinanze d’Ariaci; seguirà
poi uno scontro in località Belvedere, in cui i francesi avranno la meglio e poi si porranno
all’assedio di Calatabiano, mentre negli stessi giorni in soccorso di Catania partivano da
Palermo 22 galere, ognuna con 50 fanti e qualche pezzo d’artiglieria da sbarcare.
In quel mentre a Messina si soffriva per penuria di viveri e pertanto i messinesi, armati
molti piccoli legni sottili detti barche lunghe, imbarcazioni velico-remiere adriatiche simili alle
fragate, introdotte dai corsari uscocchi, poi usate dagli albanesi e ora anche da barbareschi
ed, evidentemente, siciliani, scorrevano le coste della Calabria razziandone molto bestiame e
biade e predando feluche e altre imbarcazioni da carico che da Pizzo e da Pavola si recavano
a Napoli; legni francesi avevano inoltre fermato sette fregate di Malta che si recavano alla
fiera di Salerno e ne avevano obbligate cinque a seguirle a Messina e a vendere colà i loro
carichi.
Frattanto giovedì 16 settembre la galera Padrona di Napoli era salpata per portare a
Palermo il capitano generale dello stuolo di Sicilia e cioè il ritornato marchese di Baiona,
uomo troppo potente, oltre che spagnolo, perché potesse esser stato eliminato; quando
arriverà nella capitale siciliana vi provocherà qualche tumulto, perché inviso alla nobiltà, la
quale ben ricordava come egli avesse fomentato il popolo contro di lei, e le cose poi per lui
diventeranno così sfavorevoli che all’inizio di novembre, portato da una galera di Spagna, se
ne tornerà a Napoli, dove arriverà giovedì 11 novembre con il generale della cavalleria Diego
Bragamonte, passato questi nel frattempo da Catania a Palermo, asserendo ambedue di
esser stati richiamati alla corte di Madrid; la galera, corso il rischio di essere catturata da 12
vascelli francesi che le avranno dato la caccia, sarà salutata all’arrivo con salva di cannoni
particolare dai castelli di Napoli perché nel frattempo il marchese era diventato grande di
Spagna, titolo da lui ereditato con il marchesato di Santa Croce. I siciliani, popolo giudicato
tradizionalmente molto fazioso, ma anche fiero e sempre insofferente dei dominatori,
dimostravano spesso ostilità a chi giungeva a governarli ed in quel periodo anche i catanesi
tumultuavano contro Andrea Coppola duca di Canzano, ora evidentemente governatore
militare di quella città, in seguito ad alcuni suoi dissapori con influenti nobili catanesi. Nello
101
stesso settembre furono inoltre spedite da Napoli truppe di cavalleria anche in Catalogna,
truppe che si erano cominciate a formare, come sembra, già dall'inizio dell'anno, in
considerazione che uno dei loro capitani, Domenico Dentice, ne aveva avuto patente dal
viceré di los Vélez il 5 febbraio. Alla fine di detto mese uscirono da Palermo 23 galere, tre
bergantini e una galeazza, quest’ultimo un tipo di mercantile velico-remiero, anche se non
sottile come la galera, che sopravvivrà, perlomeno a Venezia, sino alla fine del secolo
successivo, e, dopo esser stati respinti indietro nel porto dal maltempo per ben tre volte,
riuscirono finalmente ad andare a sbarcare a Milazzo 3mila soldati; torneranno poi a Palermo
molto maltrattati dalle burrasche, come altrettanto maltrattati furono i 12 vascelli del Villafiel
pure usciti da quel porto e riparati poi a Milazzo. Verso il 10 ottobre salparono da Napoli due
altri legni, probabilmente anche in questo caso delle tartane, i quali portavano Palermo circa
200 fanti, munizioni ed attrezzature per le suddette galere.
Incominciavano a giungere frequenti notizie di diserzioni di massa dall’esercito francese
in Sicilia dovute, si diceva, sia ai patimenti di guerra sia all’avversione che i messinesi
avevano cominciato a manifestare verso di loro e il 9 ottobre arrivarono a Reggio su tre
tartane circa 300 di tali disertori fuggiti da Augusta; in osservanza la vecchia regola di guerra
che prescrive ponti d’oro al nemico che fugge, costoro, trasferiti a Napoli, vi riceverono
passaporto, un po’ di denaro ed un passaggio marittimo sino a Civitavecchia; ne arriveranno
poi anche a Milazzo e altri 65 ancora a Napoli domenica 31 ottobre, portati questi da due
tartane provenienti da Palermo, e anche a questi sarà dato passaporto, denaro e li si metterà
in cammino verso Roma. Le cronache e la corrispondenza del tempo rimastaci non dicono
però se si trattava effettivamente di soldati di nazionalità francese oppure di mercenari di altre
nazionalità, ad esempio gli svizzeri al servizio di Francia. Notizie di tali diserzioni
continueranno ad arrivare anche nei mesi successivi; ma anche a Napoli intanto si
moltiplicavano i tentativi di fuga dei soldati, soprattutto di coloro che si ritenevano destinati al
teatro di guerra o che non erano pagati da molti mesi; fu quella delle diserzioni una costante
della realtà militare del regno perdurante fino all'Ottocento e che, unitamente alla tipica
incuria delle memorie e delle vestigia marziali, la quale dura invece ancor oggi, sempre
dimostrò l'insofferenza dei meridionali nei confronti della vita militare, vita fatta di
disciplina,grandi privazioni, rischio e anche di un pizzico di patriottismo, tutti elementi
assolutamente estranei al carattere e alla sensibilità del meridionale e ciò non ostando che si
tentasse sempre, nei giudizi anche stranieri, di far passare invece almeno la nobiltà
napoletana come particolarmente guerriera; ma si trattava invece della solita spietata logica
feudale, aggravata in questo caso dalla sostanziale avarizia napoletana, che voleva i figli
cadetti abbandonati alla ventura, cioè al servizio militare volontario, senza soldo e solo con un
minimo appannaggio familiare appena sufficiente per non morire di fame. I giovani venturieri
erano così obbligati ad accettare immediatamente di esporsi a grossi rischi nelle azioni di
guerra, sia per procurarsi quote di bottino, a cui invece avevano diritto come i soldati ordinari,
sia per mettersi il più possibile in mostra come valorosi e ottenere così un arruolamento
normale, per lo più inizialmente come alfieri di fanteria e ciò perché l'alfiere, dovendo
trascinare all'assalto della breccia la sua compagnia, rischiava moltissimo la sua vita e si
preferiva perdere in quel ruolo dei giovani inesperti.
Le leve di questo 1677 sono confermate da atti notarili che abbiamo rintracciato e che
riguardano le forniture di vestiario militare; si tratta di un partito di mille vestiti fatto con il
partitario Gregorio Fontana, di uno di 4.000 e un altro di 800, questi all'alemanna, stipulati con
Domenico Testa e infine, con Biase Califano, di 1.700 abiti così suddivisi: 700 per le
compagnie fisse di guarnigione nei Presidi di Toscana, 500 per la fanteria e cavalleria
spagnole che si trovavano a Rijoles ('Reggio?) e 500 con calzoni all'alemanna per il
102
reggimento di tal nazione che serviva in Sicilia.
Il 14 ottobre arrivò a Messina un altro rinforzo di 22 vascelli francesi, dai quali furono
sbarcati soldati, ma non in gran numero, mentre alla fine del mese arrivavano a Napoli cento
soldati spagnoli dalla Sardegna, destinati con altri e con munizioni a essere anch’essi inoltrati
a Palermo.
Gli ultimi episodi rilevanti di guerra di questo 1677 furono la presa francese del forte del
Puntale a quattro miglia da Milazzo, il che avvenne con le seguenti singolari circostanze; il
Borneville aveva appena fatto costruire tale fortificazione per contrastare le scorrerie francomessinesi nella piana di Milazzo e l’aveva guarnito di 300 uomini, quando il colonnello che li
comandava ricevette una cortese lettera del duca di Vivonne, con la quale il generale
francese lo pregava di voler compiacersi di radere al suolo il forte ad evitargli l’onere di
doverlo fare lui e con suo maggior danno; il colonnello inviò la lettera al Borneville e questi
subito gli inviò 900 fanti di rinforzo, i quali però non arrivarono in tempo perché, quando
arrivarono, trovarono che i francesi avevano effettivamente subito raso al suolo il forte
prendendone prigioniero l’intero presidio. Gli rispose il Borneville portandosi nel Catanese,
dove sorprese la guarnigione francese del forte Castello delle Mole, posto importante perché
da esso si poteva battere la vicinissima Taormina.
Continuavano in quel mentre i calabresi a commerciare tranquillamente con il nemico e
infatti verso la metà di dicembre tre tartane francesi, postesi alla Fossa di S. Giovanni,
aspettarono che scendessero dalla montagna alcune greggi di pecore e con l’accordo di quei
pastori ne imbarcarono più di 1.500 e se le portarono a Messina. Taormina sosteneva
l’assedio portatole dal duca di Borneville e quello di Canzano e il capitano generale francese,
duca di Vivonne, uscito da Messina con 3mila uomini per portarle aiuto, era dovuto tornare
indietro perché raggiunto di notizie di tumulti popolari scoppiati in sua assenza, essendogli
solo riuscito d’introdurre i primi 400 uomini di soccorso nella città assediata; poco dopo le
galere francesi uscite da Messina ne porteranno altri 1.100, mentre gli spagnoli portavano la
guarnigione del detto Castello delle Mole a 500 miliziani siciliani, in sostituzione delle
soldatesche del duca di Canzano, trasferite queste parte in altri due posti fortificati presi poco
lontano e parte a Catania. Alla fine dell’anno il governatore dell’armi di Reggio, il conte Barbò,
inviò al suddetto richiedente duca dieci feluche e due bergantini carichi di provvisioni di
guerra, mentre i franco-messinesi predavano legni oleari e granari napoletani che
transitavano nel Canale diretti a Napoli.
Il 17 marzo la città di Utrecht si era frattanto arresa all’assedio francese iniziato nel
novembre dell’anno precedente; i transalpini, sotto il comando di Filippo d’Orléans, del duca
d’Humières e del maresciallo di Lussemburgo, avevano poi l’11 aprile seguente ancora vinto
gli ispano-olandesi di Guglielmo III d’Orange a Cassel, località a sud di Dunkerque e avevano
inoltre ottenuto dei successi anche sul fronte catalano. Proseguendo nel frattempo in Europa
anche la guerra nordica di Scania, iI 1° giugno c’era stata a Fehmarn, a nord del golfo di
Lubecca, un’importante battaglia navale nella quale l’armata danese dell’ammiraglio Niels
Juel, numericamente superiore, aveva pesantemente sconfitto quella svedese dell’ammiraglio
Erik Carlsson Sjöblad. Anche in questo caso, gli svedesi di Carlo XI, militarmente inferiori in
mare, si erano presto rifatti il 14 luglio prevalendo sui danesi di Cristiano V per terra a
Landskrona e resistendo con successo all’assedio danese di Malmö, mentre nei loro tentativi
di invadere il Brandenburgo subivano due sconfitte, a Stettino e a Rügen.
1678. Mentre il viceré di Napoli era ancora pressato da richieste di sovvenzioni finanziarie
che gli venivano da Palermo e pertanto concludeva grossi partiti di fornitura di denaro con
mercanti cambisti napoletani – il primo di 200mila scudi con Carlo Arici da rimettersi in Sicilia
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in quattro mesi e poi altri per ulteriori 555mila da fornirsi in un anno, i tanti fuorusciti e banditi
abruzzesi che trovavano rifugio nello Stato della Chiesa, aizzati dalla Francia, avevano
intensificato il loro infestare i confini del regno; il viceré, probabilmente per meglio affrontare
questa nuova emergenza, inviò nuovo preside dell’Aquila il duca di Monte Calvi di casa
Pignatelli. I primi avvisi dalla Spagna di questo nuovo anno portarono la notizia che quella
corte, preoccupata forse dell’infezione messinese, aveva ordinato la riforma di gran parte
degli ufficiali maggiori italiani che militavano in Catalogna, Stato di Milano e nella stessa
Sicilia, dove non rimaneva dunque che Marino Carafa, e si pensava a Napoli che tale repulisti
avrebbe presto colpito anche il regno di Napoli. La mattina di giovedì 13 giunsero da Palermo
in 30 ore di traversata sei galere della squadra di Napoli, della quale era ora governatore
generale Nicola Pignatelli, e dovevano restarvi in attesa di Vincenzo Gonzaga, nuovo viceré
di Sicilia, per portarlo a Palermo. Giunse poi lettera da Reggio che narrava di disordini
avvenuti tra mainoti e spagnoli, essendo in quell’esercito anche un terzo di quei combattivi
mercenari peloponnesiaci, i quali erano stati bistrattati da un capitano spagnolo e per questo
motivo avevano assalito e ferito una ventina di spagnoli in un corpo di guardia, e pertanto si
temeva che detto terzo, per evitare il probabile castigo, potesse potuto passare al nemico;
altro disordine avvenne in Palermo, dove due soldati sardi di guarnigione nelle galere
avevano ucciso un giovane del luogo e sua moglie, e la popolazione quasi insorse per
ottenerne la giusta punizione. Altre notizie che poi giunsero dal teatro di guerra furono che il
generale Barbò aveva fatto decapitare due capi-banditi calabresi e marinari loro complici che
rubavano greggi e li trasportavano a Messina. Nel frattempo continuavano le scorrerie di legni
messinesi sulle coste calabresi alla ricerca di interi greggi e mandrie da predare e gli
scorridori s’addentravano sino a cinque o sei miglia all’interno pressoché indisturbati, in
quanto le soldatesche che guardavano quelle marine erano del tutto insufficienti, e questo
spadroneggiare aveva convinto gli spagnoli a migliorare le difese della piazza di Reggio, il
che avveniva con molto dispiacere dei cittadini, i quali vedevano le loro case e i loro bei
giardini di gelsi e altre frutta diroccati per far posto alle nuove fortificazioni; inoltre quattro
vascelli da noleggio inglesi che portavano grano dalla Puglia a Napoli erano stati predati dai
francesi e sembrava che questo apporto di viveri avesse alquanto risollevato l’affamata
Messina.
Venerdì 28 gennaio arrivò a Napoli un vascello genovese carico di fanteria lombarda e
quanto prima la si sarebbe inoltrata in Sicilia insieme ad altre soldatesche di nuova leva che
si stavano addestrando nell’arsenale. Il giorno seguente entrò in Messina un ennesimo
soccorso transalpino di otto legni carichi di grano e altre provvisioni per le galere colà
stazionanti e di quattro vascelli da guerra, i quali portavano il maresciallo de la Follade,
venuto a sostituire il duca di Vivonne, questi in partenza per la Francia; il nuovo comandante
generale francese, unito un corpo di fanteria e cavalleria, uscì da Messina con l’intenzione di
andare ad assediare il Castello delle Mole, dal quale la città di Taormina era battuta di bombe
e cannonate e che però già ora si trovava anch’esso in una situazione difficile perché a sua
volta sotto la batteria di quattro cannoni francesi. Ma, avvisati di questo disegno, il Borneville
si mosse da Milazzo e l’Aldao, comandante militare di Catania, da quella piazza per andare
ambedue a incontrare il nemico; la zuffa, dapprima molto sanguinosa da ambedue le parti,
volse poi a favore degli spagnoli e i francesi dovettero ritirarsi con la perdita di circa 400
soldati in maggior parte svizzeri.
Frattanto il generale Barbò tentava per la terza volta di appiccare il fuoco all’armata di
Francia in porto a Messina e le inviò contro un barcone di fuoco, ossia un tipo d’imbarcazione
carica di materiali incendiari e con una mina nel mezzo che si diceva avessero inventato gli
olandesi al tempo dell’assedio di Ostenda (1601-1604), ma, l’artificiere che lo governava non
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seppe aspettare il momento giusto per dargli fuoco e la mina saltò anzitempo semplicemente
mandando a picco il barcone e perdendosi così mesi di lavoro.
Lunedì 14 febbraio entrarono in porto a Napoli due dei cinque vascelli da corso olandesi
che scorrevano il medio Tirreno e rimorchiavano due tartane francesi che avevano predato;
queste erano montate da una cinquantina di francesi e da alcuni schiavi turchi, ma portavano
poco carico. Il giorno dopo partirono per le acque di Ischia due galere di Napoli alla ricerca
d’una tartana corsara francese che si diceva stesse predando in quelle acque; torneranno
infatti il martedì seguente trainando detto legno corsaro, il quale nel mentre aveva a sua volta
catturato una tartana vinaria sorrentina, recuperata dalle galere, mentre l’equipaggio francese
era fuggito su due feluche e s’era poi dileguato sull’isola di Ponza. Nel febbraio di quest'anno
si decise di costituire in compagnie i fanti napoletani di nuova leva che, in carico al sargente
maggiore, Miguel Angel Poyo, si trovavano rinchiuse nell'arsenale, in modo che potessero
venir subito impiegate nella guerra di Messina; infatti il nuovo viceré di Sicilia, Vincenzo
Gonzaga dei duchi di Guastalla, principe del Sacro Romano Impero, il quale, accompagnato
sin dai confini del regno da una compagnia di cavalleria inviatagli dal marchese di Los Vélez,
era entrato nella capitale la sera di martedì 22 febbraio, partì martedì primo marzo per
Palermo servito da cinque galere con una somma di denaro e da due tartane cariche di
materiali da guerra, sulle quali, oltre dalla solita soldatesca di galera, s’erano imbarcati anche
500 fanti regnicoli di nuova leva che s’inviavano in Sicilia, mentre ulteriori soccorsi di uomini e
materiali erano in preparazione a Napoli. Accompagnavano inoltre il nuovo viceré di Napoli il
marchese di Terrazena, nipote di quello di Napoli, e Marino Carafa; arrivarono queste galere
a Palermo il giovedì successivo, accolte dal cardinal Portocarrero che attendeva appunto
l’arrivo del suo successore e che poi, anche lui accompagnato dal suddetto Carafa, sarebbe
stato portato a Napoli dalle stesse galere. Questi rinforzi però non servirono perché, a partire
già dall’inizio del mese successivo, i francesi, guadagnatasi, come al solito, con la loro
asprezza e soprattutto con la loro tradizionale mancanza di rispetto delle donne dei popoli
assoggettati, l’avversione dei messinesi, disperando ormai di poter vincere la guerra in Sicilia,
cominciarono ad abbandonare Scaletta, Taormina, Augusta e la stessa Messina, il cui porto la
loro armata, comandata dal summenzionato maresciallo di Francia duca de la Follade, lasciò
il 17 marzo, portandosi più di 600 famiglie messinesi, per un totale di migliaia di individui, le
quali, avendone supplicato il detto generale, fuggivano atterrite dalla paura della vendetta dei
vincitori. Il primo a rispondere alla richiesta di perdono della città fu il generale Barbò, il quale,
accolti i suoi ambasciatori subito inviati, vi si recò con pochi armati e tornò a Reggio il 20
dopo aver consegnato la piazza al Borneville, entrato nel frattempo in città con 3mila soldati;
costui, assunto il governo militare della città, ripartì in quei castelli circa 800 soldati spagnoli e
il terzo di Marino Carafa; arrivò infine a Messina anche Vincenzo Gonzaga con sei galere e vi
fu presto pubblicato un bando di clemenza reale che garantiva la vita e i beni di tutti e dava
alle famiglie fuggite un anno di tempo per tornare senza subire sanzioni;
Alcuni legni francesi in navigazione nel Tirreno non avevano potuto sapere
dell’improvviso esito della guerra e quindi, scopertesi le vele di alcune tartane nemiche
presso Ponza, venerdì 25 marzo due galere lasciarono la darsena di Napoli, andarono a
catturarne una carica di vino e il giorno seguente tornarono rimorchiandola; frattanto verso la
metà di marzo due tartane di corso trapanesi ne avevano prese tre di Francia con 50 uomini.
40mila scudi e alte cose di valore; un’ignara galera francese entrò poi in porto a Messina e vi
fu arrestata; alcuni corsari olandesi catturarono tre vascelli francesi con 150 soldati a bordo,
ai quali fu data libertà e passaporto per Roma; infine il 2 aprile altri tre vascelli corsari
flessinghesi, ossia di Vlissingen in Zelandia, entrarono a Reggio trainando altri due vascelli
francesi, i quali dalla Sicilia tornavano in Provenza carichi di molte cose, tra cui 20 cannoni,
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una sessantina di cavalli e molti quadri e suppellettili del bagaglio personale del maresciallo
de la Follade.
Giovedì 4 aprile fu varata in darsena una nuova galera che durante la guerra si stava
facendo costruire come nuova Capitana dello stuolo di Sicilia; si fece poi una rivista sia alle
genti rinchiuse nelle carceri sia nell’arsenale e, lasciati liberi molti destinati alla guerra perché
risultati poco abili, si mantenne solo quella che poteva esser adatta alla costituzione di nuovi
terzi da inviare in Catalogna; infatti venerdì 29 aprile su galere spalmate per l’occasione,
probabilmente quelle del duca di Tursi, fu imbarcato per Finale un nuovo terzo affidato a un
mastro di campo di casa Caracciolo, probabilmente Cecco Caracciolo marchese di Grottola,
più, come sembra, alcune altre compagnie sciolte, ma la partenza non avvenne prima della
domenica notte seguente. Sabato 14 maggio partivano per Finale le sette galere della
squadra di Napoli che stavano allora a Baia e, incontratesi con una caravella turca (così
chiamavano i piccoli velieri corsari turco-barbareschi), la quale aveva predato una tartana che
portava cose del cardinal Portocarrero, la catturarono ricuperando così anche detta caravella;
torneranno a Napoli martedì 7 giugno.
Giunsero dalla Spagna ordini di riforma della maggior parte degli ufficiali delle milizie
italiane dell’esercito di Sicilia e pertanto i residui dei terzi milanesi del Pallavicino, che si
trovava a Catania, e del Barbò, che stava invece a Milazzo, furono incorporati rispettivamente
a quello milanese dell’Arese e a quello napoletano di Marino Carafa, dovendo questi due
presto passare a servire in Catalogna; si preparavano pertanto a Palermo sette legni per tale
passaggio e del denaro occorrente per questo era in arrivo da Napoli. I suddetti ufficiali
riformati, dovendo ritornarsene in Lombardia, cominciavano a comparire a Napoli e tra questi
il tenente di mastro di campo generale Bossi, il quale non voleva tornarsene e pretendeva un
nuovo impiego nel regno di Napoli; il viceré marchese di Los Vélez lo accontentò inviandolo a
servire con soldo regio nella repubblica di Ragusa.
Nel giugno le galere maltesi, mentre erano dirette a Taranto per caricarvi biscotto, cioè
galletta, catturarono una fusta turco-barbaresca (imbarcazione velico-remiera afro-levantina a
banchi monoremi come il bergantino, ma, a differenza di questo, sempre priva di coperta;
ambedue ormai in declino) con un equipaggio di circa 100 uomini e si posero in traccia degli
altri 19 legni corsari che i prigionieri, ovviamente tormentati, avevano confessato esser loro
conserve; in effetti dopo alcuni giorni giunse ancora notizia che avevano preso anche una
galeotta turca. I turchi tentarono però presto di vendicarsi e la notte di sabato 2 luglio da
alcune loro galeotte sbarcarono in Terra d’Otranto 400 uomini, i quali si diressero verso
Fasano di Brindisi, commenda (‘feudo’) dell’ordine di Malta distante dal mare più di sei miglia,
ma gli abitanti preavvisati, li accolsero ad archibugiate, uccidendone una decina e ferendone
un’altra trentina; i corsari si ritirarono riuscendo a prendere solo alcuni schiavi sulla via del
ritorno. Conosciutosi il fatto a Malta, le galere maltesi si misero alla caccia di dette galeotte.
Malgrado la fine della guerra in Sicilia, nella settimana dal 19 al 26 del predetto giugno
arrivarono a Napoli da diverse province del regno molti soldati di nuova leva e furono chiusi
nell’arsenale, perché occorrevano soldatesche per la Catalogna; infatti, nonostante il buon
esito ottenutosi sui fronti siciliani, la guerra in Europa volgeva però altrove generalmente a
favore della Francia e ciò sia in Catalogna, dove, nella battaglia di Spouille (sic), il duca di
Noailles aveva sconfitto l'esercito spagnolo comandato dal conte de Monterey, viceré di quel
principato, sia in Fiandra, dove il duca Filippo d'Orléans, fratello di Luigi XIV, aveva avuto
ragione dell'esercito del principe d'Orange a Cappel (sic) nella battaglia avvenuta domenica
delle Palme; invece con alterna fortuna combatteva per mare e per terra la Svezia, alleata
della Francia, contro Brandenburgo, Olanda e Danimarca.
Nello stesso giugno il generale Barbò inviò al viceré una richiesta di licenza perché
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voleva recarsi ai rinomati bagni terapeutici di Ischia; il de los Vélez gliela concesse e nominò
pro interim al suo posto il suddetto duca di Canzano, ma quando questi si presentò al Barbò,
si vide rifiutare il comando. Sospetti e gelosie tra i comandanti avevano infatti afflitto non poco
l’esercito di Sicilia durante la guerra di Messina. Venerdì 1° luglio arrivarono a Pozzuoli le
allora quattro galere del granduca di Toscana, le quali, com’era loro secolare abitudine, si
recavano d’estate in corso in Levante, andando così a portare la loro concorrenza a quelle di
Malta. Domenica 10 luglio le sette galere della squadra di Napoli fecero vela per la Sicilia e
molti cavalieri, tra cui il duca di Mataloni (‘Maddaloni’), ne approfittarono per andare a visitare
Messina ora che la guerra era terminata; queste galere torneranno mercoledì 27 luglio
portando la maggior parte delle soldatesche di Reggio e di Sicilia, le cui compagnie, finita la
guerra, erano state immediatamente riformate, e si trattava di ben 4mila fanti, quindi è
immaginabile in quali condizioni di sovraffollamento avessero i poveri soldati dovuto
viaggiare:
Mercordì mattina tornarono qui le 7 galere di questa squadra, dalle quali sbarcarono circa
4.000 fanti levati da Reggio, e vennero così stretti, per essere le galere mal capaci di tanta
gente, che, aggiuntasi l’angustia del caldo, ne caddero per il viaggio molti in mare, ma soli 3
ne perirono…
Arrivò con dette galere anche il Barbò con altri ufficiali; il giorno seguente arrivarono
poi su alcune tartane compagnie di cavalli provenienti da Palermo, Milazzo e Reggio, le quali
furono rassegnate e, toltine subito le peggiori cavalcature, s’incominciarono a rimettere in
ordine per poi inoltrarle a Barcellona insieme alla parte ordinaria della suddetta fanteria, cioè
eccettuando quella territoriale del Battaglione, e si trattava dei due terzi di italiani dei già
menzionati mastri di campo Restaino Cantelmo e Orazio Coppola per un totale di circa mille
uomini, più 200 altri fanti italiani sciolti, mentre 200 fanti spagnoli sarebbero stati trattenuti a
Napoli come reclute del terzo fisso; ma altre soldatesche s’aspettavano dalla Sicilia e dalla
Calabria, dove il 5 agosto furono riformate altre 23 compagnie, e domenica 7 arrivò da
Milazzo anche il mastro di campo Marino Carafa, fratello del duca di Mataloni. Per questa
prevista nuova condotta in Catalogna s’andava stanziando il danaro necessario a pagarla e
s’andavano allestendo tartane e altri legni nel porto di Napoli. Tutti questi soldati dettero
mostra a metà agosto e il sabato 20 furono imbarcati, restando i legni in attesa di venti
favorevoli alla navigazione.
In quel mentre anche il marchese di Villafiel, comandante dei 12 vascelli da guerra
spagnoli che stavano ancora in Sicilia, aveva avuto ordine d’imbarcare tutti i suoi uomini e di
salpare per Barcellona e allora egli aveva chiesto al viceré di Napoli provvisioni che gli
necessitavano; il de los Vélez gliele inviò subito insieme a 300 marinari di cui quell’armata
pure mancava. Mercoledì 24 agosto su sei galere dello stuolo di Napoli, anch’esse in
partenza per la Spagna, furono imbarcati i soldati della guarnizione e solo quelli, perché per il
resto erano già stracariche dei bagagli dei bagagli dei marchesi di Santa Croce e di Baiona e
inoltre di circa 100 colli del viceré, a tal punto che il luogotenente generale Pignatelli andò dal
marchese di los Vélez a protestare per tanto soverchio carico; queste galere, con le quali
andava in Spagna anche il suddetto generale milanese Barbò incaricato di riferire a quella
Corte deliberazioni della Giunta di Guerra di Napoli, a causa delle condizioni atmosferiche
non propizie non poterono far vela però se non la notte del sabato seguente e, rinnovandosi
purtroppo in mare detti venti contrari, dovettero far sosta a Procida per tutta la domenica;
esse torneranno a Napoli solo dopo circa sei mesi e cioè la mattina di mercoledì 22 febbraio
1679 e mostreranno i segni evidenti di una sinistra odissea:
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(Napoli, 28 febbraio 1679:) Mercordì mattina arrivarono qui le 6 galere di questa squadra che
hanno molto patito, essendovi morte circa 700 persone da 6 mesi in qua per li gravi
incommodi sofferti nel viaggio (A.S.V. Nun. Nap. 92).
Dopo qualche giorno furono salparono da Napoli anche cinque galere di Spagna sulle
quali s’era imbarcato un terzo italiano comandato dal mastro di campo Antonio di Gaeta
marchese di Montepagano; sembrava dovessero, prima di proseguire per la Catalogna, far
scalo in Sicilia a imbarcare anche quello di Marino Carafa, anch’egli infatti imbarcato.
All’inizio di settembre si mandarono soldati a guardare le marine del regno dalle
incursioni dei corsari turchi, i quali, sbarcati in forze a Poggio Marino nel Contado di Molise, vi
avevano fatto numerosi schiavi. Mercoledì 7 si fecero passare dai quartieri degli Studi a quelli
dell’arsenale i due summenzionati terzi di fanteria italiana, cioè quello di Restaino Cantelmo e
quello di Orazio Coppola, e venerdì 9 volle il viceré vederli squadronati nel cortile
dell’arsenale medesimo, dove fecero alla sua presenza diversi esercizi militari; subito dopo
furono fatti imbarcare assieme ad alcune compagnie di cavalli su una quindicina tra vascelli,
petacchi e tartane, i quali la sera di martedì 13 fecero vela e portavano a bordo anche alcuni
ufficiali della Scrivania di Razione, perché, assieme all’altro del marchese di Montepagano
partito con le galere di Spagna, sarebbero stati mantenuti dal regno di Napoli; evidentemente
la Corona durante la recente guerra di Messina ci aveva preso gusto a vedere Napoli
sborsare tanti denari per spese di guerra! Dopo alcuni giorni arrivò in ritardo da Reggio una
compagnia di cavalli che sarebbe stata anch’essa inviata in Spagna se fosse giunta in tempo,
ma il suo capitano s’era ammalato e infatti morì in pochi giorni; il viceré ne concesse il
capitanato a un suo dipendente spagnolo e, assieme a tre altre di fanteria, fu rimandata per
ordine reale a Reggio, piazza che nel frattempo era rimasta alquanto sguarnita di
guarnigione, essendo nuovi torbidi in Messina non impossibili. Questo convoglio arriverà nel
porto di Barcellona il 4 ottobre, segnalandosi pertanto da colà l'arrivo di 1.700 fanti e di soli
400 soldati di cavalleria, invece dei predetti 600; forse i 200 mancanti saranno stati sbarcati
altrove o forse qualche numero non sarà esattamente riportato dai relativi avvisi. Si era giunti
in quel mentre alla pace di Nimega (agosto-settembre), la quale poneva fine a quell’ennesimo
sanguinoso conflitto europeo.
Del 19 settembre è un documento che ci tramanda la rivista effettuata in quello stesso
giorno alla compagnia di cavalli corazze del capitano Gioseppe Maioli e non sappiamo se
fosse una delle venti compagnie ordinarie del regno o se si trattasse di un corpo formatosi in
occasione della guerra di Messina. In effetti ogni compagnia di questa specialità avrebbe
dovuto contare 60 soldati e sei ufficiali, ma in realtà, come risulta dai rapporti di varie riviste
effettuate appunto negli anni vicini ai tre quarti del secolo, il numero dei soldati variava dai 35
ai 74 e quello dei cavalli disponibili dai 34 ai 64. La relazione della mostra data dalla
compagnia del Maioli ci dice inoltre quanto fossero allora incompleti l'armamento e
l'equipaggiamento di questi soldati - forse a causa della guerra sostenuta, di cui infatti il
commissario di turno così scriveva:
... se han presentados armados de medias corazas con sus borgoñotes sin ninguna pistola.
15 di loro erano inoltre privi di stivali e di spade e infine i cavalli non avevano il prescritto
fornimento. L'arma da fuoco principale di questi hombres de armas, come, con antico nome,
erano ancora chiamati ufficialmente i cavalli corazze, era però a quest'epoca, come abbiamo
già detto, la carabina, in considerazione che la coppia di pistole d'arcione usata in epoca
108
precedente non era più sufficiente al mutato uso tattico di questa cavalleria, a cui non si
richiedeva più solamente di caricare il nemico bersagliandolo con le pistole a distanza
ravvicinatissima, ma anche di usare il caracollo, cioè di sparare per file alternate da una certa
distanza.
All’inizio di ottobre, avendo il summenzionato milanese Bossi rinunziato alla sua carica
di tenente di mastro di campo generale a Ragusa per dissapori con il suo diretto superiore, il
Tuttavilla, egli fu riformato e fu inviato a prendere il suo posto a Ragusa Simonetto Rossi, la
cui famiglia era come si sa null’altro che un ramo dei Caracciolo (i Caraccioli Rossi, come una
volta si diceva).
La notte tra giovedì 17 e venerdì 18 novembre moriva praticamente di vecchiaia
Vincenzo Tuttavilla duca di Calabritto, tenente generale della cavalleria e mastro di campo
generale dell'esercito del regno, e fu seppellito con tutti gli onori delle armi alla presenza di
quattro compagnie di cavalleria e quattro di fanteria; ne prendeva il posto pro interim il
generale dell'artiglieria fra’ Titta Brancaccio, secondo incarico che, anche se in luogotenenza
dopo il viceré, lo faceva praticamente comandante di tutto l'esercito, e che egli manterrà fino
alla morte, cioè sino al 19 febbraio del 1686.
Alla fine di novembre cominciarono a comparire a Napoli molti soldati di cavalleria del
Milanese che, essendo stata colà riformata la loro arma perché terminate le esigenze di
guerra, venivano in regno con la speranza di esser presi a riempire i vuoti determinatesi nelle
compagnie di cavalleria ordinarie, le quali s’era parecchio svuotate per la numerosa gente
che si era dovuta inviare in Catalogna, avendo infatti un regio ordine prescritto, per favorirli,
che nella cavalleria regnicola non s’arruolassero d’ora in poi se non soldati milanesi e
borgognoni; bisognava però munirli di tutto, a partire dai vestiti, e impratichirli negli esercizi
militari alla maniera che s’usava tradizionalmente nel regno di Napoli, il quale aveva
storicamente grandi tradizioni equestri.
Verso il 10 dicembre giunse notizia che il vice-regnato del de los Vélez era stato
prorogato; non sarebbe stata infatti certo buona politica cambiare così presto uno dei vincitori
della guerra. Negli ultimi giorni dell’anno giunsero dalla Sardegna due tartane che sbarcarono
due compagnie di fanti spagnoli per rinforzo del presidio del regno; nei medesimi giorni,
avanzando la cavalleria alcune paghe, il viceré gliene fece dare due.
In questo 1678 sono nominati nei documenti anche i terzi di fanteria napoletana dei
mastri di campo Nicola Recco e Caracciolo, quest'ultimo serviva nel Milanese; nel luglio fu poi
ordinato al mastro di campo Filippo Rossi (ramo dei Caracciolo) di levare un terzo di fanteria
napoletana, probabilmente con i reduci della guerra di Messina, da impiegarsi al regio
servizio chissà dove e nel settembre si ordinò che il terzo di fanteria alemanno-napoletana
(strano connubio, evidentemente i napoletani convivevano più facilmente con i tedeschi che
con gli altezzosi spagnoli!) levato dal mastro di campo-colonnello Joachim Fatrique de
Visenfeld y Megolin, nobile ispano-alemanno e cavaliere di Malta, il quale, nelle intenzioni
originali doveva essere una raccolta dei suddetti reduci da organizzarsi sul piede di sole
cinque compagnie di 100 uomini ciascuna, si declassasse a semplici compagnie di fanteria
italiana; ciò significava che alla fine ci si era resi conto che troppo poche erano le compagnie
per costituirle in terzo e troppo pochi, evidentemente, i loro soldati alemanni rispetto al
numero dei napoletani.
A comprova dei preparativi militari che, non ostando che la guerra d'Olanda fosse ormai
in fine, caratterizzarono questo anno, restano rogiti e conti relativi a tre partiti del vestiario fatti
con il partitario Domenico Testa, ossia uno di 2.000 vestiti per fanti regnicoli di nuova leva che
si sarebbero dovuti inviare in Catalogna e in Sicilia e altri due per un totale di 3.500 abiti, di
cui 1.500 per fanti del terzo fisso spagnolo, fatti di panno fino di Pedimonte (d’Alife) a ducati
109
8,4 ciascuno, e 2.000 per soldati napoletani, confezionati questi con panno di Cerreto, tessuto
più economico del precedente, venendo a costare ognuno di questi altri vestiti ducati 7,3.
Nel corso del primo semestre di quest’anno, dopo due anni di guerra per la casa
d’Austria, era frattanto tornato a Napoli il giovane Francesco Piccolomini d’Aragona principe
di Valle, ma nell’agosto Sua Maestà Cesarea lo richiamò conferendogli una compagnia di
corazze del reggimento Alleviel, compagnia con cui combatterà per breve tempo contro
francesi e poi, sopraggiunta la predetta pace di Nimega, in Boemia contro i turchi; nel gennaio
del 1682 il principe diventerà poi sargente maggiore del reggimento di corazze cesaree
Caprara.
Molto interessante è anche un lungo documento manoscritto in questo periodo e
intitolato Conti della Regia Monizione del Regio Arsenale (S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17), regia
monizione questa per l’armamento marittimo e da non confondersi quindi con quella sita nel
vicino Castel Nuovo e destinata invece all’esercito, in cui si elenca tutto ciò che, con inizio dal
26 aprile, si era fornito durante il corso della suddetta guerra di Messina, a mercantili,
squadre e flotte partecipanti a quel conflitto e che pertanto erano state inviate nei mari di
Sicilia od erano state in riparazione nei cantieri di Baia; oltre a cibi, vini, tessuti, vestiti militari
(suddivisi questi in alemani e spagnuoli), bocche da fuoco e materiali vari per l’artiglieria, per
la navigazione e per i lavori eseguiti nei predetti cantieri, c’è infatti anche tutto il necessario
per l’armamento personale, anche se, purtroppo, senza l’indicazione dei corpi a cui ogni
genere era destinato; ma cercheremo di capirlo ugualmente.
Troviamo prima elencate le armi bianche astate ciussi, picche e partesane, armi alte
all’incirca due metri allora ancora molto usate. I ciussi erano delle semplici punte di ferro
astate di un paio di metri di lunghezza, quindi quelle che sino al Cinquecento si erano detti
anche verruti, brandistocchi, spiedi, scheltri, gi(an)nette, mezze picche e più tardi si
chiameranno invece spuntoni; erano armi ancora utili alla difesa delle trincee, degli approcci,
delle brecce, delle batterie ecc. Le picche, punte di ferro generalmente a forma di foglia
d’albicocco con asta di legno leggero, quindi di frassino, faggio od olmo, e lunga ora in tutto
poco più di quattro metri e mezzo, mentre una volta aveva anche raggiunto i cinque, erano
armi che si usavano sin dal primo Rinascimento come principali della fanteria e servivano
principalmente a sopperire all’insufficiente contrasto offerto dalle prime armi da fuoco alle
cariche di cavalleria, ma erano anch’esse molto utili alla difesa di batterie, brecce, rivellini,
ridotti e altri ripari; il loro uso era andato nel Seicento gradatamente diminuendo in modo
inversamente proporzionale all’aumento, anch’esso graduale, della potenza delle armi da
fuoco. Le partesane, nome francese però più noto in Italia con la corruzione partigiane, erano
sostanzialmente delle ronche bifronti ed erano portate dagli ufficiali come arma distintiva e
talvolta, ma raramente, dai corpi di guardia, per cui si preferiva invece l’alabarda.
Quest’ultima, pur essendo ancora ritenuta molto utile e usata nell’assalto e nella difesa delle
brecce, non appare tra le suddette forniture di guerra e quest’assenza conferma che il suo
uso era – ma ormai da gran tempo – relegato appunto soprattutto al servizio di guardia del
corpo e di palazzo.
Le armi da fuoco elencate ci permettono di capire l’evoluzione tecnica raggiunta
dall’esercito ispano-napoletano che combatteva la guerra di Messina; mentre tutte le armi
elencate, sia quelle bianche sia quelle appunto da fuoco sono registrate ciascuna in numero
di alcune centinaia, raggiungendo solo le picche quello di 821 dato il gran numero di picchieri
che a quel tempo ancora aveva la fanteria, moschetto e archibugio sono le uniche a
raggiungere le migliaia di unità e precisamente il primo 4.414 e il secondo 5.157, a
dimostrazione che le fanterie ispano-napoletane ancora usavano come armi da fuoco
principali, le due usate nel secolo precedente e cioè archibugio a miccio e moschetto a miccio
110
(sp. mosquete de cuerda); questi erano forniti con loro adherimenti (‘accessori’), i quali erano
il fiasco contenente la polvere, il fiaschiglio, cioè la fiaschetta più piccola contenete il
polverino da innesco e la forchiglia o forchetta, ossia la forcina astata d’appoggio se si
trattava di moschetto; l’unica differenza rispetto al Cinquecento è che il numero di moschetti
forniti, rispetto a quello degli archibugi, è molto elevato, a comprova che essi, mentre quelli
cinquecenteschi erano pesantissimi e quindi ne potevano andare armati solo i fanti più
robusti, ora, anche se ancora bisognosi della predetta forchiglia, dovevano essere alquanto
più leggeri. Ci sono poi 238 moschetti alemani e infatti alla guerra di Messina parteciperà,
come presto vedremo, anche un contingente di fanti imperiali; questi, per cui non è
menzionato il suddetto complemento di accessori, dovrebbero essere quei moschetti leggeri,
non sappiamo se privi di forchiglia, a cui abbiamo già accennato; seguono 98 moschetti a
grillo, ossia a pietra focaia (‘fucili’), 200 pistole da cavalleria pure a grillo con loro fondi (‘foderi
da sella’; sp. tapafundas), 110 senza fondi e 443 carubini, ossia i corti fucili a canna rigata e
carica forzata per la cavalleria di cui abbiamo già detto.
Per quanto riguarda le armi difensive, nel predetto documento si nota un quantitativo
non elevato di marzine di vacca da cavalleria e i materiali per confezionarle, cioè vacchetta di
Smirne, bambace filata e cannavaccio nuovo. Queste casacche di vacchetta, ora dette
‘marsine’, quindi si trattava di giustaccorpi lunghi sino a coprire e proteggere anche il
ginocchio del cavaliere come facevano anche le nuove marsine di panno di cui poi diremo,
erano state chiamate una volta co(l)letti (sp. coletos; fr. collets, probabilmente ipoc. di
cottaletti.) od anche bufali, perché fatti preferibilmente di pelle di bufalo, ma, in mancanza di
quello, si facevano per esempio di cervo; ora però, perché fossero più confortevoli, si
portavano con maniche di pelle più morbida, cioè di daino o d’alce. Esse erano considerate
vere e proprie armi difensive e pertanto spesso se ne spogliavano i nemici vinti. Erano
foderate con un doppio strato di cannavaccio (‘tela di canapa’) - o d’altra tela robusta imbottito di bambace (‘bambagia’) e difendevano abbastanza bene non solo appunto da
fendenti e stoccate, ma anche molto spesso dai proiettili delle deboli pistole del tempo e dei
deboli archibugi. Ci sono poi 215 armi per arcabugieri a cavallo (con)sistentino ognuna in
petto, spalla e borgognotta, ma qui la registrazione è sbagliata perché queste armi non sono
da archibugieri a cavallo, i quali non ne portavano, bensì da cavalli corazze, e qui c’è da
notare un netto restringimento rispetto al passato, quando cioè questi soldati avevano portato
anche scarselloni, mignoni, cioè mezzi bracciali, e manopola sinistra e prima ancora, ossia
alla loro origine, la quale risale alla fine del Cinquecento, anche il guarda reni e i cosciali;
insomma si avviavano a diventare i moderni corazzieri armati solo, ma al massimo, di petto,
schiena ed elmo di acciaio.
Seguono poi, tra molto altro, 1.100 granate di ferro colato carriche e1.040 spine di
legname per tirarle, un totale di 5.482 vestiti tra spagnoli, italiani e alemanni, 13 cappotti di
panno di Cerrito inforati di friso russo e tanti altri generi che fanno di questo documento, come
del resto di altri molto simili - e anche più affascinanti perché del Cinquecento - che,
purtroppo spesso non inventariati e quindi a gran rischio di perdita, si potevano trovare ai miei
tempi nella sezione militare dell’Archivio di Stato di Napoli e spero tanto che lo si possa
ancora.
Il 1° luglio si era combattuta frattanto un’altra importante battaglia navale nella baia di
Køge presso Copenhagen, dove l’ammiraglio danese Niels Juel aveva di nuovo
pesantemente sconfitto gli svedesi, pregiudicando così definitivamente la loro possibilità di
trasportare soldatesche in Germania, dove del resto erano anche stati di nuovo fermati dai
brandeburghesi a Stralsund.
Il 14 e il 15 agosto si era In quel mentre combattuta l’ultima battaglia della guerra franco111
olandese a Saint-Denis; il maresciallo di Lussemburgo e Guglielmo d’Orange, non ostando
che il 10 precedente fosse stata firmata a Nimega la pace con le Province Unite d’Olanda, si
erano affrontati ugualmente in una già predisposta e sanguinosa battaglia, la quale era stata
inutile anche perché, pur contandosi perdite molto maggiori dalla parte degli ispano-olandesi,
nessuno dei due era riuscito a prevalere. Il trattato di pace con la Spagna era seguito il 17
settembre.
1679. La notte di mercoledì 22 febbraio, cioè lo stesso giorno in cui erano, come abbiamo già
detto, ritornate le sei galere di Napoli molto malridotte dopo sei mesi d’assenza, arrivarono
dalla Sicilia due galere di quello stuolo che portavano il loro generale principe di
Montesarchio e giunse anche un corriero dalla Spagna con la notizia della pubblicazione della
pace; si risarcivano frattanto da cima a fondo nell’arsenale le suddette galere di Napoli e se
ne costruivano anche due nuove per farle passare presto ancora in Spagna come da ordine
reale già pervenuto, di conseguenza nell’aprile, quando giungerà notizia che legni corsari
turchi infestavano i mari, non ci sarà ancora alcuna galera pronta da poter inviare a
contrastarli. Un altro ordine reale, questo del 26 febbraio 1679, ordinava che i continui pagati
direttamente dal re dovessero essere in tutto preferiti - ossia godere di preminenza come
allora si diceva - a quelli pagati dal viceré.
Nel maggio morì il principe di Cursi di casa Cicinelli senza aver potuto rivedere il suo
secondogenito colonnello Andrea, tuttora prigioniero in Francia. Alla fine d’agosto arrivarono
di passaggio a Procida le galere di Malta con il loro generale italiano di casa Spinelli; a
settembre si registravano invece mutamenti di diplomatici, passando a Parigi l’ambasciatore
che era a Torino, cioè il duca di Giovinazzo, e il figlio del principe di Cellamare, capitano della
guardia, si mandava inviato in Baviera. Ciò nonostante, era naturalmente poco il peso
diplomatico del regno, giacché la Spagna lo manteneva quasi tutto per sé. Anche nel
settembre, mentre si sentiva dire che erano da concedere le patenti per la leva di due nuovi
terzi da inviare in Lombardia, si provvedeva a riempire di polveri e d’altre provvisioni di guerra
i magazzini militari, ormai quasi vuoti a causa dell’occorrenze della recente guerra di Messina.
A metà ottobre giunse la ferale notizia della morte di don Giovanni d’Austria, uno dei
maggiori protagonisti della più recente storia di Napoli; alla fine di novembre giunsero ancora
le galere di Malta e il generale di quelle di Napoli, allora il principe di Piombino, si recò a
bordo delle stesse in visita ufficiale.
Frattanto in questo 1679 nel corso delle guerre nordiche gli svedesi avevano visto le
loro ambizioni sul Brandenburgo tramontare definitivamente con le ripetute sconfitte subite dal
loro maresciallo di campo Horn a Tilsit, Splitter e Heydekrug a opera del grande elettore
Federico Guglielmo.
1680. Durante il governo del predetto viceré Fernando Faxando marchese di los Vélez fu
continuata la guerra al brigantaggio d'Abruzzo e si munì ancora una volta il golfo di Napoli
con opportune difese e artiglierie per timore di un attacco francese dal mare. Nell’ultima
decade di febbraio ci fu una vera e propria battaglia ad Acquaviva d’Isernia tra 60 soldati di
campagna e oltre 100 banditi; violenze brigantesche continueranno poi nei mesi seguenti in
ogni parte del regno, essendo questo evidentemente un effetto della riforma improvvisa di
tanti uomini sino allora impiegati nell’esercito. Nel febbraio si festeggiò a Napoli il matrimonio
del re Carlo II d’Austria con Maria Luisa di Borbone, figlia del duca d’Orléans, fratello del re di
Francia; verso la metà del mese il corriero ordinario di Spagna portò l’ordine di leva per tre
nuovi terzi di fanteria italiana da inviare nello Stato di Milano (credendosi che debbano esser
compiti molto sollecitamente per la moltitudine di gente oziosa di cui si è riempita questa città.
112
A.S.V. Nun. Nap. 92.)
Il nunzio apostolico si riferiva qui appunto alla quantità di militari, riformati e rimasti privi
d’impiego a causa dell’improvvisa fine della guerra di Messina, che s’era riversata sulla
capitale in cerca di nuovi fonti di sostentamento. Al contrario c’era penuria di soldati spagnoli
e le compagnie del tercio fijo risultavano complete solo sulla carta, come dimostra un
perentorio ordine reale che pervenne a Napoli alla fine di marzo:
(Napoli 2 aprile:) E’ venuto ordine preciso di Spagna che le compagnie di fanteria spagnuola
contino di 112 soldati effettivi l’una, altrimenti che si riformino, procurando questi capitani
spagnuoli di riempire le loro compagnie con ogni sollecitudine (ib.)
L’aumento della forza di questi corpi di circa il 10% era evidentemente effetto dei recenti
fatti bellici siciliani, ma non durerà molto tempo e infatti presto ritroveremo dette compagnie
sul piede di 100 uomini ciascuna.
Mercoledì 24 aprile il duca di Tursi, non essendo evidentemente più necessaria la sua
presenza in regno, si licenziò dal viceré e s’imbarcò su una galera che l’aspettava a Nisida.
Nello stesso mese, in osservanza di ordini reali, si allestiva la squadra di galere e si tenevano
sedute del Collaterale alla ricerca di denaro che si doveva inviare a Milano e di altro che
serviva per una nuova leva di soldati; nell’ambito di questi preparativi, all’inizio di maggio si
distribuirono le nuove patenti di leva e arrivarono a Napoli 50 banditi accordati perché fossero
inviati a servire in presidi chiusi. Lunedì 6 fu varata una galera costruita per lo stuolo di Sicilia
ed equipaggiata di ciurma rinforzata formata con condannati trasmessi dai tribunali del regno;
ciò non perché l’arsenale di Messina, uno dei migliori del Mediterraneo, non fosse ora di
nuovo in grado di costruirsi da sé le galere, bensì per sfruttare ulteriormente le risorse
finanziarie dei napoletani, allora come oggi incapaci non solo di difendere, ma persino di
individuare i propri interessi.
Pervenne in questo maggio la nuova della morte del Gran Maestro dell'ordine di S.
Giovanni Gerosolimitano, vulgo di Malta, e dell’elezione in suo luogo di un napoletano, cioè di
fra’ Gregorio Carafa dei principi della Roccella, fratello del cardinale Carafa; egli era stato
sino allora il secondo priore della Roccella, essendone il primo suo zio Francesco ed essendo
un priorato dell'ordine di Malta una giurisdizione di carattere feudale. Egli aveva cominciato a
militare come capitano di cavalleria e questo rappresentava un privilegio perché normalmente
un nobile iniziava prima come alfiere e poi come capitano di fanteria, passando in seguito a
essere capitano di cavalleria, ritornando poi alla fanteria prima come mastro di campo e poi
come sargente maggiore; a questo punto le strade si diversificavano, potendosi diventare
colonnello di cavalleria o direttamente ufficiale generale. Divenne poi mastro di campo di un
terzo di fanteria napoletana, passò alla marina e fu vittorioso generale della squadra di galere
maltesi nella guerra contro i turchi; era stato infine anche soprintendente alle fortificazioni
dell'isola di Malta. Erano quasi tre secoli che un napoletano non era innalzato alla prestigiosa
carica di gran maestro dell'ordine e cioè da quando lo era stato fra’ Riccardo Caracciolo
priore di Capua, morto il 18 maggio del 1395, anche se in effetti quel magistero fu poi retto
dalla luogotenenza di un altro napoletano, fra’ Bartolomeo Carafa priore di Roma e di
Ungheria, fino al 25 aprile del 1405, giorno in cui anche costui morì e fu seppellito
sull'Aventino nella stessa chiesa del Priorato di Roma dove era stato sepolto anche il
Caracciolo.
Con inizio dall'elezione di Gregorio Carafa, ossia da questo 1680, si cominciò, come
scrive il Filamondo, ad apporre numerose iscrizioni e quadri celebrativi di tanto avvenimento
nella chiesa napoletana dell'ordine, detta di S. Giovanni a Mare, sita a pochi metri da piazza
113
Mercato. Si ricordano soprattutto quattro grandi quadri raffiguranti la leva di un terzo di
fanteria napoletana fatta da Gregorio in soccorso di Malta oppressa dai turchi, lo
squadronamento di questo terzo davanti al palazzo del gran maestro a Malta, la battaglia dei
Dardanelli e il ritorno della squadra vittoriosa nel porto de La Valletta; che fine avranno fatto
questi quattro interessantissimi quadri? Morirà Gregorio Carafa il 21 luglio del 1690 dopo aver
nominato suo luogotenente suo cugino il priore fra’ Carlo Carafa, gran siniscalco del Regno di
Napoli e zio del duca di Bruzzano.
Il 1° giugno si formerà una nuova compagnia di cavalli corazze e cioè quella del tenente
e commissario generale della cavalleria fra’ Virginio Valle; lo stato maggiore di tale
compagnia, la quale contava molti soldati milanesi, fiamminghi e tedeschi e pochi regnicoli,
comprendeva, oltre al Valle, suo capitano, un tenente, un alfiere, un trombetta, un armarolo e
un maniscalco. Negli stessi primi giorni di giugno si acceleravano intanto le leve sia per un
terzo di fanti regnicoli da porre sotto il comando di Carlo Andrea Caracciolo marchese di
Torrecuso, terzo che poi, come vedremo, non sarà pronto prima della metà dell'anno
successivo, sia per quello già esistente del Caracciolo che militava nel Milanese e al quale
abbiamo già accennato; per il primo si fecero dieci capitani, cioè cinque giovani cavalieri e
cinque soldati veterani, e alcuni di questi già avevano formato la loro prima piana. Si sparse
voce che il suddetto marchese, avendo in 20 giorni perduto i due figli maschi, sembra per
un’epidemia di difterite, avrebbe, afflittissimo da questa disgrazia, rinunciato al suo incarico
per restare a fianco alla moglie e cercare di avere un nuovo erede, ma poi tale voce fu
smentita; comunque poco dopo, per motivi non divulgati, si deciderà che queste nuove milizie,
sebbene ormai pronte per esser inviate in Lombardia, per questa stagione sarebbero rimaste
in regno e quindi ripartite nei quartieri di S. Maria di Capua, Pozzuoli e Capua. Due capitani
del terzo del marchese di Torrecuso di nome Mormile e Pessali, di cui uno era cavaliere,
essendo venuti alle mani, furono riformati e, per non essere anche arrestati, s’andarono
rifugiare in chiesa, cioè dove la forza pubblica non aveva accesso; forse fu in seguito a
quest’episodio che anche gli altri capitani cavalieri furono riformati e sostituiti da altri di
carriera, pensandosi evidentemente che una lunga inattività e vita di presidio sino alla
campagna dell’anno seguente non si confaceva a giovani così nobili e bizzarri. Comparendo
nei pressi di Napoli un’armata di vascelli francesi, si ordinò, malgrado la pace, di rinforzare di
artiglierie posti e castelli della città, tra cui specialmente il forte di S. Lucia e il molo, e
s’inviarono compagnie di spagnoli a guardare diverse marine del regno; si temevano anche
sbarchi di corsari turcheschi e pertanto s’inviarono istruzioni ai presidi di Lecce e Trani perché
predisponessero le opportune difese, la nobiltà atta alle armi e le milizie del Battaglione
soprattutto. Intanto a Baia doveva allora essere in sosta un’armata amica, come sembra
capire dalla seguente lettera del nunzio apostolico:
(Napoli, 23 luglio:) …Gli ufficiali e soldati delli vascelli, che ora sono accresciuti di tre altri da
guerra, vengono continuamente in città e comprano commestibili in copia… (ib.)
La conseguenza, dovuta però anche a una concomitante moria di bovini, era che a
Napoli cresceva in quei giorni rapidamente il prezzo della carne.
Sabato 7 settembre, giorno della commemorazione della vittoria di Nördlingen,
approfittando di un’uscita pubblica del viceré dovuta a quell’occasione, molti ufficiali e soldati
di cavalleria gli si fecero incontro sollecitandogli il pagamento del loro soldo arretrato da
parecchi mesi, ma tutto ciò che ottennero fu che il di los Vélez, imbarazzato e indispettito, ne
fece poco dopo arrestare una trentina e sospendere per qualche tempo l’impiego di tutte le
compagnie di cavalleria della capitale, prendendosela specialmente con il tenente generale di
114
quell’arma, il veneziano fra’ Virginio Valle, per non aver egli saputo prevenire tale
inammissibile forma di protesta; è vero che, all'atto dell'arruolamento, il re s’impegnava a
pagare immancabilmente il suo soldato, ma quest'impegno non stabiliva in che data l'avrebbe
fatto e quella del pagamento mensile era solo una consuetudine e non una clausola
contrattuale; pertanto i soldati non avevano alcun titolo o diritto d’avanzare tali lamentele. A
quel tempo, non essendo ancora nato il mostro del criticismo kantiano e della sua perversa
concezione del dovere, era per fedeltà che gli uomini servivano il re e con l’amore reale che
ne erano ricambiati; erano insomma ancora le emozioni e i sentimenti a determinare i rapporti
umani. In realtà il ritardo del pagamento del soldo era disordine frequentissimo negli eserciti
della corona di Spagna e provocò in quei secoli memorabili ammutinamenti di soldatesche
spagnole in Fiandra e in Sicilia; bisogna inoltre considerare che in questo periodo la cassa
militare napoletana era oppressa da continue contribuzioni di guerra che s’inviavano a
Milano od in Spagna od altrove, oltre che dai soliti gravosi pesi fissi, di cui i più pesanti erano
il mantenimento dei costosi presidi delle piazzeforti di Casale, allora in mano spagnola, e di
Sabbioneta in Italia settentrionale e il soldo che, come abbiamo già detto, toccava al viceré in
considerazione che tale, in considerazione che capitano generale del Regno e in
considerazione che capitano della compagnia di lance della sua guardia, in tutto ora 41.305
ducati, importo totale comprensivo dei soliti 1.180 ducati per il detto capitanato delle lance e
solo di circa mille ducati inferiore a quello che abbiamo più sopra visto doversi al viceré de
Aragón; poteva inoltre anche lui prelevare arbitrariamente denaro dalla cassa militare e, fino a
un totale annuo di 90.000 ducati, di tali prelevamenti, detti, come sappiamo, gasti secreti, non
doveva render conto assolutamente a nessun funzionario del regno. Si aggiungano infine i
saltuari, ma non rari donativi che le comunità del regno erano non infrequentemente
gentilmente invitate e costrette a fargli, il che è valutabile in un 7 od 8% del valore dei grandi
donativi che i napoletani erano pure correntemente costretti a fare al loro re - tutto ciò in
aggiunta alle ordinarie esazioni fiscali - e si capirà che i viceré di Napoli disponevano di più
che cospicue risorse finanziarie in massima parte a discapito dei pagamenti militari.
Diremo ancora che, oltre al mantenimento delle predette piazzeforti, nello Stato di
Milano il Regno di Napoli pagava da sempre il totale sostentamento del corpo di cavalleria
napoletana che colà aveva tradizionalmente stanza, per non parlare della rimessa mensile a
Milano che andava sotto la voce pane di monizione, e ciò perché, fungendo quel ducato da
antemurale del Regno di Napoli, era giusto che quest'ultimo sostenesse gran parte del peso
economico di quell'esercito sempre così esposto e spesso così impegnato. Gran dispendio al
regno anche apportava il mantenimento delle fortezze dei Presidi di Toscana, senza che
quegli importanti ma piccoli possedimenti rendessero in cambio ovviamente nulla di
consistente dal punto vista fiscale e a tal proposito un reale ordine del 24 aprile 1689
imponeva moderazione a quei Presidi per quanto riguardava la voce spesa per medicamenti,
in considerazione del troppo denaro che la Cassa Militare napoletana si trovava a dover
pagare a questo titolo specie allo speziale di Longone; infatti nel fondo Tesoreria Antica
dell’A.S.N. si ritrovano, per gli anni precedenti a questo, frequenti registrazioni di esiti di
Cassa Militare per rimborsi a detto farmacista.
Comunque, ci fu poi da parte del viceré un perdono e reintegro generale delle
compagnie di cavalleria che erano state temporaneamente riformate, tranne che per un
centinaio di soldati il cui licenziamento fu confermato, approfittandosi così probabilmente di
quell’episodio increscevole per liberare i ranghi da un po’ di gente già in precedenza
considerata inutile.
Alla fine di questo 1680, dovendosi inviare consistenti forze a Neufchâteau in Fiandra
per meglio sostenere i diritti spagnoli sulla regione, vi si mandarono tutti i reparti italiani
115
presenti in Fiandra:
... e si è anco preso quest'espediente per tenerli lontani da’ terzi spagnuoli, per le differenze
(vertenze) che vertono tra le due nazioni.
Non si erano evidentemente dimenticati i terribili eventi degli anni 1661 e 1664, durante
la guerra contro il Portogallo, quando le zuffe tra italiani e alemanni da un lato e i loro alleati
spagnoli dall'altro si dicevano avessero fatto nell'esercito imperiale ben un migliaio di morti!
Tra i documenti di cassa militare relativi a questo 1680 c’è inoltre da notare il conto per
la fornitura di 2mila vestiti di panno di Cerreto, di cui 1.880 all'italiana e 120 alla spagnuola,
presentato dal partitario Donato Maffeo.
1681. E’ di questi anni seguenti a quelli della guerra di Messina una relazione fatta al viceré
di Los Vélez e intitolata Stato del Regno di Napoli e spese occorrenti per il suo mantenimento
(S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17), da cui si può agevolmente enucleare tutta l'organizzazione militare
del regno; ne elencheremo ora i principali lineamenti. Nerbo dell'esercito e principale presidio
del regno era il terzo fisso di fanteria spagnola, costituito in quel tempo da 3.500 soldati più
ufficiali suddivisi in 35 compagnie e ciò sebbene, come abbiamo già detto, un ordine reale del
20 settembre 1636 n'avesse stabilito il piede in sole 24 compagnie di 100 uomini l'una; per
trovare una precedente diversa prescrizione bisognerebbe invece risalire al real ordine del 5
maggio 1609, il quale invece voleva 20 compagnie di 200 fanti ciascuna. In realtà i viceré, a
dispetto degli ordini reali, aumentavano o diminuivano la forza di questo corpo secondo le
esigenze e le circostanze dei tempi, tenendo anche conto delle possibilità contingenti
d’ottenere rimpiazzi (visoños) dalla Spagna per sostituire i soldati morti, quelli che avessero
eventualmente disertato, quelli che, per vecchiaia od invalidità, fossero stati passati ai presidi
dei castelli (non esisteva infatti allora la pensione se non per particolari meriti) e infine quelli
che erano promossi ufficiali.
Gli ufficiali di compagnia si dividevano in alti (capitano, alfiere) e bassi (sargente, piffero,
due tamburi, portabandiera; ferraro, ossia fabbro, barbiero o barbaro, ossia pratico di
chirurgia, e infine il capitano eleggeva un capo di squadra, detto anche all'italiana caporale,
ogni 25 soldati; la prima piana, ossia lo stato maggiore del terzo, era invece costituito da
mastro di campo, sargente maggiore, due aiutanti ordinari e tre aiutanti soprannumerari del
sargente maggiore, tamburo maggiore, chirurgo e ben 12 cappellani. Una volta questo stato
maggiore includeva anche un medico fisico, ma in considerazione della disponibilità
dell’ospedale di S. Giacomo, tale impiego era stato poi considerato superfluo e abolito.
Perché si usasse questo nome di prima piana è facile da spiegarsi; esso deriva dallo
spagnolo primera plana che significa prima pagina e infatti, quando un commissario militare
stendeva il rapporto della rivista da lui passata a un terzo o reggimento, iniziava con
l'elencare i componenti dello stato maggiore appunto nella prima pagina della sua relazione.
La cavalleria tradizionale del regno, arruolata ancora in modo feudale, era costituita da
21 compagnie, di cui una era quella della guardia del viceré, armata ancora all'antica, cioè di
lance e armatura tipo corsaletto, ossia quasi completa. Si componeva quest’ultima di 100
soldati più ufficiali ed era divisa, anche qui all'antica, in squadre di 25 soldati ognuna delle
quali era comandata da un capo-truppa incluso nei 25 e risiedeva a Napoli sei mesi ogni
anno, acquartierata in un palazzo del borgo di Chiaia sin da un reale ordine del 18 luglio
1653, mentre in precedenza aveva alloggiato nel palazzo del marchese di Villa Franca,
edificio che non sapremmo però dire dove fosse; per quanto riguarda poi il resto dell’anno, se
si escludono maggio e giugno in cui i suoi cavalli - come del resto quelli di tutte le altre
116
compagnie - erano tradizionalmente portati al verde, cioè a pascolare nei prati per evitare la
spesa del foraggio almeno in quei due mesi, in realtà non ci è capitato di leggere in quale
luogo trascorressero i quattro mesi residui, cioè da luglio a ottobre.
C'è da notare - per fare una chiosa - che il detto essere al verde nasce proprio dalla
circostanza che, nei due mesi in cui i loro cavalli erano tenuti al pascolo, i soldati non
percepivano la sostanziosa indennità di foraggio che permetteva loro di vivere un po’ più
agiatamente.
C'erano poi 15 compagnie di huomini d'arme, cioè di cavalli corazze armati nella
maniera che già sappiamo, le quali contavano ognuna 60 soldati più ufficiali; questi ultimi
erano, per ogni compagnia, capitano, tenente, alfiere, contatore -ossia pagatore, trombetto,
ferraro - cioè maniscalco - e armiero; la predetta compagnia di lance si distingueva per avere
non uno, ma due trombetti. C'erano poi quattro compagnie di fanti moschettieri a cavallo, detti
ancora all'antica cavalli leggieri, armati di moschetto leggiero, detto però - anche questo con
termine antico - ancora archibugio, compagnie costituite dallo stesso predetto numero di
soldati e ufficiali che avevano i cavalli corazze. Al tempo della relazione che stiamo
considerando i capitani delle suddette 20 compagnie erano i seguenti:
Lance:
Lo stesso viceré.
Cavalli corazze:
Il contestabile Colonna, il quale oltre a essere capitano di una compagnia, era anche
e soprattutto generale comandante di tutte le 15 compagnie di huomini d'arme.
Il principe di Palestrina.
Il principe di Caserta.
Il principe d’Avellino.
Il duca di Calabritto.
Il duca di Martina.
Il duca di Sora.
Il duca di Sessa.
Il duca di Bovino.
Il duca di Popoli.
Il duca di Laurenzana.
Il marchese de los Balbases.
Il marchese del Vasto.
Il conte de Ybañoz.
Il conte della Cerra.
Moschettieri (‘carabinieri’) a cavallo:
Il principe di Montesarchio.
Il duca d'Andria, la cui compagnia poteva anche servire, all'occorrenza, da cavalli
corazze.
Il marchese di Torrecuso.
Il marchese di S. Agata.
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Comandante generale delle suddette quattro compagnie di cavalli leggieri era il duca di
Mont'Alto, il quale era però anche generale d’altre nove compagnie di questo tipo, compagnie
straordinarie o di nuova leva che abbiamo già trovato nelle cronache del 1675, le quali, allora
formate per le nuove emergenze causate dall’incipiente guerra di Messina, dopo la fine di
questa saranno diminuite prima a sette e più tardi a cinque; si trattava ora di circa 500 soldati
in tutto più gli stessi ufficiali sopra indicati, i quali alloggiavano, come le lance della guardia, in
un palazzo del borgo di Chiaia. Nel governo di queste nove compagnie il duca di Mont'Alto
era coadiuvato da una prima piana comprendente un tenente generale, due aiutanti e un
ferraro maggiore.
Per quanto riguarda la suddetta cavalleria tradizionale, c'è da aggiungere ancora alle
precedenti una compagnia di cavalli leggieri detta una volta nel Cinquecento degli estradioti,
degli espressi od anche talvolta dei crovatti (‘croati’), ora vulgo invece degli stratigoti o
straticoti o della straticota od anche dei soldati di tracolla, evidentemente perché, combattendo
anche a piedi, usavano portare la spada appunto sostenuta da una tracolla, come facevano i
fanti. Questi uomini si arruolavano tra le popolazioni profughe macedoni di lingua greca, ma in
certa misura anche albanesi e croate, venute a stabilirsi nel regno di Napoli dai tempi dello
Skanderbeg, a causa delle persecuzioni turche, e qui vulgo dette, proprio per questa loro
propensione al mestiere delle armi, stratigoti – vedi per esempio il paese S. Agata dei Goti
(dim. di stratigoti) nel Beneventano. Tale compagnia era ora comandata dal principe di
Schinzano, ma non serviva in pianta stabile ed era pagata solo se e quando richiamata in
servizio; un ordine reale l'aveva recentemente ridotta da 300 a 125 soldati più ufficiali. Questa
cavalleria leggera balcanica, i cui soldati combattevano appunto a piedi o montati come gli
archibugieri a cavallo o dragoni e come questi serviva principalmente alle scorrerie in territorio
ostile, a occupare posti e passi, a riconoscere e molestare i quartieri, gli schieramenti e le
ritirate del nemico e a inseguirlo quando era in fuga, era molto apprezzata in tutt'Europa e se
ne servivano molti regni e stati, soprattutto la Signoria di Venezia per ovvi motivi politicogeografici, tanto che, anche in un momento storico in cui la cavalleria leggera era caduta in
disgrazia nell’esercito imperiale ed era stata pressoché bandita dai campi di battaglia dal
Wallenstein per averle egli attribuita gran parte della colpa della grave sconfitta che il 16
novembre 1632 patì a Lützen per opera dell’esercito svedese, ciò non ostando che questo
stesso generale continuava a servirsi sia dei crovatti sia degli ungheri (‘ussari ungheresi’’),
insostituibili sia nella formazione di partite di corritori (‘scorridori’) da inviare dietro le linee
nemiche sia nel ruolo d’inseguitori del nemico in fuga dal campo di battaglia; queste partite,
termine rimasto anche in questo senso militare nell’inglese odierno (parties), erano formate in
genere da una quindicina di soldati montati o, ma molto più raramente, da una ventina di fanti,
e s’inviavano nel paese ostile perché, vivendo di saccheggi ,scoprissero movimenti militari e
fortificazioni e prendessero lingua del nemico, ossia facessero dei prigionieri da costringere a
parlare. In Francia gli ufficiali comandanti queste partite si chiamavano partisans, da cui il
nostro partigiani - non quindi da ‘parte’ nel senso di fazione politica, come oggi si crede, e
dovevano essere uomini molto esperti di questo genere di lavoro; all’inizio del Settecento il
miglior partisan francese era ritenuto un certo monsieur de la Croix, il cui figlio, chevalier de la
Croix, comandante di due compagnie franche, sarà poi anch’egli ritenuto un ottimo partigiano
(de la Chesnaye des Bois).
La guardia del viceré, oltre alla predetta compagnia di lance, comprendeva, come
abbiamo già accennato, una compagnia di fanti alabardieri detta guardia alemanna e che era
costituita da 72 svizzeri di lingua tedesca comandati da un gentiluomo italiano e vestiti in una
foggia detta appunto all'alemanna; gli ufficiali di tale compagnia erano capitano, tenente,
preposto (seu profosso), tre caporali, cappellano, tamburo, piffero, apposentatore maggiore
118
(seu maresciallo d'alloggio). Questi alabardieri alloggiavano in varie case non lontane dalla
reggia e ogni volta che arrivava a Napoli un nuovo viceré avevano diritto a un nuovo vestiario,
godendone anche altri personaggi che a detta compagnia erano amministrativamente
aggregati e cioè il Re dell'Armi (seu araldo reale), i sei trombetti di corte, l'orologiaio di corte e
il portiero dei continui o familiari di palazzo, detto anche Quintino, personaggio dalle ignote
incombenze collegate evidentemente alla presenza dei continui; erano questi ultimi, a cui
abbiamo più sopra già accennato, 100 gentiluomini che, come abbiamo già ricordato,
fungevano da guardie del corpo del viceré e che dovevano il loro nome dal dover essergli
continuamente al fianco, anche se non sappiamo con quale turno si alternassero in questo
compito; costoro, i quali una volta erano andati armati di balestra, saranno però presto, cioè
con real ordine del 4 novembre 1681, ridotti a 50. Il capo di detti continui era chiamato Il
Guidone, in considerazione che portava appunto lo stendardo del viceré quando questi
assumeva il suo ruolo bellico di capitano generale dell'esercito del regno.
Ogni anno, come abbiamo già detto, si arruolava poi fanteria ordinaria regnicola, la
quale era però unicamente destinata a essere mandata a servire all'estero o a integrare le
guarnigioni spagnole dei Presidi di Toscana. A proposito di queste leve di fanti regnicoli così
si legge nella suddetta relazione:
La leva di fantaria Napolitana, o sia italiana, si regola da’ signori viceré secondo li bisogni che
tengono d'essa e conforme l'ordini che se li danno da Sua Maestà, (il) che siegue quando più
e quando meno: però sempre se va levantando in esta città e per il regno e li soldati levantati
e che si vanno levantando si soccorreno a un carlino per ciascuno il giorno e si tengono
dentro del regio arsenale; e, quando bisogna mandarli dove ricerca il bisogno della real
corona, se ne formano le compagnie e terzi e il medesimo pie’ come d'infanteria spagnuola,
però senza li gratis né le vantagge...
Per inciso, un carlino era un quinto del ducato di Napoli e valeva 20 grana, essendo
questi ultimi i centesimi del ducato; insomma equivaleva a quella moneta che più tardi in Italia
sarà chiamata il ventino. Era una moneta molto corrente e usata e con essa si misurava
generalmente la vita economica giornaliera della gente comune, ma nei conti ufficiali, come
frazioni di ducato, si usavano quasi sempre invece i reali, essendo un reale un decimo del
ducato così come anche dello scudo di Spagna o ducato castigliano; quest’ultimo però valeva
circa il 10% di più del ducato di Napoli e infatti nel 1671 si cambiava a 11 reali di Napoli e non
a 10 e il reale castigliano valeva grana di Napoli 11¼.
Lo stato maggiore della fanteria del regno comprendeva un mastro di campo generale,
figura questa che era per importanza subito dopo il capitano generale, cioè dopo il viceré, il
quale ereditava questo titolo dal gran capitano Consalvo de Cordoba, e quindi in effetti, oltre
a comandare la fanteria italiana, comandava tutto l'esercito eccezion fatta per il terzo fisso
degli spagnoli che non poteva prendere ordini da un italiano che non fosse perlomeno grande
di Spagna; comprendeva inoltre tre tenenti di mastro di campo generale, di cui uno
soprannumerario e tra i quali alla fine del 1681 uno risultava essere lo spagnolo Pedro de
Acuña, e quattro aiutanti di detti tenenti, di cui due soprannumerari. Generalmente si faceva in
modo che i predetti alti ufficiali fossero per metà italiani e per il resto spagnoli.
Molto interessante è la complessa pianta del treno dell'artiglieria, il cui generale era
allora fra’ Titta Brancaccio, ma godeva dello stesso titolo, anche se senza comando, un altro
Brancaccio anch'egli cavaliere di Malta e cioè Gioseppe, il cui grado di parentela con il
precedente non conosciamo; godeva poi soldo un terzo generale, ma questo ad honorem.
Seguono poi due tenenti generali, un capitano dei cavalli, un capitano della scuola
119
d'artiglieria, due gentiluomini, un capomastro di casse e ruote (ossia un marangone d'affusti),
due armaroli, due aiutanti d'armarolo, un capitano dei petardi e trabucchi seu mortari, un
mastro della scuola d'artiglieria, 11 artiglieri e una compagnia di 150 scolari d'artiglieria, i
quali ultimi non godevano soldo, ma subentravano ai predetti artiglieri non appena le piazze
(ossia i posti) di costoro si andassero liberando e allora si trasferivano dove il regio servizio
richiedesse. Aggregati al treno d'artiglieria c'erano poi un tenente di mastro di campo
generale - in modo che il mastro di campo generale potesse esercitare su tale treno un certo
controllo - e infine, per mercé concessa dal re, un aiutante del mastro di campo del Castel
Nuovo con il soldo di tre scudi il mese; era quest'ultimo evidentemente uno dei tanti ufficiali a
cui era concesso nell'anzianità un vitalizio sotto forma di soldo regolare a carico di un corpo
dell'esercito o di un presidio e, d'altra parte, tramite costui anche il mastro di campo che
comandava il predetto castello, il quale includeva la Regia Monizione e la fonderia
dell'artiglieria, poteva in tal modo avere un suo osservatore nel treno dell'artiglieria. Ai due
fonditori della Regia Fondizione dell'Artiglieria si fornivano gratis solamente il metallo - con
un’ammissione del 12% di sfrido - e le vecchie antenne di galera che essi usavano come fusi
per le forme dei cannoni, restando a loro carico tutti gli altri materiali occorrenti alla
fondizione, come creta, legna, carboni, cimatura, manifattura degli stigli, ecc.; alla fondizione
si appaiava la fabbrica di casse e ruote per artiglieria, cioè degli affusti.
La cavalleria territoriale detta della Sacchetta era ora formata da 3.500 carabinieri a
cavallo suddivisi in varie compagnie, i cui ufficiali erano per ognuna capitano, tenente, alfiere
e trombetta; la fanteria territoriale detta del Battaglione contava invece ora 17.000 fanti armati
all'antica d’archibugi, moschetti e picche ed erano suddivisi in compagnie i cui ufficiali erano,
per ognuna d'esse, capitano, alfiere, sargente e altri minori.
La squadra di mare consisteva in quel tempo in otto galere sulle quali, oltre alla
marinaresca e ai remiganti, erano imbarcate tradizionalmente compagnie del terzo fisso
spagnolo in funzione di fanteria di marina; le dette galere portavano i seguenti nomi:
Capitana.
Patrona (‘vice-capitana’).
S. Gennaro.
S. Antonio.
S. Gioacchino.
S. Fernando.
S. Teresa.
S. Francesco d'Assisi.
Per quanto riguarda le caratteristiche tecniche, l'armamento e l'equipaggio di queste
galere, cercheremo più avanti, se ne avremo il tempo, di farne cenno, ma si tratta di materia
che difficilmente si può compendiare in poche righe.
C'era ancora il personale dell'arsenale, della Regia Monizione in Castel Nuovo e della
Regia Generale Audienza dell'Esercito. Quest’ultima era il tribunale della giustizia militare, a
cui erano soggetti tutti i militari del regno, soldati od ufficiali, di terra o di mare che fossero;
era presieduta dall’Auditore Generale, anch’egli giudice togato, il quale per antica
consuetudine teneva le udienze a casa sua. Facevano unica eccezione i militari del terzo
fisso degli spagnuoli, i quali, per antico privilegio, avevano un loro particolare auditore, pur
facendo costui parte della stessa suddetta Regia Generale Audienza, e avevano inoltre, gli
spagnoli residenti nel regno, anche un carcere e un ospedale a loro riservati e detti ambedue
di S. Giacomo, sebbene nel secolo precedente i soldati spagnoli malati fossero potuti andare
120
a curarsi anche nell’ospedale detto della Vittoria, dove esercitavano medici salariati dallo
stesso tercio. Anche della predetta audienza facevano parte un avocato e un procuratore de’
poveri, istituzione benefica questa per la difesa di ufficio dei poveri soldati che non potevano
permettersene una a pagamento e che esisterà a Napoli sin quasi ai nostri giorni, a spese ora
del Ministero della Difesa, ma estesa anche ai poveri civili con il nuovo nome di avvocato
dell’Albergo dei poveri; c’erano ancora un secretario, un chirurgo maggiore, il quale doveva
fare evidentemente anche da medico legale, e poi ancora un carceriero, due algozini
(‘questurini’) e infine un capitano di campagna (profosso maggiore) del predetto auditore del
terzo con i suoi otto soldati, insomma la polizia militare del tempo.
Le forze militari del regno terminavano con i presidiari di castelli e fortezze e con i
torrieri, a cui ultimi si affiancavano nella sorveglianza costiera le sopra guardie delle marine,
generalmente da una a quattro uomini armati e montati per ogni provincia. C'erano infine i
capitani d'artiglieria provinciali e, nelle città più importanti, il capitano a guerra, ossia l’autorità
militare del luogo.
A febbraio un terzo di fanteria napoletana si trovava a Finale sotto un mastro di campo
di casa Caracciolo e non poteva trattarsi che dei 608 soldati che aveva levato ultimamente in
regno, anche in questo caso con il contributo reale di cinque ducati a uomo, il mastro di
campo Gioan Battista Caracciolo per reclutare il suo terzo, allora l’unico napoletano che
serviva nell'esercito di Milano, in considerazione che quello che stava invece
contemporaneamente levando il suo suddetto congiunto marchese di Torrecuso non era
ancora compiuto; ricevé il Caracciolo anche un abbuono corrispondente al valore di 44 vestiti
di monizione di una partita di 52 che aveva ricevuto e il prezzo d’ogni vestito da fante risultò
essere ducati 6. 1. -. Da una dettagliata relazione sull'esercito dell'Alta Italia datata 3
settembre 1681 risulta che il suddetto terzo era allora costituito da 15 compagnie per un totale
complessivo di 1.427 uomini tra soldati, ufficiali minori, ufficiali di prima piana, ossia maggiori,
e ufficiali riformati aggregati al terzo. Si usava allora infatti accollare alla cassa di un
reggimento o d'altro corpo il peso degli emolumenti - od almeno del pane di monizione - che si
concedevano a ufficiali riformati, anche se provenienti da altri corpi, e ciò finché questi non
fossero impiegati nuovamente in servizio effettivo.
Corrieri giunti alla fine di marzo portarono la notizia che il napoletano Tomaso Brunetti
era stato fatto mastro di campo generale dello Stato di Milano; il 22 aprile si seppe invece che
il viceré aveva ordinato al capitano di fanteria spagnola Andrea de Verdeguez di portarsi con
la sua compagnia di 130 uomini a Vieste per vigilare su quelle marine e allo stesso scopo,
ossia a causa dell’allora concreta minaccia di sbarchi dei corsari turco-barbareschi, altre
compagnie sia di fanteria spagnola sia di cavalleria furono poi inviate sulle coste pugliesi nel
maggio. Frattanto nello stesso aprile era stato nel Milanese riformato il terzo napoletano del
già nominato marchese di Montepagano, il quale l'aveva là condotto tempo addietro
direttamente dal regno.
Il predetto nuovo terzo del marchese di Torrecuso, il quale era alloggiato a S. Maria di
Capua (oggi S. Maria Capua Vetere), fu trasferito a Napoli alla fine di giugno e poi lunedì 7
luglio fu vestito a nuovo, l’8 fu armato, sabato 12 squadronato nel borgo di Chiaia e passato in
rassegna al cospetto del viceré:
Detto terzo è ‘sì numeroso di 2.000 huomini, tutta bella gente, bene all’ordine e assai atta
all’armi, per essere stata in continuo essercizio militare.
Anche il nunzio apostolico di Napoli, in suo dispaccio a Roma del primo luglio, aveva
definito questi soldati di nuova leva gente assai buona. In effetti il Caracciolo aveva arruolato
121
solo 1.186 soldati, leva per cui aveva anche ricevuto, come da capitolazione, il contributo di
uso della Cassa Militare, cioè cinque ducati a coscritto, come si leggerà in una registrazione
di cassa militare dell'anno seguente (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352); il resto dei fanti dovevano
quindi essere quelli raccolti invece dal sargente maggiore dell'arsenale Diego San Martín, il
quale infatti , oltre a ricevere capitolazione per il reclutamento di otto compagnie di cavalli
corazze dismontati da inviare nello Stato di Milano, anche in questo caso a cinque ducati
l’uno, aveva ricevuto patente dal viceré di levare pure mille fanti, ma non perché se ne
servisse per formarne un suo un nuovo corpo autonomo (ib.) Il partito del vestiario per questo
tercio, cioè di 2mila vestiti all'italiana, era stato stipulato il 22 aprile di questo 1681 con il
partitario Domenico Testa.
Passato dunque in rivista, il terzo del Torrecuso fu nello stesso giorno immediatamente
imbarcato su quattro vascelli genovesi arrivati nel corso del mese precedente, uno di cui si
chiamava Arca di Noè, e un petacchio, con l'accompagnamento di due tartane, una carica di
provvisioni e l’altra dei cavalli del Torrecuso, infine la sera di martedì 15 partì verso la
Catalogna. I predetti vascelli giungeranno a Barcellona dopo 19 giorni di viaggio e con la
perdita di soli cinque uomini, il che costituiva un vero record di sopravvivenza per i trasporti
marittimi militari di quei tempi.
A proposito dell’arroganza degli alabardieri svizzeri della guardia del viceré di cui
abbiamo detto nella nostra introduzione, ecco un episodio del settembre (o forse del
dicembre) di questo 1681 riportato dal Confuorto nei suoi Giornali:
A’ 17 detto (‘settembre’), mercordì, è stato ucciso al ponte della Maddalena con archibugiata
un tedesco della guardia di Sua Eccellenza da uno sbirro o soldato della paranza (‘squadra,
schiera’), per causa che il tedesco, volendo entrare certa farina senza pagare la gabella e li
sbirri facendoli forza che tornasse indietro a pagarla, il tedesco non solo non volse ciò fare,
ma con imperio diede con l’asta dell’alabarda una bastonata a uno di quei sbirri, del che un
altro (g)li tirò un’archibuggiata e l’ammazzò; dal qual omicidio tutti quei della paranza fuggirono
via.
Qui s’intende la squadra dei birri della farina, ossia quelli preposti alla dogana dove si
doveva appunto pagare il dazio per l’introduzione di detta derrata. Un avviso da Genova del
10 ottobre segnalava l’arrivo a Finale di una nave napoletana carica di provvisioni da guerra
destinate allo Stato di Milano. A seguito di un perentorio ordine reale del 4 novembre si
dimezzarono le piazze dei continui e pertanto si ridussero a 50, di cui dieci sarebbero stati
pagati dal viceré e 40 direttamente dal re, potendo così il sovrano esercitare loro tramite un
controllo diretto e continuo sulla stessa vita privata del viceré. Questo ridimensionamento era
stato ordinato più volte nel passato dalla Corte di Madrid, ma tale disposizione non era mai
stata osservata da quella di Napoli, la quale evidentemente intascava da sempre i lauti
stipendi delle tante piazze di quella compagnia esistenti solo sulla carta; per esempio l’ordine
in questione era stato dato già il 31 ottobre 1619 e poi più volte ribadito in data 9 maggio
1628, 7 aprile e 13 giugno 1629, 21 agosto 1637, ma sempre disatteso. Ora finalmente
Napoli ubbidiva, ma le ruberie, pur ridimensionate, sembra proprio che continuassero; certo è
che l’anno seguente dagli esiti di cassa militare apparirà che in realtà allora si pagava lo
stipendio a soli 25 continui - a ducati 186 l’anno ciascuno, dieci dei quali però sempre a
carico del viceré (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
Verso la metà di novembre morì un capitano di cavalli corazze e alla capitania della sua
compagnia fu promosso un capitano di fanteria; negli stessi giorni tornò dalla sua visita
ispettiva ai Presidi di Toscana il generale dell’artiglieria Giovann’Antonio Simonetta Pons de
122
León marchese di S. Crispiero, detto il Santa Cristina, pur essendo a Orbitello un assistente
dell’artiglieria fisso con uno stipendio di 138 scudi castigliani al mese (A.S.N. Tes. Ant. Fs.
352).
Per quanto riguarda i napoletani impegnati in Fiandra in questo periodo, c’è da ricordare
che con patente dell'8 dicembre di questo stesso 1681 il governatore Alessandro Farnese,
principe di Parma, nominò il napoletano Francesco di Gennaro, figlio di un fratello del già
nominato Marc'Antonio, mastro di campo del terzo italiano di Fabio Buonamico, essendo
questi infatti stato frattanto promosso governatore della città di Ruhrmunde. In seguito,
divenuto governatore dei Paesi Bassi il marchese di Grana, Francesco di Gennaro sarà da
costui mal visto e alla fine riformato; egli si recherà pertanto a Madrid per esporre le sue
rimostranze e il re gli ripristinerà il soldo di mastro di campo nell'attesa che tale incarico
vacasse in un terzo italiano per poterglielo così effettivamente assegnare di nuovo. Nel
frattempo (siamo ora nel 1684) egli si unirà al suo ex-mastro di campo Domenico Pignatelli
dei duchi di Bellosguardo, marchese di S. Vincenzo, e resterà in quel principato per più di sei
anni; farà poi ritorno a Napoli nell'attesa di essere impiegato di nuovo in azioni di guerra.
Le leve a carico del Regno di Napoli in questo periodo furono però, a quanto sembra,
più numerose di quelle sinora descritte; ci sono infatti altre registrazioni di cassa militare del
1682 che testimoniano di una leva di soldati nazionali, ossia italiani, ma non napoletani, che
fu affidata al mastro di campo napoletano Vincenziello Gentile, il quale arruolò infatti 612 fanti
in Corsica, in Sardegna e a Piombino; ci fu infine un contributo di capitolazione pagato allo
spagnolo Pedro de Cardenas per una leva di due compagnie di cavalli corazze fatta dal suo
defunto genero colonnello Manuel de Castro. Non bisogna infatti dimenticare che in
quest'anno la Francia aveva ripreso le ostilità occupando Casale e Strasburgo e dando inizio
all'assedio di Lussemburgo.
1682. All'inizio di gennaio si sparse la voce che c'era ordine reale per una nuova leva di
fanteria napoletana, eventualmente anche impiegando a tal scopo i miliziani del Battaglione
fino a un massimo del 5% della sua forza totale, e giovedì 12 febbraio si dette difatti
ufficialmente il via a tale reclutamento, mentre nello stesso giorno passava a miglior vita il
mastro di campo del terzo fisso spagnolo. Martedì 3 marzo si trovava di passaggio a Napoli il
conte di Louvigny, governatore dell'armi di Messina, il quale era diretto a Milano dove andava
ad assumere il ben più prestigioso incarico di mastro di campo generale di quello stato,
impiego che evidentemente il sunnominato Brunetti aveva ricevuto solo pro interim.
Nello stesso predetto marzo il sargente maggiore Diego San Martín fu di nuovo
incaricato dal viceré marchese di los Vélez d'interessarsi dell'arruolamento; si trattava adesso
di levare nel regno, a spese dei baroni, otto compagnie di cavalleria non montata, di cui
cinque di 63 soldati e tre di 62, più 48 ufficiali tra bassi e alti; il viceré ne nomino i primi sei
capitani, cioè cinque regnicoli parenti stretti di titolati di prima sfera e uno spagnolo, già
attorno al 20 marzo. Queste compagnie saranno l'anno successivo spedite con molta urgenza
nello Stato di Milano; nel conto del vestiario di queste truppe alla data 13 luglio 1683 infatti si
scriverà:
... qualli vestite a 9 di febraio di questo anno Sua Eccellenza (il viceré) per la freta che ebbe
da imbarcare la cavalleria smontata ordinò al detto partitario dovesse adirittura consegnare li
detti vestiti alla capitani.
La prassi difatti voleva che i vestiti per i soldati fossero consegnati alla Regia Monizione
in Castel Nuovo, dove erano confrontati al modello colà esistente da esperti della
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corporazione dei cocitori; solo quando costoro avevano emesso una fede (attestazione) in cui
si dichiaravano i detti abiti esser di tipo e qualità conformi alla mostra (modello), allora si
poteva esitarli dalla monizione e distribuirli alle soldatesche. Questa cavalleria era smontata,
ossia era spedita via mare priva di cavalcature e ciò perché nelle galere non c'era posto per i
cavalli e in ogni caso pochi erano i legni allora disponibili che si potevano adibire a tale
trasporto; i soldati sarebbero stati montati in Lombardia e con ogni probabilità a spese della
cassa militare napoletana. Nello Stato di Milano da tempo ormai remoto esisteva, come
abbiamo già detto, un trozo fisso di cavalleria napoletana, il quale per esempio alla muestra
del 20 gennaio 1686 risulterà contare 35 ufficiali e 337 soldati e, a quella del 20 marzo 1690,
25 e 330, numero quest’ultimo poi sostanzialmente confermato nella rivista dell’ottobre dello
stesso anno e che salirà invece a 475 in totale al 28 novembre 1693 e ancora a 494 su nove
compagnie con la muestra del 13 ottobre 1694. Il 30 aprile 1691 otto compagnie delle dieci
che formavano il trozo saranno di stanza a Candia Lomellina (A.G.S. Papeles de Estado
Milán).
Contravvenendo per una volta alla nostra regola di non fare, per brevità, anche i nomi
degli ufficiali di compagnia, ci piace invece ora ricordare gli otto capitani delle suddette
compagnie di cavalleria, così come si rinvengono nel detto conto del loro vestiario, e si tratta
in massima parte, come si può vedere, d'ottimi cognomi napoletani:
Gioseppe Buscamarino.
Geronimo Pimentel.
Diego Valcarcel y Molina.
Gioan Battista (Titta) Brancaccio.
Antero de’ Medici.
Ciarletta Caracciolo.
Giacomo Filomarino.
Antonio Pappacoda dei principi di Trigiano (oggi ‘Triggiano’).
Nel Milanese il Caracciolo e il Brancaccio faranno una non veloce carriera; il primo
diventerà, come vedremo, mastro di campo e il secondo colonnello, nomina che gli sarà
conferita da Filippo V nel novembre del 1702 con soldo da pagarsi però nella città di Napoli; il
Pappacoda, come presto vedremo, diventerà anch’egli mastro di campo, ma morirà d’infermità
appena nel 1993. Queste otto compagnie, passate in rassegna nel Milanese nel giugno del
1684, avranno gli stessi capitani originari, salvo quella d'Antero de’ Medici che sarà invece
allora capitanata da Diego Velasquez; le stesse comunque non saranno però
sorprendentemente provviste di cavalcature se non circa due anni dopo e saranno quindi a
lungo utilizzate appiedate; così infatti fa capire un avviso bolognese che riporta una
corrispondenza da Milano del 10 gennaio 1685:
Milano. (om.) resta risoluto di montare quelle milizie che già due anni furono qui da Napoli, che
saranno circa 800 uomini...
Prevedendosi di mandare nel prossimo futuro numerose soldatesche di nuova leva in
Lombardia, fu fatto ad aprile partito (‘appalto’) per la fornitura di ulteriori 4mila vestiti militari; il
viceré aveva inoltre già fatto altro partito per l’invio a Milano di 170mila ducati da impiegarsi
per spese militari e si diceva ne avesse poi fatto anche un terzo per altri 30mila da pagarsi
colà ogni mese per le esigenze correnti; se dunque Milano, a causa della sua posizione
geografica, era quella che sosteneva l’urto materiale e gli aspetti più tragici dei conflitti
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europei a cui la Spagna partecipava, per quanto riguarda il carico finanziario degli stessi
Napoli non le era certo da meno. Sembra poi che in questo periodo siano state reclutate
anche cinque compagnie di corazze montate per un totale di 26 ufficiali, 405 soldati e 376
cavalli, cifre che risultano da un non chiaro documento d'archivio, ma bisogna dire che in
effetti il numero di soldati riportato risulta eccessivo per sole cinque compagnie; una di queste
sarebbe stata formata da Juan Cruzit y Varcarzel. Dovrebbe trattarsi di altre compagnie di
quella cavalleria detta di nuova leva di cui abbiamo già detto e in tal caso dovevano
essercene state sino a questo momento solo due, perché da un ordine reale del 1° ottobre di
quest’anno apparranno essere sette in totale e con uno stato maggiore capeggiato da un
tenente generale.
Verso la fine di aprile fu varata a Napoli la nuova galera destinata per Patrona, ossia per
vice-Capitana della squadra del regno; un interessante documento della cassa militare
(A.S.N. Tes. An. Fs. 143 I) ci fa poi sapere di una consegna d'armi fatta il 15 maggio alla
Regia Monizione, in osservanza di un contratto stipulato con lo stesso viceré dal fornitore
Geronimo Angelini circa un anno e mezzo prima, cioè il 7 dicembre 1680; ecco quanto fu
fornito in quell'occasione e i relativi prezzi:
260 para di pistole a ducati 5 il paro.
360 carabine a ducati 4 l'una.
600 moschetti guarniti a ducati 3 l'uno.
230 archibugi guarniti a ducati 2 l'uno.
Si trattava d’armi da inviare a Milano in previsione di una prossima guerra e c'è qui da
notare, oltre al gran tempo trascorso tra ordine e consegna, l'uso che ancora si faceva nel
Regno di Napoli e in quello di Sicilia di moschetti e archibugi tradizionali, mentre nel resto
d'Europa in luogo di questi si usava già da tempo solamente il moschetto leggiero di cui
abbiamo più sopra detto; aggiungeremo infine che per moschetti e archibugi guarniti s’intende
corredati di fiasco per la polvere, di fiaschino per il polverino d'innesco e talvolta anche di
borsetta per le palle.
Nel maggio il di Los Vélez si recò in viaggio in Puglia, evidentemente a scopo di animare
le difese predisposte in quelle coste contro non improbabili altri attacchi turcheschi ed era
accompagnato dal capitano della sua guardia, cioè dal principe di Cellamare di casa del
Giudice, dall’auditore generale dell’esercito e da altri alti ufficiali militari. La mattina di lunedì
primo giugno furono passati in rivista e subito rinchiusi nell'arsenale 450 fanti di nuova leva
che erano stati raccolti nei modi consueti; nella notte tra lunedì 27 e martedì 28 luglio costoro
furono imbarcati insieme con 400 spagnoli su le otto galere napoletane e su tre del duca di
Tursi; gli spagnoli erano, come sembra, destinati di guarnigione alle stesse otto galere
napoletane. Questo convoglio avrebbe dapprima sostato ai Presidi di Toscana, poi avrebbe,
come si diceva, portato i predetti fanti regnicoli a Finale perché di là fossero infine avviati
all'esercito di Lombardia, esercito di cui si era in tal mentre tenuta una mostra generale a
Milano il 6 giugno e, dalla relazione della stessa, risulta allora esservi impiegato il terzo
napoletano del mastro di campo Gioan Battista Caracciolo, terzo che disponeva di 15
compagnie, di cui due di guarnigione a Finale Ligure, per un totale di 1.300/1.380 uomini tra
ufficiali e soldati.
Nel settembre si seppe che il mese precedente un’armata francese comandata
dall’ammiraglio du Quesne aveva pesantemente bombardato Algeri con un nuovo tipo di
galeotte armato di mortari da bombe, come abbiamo già più sopra ricordato, e quella sino
allora impunitissima città pirata si era salvata da una completa distruzione solo perché una
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sopraggiunta burrasca aveva costretto il du Quesne a ritirarsi; ma i francesi si ripeteranno
nell’estate dell’anno successivo provocando alla città barbaresca distruzioni ancora più
grandi.
Era in quel tempo capitano generale della cavalleria dello Stato di Milano un napoletano,
Gioseppe Dazza, a cui, nella sua qualità di generale, spettava anche il capitanato di una
compagnia e la sua, non costituita da napoletani, contava sette ufficiali e 153 soldati tutti
montati; il Dazza resterà capitano generale per lungo tempo e cioè sino al 1694, sebbene già
dal 1693 sarà definito con nuovo titolo generale della cavalleria leggiera, specialità questa per
la quale è necessario dare qualche chiarimento perché, come tutte le parole, definizioni e
concetti che nel corso dei secoli hanno perso il loro significato originario, è causa d’infinite
discussioni interpretative, anche se non è questo il luogo per trattare dell'evoluzione
precedente della cavalleria europea, processo che dal Quattrocento al Settecento fu difatti
piuttosto complesso. Basti sapere che l’uso dell’aggettivo leggiero in cavalleria nacque in
riferimento al tipo di armamento difensivo; quindi in ogni epoca si definì cavalleria leggiera
quella che portava armamento difensivo appunto molto più leggero di quello usato dalla
cavalleria detta ‘pesante’, in quanto difesa invece da spesse armature a prova d’arma da
fuoco, o che addirittura non ne portava affatto e ciò indipendentemente e dal tipo d'armi
offensive in sua dotazione e dai suoi ruoli operativi; erano dunque cavalleria leggiera tutte le
cavallerie europee a eccezione dei lancieri detti huomini d’arme e dei pistolieri detti prima
raitri, poi cavalli corazze e infine corazzieri. Questo semplice concetto si incominciò a perdere
all’inizio del Settecento, quando cioè un’altra innovazione francese si affermò in tutt’Europa,
anche se con una minor influenza nella parte soggetta a Vienna; i transalpini infatti avevano
sostituito quasi tutta la loro cavalleria pesante di linea di battaglia, fatta di corazzieri, con
cavalleggeri privi di qualsiasi armamento difensivo metallico, armamento ormai privo d’utilità,
non dividendosi dunque più la loro cavalleria ordinaria (non parliamo dunque di quella della
guardia reale) in corazzieri e dragoni bensì ora in cavalleggeri e dragoni. Poiché però pure i
dragoni erano una cavalleria leggera in quanto anch’essi privi di armamento difensivo, la
originaria definizione di leggera riferita alle consistenza delle armi difensive fu presto
dimenticata e, quando Napoleone farà tornare in auge i corazzieri, l’aggettivo in questione
s’intenderà ormai riferito ai compiti operativi e non più all’armamento difensivo.
Il nuovo cavalleggero alla francese vestiva in guerra un co(l)letto o bufalo, cioè un
giustaccorpo di pelle di bufalo o di cervo con maniche di une pelle più morbida, cioè in genere
daino od alce; questo indumento, a parte il materiale di cui era fatto, era praticamente dello
stesso modello della nuova marsina di panno, militare e civile, di cui abbiamo già detto e su di
essa si portarono dapprima tracolla porta-spada e bandoliera porta-moschettone e portagiberna, anch’esse di pelle di bufalo, ma poi, non ostando che questi cuoiami avessero anche
una funzione difensiva del petto, la prima fu abbandonata per il più pratico cinturone di bufalo
- il che in Francia fu ordinato nel 1684 (Manesson Mallet), cinturone a cui si appendeva sulla
sinistra la spada o sciabola e sulla destra la giberna contenente sia le cartucce per il
moschettone sia quelle per le pistole. Si trattava di rotolini di carta reale (‘carta forte’) dello
stesso calibro dell’arma a cui erano destinate e contenenti sia la dose di polvere sia in cima la
palla; il soldato ne rompeva la base inferiore con i denti e ne faceva scorrere il contenuto –
quindi prima la polvere e poi la palla - nella canna dell’arma, utilizzando infine anche la carta
come stoppaccio. Infine, a titolo sia difensivo che sanitario, il cavalleggero aveva alti stivali
con speroni e ginocchiere. L’armamento offensivo consisteva invece in un moschettone,
anche questo termine francese con senso diminutivo ( e non accrescitivo!) di mousquet, in
considerazione che era arma un po’ più corta di quella di fanteria, infatti mentre il moschetto,
messo in piedi, arrivava all’ascella del soldato, il moschettone gli arrivava appena sotto il
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cuore e bisogna anche tener conto del fatto che generalmente i soldati di cavalleria leggera
erano scelti tra i più piccoli, perché non dovevano gravare troppo sugli animali, i quali non
erano più i grossi corsieri che avevano usato i vecchi lancieri pesanti; poi il cavalleggero
aveva un paio di pistole da fonda e una spada o sciabola, ma più tardi si opterà per la
seconda perché il contrasto ‘di punta’ alla cavalleria nemica, lo scontro fisico insomma, non
era compito dei cavalleggeri, bensì allora ancora dei corazzieri.
In ogni compagnia di cavalleggeri c’erano un paio di carabinieri, ossia di soldati più
esperti, più abili bersaglieri e di conseguenza meglio pagati, i quali, invece del moschettone
avevano appunto una carabina a canna rigata e a caricamento pressato, cioè pressandovi
dentro la carica con un bacchetta di ferro, che quella normale di legno si sarebbe in questa
operazione facilmente spezzata
In Francia il comandante della cavalleria leggera si chiamava invece colonel general de
la cavalerie legere, il suo secondo era il mestre-de-camp general e il suo terzo il commissaire
general de la cavalerie legere.
Un ordine reale del 1° ottobre ordinava l’estinzione della compagnia di lance della
guardia del viceré, trattandosi di soldati dall’armamento e dalla tattica ormai obsoleti, ma non
estingueva l’imposta di 13.295 ducati annui che costava il suo mantenimento e che era a
carico delle università (‘comunita’) di Terra di Lavoro, pertanto detto importo sarebbe stato da
ora in poi introitato dalla Cassa Militare senza una specifica destinazione; ma tutto ciò non
sarà eseguito prima di circa otto anni dopo, cioè nel 1690, per i motivi che a suo tempo
spiegheremo. In effetti, dagli esiti di cassa militare di quest’anno sappiamo detta compagnia
doveva essere molto costosa perché in essa prendevano soldo senza obbligazione
d’assistere al stendarde, cioè senza obbligo di presenza, parecchi ufficiali aggiuntivi, 15 nel
1682 (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
Lo stesso ordine inoltre riduceva alla metà la fornitura di utensili alla cavalleria. Alla fine
d'ottobre il viceré dette a Cecco Caracciolo marchese di Grottola patente di mastro di campo
di un terzo di nuova leva che si stava completando e che, si diceva, sarebbe anch'esso stato
spedito a Milano. Di passaggio per Napoli e pure destinate in Lombardia, lunedì 9 novembre
ripartirono su 14 tartane facenti rotta per Procida le soldatesche del reggimento alemanno
che era rimasto in Sicilia sin dal tempo della guerra di Messina e che ora s’inviavano nello
Stato di Milano; nello stesso novembre si terminò la leva d’un nuovo terzo regnicolo, del quale
era stato fatto mastro di campo il già più volte menzionato Cecco Caracciolo marchese della
Grottola, e di otto compagnie di cavalleria smontata, tutta gente destinata anch’essa a essere
inviata in Lombardia; sembra che i primi 500 fanti del terzo del predetto marchese siano stati
poi spediti su un vascello inglese noleggiato allo scopo tra la fine di gennaio e l'inizio di
febbraio dell'anno seguente.
Martedì primo dicembre, in occasione della mostra che la cavalleria di guarnigione a
Napoli dava appunto ogni primo giorno del mese, si sentiva che si sarebbero riformati due dei
capitani delle sue compagnie e cioè Pietro Bondia ed Emanuele de Agira.
1683. Nell'ultima decade del gennaio il viceré pretese dai comandanti militari della
guarnigione di Napoli il ruolo aggiornato dei loro soldati effettivi, cioè depurato dalle
cosiddette piazze morte, ossia dalle pensioni date ad anziani non più abili od anche a vedove
o figli di militari morti in servizio. Nel marzo si andavano assoldando nuovamente fanterie
regnicole e questa volta per ripristinare le guarnizioni (‘guarnigioni’) delle galere del duca di
Tursi e dei vascelli dell'armata reale oceanica, fanterie di marina tradizionalmente
napoletane, e inoltre per rinfoltire i ranghi del terzo di Marino Carafa che operava in
Catalogna; a tal scopo si facevano le mostre delle compagnie del Battaglione, da cui
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evidentemente si aveva intenzione d’attingere per completare la leva in questione. Nel
maggio si rifornivano le galere napoletane di tutto il necessario nell'eventualità di una
spedizione in aiuto dei genovesi, i quali temevano a ragione un improvviso attacco francese.
Nel corso di questo 1683 il viceré marchese di los Vélez lasciò Napoli e ne prese il posto
Gaspar de Haro y Guzman marchese del Carpio, il quale veniva da Roma dove sin dal 1677
era stato ambasciatore di Spagna. Tra il maggio e il luglio partirono a più riprese per
l'Abruzzo sei compagnie di fanti spagnoli e parecchie squadre di campagna, in
considerazione che quella provincia risultava infestata da un migliaio di fuorusciti e briganti. Il
maggior problema era rappresentato soprattutto dalle due grandi bande dei famigerati capibanditi Gioan Battista Colaranieri e Santuccio di Froscia; questi banditi, forti dei tanti
nascondigli che quella montuosa regione offriva, protetti da personaggi potenti, erano tanti
piccioli tiranni delle provincie e costituivano una democrazia di gente perduta, una republica di
scelerati (Filamondo). Questo giudizio, in cui al nome di tiranni vengono curiosamente
accomunate quelle di democrazia e di repubblica, ci fa nascere il sospetto che questi banditi
abruzzesi fossero perlopiù effettivamente tali e non comuni briganti, ma forse anche gente
animata da una qualche convinzione politica anti-spagnola.
All'inizio di giugno s’incominciò a sentire di un ammutinamento a Port'Ercole:
8 giugno. Furno d'ordine di Sua Eccellenza (il viceré) fatte armare tre di queste galere sin da
mercordì della scorsa settimana con tre compagnie nuove di soldati tutti vestiti di color
turchino, nell’(abito medesimo cioè) de’ soldati di Nostra Santità (il Papa), e ben armati
pigliarono la notte seguente il viaggio verso Porto Ercole per rimettere in quella piazza il
presidio a causa che quei soldati, doppo aver maltrattati - anche con morte d’alcuni - quelli
offiziali, abbandonarono la piazza (A.S.V. Nun. Nap. 95).
E’ questo dispaccio nunziale la prima corrispondenza a noi nota in cui si comunichi che
in questo 1683 la fanteria napoletana era stata per la prima volta uniformemente vestita di
blu, così come già lo erano i fanti pontifici, mentre fino allora detta fanteria era andata vestita
d’abiti di color grezzo o comunque di colori non uniformi. Avvisiamo inoltre il lettore che d'ora
in avanti non preciseremo più che, quando si parla di Sua Eccellenza, s’intende
esclusivamente il viceré, perché tale titolo onorifico era a Napoli - ma lo stesso avveniva a
Milano - dovuto solamente a lui e a nessun altro, così come Sua Santità è titolo ecclesiastico
riservato unicamente al Papa; quando infatti si voleva onorare un notabile diverso dal viceré,
si usava il titolo di Sua Signoria, eccezion fatta ovviamente per i cardinali (Sua Eminenza), per
il re (Sua Maestà), per il doge di Venezia (Sua Serenità) e per i principi e duchi, ossia per i
personaggi di sangue reale, (Sua Altezza).
Alla fine di giugno giunsero promozioni dalla corte di Madrid e si trattava della conferma
della carica di generale della milizia della Vecchia Castiglia al principe di Piombino,
protettorato questo del Regno di Napoli, e di conseguenza quella di generale della squadra di
galere di Napoli allo spagnolo Nicolás de Córdoba marchese de la Gransa.
All'inizio del mese seguente poi il viceré conferì al marchese Vitelli, ad usanza della
Regina di Svezia, un doppio comando e cioè sia quello della nuova galeazza fatta fare da Sua
Eccellenza, allestita di tutte le cose che gli bisognano e adornata di intagli indorati con le sue
bandiere sia quello della compagnia di fanteria che detto nuovo vascello guarniva; insomma
cominciava, appunto sull’esempio svedese, a configurarsi la marineria da guerra moderna,
nella quale non più c’era la distinzione tra comando del vascello e comando della sua
guarnigione di fanteria di marina, distinzione che aveva sempre provocato contrasti di
comando. Che a Napoli si costruissero ancora delle galeazze, dopo le famose quattro fatte un
128
secolo prima per l'Invincible Armada che aveva inutilmente tentato l'invasione dell'Inghilterra,
non risulta né dalle altre testimonianze né dai documenti d'archivio che ci è stato dato da
consultare e, d'altra parte, non ci risultano altri avvisi o dispacci in cui si accenni all'uso
operativo di tale vascello, la cui tipologia era in effetti a quest'epoca ancora apprezzata e
adoperata solo dalla signoria di Venezia.
Dichiarata dalla Spagna guerra alla Francia per opporsi alla sua politica annessionistica,
nel settembre giunsero a Napoli le galere e i velieri destinati a formare un’armata da tener
pronta per difendere Genova dalla temuta aggressione francese; si misero insieme dunque 27
galere e 22 velieri provenienti dalla Spagna e dalle altre province mediterranee soggette a
quella corona e le prime a giungere giovedì 2 furono cinque galere di Spagna e una di
Genova che portavano il predetto marchese de la Gransa, seguite dopo sei giorni da
un’armata spagnola consistente in 16 velieri da guerra e tre brulotti da fuoco. Quest’armata
salpò da Napoli una prima volta il 23 settembre, ma vi ritornò verso il 20 ottobre senza aver
avuto modo d'incontrare il nemico; il viceré ne fece sbarcare 600 fanti spagnoli, i quali
dovevano servire alla formazione di un secondo terzo fisso - questo però di milizie spagnole e
napoletane insieme - di cui un ordine reale imponeva la costituzione e che pero avrà
brevissima vita, cosa che non ci meraviglia dato l'utopistico connubio sul quale doveva
fondarsi. In quei giorni partirono insieme per la Spagna il vecchio principe di Montesarchio, il
quale, fedelissimo della corona, andava ad assumere un’ennesima nuova carica, e il mastro
di campo del terzo antico degli spagnoli probabilmente per reclutare questo suo prestigioso
corpo di fanteria.
Le leve di regnicoli che furono fatte per la predetta spedizione non sono riportate dai
cronisti del tempo con sufficiente chiarezza, né contribuisce a farvi piena luce uno strumento
del notaio Paolo Colacino rogato appunto in questo 1683 e che concerne un partito fiscale per
il reperimento di fondi destinati allo Stato di Milano e ai Presidi di Toscana; in particolare vi si
parla di denaro destinato al temporaneo mantenimento di gente di leva che si stava
imbarcando a Napoli per il Milanese e alla rimonta di cavalleria smontata che pure si stava
per imbarcare. In quest'anno furono comunque due i più importanti partiti del vestiario militare
e cioè uno per mille soldati italiani e 4mila spagnoli del terzo antico, come anche era chiamato
il terzo fisso di Napoli, e un altro di 1.170 vestiti per reclute regnicole che si trovavano
consegnate nell'arsenale di Napoli. Frattanto, nell'ultima decade d'ottobre avevano lasciato
Napoli via mare per la Spagna il mastro di campo del terzo fisso, il quale si diceva vi andasse
a far leva di fanti per completare il suddetto secondo terzo fisso o terzo nuovo, e Andrea
d’Ávalos principe di Montesarchio, il quale si diceva andava a ricevervi una nuova carica,
essendo la sua di capitano generale delle galere di Sicilia passata dal 18 luglio a Beltrán de
Guevara duca di Nájera, il quale lo manterrà sino a tutto il 1689, per poi passare l’anno dopo
a comandare quella più prestigiosa di Napoli e più tardi, cioè nel 1697, quella, sommamente
ambita, di Spagna.
Sabato 6 novembre, per festeggiare il compleanno del re, si mostrarono in pubblico corpi
militari con le nuove livree da pochissimo prescritte con un’ordinanza che non c'è giunta e che
era intesa a uniformare i colori del nuovo vestiario militare europeo che anche la Spagna
stava adottando, cioè la marzina (nap. giamberga) e i calzoni attillati al ginocchio. Gli abiti,
sino allora confezionati in varie fogge nazionali, erano sempre stati per lo più forniti ai soldati
in quel tradizionale colore bruno grezzo detto amusco in spagnolo e musco od anche
meschuglio in italiano; invece si videro quel giorno, squadronati nel largo del Mercato davanti
alla chiesa del Carmine, la cavalleria vestita di color violaceo, il terzo antico degli spagnoli di
rosso con risvolti gialli e, un terzo italiano di nuova formazione costituito da 500 fanti vestiti di
turchino e quello nuovo italo-spagnolo sbarcato dall'armata, dove gli spagnoli vestivano di
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rosso con risvolti verdi e gli italiani di turchino con risvolti rossi, mentre la guardia degli
alabardieri alemanni comparve ora vestita prevalentemente di giallo e non più di cremisi,
come era stato fino allora. Pertanto, poiché ormai, con l’affermarsi della detta marsina sia nel
vestire militare sia in quello civile, poteva generarsi confusione tra i due stati, una prammatica
del 29 ottobre precedente proibiva ai civili di sesso maschile di vestire nei predetti colori rosso
e turchino; ma per maggiori dettagli sull'argomento vedasi il nostro saggio Origine delle
uniformi nel Regno di Napoli, Roma, 1992.
Lunedì 15 novembre l'armata spagnola, non occorrendo evidentemente più il
concentramento navale che era stato raccolto a Napoli, salpò per la Spagna salutata dal
viceré in persona, il quale, evidentemente per sostituirvi i 600 uomini che le aveva sottratto, vi
aveva in precedenza fatto imbarcare i suddetti 500 fanti regnicoli in uniforme turchina, avendo
costoro però come destinazione ultima i presidi iberici, specie quelli della Catalogna; tra
questi erano 150 briganti abruzzesi i quali erano stati accordati a tal fine.
Sabato 4 dicembre, festa di S. Barbara, la compagnia dei bombardieri festeggiò a Napoli
questa sua patrona nei modi a lei tradizionali.
Il brigantaggio abruzzese era un’idra sempre rinascente e infatti a dicembre un’intera
compagnia spagnola fu in quella provincia trucidata dal capitano sino all'ultimo fantaccino. Il
viceré fu quindi costretto a ricorrere a mezzi e misure eccezionali e fece così subito partire da
Napoli, tra venerdì 24 e sabato 25, giorno di Natale, un terzo intiero di soldatesca spagnuola.
Si trattava evidentemente del terzo nuovo già privato dei suoi fanti italiani, in considerazione
che le compagnie di quello antico erano dislocate in luoghi molto diversi, anche nei Presidi di
Toscana, e non si potevano certo raccogliere tutte in breve tempo per mandarle in Abruzzo,
lasciando inoltre così tutto il resto del regno privo di questa fanteria spagnola che era il suo
baluardo difensivo più importante. Frattanto, nel precedente novembre, il viceré marchese del
Carpio aveva destinato governatore dell'armi in Abruzzo Gian Antonio Simonetta Pons de
Leon marchese di S. Crispiero; questi ottenne nella lotta al brigantaggio notevolissimi
successi contro tutte le bande che infestavano l'Abruzzo, per esempio contro quella del capobrigante Gioan Bernardino Durando, eliminò centinaia di malviventi e ne mandò 65 in catene
a Napoli, dove però non furono incarcerati nella Vicaria Criminale e poi giustiziati, ma furono
rinchiusi nell'arsenale, il che significava che si trattava di briganti accordati, ossia, come già
sappiamo, indultati a patto che accettassero di servire in guerra come ordinari soldati.
A un certo punto i banditi d'Abruzzo, incalzati senza sosta dalle milizie del S. Cristina, si
rinchiusero in Montorio, dove l'inflessibile marchese li cinse d'assedio, vinse la loro
resistenza, ne fece strage e inviò a Napoli un’altra catena di 60 di loro, i quali furono pure
rinchiusi nell'arsenale, evidentemente anch'essi accordati altrimenti ne avrebbe mandato
senz'indugio direttamente solo le teste; questi ultimi giunsero a Napoli sabato 15 maggio
condotti dal giovane Gioan Girolamo Acquaviva duca d'Atri, il quale, da non confondersi con i
principi d’Acquaviva (Salerno) della casata genovese dei de Mari, raccoglierà poi l'eredità del
marchese di S. Crispiero nella lotta al banditismo abruzzese. In quasi sette mesi di campagna
il S. Cristina uccise più di 350 banditi e ne accordò molti altri; gli sfuggirono invece i loro due
principali capi, il Santuccio e il Colaranieri (o Colarainieri), i quali, assieme a molti loro
compagni, andarono a mettersi al servizio della Signoria di Venezia, segnalandosi poi
grandemente nella conquista della Morea e nell'assedio di Negroponte. Venezia, poiché da
sempre sosteneva - segretamente, ma non troppo - questi fuorusciti d'Abruzzo, era costretta a
riceverli quando essi andavano a chiederle asilo politico, a patto però che accettassero
d’andarsene lontano a combattere per lei; infatti non pochi abruzzesi militeranno in Dalmazia
nell'esercito veneziano ancora nel 1694. Questi sviluppi dimostrano chiaramente che non solo
la Francia e lo Stato Ecclesiastico erano i manutengoli del brigantaggio abruzzese che tanto e
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per tanto tempo tormentò il Regno di Napoli e, se la Francia aveva i suoi ben noti motivi per
comportarsi ostilmente e se lo Stato Pontificio era da sempre stato filo-francese, diversi erano
gli scopi che Venezia perseguiva e cioè evitare di perdere peso politico e commerciale
sull'Adriatico - mare che i veneziani consideravano un Mare Nostrum e che difatti allora
ancora si chiamava Golfo di Venezia - tenendo il più possibile le forze della Spagna in Italia
meridionale impegnate in altre faccende.
Ottenuti i predetti buoni risultati, il viceré marchese del Carpio costituì e costruì negli
Abruzzi presidi e forti militari, tra cui il più importante era quello di Montorio al Vomano nel
Teramese, la cui costruzione inizierà nel 1686 e che era guardato da due compagnie di
fanteria spagnola mutate periodicamente; furono così finalmente liberate quelle province da
una tirannia criminale che era durata quasi settant'anni e che, dal momento che il banditismo
abruzzese aveva reso insicuri anche i tratturi, cioè le vie della transumanza pastorale
proveniente dalla Puglia, con continui furti di greggi e di proprietà di massari e pastori, aveva
di conseguenza molto danneggiato anche l'economia pugliese e le possibilità di gettito fiscale
della Regia Dogana di Puglia.
Nell’Europa orientale frattanto, con la vittoria di Kahlenberg avvenuta il 12 settembre, gli
imperiali di Carlo di Lorena e i polacchi di Jan III Sobiewski avevano rotto l’assedio che in
questo stesso anno i turchi erano venuti a porre a Vienna e, da questo momento sino al 1691,
gli ottomani subiranno poi ben altre 15 sconfitte, arretrando lentamente e gradatamente verso
i loro confini.
All’inizio di novembre la Francia aveva preso agli spagnoli le città fiamminghe di Kortrijk
e Diksmunde.
1684. Martedì 18 gennaio ebbero luogo le solite esercitazioni della cavalleria nel Campo di
Marte fuori Porta Capuana, esercitazioni a cui come sempre assisteva il viceré accompagnato
dalla sua compagnia di lance della guardia; in seguito un avviso di Bologna, riportandone un
altro da Roma del 29 gennaio, informò che il viceré di Napoli aveva dato le commissioni
(patenti) per la leva di due nuovi reggimenti di fanteria (‘terzi’) da mandare in Catalogna e ciò
perché si prevedeva che a breve - come in effetti succederà nel corso di questo stesso anno si sarebbe riaccesa la guerra contro la Francia, a cui la Spagna si sentì costretta a dichiarare
guerra perché la vedeva approfittare della pace per aumentare i suoi acquisti.
Nel marzo si dovettero spedire in Abruzzo, provincia confinaria dotata di siti difensivi
molto forti, ma infestata da banditi e briganti, altre compagnie poiché era giunta notizia che
costoro avevano ucciso 100 soldati e più di dieci ufficiali, tra i quali ben quattro capitani, in
quella che continuava quind’a presentarsi come una vera e propria piccola guerra.
(Napoli, 11 aprile:) Stanno allestiti e nuovamente vestiti da 400 e più soldati in questo
arsenale, che sopra le galere di Spagna che ancora stanno in questa darsena se ne farà
l’imbarco per portarli a’ Presidj di Toscana e in specie di quello di Porto Longone… (A.S.V.
Nun. Nap. 96)
In effetti presto si farà una muta completa delle guarnigioni di quei presidi, come si
faceva del resto generalmente due volte all’anno, una di questi tempi e l’altra verso ottobre;
anzi sembra che poi s’imbarcarono ben 1.500 soldati, ma, come abbiamo appena detto, erano
quelli tempi di nuove minacciose nubi di guerra; infatti all'inizio di giugno si ricostituì a Napoli
l'armata reale, convenendovi le squadre di Spagna, Sicilia e del duca di Tursi, e ne ripartì
nello stesso mese dirigendosi verso Genova, città che stavolta il 18 maggio, dopo aver
respinto l’intimazione di resa, era stata lo stesso giorno subito veramente attaccata
131
dall'armata di mare francese, forte di 20 galere, 15 velieri da guerra, quattro galeotte da
bombe e altri legni minori con un totale di 7 od 8mila uomini da sbarco; ma, sulla base di
valutazioni a noi ignote (forse perché conscia della propria inferiorità), anche questa flotta,
come la precedente del 1683, fu dirottata verso la Spagna dove sbarcò 1.100 soldati italiani
ossia regnicoli, i quali erano così destinati a reclutare i terzi napoletani che servivano in
Catalogna; tra questi c'era quello del mastro di campo Cecco Caracciolo marchese di
Grottola, corpo che però nel corso di questo stesso 1684 sarà trasferito dalla Catalogna al
Milanese, dove nel giugno risultò contare otto compagnie più la piana maggiore, e poi dalla
Lombardia sarà inviato in soccorso di Genova bombardata ferocemente dalle micidiali
galeotte a bombe francesi, le quali erano, come abbiamo già spiegato, dei piccoli vascelli
attrezzati a batterie galleggianti e armati di grossi mortari che lanciavano in continuazione
bombe e carcasse esplosivo-incendiarie sul disgraziato capoluogo ligure. Questo nuovo
sviluppo della guerra d’assedio, cioè il bombardamento intensivo con i mortari dei civili, tetro
precursore di immani tragedie come quelle di Dresda, Hiroshima, Nagasaki e tante altre, fu
allora anche crudamente teorizzato dai francesi, come per esempio si legge nel trattato del
Manesson Mallet (p. 267,Tomo III):
... Questa maniera di fare la guerra è ottima per rendersi padroni di grandi città in poco tempo
(om.) poiché non ci sono abitanti, per quanto zelanti siano verso il loro principe, che non si
rivoltino e non massacrino la guarnigione per sottomettersi a colui che li attacca, vedendo le
loro case e i loro beni divorati dalle fiamme, le loro mogli e i loro figli schiacciati dalla caduta e
dalla distruzione delle bombe ed essi stessi ridotti alla mercé di tutte quelle funeste disgrazie.
Fermo restando che, contro Algeri e le altre città barbaresche, non c’era certo altro
modo efficace di agire per difendersi dalle pressoché millenarie e continue devastazioni
portate dalla loro intollerabile guerra di corso anti-cristiana, l’aver usato questi sistemi anche
contro città a pochi passi dai confini francesi, come Lussemburgo, Genova e Bruxelles,
induce a pensare che la grande rivoluzione che un secolo dopo cambierà la Francia con i
suoi nuovi ideali umanitari si sia presentata con grande ritardo. Del risolutivo intervento dei
napoletani del marchese di Grottola in soccorso di Genova si legge in un avviso bolognese
riportante a sua volta una corrispondenza da Genova del 27 maggio, cioè del tempo in cui
questa città era sottoposta a blocco marittimo dalla flotta francese:
... tentarono i francesi di calar in terra per far acqua dalla parte di Bisagno, ma vi trovarono
tanto fuoco che non gli sortì il disegno. Fecero poi lo stesso a S. Pier d'Arena e invero
avevano messo in fuga alcune truppe genovesi che v'erano, ma, sopragiunto il terzo de’
napoletani, scacciarono i francesi che già avevano piede a terra con morte di 60 di loro, fra’
quali monsù de la Motte e diversi altri prigioni, e fra questi un cavaliere di Malta, non essendo
de’ napoletani morti che 17.
Infatti fortunatamente, tra italiani e spagnoli, si era riusciti a far entrare in città soccorsi
per circa 3mila uomini; ma, non ostanti le suddette valorose azioni difensive dovrà poi
Genova, dopo nove giorni di micidiali e molto distruttivi bombardamenti, accettare una pace
umiliante, mentre la Francia otteneva anche più importanti successi bellici ai suoi confini
nord-occidentali e i suoi eserciti occupavano importanti città come Treviri e Lussemburgo. Si
distinguevano frattanto in questo stesso anno, per il loro valore nella difesa di Gerona in
Catalogna assalita senza successo dai francesi il 24 maggio, il già menzionato marchese
Domenico Dentice, capitano di cavalleria a cui era stato affidato però il comando di un intero
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squadrone, e gli altri napoletani Antonio Mastrocuccio, aiutante reale, e Domenico Pignatelli
dei duchi di Bellosguardo, marchese di S. Vincenzo, il quale sarà il napoletano dalla più
prestigiosa carriera all’estero di tutti i tempi in considerazione che, già allora generale
dell'artiglieria di Catalogna, sarà poi in successione sargente generale di battaglia, mastro di
campo generale della fanteria spagnola (nomina concessagli in considerazione che figlio di
madre spagnola), membro del Consiglio di Guerra del re e governatore e capitano generale
dell'Estremadura, viceré e capitano generale prima di Navarra e infine di Galizia. Domenico
Dentice parteciperà invece con il suo squadrone alla sorpresa di Vascara e, nel 1685, sarà
con la sua compagnia e con quella di un altro capitano di cavalleria napoletano, fra’ Alvaro
Minutillo, di guarnigione nella città di Calahorna; in tal luogo chissà a quali prevaricazioni,
angarie e sregolatezze ai danni alla cittadinanza si daranno questi soldati di cavalleria
napoletana, giacché a un certo punto ci sarà contro di loro una sommossa generale dei
cittadini, i quali, al grido di mueran todos los soldados!, per poco non trucideranno il Dentice,
il Minutillo e i loro uomini. Nel 1689 il Dentice e il Pignatelli parteciperanno al riacquisto di
Campredon, l'uno come comandante di uno squadrone di cavalleria (sebbene avrà nel
frattempo ricevuto la nomina a mastro di campo) e l'altro come mastro di campo generale
dell'esercito di Catalogna, come abbiamo già detto. L'anno dopo il Dentice sarà a Napoli
dove, in qualità di mastro di campo, otterrà un terzo di fanteria di nuova leva di circa mille
uomini, due delle cui compagnie saranno affidate al capitanato dei suoi fratelli Nicolò e
Gioseppe, questo di soli 15 anni, e con cui sarà spedito in Lombardia, subito partecipando, il
18 agosto 1690, alla battaglia della Staffarda presso Saluzzo e poi a quella di Pinerolo,
ambedue vinte dai francesi su ispano-milanesi e savoiardi; nella seconda il suo terzo perderà
gran parte dei suoi effettivi tra cui il suo predetto giovanissimo fratello Gioseppe, ucciso a soli
21 anni da un colpo di moschetto da posta; per quanto riguarda invece il fratello Nicolò, lo
troveremo ancora capitano di fanteria napoletana nel giugno del 1694. Nella detta battaglia di
Pinerolo morirono anche parecchi altri nobili napoletani, tra i quali il venturiero Francesco
Alarcón y Mendoza dei marchesi del Valle, a cui il re aveva già destinato il capitanato di una
compagnia di corazze, e tre altri capitani del terzo del Dentice, cioè Alfonso Capuano, figlio
del barone di Pollica, Pietro Sances de Luna, fratello del duca di S. Arpino, e Michele
Carmignano.
Forse fu approfittando della suddetta venuta dell’armata di Spagna, la quale, per l’alto
numero di galere, sostò probabilmente in massima parte a Baia, che il mastro di campo del
nuovo terzo fisso detto tercio de la mar del Reyno de Nápoles Cristóbal Lemos de Moscoso y
de Montemayor conte di Las Torres si mise colà ad arruolare reclute per questo suo
sfortunato corpo, per cui, come abbiamo già visto, già si reclutava anche in Spagna.
Nel giugno i francesi avevano preso Lussemburgo, successo importante che aveva
costretto Carlo II di Spagna e l’imperatore Leopoldo I furono a concordare con Luigi XIV una
tregua ventennale, la quale era stata firmata a Ratisbona il 15 agosto, e, per finire con l’anno
1684, diremo che era allora generale delle galere di Malta il priore di Napoli fra’ Gioan Battista
Brancaccio - soggetto di grandi talenti (Filamondo), fratello di Gioseppe, generale
dell’artiglieria dello Stato di Milano, mentre nell'assedio di Buda in Ungheria moriva
giovanissimo Andrea de’ Medici, cavaliere napoletano figlio del principe d'Ottajano, il quale
serviva da venturiero pur avendo in precedenza ottenuto a Milano la carica di capitano di
cavalleria. Un’offensiva imperiale in Ungheria, condotta dal maresciallo di campo Ernst
Rüdiger von Starhemberg, aveva nel giugno di quest’anno ripreso ai turchi Grad (16-18)
giugno), Vác ( 27, con battaglia campale) e Pest (30), ma si era stata arrestata davanti alla
forte resistenza della cittadella di Buda, città di cui l’esercito cristiano era dunque riuscito a
occupare solo la parte bassa, dovendosi infine nell’ottobre ritirare per varie contrarietà, non
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ultima l’arrivo di un forte soccorso ottomano. Buda sarà però ripresa ai turchi, i quali la
tenevano sin dal 1541, due anni più tardi.
1685. Un avviso di Bologna riportava da Napoli in data 27 gennaio che il viceré aveva
ricevuto nuove disposizioni militari dalla corte di Spagna e cioè doveva assoldare mille nuovi
fanti regnicoli e far fondere cento nuovi cannoni, i quali sarebbero presumibilmente serviti alla
grand'armata di cui tra breve parleremo, e gli si sollecitava inoltre, con ordine dell’11 gennaio,
la riforma della sua compagnia di lance della guardia. Il predetto avviso informava infine che il
viceré aveva fatto noleggiare due vascelli inglesi per imbarcarvi mille fanti, ma di ciò non
troviamo conferma nelle cronache napoletane, né si può trattare dei suddetti mille nuovi fanti
chiesti dalla Corte in considerazione che questi erano ancora da arruolare. Un altro avviso
bolognese riferiva una corrispondenza da Milano del 7 marzo in cui si diceva che era in corso
la rimonta della cavalleria napoletana di stanza in Lombardia, mentre, alla fine dello stesso
marzo, per motivi non divulgati faceva ritorno a Napoli da Genova una galera che riportava
della fanteria che vi era stata mandata. Uno strano reale ordine del 3 aprile aboliva la piazza,
ossia il ruolo, di tenente generale della cavalleria del Regno di Napoli, il che deve esser stato
sicuramente fatto per motivi puramente contingenti, essendo questo un ufficiale generale
presente in tutte le cavallerie europee e naturalmente utile a sostituire il capitano generale in
ogni caso d’assenza od impedimento di questo.
Dopo la metà di maggio approdarono a Baia cinque galere pontificie, una di cui si
trasferì subito al molo vecchio di Napoli e, domenica successiva, all'avviso che le quattro
galere del granduca di Toscana a cui si dovevano unire stavano passando al largo di Napoli,
salparono per accompagnarsi a quelle nel viaggio verso Messina, per poi deviare verso
Levante, unirsi anche a otto galere di Malta e tutte insieme andare a raggiungere l'armata
veneta operante contro i turchi, congiungimento finale che avverrà l'8 giugno. Giunsero poi un
giovedì anche le galere Capitana e Padrona di Sicilia che portavano il loro capitano generale
Beltrán de Guevara e il figlio del viceré di Sicilia conte de San Estéban; quest'ultimo, pure
invitato a dormire a terra sia dal viceré marchese del Carpio, il quale gli aveva a tal scopo
fatto preparare un appartamento a palazzo, sia dal marchese di Cogolludo, nuovo generale
delle galere di Napoli, preferì restarsene a bordo. Giunsero inoltre da Genova, porto che
avevano lasciato nella notte di una domenica dopo la metà di maggio, sette galere della
Monarchia, ossia di diretta proprietà del re di Spagna, e si trattava di due della squadra di
Napoli, tre di quella di Sicilia e la Capitana e la Padrona di quella di Sardegna; tutte queste
sarebbero infine presto state seguite dalla squadra del duca di Tursi - galere genovesi queste
non di proprietà del re, ma da lui tradizionalmente assoldate, squadra che per il momento era
rimasta a Genova nell'attesa di una catenata o ligata di condannati al remo proveniente da
Milano, condannati quelli lombardi che tradizionalmente erano a essa assegnati. Una volta
che tutte queste squadre si fossero trovate unite nella baia di Napoli, avrebbero dovuto tutte
insieme intraprendere un’impresa comune, per il momento segreta, al servizio della Corona.
Fu in quel mentre smentita la presa di una tartana di Gaeta fatta da due fuste
barbaresche, le quali le avevano dato sì per lungo tempo la caccia, ma quella era riuscita alla
fine a salvarsi. Dopo essersi trattenuto a Napoli per qualche tempo, partì di sabato per far
ritorno alla sua residenza Joseph de la Cueva, castellano del castello di Gallipoli, il quale
aveva goduto nel suo soggiorno nella capitale delle cortesie e dei favori del sunnominato
marchese di Cogolludo.
Alla fine di maggio giunse notizia al viceré di come il mastro di campo Alonzo Torrejon y
Peñalosa, preside di Chieti, fosse finalmente riuscito a far cadere in trappola il capo-brigante
Nino di Pietr’Alta, il quale, rifugiatosi con alcuni compagni nello Stato Ecclesiastico, da colà
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faceva numerose scorrerie nel regno. Nell'agguato orditogli dai soldati perirono lo stesso Nino
e un suo cognato, mentre uno dei suoi fidi era preso vivo; pertanto il marchese del Carpio
inviò subito ordine che fossero immediatamente pagati agli uccisori i 3.000 scudi della taglia
posta sul predetto Nino, il quale era l'ultimo dei capi-banditi abruzzesi ancora in libertà e
quindi con la sua morte quella tormentata provincia si poteva finalmente considerare sottratta
al brigantaggio, anche perché era stato preso e carcerato un corriero sbarcato sulla marina di
S. Vito in Abruzzo; costui recava molti pieghi di lettere inviate a vari privati dai due capibanditi Colaranieri e Santuccio, i quali, come dicemmo più sopra, erano riparati a Venezia. I
notevoli risultati effettivamente raggiunti dal marchese del Carpio nella repressione del
brigantaggio sono così ampollosamente ricordati dallo stesso avviso del 29 maggio che
riporta le precedenti notizie:
... dal che si conosce che l'occulata vigilanza di quest'eccellentissimo signor Viceré sa scoprire
le più secrete trame de’ malvagi, accertandosi ciascuno che la secretezza con cui si
commettono i delitti non può, a tempo di Sua Eccellenza, sfuggire la meritata pena. Sì che in
due anni del suo felicissimo governo ha ridotto tutto il Regno a godere una quiete e tranquillità
inesplicabile, potendosi caminare per esso con l'oro in mano.
Dopo il 20 dello stesso maggio era anche giunta a tal proposito a Napoli una
delegazione di pastori pugliesi da Foggia, i quali portavano al viceré vari doni in natura e
3.000 scudi per dimostrargli concretamente la loro gratitudine per aver finalmente reso sicuri
e liberi dal brigantaggio i loro tratturi:
Giunsero sin dalla passata (settimana) alcuni pastori da Foggia con un sontuoso ma piacevole
equipaggio, spediti da tutti i pecorai della Puglia con un regalo per Sua Eccellenza (om.)
Espose l'ambasciata uno de’ più arditi con tanta grazia e con un parlare pugliese così ridicolo
ch'apportò sommo piacere a tutta la Corte ch'era presente, rendendo infinite grazie a Sua
Eccellenza da parte di tutto il senato pastorale, perché dal tempo che governa il Regno non si
trovano più né ladri né banditi che molestino le lor mandre di pecore; onde Sua Eccellenza,
per segno di gratitudine, li fa trattenere in Palazzo, facendo dipingere tutta l'ambasciaria e
rittraere gl'ambasciatori con i loro abiti e pelliccie alla pecoraia.
Il pugliese era dunque già allora un dialetto divertente e d’altra parte anche il napoletano
lo era stato, cioè prima che diventasse col tempo sempre più duro e sguaiato e questo
perché nel Cinquecento fu gradualmente soppiantato dall’italiano nel parlare formale e quindi
sempre più confinato alla parlata privata del popolo basso; infatti Camillo Porzio, nella sua
famosa relazione del regno di Napoli scritta tra il 1577 e il 1579, diceva che ancora quando lui
era piccolo al napoletano, a quei tempi ancora unica lingua parlata a Napoli, si ricorreva nei
teatri italiani per far ridere il pubblico. Chissà poi che fine la sorte avrà riservato
all’interessantissimo quadro di cui si parla nell’avviso suddetto! Sicuramente, alla morte del
marchese del Carpio, la sua famiglia se lo sarà portato in Spagna con tutto il resto
dell'arredamento personale tenuto in Palazzo, come allora tradizionalmente usavano i viceré
spagnoli quando se ne andavano da Napoli, lasciando così ogni pochi anni il palazzo reale
quasi del tutto depredato di quadri, mobili e soprammobili.
Nei primi giorni di giugno 14 galere, tra napoletane, sicule e sarde, salparono da Napoli
accompagnate da una galeotta comandata dal capitano Mezzaluna e da tre barchi luonghi che
si trovavano allora nel porto della capitale e si diressero verso Porto Longone, dove
avrebbero trovato a aspettarli i dispacci del viceré con le istruzioni riguardanti la loro ancora
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segreta missione e dove pure un mese prima avevano avuto ordine di dirigersi da Genova,
dove allora si trovavano, le galere di Spagna; furono presto seguite da due grosse tartane
cariche di provvisioni da bocca e da guerra, come allora si diceva, per quattro mesi e per
servizio della stessa squadra. Frattanto si allestivano altre quattro delle galere rimaste a
Napoli, destinate anch'esse a seguire le prime, e si proseguiva la leva di genti del regno,
arrivando ogni giorno gruppi di coscritti nell'arsenale; era anche venuto a Napoli il marchese
di Torrecuso proprio per reclutare uomini per il suo terzo che operava in Fiandra. Erano poi
seguite gravi baruffe tra soldati spagnoli e regnicoli:
(Napoli, 5 giugno:) Per essere in questi giorni accadute baruffe tra soldati spagnuoli e italiani,
anco con morti e feriti d'ambe le parti, Sua Eccellenza ha castigati severissimamente gli autori
principali acciò per l'avenire non succedano simili rumori, volendo si mantenghi tra queste due
nazioni una perfetta pace e amicizia.
Una corrispondenza da Milano informava che lunedì 4 giugno il governatore di quello
Stato si era recato in diligenza postale a Lodi a assistere alla mostra della cavalleria di Napoli
che in quella città si teneva e nella stessa serata aveva fatto ritorno a Milano; non dovette
trattarsi di una presenza indolore se leggiamo poi anche l'avviso che segue:
(Milano, 13 giugno:) ... Per aver il signor conte Governatore trovato due compagnie de’
dragoni mancanti di qualche soldato ha Sua Eccellenza relegati i capitani in due castelli...
Ricordiamo che il trozo fisso di cavalleria napoletana in Lombardia costituiva un apporto
importante a quell'esercito; per trozos s’intendevano allora ‘corpi di cavalleria’ (ing. bodies of
horse), cioè raggruppamenti organici di un numero molto variabile di compagnie di cavalleria,
quando negli eserciti spagnoli ancora non si era preso a imitare l’uso francese di unirne
invece un numero fisso regolamentare in reggimenti, evoluzione che però era ora sul punto
d’avvenire; infatti non erano comandati da un colonnello, bensì da un commissario generale, il
quale aveva comunque anch’egli una regolare plana mayor. Dal trozo (it. ‘tronco’)
dipendevano frequentemente dei raggruppamenti di compagnie distaccate dette, per
coerenza di similitudine, ramos; per esempio nel 1678 la cavalleria napoletana di stanza nel
Milanese contava un trozo di cinque compagnie e un ramo distaccato di due compagnie. Del
tutto diversa era invece la tropa (‘truppa’), trattandosi in questo caso di quello che i francesi
invece chiamavano parti (‘partita’), cioè un semplice aggregato occasionale di compagnie di
cavalleria messe insieme e mandate a fare scorrerie nel paese nemico.
Verso il 10 giugno il viceré fece pubblicare una prammatica che, se ripetuta ai nostri
giorni, risolverebbe per parecchio tempo il problema dell'endemica delinquenza meridionale:
(Napoli, 12 giugno:) Avendo conosciuto quest'eccellentissimo signor Vice-Ré, per lunga
esperienza, che la maggior parte ode delitti enormi ch'alla giornata si commettono provenga
dalla moltitudine di persone oziose e vagabonde che si trovano in questa Città e Regno senza
arte né officio, per ovviare gl'inconvenienti che possono succedere, ha in questi giorni con
pubica prammatica e bando ordinato che simile gente, si è forestiera, debbia fra il termine di
tre giorni partire da detta Città e Regno sotto pena di cinque anni di galera; si è regnicola o
Napolitana, che non tenga robbe né officio né esercizio da poter mantenersi, che soggiaccia
all'istessa pena, solo che fra 15 giorni debbia sfrattare dal Regno e fra tre da questa Città
(om.) e a quelli che denunziaranno simili persone vagabonde se gli promettono due scudi di
beveraggio per ogne uno delli denunziati.
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Nel pomeriggio di domenica 17, giorno in cui si festeggiava allora la Ss. Trinità, quattro
schiavi maomettani delle galere di Napoli, catechizzati pubblicamente dal padre gesuita
Domenico Geronimo, furono battezzati nella parrocchia del Castel Nuovo; convertirsi era, sia
per i maomettani al remo delle galere cristiane sia per i cristiani al remo di quelle turcobarbaresche, l’unico modo per sottrarsi a quella durissima e penosa schiavitù. Verso la metà
dello stesso giugno furono poi inviate milizie alle isole Tremiti in considerazione che da
diversi anni non si mutava il presidio spagnolo della locale fortezza e in quel mentre si faceva
leva di soldati per reclutare il terzo napoletano del marchese di Torrecuso a tal scopo venuto
a Napoli dalla Fiandra, dove quel corpo ora si trovava. In quegli stessi giorni furono portati a
Napoli in ceppi il famoso capo-brigante Domenico Basile da Cerreto e alcuni suoi compagni;
questi l'anno precedente, per sfuggire all’efficace repressione messa in atto dal marchese del
Carpio, si erano rifugiati nello Stato della Chiesa e poi avevano quest'anno provato a ritornare
segretamente nel regno pensando di esser stati ormai dimenticati, ma erano stati presi e il
giorno 18 furono arrotati a morte in punizione dei loro delitti.
In quel mentre si era effettivamente formata a Porto Longone una grande squadra di
galere, unendosi in quel porto quelle di Spagna, Napoli, Sicilia, Sardegna e duca di Tursi,
cioè tutte quelle di cui disponeva la monarchia spagnola. Quella del duca di Tursi, detta
anche dei particolari genovesi, ossia dei privati genovesi, come abbiamo già detto, in
considerazione che la Repubblica di Genova ne aveva solo tre che per questo motivo erano
dette galere pubbliche od anche governative, era al servizio spagnolo sin dai tempi di Carlo V,
cioè da quando suo capitano generale era Andrea d’Oria (1466-1560), il famoso uomo di
mare, il quale, era al servizio della corona di Francia, ma, per insanabili dissapori intervenuti,
era poi passato con tutte le sue galere al campo opposto; questo voltafaccia del d’Oria
cambiò il corso della storia d'Italia e di conseguenza d'Europa, perché poi la secolare fedeltà
dei d’Oria e di questa loro squadra alla parte imperiale fu uno dei principali punti di forza del
dominio spagnolo in Italia, perché queste galere genovesi assicuravano rapidi e continui
collegamenti marittimi tra la penisola iberica e quella italiana, oltre a guardare il medio e l'alto
Tirreno dalle scorrerie dei barbareschi; se il d’Oria fosse rimasto fedele alla Francia le cose
sarebbero senza dubbio andate in maniera diversa, ma poiché i se, come si sa, non sono
d’alcuna utilità alla storia, torniamo alla grande squadra che si era raccolta a Porto Longone.
Dopo circa una settimana dalla loro partenza le predette 14 galere fecero ritorno a Napoli
accompagnate dalle dieci che formavano la squadra del duca di Tursi, senza che,
procedendo verso ponente, avessero incontrato legni nemici, e la loro missione sembrava
esser ora invece quella di dover far rotta verso levante per tenere i mari liberi dai corsari
barbareschi; in effetti la loro missione originaria restò segreta e tutto ciò che poi si poté
vedere fu che l'8 agosto seguente tutte queste galere salparono per la Sicilia dove presto
avverranno dei preoccupanti torbidi a seguito della ribellione d’alcuni nobili.
Si effettuavano frattanto reclutamenti di fanti con un certo successo e le nuove reclute
erano, come il solito, concentrate nell'arsenale di Napoli; comunque, non ostante la nuova
leva chiesta dalla Spagna all'inizio dell'anno e i predetti grandi preparativi marittimi, troviamo
per questo 1685 una sola fornitura di vestiario riguardante 488 vestiti consegnati alla Regia
Monizione non più tardi dell'aprile.
Giovedì 5 luglio, in occasione della festa del Corpus Domini, fanteria spagnola, italiana e
cavalleria si squadronarono nel largo del castello e fecero tre salve di moschetto, a cui
corrisposero quelle dei cannoni delle fortezze e delle galere; in tale occasione il viceré fece
fare alla sua fameglia (‘servitù’) sfoggio di una nuova, ricca e bella livrea. Negli stessi giorni
arrivò a Napoli una catena di 16 condannati al remo e, nella seconda, una di 28, questi inviati
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dal commissario generale di campagna (tutti giovani robusti, proporzionati alla professione
ch'intraprendono), e erano tutti per rinforzo delle galere napoletane che ne avevano in quel
periodo grande necessità; infatti tre birri, riconosciuti colpevoli di furto con raggiro, furono
dopo qualche giorno anch'essi condannati a otto anni di galera.
Dall'armata veneta che operava contro i turchi giunse a Napoli di sabato sera il capitano
Van Axel aiutante maggiore del generale Deghenfeld, comandante di quell'esercito in
Levante; aveva viaggiato 13 giorni dopo esser sbarcato a Otranto e si trattenne però nella
capitale pochissimo tempo perché, latore di dispacci al senato di Venezia, ripartì subito verso
Roma con le poste, non senza però aver dato al viceré un esauriente aggiornamento su
quelle operazioni belliche. Martedì 17 luglio il viceré, molti rappresentanti della nobiltà e i
generali delle squadre delle galere che, come abbiamo detto, si trovavano raccolte a Napoli,
assistettero al varo di una galera nuova, mentre a breve se ne sarebbero varate altre tre che
si stavano ultimando in gran fretta.
(Napoli, 24 luglio:) Considerando Sua Eccellenza l'abbuso introdotto da alcuni comandanti di
queste milizie, quali prohibivano a’ soldati di poter comprare robbe da mangiare se non nelle
taverne ch'essi tenevano ne' presidij con gran pregiudizio de’ poveri soldati, ha in questi giorni
con pubblico bando a suon di tamburro ordinato che ciascuno possa comprare ove più li piace
e a’ revenditori di poter entrare ne’ presidij a vendere ogni sorte di comestibili, togliendo le
taverne ed osterie introdotte dalli sudetti per loro lucro, ma con danno e detrimento del
soldato; ordinando anco che nessun soldato possa essercitare arte mecanica né servire da
creati (servitori) a’ loro capitani.
Bisogna qui precisare che allora per taverne s’intendevano allora gli spacci militari e non
le osterie, cioè non luoghi dove, pagando, ci si potesse sedere a mangiare cibi cotti; c'erano
quindi taverne anche a bordo delle galere e degli altri vascelli da guerra. Nella marineria
francese oceanica era consuetudine che i capitani, anche quelli dei vascelli reali da guerra,
facessero a bordo essi stessi commercio di taverna, vendendo all’equipaggio soprattutto vino,
acquavite ed in seguito anche tabacco; ma nel Seicento questa pratica sarà vietata dal re per non
potersi più ammettere che gli stessi capitani agevolassero ed istigassero in tal modo i marinai
a consumare il loro soldo ed i loro effetti personali per l’acquisto di generi viziosi. Nella seconda
metà del Seicento cominciò a diffondersi anche a Napoli il consumo di vegetali americani
quali pomodoro, cioccolato e tabacco, ma il primo fu per qualche tempo considerato, per i suoi
piccoli graziosi frutti rossi, solo come una pianta ornamentale da coltivarsi su balconi e
terrazze; il secondo,già conosciuto nel secolo precedente, era stato sempre creduto dai più nocivo,
più tardi da qualche medico consigliato sciolto nel brodo per potersi avvalere così della sua unica
virtù di riscaldare lo stomaco e solo ora appunto si vedevano a Napoli aprire le prime cioccolaterie.
Del terzo, sebbene diffuso in Europa con un corredo di pubblicità commerciale che lo aveva
presentato come una pianta ricca di virtù medicinali, si scoprì invece molto presto la natura
chiaramente dannosa; ciononostante mai se ne ostacolò l’uso tra marinai e soldati perché
i medici avevano anche costatato che calmava gli animi, deprimeva lo scontento e in una parola
rendeva il servizio militare più tollerabile, tant’è vero che non fu proibito nemmeno agli stessi
soldati turchi, di solito soggetti a un buon numero di divieti.
La mattina di lunedì 23 luglio si tenne la mostra, ossia la rivista come già sappiamo, di
tutte le milizie della capitale e in tale occasione, in conformità a ordine reale già vecchio del
precedente 11 gennaio, fu riformato il terzo spagnolo detto del Mare o nuovo, costituito, come
sappiamo, solo un paio d'anni prima, e i suoi scarsi effettivi, consistenti in sole tre compagnie,
furono aggregati al terzo vecchio degli spagnoli, eccezion fatta del suo mastro di campo conte
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di Las Torres e dei tre capitani che restarono invece riformati; il motivo di questa cassazione
fu che, data appunto la scarsità dei suoi ranghi, lo stato maggiore di questo corpo aveva un
costo eccessivo [non ad altro oggetto che per iscusare il guasto (‘spesa’) della Prima Piana]. Il
giorno seguente arrivarono a Napoli 22 schiavi che avevano fatto parte dell'equipaggio di una
fusta barbaresca, la quale, approdata nei pressi di Manfredonia per far razzia di cristiani, era
rimasta essa stessa preda dei paesani; furono subito incatenati ai banchi delle galere
napoletane.
All'inizio d’agosto, avvicinandosi l'apertura della famosa fiera annuale delle sete a
Messina e a evitare il contrabbando di quei tessuti dalla Calabria, il viceré spedì verso quella
volta due barchi longhi ben armati perché scorressero quelle acque e impedissero i disordini
soliti pratticarsi da coloro che concorrono alla fiera; domenica 5 furono catturate dalla galera
napoletana S. Rosa due tartane francesi che stavano caricando grano a Castellammare di
Stabia e, condotte a Napoli con l'accusa di contrabbando, benché il padrone di una di esse
protestasse d’avere una regolare concessione per quel carico; il che, se accertato, ne
avrebbe prodotto il rilascio. La mattina del giorno seguente, avvicinandosi l'ora della partenza
dal porto di Napoli delle squadre di galere da tempo raccoltevisi, le milizie spagnole che
dovevano imbarcarvisi di guarnigione furono formate in squadrone e passate in rivista,
comparendo tutte vestite d’abiti nuovi e per la prima volta di color rosso, davanti al palazzo
reale dove restarono finché il viceré non si fu affacciato al balcone cerimoniale per vederle;
poi tornarono al loro presidio e più tardi s’imbarcarono insieme con soldatesche italiane e di
nuovo al cospetto del viceré:
… il quale, perché un capitano italiano, nel passar la mostra prima dell'imbarco, non portava la
sua compagnia compita, oltre l'esser molto mal vestita, lo riformò e diede la compagnia
all'alfiere con dichiarare alfiere il sargente e il capo squadra più antico sargente (Napoli, 14
agosto 1685).
Quale vergogna e umiliazione deve aver provato quel misero capitano, il quale,
probabilmente perché povero, non aveva avuto la possibilità di rimetterci od anticipare del
suo per presentare in buon ordine la sua forse da tanto agognata compagnia!
A un’ora di notte sarparono l'ancore le sudette galere in numero di 22 senza essersi potuto
penetrare a qual parte abbino drizzato il viaggio; mentre Sua Eccellenza non communica a
nessuno le sue intenzioni e quest'è la causa che tutte le sue intraprese sortiscano il bramato
fine, già che la secretezza nell'operare nelle materie di stato è quella che guida gl'affari politici
alla desiata meta.
Anche quest'ultimo avviso è del giorno 14 agosto, ma la partenza di cui si parla era
avvenuta, come abbiamo già anticipato, il giorno 8 precedente; c'è da notare la nuova
sviolinata del cronista al viceré marchese del Carpio.
Domenica 19 dello stesso mese fu recata a Napoli dalla provincia di Salerno la testa del
capo-brigante conosciuto con il nomignolo de il Zelluso di Montuoro, forse perché tignoso o
comunque alopecico; costui aveva infestato la campagna per molti anni e poi nel 1684, messo
alle strette dalla gente di corte, si era allontanato dal regno, ma, tornatovi presto, era subito
caduto in trappola. Per ordine del viceré la sua testa fu esposta nell'arsenale, andando così
ad aggiungersi alle altre di criminali già in quel luogo in mostra per esempio e per terrore di
tutti i malfattori.
Martedì 28 ritornarono a Napoli da Palermo le numerose galere che venti giorni prima
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erano partite per la Sicilia senza però che si parlasse a Napoli dell'esito della loro missione,
mentre si aveva notizia che i veneziani e i cavalieri di Malta avevano preso per assalto ai
turchi Corone in Morea dopo 48 giorni d’assedio e avevano anche sconfitto in campagna
l’esercito nemico venuto al soccorso di quell’importante piazza; si seppe inoltre che i francesi,
usciti alla fine di giugno dai porti di Provenza con un’armata di 16 galere, 15 vascelli e cinque
palandre a bombe, avevano il mese successivo sottoposta Tripoli a un così pesante
bombardamento con le loro palandre da costringerla ad accordi di pace con l’immediato
pagamento di un tributo e il rilascio di 180 schiavi cristiani, incluso un nobile inglese, i quali
furono portati a Tolone; si ebbe in quel mentre pure nuova da Milano che alla metà dello
stesso agosto era stato colà licenziato un altro terzo e cioè quello di fanteria napoletana di
Cecco Caracciolo marchese di Grottola a cui abbiamo già accennato, mentre il mese
successivo appariranno in quell'esercito di Lombardia le prime quattro compagnie di un nuovo
terzo di napoletani e si tratta ora di quello del mastro di campo Marc'Antonio Colonna; alla
fine del mese si seppe poi anche della grande vittoria conseguita sui turchi a Strigonia dalle
armi cesaree, ossia dall'esercito del Sacro Romano Impero, notizia che, unita ad altre dello
stesso tenore immediatamente seguenti, produssero a Napoli tre giorni di festeggiamenti
ufficiali.
All'inizio di settembre le galere tornate dalla Sicilia ripartirono in numero di 21, ben
provviste di viveri e di munizioni, anche questa volta per una missione che il marchese del
Carpio aveva mantenuta segreta secondo il suo solito costume, mentre dopo qualche giorno,
di venerdì, approdavano a Nisida le quattro galere del granduca di Toscana che erano di
ritorno dall'arcipelago greco, insieme con due della Repubblica di Genova a cui si erano unite
a Messina, dove queste ultime si erano trovate per caricare sete. Avuta notizia di quest'arrivo
il viceré mandò subito il tenente di mastro di campo generale Antonio de Maldia a dare il
benvenuto al comandante toscano e probabilmente anche a indagare il motivo di quel
prematuro ritorno, giacché la campagna anti-ottomana non era ancora terminata e infatti le
galere pontificie erano rimaste in quei mari. Ripartite da Nisida, le galere di Toscana si
unirono nel viaggio verso Ponente con le predette della corona di Spagna che si erano dovute
trattenere alcuni giorni a Gaeta non avendo ancora potuto oltrepassare la costa laziale a
causa del maltempo, inconveniente questo del tutto consueto e che rendeva detta costiera
particolarmente temuta dai naviganti diretti nell'Alto Tirreno. Le squadre di galere della
monarchia raggiunsero poi di nuovo Porto Longone dove difatti le suddette di Spagna
risulteranno essere in sosta il 23 settembre e dove infine riceveranno l'ordine d’andare a
svernare ognuna nel proprio arsenale, tranne quella dei particolari del duca di Tursi, le quali,
pur essendo genovesi, svernavano nel porto di Gaeta e ciò probabilmente per motivi, oltre
che strategici, anche fiscali, ossia per poter addossare all’erario del Regno di Napoli quanto
più si poteva del costo del loro raddobbo e del loro equipaggiamento; si aveva del resto
avviso certo che anche quelle di Francia si erano ritirate nella loro Marsiglia e che le loro
genti erano state licenziate. Verso il 20 ottobre partiranno comunque da Napoli due grosse
tartane cariche di provviste per le squadre allora ancora ferme a S. Stefano e a Longone e
che poi, prima di ritirarsi a svernare, si trasferiranno tutte a Genova, porto dove risulteranno in
sosta ancora all'11 di novembre.
Frattanto venerdì 7 settembre si era commemorata, come il solito, la ricorrenza della
grande vittoria di Nördlingen e il giorno seguente si erano svolti i tradizionali corteo e parata
al borgo di Chiaia per la festa della Madonna di Piedigrotta.
(Napoli, 18 settembre:) Essendo in questi giorni vacata una compagnia di fanteria spagnuola
per la morte del capitano, Sua Eccellenza l'ha conferita a don Nicolás de Zarate, nipote di
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questo signor secretario di stato e guerra don Diego Ortiz de Zarate, e sabbato a sera ne
prese il possesso con entrar la prima guardia nel reggio palazzo e riuscì la funzione assai
decorosa per il numeroso accompagnamento de’ capitani e altri officiali spagnuoli che
l'assisterono, alli quali furono dispensati copiosi rinfreschi di canditi, zuccari e ciccolate.
Quest’avviso sembra esser però abbastanza tardivo perché, confrontandolo con la
notizia dello stesso avvenimento già data dal nunzio apostolico, risulterebbe che la cosa era
avvenuta sabato 8 e non sabato 15. Pure a settembre giunsero a Napoli altri rimpiazzi per il
terzo fisso:
(Napoli, 25 settembre:) Sono gionte qui due compagnie spagnuole di nuova leva assai belle
non meno per il numero che per la qualità della gente.
Questo arrivo di fanterie spagnole è confermato da un avviso di Bologna riportante una
corrispondenza da Napoli del 6 ottobre e nel quale, dettagliandosi che i nuovi fanti erano
giunti a bordo di vascelli inglesi - vascelli che era allora abbastanza agevole trovare da
noleggiare anche nel Mediterraneo - ed erano destinati sia alle compagnie del terzo fisso sia
ai vari presidi del regno, se ne dava però un numero spropositato e cioè ben 2.300, evidente
errore di stampa trattandosi di sole due compagnie e di soli due vascelli; d'altra parte non
sembra probabile che il terzo fisso avesse proprio allora bisogno di tantissimi rimpiazzi,
giacché solo pochi mesi prima aveva assorbito la riforma del terzo nuovo.
Nell'ultima decade di settembre il marchese del Carpio spedì la galera S. Rosa carica
d’attrezzi militari destinati a provvista del castello di Baia; approdarono invece a Napoli i due
barchi longhi che erano stati a scorrere i mari di Calabria. All'inizio d’ottobre arrivarono a
Nisida le galere pontificie di ritorno dal Levante, dovendo proseguire poi il viaggio verso il loro
porto di Civitavecchia, dove andavano a svernare data la stagione ormai avanzata e che non
più permetteva la navigazione di quei leggeri e instabili vascelli, e si stavano frattanto
ritirando nei loro porti anche le squadre della monarchia di Spagna. Il marchese del Carpio
inviò in quell'isoletta l'aiutante di tenente generale Agostino Requero perché complimentasse
(salutasse), secondo l'uso, il comandante di quella squadra e gli portasse in dono gran
quantità di rinfreschi; ma, poiché si sentiva esser aumentata la peste in Levante e quei
vascelli erano arrivati carichi di bottino e di schiavi che avrebbero venduto a poco prezzo se
fosse stato concessa loro la libertà di farlo, fece subito anche pubblicare bando che nessuno
potesse comprare roba né schiavi dalle dette galere sotto pene severissime e, se poi
qualcuno avesse già comprato da loro qualche schiavo, avrebbe subito dovuto farlo
rinchiudere nel Lazzaretto per la debita quarantena.
Sabato 13 ottobre giunse nuova di un’importante vittoria ottenuta dalle armi imperiali in
Ungheria e il giorno dopo tale successo fu festeggiato in città nei modi di uso. Un altro avviso
bolognese - questo riguardante una corrispondenza da Milano, riferendosi alla riforma di
buona parte dell'esercito di Lombardia, ci evidenzia come le soldatesche napoletane che vi
facevano parte fossero considerate straniere a tutti gli effetti e ciò anche se invece
ufficialmente si sarebbero dovute ritenere tali solo quelle tedesche o borgognone:
(Milano, 24 ottobre:) Lunedì si diede poi la mostra come si accennò e seguì poi la riforma di
20 compagnie di fanteria italiana e due di cavalleria straniera Napolitana con un sargente
maggiore e sua prima piana. Si sono smontati 500 cavalli (soldati a cavallo) tra dragoni e della
cavalleria straniera napolitana, quali si manderanno in Catalogna.
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I predetti 500 soldati smontati furono infatti inviati, via Voghera e Serravalle, a imbarcarsi
a Genova, dove saranno passati in rivista il 12 novembre successivo. Probabilmente era tra le
predette compagnie di cavalleria riformate od inviate smontate in Catalogna anche quella del
capitano Ciarletta Caracciolo, il quale risultava in tal incarico ancora nell'agosto precedente;
troveremo però negli anni a venire il Caracciolo di nuovo nel Milanese, ma stavolta con la
patente di mastro di campo.
Oltre che esser considerati stranieri, come abbiamo appena detto, i meridionali erano
anche tenuti alla larga perché, sebbene alleati, erano ritenuti pericolosi come i nemici
francesi; ecco infatti che cosa si diceva in un altro avviso della gazzetta di Bologna:
(Genova, 27 ottobre:) Martedì arrivò qui il marchese di Cocogliudo, generale delle galere di
Napoli, col resto di quella squadra e con quelle di Sicilia e di Sardegna, onde si tengono
chiuse diverse porte (della città) come quando vi sono quelle di Francia, con assistenza de’
cavalieri (genovesi) alle aperte.
Alla fine d’ottobre era già quasi finito a Montorio in Abruzzo il nuovo castello fatto
costruire da quest'attento viceré e chiamato S. Carlo in onore del re, castello che, possente e
dotato della migliore artiglieria e di tutto quant'altro occorrente, avrebbe avuto la funzione di
scoraggiare la ricostituzione in quel territorio di quel nido di banditi che vi aveva attecchito nel
passato e che le forze del marchese del Carpio avevano da poco tempo decisamente
distrutto; ne era stato nominato castellano l'aiutante di tenente generale Geronimo Lavagna, il
quale si preparava appunto a recarcisi alla testa di due compagnie di fanteria spagnola
destinate di presidio al detto castello, compagnie che verranno in seguito mutate
periodicamente com'era normale per tutti i presidi del regno. Questa fortificazione andava
così ad affiancarsi all'altra, pure terminata, posta a guardia degli Abruzzi e cioè alla rocca di
Roseto di S. Giorgio di Castellana, fortezza questa già ritenuta inespugnabile e il cui nucleo
originario era stato donato alla corona dal duca d'Atri suo proprietario.
Domenica 4 novembre, giorno di S. Carlo, si festeggiò a Napoli l'onomastico del re e il 6
successivo anche il compleanno:
… Questa mattina, giorno natalizio di Sua Maestà Cattolica, è comparsa tutta la milizia
spagnuola vestita nuovamente con vestiti di color incarnato (rosso), fodrati di color giallo, che
formavano una (non) men dilettevole che piacevole vista. Anco tutte le compagnie de’ cavalli
hanno avuti i lor vestiti nuovi, differenziandosi l'un dal'altra nel color diverso della fodra del
vestito, quali erano tutti di color pavonazzo. La guardia tedesca (gli alabardieri svizzeri)
ch'assiste a Sua Eccellenza parimente è comparsa molto vaga con vestiti a proporzione
(foggia) dell'usanza di quella nazione; ma sopra tutto è stata ricca e bella la livrea ch'ha
spiegata (dispiegata) tutta la famiglia bassa (servitù) di Sua Eccellenza, che non è poco
numerosa, ch'ha ben dimostrato la splendidezza e generosità dell'animo suo, che non
risparmia a spesa purché coloro che servono l'Eccellenza Sua compariscano ben vestiti.
Ancora all'inizio di novembre giunse a Napoli una catena di 16 condannati al remo
inviata dall'udienza di Montefuscoli e giungeva molto a proposito in considerazione che entro
pochi giorni si sarebbe varata una nuova galera nelle acque dell'arsenale. Con nuova da
Milano del 24 ottobre si seppe poi a Napoli che 10mila moggi di grano prodotti nei due regni
di Napoli e di Sicilia stavano per essere sbarcati a Savio di Goro per rifornire quello stato;
serviva in quel tempo nel Milanese, in qualità di capitano di cavalleria alemanna, il napoletano
Gioseppe Giudici, figlio del duca di Giovenazzo, il che dimostrerebbe che erano solo gli
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spagnoli a voler essere comandati solo da ufficiali della loro stessa nazionalità, eccezion
fatta, come abbiamo già osservato, per i Grandi di Spagna, i quali, anche se non spagnoli, a
questi erano a tutti gli effetti equiparati. Fu anche notizia da Genova, datata 24 ottobre, che il
precedente martedì era arrivata in quella città la squadra di galere di Napoli con il suo
generale delle galere di Napoli marchese di Cogolludo, il quale conduceva in quell'occasione
anche le squadre di Sicilia e di Sardegna, e risultava ancora in sosta in quel porto il 7 del
mese seguente. Martedì 13 si festeggiò un’altra vittoria dei cesarei in Ungheria, la cui notizia
era arrivata al viceré portata la sera precedente da un corriero espresso:
(Napoli, 20 novembre:) SI è poi saputo che la nuova della presa di Cassovia fu portata a Sua
Maestà Cesarea dal sargente maggiore del generale Caprara, il prencipe don Francesco
(Piccolomini) d'Aragona figlio del signor conte di Celano.
Verso la metà dello stesso novembre erano ormai quasi pronte le altre tre galere nuove
che si stavano costruendo nell'arsenale di Napoli e, non trovandosi in regno ciurma sufficiente
per esse, il viceré aveva già da tempo inviato denaro a Vienna perché se ne comprassero
schiavi mussulmani [... e già sono capitati qui sin dalla passata (settimana) 65 d'essi, tutta
bella gente proporzionata al ministerio cui vengono destinati... (Napoli, 20 novembre)]; e,
mentre si aspettava l'arrivo d’altri di questi remiganti, giunsero anche, inviati dal Tribunale di
Campagna, 31 condannati al remo, primi di numerosi delinquenti che dovevano presto esser
spediti nella capitale dalle udienze provinciali del regno.
Alla fine di questo novembre due donne accusate di stregoneria e arrestate, furono
condotte [con numeroso seguito di ragazzi e guidoni (‘guidati’)] alla Gran Corte della Vicaria
per esser torturate e giudicate; furono presto condannate a sette anni di galea donnesca,
luogo detentivo chiamato la Penitenza e che non sappiamo dire se si trattasse effettivamente
di un vascello remiero adibito a carcere, tenuto a secco in porto e non atto alla navigazione
oppure di un vero e proprio carcere femminile; e furono anche fortunate, perché ricordiamo a
questo proposito che l’ultimo rogo di una strega di cui si desse notizia nelle cronache di
Napoli avvenne ancora nel 1701 a Palermo. Di un’altra di queste condanne alla galea
donnesca gli avvisi di Napoli diranno nell’ottobre del 1700.
Nel primo pomeriggio di sabato 1° dicembre, richiamate dal viceré e provenienti da
Genova, tornarono a Napoli le 22 della squadra di Spagna, le quali quindi non si erano affatto
andate a ritirare nelle loro basi invernali come si era detto; la versione ufficiale di questi loro
ultimi viaggi era che avevano scorso i mari di Ponente senza aver mai incontrato alcun legno
nemico, ma ora c'era davvero ordine che andassero a ritirarsi nei loro rispettivi porti. A bordo
della squadra del duca di Tursi si sarebbe dovuto trovare lo stesso duca, ma ciò non era
avvenuto in considerazione che questo capitano generale aveva appena ottenuto dal re
licenza di stare ben cinque anni senza navigare, in modo da poter così pensare a maritarsi e
ad assicurare con un erede la successione alla sua casata che rischiava di estinguersi,
essendone egli infatti l'ultimo rampollo.
La sera di lunedì 3, vigilia di S. Barbara protettrice degli artiglieri, furono bruciate davanti
al palazzo reale, probabilmente a spese della stessa compagnia dei bombardieri, due
macchine di fuochi artificiati (che riuscirono molto dilettevoli); si trattava di costruzioni in legno,
allora di prammatica in ogni festa o ricorrenza, simili agli odierni gigli di Nola o a quelli che
pure tuttora s’usano in Toscana, o anche, se muniti di ruote, agli odierni carri allegorici. La
mattina del giorno seguente approdò a Napoli una feluca a bordo di cui ritornava da Genova
Beltrán de Guevara, generale delle galere di Sicilia, il quale non si era potuto imbarcare sulla
sua squadra, quando questa aveva lasciato quella città, a causa di una grave infermità che
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l'aveva ridotto quasi in fin di vita; ora, essendo del tutto guarito, nel primo pomeriggio di
venerdì 7 dicembre salpò con le sue galere che l'avevano atteso a Napoli e fece rotta per
Palermo con vento favorevole; sulle stesse galere di Sicilia si era imbarcato il duca di S.
Giovanni di casa Ventimiglia e nel frattempo si preparavano a rimpatriare anche quelle di
Sardegna.
La mattina di lunedì 10 lasciò Napoli, ma via terra, anche l'aiutante di mastro di campo
generale Geronimo Lavagna, il quale si recava in Abruzzo a prendere possesso, come si è
già detto, del suo nuovo incarico di castellano (governatore) della nuova fortezza di Montorio
e conduceva con sé circa 100 muli carichi d'attrezzi militari destinati ad approvvigionare
quella roccaforte. Sempre nell'ambito del programmato rafforzamento di quei confini
abruzzesi per ostacolare i tentativi di rientro in regno che i fuorusciti rifugiatisi nello Stato
Ecclesiastico facevano di continuo, al mattino di venerdì 21 dicembre, alla testa della sua
numerosa compagnia di fanteria spagnola, partiva il capitano Sancho Ordoñes e la portava a
servire di presidio alla città di Teramo; la mattina seguente partiva anche l'alfiere riformato
Pedro del Valle con altri 30 fanti spagnoli, destinati costoro alla custodia del nuovo forte di
Roseto; il seguente martedì 25, pure per presidiare Teramo, s’incamminò la compagnia del
capitano Juan Ximenez de Escudero e infine nei giorni successivi si avviarono per l'Abruzzo
altri 50 muli carichi d'attrezzi militari per servizio delle predette fortezze, mentre giungeva
invece a Napoli il mastro di campo Alonzo Torrejon y Peñalos, il quale lasciava il suo incarico
di preside di Chieti e era ad assumere quello più prestigioso di castellano del Castel dell'Ovo.
Quasi a voler rimarcare il ruolo da lui avuto nel recente sterminio dei banditi abruzzesi, il detto
Torrejon si portava dietro tre banditi che aveva catturato via facendo verso Napoli, avendoli
incontrati e riconosciuti per tali sebbene fossero travestiti da pecorai.
Nel corso dello stesso dicembre era frattanto tornato a Napoli Marino Carafa, fratello di
Marzio, duca di Maddaloni, dopo aver servito molti anni in Catalogna come mastro di campo
di un terzo di fanteria napoletana e avendo infine ottenuto la nomina a sargente generale di
battaglia; nel suo terzo aveva tra gli altri militato un fratello del già ricordato Francesco
Piccolomini d'Aragona principe di Valle. In questo periodo morì combattendo nell'esercito
cesareo contro i turchi il capitano di cavalleria Bonaventura Bologna dei duchi di Palma
Campania, il quale aveva mostrato il suo valore nelle battaglie di Treviri, Filisburgo (sic),
Vienna, Strigonza (sic) e altre ancora; finì affogato in un fiume durante un’azione di guerra.
Antonio Carafa, signore di Forlì del Sannio e conte del Sacro Romano Impero, era
invece in questo stesso anno nominato tenente maresciallo di campo nell'esercito cesareo,
nel quale serviva da circa vent'anni combattendo quella guerra senza fine contro l'impero
ottomano, impero che, per nostra fortuna, trovò alla sua espansione in Europa due
insormontabili ostacoli e cioè la corte di Vienna e il senato veneziano; infatti era stato inviato
giovanetto in Austria nel 1665 e colà era stato prima gentiluomo di camera dell'imperatore, poi
capitano di cavalleria, sargente maggiore, tenente colonnello, colonnello di un reggimento di
corazze, il quale da allora in poi e per lungo tempo si chiamerà sempre reggimento Carafa, e
poi generale di battaglia; nel 1686 comanderà un corpo di ben 22 reggimenti col grado di
tenente maresciallo generale della cavalleria e nel novembre del 1688 sarà promosso
maresciallo di campo (generale maresciallo) in quel potente esercito cesareo che in detto
anno conterà ben 100 battaglioni di fanteria e 44 squadroni di cavalleria; sarà poi
commissario generale di tutti gli eserciti cesarei e infine governatore dell'Ungheria sino alla
fine del 1687, quando, dovendosi incoronare re di Ungheria Gioseppe d’Austria, primogenito
dell'imperatore Leopoldo I, fu rimosso da quell'altissimo incarico ormai superfluo.
Sempre in questo 1685 si distingueva all'estero per il suo valor militare ancora un altro
napoletano e cioè Andrea Miroballo, colonnello di un reggimento di ultramarini della Signoria
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di Venezia, distinguendosi con tale corpo prima a Candia e poi nella conquista della Morea,
conquista che i veneziani compirono in quegli anni prendendo ai turchi, via via nell'ordine, le
piazze di Corone, Navarino, Modone, Napoli di Romania (oggi Nàuplia), Lepanto, Portrano
(sic) e i Dardanelli, sconfiggendo inoltre in quei giorni i turchi anche in una battaglia navale
combattuta presso l’isola di Scio, luogo che evidentemente portava fortuna ai veneziani in
considerazione che avevano colà già vinto gli ottomani nel 1431 e nel 1657. Per aiutare i
veneziani così impegnati militarmente contro i turchi a salvaguardia non solo dei loro vitali
interessi in Levante, ma anche di quelli dell'intera cristianità saranno raccolte milizie in
Lombardia e nel Regno di Napoli; tra le soldatesche inviate a Venezia da Milano alla fine del
1685 c'era un terzo di fanteria lombarda formato dal mastro di campo napoletano Annibale
Moles dei duchi di Parete di Caserta, il quale era stato prima soldato intrattenuto - ossia
stipendiato, ma fuori ruolo - sulle galere di Napoli, poi aveva partecipato alla guerra contro
Messina e infine era stato trasferito a Milano dove, prima di esser promosso mastro di campo
era stato, secondo una normale prassi di carriera, capitano di cavalleria.
1686. Circa alle 6 della sera di venerdì 18 gennaio morì, alla bella età di 86 anni, il capitano
generale dell'artiglieria del regno e cavaliere gerosolimitano Titta (Gioan Battista) Brancaccio,
uomo stimatissimo per la sua esperienza e virtù militari; il suo corpo fu imbalsamato e i suoi
funerali ebbero luogo lunedì 21 secondo la consueta coreografia riservata alle esequie degli
ufficiali generali, cioè, tra l'altro, con squadronamenti di fanti armati di moschetti e archibugi
tenuti alla rovescia, di picche strascinate per terra, con tamburi scordati e coperti con panni di
scoruccio (‘da lutto’), con gli ufficiali vestiti di nero e con la cavalleria che, allo stesso modo,
teneva le carabine alla rovescia e suonava le trombette munite di sordelline. Fu seppellito la
sera di quello stesso 21 gennaio nel sepolcro di famiglia sito nella chiesa di S. Domenico
Maggiore; tra le altre disposizioni testamentarie si distingueva il lascito di 6mila scudi che
questo generale aveva fatto ai monaci Pii Operari della chiesa di S. Nicola alla Carità.
La mattina di lunedì 28 gennaio 800 fanti regnicoli di nuova leva e 150 briganti accordati,
i quali erano come il solito tenuti rinchiusi nell’arsenale in attesa d’imbarco, salirono su
quattro legni che da Napoli avrebbero dovuto portarli a Cartagena in Spagna e poi da là,
secondo quanto si diceva, sarebbero stati inoltrati in Fiandra per reclutare i terzi napoletani
che in quella provincia servivano. Salparono la mattina seguente, ma a causa dello scirocco
contrario, furono costretti a tornare in porto; ripartirono poi definitivamente mercoledì 2
febbraio verso le ore 22 della notte, spirando ora una tramontana favorevole alla rotta verso
la Spagna. Nella prima decade di febbraio approdò al porto di Napoli dalla Spagna una nave
che portava 180 spagnoli bisoños, cioè reclute come già sappiamo, per il terzo fisso del regno
di Napoli; i nuovi arrivati (tutta bella gente) dettero mostra nell’arsenale alla presenza del
viceré sceso dal palazzo ad accoglierli.
Nel corso di detto febbraio si provvedeva alla leva di fanterie regnicole per Venezia, anzi
era la stessa Venezia ad avere patente d’arruolare direttamente nel Regno di Napoli e si
parlava pertanto non della formazione di un terzo, bensì di un reggimento, perché così si
chiamavano, ovviamente, i corpi in cui si suddivideva non solo la fanteria veneziana, ma tutte
quelle dell’Europa non soggetta alla Spagna:
(Napoli, 19 febbraio 1686:) Il Viceré da permesso perché la Republica di Venezia possa
levare 2.000 uomini per la guerra contro il Turco. Se ne concedono subito 1.000, che si
stanno levando insieme con quelli per recluta delle compagnie italiane all'arsenale che devono
andare in Catalogna.
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Il colonnello Vespasiano Giovene fu incaricato dalla signoria di Venezia d’arruolare
questi soldati, i quali furono vestiti ed equipaggiati a Napoli prima di partire.
Una mostra generale fatta dall'esercito e dai castelli di Milano nello stesso febbraio ci
informa dei corpi napoletani che allora servivano in quell'esercito e si tratta dei seguenti:
- Terzo del mastro di campo Marc'Antonio Colonna (196 ufficiali e 966 soldati).
- Una compagnia sciolta di fanteria comandata da Gioan Battista Caracciolo
(10 ufficiali e 48 soldati).
- Sei compagnie di cavalleria (35 ufficiali e 337 soldati).
In effetti poi, a seguito di una relazione sulla consistenza dell'esercito che Antonio Lopez
de Ayala Velasco y Cardeñas conte di Fuensalida, allora governatore di Milano, invierà in
data 21 maggio 1686 in Spagna al Consiglio d'Italia, questo proporrà al re, tra l'altro, di
mantenere il terzo dei napoletani sul piede di 1.500 uomini, aggregandovi le compagnie
sciolte di fanti regnicoli che esistessero già nel Milanese o che vi arrivassero nel prossimo
futuro, e la cavalleria partenopea su quello di cinque compagnie.
Verso la metà del mese lasciarono invece Napoli le galere del duca di Tursi per recarsi,
secondo il solito, a svernare a. Stava avendo frattanto un prospero effetto la leva di fanteria
regnicola concessa ai veneziani, come si leggeva in un avviso del 26 febbraio, essendosi già
arruolati circa 300 uomini nella sola capitale; per evitare le spese di mantenimento di questi
nuovi fanti, essi furono subito mandati a Venezia a bordo d'alcune tartane, non trovandosi
disponibili al momento legni più grossi, e lo stesso si contava di fare con gli altri che si
stavano raccogliendo.
Furono, sempre in febbraio, portati a Napoli dall'Abruzzo un bandito vivo e la testa di un
altro ucciso dai soldati di campagna di quella provincia; il prigioniero fu rinchiuso nel carcere
della Vicaria Criminale e la testa, posta in una gabbia di ferro, com'era uso, fu esposta
nell'arsenale, forse ad ammonimento dei briganti accordati che si andavano di tanto in tanto
arruolando e rinchiudendo là dentro con gli altri coscritti nell’attesa d'espatrio. Le cose,
secondo quanto si era raccontato, erano andate nella seguente maniera: un fuoruscito di
nome Antonio Capriotto e un altro bandito erano insieme ritornati in Abruzzo dallo Stato della
Chiesa dove si erano in precedenza rifugiati, nell'illusione che le forze dell'ordine li avessero
ormai dimenticati; invece un caporale di campagna, avvisato che i due si trovavano nelle loro
stesse case, in quelle li aveva sorpresi nottetempo e il Capriotto, gettandosi dalla finestra per
scappare, era stato raggiunto e ucciso da più archibugiate, quindi decapitato perché con la
sua testa se ne potesse dimostrare poi a Napoli l'incontrovertibile morte.
Venerdì 8 marzo giunse dall'Inghilterra a Napoli per la via delle poste, ossia con una
carrozza postale - tramite questo più comune per chi voleva viaggiare in quei tempi via terra Sigismondo de Rho barone di Villarmin, nominato dal re tenente generale della cavalleria del
regno su petizione del sovrano di Gran Bretagna, al cui servizio egli aveva molti anni militato;
il barone prese ufficialmente possesso della sua nuova carica solo tre settimane dopo:
Sua Eccellenza lo regalò di un bastone da comando stimato assai non meno per la singolar
manifattura che per il valore.
Questi bastoni di comando per gli ufficiali generali erano perlopiù d’argento indorato e
adorno di coralli e talvolta anche di vere e proprie gemme. La sera di venerdì 29 marzo, per
uno dei soliti cambi annuali di guarnigione dei Presidi di Toscana a cui, come abbiamo già
detto, riteniamo utile accennare solo di tanto in tanto, partì da Napoli a quella volta un
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convoglio di 11 galere - sette di Napoli e quattro del duca di Tursi - sul quale erano imbarcati
ben 2.100 soldati a quella muta destinati, cioè 14 compagnie di fanti spagnoli e cinque
d'italiani, all'imbarco di cui aveva assistito lo stesso viceré; queste galere fecero ritorno a
Napoli giovedì 11 aprile portando da quelle piazze tutta la tramutata guarnigione (tutta bella
gente, a cui si stanno facendo li nuovi vestiti.) Tra le dette cinque compagnie di fanteria
italiana c'era quella del capitano Domenico Dentice, nobile ufficiale che, come vedremo, farà
carriera e anni dopo passerà infatti alla guida di un reggimento di cavalleria col relativo grado
di colonnello. Tra queste milizie spagnole e napoletane inviate in Toscana non si stabilì però
una convivenza serena, perché infatti nel giugno successivo si verificheranno a Porto
Longone feroci scontri tra le due nazionalità con numerosi morti, tanto da costringere il viceré
a inviarvi urgentemente alcune galere con il compito di riportarvi l'ordine. Una delle suddette
galere del duca di Tursi avrebbe poi proseguito per Genova per portarvi il reggente della Gran
Corte della Vicaria Marc’Antonio de Risi, il quale era in viaggio per Madrid dove andava ad
assumere il suo nuovo incarico di rappresentante del Regno di Napoli nel prestigiosissimo
Real Consiglio d’Italia.
Giunse un ordine reale del 3 aprile con cui il sovrano comandava di inviare oltremare i
soldati di nuova leva che si trovavano rinchiusi negli alloggi dell’arsenale al fine di reclutare i
terzi napoletani che servivano in Lombardia, catalogna e Fiandra. Venerdì 19 aprile il viceré
scese dal suo palazzo nel sottostante arsenale per porre il primo chiodo alle due nuove
galere - una Capitana e l'altra ordinaria - alla cui costruzione, per cui in genere occorrevano
non meno di una decina di mesi, si doveva ora procedere con gran fretta. Nello stesso aprile
tre delle galere del duca di Tursi che avevano partecipato alla muta delle guarnigioni di
Toscana partirono per Gaeta, dove portavano due compagnie spagnole e due italiane per
rinforzo di quell'importantissima fortezza.
La sera di venerdì 26 aprile arrivò l’alcance (‘corriero’) dalla Spagna, il quale questa
volta portava la nomina a generale dell'artiglieria del regno per il generale di battaglia Marzio
Origlia duca d’Arigliano; questi aveva ricoperto in precedenza con molto onore la carica di
sargente maggiore di battaglia in Fiandra e ora si trovava nello Stato di Milano alla testa di un
terzo di fanteria italiana. In questi giorni 11 remiganti erano fuggiti da una delle galere
ormeggiate a Napoli; essi, pervenuti alla spiaggia di Pozzuoli e trovata colà una barca con
due marinai, se ne impadronirono e, posti i due malcapitati sotto coperta, s’ingolfarono, cioè
fecero rotta verso il largo; incontrati però da una tartana, evidentemente da una di quelle
armate in corso che aiutavano la squadra di galere a difendere le acque del regno da pirati e
corsari nemici, furono da questa abbordati e, nello scontro che ne seguì, tre galeotti restarono
uccisi e gli altri feriti e ricondotti a Napoli, dove era già in corso il processo che avrebbe
sentenziato il loro castigo. Si era poi saputo dall'Abruzzo che il capo-brigante fuoruscito
Nicola Stellato, nativo di S. Maria di Capua, il quale si trovava riparato nello Stato
Ecclesiastico, avendo riattraversato il confine con numerosi accoliti e con l'intento di
svaligiare il procaccia di Sora, era stato subito inseguito dalle forze guidate dall'energico
preside dell'Aquila Antonio Minutillo e, raggiunto sul monte di Ceratola nell'Aquilano, lui, il suo
vice e un altro brigante erano stati uccisi e decapitati, quattro altri briganti erano stati
gravemente feriti, uno preso vivo e incolume e gli altri dispersi; era stato inoltre liberato un
ricatto, ossia un uomo che detti briganti avevano sequestrato poco prima con l'intenzione di
chiederne appunto il riscatto; le tre teste e il prigioniero incolume arriveranno poi a Napoli la
mattina di venerdì 3 maggio. Martedì 30 aprile partirono per la Calabria due galere con il
compito di sbarcare soldatesche spagnole che avrebbero dovuto catturare il barone di
Montebello, reo di gravissimi delitti. Egli infatti, invaghitosi della sorella del marchese di
Pentidattilo, l'aveva chiesta in moglie e, essendogli stata negata, aveva con uomini armati
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aggredito la famiglia del marchese in casa loro, sterminandola barbaramente, uccidendo
anche dei bambini, portandosi via degli ostaggi e infine rifugiandosi in un bosco alla testa di
150 albanesi del suo feudo. Il viceré aveva ordinato a tutti i presidi e ufficiali militari di quella
provincia d’arrestarlo, ma, considerate le forze di cui il barone disponeva, aveva dovuto
appunto inviare nella zona un contingente militare.
Avuta poi il viceré notizia, dopo qualche tempo, che il predetto barone di Montebello si
era già due volte cimentato con le forze che aveva colà inviato, forze che erano sotto la guida
del marchese Garofano, preside di Catanzaro, spediva immediatamente a quella volta altre
quattro galere con cinque compagnie di fanteria spagnola, mentre la mattina del 4 maggio
facevano ritorno a Napoli le prime due che aveva in precedenza mandato a Pentidattilo e così
si seppe che la strage commessa dal folle barone era consistita nell'uccisione di sette
persone e cioè del marchese, della madre, di una sorella, di un fratello e di due gentiluomini
di casa e in più di un servo del consigliero Pedro Cortez che colà accidentalmente si trovava.
Era il marchese del Carpio deciso a combattere la criminalità in qualunque classe sociale si
annidasse e infatti, oltre alla suddetta azione contro il barone di Montebello, le cronache di
questo bimestre di aprile-maggio riportano gli arresti domiciliari inflitti al principe di S.
Nicandro e la carcerazione di tutti i suoi servitori in seguito al ritrovamento di un cadavere di
donna in casa sua, inoltre l’arresto e la tortura del duca d’Ardore di casa Marzano per vari
misfatti da lui commessi, l’arresto del duca dell’Acconia di casa Piccolomini per aver fatto
uccidere una vedova; infine il trasferimento di quest’ultimo, del marchese di Brienza di casa
Caracciolo - entrambi detenuti nel castel dell’Ovo - e del governatore di questo, anch’egli
posto in stato di arresto, al castello di S. Eramo, dove non avrebbero potuto godere
dell’eccesso di libertà sino allora loro concesso appunto da detto troppo compiacente
governatore.
Venerdì 3 maggio era frattanto approdata a Baia la squadra delle galere pontificie in
viaggio verso il Levante, dove andava a unirsi all'armata veneziana che vi operava contro i
turchi; molti degli ufficiali che comandavano quei legni scesero a terra e furono a Napoli per
godere, ben che di passaggio, le delizie di questa Capitale. Queste galere riprenderanno il loro
viaggio la settimana successiva.
All’inizio dello stesso maggio era in quel mentre passato a miglior vita il già più sopra
ricordato fra’ Virginio Valle, tenente generale e in precedenza commissario generale della
cavalleria, morto a 76 anni dopo aver esercitato per ben 22 anni la carica di priore di
Sant’Eufemia nell’ordine gerosolimitano di S. Giovanni, vulgo di Malta. Tornarono poi dalla
Calabria le quattro galere mandate ultimamente contro il barone di Montebello e portarono
notizia che la vicenda si era conclusa con la fuga dal regno del barone, travestito da pecoraro
e accompagnato da due suoi accoliti; diversi altri suoi seguaci erano stati presi e portati a
Reggio, dove due erano in seguito stati strascinati per la città e poi arrotati, tre impiccati e altri
carcerati nell’attesa d'essere anch'essi giustiziati; raccontarono inoltre che due accoliti del
barone avevano opposto molta resistenza, fortificandosi in una piccola casa non lontana da
Reggio e colà avevano impegnato con gli archibugi i soldati che li assediavano, uccidendone
alcuni e colpendo addirittura il cappello del governatore di Reggio senza però procurargli
nessuna ferita; poi, dopo questo lungo contrasto, vista l'inutilità della loro difesa, si erano
arresi alle genti di corte, non senza aver chiesto però prima misericordia, ed erano stati
consegnati al predetto marchese Garofano. Il viceré fece subito pubblicare un bando che
poneva una taglia di 6mila ducati sul barone di Montebello, da pagarsi a chi lo ponesse vivo o
morto in potere della corte e inoltre si concedeva indulto generale, eccezion fatta per il
crimine di lesa maestà, a tutti coloro che avessero assistito o cooperato a detta cattura.
All'inizio del mese successivo arriveranno da Reggio notizie che daranno il barone non più
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fuoruscito dal regno, bensì protagonista di un nuovo scontro a fuoco con i soldati di
campagna, scontro accidentale da cui egli sarebbe riuscito ancora una volta a fuggire benché
stavolta ferito; in seguito né negli avvisi pubblici né nei diari privati si parlerà mai più del folle
barone di Montebello, se non per segnalarne la morte.
Nello stesso maggio intanto un altro capo-brigante era stato catturato e si trattava di
Marco Stellato, fratello del già decapitato Nicola; costui, segnalato tra le montagne della
baronia di Formicola in compagnia d'alcuni altri briganti, tra cui quello conosciuto come
L'Abate Marco, nativo d'Orta d'Atella, casale di Capua allora detto Orta delle Carti (sic). I
soldati inviati a quella volta dal viceré avevano preso vivo lo Stellato, decapitato uno dei suoi
compagni, seriamente feritone un terzo e inseguivano ancora i rimanenti.
Nella prima decade di giugno giunse a Napoli il già nominato mastro di campo Marzio
Origlia, il quale veniva ad assumere la sua nuova carica di capitano generale dell’artiglieria
del Regno di Napoli; arrivarono anche circa 30 schiavi turchi, tra uomini e donne, i quali erano
stati catturati sulle marine d'Otranto. Con una lettera al padre, il conte di Celano, il sargente
maggiore Francesco Piccolomini d'Aragona principe di Valle lo informava che il 13 giugno era
stato nominato colonnello di un reggimento cesareo e che c’era anche una nomina a capitano
di fanteria per suo fratello Enea, questo già in viaggio per Vienna; Francesco si trovava allora
all'assedio imperiale della fortezza di Buda, la cui cittadella era rimasta, come abbiamo detto,
in mano turca dopo il vano assedio del 1684, e, durante l'assalto generale del 27 luglio di
questo 1686, per imitare il principe Eugenio che, per esser più spedito, si era tolta la
giamberga, ossia la marsina, volle Francesco togliersi fatalmente la corazza e una palla lo
uccise. Il 9 settembre morirà anche Michele d'Aste barone d'Acerno in seguito alle molte ferite
riportate nell'assalto finale, assalto in cui egli si era comportato eroicamente, come si legge in
un certificato di servizio postumo citato dal Filamondo:
... Questo bravo giovine avea avuto l'honore (om.) di montare il primo su la breccia con cent'
uomini armati di corazza e piantare il primo lo stendardo della Croce su le mura di Buda.
Michele d'Aste, il quale era stato nominato luogotenente colonnello del reggimento del
marchese di Grana l'anno precedente, sarà sepolto nella cattedrale di Buda, nella quale infatti
si potrà poi leggere il suo epitaffio.
Tornando ora alle nostre cronache, diremo che alla fine di giugno di questo 1686
giunsero a Napoli dalle province due catene di condannati al remo, una di 14 e l'altra di 28
forzati. Alla fine della prima settimana di luglio lasciarono Napoli per Genova tre galere del
duca di Tursi che andavano a ricevere la catena dei condannati al remo provenienti dallo
Stato di Milano e quindi a provvedersi di remieri; evidentemente, pur se questa squadra era
tradizionalmente guarnita di fanterie originarie del Regno di Napoli, non le era però concesso
dal re di usare remiganti di quella stessa nazione e le erano pertanto a tal fine assegnati i
forzati del Milanese. Altre catene di condannati al remo arrivarono a Napoli nel luglio e cioè
venerdì 12 una di 16 inviata dall'udienza di Matera e, circa una settimana più tardi, una di 30
mandata dal Tribunale del commissario generale di campagna; tutti i condannati della prima
di queste due catene e cinque della seconda furono però, per ordine del viceré, rinchiusi nelle
carceri della Gran Corte della Vicaria perché le loro cause venissero di nuovo esaminate; il
perché di questo provvedimento non è riportato, ma c'è da credere o che si volesse
condannarli a periodi di voga più lunghi oppure a convertire le loro pene al servizio militare.
Seppesi che il generale delle galere di Malta, il quale, come abbiamo già detto, era
allora il priore dell'ordine a Napoli e cioè Gioan Battista Brancaccio, aveva inviato in dono alla
congregazione dei nobili di Sorrento uno stendardo turco da lui preso sotto la fortezza di
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Corone l'anno precedente, affinché fosse conservato nella locale chiesa di S. Bacolo, dove si
venerava il corpo di questo santo patrono, il quale, anch'egli di casa Brancaccio, era stato
vescovo di Sorrento.
Verso la fine di luglio arrivarono a Napoli dalla loro base di Gaeta quattro galere del
duca di Tursi che il viceré aveva richiesto; queste, assieme a sei galere napoletane,
salparono dopo dopo settimane alla ricerca - come si disse - dei corsari barbareschi che
recentemente avevano attaccato le marine pugliesi e calabresi prendendone schiavi diversi
abitanti; invece all'inizio della terza decade d'agosto quelle genovesi erano già di ritorno in
compagnia delle rimanenti tre della loro squadra, la cui galera Capitana recava a bordo lo
stesso duca d’Oria, per ripartire poi per Genova, sembra il 28 agosto, portando ora a bordo il
marchese di Cogolludo, generale, come sappiamo, di quelle del Regno di Napoli, il quale si
recava nel capoluogo ligure - dove arriverà la sera di lunedì 2 settembre - per poi proseguire
via terra per Milano e infine per la Corte di Madrid dove era stato convocato; in seguito, come
si leggerà in un avviso genovese del 15 settembre, gli equipaggi di queste galere dei
particolari genovesi verranno alle mani con quelli delle galere della repubblica restandone
alcuni uomini feriti; ritorneranno ancora a Napoli nei primi giorni d'ottobre, mentre le sei
suddette napoletane non riappariranno nella rada della capitale prima della mattina di lunedì
16 settembre; queste effettivamente avevano dapprima pattugliato le coste della Calabria fino
al Capo delle Colonne (oggi Capo Colonna), cosiddetto perché sormontato da antiche rovine,
e poi erano arrivate a Malta in una non ben precisata missione di supporto al Gran Maestro di
quell'ordine militare.
Dopo il 15 agosto arrivò a Napoli il conte di Sanfrè di casa Isnardi, inviato del principe di
Baviera alla corte pontificia per portare al Papa sollecitamente la notizia ufficiale dei primi
importanti risultati ottenuti dall’esercito imperiale impegnato nella riconquista di Buda, spinto
dal desiderio di vedere questa capitale, ed era questo un consueto prolungamento che coloro
che si recavano a Roma spesso decidevano, tale essendo la fama delle bellezze partenopee.
Napoli era allora infatti ricca non solo di suggestivi paesaggi e di venusta architettura, ma era
anche città ricca d'odorosi giardini, specie nel borgo di Chiaia. Nel pomeriggio di lunedì 19 il
marchese del Carpio, desideroso di mostrare all'ospite straniero la potenza militare del regno,
organizzò nel detto borgo di Chiaia una grande parata del tipo di quella che tradizionalmente
colà si teneva l’8 settembre in occasione della festa della Madonna di Piedigrotta. Si vide così
tutta la soldatesca spagnola squadronata in quattro battaglioni e spalleggiata dalla cavalleria;
furono schierati anche i riformati e i presidiari per far sembrare quelle forze il più numerose
possibile, mentre nel mare antistante quella lunga spiaggia si disponevano sia le galere della
squadra di Napoli sia quelle del duca di Tursi, tutte piacevolmente ornate di fiamme e
stendardi. Il viceré vi si recò in carrozza, seguito dalla sua compagnia di lance condotta dal
loro alfiere Miguel de Aguirre, da un nutrito corteggio d'altre carrozze e, nel tornare, fu
salutato da salve di moschetteria e dalle artiglierie delle galere. Purtroppo la manifestazione
fu funestata da un grave incidente; una galera, forse per la cattiva stiva, ossia disposizione
dei pesi a bordo, datale dal suo Comito, forse a causa di un’improvvisa ondata laterale,
certamente perché equipaggiata per l'occasione da gente inesperta, si rovesciò
improvvisamente su un fianco e si capovolse, provocando così l'affogamento di tutti i
disgraziati galeotti incatenati ai loro banchi.
Un avviso di Fiandra riportava l'arrivo in quella provincia di 400 fanti napoletani,
probabilmente un residuo dei 950 che, come abbiamo visto, avevano lasciato Napoli il 2
febbraio di questo 1686:
(Bruxelles, 5 settembre:) ... Li 400 fanti italiani levati a Napoli per reclutar li regimenti (‘terzi’) di
150
quella nazione sono arrivati a Malines, dove il mastro di campo Cantelmo è andato per ordine
di Sua Eccellenza (il governatore di Fiandra) per ripartirli ne’ quartieri di rinfresco.
Nello stesso settembre, celebratesi le solite ricorrenze di Nördlingen e della Natività
della Madonna, furono festeggiati a Napoli anche due importanti successi militari ottenuti
nella guerra contro i turchi e cioè la definitiva presa di Buda, avvenuta il 2 settembre dopo
lungo assedio da parte degli imperiali del duca Carlo V di Lorena - la città era stata in mano
turca sin dal lontano 1541, e, verso la fine del mese, quella di Napoli di Romania, città
costiera del Peloponneso, la cui resa era stata accordata il 29 agosto precedente dall'armata
cristiana formata dalle squadre unite di Venezia, Malta, Roma e Firenze, presa che si andava
ad aggiungere a quelle già ottenute in quel teatro di guerra l'anno precedente e che quindi
costituiva un’ulteriore conferma del declino della secolare potenza ottomana. La predetta città
greca era stata dall’armata cristiana bombardata sino a ridurla quasi in cenere, essendosi
evidentemente i veneziani già sufficientemente adeguati ai nuovi canoni della guerra
marittima da poco introdotti dai francesi; d’altra parte era questo un periodo in cui, proprio per
i grandi e innovativi risultati dimostrati dai transalpini in materia di esplosivi e di tecniche di
bombardamento, tutti cercavano in Europa di mettersi al passo; ecco a tal proposito un
divertente avviso di questo stesso anno:
(Genova, 12 ottobre:) Un tal Mulet ingegniero fiamengo offerisce di far fuochi da palla e da
bomba che uccideranno tutte le persone vicine al crepamento e dimanda 125 pezze il mese.
Se gli è risposto che qui non vi è alcuno che voglia esporsi a tali prove.
In realtà provare le artiglierie era sempre un operazione pericolosa in considerazione
che la prova si faceva con la carica di polvere massima che un pezzo si riteneva potesse
sopportare e ciò per testarne la resistenza del metallo e quindi la sicurezza; gli incidenti di
prova erano infatti tutt’altro che rari, come per esempio quello, avvenuto molti anni prima, che
ricordava il Montecuccoli, il quale molto amava far fondere e provare alla sua presenza
bocche da fuoco dalle caratteristiche innovative propostegli da altri esperti della materia o da
lui stesso immaginate:
Il 24 luglio 1670 feci prova di due mortaj fatti di nuovo, che gettavano 200 libbre di pietra
cadauno. Il primo tirò via la pietra, di peso libbre 185, a 900 passi; il secondo a 1.145 passi.
Indi si gettò una granata pesante libbre 245, la quale, appunto nell’uscir fuori della bocca del
mortajo, crepò in pezzi e l’uno d’essi colse nel capo, accanto a me, il mio segretario italiano
Giuseppe Minucci e lo ferì a morte. Successe questo per disavventura, che la granata, non
assai bene nel mortajo situata, si volse e il cannello (‘spoletta’) nell’uscir si ruppe, onde prima
del tempo prese fuoco e scoppiò.
Dopo quella di Napoli di Romania l’ammiraglio veneziano aveva proposto a quelli suoi
alleati una nuova impresa, ma quelli, scusandosi con il pretesto che la stagione era ormai
troppo avanzata per l’uso delle galere, si dichiarandosi costretti a rimpatriare e così l’armata
si disfece; in effetti ciò avveniva ricorrentemente nelle leghe marittime promosse da Venezia,
perché le potenze ponentine, pur correndo in suo aiuto essendo a ciò spinte e incitate
soprattutto dal Pontefice, pensando di andare ad agire in mari e territori che facevano parte
dell’area d’influenza della Serenissima e quindi soprattutto nel suo interesse più che nel
proprio, cercavano sempre di sganciarsi da quelle guerre quanto prima era possibile. Infatti la
mattina di lunedì 12 settembre approdavano a Baia le galere toscane di ritorno dalla
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campagna di guerra in Levante, mentre quelle pontificie passavano al largo senza fermarsi e
dirette alla loro base di Civitavecchia.
Giunse poi notizia che il napoletano Nicola Pignatelli duca di Monte Leone era stato
nominato dal re viceré di Sardegna, mentre anche giungeva nuova d'altre vittorie imperiali
nella guerra contro i turchi.
La sera di venerdì 8 novembre la galera napoletana Tre Re partì alla volta di Reggio
Calabria, dove si recava a prendere in consegna un buon numero di condannati al remo, ma,
non riuscendo a passare le bocche di Capri a causa del vento contrario, la sera seguente se
ne ritornò in porto a Napoli, da dove poi le riuscirà di ripartire con vento favorevole solo
sabato successivo; in quei giorni erano salpate anche le galere dei particolari genovesi, ossia
del duca di Tursi, che andavano a svernare a Gaeta e un’altra che portava reclute regnicole
assoldate dai veneziani per la guerra di Morea. Da un rogito del 26 novembre siamo poi
informati che si erano in quel mese inviati a Barcellona, con una nave inglese noleggiata per
l'occasione, 460 soldati regnicoli con otto capitani - ossia divisi in otto compagnie - e polvere
pirica. Per quanto riguarda invece le forniture di vestiario, si reperisce per quest'anno un solo
partito ed era per la fornitura di 800 vestiti violetti, cioè del colore che si usava per le fanterie
italiane.
Fattesi frattanto dal viceré le nuove nomine ai presidati provinciali, toccò quello di
Matera al mastro di campo Simonetto Rossi; arrivò poi, nell'ultima decade di novembre, nuova
dell'importante vittoria cesarea ottenuta in Ungheria tra Seghedino e Cinquechiese. Morto
giovedì 28 novembre il mastro di campo Antonio Valenguela, capitano a guerra della città di
Gaeta, il viceré lo sostituì pro interim con il mastro di campo Luis de Monroy. La mattina di
sabato 30 giunsero parecchie intere famiglie di dalmati mussulmani fatte schiave dai cristiani
sotto le piazze conquistate dai veneziani e dai loro alleati in questa guerra di Morea e si
diceva che sarebbero stati facilmente venduti a privati essendo tutti giovani sani.
Quando una delle compagnie di soldatesca spagnola era conferita a un nuovo capitano,
era consuetudine che il novello comandante offrisse agli ufficiali del presidio suoi
connazionali un ricevimento in occasione della sua prima entrata di guardia al palazzo reale
alla testa della sua compagnia; ogni mattina alle dieci una nuova partita di fanti spagnoli
veniva infatti a dare il cambio a quella già di guardia e, in attesa che questa uscisse con
bandiera e musica alla testa, dopo alcune evoluzioni si squadronava in bella vista nella
grande piazza davanti al palazzo assistita da una compagnia di cavalleria. Un tale evento
ebbe luogo sabato 7 dicembre e si trattava del capitano Carlos Condé (sic), familiare del
marchese di Cogolludo; gli ufficiali spagnoli, intervenuti per la maggior parte, formarono essi
stessi nel largo di Palazzo un bello squadrone e si videro offrire prima un copioso rinfresco di
dolciumi e poi ancora, la sera, una lauta cena, il tutto a spese del malcapitato nuovo capitano!
Alla fine dell'anno lettere di Spagna portarono la notizia che il re aveva nominato il detto
marchese di Cogolludo ambasciatore a Roma, incarico che questi manterrà sino al 1692, e
passato il generalato delle galere di Napoli al marchese di Camarasa.
1687. Alla fine di gennaio la galera napoletana S. Antonio portò a Palermo Diego de
Benavides marchese di Solera, figlio del viceré di Sicilia, e fece ritorno dopo una ventina di
giorni. Venerdì 31 tutta la fanteria spagnola e la cavalleria di Napoli, squadronate al borgo di
Chiaia, salutarono con salve di moschetteria Francesco II d'Este duca di Modena e Reggio, il
quale si trovava in visita a Napoli e quel giorno, servito da più tiri a sei del viceré, passava da
quella strada costiera per recarsi a vedere la famosa grotta di Pozzuoli, mentre nei giorni
precedenti, imbarcatosi sulla galera Capitana di Napoli e accompagnato da sette altre galere,
era stato portato in gita per le amene riviere del golfo fino a sera; questo principe lascerà
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Napoli martedì 4 febbraio, essendo diretto a Roma via Terracina, porto a cui fu portato con il
bergantino personale del viceré, non avendo egli complimentosamente accettato una scorta di
galere; ma il viceré ne invio due alla volta di Gaeta perché preavvisassero del suo arrivo le
cinque del duca di Tursi che colà stazionavano e le incaricassero di scortare Francesco II da
Gaeta all’imboccatura del Tevere, dove avrebbe poi risalito il fiume sino a Roma con il detto
bergantino. Il viceré di Napoli disponeva infatti di una sua gondola e di un suo bergantino, i
quali erano nel 1682 serviti da 18 marinari, i quali in realtà dovevano essere quasi tutti
semplici remiganti, in considerazione che si trattava di due vascelletti remieri; per i tre mesi da
luglio a settembre di detto anno si pagherà a costoro un soldo totale di ducati 405, poiché
essi ne prendevano infatti 7. 2.10 mensili ciascuno (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352). All’inizio di
marzo il viceré offrirà ancora due galere e questa volta al cardinale Carafa che si recava a
Roma e lo portarono infatti a Nettuno, da dove il prelato proseguì poi il viaggio per terra;
tornate poi queste galere verso la metà del mese, ne salparono altre due alla volta dell’isola di
Ponza e del Canale di Piombino per guardare quelle acque dai corsari barbareschi che in
quella stagione usavano infestarle. Verso la metà dello stesso marzo cominciarono a partire
per l'Austria giovani gentiluomini napoletani che andavano a militare in Ungheria sotto le
bandiere cesaree; i primi a lasciare Napoli furono Cesare Mormile, il quale parecchi anni dopo
morirà in Transilvania combattendo contro i turchi, e Francesco Montoja - costui sarà colà poi
fatto capitano di cavalleria - e li seguirono mercoledì 19 Carlo di Sangro dei marchesi di S.
Lucido, Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano e Nicola Caracciolo dei duchi di S. Vito:
... Essendosi per tal effetto inviati anticipatamente superbissimi cavalli di maneggio e sabbato
ebbero l'audienza di congedo da quest'eccellentissimo signor Vice-Ré, che benignamente
l'accolse, lodando una risoluzione così generosa, essercitando gl'atti della solita sua
generosità vuole accompagnarli con sue lettere di raccomandazione a Sua Maestà Cesarea e
all'ambasciatore per Sua Maestà Cattolica in Vienna...
Il de Sangro e il Carafa saranno assegnati al reggimento cesareo di cavalli corazze
Carafa, dove presto otterranno ambedue la capitania di una compagnia e il secondo ne sarà
poi anche il sargente maggiore.
Alla fine della terza settimana di marzo salparono da Napoli due galere con il compito
d'incrociare di conserva con quattro galere del duca di Tursi nelle acque di Ponza e del
canale di Piombino per ripulirle dai legni barbareschi che in quella stagione erano soliti
infestarle; torneranno sabato 12 aprile. Alla fine dello stesso marzo giunse a Napoli un
militare che nella guerra di Morea aveva già servito l'anno precedente e si trattava del
summenzionato Annibale Moles, mastro di campo del terzo di Milano, il quale, fatto di recente
duca di Parete, veniva a prendere possesso di questo suo nuovo feudo; egli in seguito,
perché riconosciuto austriacante, sarà fuoruscito e consigliere di Carlo d’Austria. Dopo circa
una settimana giunse poi notizia che il mastro di campo Melquior Dominguez, governatore
della fortezza del Carmine vulgo detta torrione, era stato nominato castellano e capitano a
guerra della città di Gaeta. Nel corso poi dello stesso aprile altre lettere di Spagna
informavano che era partito dalla corte di Madrid alla volta di Napoli il marchese di Camarasa
nominato generale della squadra di galere napoletane, come abbiamo già detto; informavano
inoltre che il duca di Monteleone aveva anch'egli lasciato quella corte per andare però ad
assumere il ben più importante vice-regnato di Sardegna, mentre al principe di Cariati di casa
Spinelli, grande di Spagna, era stato affidato quello d'Aragona; ancora, il mastro di campo
Restaino Cantelmo, il quale militava con il suo terzo in Fiandra, era stato promosso sargente
generale di battaglia, ma senza perdere il comando del suo detto corpo di fanteria. A
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proposito di quest'ultima promozione, bisogna chiarire che già allora nell'esercito spagnolo di
Fiandra, secondo un uso che stava diventando comune in Europa, gli ufficiali generali specie i sargenti - prendevano talvolta l'appellativo di battaglia, intendendosi con quest'ultimo
termine lo squadrone centrale della fanteria di un esercito in marcia od in combattimento e
quindi quello più importante, ossia il nerbo dell'esercito. Infine, arrivò il titolo di duca, oltre che
per Ignazio Provenzale, reggente della Vicaria, anche per il mastro di campo generale Marzio
Origlia e per il capitano di cavalleria Geronimo Caracciolo, mentre a Miguel de Aguirre, alfiere
della compagnia di lance del viceré, era data la libertà di scegliere in quale dei tre ordini
cavallereschi spagnoli volesse essere ammesso.
Venerdì 18 aprile dall'arsenale della capitale fu varata la nuova galera Padrona della
squadra di Napoli:
(Napoli, 23 aprile:) Sabato della caduta (settimana) fu data all'acque la nuova galera padrona
di questa squadra, che è riuscito uno delli più belli scafi che siano stati fabbricati in questo
arsenale per l'intagli della poppa tutta dorata e per il numero di banchi, portandone 27 per
ciascuna banda e fra breve se ne daranno due altre, lavorandosi a tutta fretta, premendo
all'inesplicabile vigilanza di quest'eccellentissimo signor Viceré l'accrescere il numero della
squadra
La seconda delle predette tre nuove galere sarà varata sabato 24 maggio, mentre si
lavorava alacremente anche alla terza. A questo potenziamento della marina da guerra
napoletana si riferirà anche un avviso del detto maggio:
(Napoli 6 maggio:) ... Parimente è capitata una catena di condannati al remo mandata dal sig.
preside della provincia di Montefuscoli marchese di Montepagano, don Cesare di Gaeta, la più
numerosa che sia venuta sine ora; erano tutti vestiti di color verde e bravi giovani,
proporzionati al ministero che devono esercitare...
Riteniamo necessario dire a questo punto qualcosa di queste galere, perché
costantemente presenti in queste cronache; certo non tratteremo di come funzionavano, di come
erano equipaggiate e armate né di come combattevano, sia perché argomento prolisso sia
perché lo abbiamo esaurientemente affrontato in un’altra nostra opera di futura pubblicazione sia
perché al riguardo già multi multa dicunt, affermandosi cose a volte esatte, a volte molto errate;
diremo in questo saggio solo dell’evoluzione che questi antichi e complessi strumenti di guerra
ebbero tra la fine del Cinquecento e quella del Seicento, materia anche più interessante perché
d’essa nulli ulla sciunt. Questa evoluzione, già in nuce alla fine del Rinascimento, aveva avuto
un’accelerazione subito dopo Lepanto, battaglia che aveva dimostrato quanto fosse importante
disporre di vascelli tecnicamente più evoluti oltre che meglio armati, anche se magari in numero
minore, piuttosto che presentarne in battaglia in numero superiore a quello del nemico ma più deboli,
come in quell’occasione avevano fatto, come da loro possibilità, gli ottomani, e porterà pertanto
queste galere, forse meno veloci ma più potenti, dette bastarde o bastardelle (‘più robuste’) e
anche (in)quartierate, adesso in qualche caso anche a sei remiganti per banco perché da tempo
ormai a remo di scaloccio, a sostituire progressivamente quelle sottili e a diventare così esse
stesse quelle ordinarie, anche se appunto usate in numero molto minore di quanto si faceva in
passato; le ultime squadre a rinunziare del tutto alle predette sottili saranno quelle turco-barbaresche
e, tra le cristiane, quella pontificia, la quale approfittava molto di fusti di galere regalatele da altri stati
italiani e, naturalmente, anche se talvolta erano stati costruiti per l’occasione, di solito non si
regalavano quelli nati da un progetto tecnico più all’avanguardia e costoso.
154
Ora dunque le galere ordinarie o comuni ricordavano per le dimensioni molto di più quelle pure cinquecentesche, ma molto più rare - che, essendo appunto fatte più (in)quartierate a poppa
(ven. alla barchesca), cioè più larghe, capaci e reggenti, e perlopiù anche un po’ più lunghe – e ciò
non tanto per poter portare a bordo più artiglieria (perché quella importante si portava in ogni caso
totalmente solo a prua), ma soprattutto per poter portare tanta più gente da rendere vincenti in
battaglia gli scontri diretti e gli abbordaggi, si erano usate appunto in quel precedente secolo
generalmente come galere di comando, ossia come Reali, Capitane e Padrone; queste galere
avevano l'estrema poppa divisa in due (come doi spichi d'aglio, Pantera, L’arm. nav.), ossia come
due mammelle - infatti il termine poppe verrà, per la somiglianza delle forme, presto in Italia
pudicamente esteso, con un significato che in latino non esisteva, anche a quel fondamentale
attributo del corpo femminile. Invece le suddette galere ordinarie d’una volta, cioè quelle sottili,
andate del tutto in disuso all’inizio del Seicento soprattutto per poter far meglio posto al nuovo
sistema di voga a scaloccio (cioè a remo unico per banco) che già alla metà del Cinquecento
aveva cominciato a sostituire quello antico di voga a sensile (cioè a più remi), avevano avuto la
poppa unita, stretta ed aguzza (ven. tagliata o in taglio), erano state inoltre un po’ più strette anche
a prua e più pianelle, cioè di poco pescaggio; esse, così stringate, erano però più veloci e andavano
meglio a remi, mentre le bastardelle o quartierate andavano meglio a vela e, data la loro maggior
capienza, potevano portare più combattenti e artiglierie; per il resto i due tipi erano del tutto simili.
Prendendo come esempio la grande ordinanza di marina francese del 3 settembre
1691, questa prescriveva ora galere ordinarie bâtarde (quindi lunghe 151 piedi di Francia da
estrema poppa a estrema prua (de capion à capion), cioè sperone escluso, e cioè circa 46
metri, larghe al centro circa m. 5,50, scalmiere (posticci o posticcie) escluse, mentre con
queste (d’un apostis à l’autre) quasi otto metri, e la cala o vivo o carena (oggi opera viva) dello
scafo, ossia la parte soggetta ad immersione e che terminava alla coperta, era alta al centro
solo poco più di m. 2,10, perché, se fosse stato invece più alta, logicamente non si sarebbe
potuto vogare ed ecco perché le galere, come del resto tutti i vascelli remieri escluse le alte
galeazze, erano così soggette a finire sott’acqua in caso di maltempo e non potevano
navigare se non nella buona stagione; infine i remi erano lunghi quasi m. 11,30. Queste
misure, sostanzialmente comuni a tutte le galere mediterranee di quel periodo
perché tutte dovevano essere particolarmente costruite a misura d’uomo, cioè di voga,
significavano che le galere ordinarie di ora, poppe quartierate a parte, pur essendo larghe al
centro ancora quanto le galere sottili ponentine post-lepantine (non però delle sottili
veneziane, un po’ più strette di circa trenta centimetri), erano però ormai più lunghe di circa
m. 3 e mezzo. Perché una larghezza sostanzialmente uguale e una lunghezza invece
superiore? La ragione era semplice: ora le galere comuni avevano, come appunto quelle di
comando di una volta, un paio di ordini di coppie di banchi remieri (remiggi) in più e cioè 27
(ma talvolta anche di più) invece dei tradizionali 25 (generalmente da 24 a 26), ma, pur
essendo chiaro che, così allungandole, bisognava anche allargarle in proporzione per non
renderle strutturalmente difettose o addirittura pericolose, si tendeva ugualmente a lasciarle
alquanto strette; infatti, più una galera era larga e più riusciva pesante, lenta e pigra nelle
manovre e bisognava pertanto, ad evitarle questo, necessariamente aumentare il numero dei
vogatori adibiti al remo di scaloccio; era dunque appunto tutta una questione di proporzioni e,
se entro i 26 ordini di banchi cinque remieri per remo erano sufficienti, al limite anche entro i
27, con 28 bisognava assolutamente aggiungere il sesto uomo e con 30 magari anche il
settimo, se c’era luogo per lui, quindi anche i banchi dovevano essere più lunghi e, di
conseguenza, tutta la galera adeguatamente più larga.
Nel Cinquecento si era provato a costruire, a Venezia e altrove, diversi dispendiosi
prototipi di galere molto più grandi, anche a sette remieri per banco, ma si erano sempre tutti
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rivelati deludentemente troppo lenti rispetto alle maggiori forze umane che richiedevano;
questo era il motivo per cui alla fine di quel secolo, per aumentare il numero dei rematori
senza dover necessariamente allargare e appesantire troppo la galera, si era inventato e
adottato il remo di scaloccio, sistema che prendeva sul banco lateralmente parecchio minor
spazio e quindi permetteva che vi sedessero un paio di remiganti in più.
Di minimo sette remieri a remo si servivano invece senza alcun problema le alte e
larghe galere grosse e galeazze, le quali però erano in realtà dei grandi velieri che
ricorrevano alla voga solo per facilitare e sveltire le manovre d’ormeggio e d’ancoraggio,
tant’è vero che, in caso di bonaccia, avevano essi stessi bisogno d’essere rimorchiati dalle
galere; poiché però gli unici a usare ancora questi pesanti legni anche come vascelli da
guerra erano i veneziani e quindi nel Mediterraneo occidentale raramente se ne vedevano,
non ne diremo altro.
Anche le galeotte erano cambiate, ma per un processo contrario, cioè perché erano state
sensibilmente rimpicciolite; dalla fine del Seicento esse infatti non erano più le vecchie bialberi a banchi biremi, perché queste erano state dismesse nel corso dello stesso secolo;
erano ora monoalbero e a banchi monoremi – dai 16 ai 20 per fianco; i loro remiganti erano
adesso volontari anche combattenti, pronti cioè a lasciare il remo e prendere invece il fucile
che tenevano riposto sotto il loro stesso banco, così come lo erano stati quelli delle vecchie
fuste e dei vecchi bergantini, vascelletti remieri ormai quasi del tutto dismessi e da non
confondersi con i più tardi velieri detti brigantini, restando pertanto in uso di quel genere
minore le sole barche lunghe adriatiche. Avevano quindi ora queste galeotte per forza di cose
poche artiglierie, cioè a prua un paio di corti e leggeri cannoni petrieri e le loro principali
misure erano ora una lunghezza da estrema poppa a estrema prua, il solo sperone escluso, di
poco più di 15 metri, una larghezza al centro di poco più di 3 metri e mezzo e un’altezza del
vivo al suo centro di circa un metro e 3/4.
Poiché le galere del regno di Napoli erano spesso in missioni lontane oppure occupate
nel trasporto di milizie di presidio, per una maggior difesa delle acque e delle coste del regno
da corsari e pirati stranieri, e le galeotte restavano comunque vascelli poco diffusi, si usava
ora correntemente dare patenti di corso a privati, i quali armavano a guerra le loro barche,
ossia i piccoli veloci mercantili a vela latina adibiti perlopiù ai traffici di cabotaggio, ma
anch’esse spesso al trasporto di milizie, essendo tra questi le veloci tartane i più diffusi nei
mari del regno; nel Cinquecento la barca non aveva avuto questo significato di genere, ma
era stato un solo preciso tipo d'imbarcazione a vele latine. Erano queste tartane originarie di
Marsiglia e pertanto erano dette a Genova marsigliane, da non confondersi però con i più
grandi vascelli tondi adriatici detti a Venezia marsiliane o marciliane, mercantili che andavano
dalle 1.500 a più di 3mila salme di carico, essendo la salma generale di Sicilia una misura di
capacità uguale al rubbio romano e corrispondente a 275 litri odierni; avevano solo due
alberi, cioè maestro e trinchetto, sui quali portavano tre vele; a volte ne usavano anche più di
tre, ma allora si trattava di vele piccole e sistemate in modo da navigare benissimo con ogni
vento e quasi con ogni tempo; a differenza dell’altre barche grandi, usavano però anche una
vela quadra di fortuna, ossia di burrasca, detta in italiano trevo come quella delle galere; in
caso di necessità potevano, come le polacche, andare a remi e probabilmente, anche come
quelle, con il sistema delle barche spagnole; queste ultime erano vascelli stretti ed ottimi
velieri e tra le molte peculiarità che presentavano avevano appunto quella di poter andare
anche normalmente a remi - 14 o più, perché, proprio a questo scopo, si poteva ad esse
asportare tutta la parte alta del fasciame rendendole così imbarcazioni di basso bordo.
Ancora come le polacche, queste tartane, molto usate nell’Italia meridionale anche per
formarne convogli granari e oleari, erano quindi talvolta armate a guerra con un minimo di
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quattro pezzi grossi ed una quarantina di combattenti, numeri questi che però potevano infatti
anche essere alquanto superiori a seconda della loro grandezza; erano usate, oltre che per il
corso, anche per la difesa costiera; comunque, questi legni molto spesso, anche quando
esercitavano il corso, non abbandonavano le loro attività mercantili, anzi le alimentavano in
gran parte proprio con la vendita dei bottini acquisiti. A proposito poi delle suddette marsiliane
adriatiche, molto adoperate dai veneziani come navi da gran carico specie per la traversata
da Venezia all’isola di Zante, in questa seconda metà del Seicento erano talvolta dai maltesi
anch’esse, equipaggiate con circa 25 uomini, usate per andare in corso in Levante.
I vascelli adibiti al corso, anche se generalmente piccoli, erano però armati sino ai
denti e sovraffollati d’uomini per poter così più facilmente soverchiare qualsiasi legno nemico;
nel 1628, ad esempio, il famoso corsaro inglese sir Kenelm Digby, il quale si trovava dall’anno
precedente a corseggiare nel Mediterraneo, annotò nel suo diario di bordo d’aver incontrato
una saettia da guerra di Malta che, pur stazzando solo cento tonnellate da duemila libbre, era
armata con 11 bocche da fuoco ed equipaggiata con ben 120 uomini! (). Nell’estate del 1697
le galere maltesi catturarono una tartana corsara tripolina, che, armata di ben 80 uomini, otto
pezzi di cannone e 20 petriere, prima di farsi prendere aveva provocato notevoli perdite ai
maltesi, specie col lancio di fiaschi e pignatte di fuoco artificiato, un tipo d’arma allora ancora
in uso nella guerra marittima.
Con sua lettera al viceré del 3 aprile 1666, poi seguita da formale cedola d’autorizzazione
del 3 ottobre, documenti poi entrambi richiamati con dispaccio reale del 15 novembre 1667,
il re aveva chiesto la formazione di una compagnia d’armamenti privati (per poter corsegiare
contro l’inimici di sua Real Corona e assicurare la navigazione), intendendosi ancora allora dare
anche a simili congregazioni di pubblica utilità il carattere di compagnia militar-cavalleresca con
una regola da osservare, e questa è dunque appunto l’origine di questo nome militare di compagnie
che ancora oggi conservano le società di navigazione. Il termine armatore (fr. armateur, capre;
ol. kaaper, reeder, kruisser, commissie-vaarder e bewrakters) era infatti allora non altro che
sinonimo di 'corsaro' e si dava a privati che appunto ‘armassero’, cioè dotassero di armi, un
vascello reale o pubblico per poter esercitare la lucrosa guerra di corso, mentre per l’esercente
di un mercantile nel linguaggio legale ancora s’usava il lt. exercitor. Con detto nome di
armatore s’intendeva sia colui che aveva ottenuto dal principe la patente di corso (sp.
ordenanza de corso; fr. commission; ol. commissie, bestellinge) e aveva a sue spese
armato un vascello sia talvolta il comandante del vascello stesso; infatti l’armatore poteva
scegliere se condurre il suo legno in corso da sé oppure se affidarlo al governo d’un comandante
di sua fiducia, il quale poteva ricevere da lui una paga e prender parte al bottino oppure aver
diritto al solo bottino (fr. capre à la part) e ciò a seconda della carta stipulata tra le parti (fr.
charte-partie, abbr. di la charte de les parties).
L’attività d’armamento per il corso era molto diffusa sia nel Mediterraneo sia nell’oceano
Atlantico; in Francia, per esempio, molto dediti alla guerra di corso oceanica erano tradizionalmente
duncherchesi, maloini e roccellesi; tanti erano però i veri e propri pirati che usurpavano i
detti titoli d’armatore e di corsaro per guadagnarsi un’immeritata legittimazione e rispettabilità che
nel Settecento il termine corsaro – anche con la sua variazione corsale – prenderà a significare
appunto ‘pirata’, così lasciando il suo significato originario solo a quello d’armatore, il quale a sua
volta dalla fine del Seicento comincerà a perdere il suo senso bellico per prendere a significare
invece il mercante che - in toto o pro rata - noleggiava, equipaggiava e munizionava un vascello
a scopo non di guerra, bensì di commercio.
Nel corso del Seicento nacque nelle Antille francesi il termine filibustieri (fr. fribustiers,
flibustiers; dall’ol. vry-buiters o dal td. Freib(e)utere, ‘liberi battellieri’), il quale, derivando dal
perduto francese friou, parola che significava passe, debouquement, ossia ‘passo marittimo,
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canale’, e dall’atlantico botiers, booters, boaters (‘naviganti’), voleva dire quindi dapprima
semplicemente ‘passatore’, nel senso di ‘traghettatore’; presto però evidentemente questi
traghettatori trovarono più conveniente darsi alla pirateria costiera, tendendo le loro insidie e
preparando il loro agguato ai piccoli mercantili che s’inoltravano appunto negli stretti passi o
canali esistenti tra le isole caraibiche; infine, raccolti, organizzati e strumentalizzati in funzione
anti-spagnola da corsari patentati da altre potenze europee, le quali avevano appunto molto
interesse a ostacolare l’espansionismo americano della Spagna, si dettero a imprese maggiori,
a volte anche clamorose.
Nell’ultima decade d'aprile avvenne una muta delle guarnigioni dello Stato dei Presidi di
Toscana un po’ più importante del solito; infatti partivano insieme per quelle piazze quattro
galere di Napoli e quattro del duca di Tursi, le quali, oltre a 15 compagnie spagnole e tre
italiane, portavano a bordo anche il sunnominato mastro di campo generale Marzio Origlia, il
quale si recava a visitare quelle fortezze essendogli stato frattanto anche conferito il vicariato
generale (‘governatorato’) di detto Stato. Dalle lettere di Spagna dell'ultima decade di maggio
si seppe poi che due vascelli dell'armata reale spagnola avevano lasciato Cadice sotto il
comando del già ricordato ammiraglio Papacino ed erano dirette in Italia, dove portavano
Juan Francisco Paceco duca di Uzeda, nuovo viceré di Sicilia e poi dal 1699 ambasciatore di
Spagna a Roma, il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere napoletane, e Andrea
d’Ávalos principe di Montesarchio, il quale rimpatriava definitivamente perché, a causa della
sua tarda età, era ormai stato dispensato dal servizio attivo; infatti detti due vascelli
entreranno nella darsena di Napoli alla fine di giugno per esser sottoposti a lavori di
carenamento. In quel mentre si erano fermate a Castell'a Mare di Stabia le galere toscane, le
quali erano dirette in Levante per partecipare alle nuove operazioni di guerra contro l'impero
ottomano, e il loro generale commendator Guidi, accompagnato da altri cavalieri e ufficiali di
quella squadra, si era portato a Napoli per complimentare (ossequiare) il viceré; poi
ripartiranno facendo rotta verso Messina.
A Milano, tenutasi il 9 maggio una rassegna generale dell'esercito, vi risultarono in
servizio, per quanto riguardava i corpi napoletani, il terzo del mastro di campo Marc'Antonio
Colonna (144 ufficiali ed 877 soldati) e cinque compagnie di cavalleria (32 ufficiali e 322
soldati).
All'inizio di giugno morì a Napoli, dopo quattro giorni di malattia, il sargente maggiore
riformato Alfonso di Leone, militare molto distintosi e molto pratico della milizia. Nella prima
decade del mese il viceré, passando nei pressi delle carceri di S. Giacomo, le quali erano
riservate agli spagnoli, ordinò all'auditore generale dell'esercito di rivedere le cause di quei
carcerati e di ridurne le pene, in modo che la maggior parte di quelli n'ottenne la libertà e si
trattava ovviamente di una generosità programmata ed esercitata solo a beneficio degli
spagnoli; d'altra parte, se la Spagna era riuscita a conquistare gran parte del mondo con quei
pochi soldati che dalle sue semi-spopolate regioni si riuscivano a trarre, vuol dire che quegli
uomini erano militarmente troppo validi e preziosi perché ci si potesse permettere ancora lo
spreco di tenerli inattivi in carcere.
Sempre all'inizio di giugno, avutasi notizia che tre caravelle turchesche erano state
avvistate al largo di Capri, il viceré fece allestire in fretta otto galere di Napoli e sette del duca
di Tursi e la sera di lunedì 9 giugno le fece partire in traccia di detti legni corsari; si trattava
però di misure inadeguate e infatti nello stesso giugno i turchi devastarono le coste pugliesi
facendovi numerosi schiavi, ma questa fu una delle loro ultime grandi razzie nel meridione
d'Italia, anche se in realtà continuarono a infestare i mari del regno anche nel secolo
successivo e fino al 1830, quando i francesi, con opera molto meritoria, posero fine a questa
secolare iattura occupando la parte costiera dell'Algeria. Martedì 10 giugno fu arrestato a
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Napoli un soldato italiano perché sorpreso a borseggiare; il disgraziato fu condannato alla
frusta e a ben dieci anni di voga nelle patrie galere. Venerdì 13 fecero ritorno le 15 galere che
avevano scorso i mari di Ponente alla ricerca dei tre predetti legni barbareschi e portavano a
bordo il duca di Tursi, trasbordatovi da una galera di Genova che le aveva raggiunte in
navigazione; questi 15 legni ripartirono la sera di lunedì 16 facendo rotta verso Gaeta, dove
conducevano ora il marchese di Cogolludo e la sua consorte; faranno ancora ritorno a Napoli
venerdì 20, mentre erano salpate per scorrere i mari di Levante, infestati dai turcobarbareschi, le restanti sei galere della squadra del Regno di Napoli. Frattanto, la mattina di
giovedì 19 giugno erano arrivati i due suddetti vascelli spagnoli da guerra dell'ammiraglio
Papacino, i quali, come abbiamo detto, riportavano in patria il vecchio principe di
Montesarchio Andrea d’Ávalos e inoltre venivano a far carenamento. Con le lettere di Spagna
giunse infine la nomina a governatore della fortezza del Carmine per il sargente maggiore
Rodrigo Correa, il quale trovavasi allora alla corte di Madrid.
Nell'agosto, nella zona centrale di Napoli detta i quartieri spagnuoli, ci fu un’ennesima
rissa tra soldati spagnoli e regnicoli con il risultato di parecchi morti da una parte e dall'altra e
con tanto rancore non sopito che la cosa si ripeté di nuovo il mese successivo a Pozzuoli,
(essendo queste due nazioni esasperate per molte buglie (risse) e uccisioni successe fra di
loro in Napoli).
A metà agosto si ricevette con gran giubilo l'avviso che i veneziani avevano in Morea
conquistato, oltre Atene, anche Lepanto e Portrano con i due Dardanelli, mentre nello stesso
mese, poiché i mori avevano posto l'assedio alla guarnigione spagnola di Melilla in Africa, vi
fu mandato in soccorso il terzo fisso napoletano dell'armata oceanica, il quale si trovava allora
acquartierato a Granata sotto il comando del mastro di campo Antonio Domenico di Dura; i
napoletani arrivarono a Melilla il primo settembre 1687 e il di Dura assunse anche il comando
della città poiché di recente ne era morto il governatore. Tutti gli assalti nemici furono respinti,
tanto da convincere i mori, in seguito sconfitti dal di Dura anche a Orano, a lasciare il campo.
Intanto Luigi XIV di Francia, continuando nella sua odiosa politica dei colpi di mano, la quale
gli procurava l’ostilità di tutta l'Europa, faceva occupare dal suo esercito altre importanti città
tedesche, tra cui Heidelberg.
Sabato 13 settembre un soldato spagnolo uccise per ignoti motivi un ex-soldato
napoletano e, che si trattasse di un militare congedato, era dimostrato dalla circostanza che la
vittima ancora vestiva la sua uniforme turchina, colore che, detto a volte anche violetto oppure
paonazzo, distingueva appunto le fanterie regnicole da quelle spagnole del terzo fisso di
Napoli che invece vestivano di rosso. Domenica 28 settembre fra’ Tomaso Caracciolo,
cavaliere gerosolimitano, entrò di guardia per la prima volta con la compagnia di cavalleria
che gli era stata conferita per la rinunzia del fratello Girolamo; vedremo poi questo nuovo
giovane capitano arrivare alla carica di mastro di campo. Nel novembre giunse nuova che si
sarebbe presto tolto il governatorato di Ungheria al napoletano Carafa, perché di quel paese
si stava per incoronare re il primogenito dell'imperatore Leopoldo I e nello stesso mese morì
improvvisamente il viceré marchese del Carpio, l'implacabile estirpatore del brigantaggio, e i
suoi funerali, avvenuti mercoledì 19 novembre, ripeterono, anche se con molto maggior fasto,
le scene militari che si erano viste l'anno precedente in occasione di quelli di fra’ Titta
Brancaccio, con le bandiere prostrate per terra, con le banderuole delle lance della guardia
nere in segno di lutto, con lo stendardo detto il Guidone, insegna di capitano generale del
Regno, anch'esso con il fondo nero, con un pezzo d'artiglieria che sfilava tirato da quattro
mule coperte da gualdrappe altrettanto nere, con le armi da fuoco che sparavano meste
salve. Venerdì 21 giunse da Roma il contestabile (dal lt. cohonestabilis) Colonna in qualità di
reggente del regno e nominò suo Segretario di Stato e Guerra pro interim Gioseppe di
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Ripalda; si susseguirono poi nel dicembre altre nomine, tra cui quella, nepotistica per
antonomasia, del principe di Sonnino, appunto nipote del Colonna, a tenente della compagnia
di lance e quella di Gregorio Buratti ad alfiere della medesima compagnia. Alla metà dello
stesso dicembre arrivarono inoltre lettere di Spagna con il conferimento della nomina a
mastro di campo generale del regno a Fernando Gonzales de Valdés, generale dell'artiglieria
dello Stato di Milano, a cui abbiamo già accennato, mentre sabato 20 giungeva a Napoli
anche il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere napoletane.
Per quanto riguarda le leve militari di quest'anno, si trova notizia di due partiti di vestiti
violetti e cioè uno di 500 del 26 marzo stipulato con il partitario Aniello Pecoraro e un altro di
250.
In quest’anno, il 12 agosto, i turchi di Süleyman Pasha erano stati frattanto
pesantemente sconfitti dagli imperiali di Carlo V di Lorena, Eugenio di Savoia e Luigi del
Baden al monte Harsány presso Mohács nell’Ungheria meridionale; ne conseguirà un
notevole arretramento ottomano e il ritorno all’impero di Bosnia, Serbia e Valacchia.
1688. Domenica 4 gennaio di questo nuovo anno si fecero entrare in Napoli tutte le fanterie
regnicole che avevano quartiere a Pozzuoli e a Gaeta e le si rinchiusero nell'arsenale
nell’attesa di poterle imbarcare per lo Stato di Milano; ai soldati destinati all'estero si cercava
ovviamente di nascondere sino all'ultimo la loro destinazione, specie in tempo di guerra, ma,
quando essi si vedevano alloggiati e rinchiusi nei quartieri dell'arsenale, alloggi che, pur
essendo stati molto aumentati proprio dal marchese del Carpio, il quale aveva pure abbellito
l’arsenale nel suo complesso, ciò nondimeno continuavano ad assomigliare molto di più a un
carcere che a un alloggiamento militare, era allora lor chiaro che li aspettava una traversata di
mare sulle anguste galere e poi, se non guerra, presidi in terre lontane, da cui molto
improbabilmente sarebbero tornati a rivedere il loro paese. Le cronache del tempo non ci
dicono quanti fossero i soldati rinchiusi nell'arsenale in detta occasione, ma c'è un rogito del
13 ottobre che si riferisce a un partito di 250 vestiti per fanteria italiana fatto ultimamente col
partitario Nicola di Martino; quando poi queste fanterie partirono effettivamente per quel
terminale marittimo dello Stato di Milano che era Finale in Liguria non sappiamo.
Verso la fine di gennaio, in sostituzione del defunto marchese del Carpio, verrà ad
assumere l'incarico di nuovo viceré del Regno di Napoli Francisco de Benavides de Avila y
Corella conte di San Estévan, il quale ne aveva ricevuto la nomina a Madrid il 20 dicembre
precedente, e infatti già venerdì 23 della cavalleria aveva lasciato la capitale per andarlo a
ricevere al confine con lo Stato della Chiesa e poi scortarlo a Napoli. Tra i primi provvedimenti
del de Benavides vi furono lo spostamento del sunnominato Gioseppe di Ripalda al molto più
modesto incarico del governo della città di Taranto, la concessione a Marzio Origlia della leva
di 100 uomini da mandare a Milano a formarvi una compagnia da porre sotto il comando di
suo figlio e la nomina di Francisco Fernández Ladron de Guevara, già destinato a capo di
ruota della provincia di Bari, ad auditore generale dei Presidi di Toscana.
I duelli tra militari erano proibiti dalle regie prammatiche, ma ogni tanto ugualmente si
verificavano:
(Napoli, 17 febbraio:) Essendo corsa disfida tra un capitano d'infanteria con un alfiero nipote
del maestro di campo del terzo, vi restò morto con doi stoccate il sudetto capitano don José
Lopez Serrano (A.S.V. Nun. Nap.103).
Circa due settimane dopo l'episodio predetto tornarono a Napoli due galere del duca di
Tursi che avevano portato la muta della guarnigione di presidio a Reggio Calabria; le stesse,
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unitamente ad altre cinque della stessa squadra arrivate martedì 24 da Gaeta, ripartirono il
seguente martedì 2 marzo per i Presidi di Toscana, dove portavano ben 11 compagnie di
fanteria e munizioni, mentre stava per mettersi alla vela per la stessa destinazione un legno
carico di munizioni e attrezzature militari; le compagnie predette viaggiavano sotto il comando
di un vecchissimo soldato, cioè di Camillo di Dura duca d'Erchie (Brindisi) che si recava nello
Stato dei Presidi col titolo di vicario generale; costui, il quale durante la guerra di Messina,
cioè a partire dal marzo 1675, era stato governatore dell’armi della provincia di Lecce, in
seguito era stato fatto generale dell'artiglieria ad honorem con deliberazione reale del 15
dicembre 1681 e con altre del 21 settembre 1684 aveva appunto visto elevare a ducato il suo
feudo d’Erchie nella provincia di Terra d'Otranto.
Di gran protezione da parte della corte napoletana godevano solitamente i birri perché,
anche se spesso si trattava di ex-delinquenti passati dalla parte della giustizia per evitare
pesanti condanne, erano comunque insostituibili nella difesa dell'ordine costituito e della
società civile, e ciò anche a discapito dei nobili, dei militari e di chiunque si permettesse
d’offenderli o dileggiarli:
(Napoli, 16 marzo:) Essendo seguita differenza tra soldati di cavalleria e sei birri di campagna
nel passare che questi fecero avanti la guardia d'essi soldati nel quartiero di Chiaia, ha
comandato il signor Viceré che don Sigismondo Rho, tenente generale della cavalleria, debba
costituirsi in Castelnuovo (ib.)
In pratica il da Rhò, numero due della cavalleria del regno, era arrestato per le
intemperanze dei suoi soldati; infatti il carcere riservato ai nobili era appunto sito nel Castel
Nuovo, oggi detto Maschio Angioino.
Nella notte tra giovedì primo aprile e venerdì 2 morì il generale Francisco Velasquez
mastro di campo del tercio di Napoli, il quale era parente strettissimo del contestabile di
Castiglia, commissario generale della cavalleria di Catalogna, e la sua carica fu conferita pro
interim al sargente maggiore dello stesso terzo spagnolo. Qualche giorno dopo tale decesso
morì pure,dopo grave malattia, il marchese del Tufo, luogotenente del mastro di campo
generale Marzio Origlia e il suo posto fu preso da Eustachio Brancaccio, il quale pare fosse
già aiutante di mastro di campo generale, a ciò promosso con cedola reale dell’8 agosto 1679,
mentre, all'inizio dello stesso aprile, il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere
napoletane, aveva stabilito la sua residenza nella fortezza di Castel Nuovo. Verso la metà di
maggio arrivò da Milano il sunnominato Fernando Gonzales de Valdés, il quale doveva
sostituire Marzio Origlia nell’impiego di mastro di campo generale, carica che quest'ultimo,
come del resto anche il suo predecessore fra’ Titta Brancaccio, aveva esercitato solo pro
interim; all'Origlia restavano così le cariche di generale dell'artiglieria del regno e di vicario
generale dei Presidi di Toscana.
Nella prima settimana di luglio approdarono nel Napoletano quattro galere del granduca
di Toscana che si diceva andassero in Levante a unirsi all'armata veneta che colà combatteva
contro i turchi; giunsero poi in porto a Napoli due galere della squadra di Sardegna. Si varò, al
cospetto del viceré, una nuova galera, mentre di lì a qualche giorno se ne sarebbe dovuta
varare anche un’altra; comunque ecco la rivista passata il 18 dello stesso luglio alla squadra
delle otto galere del regno:
Galera Padrona
“ S. Gioacchino
“ S. Ferdinando
161
“
“
“
“
“
I tre re.
S. Antonio
S. Caterina
S. Rosa
S. Gennaro
C’erano poi due feluche per servizio dell’armata. Le categorie di uomini imbarcati, le
quali si differenziavano a seconda del ruolo e dei benefici di paga che implicavano, erano le
seguenti:
Ufficiali
Intrattenuti
Avvantaggiati
Timonieri, marinari avvantaggiati e franchi
Marinari di guardia
Prodieri
Non potendo dilungarci sulle predette categorie di uomini di galera diremo solo che i
marinari avvantaggiati e franchi comprendevano anche i mastri di bordo, quali remolaro,
bottaro, calafato ecc.
Inoltre la rivista interessava anche uomini di terra della squadra e cioè ufficiali della
scrivania di razione e della veditoria, ossia ragionieri e ispettori. Risultano poi in questo Fondo
d’archivio Galere e per questo stesso 1688 dei pagamenti fatti a uomini dell’armada naval de
Flandes; forse legni napoletani facevano parte allora di quell’armata, certo comunque erano
sempre tante le voci di spesa che si pagavano all’estero con i soldi sottratti ai contribuenti del
Regno di Napoli!
Luis Espluga, castellano di Castel S. Eramo, ebbe la nomina a mastro di campo del
terzo spagnolo in sostituzione del defunto Velasquez e giunse inoltre notizia di due
promozioni di due napoletani avvenute nell'esercito imperiale di Ungheria, cioè Carlo de
Sangro, fratello del marchese di Santo Lucido, era divenuto capitano di una compagnia del
reggimento di corazze Piccolomini Senese e Francesco Mentia aveva invece ottenuto una
cornetta (‘posto d’alfiere’) nel reggimento del colonnello Gondola.
(Napoli, 23 luglio:) Si condusse domenica il signor Viceré per mare alla deliziosissima riviera di
Posillipo col signor generale delle galere di Napoli e di Sardegna e (con il) mastro di campo
(‘generale’) Valdés con seguito di feluche (ib).
In quei giorni partirono in corso verso Levante contro i legni barbareschi le squadre di
galere di Napoli e del duca di Tursi, le quali si sarebbero però prima dovute unire allo stesso
scopo con quella di Sicilia; restarono a Napoli, a disposizione del viceré, solo due galere e
cioè quella napoletana dal nome di Santa Rosa e quella del duca di Tursi che si chiamava
invece San Francesco di Paola. Le due squadre fecero ritorno a Napoli all’inizio di settembre
senza aver avuto incontri con legni barbareschi.
Nell’agosto ancora una volta un’armata francese bombardò terribilmente Algeri,
rovesciandole sopra questa volta, prima d’andarsene, tutte le 10mila bombe di cui disponeva,
In quel mentre nell’Europa orientale continuava l’arretramento dei turchi, i quali nel corso di
quest’anno, il 6 settembre, saranno infatti costretti a cedere Belgrado assediata da
Massimiliano Emanuele di Baviera e gli imperiali potranno così occupare la Serbia, la Bosnia
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e la Valacchia. Belgrado però tornerà in mano turca nel 1690.
In quest'anno era generale delle galere dei cavalieri dell'ordine di S. Giovanni
Gerosolimitano, ossia di Malta, il napoletano fra’ Carlo Spinello (Spinelli; nel Seicento ancora
spesso si aggettivano i cognomi) dei duchi d’Acquara (Acquaro, presso Catanzaro). A
novembre il viceré nominò suo genero il marchese di Aytona tenente della sua compagnia di
lance e il governatore di Pescara Juan de Noriega, in considerazione che era persona pratica
di cose militari, tenente generale con incarico pro interim del governatorato d’Orbitello. Infatti
il de Noriega partirà per quella fortezza il mercoledì 24 novembre approfittando di una delle
periodiche mute di guarnigione inviate ai Presidi di Toscana, mute che avvenivano
semestralmente, cioè all’incirca verso aprile e verso ottobre d’ogni anno; si trattava di quattro
delle sette galere della squadra del duca di Tursi che trasportavano una spedizione di 300
fanti italiani con munizioni e attrezzature militari e sulle quali si era pure imbarcato il generale
dell'artiglieria Marzio Origlia, recandosi questi ufficialmente a visitare quelle piazze con titolo
aggiuntivo di vicario generale dei Presidi di Toscana; in realtà nei mesi precedenti era stata
scoperta una congiura filo-francese capeggiata dallo stesso governatore d’Orbitello, un
fiammingo, e da alcuni ufficiali di quella piazza, tra cui il marchese Vitelli, valoroso capitano di
fanteria; la Francia infatti aveva dichiarato guerra anche alla Spagna ed era così iniziata
quella guerra della lega d'Augusta che terminerà solo nove anni più tardi. Carcerati i
congiurati da Camillo di Dura duca d’Erchie, vicario generale dei Presidi di Toscana, costui
non poté però evitare di essere sostituito per scarsa vigilanza e fu nominato infatti al suo
posto, come abbiamo appena detto, l'Origlia spalleggiato dal de Noriega.
Nella prima settimana di dicembre giunse a Napoli una nuova compagnia di fanteria
spagnola comandata dal capitano Andrés Francisco Bardaji; nella terza settimana dello
stesso dicembre salpò dal porto della capitale un vascello genovese che portava a Finale
Ligure un buon numero di soldati regnicoli destinati invece a reclutare i corpi napoletani
dell’esercito dell’Alta Italia; infine verso Natale il viceré conferì a Cristóbal Urtado la carica di
governatore e capitano a guerra della piazza di Reggio Calabria.
Per quanto riguarda i riscontri di forniture di vestiario, c'è da dire che uno strumento del
13 ottobre ha per oggetto un partito di 300 vestiti per cavalleria e 200 per fanteria ambedue
italiane; ma i primi non sono sicuramente riferibili ai 300 uomini inviati in Toscana, perché
quelle fortezze non erano circondate da territori sufficientemente vasti per potervi impiegare
soldati a cavallo; d'altra parte al partitario Gregorio Fontana si dava tempo per la consegna
sino al 20 dicembre e invece i 300 soldati in argomento erano, come detto, partiti già nel
novembre.
In questo anno la Francia, già dimentica del trattato di Ratisbona, aveva dichiarata la
guerra all'Impero e all'Olanda, e nel settembre invaso e devastato nuovamente il Palatinato,
cominciando con l’assediare Philippsburg, la quale era poi caduta il 30 ottobre, e poi
Mannheim, capitolata l’11 novembre, e decine di altre città, specie le fortificate Mainz e
Coblenza. Guglielmo d’Orange, marito di Mary Stuart, chiamato dai protestanti contro il
cattolico re Giacomo II Stuart, era sbarcato in Inghilterra il 5 novembre a capo di una forza
olandese e, incontrando pochissima resistenza, il mese seguente aveva raggiunto Londra,
dove era stato acclamato re al posto dello Stuart, il quale era nel frattempo fuggito in Francia.
1689. Il primo episodio di rilevanza militare riportato per questo nuovo anno 1689 fu l’arrivo di
un real ordine datato 7 gennaio in cui si ordinava la riforma, ossia l’abolizione della Real
Cavallerizza della Maddalena, della Razza di Puglia e del ‘Castello di Lecce’, ossia del suo
presidio e della sua castellania; ci fu poi la partenza del marchese di Solera figlio del viceré,
avvenuta giovedì 10 febbraio, alla volta della Lombardia, dove già aveva inviato buona parte
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dei suoi famigli e dove andava ad assumere il suo nuovo duplice incarico di mastro di campo
del terzo spagnolo di Lombardia e di governatore di Novara. All’incirca negli stessi giorni
arrivava invece a Napoli Alonzo de Salvedo, nuovo castellano di Castel S. Eramo, il quale,
appena giunto, si vide conferire dal viceré anche il prestigioso titolo di membro della Giunta di
Guerra.
Nel marzo si celebrarono a Napoli l’esequie per la morte della regina Maria Luisa di
Borbone, avvenuta a Madrid il 12 febbraio precedente alle ore 14, ossia alle 10 d’oggi; alla
fine della seconda settimana dello stesso marzo partì per la Spagna il mastro di campo
Antonio Saiger de Cordoba con l'incarico d’arruolare un nuovo terzo di mille fanti, mentre per
converso una decina di giorni più tardi arrivavano a Napoli dalla Spagna il capitano
napoletano di cavalleria Domenico Dentice, il quale, evidentemente nominato mastro di
campo, doveva levare un nuovo terzo di napoletani con cui ritornare poi in Catalogna, e a
Baia dalla loro base di Gaeta le sette galere della squadra del duca di Tursi, le quali
imbarcarono colà munizioni militari e ben 17 compagnie di fanteria spagnola da trasferire ai
Presidi di Toscana, per dove salparono infatti il successivo lunedì 4 aprile, in considerazione
che nuove nubi di guerra provenienti dalla solita aggressivissima Francia, a cui anche Dieta
tedesca, Olanda e Inghilterra stavano per dichiarare guerra uniti nella cosiddetta Grande
Alleanza anti-francese, consigliavano un robusto rafforzamento di quelle piazze; quest'ultimo
viaggio deve essere avvenuto quindi in insopportabili condizioni di sovraffollamento in
considerazione che di norma una galera non avrebbe dovuto trasportare più di cento o
centocinquanta soldati, oltre ovviamente alla ciurma e alla marinaresca, se non in battaglia,
quando cioè i combattenti erano stipati all'inverosimile perché, non essendo tempi d’armi dal
gran volume di fuoco, di più uomini si disponeva e meglio era.
Passato per Napoli, nella prima decade d'aprile, il mastro di campo Pedro Meneses,
castellano della fortezza di Barletta, il quale si portava al ben più importante governo della
piazza d'Orbitello dove avrebbe pertanto liberato l'interinale de Nuriega, giovedì 12 maggio la
squadra del duca di Tursi partirà nuovamente per lo Stato dei Presidi per portarvi ancora
soldatesche, cannoni, molte provvisioni d'ogni sorta e inoltre di nuovo il vicario generale di
quello Marzio Origlia, il quale farà ancora ritorno a Napoli nella seconda settimana d’ottobre
dopo aver fatto eseguire lavori di potenziamento a quelle fortificazioni. Nello stesso maggio,
per ordine del viceré, il principe di Satriano di casa Ravaschiero, ex-reggente della Vicaria, fu
carcerato nel castel dell’Ovo per aver fatto bastonare dai suoi servi un semplice mastro
fabbricatore, perché questi gli aveva chiesto con insolenza del denaro dovutogli.
Pubblicata anche a Napoli, martedì 7 giugno, la nuova guerra contro la Francia, alla
quale anche gli inglesi avevano il 27 maggio dichiarato guerra, qualche giorno dopo fu
conferito al capitano Rodrigo Benavides il governo della piazza di Pescara, la quale era per
ordine d'importanza terza ai confini settentrionali del regno dopo quelle di Gaeta e di Capua.
Mercoledì 15 giugno ritornò a Napoli la predetta squadra del duca di Tursi recante a
bordo lo stesso duca suo generale; domenica 19 arrivava poi a Napoli da Alicante uno dei
soliti vascelli inglesi noleggiate per il trasporto di soldatesche nel Mediterraneo e sbarcava un
buon numero di soldati spagnoli e altrettanti ne aveva lasciati prima a Palermo. La sera di
lunedì 27 una squadra formata dalle otto galere napoletane e da sette dei particolari genovesi
e comandata dai rispettivi capitani generali, il marchese di Camarasa e il duca di Tursi, salpò
per ordine reale dalla darsena di Napoli con destinazione Finale, dove andava a imbarcare
2mila soldati che dovevano calarvi dallo Stato di Milano per condurli a Barcellona a rinforzare
l'esercito di Catalogna; a queste s’aggregarono anche tre galere di Sicilia e legni latini ben
armati - una tartana, di due barconi e di 13 feluche - diretti ai Presidi di Toscana, dai quali
però sarebbero poi ritornati nel porto partenopeo; per altro ordine reale queste tre galere
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erano state poste provvisoriamente di base a Napoli per combattere la recrudescenza del
corseggiamento barbaresco in assenza delle due predette squadre partite verso i teatri di
guerra (ma chi difendeva nel frattempo le coste siciliane?). Le tre galere lasciarono
nuovamente Napoli in caccia dei corsari domenica 31 luglio ed erano comandante dal loro
governatore generale Fernando de Moncada y Aragón duca di S. Giovanni, il quale il 10
aprile dell’anno seguente ne sarebbe però diventato il loro ufficiale capitano generale,
essendocisi anche imbarcato il marchese d'Aytona, genero del viceré, per motivi non riportati,
ma poteva trattarsi della semplice necessità che il giovane facesse esperienza della guerra di
corso; salperanno ancora da Napoli per Gaeta tra la fine di settembre e l’inizio d’ottobre con
350 fanti e attrezzi militari per rinforzo di quella fortezza.
Nell'ultima decade di luglio era frattanto giunta notizia a Napoli di uno scontro con i
barbareschi avvenuto nelle acque di Lipari, dove, essendo stati avvistati una galeotta e un
bergantino turco-barbareschi, erano valorosamente usciti a contrastarli quattro piccoli legni
armati liparoti; il combattimento, benché provocasse molti morti da ambedue le parti, aveva
visto alla fine vincitori i cristiani, i quali si erano impadroniti della galeotta, spinta dai remi di
70 schiavi cristiani; il bergantino invece, postosi in fuga, era stato costretto ad approdare alla
spiaggia di Pizzo Calabro, dove il governatore di quel luogo, avvisato di quell'arrivo e messi
insieme molti uomini armati a percorrere la costa, aveva fatti prigionieri 25 turchi che vi erano
sbarcati. C'è qui da chiarire che allora nel Regno di Napoli erano chiamati spesso turchi
anche i mori o barbareschi, i quali erano tributari del sultano di Costantinopoli, e quindi nella
predetta circostanza non si può capire se si trattava di corsari effettivamente provenienti da
Costantinopoli oppure se si trattava d’algero-tunisini. Giunse all'inizio d’agosto anche notizia
dalla Sicilia che una tartana corsara trapanese armata dal napoletano Andrea d’Ávalos
principe di Montesarchio, mentre costeggiava la Barbaria, si era imbattuta in un legno
francese carico di 3.500 tomoli di grano, munito di 12 pezzi di cannoni e montato da 75
uomini; l'aveva combattuto, preso e condotto a Trapani; all’inizio del 1691 il detto principe,
generale e corsaro, risulterà disporre invece, appunto per la guerra di corso, di una saettia
armata. Poiché poi si seppe che anche i corsari albanesi di Dulcigno e d’altri luoghi costieri di
quella regione si preparavano a infestare le coste adriatiche del regno, nella prima decade
d'agosto si mandarono ordini ai presidi e ai governatori di quelle province perché facessero
costantemente percorrere da soldatesche le marine più esposte a tali temute incursioni.
All'inizio dell'ultima decade d'agosto giunse notizia che le tre squadre di galere di Napoli,
di Sicilia e del duca di Tursi erano arrivate a Barcellona il 23 luglio e che da quella città
dovevano poi passare a Rosas, dove si sarebbero unite all'armata di Spagna e con essa,
sotto il comune comando del tenente generale del mare principe di Piombino, andare a fare
un’impresa contro località costiere francesi; ma si trattava di notizie certo inesatte, se
immediatamente dopo ritroviamo le galere napoletane appena ritornate a Napoli e pronte a
ripartire, come in effetti fecero verso la fine dello stesso agosto, di nuovo con destinazione
finale Catalogna, come risulta - anche se in verità la sequenza degli arrivi e delle partenze
delle galere di Napoli avvenute in questi mesi non è molto chiara - dai documenti di un partito
del vestiario datato primo agosto e avente per oggetto la fornitura urgente di 600 vestiti rossi
alla fanteria spagnola che guarniva (equipaggiava) le dette galere; non essendoci tempo
sufficiente, questo partito fu concesso al partitario Nicola di Martino senza né un regolare
bando né una regolare asta.
Nello stesso mese d’agosto altre milizie furono cautelativamente condotte ai confini
settentrionali del regno, mentre si procedeva all'acquisto dei cavalli necessari alla rimonta di
500 soldati smontati da mandare a Milano. Una delle prime e principali azioni di
quest'ennesima guerra combattuta contro la Francia per il possesso - tra l'altro - del principato
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di Catalogna fu l'attacco spagnolo a Campredon, avvenuto nell'agosto, a cui parteciparono i
terzi italiani di Ferrante Pignatelli e di Francesco Serra e inoltre truppe di cavalleria
comandate da fra’ Alvaro Minutillo y Quiñones; quest’ultimo aveva iniziato la sua carriera
militare nel 1671, ottenendo d’aggregarsi come venturiero al terzo fisso spagnolo di
Lombardia.
Nei primi giorni d'ottobre le tre galere di Sicilia di base a Napoli portarono a Gaeta 350
fanti e attrezzature militari per rinforzo di quella piazza, poi, verso la metà del mese, il viceré,
non credendo più necessaria la loro presenza, dette licenza al loro predetto governatore
generale duca di S. Giovanni di ricondurle a Palermo, porto dove arrivarono con qualche
ritardo avendo dovuto sopportare sei ore di leggera burrasca; nello stesso ottobre fece ritorno
a Napoli dai Presidi di Toscana il generale dell'artiglieria Marzio Origlia duca d’Arigliano, il
quale, come sappiamo, era stato in quelle piazze col titolo di vicario generale e aveva fatto
perfezionare quelle fortificazioni; verso la fine del mese giunse poi notizia che una tartana
armata napoletana munita dal viceré di una regolare patente di corso aveva predato un
bergantino turco-barbaresco e ne aveva fatti schiavi i 30 uomini dell’equipaggio conducendoli
poi a Napoli.
Anche alla fine d’ottobre fu ucciso un pericoloso facinoroso ricercato, Nicola Vaccariello
detto Strazzullo, il quale si era da giorni rifugiato armato nella chiesa di S. Cosimo sita fuori
porta Nolana; sorpreso finalmente all’esterno della chiesa da tre soldati di giustizia camuffati
da fabbricatori, questi gli avevano sparato contro due pistolettate, le cui palle di piombo lo
avevano sì colpito, ma poi, dopo avergli solo bruciato le vesti, erano cadute a terra
schiacciate dall’impatto e senza averlo per nulla ferito, ciò a riprova dell’incerto effetto che
ancora a quel tempo avevano sia le pistole sia i vecchi archibugi; i soldati avevano dovuto
dunque delicatamente finirlo a martellate e stilettate, ma comunque, prima che anche
procedessero a mozzargli l’indegno capo, il disgraziato aveva avuto il tempo di farsi
confessare dal parroco. Tra fine ottobre e primo novembre giunse poi da Barcellona in sei
giorni una barca che informò come, partite da Cadice cariche di soldatesca le squadre di
Sardegna e del duca di Tursi per andare a portare altro soccorso in Africa a Larache,
assediata dai mori, quelle di Napoli e Sicilia erano invece rimaste a Barcellona a spalmarsi,
ossia a carenarsi.
Venerdì 4 novembre, festa di S. Carlo Borromeo, si festeggiò l’onomastico del re e
domenica 6 anche il suo cumpleaños, tenendosi cappella reale nella Real Chiesa del Carmine
Maggiore, dove si era portato per l’occasione in carrozza anche il viceré accompagnato dalla
sua compagnia di lance e da quattro titolati di prima riga o di prima sfera (‘cerchia’), come
allora si diceva con riferimento ai posti di responsabilità e di pericolo che i nobili principali
erano stati obbligati a occupare nel passato nello schieramento di battaglia, vale a dire o nella
prima fila del battaglione od attorno al capitano generale e al suo guidone (‘stendardo’):
… per far spiccare con pompa più decorosa Sua Eccellenza giorno tanto segnalato, fece
vestir di nuovo, per la prima volta di color rosso, tutta la cavalleria e altresì la fanteria
spagnuola e così, quella come questa, schierate nella gran piazza del Mercato in forma di ben
regolato squadrone, faceano vaghissima mostra e alla scarica che essi fecero di tutte le loro
armi corrispose parimenti con Salva reale tutto’l cannone di queste castella… (S.G.B.1
Gazzette. S.N.S.P)
È questa la seconda volta, dopo quella del 1683, che vediamo il compleanno del re
Carlo II festeggiato a Napoli con l’esibizione di nuove uniformi; la cavalleria in rosso a cui qui
ci si riferisce non è quella di vecchia formazione, la quale vestiva di pavonazzo (‘turchino’),
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ma è quella detta di nuova leva e di cui abbiamo già detto. Sbagliava però qui il giornalista
della Gazzetta a far credere che il vestire di rosso fosse la prima volta anche per la fanteria
spagnola e ben sappiamo che infatti non era così; forse negli ultimi anni questa disposizione
era stata a Napoli via via sempre più disattesa e quindi ora, ribadita, poteva sembrare anche
a un cronista una novità, ma in verità non sappiamo se la cosa si può spiegare veramente
così. In questi giorni fu riconfermata a Cesare Caracciolo marchese di Barisciano la sua
carica di reggente della Vicaria, mandato che era biennale, ma che poteva anche essere
confermato dal viceré per un secondo biennio, e si seppe con soddisfazione che gli imperiali
e i loro collegati avevano espugnato la piazza di Bonn tenuta dai francesi.
All’inizio di dicembre, mentre bisognava andarsi a leggere un avviso milanese del 23
novembre per sapere che un vascello napoletano armato in corso aveva catturato nelle acque
del regno una barca francese, la quale, carica di mercanzie, se ne stava tornando in Francia,
tornarono a Napoli il mastro di campo Francesco Serra dei duchi di Cassano dalla Catalogna,
dove aveva sinora militato contro i francesi, e da Madrid il mastro di campo Juan Gomez de
Enterria y Noriega, cavaliere dell’ordine di S. Giacomo, il quale a gennaio era stato inviato dal
viceré in missione a quella Corte, con la carica di tenente generale e governatore del Real
Castel Nuovo, quindi come successore del mastro di campo Martín de Castrejón y Medrano, il
quale era stato appena nominato dal viceré preside della provincia di Salerno, essendo infatti
colà morto in tale incarico Onofrio Sersale, e il cui interim a castel Nuovo stava allora
sostenendo il capitano Alberto de los Rios. Come poi vedremo, il de Castrejón y Medrano
diventerà anche reggente della Gran Corte della Vicaria e poi mastro di campo del terzo fisso
degli spagnoli.
Fu in quei giorni nominato invece preside della provincia di Montefusco Pietro Moccia
marchese di Montemare e cavaliere dell’ordine d’Alcántara, mentre dai Presidi di Toscana
giungeva notizia della morte del governatore della piazza di Porto Ercole, cioè del tenente di
mastro di campo generale Antonio de Aldama; al posto di costui dopo circa una settimana fu
nominato dal viceré il sargente maggiore Lazaro Gallego, il quale già serviva nei Presidi di
Toscana. Nella terza settimana del mese tornò di nuovo a Napoli dalla Catalogna anche il
mastro di campo Domenico Dentice, il quale si era dovuto però trattenere a Roma perché
indisposto; nella quarta si seppe da Milano che l’8 precedente erano arrivate a Genova da
Barcellona le due galere S. Ferdinando e S. Antonio della squadra di Napoli, di cui era e sarà
ancora per qualche mese capitano generale il marchese di Camarassa, e tre di quella di
Sicilia, di cui era allora invece generale Beltrán de Guevara duca di Nájera, galere le quali
avevano sbarcato 150 fanti spagnoli di nuova leva imbarcati ad Alicante; dopo una decina di
giorni pervenne al residente spagnolo di Genova una staffetta da Milano con le istruzioni di
chiedere a quella repubblica il passo per detti fanti, i quali si dovevano mettere infatti in
marcia via Voltri per lo Stato di Milano. Dette galere, dopo aver sostato due giorni al molo di
Genova, ripartirono per Porto Longone, da dove poi, navigando di conserva sino all’isola di
Ponza, avrebbero proseguito per i propri porti di svernamento e le due napoletane arrivarono
infatti a Napoli lunedì 26 dicembre.
Negli ultimi giorni dell'anno fu proposta a Napoli la leva di una compagnia di corazze
milanesi oppure ultramontane (fiamminghe o tedesche) da portarsi appunto al servizio del
regno; questo reparto si sarebbe dovuto distinguere dalla cavalleria napoletana di vecchia
formazione con l'indossare un’uniforme rossa come quella con cui, come abbiamo appena
detto, ora pure si differenziavano le cinque compagnie di cavalleria napoletana di stanza nella
capitale e dette di nuova leva, un nome distintivo in origine accidentale, ma che ora era
divenuto permanente. C'è un partito del vestiario del 7 novembre - ma già annunciato da un
documento del 9 ottobre - che, oltre ad avere per oggetto 2mila vestiti rossi per la fanteria
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spagnola del regno e 300 altri, pure rossi, per la predetta cavalleria di nuova leva, riguarda
pure gli abiti nuovi da farsi per la fanteria di stanza in Toscana e da questo documento
possiamo ricavare con precisione quanti erano i soldati e i bassi ufficiali che guarnivano quei
presidi; il partitario Gregorio Fontana doveva infatti fornire, oltre ai detti, ancora 1.680 vestiti
rossi per fanti spagnoli e 780 turchini per soldati italiani da spedire a quelle guarnigioni. I
vestiti si facevano, come il solito, di due taglie e quindi per ogni 100 ce ne dovevano essere
70 di taglia mezzana e 30 di taglia grande e ciò in conformità alle due mostre (modelli)
presenti nella Regia Monizione del Castel Nuovo; dovevano essere di panno d'Inghilterra, ma,
in mancanza di una quantità sufficiente di tal panno, la differenza dei vestiti poteva essere
fatta di panno di Piedemonte d'Alife, qualità meno pregiata che avrebbe poi comportato al
partitario una diminuzione pro rata del prezzo pattuito. Generalmente gli abiti si fornivano
completi di spada, ma in questo caso le spade non furono richieste; i vestiti per la cavalleria
erano parecchio più costosi perché comprendevano in più generi tipici dei soldati montati e
cioè la groppiera e i guarda pistole, anch'essi di panno (ma il colore non è indicato) e infine il
cappotto (mantello) da farsi di panno di Cerreto Sannita del colore naturale e solito del cerrito,
quindi non tinto, e foderato di tessuto di Cusano, località del Beneventano, quest'ultimo un
tipo di saia generalmente di colore bianco.
Che questo 1689 fosse anno caratterizzato da preparativi di guerra è anche confermato
da altri due partiti di vestiario militare per soldatesche italiane che in esso furono messi in
gara e cioè uno per 100 vestiti violetti (turchini) del 28 maggio e uno per 1.000 anche violetti
del 3 settembre; infatti, anche se i primi 100 abiti possono anche essere per cavalleria italiana
ordinaria fissa, i secondi mille possono solo esser destinati a fanti di nuova leva, non
essendoci infatti in regno fanterie regnicole ordinarie fisse.
Diremo infine che nel corso di questo 1689 nell’Europa occidentale le forze unite dei
potentati tedeschi avevano condotto una grande controffensiva nel Palatinato riprendendo
alla Francia gran parte del terreno perduto l’anno precedente, non ostando che questa
avesse fatto in modo da far trovare al nemico solo terra bruciata, distruggendo crudelmente
col fuoco una ventina di città e villaggi tedeschi, tra cui Heidelberg, Mannheim, Oppenheim
and Worms, confermando così quella svolta disumana della guerra intrapresa da Luigi XIV,
sovrano certamente grande, ma anche spietato e disumano, di cui abbiamo già detto;
frattanto, nel corso degli altri fatti bellici che avvenivano nell’Europa orientale, i turchi
subivano altre pesanti sconfitte nei Balcani, soprattutto a Nissa e a Sofia, perdendo così
anche la Bulgaria. La vittoria imperiale a Nissa, conosciutasi a Napoli il 18 ottobre, vi fu
festeggiata quello stesso giorno; ma il giubilo sarà di breve durata perché già nella seconda
metà del seguente gennaio gli ottomani, anche se a prezzo d’ingentissime perdite, si
rimpadroniranno con una grande controffensiva di Belgrado e della stessa Bulgaria.
A occidente invece il terzo napoletano fisso della flotta spagnola oceanica del mastro di
campo Antonio Domenico di Dura, lasciava Gibilterra insieme con un terzo di spagnoli con
destinazione Larache in Marocco, piazza, come sappiamo, strettamente assediata dai mori, i
quali scavavano approcci all’Europea sotto la guida di ingegneri militari francesi; non ostante
detto soccorso, dopo cinque furiosi assalti eroicamente contrastati dagli ispano-napoletani
Larache fu costretta a cedere al nemico, il quale pure assediava Melilla. Il di Dura e quanto
restava dei suoi furono presi prigionieri e più tardi riscattati, secondo il venale uso del tempo;
il Filamondo scrive che egli ottenne dal re un marchesato, ma quale fosse non lo dice.
1690. Una corrispondenza da Milano del 25 gennaio segnalava che il giorno 8 precedente,
dopo quattro giorni di viaggio, erano arrivate a Genova da Barcellona cinque galere di Napoli
e due dello stuolo del duca di Tursi, ossia la Capitana e la S. Francesco; le prime il giorno
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seguente avevano ripreso il viaggio per andare, dopo la solita sosta a Civitavecchia, a
svernare nel proprio porto e infatti arriveranno a Napoli nei primi giorni di febbraio. Un’altra
corrispondenza, questa da Genova e datata lunedì 28 gennaio, ma pubblicata dagli Avvisi di
Foligno e gentilmente fornitaci con altre dall’ing. Giancarlo Boeri, segnalava l’arrivo in quel
porto e in quello stesso giorno di una barca che era in viaggio per Napoli dove stava portando
180 reclute spagnole assoldate a Valencia. Quest’ultima notizia trovava conferma in due
avvisi da Milano del 1° e dell’8 febbraio seguenti, ma secondo i quali si sarebbe trattato di
reclute provenienti non da Valencia, bensì da Alicante; la detta barca, dopo essersi trattenuta
a Genova ben undici giorni in attesa o di condizioni atmosferiche favorevoli o di una buona
scorta, finalmente la notte del venerdì 8 salpò per Napoli scortata dalle suddette due galere
del duca di Tursi, le quali avevano lasciato a Genova il loro generale duca di Tursi, e i tre
vascelli arriveranno nel porto partenopeo verso il 13 febbraio; nel corso del viaggio, arrivatisi
nelle acque di La Spezia, le due galere genovesi predarono una nave francese carica di vino
e d’altre mercanzie.
Nei primi giorni di febbraio fecero ritorno a Napoli dall’Ungheria i due capitani del
reggimento imperiale dei cavalli corazze Carafa Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano e Carlo di
Sangro dei marchesi di S. Lucido e, come sempre avveniva in tali casi, subito si premurarono
di andare a ossequiare il viceré, il quale in tal modo otteneva notizie di prima mano dai fronti
di guerra. Essendo avvenuta il 24 precedente a Vienna l’elezione del nuovo Re dei Romani,
ossia del nuovo imperatore in persona del re di Ugheria Gioseppe d’Austria, elezione seguita
poi dall’incoronazione anche dell’imperatrice, martedì 7 febbraio si festeggiarono tali eventi
anche a Napoli con una Cappella Reale nella solita Real Chiesa del Carmine alla presenza
del viceré, di tutti i ministri ed della nobiltà, con la formazione di uno squadrone di cavalleria e
di fanteria spagnola nell’antistante largo del Mercato e con salva di tutte le armi e dei cannoni
di tutti i castelli. Nel corso della settimana successiva il viceré graziò un condannato a morte
per furto e gli commutò la pena alla galera a vita, essendo tali commutazioni all’incirca
frequenti secondo la concomitante necessità di remieri che poteva avere la squadra del
regno; lunedì 13 arrivò a Napoli la tartana corsara la Fenice di Vico Equense, la quale ne
rimorchiava un’altra francese che aveva predato nelle acque di Otranto mentre questa, carica
di grani e biscotti caricati ad Ancona, veleggiava per Marsiglia. Si seppe inoltre in questi
giorni che alla fine del mese precedente a Milano un capitano napoletano, Pietro Sorbelloni,
mentre nottetempo si dirigeva verso casa, era stato ferito alla testa da due archibugiate e il
già menzionato governatore conte di Fuensalida aveva dato incarico al competente capitano
di giustizia di istruirne il processo.
Informato che il principe Filippo Guglielmo di Neoburgo, fratello della regina di Spagna,
stava arrivando in incognito in regno da Roma, il viceré inviò subito ai confini il tenente
generale della cavalleria Sigismondo de Rho e alcuni maggiorenti perché lo accogliessero e
inoltre fece preparare cambi di tiri a sei cavalli per tutto il percorso che l’importante ospite
avrebbe dovuto fare sino a Napoli; poi, nel primo pomeriggio di sabato 18 febbraio,
accompagnato dal mastro di campo generale Fernando Gonzales de Valdés, si recò ad
Aversa per aspettarvi il principe, il quale, pur essendo di sangue reale, si sapeva amava farsi
chiamare semplicemente ‘conte di Withenthal’ e per cui, non conoscendo i suoi gusti, aveva
fatto preparare due alloggi, cioè quello reale che egli stesso occupava – spettando questo
innanzitutto ai membri della famiglia reale ed essendo di conseguenza egli passato ad abitare
provvisoriamente in un diverso appartamento del palazzo reale – e un altro di carattere invece
conventuale messo a disposizione dai padri gesuiti nella loro Casa Professa; ma il principe,
entrando a Napoli in serata, sebbene vi fosse accolto da una salva reale fatta da tutte le
artiglierie dei castelli e delle galere, vi arrivò nella carrozza del marchese Mascambruno,
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residente imperiale a Napoli, e nella casa di costui andò a sistemarsi, avendo pertanto
declinato sia le carrozze offertegli dal viceré sia ambedue i suddetti alloggi sia le quattro
compagnie - due di cavalleria, una di fanteria spagnola e quella degli alabardieri alemanni inviategli dal viceré per la guardia della sua predetta abitazione, volendo così accentuare il
carattere privato di quel suo viaggio; la mattina seguente infine si recò in visita a Corte, ma
sempre in carrozza privata. Il viceré allora martedì 21 gli inviò in regalo una tale copia di
rinfreschi (‘cibi’) d’ogni genere che arrivò portata da 60 uomini.
In questi giorni fecero ritorno a Napoli da Roma il cavallerizzo maggiore del viceré
Andrea de la Rimpe, il tenente della sua guardia alemanna Antonio di Mata e il governatore di
Taranto Alonzo de Andrade; il primo era partito per Roma venerdì 20 gennaio per presentare
al cardinale Ottoboni, nipote del pontefice, un regalo del viceré, ossia una muta di otto
splendidi cavalli di regno; che cosa fossero andati a fare a Roma i suddetti altri due
personaggi non sappiamo.
Il 20 marzo fu rassegnato in Lombardia quell'esercito e dalla relazione di tale mostra che
c'è pervenuta risulta che erano allora colà presenti un terzo di fanteria napoletana, quello cioè
del mastro di campo Marc'Antonio Colonna, corpo che contava 15 compagnie per un totale di
169 ufficiali ed 874 soldati, e quattro compagnie di cavalleria, anch'esse napoletane, formate
da 25 ufficiali e 330 soldati. Quest'ultime nel corso dell'anno diventeranno però otto, come
risulta da un piano dell'esercito di Milano preparato per la campagna estiva e che prevedeva
dovessero raggiungere il numero di dieci per complessivi mille uomini, ma non sappiamo se
quest'intento fu poi effettivamente raggiunto; dopo la campagna di guerra ne resteranno
comunque superstiti solo cinque, come vedremo.
Nell’ultima decade dello stesso marzo lettere dalla Spagna portarono a Napoli notizia di
nuove nomine, per cui generale delle galere di Napoli era stato fatto il suddetto Beltrán de
Guevara duca di Nájera e di quelle di Sicilia Ferdinando Moncada duca di S. Giovanni, il
quale, già loro governatore generale, come abbiamo più sopra detto, assumerà però
ufficialmente questo nuovo superiore comando solo con inizio dal seguente 10 aprile e lo
manterrà sino alla fine di settembre del 1695, quando, con decorrenza 7 ottobre, sarà
sostituito da Joseph Fernandez de Velazco marchese di Jodar:
…y antes havia governado la esquadra diversas veces como governador general por Sus
Magestad (Auria)..
Inoltre il conte d'Altamira era stato nominato viceré di Sardegna e infine il duca di Sessa
di casa Córdoba viceré di Valenza, dove era infatti destinato. Verso il 25 aprile era pronto il
terzo di fanteria regnicola del mastro di campo Domenico Dentice, giunto apposta dalla
Catalogna e di cui abbiamo già detto; in quel mentre proseguiva la leva dell'altro, per il quale
tuttavia il viceré non aveva ancora nominato gli ufficiali maggiori. Mentre continuavano a
giungere da Milano corrieri che sollecitavano al viceré rimesse di denaro per la guerra e
spedizioni di milizie e mentre giungeva avviso che caravelle turchesche infestavano sempre di
più le marine calabresi, la mattina del 16 maggio ritornarono a Napoli cinque galere che,
unitamente a tre del duca di Tursi, si erano in precedenza mandate ai Presidi di Toscana per
una delle solite mute di guarnigione semestrali e per rinforzi, galere che, unitamente ad altre
di cui si attendeva l'imminente arrivo, sarebbero state appunto utilizzate per il trasporto di
soldatesche a Finale Ligure.
La sera di mercoledì 24 maggio dunque le suddette cinque galere di Napoli e quattro dei
particolari genovesi, di conserva con sette barche, probabilmente tartane, all'uopo noleggiate,
salparono dal porto della capitale dopo aver imbarcato quello stesso giorno 1.800 soldati per
170
Finale e successivo inoltro, come si disse, in Fiandra attraverso lo Stato di Milano; si trattava
di 800 spagnoli e del già menzionato terzo di fanteria napoletana di nuova leva affidato al
mastro di campo Domenico Dentice. Questo terzo, prima di essere imbarcato, era stato
squadronato e rassegnato davanti al palazzo reale dove il viceré conte de San Estévan aveva
potuto ammirarne gli esercizi militari insolitamente eseguiti con una perizia degna di veterani,
capacità troverà poi conferma nel buon comportamento di questo corpo non in Fiandra, bensì
alla disfatta della sanguinosa battaglia della Badia della Staffarda presso Saluzzo, vinta dai
francesi, la quale avverrà il 18 agosto successivo, durando circa sei ore e mezza, cioè dalle
10 di mattina a dopo le 4 del pomeriggio; infatti verso la metà di giugno il governatore della
Lombardia, il marchese de Leganes, avrebbe spedito il suo esercito in Piemonte in soccorso
di Vittorio Amedeo II duca di Savoia, il quale, con trattati stipulati il 3 e l’8 giugno precedente,
aveva fatto alleanza con Spagna e impero contro la Francia.
Le predette galere, le quali, come abbiamo appena detto, viaggiavano ora, non essendo
ancora giunto a Napoli il loro nuovo suddetto generale Beltrán de Guevara duca di Nájera,
sotto il governatorato provvisorio del marchese di Aytona, genero del viceré; esse dovevano
sostare qualche tempo a Gaeta nell'attesa che colà venisse ad aggregarsi loro la squadra
delle galere di Sicilia per passare con più sicurezza i pericoli delle spiaggie romane, come si
legge in qualche cronaca, inducendoci quindi a pensare che le difficoltà che il cabotaggio
della costa laziale tradizionalmente presentava, più che esser causate da venti stabilmente
contrari a chi navigava verso nord-ovest, dovessero esser dovute alle scorrerie dei corsari
barbareschi, i quali in quel periodo infestavano particolarmente e soprattutto le coste
calabresi, coste che inoltre ora, a causa della nuova guerra in Europa, cominceranno a
essere attaccate intensamente anche dai corsari francesi. In realtà la suddetta sosta fu
dovuta certamente a venti contrari perché le galere siciliane lasciarono Gaeta prima di quelle
provenienti da Napoli, giungendo infatti in Liguria il 9 giugno; esse portavano 435 spagnoli del
terzo di Sicilia, gente mal all’ordine e la maggior parte ammalati, che si sono fatti condurre in
questo Hospidale, come si legge in un avviso genovese, mentre un altro confermava questo
stato miserando e informava che erano arrivati addirittura nudi, per cui si dovette subito
provvedere perché fossero ricoperti. Il convoglio da Napoli ripartì invece da Gaeta solo la
notte dello stesso 9 giugno, fu avvistato da Genova il giorno 13 seguente e il 14 e il 15 sbarcò
a Ultri (‘Voltri’) la predetta fanteria spagnola e napoletana, destinata a proseguire il viaggio via
terra per lo Stato di Milano e questi uomini, al contrario di quelli provenienti dalla Sicilia, sono
da un avviso descritti tutti di buona qualità e ben vestiti. Gli ispano-napoletani furono poi
inoltrati a Pavia dove furono passati in rivista il 21 giugno unitamente a quelli arrivati dalla
Sicilia e ad altri per un totale di circa 3mila uomini; tutti costoro furono poi inviati in Piemonte
verso la metà d’agosto. C’è da aggiungere che gli 800 spagnoli predetti provenienti da Napoli
erano arrivati in Lombardia comandati da un sargente maggiore, ma furono colà riuniti in un
terzo e posti sotto il mastrato di Carlo Colonna, il quale ne avrà però formale titolo solo con
patente reale del 6 dicembre 1690; questo terzo sarà poi riformato dal Leganes con suo
ordine dell'8 febbraio del 1692.
La summenzionata battaglia della Staffarda, vinta dai francesi del Catinat, futuro
maresciallo di Francia, contro le forze della Lega d'Augusta composte in quest'occasione in
massima parte dall'esercito savoiardo e da quello italo-spagnolo dello Stato di Milano costò ai
soli corpi napoletani perdite per quasi 600 uomini e ricordò quanto fossero infausti i campi
piemontesi ai meridionali, i quali già nella battaglia d’Asti del 1615 vi avevano perso circa 800
soldati combattendo contro francesi e piemontesi allora alleati. Alla Staffarda sembra si perse
soprattutto per l'armamento migliore di cui erano dotati i francesi e cioè d’ottimi moschetti
leggeri dalla lunga portata, mentre le fanterie ispano-italo-alemanne giunte dal Milanese in
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aiuto del duca di Savoia avevano in gran parte un’arma tanto debole da esser chiamata
ancora archibugio; narra infatti il Filamondo che i francesi eccedevano nel numero dell'armi
da fuoco, che giungevano ben lontano, inferivano maggior danno a’ spagnuoli, de’ quali le
picche erano inutili, gli archibugi non faceano pieno colpo. Questo miope restare indietro
nell’evoluzione della tecnica bellica fu una delle principali cause della decadenza del
predominio spagnolo in Europa. Inoltre alla Staffarda successe che un reggimento
piemontese, abbandonati gli ufficiali e le bandiere, passò in gran parte al nemico dopo la
prima scarica e quelli che restarono fecero la seconda, o per malizia o per errore, sul terzo del
Dentice e, come se questo non bastasse, la fanteria milanese, mal condotta, si rovesciò
addosso alla cavalleria del suo stesso Stato scompaginandola; si comportarono invece
ottimamente sia la fanteria spagnola sia la cavalleria bavarese, la quale si fece sì distruggere,
ma salò in tal modo il grosso dell’esercito. Partecipavano alla battaglia anche un altro terzo
napoletano, quello cioè del predetto Marc'Antonio Colonna, il quale restò gravemente ferito, e
Gioseppe Giudici figlio del duca di Giovenazzo, anch’egli ferito, il quale aveva raggiunto l'alto
incarico di commissario generale della cavalleria napoletana dell'esercito dell'Alta Italia e
aveva nel passato combattuto da venturiero con i cesarei in Ungheria, restando già ferito
nell'assalto a Belgrado; morirà nell'agosto del 1692 combattendo alla presa d’Ambrum nel
Delfinato e lasciando due fratelli a combattere in Piemonte, Gioan Battista e Michele
ambedue capitani di cavallera alemanna, l'uno nel reggimento Carafa e l'altro nel
Montecuccoli; anche questi ultimi avevano, come Gioseppe, iniziato da venturieri in Ungheria
e avevano poi partecipato con lui ai principali fatti d'arme dell'Europa centro-orientale, quali
quelli di Belgrado, Bonn, Magonza; Michele otterrà in seguito l'elevato grado d’aiutante
generale nell'esercito imperiale in Italia.
In quel tempo la Francia aveva ottenuto altri importanti successi per terra e per mare; il
suo esercito era nel giugno entrato in Catalogna, aveva occupato Liegi e poi, il primo luglio,
sotto il comando del maresciallo Francois-Henri de Montmorency duca di Lussemburgo aveva
sconfitto a Fleurus presso Namur le forze della Lega, cioè di Olanda, Spagna e Germania,
capitanate dal principe di Valdek; inoltre il 10 luglio il conte di Tourville, poi anch’egli
nominato maresciallo di Francia, aveva vinto inglesi e olandesi in un’importante battaglia
navale a Capo Béveziers.
Spesso in Lombardia i corpi provenienti dalla Spagna o da Napoli servivano a
rimpiazzare quelli che di costì erano inviati in Fiandra e ciò si faceva per dimezzare il viaggio
delle condotte militari, le quali, per i molti disagi che allora si pativano nei lunghi trasferimenti,
arrivavano a destinazione spesso decimate dalle malattie contagiose e dall'intemperie; in tal
modo lo Stato di Milano era usato come cerniera militare tra i possedimenti meridionali della
Spagna e quelli settentrionali e come una vera e propria stazione di cambio dei soldati
affaticati dal viaggio.
Il 3 giugno si era frattanto firmato a Milano un trattato d'alleanza tra il conte di Brandizzo,
plenipotenziario del duca di Savoia Vittorio Amedeo II, e il conte de Fuensalida, governatore
della Lombardia, per conto del re di Spagna; ciò perché un potente esercito francese era
entrato in Piemonte minacciando l'indipendenza di quel ducato e con chiara intenzione
d’offendere lo Stato di Milano; quindi la Savoia e il Piemonte dovevano ora fungere da
antemurali del Milanese. L'alleanza fu estesa anche all'Impero, il quale aveva interesse a non
vedere insediarsi in Italia la potenza francese e che era da quella già minacciato sul fronte
renano, e quind’a tutti gli aderenti alla Lega d'Augusta, in particolare alle potenze marittime,
Olanda e Inghilterra, le quali, oltre a fornire sussidi economici, offrivano il supporto delle loro
potenti flotte contro la preponderanza dei francesi nel Mediterraneo, i quali nel frattempo
entravano pure in Catalogna. Da questo momento tutte le principali applicazioni del governo
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di Napoli saranno dunque dedicate all'ammasso di genti e denaro da inviare allo Stato di
Milano, onde partecipare sostanziosamente allo sforzo comune per obbligare i francesi ad
abbandonare l'Italia. Nella prima decade di luglio s’inviarono via mare nel Genovese altri 120
coscritti, mentre in tutte le province del regno si batteva cassa per arruolarne il maggior
numero possibile e si facevano continue rimesse di denaro a Milano. Poi lasciò Napoli sulla
sua galera anche il generale della squadra di Sardegna, il marchese di Alconzel, il quale
evidentemente vi era arrivato con lo stesso mezzo, ed era diretto a Cagliari, dove avrebbe
imbarcato il duca di Monteleone; costui infatti, terminato il suo governo di quell'isola e
dovendo, come abbiamo detto, lasciare il suo posto al conte de Altamira, era diretto in
Spagna, forse per mettersi a disposizione del re.
Arrivò un ordine reale del 22 giugno con cui si comandava di spedire 2mila aste da remo
in Catalogna nel più breve tempo possibile; In quel mentre con viglietto (breve ordine scritto)
del 17 luglio di questo stesso anno il viceré aboliva finalmente la quasi bi-centenaria di lance
della sua guardia, riforma questa che la corte di Madrid aveva infatti spesso sollecitato quella
di Napoli a eseguire il relativo ordine reale vecchio ormai di quasi otto anni, giacché questo
corpo di cavalleria, oltre a essere da gran tempo tatticamente superato, costava moltissimo e i
suoi stipendi erano a carico di quella corte e non del Regno di Napoli; il precedente viceré
marchese del Carpio aveva sempre opposto resistenza a tal reale ordine promulgato durante
il suo governo, in considerazione che non voleva perdere il cospicuo emolumento personale
di 1.180 ducati annui che toccavano appunto al viceré di Napoli solo per la qualifica di
capitano di questa compagnia. Con tale soppressione la regia avrebbe risparmiato intorno ai
13.295 ducati annui, che tanto costava l’intrattenimento di questa compagnia ai tempi del
viceré di los Vélez, come risulta dalla già citata relazione che gli fu fatta; la soppressione si
risolveva poi in un danno notevole anche per le reclute della compagnia, le quali, usandosi
comprarvi l'arruolamento con l'esborso di tre o quattrocento scudi, non avevano ancora avuto
il tempo di recuperare il loro denaro.
La compagnia di lance della guardia del viceré aveva sfilato ufficialmente in pubblico a
Napoli l'ultima volta domenica 21 maggio di questo 1690 e cioè in occasione della cavalcata
reale tenutasi per festeggiare le seconde nozze di Carlo II re delle Spagne, stavolta con Maria
Antonietta Palatina di Neoburgo e del Reno; si era vista con le sue obsolete armature
complete dalla testa alla vita (erano infatti già state abbandonati da gran tempo i pezzi che
difendevano gli arti inferiori), con i suoi variopinti pennacchi sugli elmetti e con quelle sue
lance che, divenute nel corso degli anni corte e sottili, cioè del tutto decorative, a nulla ormai
potevano più servire in guerra viva. Da essa furono però formate due nuove compagnie,
un’italiana e una spagnola, di 50 uomini ciascuna armati da cavalli corazze, cioè con
borgognotte, pesanti corsaletti, lame, pistole e carabine, compagnie che da allora costituirono
la nuova cavalleria della guardia del viceré, il quale ne era sempre ufficialmente il capitano,
anche se con soldo ridotto a mille ducati l'anno, ma che erano effettivamente comandate da
due nobili luogotenenti detti vulgo capitani e cioè Nicolò Coppola dei duchi di Canzano, eletto
a quell'incarico nel successivo gennaio 1691, e Andreas de la Rinze y Muñoz, per una spesa
totale salita ora a 16.342 ducati l'anno, come risulta da un’altra relazione al viceré posteriore
a questo 1690; la compagnia del de la Rinze risulterà poi, dalla venuta a Napoli nel 1696 del
viceré duca di Medinaceli, comandata prima pro interim da Partenio Petagna principe di
Trebisaccie e poi stabilmente da fra’ Ventura Sarracini. Per quanto riguarda il vestiario di
queste nuove corazze della guardia, c'è da notare una registrazione d'introito nella Regia
Monizione di Castel Nuovo datata 28 giugno e che riguarda 100 vestiti violetti (ossia turchini,
come già sappiamo), ma non è chiaro se anche il vestiario fatto per corpi di guardia fosse
consegnato ai magazzini ordinari dell'esercito. Non sarà invece riformata la compagnia di
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fanti alabardieri svizzeri di lingua tedesca, detta guardia alemanna, come anche già
sappiamo, compagnia presente in tutte le corti europee suddite della monarchia spagnola,
anzi questa sarà destinata a durare ancora molto a lungo; gli svizzeri erano storicamente i
maggiori esperti nel maneggio dell'alabarda, arma che, anche se da gran tempo abbandonata
in guerra, era tuttavia ancora ritenuta molto versatile e utile per il contenimento dei disordini
civili e infatti questi alabardieri a tal scopo erano talvolta chiamati e impiegati anche
indipendentemente dalla presenza del viceré; erano pertanto molto odiati dal popolaccio
napoletano. Li comandava il marchese Pompeo Azzolini, coadiuvato dal suo suddetto
luogotenente Antonio di Mata.
Dopo la battaglia della Staffarda il terzo di Domenico Dentice continuò la guerra sino alla
ritirata generale nel Milanese, dove poi il 21 marzo del 1691 il detto mastro di campo sarà
riformato insieme con altri mastri di campo per esser terminata quella campagna e per
sollievo finanziario di quello stato; ma egli parteciperà da volontario anche a quella
successiva, la quale inizierà alla fine del seguente maggio sotto la guida del nuovo
governatore di Milano, Diego Felipe de Guzmán marchese di Leganes, e sarà alla presa di
Carmagnola; tornato a Napoli, sarà infine governatore di varie province del regno.
Sono di questi anni sia un Compendio, anch’esso anonimo, della forma di governo del
Regno che si trova all’Archivio General de Simancas, Papeles de Estado, Nápoles sia una
relazione anonima, più tarda, sullo stato militare del regno fatta al viceré conte di San Estévan
simile a quella destinata al di los Vélez e sulla quale molto ci siamo prima dilungati; ci
limiteremo pertanto a esporre solo le principali differenze che ora si notano a circa due lustri
di distanza.
Il Tercio fijo de los españoles contava adesso 43 compagnie di 50 uomini ognuna e
questa maggior frammentazione significa evidentemente che i luoghi da esso presidiati erano
In quel mentre aumentati di numero; due compagnie erano stanziate in permanenza nella
fortezza di Montorio in Abruzzo, territorio pullulante di briganti provenienti dal confinante Stato
della Chiesa, mentre a Napoli alcune compagnie alloggiavano in permanenza nel presidio di
Pizzo Falcone, il quale era quello centrale della capitale, altre nei castelli, quattro compagnie
si trovavano invece nel Torrione del Carmine, sito strategico per controllare il turbolento
popolo napoletano, e una nel Castel Nuovo; altre compagnie erano di guarnigione ai presidi
di Toscana, ad altri luoghi forti del regno e alle galere come fanteria di marina, ma in numero
variabile a seconda delle esigenze del momento. Il suo mastro di campo era il già ricordato
Luis Espluga, remunerato con 3.500 ducati all’anno, e il suo sargente maggiore Juan Antonio
Bermudez con 1.200 ducati.
Il viceré era ora ufficialmente capitano d’ambedue le suddette compagnie di corazze
della guardia, un'italiana e una spagnola, incarico per cui percepiva solo mille scudi l'anno, a
fronte dei 1.800 che invece i suoi predecessori avevano ricevuto in qualità di capitani della
riformata compagnia di lance. Egli era coadiuvato da un luogotenente, figura anche questa
essenzialmente onorifica, ma poi ognuna delle due predette compagnie aveva una sua
concreta prima piana che comprendeva un capitano operativo effettivo, un luogotenente
effettivo, un alfiero, un contadore, un trombetta, un ferriero e un armaro; i due capitani
operativi effettivi erano Nicolò Coppola, fratello del duca di Canzano, e Andrea de la Rimpe,
cavaliere dell’ordine di Santiago, il quale, come già sappiamo, era anche suo Cavallerizzo
Maggiore .
Le compagnie della cavalleria ordinaria erano ora le seguenti:
Compagnie degli uomini d'arme, ossia dei cavalli corazze:
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Marchese del Vasto.
Contestatibile Colonna.
Duca di Martina di casa Caracciolo Pisquizj.
Principe d'Avellino di casa Caracciolo.
Marchese del Vaglio e duca di Monteleone.
Conte di Conversano di Casa Acquaviva d’Aragona.
Duca di Calabritto e San Germano di casa Altavilla.
Marchese di San Giorgio.
Duca di Girifalco.
Ex-compagnia del marchese de los Balbases, Filippo Spinola d’Oria.
Ex-compagnia del duca di Laurenzana di casa Gaetano, ora di Francesco Caracciolo
dell'Amoroso.
Ex-compagnia del duca d'Andria di casa Carafa.
Ex-compagnia del principe di Palestrina di casa Barberini, ora del marchese di San
Giuliano Monforte.
Ex-compagnia del duca di Limatola.
Ex-compagnia del duca di Sessa di casa Córdoba.
Compagnie di cavalli leggieri, ossia di moschettieri a cavallo:
Conte della Cerra di casa Cardenas.
Marchese di Trivico (ora Trevigo) e Sant'Agata di casa Loffredo.
Principe d'Ottajano.
Ex-compagnia del marchese di Torrecuso di casa Caracciolo, ora di fra’ Emilio Acerba
d'Aragona principe di Cassano.
125 estradioti del principe di Schinzano di casa Enriquez.
Diverse compagnie mancavano dunque, al momento in cui fu fatta la relazione suddetta,
del capitano assegnatario; alcune altre erano state recentemente di altri nobili capitani e cioè
del duca di Popoli di casa Cantelmo, del duca di Sora di casa Buoncompagno, del principe di
Montesarchio Andrea d’Ávalos, del principe di Caserta di casa Gaetano, del conte di Bagni di
casa de Leyva e del principe di Piombino.
Era allora mastro di campo generale dell’esercito Fernando Gonzales de Valdés,
generale della cavalleria il duca di Mont’Alto e dell’artiglieria Marzio Origlia, quest’ultimo con
300 scudi mensili di soldo. Per quanto riguarda il Battaglione a pie’ e la cavalleria della
Sacchetta, il numero di questi miliziani ammontava ora ufficialmente, come già anticipato nella
nostra introduzione, a circa 22mila fanti suddivisi in compagnie di 120 e circa 3mila cavalli
partiti in 60 compagnie di 50, mentre l'imposizione di leva era rimasta quell'antica di cinque
fanti e un cavallo ogni 100 fuochi. Troviamo poi nella relazione il seguente nuovo quadro degli
ufficiali dell'artiglieria:
Generale.
Luogotenente del generale.
Capitano della scuola.
Assistente della fonderia.
Capo-mastro delle casse e ruote.
Scrivano.
Monizioniero.
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Capitano in Crotone.
Capitano nei Presidi di Toscana.
Artigliero di detti Presidi.
Artigliero di Manfredonia.
Altri artiglieri.
Ecco ora lo stato maggiore dei Presidi di Toscana:
Governatore e castellano di Port'Ercole.
Veditore (‘ispettore’).
Mastro-portulano.
Monizioniero.
Ingegniero.
Mastro di campo e governatore a guerra in Orbitello e Talamone.
Auditore generale.
Mastro d'Atti del predetto.
Due alguzzini, uno in Orbitello e l'altro in Port'Ercole.
Due chirurghi, uno in Port'Ercole e l'altro in Piombino.
Alcuni torrieri.
Tra tutte le guarnigioni dei castelli del regno, abbiamo scelto di riportare quella di Castel
Nuovo, guarnigione che, essendo quella della cittadella di Napoli, era ovviamente la più
numerosa e complessa:
Castellano.
Vice-castellano, seu tenente.
2 cappellani.
Diacono.
4 portieri.
10 bombardieri.
6 musici o siano instrumenti.
Auditore.
Medico.
Chirurgo.
Ingegniero seu architetto.
Monizioniero.
Sovrastante, quando si fabrica.
Armiero.
Mastro d'ascia.
Ferraro.
Orologiaro.
Barbiero.
Tamburro.
Pifano (piffero).
Carceriero.
Mastro di tener archibuggi.
2 scopatori.
3 caporali.
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132 fanti.
Nella precedente relazione, quella al di los Vélez, il castellano, oltre a 120 fanti, aveva
17 alabardieri per sua guardia personale, alabardieri che invece in questa non sono più
menzionati. Dal Castel Nuovo dipendeva poi la Torre di San Vincenzo con sette od otto fanti e
un caporale.
Oltre alle predette figure, nelle guarnizioni degli altri castelli del regno si ritrovano
incarichi di molinaro, fornaro, algozzino, trombetta, barcaruolo, a seconda che le dette
guarnigioni si facessero o no il pane da sé, avessero carceri importanti, passi d'acqua, ecc.
Gli scopatori, raramente presenti, erano per lo più degli schiavi mussulmani; evidentemente si
considerava il loro lavoro indecoroso per un militare cristiano, mentre oggi, come si sa, ai
soldati si fanno pulire persino le comuni latrine. Per quanto riguarda il numero complessivo
degli uomini di presidio nei vari castelli, diremo che una guarnigione un po’ meno consistente
di quella di Castel Nuovo aveva il Castello di Sant'Eramo, mentre tutti gli altri erano molto
meno presidiati, aggirandosi le loro guarnigioni tra i 30 e i 50 uomini, fino a diminuire alle sole
cinque persone che si trovavano nel castello dell'Amantea in Calabria; ma vogliamo
comunque qui elencare perlomeno le castellanie del regno in questa fine del secolo decimo
settimo. Erano dunque considerati, a quest'epoca, di presidio tutti i castelli del regno tranne
quelli di Trani e Cosenza, i quali erano ora umilmente ridotti a dimore degli ufficiali delle
Regie Udienze, e tranne il castello di Capuana a Napoli, dove nel 1539 il viceré Pedro de
Toledo aveva trasferito i Regi Tribunali del Sacro Consiglio, della Regia Camera della
Sommaria, della Gran Corte della Vicaria e della Regia Zecca di Pesi e Misure e dove tuttora
risiedevano.
Le castellanie ufficiali della Capitale e del suo circondario erano le seguenti:
-Castello
-Castello
-Castello
-Castello
-Castello
Nuovo e Torre di San Vincenzo.
di Sant'Eramo.
di San Salvatore, poi detto dell'Ovo.
di Baia, edificato da Alfonso II d'Aragona, poi ampliato in varie riprese.
d'Ischia, inespugnabile per sito e mole, fu costruito da Alfonso I d'Aragona.
In realtà quest’ultimo non si trova proprio sull’isola d’Ischia, ma su quell’erto isolotto
adiacente chiamato una volta Penischia, ossia dal lt. p(a)ene Ischia (‘quasi ischia, presso
Ischia’’).
Gli altri castelli e piazzeforti del regno erano quelli di Capua, Gaeta, L'Aquila, Civitella
del Tronto, Pescara, Viesti, Manfredonia, Barletta, Bari, Bisceglie, Monopoli, San Germano,
Nisida, Nola, Castello grande di Brindisi, Castello dell'Isola di Brindisi detto Il Forte, San
Cataldo (presso Lecce), Lecce, Otranto, Gallipoli, Taranto, L'Amantea, Cotrone, Trani e
Cosenza.
Tra i predetti, il presidio di quello di Lecce era in soppressione, come abbiamo già più
sopra ricordato, quelli di Bisceglie, San Germano, Nisida e Nola erano però ormai
completamente abbandonati e quelli di Trani e Cosenza, come abbiamo detto, non erano più
considerati di presidio militare, sebbene nel primo prestassero ancora servizio un artigliero e
due portieri e del secondo esistesse ufficialmente il ruolo di castellano. Le fortificazioni di
Gaeta erano invece state ampliate in una completa cittadella.
C'è però da notare che, da una prammatica di Filippo II datata 15 aprile 1558 in
Bruxelles, si evince che a quel tempo esistevano altre castellanie poi scomparse e cioè quelle
d’Aversa, Tropea, Reggio, Copertino, Taverna, Civita Reale in Abruzzo, Levano (Leverano?),
177
Salerno, Lucera e Torre del Tronto. C'era poi l'antico castello del Carmine in Napoli, di cui già
nel Cinquecento sopravviveva solo la parte del torrione principale ed era pertanto detto
Torrione del Carmine; questo era tradizionalmente presidiato da un governatore e da fanteria
spagnola con il compito di tenere sotto controllo la turbolenta zona del Mercato ed era stato
elevato al rango di fortezza reale dopo la nota rivoluzione del 1647. Ci sono ancora da
ricordare i baluardi di S. Lucia e delle Crocelle al Platamone (oggi Chiatamone) in Napoli,
fortificati dal viceré marchese del Carpio, lavori della cui spesa Madrid aveva chiesto al
marchese relazione con real ordine del 3 aprile1686; la fortezza di Montorio in Abruzzo,
costruita ex-novo ancora dal suddetto del Carpio per sottrarre quella zona al dominio dei
banditi che ne avevano fatto un loro covo; il presidio delle isole Tremiti, appartenenti ai
canonici regolari di San Salvatore; infine i Presidi di Toscana, i quali comprendevano, come
abbiamo già accennato, le tre fortezze d’Orbitello, Porto Ercole e Porto Longone e la piazza
presidiata di Piombino, appartenente questa però al principe di tal nome.
Il sistema difensivo del regno era completato da una cortina di 345 torri costiere, ognuna
presidiata da un caporale o torriero e da due artiglieri o soldati (uno solo, nella precedente
relazione al di los Vélez), cortina che era stata iniziata dal viceré Pedro de Toledo marchese
di Villafranca verso il 1537 e completata trent'anni più tardi dal viceré Parafan de Rivera duca
del Alcalá, il più fecondo dei viceré che abbia mai avuto Napoli per quanto riguarda le
istituzioni militari difensive, il quale nel 1566 istituì anche un’imposta per finanziare questa
grande opera di difesa. Le torri avevano soprattutto il compito di segnalare, con o con fuochi o
con lo sparo di mascoli a salve (‘mortaretti’), la presenza d’armate o di legni corsari nemici ai
naviganti e alle comunità costiere, onde i primi potessero mettersi in salvo e le seconde
approntare la difesa; erano comunque anche armate di un piccolo pezzo d’artiglieria di bronzo
– alcune più grandi e più strategiche di due od anche di tre - del genere delle colubrine, quindi
di lunga portata, posti sulla loro piccola piazza superiore; si trattava quindi generalmente di
sacri, falconetti e smerigli, questi ultimi diversi da tutti i precedenti per esser a retrocarica. Le
torri erano poste in siti e a reciproche distanze tali che, teoricamente, con segnalazioni a
catena tra loro si sarebbe potuto sapere a Napoli d’attacchi nemici da qualsiasi marina del
regno in un massimo di 24 ore; ma per rendere questo sistema più completo le marine, specie
le meno abitate, erano pure guardate, di notte e di giorno, da sopraguardie, mentre per le
comunicazioni ci si serviva anche dei cavallari, ossia di corrieri a cavallo che trasmettevano
alle comunità e alle autorità le notizie di avvistamenti d’imbarcazioni o di sbarchi nemici fatti
dai caporali delle torri. Poiché, come abbiamo detto, le torri erano a quest'epoca ben 345, ci
asteniamo dall'elencarne i singoli nomi, anche se potrebbe essere molto interessante per chi
fosse appassionato di toponomastica storica. Terminiamo questo stato militare del regno
ricordando i governatori delle piazze, governatori dell'armi e capitani a guerra che
comandavano piazze e province, tra i quali era ovviamente preminente quello della capitale, e
il personale della Segreteria di Stato e Guerra, comprendente, oltre al Segretario, una trentina
di ufficiali; infine la squadra di galere, di cui abbiamo già detto.
Tornando ora agli eventi napoletani del 1690, diremo che alla fine di luglio si ebbe
avviso che legni francesi continuavano a infestare le marine della Calabria; uno da Genova
poi, datato 15 luglio, diceva esser arrivati colà mille fanti spagnoli, 500 da Napoli e altrettanti
da Sicilia, questi così mal vestiti da esser definiti addirittura ignudi, i primi in dieci compagnie
e i secondi in cinque sciolte; questi fanti erano guidati dai loro mastri di campo – quello di
Napoli anche dal loro sargente maggiore – e il governatore di Milano conte di Fuensalida, con
un decisionismo inconsueto per un governatore, decise di farne due nuovi terzi aggregando a
ciascuno d’essi due compagnie del terzo spagnolo del mastro di campo Jorge de Villalonga;
elesse al mastrato degli spagnoli provenienti da Napoli Manuel de Velasco, capitano di due
178
compagnie di cavalleria, e di quelli dalla Sicilia Manuel de Orosco, anch’egli capitano di
cavalleria, essendo prassi normale che nella carriera militare di Spagna fossero appunto i
capitani di cavalleria a esser promossi mastri di campo, ritornando quindi alla fanteria con cui
quasi sempre si cominciava; però al Consiglio d’Italia a Madrid si discuterà poi molto questo
caso del Fuensalida, il quale si era preso la libertà di nominare due nuovi mastri di campo
senza tener conto che si trattava di una prerogativa riservata al solo sovrano.
La sera di lunedì 28 agosto partirono per Milano le cinque compagnie di cavalli corazze
dette di nuova leva - 250 uomini in tutto - ed a cui abbiamo già accennato. Una di queste era
comandata da fra’ Tomaso Caracciolo e un’altra da un capitano di casa Spinelli; quest'ultima
era stata però organizzata da Sigismondo de Rho, tenente generale della cavalleria del
regno. Queste compagnie erano finalmente inviate in guerra viva dopo che quattro di esse
erano state mantenute per molti anni a Napoli semplicemente per decoro e
accompagnamento del viceré, come se facessero in sostanza parte della sua guardia; poiché
non montavano cavalcature adatte agli usi di guerra, furono spedite smontate e si dovettero
precostituire a Milano i fondi necessari per la loro rimonta, mentre le richieste di denaro del
governatore di Milano giungevano sempre più pressanti. Poiché queste cinque compagnie,
come abbiamo già detto, a differenza del resto della cavalleria ordinaria che vestiva di
turchino, indossavano abiti rossi, allora potrebbero esser stati destinati a loro 250 dei 300
vestiti appunto rossi che dai documenti risultano esser stati consegnati alla Regia Monizione
in Castel Nuovo in due riprese, cioè il 20 maggio e il 30 giugno. Insieme con queste
compagnie s’imbarcarono 600 fanti, di cui 400 di nuova leva e 200 spagnoli, e per il trasporto
di tutti costoro furono adoperate le galere del duca di Tursi, quelle di Sicilia, giunte a Napoli
da Gaeta, e cinque della squadra del regno per un totale di 14; al convoglio si aggiunse una
tartana noleggiata per il trasporto dei cavalli degli ufficiali delle predette 250 corazze.
Giungevano frattanto continuamente corrieri spediti al viceré dal governatore di Milano, il già
ricordato conte di Fuensalida, per sollecitare le rimesse di denaro e, per far fronte a queste
richieste, il conte de San Esteván chiese ai banchi napoletani 100mila ducati e si preparò a
imporre una nuova tassa ai baroni; si era all'inizio di settembre.
In uno stato militare dell'esercito di Milano dell'ottobre che si conserva all'Archivo
General de Simancas, Valladolid, e che, assieme a numerose altre informazioni, ci è stato
fornito dall’ing. Giancarlo Boeri, risultano presenti i seguenti corpi napoletani:
- Cinque compagnie di cavalleria per un totale di 354 uomini.
- Terzo del Colonna, su 16 compagnie per 680 fanti in tutto.
- Terzo del Dentice, anch'esso su 16 compagnie, ma per soli 441 uomini.
Abbiamo il dettaglio delle predette cinque compagnie di cavalleria nel quale si legge che
il comandante del trozo, ossia del corpo di cavalleria (non si trattava infatti di un reggimento),
era il commissario generale Gioseppe Giudice, il quale era anche capitano di una delle
cinque compagnie; ma delle altre quattro solo una era comandata da un napoletano e cioè dal
capitano Ciarletta Caracciolo, mentre le tre residue erano capitanate dagli spagnoli Joseph
Ynriquez Abarca, Jerónimo Pimentel e Antonio Vezconde. Il prospetto numerico di queste
compagnie è il seguente:
Capitano Ufficiali Soldati montati Soldati senza cavallo Infermi Totale
Giudice
5
52
10
67
Caracciolo
3
46
20
2
71
Abarca
2
48
19
3
72
179
Pimentel
Vezconde
3
2
64
47
6
6
2
5
75
60
Più nove ufficiali della piana maggiore. Riteniamo interessante riportare ogni tanto simili
dettagli numerici tratti dai documenti d'archivio perché il nostro lettore possa, in un certo
senso, veder materializzarsi i corpi militari che evochiamo e non considerarli solo fantasmi di
un lontano passato.
(Napoli, 14 novembre:) Il corrier di Spagna giunto venerdì scorso ha portato nuovi premurosi
ordini per accumulare abbondanti provvisioni e assoldare nuove genti per lo Stato di Milano,
dove si pretende d'aver forze più valide per la futura campagna (A.S.V. Nun. Nap. 107).
C'è qui da spiegare, a proposito di futura campagna, che siamo ancora in un tempo in
cui le operazioni di guerra erano generalmente sospese d'inverno a causa dell'inclemenza del
tempo e poi riprese a primavera inoltrata.
1691. In quest’anno Napoli, come ricorderà in una sua più tarda relazione del 1697 il
residente sabaudo Giovanni Operti, allora appena arrivatovi, fu travagliata da una pestilenza.
Mercoledì 17 gennaio, festa di S. Antonio Abate, sfilarono in pubblico per la prima volta le due
nuove compagnie di corazze della guardia del viceré conte de San Estévan, una di cui era
sotto il comando di Nicola Coppola dei duchi di Canzano; il predetto viceré in quest'ultimo
periodo aveva consolidato le misure contro il brigantaggio abruzzese già prese dal suo
predecessore marchese del Carpio e si faceva elogiare anche per la puntualità con cui
pagava il soldo e faceva dispensare il pane di monizione ai soldati [a’ quali tutti (om.) ha
renduto più agevole e perciò più pronto il servigio], evitando così ai civili la maggior parte dei
disordini e dei reati commessi dai militari quando spinti dalla povertà; sotto il suo governo si
effettuarono poi delle leve di fanteria napoletana di cui non abbiamo rinvenuto notizie
particolareggiate, se non i partiti e le consegne di vestiario che seguono:
- 30 gennaio: consegna di 100 vestiti rossi.
- 5 marzo: partito di 100 vestiti rossi.
- 13 marzo: partito di 400 vestiti turchini.
- 17 maggio: consegna di 661 vestiti turchini e rossi.
A febbraio arrivò da Madrid un ordine reale del 28 gennaio il quale, stante la guerra in
corso con la Francia, imponeva di rimettere con urgenza a Milano tutta la polvere pirica e tutto
il salnitro per farla che si potesse e inoltre prescriveva che si tenesse conservata nei
magazzini buona scorta di salnitro, ma non di polvere, perché questa vi assorbiva umidità e
quindi s’infiacchiva. Anche a febbraio il viceré chiese a tutti i baroni del regno di fornire
ciascuno al re od un uomo a cavallo equipaggiato oppure 75 ducati, il che era un tipo
d'imposizione fiscale tradizionale per finanziare la cassa militare. Martedì 27 marzo lasciarono
Napoli quattro galere napoletane e tre del duca di Tursi, le quali portavano numerose milizie,
gentiluomini venturieri, armamenti e munizioni al soccorso di Nizza assediata dai francesi e,
probabilmente, di questa spedizione faceva parte il terzo napoletano di 600 fanti di cui il 9
maggio un avviso di Foligno segnalerà l'arrivo a Milano; su questi vascelli erano anche
imbarcati il già ricordato marchese di Solera ed Emanuel de Moncada, fratello del marchese
di Aytona, i quali andavano a militare in Piemonte e in Lombardia con i rispettivi gradi di
mastro di campo e di capitano di due compagnie di cavalleria. A Napoli si stava nel frattempo
180
ultimando la costruzione di un piccolo fortino sullo scoglio antistante al Castel dell'Ovo, fortino
che sarebbe poi stato armato con nove nuove colubrine che si stavano fondendo allo scopo
nella fondizione dell'arsenale; quest'opera avrebbe arricchito le difese della capitale di una
postazione avanzata sul mare da cui si sarebbe potuto sparare ai vascelli nemici, specie alle
nuove galeotte bombardiere francesi, anche a fior d'acqua, cioè con tiri di particolare
efficacia.
A mezzogiorno di giovedì 5 aprile nel largo del Castello, ossia nella grande piazza del
Castel Nuovo - oggi piazza Municipio, un soldato sardo e uno siciliano giannizzero, cioè figlio
di padre spagnolo, ma nato in Sicilia; i due, uno di 54 e l'altro di 43 anni, erano stati sottoposti
a tortura sino a confessarsi colpevoli d’aver ucciso un povero ragazzo di 14 anni, per solo fine
di rubarli un misero vestito e un pan(i)erello di robe da mangiare; evidentemente la predetta
buona fama che il San Estévan si era guadagnata in tema di puntualità nell'amministrazione
militare non doveva in realtà essere del tutto meritata! In quel mentre giunse un nuovo ordine
reale, questo del 22 marzo, che chiedeva nuovamente d’inviare a Milano tutto il salnitro e la
polvere che si potesse. Queste richieste furono evase, ma una carta reale del 22 novembre
lamenterà la fiacchezza e la pessima riuscita di queste polveri in guerra in considerazione
che mancanti di sufficiente salnitro.
Da una pianta dell'esercito di Lombardia del 30 aprile ricaviamo un trozo di otto
compagnie di cavalleria napoletana per un totale di 356 uomini, corpo che era di stanza a
Candia Lomellina nel Pavese; il terzo di fanteria napoletana di Marc'Antonio Colonna a
Gazzolo nel Veronese, ma ridotto a due sole compagnie per 100 fanti totali; infine, tra le
soldatesche passate in Piemonte, un altro terzo napoletano, quello del mastro di campo
Antonio di Francia, costituito da ben 19 compagnie, ma per soli 582 uomini in tutto. Nella
prima metà di questo anno risultava poi servire in quell'esercito il mastro di campo napoletano
Luigi Secchi d'Aragona, il quale però allora militava con il semplice incarico di capitano di una
compagnia sciolta di fanteria italiana, aggettivo questo che nell'uso lombardo stava a
significare originaria dell'Italia centro-settentrionale, mentre per napoletani s’intendevano tutti
i nativi del Regno di Napoli, quindi tutti i meridionali, siciliani esclusi.
A maggio si riuscì a evitare un assedio francese a Porto Longone e, scongiurato questo
pericolo, il viceré propose ai titolati la formazione di un corpo fisso di fanteria regnicola di
6mila uomini da porsi a guardia del regno per fronteggiare altri eventuali tentativi di sbarco
del nemico; questo corpo, il quale sarebbe stato il primo esempio di fanteria nazionale
ordinaria e fissa nel Regno di Napoli, si sarebbe costituito con compagnie di 200 fanti ognuna
e comandate da capitani scelti tra gli stessi titolati di prima sfera, mentre il viceré medesimo
ne sarebbe stato il comandante col grado di colonnello, Marzio Origlia il suo luogotenente e
Restaino Cantelmo il sargente maggiore. I nobili applaudirono per piaggeria il progetto, ma
nessuno di loro credeva che sarebbe stato effettivamente attuato, come difatti non fu, per le
grosse spese che un simile corpo fisso avrebbe comportato e anche perché il re aveva
chiesto a Napoli un donativo per finanziare l’aiuto militare che in quel periodo portava al duca
di Savoia oppresso dall’armi di Francia. In quel tempo già erano comunque evidentemente in
corso delle altre grosse leve di uomini e ciò perché un avviso di Foligno segnalerà l’arrivo a
Genova, il 29 giugno, di 13 galere di Napoli e Sicilia cariche di gente da sbarco per lo Stato di
Milano; a Napoli però, per quanto riguarda questo mese di giugno, troviamo conferma solo di
una leva di 500 cavalli, i cui costi furono praticamente a carico dei soliti tartassati baroni,
ognuno dei quali infatti dovette pagare per l'equipaggiamento di un soldato montato.
Salì in quest’estate al trono pontificio Innocenzo XII, il napoletano Antonio Pignatelli.
A riprova dell'intensità delle leve che la corona di Spagna imponeva al Regno di Napoli
e delle migliaia di uomini che ogni anno da tale regno si mandavano a combattere e a
181
presidiare all'estero, ecco una sincrona citazione del Filamondo:
Il numero della gente uscitane per le armate ed eserciti di Casa d'Austria sembra poco men
che incredibile (om.) ed è cosa da meritare l'altrui stupore come (non calcolando più innanzi
che dal governo del viceré conte di Pignoranda 1660 fino al presente) questo solo regno abbia
dato agli eserciti del Re suo signore quaranta e più reggimenti di fanteria, la maggior parte
levati nella Capitale, tanto più valorosi quanto volontari, non essendosi giamai dal
clementissimo Monarca di Spagna usata in ciò la forza con questi popoli.
Premettendo che, come già sappiamo, non si trattava di reggimenti bensì di terzi e che è
falso che non si ricorresse alla coscrizione forzata, specie di vagabondi, mendicanti,
nullatenenti ed emarginati in genere (ma del resto la leva forzata, detta con eufemia
‘obbligatoria’, si è usata in Italia sino a pochi anni fa!), c'è da domandarsi quanti di quei
soldati poterono tornare a rivedere la patria; pochissimi in verità e cioè qualche ufficiale
generale od al massimo maggiore ogni tanto per assoldare altri uomini e con loro ripartire
oppure per vecchiaia dopo 30 o 40 anni di servizio continuo all'estero od infine per quelle
rarissime licenze che pur si concedevano. Per quanto riguarda i soldati privati (semplici) e gli
ufficiali bassi (inferiori), essi morirono quasi tutti lontano dalla loro terra per la guerra, le
malattie, il freddo e gli stenti dovuti alla scarsa nutrizione, all'insufficiente vestiario e alle dure
fatiche.
A proposito di quanto appena detto, aggiungeremo che si ebbe a Napoli notizia che il 30
luglio era morto a Madrid il valoroso mastro di campo napoletano Carlo Andrea Caracciolo
marchese di Torrecuso, il quale aveva servito in Catalogna, in Fiandra e nella difesa d’Orano
in Africa ed era figlio di quel Girolamo Maria, anch'egli mastro di campo, che, come abbiamo
detto, era morto nel 1662 nelle guerre di Portogallo.
Venne ordine verso il 10 agosto a Beltrán de Guevara duca di Nájera, allora capitano
generale della squadra di galere di Napoli, di salpare con tutte le sue forze per la Spagna,
mentre i francesi facevano progressi in Catalogna, e si seppe poi, ancora nell'agosto, che
erano calate nel Milanese soldatesche imperiali alemanne sotto il comando del maresciallo
conte Antonio Carafa, altro napoletano, della cui prestigiosa carriera militare abbiamo già
detto e che aveva avuto incarico di difendere quell'antico ducato dai francesi che avevano già
invaso il Piemonte come controffensiva all'invasione del Delfinato in precedenza riuscita a
Vittorio Emanuele II duca di Savoia.
Nel settembre venne ordine da Madrid di riformare la segreteria di guerra riducendone
gli ufficiali a poco più di un quarto e si festeggiò la notizia di un’importante vittoria ottenuta sui
turchi il precedente 19 agosto dagl’imperiali del margravio di Baden-Baden Ludwig Wilhelm a
Slankamen in Serbia, dove i turchi avevano perso decine di migliaia di uomini, tra cui lo
stesso loro generale supremo, il gran visir Fazil Mustafà Köprülü, e centinaia di cannoni,
subendovi i cristiani solo un decimo delle loro perdite; la sconfitta era stata così importante
che avrebbe obbligato gli ottomani ad abbandonare l’Ungheria. Alla fine dello stesso mese fu
riformato a Milano un altro mastro di campo di casa Caracciolo, ma quale tra quelli che allora
portavano il più illustre cognome di Napoli non ci è stato dato d’appurare; probabilmente si
trattava del nuovo terzo arrivato nel maggio precedente e fatto confluire in quello preesistente
di Marc'Antonio Colonna; forse erano anche per questi soldati i vestiti per le reclute da
Spagna e da Napoli fatti preparare a Milano nel corso di questo 1691.
Sempre nel settembre si parlava dell’imminenza di nuove leve sia di fanteria sia di
cavalleria ed era in costruzione una nuova galera nell'arsenale di Napoli; frattanto nei porti
calabro-pugliesi, per soddisfare i bisogni militari e civili dello Stato di Milano, erano in
182
preparazione convogli di tartane granarie, essendo la Calabria ora anch’essa buona
produttrice di frumento. Nell’ottobre si festeggiò la guarigione della regina di Spagna, malata
da qualche tempo; nella notte tra lunedì 15 e martedì 16 dello stesso ottobre giunse al viceré
un corriero espresso che gli portava la fausta notizia della presa di Carmagnola nel Torinese,
impresa in cui pare si fosse particolarmente distinto il marchese di Solera figlio del viceré;
frattanto una veloce feluca venuta da Porto Longone portava avviso che le galere di Napoli,
dopo qualche combattimento, si erano impadronite di un legno francese carico di munizioni
belliche.
Il mese d'ottobre trascorse a Napoli tra solerti accantonamenti di munizioni nell'arsenale
e continue esercitazioni dei bombardieri nel nuovo summenzionato fortino posto sotto il Castel
dell'Ovo; verso il 10 dicembre tornarono nella capitale Nicolò Pignatelli dei duchi di Bisaccia e
Vincenzo de Capoa dei marchesi d'Altavilla e principi della Riccia, i quali avevano ambedue
militato in Fiandra, il primo da colonnello di un reggimento alemanno e il secondo da capitano
di una compagnia di cavalleria. Per quanto riguarda la carriera del Pignatelli, diremo che nel
1676 egli a soli 18 anni era già capitano di cavalleria in Catalogna, poi fu venturiero in
Fiandra, dove era andato al seguito del principe Alessandro Farnese governatore dei Paesi
Bassi; in seguito passò in Ungheria dove Sua Maestà Cesarea lo fece capitano di una
compagnia del reggimento di cavalleria Piccolomini e si trovò in tutte le più importanti
battaglie combattute in quegli anni in Transilvania e Ungheria dagli austriaci contro i turchi.
Fu poi richiamato in Fiandra, dove, sebbene fosse cosa insolita per un italiano, gli fu conferito
appunto il colonnellato d’un reggimento di cavalleria alemanna, comandando il quale il 29
luglio 1693, posto il diciassettenne fratello Antonio a guardia dello stendardo reggimentale,
perirà nella sanguinosissima battaglia di Landen, un fatto d’arme che fece più di 20mila morti.
(Napoli, 18 dicembre:) Nel fortino vicino al Castello dell'Ovo si continua la pruova de’ mortari
di nuova invenzione che gettano fuochi d'artificio per incendiare le navi inimiche che si
avvicinassero a queste spiaggie (A.S.V. Nun. Nap. 111)
Intanto però un ordine reale del 22 novembre lamentava che il carico di polvere pirica
che a marzo da Napoli si era mandato in Catalogna era risultato di cattiva qualità e pertanto
ordinava che nella polveriera di Torre dell’Annunziata si prendessero gli opportuni
provvedimenti perché il guasto non si ripetesse:
… di essere arrivato in Barzellona il bergantino maiorchino con le 500 cantara di polvere e che
sia di mala qualità e fiacca e di nessun servizio per mancanza del salnitro… e che si rimedi il
danno che si esperimenta nella fabrica della polvere…
Un avviso di Foligno del 26 dicembre comunicava che a Milano il napoletano Giuseppe
Garofalo Suarez era stato nominato dal governatore dello Stato capitano di una compagnia di
cavalleria napoletana; egli si era infatti impegnato ad arruolare uomini a sue spese (per
essersi esibito di fare 30 huomini a proprie spese con armi, vestito e cavalli) e già il 24
precedente aveva cominciato a farne assentare (‘approvare’) alcuni dagli Uffici del Soldo di
quella città. Alla fine di gennaio dell’anno seguente la predetta nomina fu ufficializzata;
ritroveremo alcuni anni più tardi il Garofalo mastro di campo nel Regno.
In quest'ultima parte dell'anno il viceré conte de San Estévan, con un’efficace azione
militare, scacciò i francesi che avevano in precedenza occupato l'isola di Ponza e questo fu
forse l'ultimo successo difensivo del regno prima della caduta del dominio spagnolo. Intanto,
nelle Fiandre spagnole, i francesi comandati dal maresciallo di Lussemburgo, dopo aver già
183
nel precedente aprile occupato la città di Mons, avevano il 18 settembre pesantemente
sconfitto gli alleati a Lens, battaglia in cui 28 squadroni della Maison du Roi, ossia della
guardia reale francese, avevano avuto ragione di ben 75 squadroni nemici; inoltre il mese
successivo avevano vinto ancora a Susa in Piemonte, con gravi perdite dell’esercito del duca
di Savoia.
1692. Sabato 12 gennaio moriva una delle nostre principali fonti, cioè l’abate Vincenzo
d’Onofrio, diarista che, chissà perché, scriveva sotto lo pseudonimo d’Innocenzo Fuidoro.
Negli ultimi giorni di febbraio arrivò a Napoli dalla Spagna una saettia che portava alcuni
soldati e il mastro di campo Gasparo della Torre, nominato governatore di Port’Ercole. Pochi
giorni dopo un avviso da Roma segnalava il passaggio per quella città di Titta Caracciolo, il
quale proveniva dalla Lombardia ed era diretto in patria dove doveva provvedersi di cavalli
per le compagnie di cavalleria alemanna che comandava appunto nel Milanese. Bisogna a tal
punto ricordare che il Regno di Napoli non a caso aveva com'emblema araldico un bianco
cavallo; esso, come abbiamo già accennato, era infatti da sempre uno dei principali produttori
europei di quei cavalli da guerra detti corsieri, ossia di quei grossi equini castrati che col loro
abbondante peso servivano agli uomini d'arme per sfondare le linee nemiche e di cui i più
grossi e famosi erano in ogni modo quelli originari della Frisia, oggi detti olandesi, perciò
cavalli di Frisia furono più tardi chiamati i famosi cavalletti ostruenti usati dalle fanterie contro
cavalleria e auto-meccanizzati; una delle razze regnicole che produceva corsieri
particolarmente pregiati e imponenti era per esempio quella dei principi di Bisignano di casa
Sanseverino. L'altro tipo di cavalli bellici, cioè gli snelli ginetti - usati questi dalla cavalleria
leggera in tutte le sue forme - erano sì anche prodotti dalle razze (allevamenti) del regno, ma
non erano pregiati come quelli spagnoli o arabi.
Alla fine di marzo arrivò dall’Ungheria il capitano di cavalleria Francesco Montoja,
venuto in patria per sistemare alcuni suoi interessi personali e per poi ritornare all’estero alla
testa della sua compagnia.
Il primo aprile alli Bagnoli, vicino il mare nella strada di Pozzuoli, presenti Sua Eccellenza e
molti ministri tanto di guerra che civili e gran numero di cavalieri e altri popoli, si fece(ro)
diverse prove d'artiglieria tanto de’ cannonieri livornesi, tedeschi e Napolitani, tirando le
cannonate contro del monte nel segno (bersaglio), quale da niuno fu colto, ma da Napolitani
più delli altri si sono accostati…
Si provò poi, in quel tradizionale poligono di tiro napoletano, un mortarello di nuova
invenzione che sparava bombe piccole, però alla distanza che si raggiungeva con i cannoni;
si provarono poi altre nuove armi, ma con deludenti risultati:
Appresso si spararono le due bombe di nova invenzione senza mortaro (‘mortaio’, om.) e la
prima volò circa 100 passi, contro il dire del mastro Gioseppe piemontese che prometteva
circa 800 passi, e la seconda tirata arrivò circa 80 passi e, caduta che fu, restò un credo in
terza (restò in piedi per la durata di una preghiera), poi si alzò circa due uomini (si innalzò solo
poco più di tre metri) e si crepò con una botta come di scoppetta (cioè fece anche poco
rumore).
Appresso tirò una granata con un mortaletto piccolo in mano attaccato a un talone (calcio) di
pistola e quella crepò per l'aria circa passi quaranta.
Perché tanti artificieri stranieri a Napoli? Perché i balistici napoletani non erano i più
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accreditati e il San Estévan aveva fatto venire dall'estero parecchi esperti che facessero
scuola; erano insomma nell’ultima decade di marzo arrivati da Livorno quattro artiglieri (de
quali qui ne mancavano degli (e)sperti per l'artiglieria), dalla Germania due bombisti, ossia due
esperti della fabbricazione delle bombe, con il soldo di uno scudo il giorno per ciascuno, il
che era stipendio notevole, e dal Piemonte il mastro bombista Gioseppe e l'ingegnere militare
piemontese Giulio Cesare Berzetti, figlio del conte di Birons, questo a sei scudi il giorno, il
quale si era fatto un nome nella presa di Buda in Ungheria. Tedeschi e piemontesi erano stati
raccomandati e inviati a Napoli dal già più volte menzionato maresciallo di campo napoletano
Antonio Carafa al servizio cesareo; ma sia costoro sia i livornesi non sembrano aver tenuto
fede alla loro fama, anzi uno dei due bombisti tedeschi subì nello stesso aprile un grave
incidente nella lavorazione delle polveri, come se si fosse trattato di un qualsiasi principiante:
Il 17 al fortino vicino alla Vittoria, mentre ivi si facevano l'ingredienti per riempire le carcasse e
bombe dentro un calderone sopra del fuoco, accidentalmente si appiecciò il fuoco e ne
restarono offesi 6 uomini ivi presenti, principalmente il tedesco bombista...
Chissà che qualcuno non avesse tentato di toglier di mezzo l'intruso straniero, venuto a
sottrarre un ricco stipendio agli artificieri napoletani! Tutti i suddetti esperti stranieri,
l'ingegnere Berzetti, il mastro Gioseppe e i due tedeschi, lasceranno comunque Napoli
abbastanza presto, cioè giovedì 22 maggio, per aver evidentemente terminato la loro breve
missione-scuola e aver quindi finito di profondere adeguatamente il loro sapere. Frattanto la
mattina di lunedì 7 aprile erano arrivate le cinque galere dello stuolo di Sicilia e si diceva che
dovessero unirsi alle napoletane in una missione ancora ignota. Sempre nell'aprile, mentre
era ormai terminata la costruzione della summenzionata galera, nell'arsenale anche si
stavano fabbricando fuochi artificiati di guerra, si fondevano cannoni e colubrine; inoltre si
rinforzavano le fortificazioni costiere della capitale e dei suoi dintorni, munendole delle
necessarie artiglierie, giunse da Madrid ordine reale che s’inviassero al più presto in Spagna
2mila fanti di nuova leva:
...onde questo signor Viceré ha dato ordine che si prendano dalla Città tutti i dissutili e
vagabondi e si portino dentro l'arsenale; e già si è posto in essecuzione da’ capitani di strada
che ne hanno avuta l'incumbenza, poiché hanno cognizione di quelli che stanno per le loro
ottine (quartieri).
Non si riuscì comunque a raccogliere tanti uomini in breve tempo e martedì 22 dello
stesso aprile le galere del regno e le cinque di Sicilia lasciarono Napoli trasportando solo una
parte delle reclute richieste alla volta di Gaeta, poi dei Presidi di Toscana e infine della
Catalogna:
...ove conducono mille soldati Napolitani, fra’ quali da ducento in circa de’ vagabondi presi per
la Città, non essendosi potuto prender altri per essernosi salvati altrove, per empire le
compagnie della medesima nazione che militano in quello Stato.
Come poteva dunque il Filamondo, contemporaneo e testimone di questi avvenimenti,
scrivere che a Napoli non si reclutava a forza? Solo a spedizione partita e cioè alla fine
d'aprile giunsero a Napoli alcune barche cariche di genti assoldate in Calabria, le quali
furono, come il solito, rinchiuse nell'arsenale perché non fuggissero e dove erano esercitate
alle evoluzioni e al maneggio delle armi di fanteria. Il viceré aveva inoltre chiesto ai baroni del
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regno di reclutare nei loro stati (‘feudi’) e si poterono così in questo 1692 mandare anche a
Milano cinque compagnie di cavalli corazze di 60 uomini ognuna, coscritti che furono
imbarcati non solo già vestiti e armati, ma anche forniti dei mezzi finanziari necessari
all'acquisto a destinazione delle loro cavalcature, come risulta da un documento, e tant'è,
giacché era tutto a spese dei soliti baroni! Inoltre il principe d’Avellino, il duca di Maddaloni e
altri titolati reclutarono tra i loro vassalli anche fanterie e si pensava di utilizzarle in parte a
difesa dei luoghi strategici della città di Napoli e del regno:
Nella città di Gaeta, stante la congiuntura delle guerre, quella città per ponersi in valida
difesa in caso d'insulti de’ nemici, si sono arrolati de’ paesani in uno terzo di meno di tremila
uomini, come dicono li avvisi stampati, non avendo tanti cittadini, sotto del mastro di campo
don Camillo Gattola e don Antonio d'Albiti sargente maggiore di battaglia, mostrando la loro
fedeltà verso il nostro Monarca.
Quest'arruolamento spontaneo a Gaeta era dovuto alla notizia che l'armata di Francia si
era posta minacciosamente in mare e si sarebbe potuta presentare contro le marine del
regno.
A chi volesse sapere con precisione quanti e quali fossero i corpi napoletani che
militavano in quegli anni nell'esercito di Catalogna consigliamo senz’altro le opere di
Giancarlo Boeri, massimo studioso della partecipazione bellica napoletana all’estero nel
periodo che ci occupa; il Carafa nelle sue memorie ricorda a tal proposito due terzi, cioè il
Caracciolo (probabilmente Gioan Battista, dei duchi di Martina) e il de Capoa, e inoltre un
reggimento di cavalleria, il Bragamonte. Purtroppo l'opera del Filamondo si arresta proprio a
questi anni e non può aiutarci in tal senso; non ci resta quindi che attingere dalla gazzetta
ufficiale del tempo, dal Cavallo, dal Bulifon, da altri cronachisti minori e dai non numerosi
documenti d'archivio che riguardano questi ultimi anni del vice-regnato spagnolo. La stessa
incertezza si ha anche per quanto riguarda i terzi che servivano invece in Fiandra, dove per
esempio in questo periodo militava col grado di mastro di campo un altro esponente della
famiglia Carafa non meglio identificato.
Poiché abbiamo più sopra accennato che in questo periodo le fanterie francesi, come
del resto quelle alemanne (‘austriache, imperiali’) erano molto meglio armate di quelle della
Corona di Spagna, ci sembra a questo punto necessario spiegare, anche se per sommi capi,
l'evoluzione dell'arma da fuoco di fanteria nel quarantennio che ci occupa. L'arma più
moderna era ora il cosiddetto moschetto leggiero, un’evoluzione del vecchio pesante
moschetto di Biscaglia di cui nel 1567 il duca d'Alba aveva appunto in parte armato la fanteria
spagnola nell'esercito da lui preparato per andare a reprimere la ribellione dei Paesi Bassi. Il
moschetto leggiero sparava palle di piombo di circa un’oncia a una distanza utile di circa 60
passi e presentava sostanziali vantaggi di maneggevolezza rispetto a quello precedente, il cui
unico punto a favore era il calibro alquanto maggiore; innanzi tutto, a ragione del minor peso
e certo a prezzo di una minor precisione dei tiri, si poteva sparare anche senza la forcina di
sostegno e quindi il fante era sollevato dal dover portarsi dietro nelle marce anche
quell'attrezzo complementare; inoltre, a dispetto del minor peso, aveva una cassa di legno
molto più grossa e fatta di tal misura e proporzione che, quando il soldato se lo alzava
all'omero, andava da solo in equilibrio, mentre la piccolissima e irrazionale cassa del
moschetto di Biscaglia, non facendo da contrappeso alla pesante canna, faceva sì che l'arma
affaticasse il fante nella marcia; infine, le proporzionate misure della cassa del moschetto
leggiero permettevano di fermarla bene tra il braccio e il petto durante lo sparo, senza che il
rinculo offendesse il moschettiere, rinculo che invece col vecchio moschetto, dopo soli tre o
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quattro colpi sparati, cominciava a rompere al soldato la guancia e il petto, specie se questi
non era espertissimo; a motivo di questa sua relativa leggerezza, poteva esser portato non
più solo dai soldati più robusti ed esperti, ma da tutti i fanti e quindi sostituiva nella fanteria
non solo il gravoso e poco maneggevole moschetto di Biscaglia, ma anche il debole
archibugio, arma di calibro troppo piccolo e di troppo limitata gittata, risultando così ora i fanti
armati di una sola arma da fuoco con un evidente sostanziale miglioramento dell'uniformità
dell'armamento; pur tuttavia il ferro di Biscaglia, essendo per qualità tra i migliori d'Europa,
restava sempre molto consigliabile anche per la fabbricazione delle canne dei nuovi
moschetti leggeri. In effetti l'adozione del nuovo moschetto risultava quanto mai opportuna per
le fanterie europee, in considerazione che i moschettieri non più tolleravano di portare e
maneggiare quel gran peso che avevano invece ben sopportato i loro padri, allo stesso modo
in cui gli stessi fanti non più avrebbero tollerato il peso e l'impaccio delle vecchie armi
difensive, quali il corsaletto con il morione od anche il semplice petto di ferro, armi che era già
ora possibile vedere solo nelle armerie reali e nobiliari perché ormai tatticamente superate, in
un processo che vedeva man mano diminuire nell'uomo europeo, se non la corporatura,
certamente la sua vigoria neuro-muscolare, quella stessa vigoria che, per esempio, sino al
secolo precedente gli aveva permesso di maneggiare agevolmente anche i pesantissimi
spadoni a due mani.
Nato dalle esperienze della guerra dei Trent'anni, il moschetto leggiero si affermò però
nelle fanterie della Spagna con notevole lentezza e ritardo e ne è una dimostrazione, oltre a
quanto da noi già preso dal Filamondo, la relazione del 14 febbraio 1686 sul ricevimento, da
parte della Signoria di Venezia, di due terzi italiani, un reggimento di fanteria alemanna e uno
di dragoni inviati dallo Stato di Milano perché venissero impiegati nella guerra che la
Serenissima stava conducendo contro i turchi; i fanti, cumulando insieme italiani e alemanni,
sebbene nel relativo trattato Milano si fosse impegnata a fornirli armati solo di moschetti e
picche, risultarono armati per il 45% di ormai obsoleti archibugi, per il 30% di picche, per il
7/8% di carabine (leggi granatieri) e solo per il 20% di moschetti e il conte Leonardo Turco,
deputato veneziano a tale ricevimento e relatore, non spiega nemmeno di che tipo di
moschetti si trattasse; ma, data la detta sopravvivenza degli archibugi, si sarà trattato
sicuramente di quelli vecchi di Biscaglia.
Eppure già la Montecuccoli, nel suo Aforismi dell’arte bellica (1668-1673), dava per
scontato il nuovo modo d’armare la fanteria, perlomeno quella imperiale, cioè quella che lui
era abituato a comandare:
XVI. Sono perciò i reggimenti moderni a piede composti di due terzi di moschetti e di un terzo
di picche.
Gli archibugii non si adoprano più negli eserciti alemanni, avvenga che il moschetto fa maggior
passata (‘penetrazione e percorso’) e quell’istesso uomo che porterebbe l’archibugio può
portare il moschetto.
Voleva allora però il Montecuccoli che i moschettieri continuassero a portare la forchetta
(‘forcina’) d’appoggio anche in campagna, se non più per necessità di sostegno dell’arma,
però ancora per accertar meglio il tiro, cioè per prender meglio la mira; inoltre egli era anche
un sostenitore del vecchio moschetto da posta, ossia un tipo molto più pesante, lungo e
potente dei due da porto personale suddetti e che, anche se il predetto condottiero cerca di
farlo passare per una sua innovazione, in realtà si era già usato per secoli come arma da
luogo fortificato per la difesa delle piazze, trattandosi di una vera e propria piccola artiglieria
muraria su forcina girevole. Altre due pretese innovazioni si attribuiva il Montecuccoli e cioè il
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meccanismo automatico d’apertura del focone all’abbassarsi della miccia accesa su di esso e
il moschetto a doppio sistema d’accensione – acciarino e miccio, metodo che quindi
accoppiava i vantaggi dell’uno e dell’altro, che però egli stesso riconosce aver copiato dai
turchi e che comunque in Europa non ebbe però successo; il tenente generale (poi
maresciallo di campo) de Vauban, governatore della Cittadella dell’Isle, il quale fu sì
espertissimo di fortificazioni e fabbriche militari, ma anche maestro nel farsi attribuire le
ideazioni d’ingegneri militari italiani a lui precedenti, ripresenterà infatti più tardi come sua
invenzione un moschetto-fucile in cui appunto il fuoco di una miccia subentrerà in caso di
cilecca dell’acciarino, ma, come tutte le armi magari ingegnose, ma poco pratiche, anche
questa sua non avrà successo (de la Chesnaye). Gli ottomani usavano in effetti, ma per altro
verso, moschetti a miccio veramente ottimi; erano più lunghi e di minor calibro di quelli dei
loro nemici imperiali, ma di una tempra di ferro talmente buona che potevano caricarli con lo
stesso peso di polvere che aveva la palla e di conseguenza, anche senza canna rigata e
senza una qualità di polvere più fina, ottenevano tiri più potenti e più lunghi e per questo poi
queste loro armi prenderanno il nome improprio di carabine; il loro difetto era però che, non
usando la suddetta forcina, non erano dei buoni bersaglieri. La maggior debolezza dei turchi
in battaglia campale era però un’altra e sempre la stessa da sempre; cioè, che, non usando
né gli squadroni di cavalleria pesante (leggi cavalli corazze) né i battaglioni di fanteria
pesante (leggi picchieri corsaletti), non potevano opporre a quelli imperiali dei corpi altrettanto
solidi, cioè statari, e quindi dovevano sempre sfuggire lo scontro fisico e cercare di vincere
con attacchi improvvisi e ritirate continue, nel che spesso però frequentemente riuscivano a
ragione dello sterminato numero di combattenti, cavalli e artiglierie che portavano e, anche se
con movimenti confusi, presentavano in campo.
Ancora più sorprendente della suddetta veneziana è un’altra relazione, molto più tarda,
cioè quella cioè sullo stato del regno di Sicilia che nel 1705 Monsieur de Bedusar, inviato di
Francia in quell'isola, farà al suo governo a Parigi; egli infatti, trattando delle milizie siciliane,
da lui definite una matiére risible, descriverà i fanti spagnoli del terzo fisso di Sicilia ancora
armati di grossi moschetti di Biscaglia con forcine à l'antifumo. In effetti i fanti spagnoli
sarebbero dovuti andar armati non più nemmeno del moschetto leggiero, ma addirittura del
fucile, come prescritto dall'ordinanze del 1702 e del 1704 di cui a suo tempo parleremo.
Questa sostanzialmente mancata adozione generalizzata del moschetto leggiero e delle sue
molto maggiori potenza e intensità di fuoco rispetto a quelle del vecchio modo di armare la
fanteria, fu certamente una delle cause di quel declino della potenza spagnola che toccherà il
suo fondo all’inizio del secolo successivo; in sostanza, aumentando così tanto l’importanza
delle armi da fuoco, la battaglia cambiava radicalmente, passandosi infatti gradualmente da
squadroni e battaglioni di gran fondo (), cioè molto profondi, con ordini lunghi, perché destinati
a sostenere, con questa loro grande profondità, la pressione esercitata su di loro dal nemico
nello scontro fisico od al contrario a esercitare essi stessi pressione su di lui, a formazioni di
poche file (sp. hileras, fr. rangs), cioè generalmente sei per la fanteria – ma si era iniziato
questo processo con otto - e tre per la cavalleria, però molto più lunghe di prima, perché ora,
abolite le picche e i deboli archibugi, c’erano molti più soldati che dovevano sparare, cioè
praticamente tutti e tutti alternandosi alla fronte a sparare molto più rapidamente di quanto si
facesse prima perché il caricamento delle nuove armi era ora molto più veloce; quindi davanti
a sé il soldato non doveva aver troppe file di camerati che lo costringessero a stare troppo
tempo inattivo tra un suo sparo e l’altro. Un battaglione andava ora in genere dai 600 ai mille
uomini. Se si arrivava sul campo di battaglia con ordini (sp. ordenes, fr. files) troppo lunghi,
questi prendevano il nome di ‘colonne’ e, poiché in colonne non si poteva combattere per i
motivi appena detti, i sargenti ricevevano l’ordine di dividerle in parti uguali da andare ad
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affiancare alle altre alla fronte, la quale così si allungava sino al desiderato; ed è da questo
importantissimo compito di faire la division, da cui, se mal fatto, poteva dipendere l’esito
negativo di una battaglia, che si arriverà poi, con una normale degenerazione semantica, al
nuovo e molto diverso significato militare, che ha oggi il termine ‘divisione’.
Dopo la guerra di Successione Spagnola la Spagna militarmente si adeguerà e
riprenderà, come si vedrà per esempio in Italia al tempo di Carlo III di Borbone, ma solo per
mettersi così alla pari delle altre grandi nazioni europee, non certo più per essere, come nel
passato, la migliore di tutte.
Formata dunque ora la fanteria solo di moschettieri e di picchieri, il moschettiere
europeo, oltre che del moschetto e dei suoi accessori, era armato di una spada piuttosto
lunga, ma non tanto da dargli impaccio nella marcia, di una tracolla per questa che andava
dalla spalla destra al fianco sinistro e di una bandoliera che andava invece dalla spalla
sinistra al fianco destro e a cui erano appese una patrona o borsetta porta-proiettili, a cui si
attaccava un rotolo di corda-miccia, un fiaschetto contenente il polverino d’innesco e una
serie di cartucce di polvere già preparate; queste due strisce di cuoio, generalmente di bufalo,
erano forti e larghe, non perché spada e patrona fossero molto pesanti, ma perché così,
specie nel punto in cui s’incrociavano, potevano in battaglia difendere alquanto il petto del
soldato dai colpi di spada e anche da quelli di moschetto più deboli. In effetti però, ora che,
data la suddetta maggior potenza e intensità di fuoco raggiunta, gli scontri corpo a corpo
erano diventati piuttosto rari, si tendeva a liberare il soldato da questi impacci; inoltre, anche
quando si combattesse alla spada od alla baionetta, quelle due strisce si dimostravano ottimi
punti di presa per le mani del nemico, da cui il soldato poteva così trovarsi afferrato. C’era
infine un'altra ragione per cui la bandoliera finiva per servire veramente poco e cioè perché si
era costatato che il moschettiere, sollecitato a caricare e sparare il più velocemente possibile,
versava il contenuto della patrona in una delle due tasche delle falde del suo giustaccorpo e
quello delle cartucce nell’altra, in modo da poter prendere tutto con maggiore semplicità e
prestezza, il che, oltre ai motivi dell’urgenza, poteva avvenire anche perché magari del detto
fornimento di cuoiami non era stato per nulla dotato; di conseguenza egli, quando doveva
sparare, non disponendo più della cartuccia di polvere già preparata, doveva calcolare la
quantità di polvere da usare per caricare la sua arma e quindi, posta la palla nel cavo della
mano sinistra, le versava su polvere fino a coprirla completamente e a quel punto, cioè
quando la palla non si vedeva più, quella era, per esperienza comune, la carica di polvere
giusta. Per tutti questi motivi, come già abbiamo accennato, nel 1684 si cominciò in Francia a
togliere questi cuoiami ai reggimenti di fanteria e s’iniziò da quelli delle guardie reali francesi
e svizzere, sostituendoli con un cinturone, il quale serviva a reggere sia la spada tramite
pendoni sia la giberna, magari ora più grande se contenente palle e cartucce, sia il rotolo di
corda-miccia, mentre sia il fiasco della polvere, se usato in alternativa alle dette cartucce, sia
il suddetto fiaschetto del polverino si potevano portare attaccati a una cordicella a bandoliera
oppure in altra maniera (Manesson Mallet).
I picchieri, soldati più alti e vigorosi, in modo da poter aver un maggior e più forte allungo
di braccia contro la cavalleria nemica, erano armati, oltre che di picca e spada, anche
difensivamente e cioè di un corsaletto con bracciali portato sulla marsina, proprio perché il
contatto con detta cavalleria gli esponeva a ricevere sulla testa sulle spalle e sulle braccia
forti colpi di sciabola o di taglio di spada, cioè stramazzoni o rovesci. Il corsaletto era
composto di due grandi pezzi, di cui uno copriva il petto e l’altro la schiena, e, a differenza
della corazza del soldato montato, era solo a prova di pistola e appunto di stramazzone,
mentre quella, di ferro più doppio e pesante, lo era di moschetto; infatti, seduto in alto sul
cavallo, il soldato rappresentava un più facile bersaglio per i moschettieri nemici. I bracciali
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erano uniti agli spallacci e questi si attaccavano al corsaletto generalmente per mezzo di tre
fibbie; erano fatti di lamine dello stesso ferro usato per il corsaletto e queste erano attaccate
l’una all’altra per mezzo di chiodi ribaditi da ambedue le parti, ma disposte l’una sull’altra in
maniera che si estendevano o si restringevano a seconda che il picchiere dovesse allungare o
ritirare le braccia; erano inoltre decorate con chiodi perduti, ossia con teste di chiodo non
funzionali. Disposte allo stesso modo erano le lamine, queste più larghe e meno arrotondate,
dette scarselloni (fr. tassettes), le quali, attaccate anch’esse con fibbie al corsaletto, in questo
caso 4, servivano a proteggere il basso ventre e le cosce, in questo ruolo aiutate o no che
fossero dalla presenza o dalla mancanza di cosciali. La parte alta del petto era difesa inoltre
dall’alza-collo, elemento di difesa di ferro o di rame dorato, spesso sormontato da una
gorgiera a difesa del collo propriamente detto; questo elemento a protezione del petto - e
spesso dunque anche del collo - era molto spesso l’unico adoperato dagli ufficiali, sargenti o
colonnelli che fossero, in ogni occasione di servizio, combattimento incluso. Infine, la testa del
picchiere era protetta da una celata crestata, servendo la cresta a difendere proprio dai
suddetti stramazzoni, copricapo però molto meno pesante della borgognotta di cavalleria; ma
nei loro ultimi anni questi soldati ne saranno spesso privi in considerazione che ormai adibiti
quasi esclusivamente alla guardia delle artiglierie, compito che era di solito a loro affidato
perché sarebbe stato troppo pericoloso tenere armati d’arma da fuoco nei pressi dei barili di
polvere. Gli ufficiali di fanteria erano generalmente armati di spada e, alfieri esclusi, di una
corta arma astata, alabarda o partigiana; i fantaccini svizzeri portavano, invece della spada,
una specie di sciabola ricurva.
Tornando ora alle cronache napoletane, diremo che nel mese di maggio di questo 1692
la paura della flotta francese prese di nuovo Napoli perché nei mari d'Italia ne era comparsa
una formata da 35 galere, sei velieri e tre palandre e che si diceva fosse uscita dalle sue basi
per venire a vomitare su Napoli lo stesso inferno di bombe e carcasse che già avevano
dovuto sopportare Genova e Oneglia. I benestanti facevano piani per abbandonare la città
con le loro cose più preziose, ma nulla avvenne; ciò non ostando che il conte de San Estévan
aveva premunito cautelativamente la riviera di Napoli e le altre principali marine del regno;
infatti sia venerdì 16 maggio sia la mattina di mercoledì 28 dello stesso mese aveva spedito
corrieri ai governatori dei presidi marini perché vigilassero e a molti dei principali baroni del
regno, tra cui il principe d’Avellino e il duca di Maddaloni, perché mantenessero i loro vassalli
in armi e pronti alla difesa delle singole terre (cittadine e villaggi); inviò a Porto Longone
l’aiutante generale Girolamo Lavagna e 18 ufficiali maggiori riformati; richiamò alla difesa di
Gaeta le compagnie di presidio negli Abruzzi, compagnie generalmente spagnole del terzo
fisso, allora comandato dal mastro di campo Luis Espluga; ordinò al battaglione di Terra di
Lavoro di tenersi pronto a marciare, parte verso Castellammare e parte verso le marine di
Pozzuoli e Gaeta, per impedire possibili sbarchi del nemico; allertò 500 cavalli e parecchi
ufficiali riformati; martedì 27 maggio fece partire da Napoli 20 feluche, imbarcazioni piccole
ma velocissime, per trasportare urgentemente soldati a Longone; affidò a Marzio Origlia, duca
d'Arigliano e generale dell'artiglieria del regno succeduto al Brancaccio, la posa di colubrine,
cannoni e mortari alle batterie avanzate sulla riviera di Napoli, tra cui molto importante era
quella del già ricordato nuovo fortino costruito sulla scogliera avanti al Castel dell'Ovo, alla
distanza di 80 passi da questo, e munito di una quindicina di pezzi d’artiglieria, tra grandi e
piccoli, e specialmente di nove smisurate colubrine di nuova fonditura e di straordinaria
gittata, la quale, prodotte dalla fondizione sita nel regio arsenale di Napoli, colpivano di punto
in bianco, ossia in linea orizzontale, a una distanza di un miglio e mezzo d’Italia, (di cui una
non so si abbia uguale in Italia. Filamondo); questa gittata, corrispondente ai km. 2,602 di oggi
e veramente eccezionale per quei tempi, e la posizione avanzata dei pezzi potevano quindi
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permettere di tener lontane un’armata nemica, specie le esiziali palandre a bombe francesi,
cioè quelle galeotte bombardiere che si erano dimostrate così esiziali contro Genova nel
1684, con tiri diretti a fior d'acqua, cioè con quei tiri che più facevano paura ai naviganti,
perché aprivano falle tali nello scafo da mandar presto a picco il malcapitato vascello. Una
prova di queste nuove colubrine, unitamente a quella di mortari di nuova invenzione, era stata
fatta lunedì 12 maggio al predetto fortino con molto concorso di gente venuta ad assistervi e i
risultati furono molto soddisfacenti; si dovette però dopo procedere a riparazioni del fortino
stesso perché molto danneggiato da recenti mareggiate.
Le altre batterie, cioè quelle del ponte della Maddalena, del Molo, della Torre di S.
Vincenzo e della riviera di Posillipo, vicino al palazzo della Roccella, furono armate con molti
altri pezzi, tra cui due colubrine fatte venire da Capua e cinque dal Castello di S. Eramo
all'inizio del marzo precedente. Inoltre il viceré fece allestire un paio di contropalandre
(probabilmente pontoni con batterie galleggianti), di cui la prima armata di 12 cannoni grandi,
120 petriere, 200 moschetti di posta (da postazione, cioè non portatili) e 40 granatieri, per
spingerla a bersagliare più da vicino l'armata nemica, se questa si fosse presentata nel golfo.
Affidò ad Andrea d'Ávalos principe di Montesarchio, soldato decisamente vecchio, ma molto
sperimentato, la direzione dell'intero armamento marittimo facendolo generale della marineria;
a Fernando Gonzales de Valdés, mastro di campo generale del regno (od al castellano del
Castel dell'Ovo, cioè al mastro di campo Peñalosa, secondo il nunzio apostolico) quella del
predetto fortino davanti allo stesso castello; al già nominato Marzio Origlia affidò invece la
batteria del ponte della Maddalena e in più la cura della zona del Mercato e del forte del
Carmine, assistito dal generale dell'artiglieria ad honorem Camillo di Dura duca d'Erchie e dal
sargente generale di battaglia Restaino Cantelmo principe di Pettorano; incaricò poi della
batteria di Mergellina a Posillipo il generale dell'artiglieria e mastro di campo Francesco
Serra, fratello del marchese e duca di Cassano, e di quella della Lanterna del Molo il generale
dell'artiglieria conte Manzoli; conferì il generalato del baronaggio al suddetto Marzio Carafa
duca di Maddaloni, mentre, per assistere alla sua persona, nominò il mastro di campo Antonio
di Gaeta marchese di Montepagano; spedì a Longone in feluca l’aiutante di tenente generale
Geronimo Lavagna con 18 ufficiali riformati, al castello di Baia il capitano di cavalleria
Gioseppe Mendoza, all'isola d'Ischia il tenente di mastro di campo generale Eustachio
Brancaccio, a quella di Procida Luis Parisani (od il predetto Brancaccio, ancora secondo il
nunzio apostolico), alla Torre del Greco (a Salerno, secondo il detto nunzio) fra’ Francesco di
Gennaro, a Castellammare fra’ Alvaro Minutillo y Quinoñes, a Pozzuoli Domenico Dentice;
questi ultimi quattro erano tutti mastri di campo di provata esperienza. Infine si posero delle
vedette munite di occhialoni di lunga vista al luogo elevato detto di Nazareto (oggi
‘Camaldoli’), dove avevano il loro romitorio i padri Camaldolesi.
Fu tanto il pericolo che non venisse a momenti l'armata francese che si erano poste delle
sentinelle spagnuole al luogo di Lazareto, ove tengono loro romitaggio li padri Camaldolesi, le
quali stavano alla mira con occhialini di lunga vista per dare avviso alla Città nell'occorrenze.
Poi lunedì 2 giugno, con gran giubilo generale, s’ebbe notizia che l’armata di Francia
s’era allontanata da quei mari. Nell’ultima decade di maggio approdarono a Napoli due galere
di Sardegna, le quali, si diceva, dovevano restarvi per contribuire alla sorveglianza delle
marine del regno e portavano con loro una saica inglese predata durante il viaggio. Gran
parte delle predette misure difensive furono poi smantellate nel mese di luglio, quando cioè il
pericolo di un attacco francese dal mare era ormai scongiurato, e infatti nella mattinata di
lunedì 21 di detto mese si tolsero i cannoni con cui si era provvisoriamente rinforzata la
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principale batteria, cioè quella del ponte Ricciardo, vulgo detto della Maddalena; ma già si
pensava di rendere quest'ultima postazione stabilmente più forte, cosa che poi sarà realizzata
più tardi dal viceré marchese di Villena:
(Napoli, 1° luglio:) Essendosi conosciuto che il posto del Ponte della Maddalena sia molto
opportuno per guardare la spiaggia di questa Città da ogni tentativo nemico, si é risoluto di
fabbricarvi un fortino regolato capace di 30 pezzi di cannone (A.S.V. Nun. Nap. 112).
Nello stesso mese di luglio si dovette anche cominciare a pensare di dover sostituire i
tanti fanti dei Presidi di Toscana ultimamente uccisi da una virulenta e perniciosa pestilenza e
si dettero pertanto tre nuove patenti di capitano di fanteria con obbligo di leva:
(Napoli, 8 luglio:) Continuano i ministri della Regia camera le loro consulte per ben provvedere
le piazze di Toscana di nuove provvisioni e si vanno tuttavia assoldando soldati per guernirle
di nuove compagnie in luogo di quelle che sono perite per infermità cagionate dalla pessima
qualità del pane...(ib.)
(Napoli, 15 luglio:) Si trovano ormai perfezionate le tre compagnie di soldati di nuova leva che
devono mandarsi in rinforzo de’ Presidîi di Toscana, in gran parte distrutti per la mala qualità
del pane e dell'aria (ib.)
Ma sulle effettive cause di quest'esiziale contagio ci dilungheremo presto. In quel tempo,
sempre a luglio, si spedirono da Napoli ancora fanteria, cavalleria e munizioni in Catalogna,
mentre un avviso da Milano del giorno 9 dello stesso mese informava che lettere da Madrid
segnalavano lo sbarco in Catalogna di 900 soldati italiani portativi dalle galere di Napoli e di
Sicilia, genti messe subito in marcia per Rosas.
Il 5 (agosto) nella darsena furono condotti sopra uno schifo (‘battello’) di galera tre schiavi
che avevano tentato la fuga. Furono frustati e poi riposti nella galera. (G)li tagliarono una
orecchia per ciascheduno per segnale, castigo solito darsi per tale tentativo.
Troppo digressivo sarebbe ora il diffondersi sulle punizioni corporali riservate a forzati e
schiavi di galera, ma, a proposito d’orecchie, ecco un altro avviso agostano:
Il 28 con la staffettiglia si seppe la morte del signor Gioseppe Giudice d'anni 27 di una
moschettata all'orecchia sotto Anbrun (Embrun) nel Delfinato, esercitando la carica di
commissario generale della cavalleria napolitana.
La predetta carica era stata inventata a suo tempo per la sola cavalleria napoletana di
stanza in Lombardia e infatti non si trova ripetuta in nessun altro esercito della monarchia di
Spagna; a Milano la predetta ferale notizia si era saputa due giorni prima che a Napoli; il
Giudice era stato commissario generale del detto trozo di cavalli corazze napoletani sin dal
1682 e quindi era stato elevato a quell'incarico a soli 17 anni.
Una tartana napoletana fu assalita dai barbareschi in quello stesso agosto, nel quale
anche avvenne nel porto di Napoli un episodio diplomaticamente increscioso e cioè il
seguente. Giovedì 7, trovandosi in darsena le due galere di Sardegna del cui arrivo abbiamo
già detto, il loro generale, lo spagnolo marchese di Alconzel, fece arrestare dai suoi e
incatenare al remo di uno dei detti suoi vascelli nientedimeno che il capitano di una galera
192
genovese che pure si trovava in sosta a Napoli e tanto perché questi non aveva voluto
consegnargli 22 remiganti spagnoli di buonavoglia e alcuni francesi che teneva ai remi della
sua galera. Bisogna a questo punto spiegare - senza per questo ingolfarci in una trattazione
dei vari tipi di remieri di galera - che i buonavoglia erano i galeotti che servivano alla voga
volontariamente e ricevevano per questo un regolare salario; quegli spagnoli erano molto
apprezzati nel Mediterraneo, perché, come anche i soldati di quella nazione, erano ubbidienti
e molto tolleranti delle fatiche e delle privazioni, e pertanto le galere genovesi di proprietà
pubblica, le quali all’inizio del 1701 risulteranno essere non più tre, come nel passato, bensì
sei, se ne servivano correntemente, cosa però mal digerita dalla Spagna, la quale
considerava tale servizio indegno di spagnoli e aveva talvolta ufficialmente richiesto a
Genova la consegna di tali remiganti. Per quanto riguarda invece i remieri francesi, si trattava
allora di nemici della Spagna e, poiché la Repubblica di Genova era in sostanza un
protettorato spagnolo, il di Alconzel si credeva in diritto d'ingiungerne a quel malcapitato
capitano la cessione. Quest'atto grave e arbitrario, essendo avvenuto nel porto di Napoli,
rischiava di guastare gli ottimi rapporti che il regno intratteneva con la signoria di Genova e
ciò in un momento particolarmente delicato della politica estera spagnola; pertanto il viceré
fece immediatamente liberare il capitano genovese e ordinò d'incarcerare il generale, il quale
per evitare l'arresto, si nascose, ma poi, trovato dopo qualche giorno, fu tradotto a Gaeta. Le
due galere sarde lasceranno Napoli venerdì 5 settembre, non si sa se con o senza il loro
generale.
Martedì 12 agosto lasciarono Napoli per Finale due tartane che, oltre a esser cariche di
polveri, portavano anche il capitano di cavalleria Antonio de Matta con i suoi soldati da
montare a Milano. In effetti la compagnia del de Matta pare che, invece che a Finale, sia poi
stata sbarcata a Genova, perché negli archivi milanesi c'è una liberanza (dallo spag. libranza,
ordine scritto di pagamento) del 26 novembre successivo che liquidava il pagamento delle
spese di trasferimento di quel reparto da Genova a Milano.
Mercoledì primo ottobre si fece una prova d'artiglieria in un posto diverso dai soliti
Bagnuli, cioè sul baluardo di S. Lucia a Mare, cosiddetto perché vicino alla chiesa omonima.
Si provarono bombe lanciate con un nuovo tipo di mortaro di bronzo (fatto all'uso francese
con la camera sotto); furono fatti i consueti tre tiri di prova sparando dalla parte di S. Giovanni
a Teduccio e si arrivò a circa tre miglia in mare, cioè sorprendentemente alla stessa lontana
distanza che si raggiungeva con la colubrina che si stava confrontando al detto mortaro.
Evidentemente l'importante evoluzione rappresentata da questi mortari incamerati alla
francese e il grande effetto distruttivo che proprio in quegli anni i transalpini ottenevano con i
loro bombardamenti delle città nemiche avevano molto impressionato gli spagnoli e quindi gli
esperimenti d'artiglieria e i tentativi di mettersi al passo con il progresso balistico del nemico
si susseguivano; ma, giacché si è più volte accennato all'artiglieria del tempo, riteniamo ora a
proposito abbandonane per un po’ le nostre cronache per delinearne in breve le principali
caratteristiche, limitandoci però alla classificazione delle varie bocche da fuoco e consigliando
al lettore che a tale argomento non fosse interessato di saltarlo senz’altro a pie’ pari.
Nella seconda metà del Seicento, in Spagna e nei suoi domini l’artiglieria era rimasta
alquanto indietro rispetto all’evoluzione avuta sia da quella del nemico francese sia da quella
dell’alleato Impero; questa arretratezza ricordava quella che già si era sofferta alla fine del
Quindicesimo secolo, quando ci si era trovati di fronte a Carlo VIII di Francia e alla sua
innovativa artiglieria ferriera trainata da leggeri e veloci carri equini e ricordava anche il molto
lento adeguamento più tardi, nella seconda metà del Sedicesimo, alla complessa moderna
dottrina balistica elaborata dai maestri fonditori tedeschi verso la fine del Rinascimento; difatti
l’indole iberica, ricca di stupende qualità virili, si era però sempre storicamente dimostrata
193
poco incline all’elaborazione tecnica e quella fortunata innovazione fatta dal duca d’Alba
nell’arte della guerra nel 1567, cioè l’armare la fanteria spagnola anche del rinomato
moschetto di MiIano, più tardi detto moschetto di Biscaglia perché presosi a fabbricare su
larga scala soprattutto in quella regione appunto per soddisfare la grande richiesta fattane
dell’esercito spagnolo, era stata un’innovazione certo molto tattica, ma tutto sommato poco
tecnica, perché detto moschetto milanese non era altro che la versione portatile di quello più
antico da posta, piccolo pezzo d’artiglieria molto in uso sia nella difesa di piazze e forti sia
nella guerra marittima.
Dunque nell’artiglieria italo-ispanica le bocche da fuoco, quasi tutte di metallo (‘bronzo’)
e poche di ferro, si suddividevano tuttora sostanzialmente nei generi e tipi introdotti dalla
suddetta cinquecentesca, cioè colubrine, cannoni ferrieri e cannoni petrieri, sebbene con una
varietà di calibri minore e più uniformata di quanto lo fossero stati sino a tutta la Guerra di
Devoluzione. Esse erano pertanto così classificate:
Primo genere o colubrine.
Calibro della palla in libbre
Colubrina propriamente detta
da 12 a 25 (spesso di 24)
Moiana
da 8 a 12
Mezza colubrina
da 6 a 12
Mezza colubrina bastarda
da 7 a 12
Sagro (o quarto di colubrina)
da 4 a 6
Falcone(tto) (o mezzo sagro od ottavo di colubrina) da 1 a 4
Smeriglio
da 0,50 a 1
Secondo genere o cannoni ferrieri.
Cannone propriamente detto
Mezzo cannone
Terzo di cannone
Quarto di cannone colubrinato
Ottavo di cannone (raro)
Doppio cannone (obsoleto)
oltre 25 (ma comune di 40)
da 16 a 25
da 10 a 13
da 7 a 10
circa 6
oltre 40 e fino a 100
Terzo genere o cannoni petrieri.
Cannone petriero intero
da 19 a 40
Mezzo cannone petriero
da 10 a 19
Quarto di cannone petriero
da 3 a 10
Doppio cannone petriero (obsoleto) da 40 a 100.
I pezzi più potenti erano quelli del primo genere, ossia le colubrine; queste erano, di
regola, lunghe 32 diametri dei loro calibri, cioè delle loro rispettive bocche, e avevano
spessore di metallo tanto rilevante da consentire le maggiori cariche di polvere, cioè
generalmente ne sopportavano una quantità pari al peso della loro palla di ferro, e quindi
offrivano potenza e lunga gittata; anzi, in questi pezzi detto spessore non andava
assottigliandosi gradatamente andandosi dalla culatta alla bocca, come invece nei pezzi degli
altri due generi, ma al centro della canna, per conferire maggior resistenza, si faceva
maggiore, conferendo quindi al pezzo una forma affusata; avevano però lo svantaggio di
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essere, sia per il loro gran peso che per la loro notevole lunghezza, di faticosa messa in
batteria e di costoso trasporto, bisognando di un tiro di gran numero di buoi e affondando le
ruote dei loro affusti, naturalmente di più di quelle degli altri pezzi, nel fango e nel molle
terreno della campagna, specie se coltivata; pertanto, come pezzi da campagna, si usavano
solo gli ultimi tre tipi più piccoli, i quali anzi erano considerati tali per antonomasia, e con cui
si sparavano palle di ferro non maggiori delle 10 o 12 libbre, se non talvolta, nei più piccoli,
palle di piombo. La moiana era una bocca da fuoco ideata per uso di marina, specie per
armarne le galere e le tartane per la guerra di corso, ed era dello stesso calibro e degli stessi
spessori della mezza colubrina, ma in considerazione del limitato spazio disponibile a bordo,
specie di quello angustissimo delle galere, era l’unico pezzo di questo primo genere a essere
più corto di canna, misurando infatti la loro solo 26 bocche, caratteristica che serviva a
renderne più agevole la carica e perché nel rinculare non andasse a urtare negli alberi o
nell’altre opere morte dei vascelli; benché facesse tiro più corto di quello della mezza
colubrina o di quello del sagro, ciò nondimeno nelle battaglie navali era un pezzo di
grand’effetto. Non è questo pezzo assolutamente da confondersi con la moyenne francese
della stessa epoca, una bocca da fuoco da 24 libbre di calibro, il cui nome però fu
probabilmente ripreso da quello appena descritto.
Moiana a parte, per quanto riguarda la lunghezza di canna, le colubrine o pezzi di
questo primo genere si chiamavano ordinarie se rispettavano il canone delle 32 bocche o
comunque non se ne discostavano molto (30-33 bocche), bastarde, se invece erano
sensibilmente più corte di tale misura, e estraordinarie se parecchio più lunghe. Le mezze
colubrine si facevano generalmente una bocca più lunghe delle colubrine. Quanto allo
spessore di metallo, la regola voleva che fosse un calibro o diametro di bocca al focone, 7/8
nel mezzo e 4/8 alla bocca, e queste si chiamavano colubrine comuni moderne, ma quelle
usate nel secolo precedente, dette colubrine sottili antiche, presentavano, quando ancora
esistenti, spessori minori (7/8, 6/8, 4/8); se invece tali spessori erano sensibilmente maggiori
al focone (9/8, 7/8, 3/8), allora si dicevano colubrine moderne rinforzate.
I suddetti ultimi tre tipi più piccoli, quelli da campagna, si facevano sempre rinforzati e
più piccoli erano e più si fondevano rinforzati perché resistessero meglio al tormento della
polvere pirica nell’uso molto frequente che se ne faceva.
Appartenenti a questo primo genere erano poi dei piccoli pezzi che usavano i veneziani,
cioè il moschetto da gioco (‘da esercitazione’), pezzo simile allo smeriglio, da una libbra di
calibro e alquanto corto (28/30 bocche), usato appunto nell’addestramento dei bombardieri, il
saltamartino, pezzo da 4 libbre, molto corto di canna (15 bocche) e così chiamato perché,
essendo fissato su un cavalletto girevole, si poteva girare appunto da qua e da là ricordando
l’irrequietezza dell’omonimo insetto; quest’ultimo, era usatissimo dai veneziani, specie sulle
murate dei vascelli, perché le artiglierie, per caricarlo, non doveva ritirarlo in coperta, ma
bastava appunto che lo girasse verso di sé. C’è da dire che le galere veneziane in questo si
distinguevano da quelle delle altre nazioni perché, oltre a portare la solita grossa artiglieria a
prua, erano zeppe di spingarderia, ossia appunto di varia artiglieria minuta da cavalletto o
forcella girevole, fissata sulle fiancate, a poppa, alla stessa prua e talvolta addirittura in
corsia; il che, certo utile e comodo negli abbordaggi (ma pericoloso quando era il nemico ad
abbordare), risultava invece d’aggravio nella navigazione e d’impaccio nelle manovre. Anche
Genova ci volle provare una volta, come si legge in un’informativa del Cornioni, residente
veneziano in quella città, datata 22 maggio 1701:
… È stata varata ad Arenzano e rimorchiata in questo porto una galea governativa della
portata di cinquanta cannoni; sarà montata da uno dei capitani Viviani (Moscati, Rel. )
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Evidentemente il Cornioni era un diplomatico che non s’intendeva di artiglieria,
trattandosi infatti anche qui non di veri e propri ‘cannoni’ ma della sudetta spingarderia.
Le gittate che mediamente si raggiungevano con i suddetti pezzi del primo genere
erano, in metri odierni, all’incirca le seguenti:
Colubrina da 50
Colubrina da 30
Mezza colubrina da 14
Sagro da 10
Falcone da 6
Falconetto da 3
Smeriglio
Tiro orizzontale
Tiro a elevazione massima.
2.250
2.100
1.200
950
600
500
310
9.200
8.700
6.600
6.100
4.850,
2.800
1.050
I calibri sopraindicati erano quelli ora comunemente più usati, ma si potevano trovare
pezzi di questo primo genere di maggior calibro, tra cui i più evidenti, ma ormai obsoleti,
erano quelli detti doppie colubrine od anche dragoni, dal calibro che andava dalle 40 alle 60
libbre, dalla lunghezza canonica di circa 30 bocche e non di 32, ma che erano ormai usati
solo dai turchi, i quali nell’artiglieria amavano il gigantismo secondo la falsa eguaglianza: più
grande = più potente. Non più usati erano anche altri pezzi del primo genere, cinquecenteschi
o addirittura medievali, e cioè quello detto passa volante o zebratana (‘cerbottana’), dalla
canna molto lunga e sottile e dal calibro che andava dalle otto alle nove libbre di palla di ferro;
l’aspide, dallo stesso calibro del precedente, ma povero di metallo e lungo circa un terzo di
meno del canone previsto per gli altri pezzi del suo genere; il ribadocchino, un pezzo fatto non
di metallo, bensì di ferro, dal calibro di palla che andava dall’1 libbra all’una e mezza, da non
confondersi però con un pezzo ‘moderno’ dallo stesso calibro che si usava in Fiandra, ma di
bronzo e dalla canna particolarmente lunga.
Per la formazione delle batterie alle troppo pesanti e lunghe colubrine si preferivano
quindi universalmente i più leggeri, corti e quindi maneggevoli cannoni o pezzi del secondo
genere, ogni tipo di cui, a differenza delle colubrine, aveva una sua particolare proporzione di
lunghezza, variando il genere nel suo complesso da una misura minima di 17 diametri di
bocca a una massima di 26. Infatti il cannone era lungo 18 diametri della sua bocca, il mezzo
cannone da 18 a 20, il terzo cannone da 20 a 24, il quarto cannone da 24 a 26 e l'ottavo 27
diametri; insomma, mentre nelle colubrine la lunghezza del pezzo era direttamente
proporzionale al suo calibro, nei cannoni invece minore era il calibro maggiore era la
lunghezza del pezzo, la quale non scaturiva da un calcolo proporzionale, bensì da uno
tabellario.
I cannoni, avendo medi spessori di metallo, permettevano buone cariche di polvere,
generalmente 2/3 del peso della loro palla di ferro, con conseguente buona potenza per le
batterie d’assedio, e d'altra parte, non essendo eccessivamente lunghi né pesanti, risultavano
sufficientemente maneggevoli e trasportabili; infatti, prendendo per esempio la predetta
guerra di Messina, sappiamo che il parco d'artiglieria degli assedianti era costituito da 120
cannoni da batteria del calibro di 24 libbre spagnole e da 50 cannoni da campagna che
andavano dalle 10 alle 16 libbre; c'erano poi 30 mortari da bombe e sei da pietre. Anche per
questo secondo genere i calibri che abbiamo sopraindicato erano ora i più comuni, ma se ne
potevano trovare di maggiori; non più usato era comunque il doppio cannone, pezzo
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pesantissimo, non perché esorbitante dai suddetti canoni di spessore, ma perché era di
calibro tra le 70 e le 120 libbre di palla e in aggiunta aveva la canna un paio di bocche più
lunga di quella del cannone ordinario. I soli turchi ancora usavano questi colossi e in
particolare il basilisco, la bocca da fuoco più grossa allora esistente e il cui calibro, in genere
tra i 120 e i 130, poteva però anche arrivare alle 200 libbre di palla. Il Moretti ci ha lasciato le
misure di questo gigantesco pezzo ottomano, grande all’incirca quanto i cannoni navali delle
moderne corazzate; esso era dunque lungo dalle 24 alle 30 bocche e spesso al focone una
bocca e, alla metà della canna una bocca e al collo, ossia immediatamente prima della gioia
(’cornice’) della bocca, ½ bocca; il principe Eugenio di Savoia nel 1717, quando prenderà
Belgrado, s’impadronirà tra l’altro del più grosso cannone turco allora mai visto e cioè uno di
110 libbre di calibro e 52 di carica di polvere. Poiché però nell’impero ottomano i cavalli da
tiro erano rari, si trainavano le artiglierie ancora lentamente con i buoi, come in occidente si
era fatto sino al secolo precedente, e di conseguenza i turchi, a meno che non si
prefiggessero qualche importante assedio, cercavano di portare in campagna pezzi di gran
calibro il meno possibile, vedendosi quindi in genere nelle loro armate solo pezzi che
andavano dalle 8 alle 12 libbre di palla; anzi avevano preso l’abitudine che, in caso d’assedi,
portavano sul luogo a dorso di cammello tutti i materiali e le attrezzature per fabbricare le
grosse artiglierie, cioè metalli, ruote, pezzi di casse ecc. I mastri fonditori si sistemavano nei
villaggi vicini al loro accampamento e fondevano magnificamente ottime bocche da fuoco,
anche di grosso calibro, riccamente adornate di motivi di foglie e frutti in bassorilievo; che poi
i turchi non fossero per nulla abili in quelle opere che volevano razionalità matematica, come
per esempio la costruzione delle piattaforme per le batterie d’assedio o lo stesso puntamento
dei pezzi, questo era risaputo ed è per questo motivo che si servivano molto di artiglieri
mercenari stranieri, pagandoli benissimo e contentandone quanto più possibile le pretese;
diffidando però dei cristiani, li sorvegliavano però anche molto e cercavano, con blandizie e
promesse, d’indurli a farsi mussulmani.
In seguito i turchi continueranno a usare le suddette gigantesche bocche da fuoco, ma
solo come armi da fortezza, e si serviranno di grossi cannoni a palla di pietra nelle fortezze
marittime ancora al tempo del de la Chesnaye des Bois, cioè nel 1744; invece negli stati
cristiani solo qualche grossissimo pezzo sarà lasciato in esposizione da qualche parte come
simbolo della potenza della sovranità, come per esempio quello che il Manesson Mallet, il
quale era stato ingegnere militare e sargente maggiore d’artiglieria in Portogallo negli anni
Sessanta del Seicento, ricorderà d’aver visto a Lisbona :
Il pezzo più lungo tra tutti quelli che ho visto è uno che sta nel castello di S. Giovanni della
Barra di Lisbona, il quale era lungo 22 piedi geometrici, tirava palle di 90 o 100 libbre di ferro
con 60 libbre di polvere. Dal saggio che ne fece fare il re Don Sebastiano ad Alcántara si trovò
che raggiungeva ‘di punto in bianco’ (‘en mire commune’) 1.600 passi. (op. cit.)
Quindi questa enorme bocca da fuoco era lunga più di sette metri ed ½ e con tiro
parallelo al terreno superava i due chilometri e ¾. Per quanto riguarda gli spessori del
metallo, anche per i cannoni valeva la generale distinzione in moderni comuni, moderni
rinforzati e sottili antichi, a seconda degli spessori che presentavano; i primi si dividevano in
seguenti, cioè con l’anima (‘il vuoto della canna’) del tutto cilindrica dalla culatta alla bocca
(7/8, 5/8, 3/8), e incamerati, vale a dire con la prima porzione posteriore dell’anima, la camera
della polvere, molto più stretta in considerazione che colà il bronzo che circondava detta
camera era molto più doppio; infatti questa camera, lunga quattro bocche, tre per contenervi
la polvere e una per il boccone (‘stoppaglio’) di fieno, era larga solo 5/6 di bocca, mentre per il
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rimanente la canna aveva gli stessi spessori dei suddetti pezzi seguenti. I cannoni moderni
rinforzati, non avendo bisogno di ulteriori rinforzi, erano tutti seguenti e i loro spessori 8/8, 5 o
6/8, 3/8, ma si usava molto fondere mezzi e quarti cannoni di questa categoria addirittura dello
spessore delle colubrine e anche più lunghi (il mezzo 22/24 bocche e il quarto 26/28), in modo
da potersene servire al posto di quelle, anche se, rimanendo pezzi generalmente alquanto più
corti, non ne raggiungevano la stessa lunghezza di tiro; infine i sottili antichi potevano essere
seguenti (6/8, 5/8, 3/8) od incampanati, cioè con gli stessi valori di spessore predetti, ma con
in più un alloggiamento per polvere e fieno nella culatta lungo quattro bocche e a forma
appunto di campana aperta verso la bocca, la cui larghezza era all’inizio davanti naturalmente
una bocca( 3/3), alla metà 5/6 e alla fine indietro, insomma al focone, 2/3 di bocca, insomma
erano questi pezzi una via di mezzo tra gli incamerati e i seguenti. È qui interessante notare
che gli spessori del bronzo erano quindi misurati in ottavi di bocca, invece i vacui dell’anima
in sesti o terzi di bocca.
Alcuni chiamavano rinforzati anche i suddetti cannoni incamerati od incampanati,
essendo infatti camera e campana non altro che dei rinforzi della sola culatta.
C'erano poi pezzi di questo secondo genere che presentavano caratteristiche di spessore
di metallo o di lunghezza della canna o eccezionali od intermedie tra quelle proprie del primo
genere e quelle proprie invece del secondo ed erano detti via via appunto rinforzati se di
spessore di metallo maggiore appunto del regolare, colubrinati od anche estraordinarij, se di canna
più lunga dell’ordinario, e infine bastardi se al contrario di canna più corta del normale; cannoni molto
più corti, ossia di non più di 15 bocche, si chiamavano, a seconda delle tradizioni locali, rebuffi,
crepanti o verrati. Alcuni chiamavano invece bastardi i cannoni più lunghi dell’ordinario,
contribuendo così a rendere ancora più difficile questa già abbastanza complessa e
approssimativa classificazione; in sostanza si può dire che si chiamavano generalmente bastarde
tutte quelle bocche da fuoco che presentassero rimarchevoli ed importanti sproporzioni rispetto ai
canoni del tipo e del genere d’artiglieria a cui appartenevano.
Per quanto riguarda le gittate, quella dei cannoni da batteria era generalmente un terzo
di meno di quella delle colubrine di calibro uguale, mentre i mezzi e i quarti cannoni, se
accolubrinati, l’avevano di poco inferiore a quella delle colubrine di uguale calibro. Questi
pezzi del secondo genere tiravano esclusivamente palle di ferro, ma in marina si usavano
anche palle arroventate per procurare incendi e, specie per tranciare alberi, cordami e vele,
anche le palle inramate, ossia due palle unite da un ramo (‘barra’) di ferro di cinque o sei
pollici di lunghezza, e le palle incatenate, cioè due mezze palle unite insieme da un ramale
(‘pezzo’) di catena; molto usate erano anche due mezze palle incatenate oppure unite al
centro da una barra di ferro, dette queste angioli, dagli artiglieri spagnoli; all’inizio di giugno
del 1686, comprate da quel Magistrato di Guerra, ne arrivarono a Genova 2mila portate da
una nave olandese, ma risultarono troppo grosse per qualsiasi cannone in servizio per quella
repubblica e pertanto si decise di fonderle per riciclarne il ferro. Lo stesso nome di angioli fu
poi dato anche a certi proiettili d’assedio, verosimilmente esplosivi ed incendiari, di cui si
sentirà la prima volta a proposito del suddetto assedio di Buda del 1686.
I cannoni petrieri od artiglieria del terzo genere, nel Rinascimento chiamati anche
cortaldi, erano così detti perché, a differenza dei pezzi dei primi due generi che sparavano
palle di ferro e quindi erano detti ferrieri, servivano a lanciare sul nemico o grandi palle di
pietra (allora però già da lungo tempo in quasi totale disuso) o mitraglia di vario genere, per
esempio scuffie (‘cuffie, sacchetti’) di sassi o di pezzi di catene, o grandi proiettili composti,
come sacchetti, tonelletti, lanterne, formati cioè di misture esplosive od incendiarie per lo più
frammiste a mitraglia; mai però il peso di un qualsiasi proiettile poteva superare quello del
calibro in palla di pietra che aveva il pezzo da utilizzarsi. Poiché dovevano dunque tirare a
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brevi distanze proiettili che, anche se di dimensioni maggiori, erano di un peso specifico
ovviamente più basso di quello delle semplici palle di ferro, pur essendo molto larghi di bocca
si accontentavano di piccole cariche di polvere, generalmente da 1/3 a ½ dl peso della loro
palla di pietra, e di conseguenza i loro spessori di metallo erano piuttosto sottili, ma non alla
culatta, dove invece, essendo quasi tutti pezzi incamerati, lo spessore era molto maggiore di
quello dei cannoni e delle colubrine, i quali erano invece pezzi seguenti. Quelli molto vecchi
erano spessi 1/3 (spessore della camera esclusa), ¼ e 1/6, mentre la loro camera era larga
2/3 di calibro e lunga uno e ½; invece i moderni erano spessi, dal focone alla bocca, ¼
(spessore della camera esclusa), ¼ ed 1/6 del loro calibro, mentre la loro camera era larga ½
del calibro e lunga due, ma se ne fondevano anche alcuni con la camera larga 3/5 del calibro
e lunga tre volte la detta larghezza; infine, si facevano pure dei petrieri seguenti e questi
erano generalmente lunghi calibri 12 e presentavano i seguenti spessori: ½ al focone, 3/8 alla
metà ed ¼ al collo. La lunghezza totale della loro canna andava da otto a nove diametri della
loro bocca (ma taluni da 10 a 12) - quindi in maniera proporzionale, come le colubrine - e in
effetti alla fine del secolo decimo settimo si fondevano comunemente solo nei calibri fissi di 3,
5, 6, 10 e 24 libbre di palla di pietra. Questi cannoni erano molto usati in marina dove,
essendo i bersagli di legno, le grosse palle di pietra procuravano sui vascelli nemici molto più
conquasso delle semplici perforazioni procurate generalmente sullo scafo dalle piccole e
velocissime palle di ferro, dove la mitraglia faceva strage degli equipaggi e dove i grossi
proiettili composti appiccavano vasti e inestinguibili incendi e bruciavano vive le disgraziate
ciurme incatenate delle galere. Inoltre questi petrieri, a ragione della cortezza della loro
canna, del poco rinculo che provocavano la loro piccola carica di polvere, della loro relativa
leggerezza e quindi, in una parola, della loro gran maneggevolezza, erano adattissime alle
strettoie e ai piccoli spazi in cui erano costretti a maneggiarli gli artiglieri di bordo; per motivi
simili essi erano anche consigliabili per armare i fianchi e le traverse dei baluardi delle
fortezze e quind’anche per un uso terrestre. La gittata dei cannoni petrieri, caricati che fossero
con involucri di fuochi artificiati o con mitraglia, avanzavano di poco il tiro del moschetto.
Per aumentare poi la già maggior maneggevolezza di questi pezzi in luoghi angusti,
quindi torri, campanili, piccoli baluardi e vascelli, specie le strette galere, si erano usati in
guerra sino a un recentissimo passato petriere a braga e mascolo, cioè a retrocarica, e
generalmente di ferro perché fossero più leggeri, maneggevoli e anche meno costosi; si
trattava di cannoncini petrieri, dal calibro che andava da due a un massimo di 14 libbre di
pietra, montati su cavalletti girevoli a forchiglia, quindi senza rinculo, e con la particolarità di
avere la culatta apribile per l’inserimento posteriore sia del proiettile sia di un cilindretto
(mascolo) contenente la carica di polvere.
Di questi pezzi, ora però solo caricati a mitraglia, ancora andavano armati i mercantili
per difendersi dalle piccole barche a remi dei pirati quando queste all’improvviso lasciavano la
vicina costa e venivano all’abbordaggio; dovevano però essere pezzi di breve vita, visto che il
ferro, esposto alla salsedine, rapidamente s’arrugginiva e che, ‘tormentato’ da cariche di
polvere ora più potente, rischiava più facilmente e più pericolosamente del bronzo di
surriscaldarsi e creparsi.
Gli ultimi pezzi di questo tipo, però di bronzo, il Manesson ricordava infatti di averli visti
usati con successo dai portoghesi che, comandati dal maresciallo conte di Schomberg, il 17
giugno 1665 difesero Montes Claros di Villa Viciosa in Estremadura dagli assalti degli
spagnoli del marchese di Caracena:
Ho visto una quantità di questi petrieri di bronzo sulle muraglie del castello di Villa Viciosa, i
quali servivano meravigliosamente ai portoghesi a tirare maglie di catene, chiodi, ciottoli e tutte
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le altre cose di tale natura contro gli spagnoli che stavano ai piedi delle muraglie quando
assediavano la piazza, che poi non presero mai. (op. cit.)
Trattandosi comunque di bocche da fuoco ormai in guerra sostanzialmente in disuso sia
a causa sia della complessità e lentezza di caricamento sia a ragione della lor intrinseca
pericolosità per i loro stessi artiglieri, non ne descriveremo qui il complicato funzionamento,
cosa che del resto abbiamo invece fatto in un’altra nostra opera che tratta appunto dell’arte
della guerra nel secolo precedente a quello oggetto di questo studio.
La suddetta tipologia di bocche da fuoco, sebbene, come abbiamo detto, già alquanto
semplificata rispetto a quella del secolo precedente, restava però sempre più complessa di
quella dell’artiglieria, più standardizzata e moderna, che invece usavano i francesi, i principali
stati tedeschi e gli imperiali e che si usava, per esempio, nei conflitti che si combattevano
contro l’espansione ottomana nell’Europa centro-orientale, dove si vedevano infatti le bocche
da fuoco suddivise in due soli generi, a seconda della conformazione dell’anima della loro
canna; così infatti il suddetto Montecuccoli descriveva quelle adoperate ai suoi tempi nelle
guerre contro i turchi nell’Europa orientale e certo allora pochi s’intendevano più di lui
d’artiglieria e di tutta la materia bellica in genere:
Peso della palla di ferro in libbre. Lunghezza in calibri. Peso in quintali.
Pezzi seguenti.
Colubrina intiera
Mezza colubrina
Quarto di colubrina
Falconetti
Cannone intiero
Mezzo-cannone
Ottavo di cannone o falcone
16
8
4
2
48
12
6
32
33
34
35
18
24
26
56.
33.
20.
11.
72.
27.
21.
Questi pezzi pesanti servivano nelle batterie e nelle contrabatterie delle guerre
d’assedio e si caricavano ordinariamente con una quantità di polvere pari al peso della
palla oppure pari a 2/3 del peso della palla quando si volevano aprire delle brecce nelle
mura nemiche; esistevano anche i doppi cannoni, pezzi dal metallo ancora più spesso da
usarsi naturalmente anch’essi nella guerra d’assedio. Le colubrine servivano a tirare
lontano.
Pezzi incamerati o incampanati.
Mezzo cannone leggiero
24
Quarto cannone leggiero
12
Ottavo cannone leggiero
6
Mezzi ottavi (‘pezzetti’) da reggimento 3
12.
14.
16.
18.
I suddetti pezzi leggeri o da campagna, categoria di cannoni nata ai tempi della Guerra
dei Trent’anni, erano pezzi dal metallo più sottile per facilitarne il trasporto, ma non così
sottile da renderli simili ai cannoni petrieri; insomma erano un ritorno ai cannoni più leggeri
del Rinascimento, ma, perché non si fosse costretti a dover ritornare anche alla più debole
200
polvere pirica per essi si era usata in quei ormai lontani tempi, avevano di conseguenza le
sole culatte rinforzate per mezzo di camera o di campana. Erano dunque questi cannoni che
si adoperavano nelle battaglie campali o per l’offesa di piccoli posti fortificati sia perché erano
di più agevole trasporto sia perché dovevano solo colpire bersagli deboli e a distanza
ravvicinata, perlopiù uomini e cavalli o al limite fortini e ponti di legno, campanili od altre
deboli costruzioni civili; si dava loro una carica di polvere equivalente generalmente a un
terzo del peso della palla, specie se adoperati per sparare patrone o cartocci, ossia involucri
di mitraglia di cuoio o di carta reale (‘carta forte’), o talvolta anche alla metà, in caso di palla di
ferro; ma infine solo a un terzo della metà, se adoperati per sparare solo una granata reale,
ossia una granata grossa non da mano. Con pezzi molto piccoli, come i suddetti pezzetti da
tre di palla di ferro, essendo essi sempre rinforzati, si potevano sparare, volendo, anche palle
di piombo, aumentando però di quasi il 50% il peso della carica di polvere che si sarebbe
data con quella di ferro.
C’erano poi anche in queste guerre i suddetti cannoni petrieri, pezzi dunque anch’essi
generalmente incamerati, lunghi solo dalle quattro alle otto palle, ora però generalmente più
piccoli di quelli che si erano adoperati nel passato e che tiravano quindi palle di pietra che
andavano solo dalle 12 alle 48 libbre, ma erano queste proiettili utili solo nella guerra navale
e pertanto con essi si lanciavano invece preferibilmente palle roventi, bombe (‘dette anche
granate reali’), palle di materie illuminanti per scorgere le attività notturne del nemico, ma
soprattutto si tiravano agglomerati di mitraglia e di materie incendiarie di vario tipo detti (palle
di fuoco), a seconda dell’involucro e del contenuto, tonelletti, (is)cartocci, scuffie, lanterne,
sacchetti ecc. In ogni caso però il peso del proiettile, di qualsiasi dei suddetti tipi fosse stato,
non doveva eccedere quello della palla di pietra che avrebbe dovuto sparare.
Di questo secondo genere di artiglieria (terzo, nel caso della precedente classificazione)
facevano parte anche i mortari (‘mortai’), cioè dei pezzi cortissimi con l’anima incampanata.
Essi sparavano a tiro d'arcata e non più tanto semplicemente palle di pietra grosse dalle 50
sino alle 500 libbre, a seconda della loro grandezza, per rovinare le istallazioni militari e le
case delle città assediate o palle di ferro infocato per appiccare incendi, come avevano fatto i
loro antenati trabucchi, bensì gruppi di sassi, bombe o granate reali e fuochi artificiali, ossia
involucri di materiali incendiari di vario genere e altri esplosivi. Quelli fatti per tirar bombe
erano più corti degli altri, in modo da agevolare il bombardiero nell’accensione delle spolette,
ossia avevano la canna lunga due calibri ed ¼, la camera lunga ¾ e larga ½; erano spessi,
spessore della camera escluso, ¼, ¼ ed 1/6; gli altri erano invece più lunghi tre calibri ed ½,
affinché i proiettili arrivassero più lontano con un’arcata più ampia:
… e di questi se ne vedono in Germania di calibre libre 500 chiamati ‘Galasi’, poi che lui fu il
primo generale a praticarli per tempestare di sassi (Moretti).
Il suddetto revival delle sassaiole a tiro d’arcata è confermato anche da un avviso dell’8
luglio 1704 inviato da Casale, disgraziata piazzaforte che a ogni guerra non faceva altro che
passare da un assedio all’altro, da un’occupazione all’altra, e che allora era assediata dai
gallispani del duca di Vendôme:
… e, perché il governadore della piazza fa caricar’i mortaj con sassi in vece (a guisa’) di
bombarde, ha il duca di Vandome preso ancora a far l’istesso per pagarlo del medesimo
denaro…
Il Montecuccoli riteneva sufficiente averne nel treno d’artiglieria dell’esercito un paio piccoli
201
da 100 libbre, aumentabili però a sei nel caso si dovessero formare batterie d’assedio. Poi,
nell’ultimo quarto del secolo, essendone stati inventati tipi non grandi, ma molto più potenti,
i quali lanciavano con maggior arcata - e quindi a maggior distanza - proiettili fino a 130 libbre di
calibro, queste armi erano divenute molto più esiziali; i francesi soprattutto, come abbiamo già
ricordato, avevano raggiunto con i mortari una particolare potenza distruttiva e ben lo sapevano
città come Genova, Lussemburgo, Bruxelles, Mons e altre che avevano dovuto sopportare
i loro spaventosi bombardamenti a base di bombe, carcasse e palle incandescenti.
A proposito di questi proiettili che si lanciavano con i mortari, diremo che le bombe o granate
reali erano grosse palle cave di ferro, piene di polvere esplosiva e mitraglia minuta, e differivano
dalle granate da mano solo per esser di queste più grandi; ma i proiettili senza dubbio ora più
efficaci erano le micidiali carcasse, vale a dire palloni compositi fatti di distruttive misture di materiali
o elementi esplodenti, quali appunto granate reali o granate da mano, materiali incendiari e mitraglia,
le quali avevano in effetti nell'artiglieria preso il posto di vecchi e molto meno efficaci proiettili similari
detti tonelletti e lanterne.
In materia invece di granate da mano, il Montecuccoli ricordava che durante l’assalto svedese
di Copenhagen del 1658 il re di Svezia Carlo X, uomo di ottima preparazione e pratica militare,
aveva fatto usare una sua invenzione, cioè le faceva lanciare col moschetto, attaccate all'estremità
di una bacchetta infilata nella canna; tra Seicento e Settecento si useranno nella guerra
marittima, specie in quella mediterranea anche bottiglie di vetro incendiarie (fr. bosses), le quali
non sono quindi, come si crede, una molto più recente invenzione del russo Molotov.
Non era facile controllare il tiro ad arcata dei mortari e infatti così ne scriveva il Moretti,
però prima che i francesi, con inizio dai primi anni ottanta del secolo, ne presentassero di
molto migliori:
I tiri del mortaro vanno per lo più fallaci, or più lunghi or più curti del bisogno, e le bombe or
creppano in aria or doppo il colpo tardano l’effetto, che danno (pertanto) tempo al nemico di
ritirarsi overo di soffocarle…
A proposito dei suddetti più antichi trabocchi o trabucchi, diremo che essi si
distinguevano dai più moderni mortari principalmente perché, mentre questi avevano gli
orecchioni alla metà della canna, quelli l’avevano invece alla culatta, da cui il nome; infatti
spesso, sparando a qualche maggior elevazione, a causa di tale posizione degli orecchioni, si
rovesciavano all’indietro, da cui quindi, oltre a quello di ‘bombardare con trabucchi’ anche
questo nuovo significato di ‘rovesciarsi, abbattersi’ acquisito dal verbo pirobalistico
(s)trabuccare - poi (s)traboccare, il quale in origine, ossia nell’artiglieria medievale, aveva
invece avuto il solo evidente senso di ‘emettere un proiettile dalla bocca’ e poi anche di
lanciare un proiettile in generale.
Incampanati erano anche i petardi e gli organi, questi ultimi pezzi a più canne, talvolta a
braga e mascolo, ossia con il suddetto tipo di retrocarica molto usato nei due secoli
precedenti, erano montati anch’essi su una cassa a due ruote e si sparavano con una sola
miccia serpeggiante che li collegava.
In sostanza, le bocche da fuoco dovevano essere leggere in campagna e più pesanti e
potenti negli assedi, senza esagerare né in un senso né nell’altro, perché i pezzi troppo
pesanti costavano e consumavano molto, erano scomodi da maneggiarsi e lenti da trainarsi e,
sparandoli, rovinavano le stesse proprie istallazioni, cioè batterie, terrapieni, casse (‘affusti’),
piattaforme e cannoniere; d’altra parte quelli troppo leggeri facevano colpo debole,
rinculavano troppo, si riscaldavano eccessivamente falsando il tiro e talvolta persino
scoppiavano. I turchi, approfittando dell’esorbitante quantità della gente che costituiva i loro
202
eserciti, trainavano sempre in campagna anche pezzi molto pesanti e una quantità enorme di
bagagli privati degli ufficiali e dei funzionari, per cui poi i loro eserciti erano in genere costretti
a viaggiare più lentamente di quelli imperiali e a maneggiare più lentamente l’artiglieria in
battaglia; in compenso, non ostando la loro generale arretratezza nella preparazione e
nell’uso dei fuochi artificiali, le loro polveri piriche erano ottime perché composte sempre a
regola d’arte. Un altro settore in cui, a causa della loro mentalità poco razionale, essi
restavano molto arretrati e improduttivi era poi l’arte delle fortificazioni e infatti, quando ne
conquistavano del nemico, a meno che non si trattasse di quelle di città molto importanti e
significative, ne spianavano buona parte lasciando vaste aperture dappertutto e ciò sia
perché nella loro mentalità la guerra era soprattutto guerra campale sia perché le fortificazioni
volevano numerose guarnigioni di soldati a piedi, di cui loro, giannizzeri a parte, non
disponevano perché, come abbiamo già detto, intendevano il soldato soprattutto come uomo
a cavallo; cionondimeno i giannizzeri erano ottimi nella difesa delle piazze perché
generalmente abilissimi bersaglieri. Un altro pregio dei turchi era invece la gran abbondanza
di vettovaglie a disposizione dell’esercito, dovuta sia all’ottima e meticolosa preparazione
delle riserve di cibo sia alle indiscusse contribuzioni di tutti i villaggi sudditi che l’esercito
incontrava, buona volontà dovuta non solo alla paura delle immediate ritorsioni ma anche
molto al vedersi sempre tutto subito pagato in contanti, non essendo mai la Gran Porta a corto
di denaro, correttezza invece questa, con qualche eccezione per quelli francesi,
generalmente sconosciuta agli eserciti cristiani, a cui paghe e forniture di viveri erano spesso
lesinate e sempre sporadiche e che di conseguenza in tempo di guerra erano costretti
perlopiù a confiscare quando non anche a rapinare; le cose poi peggioravano ulteriormente e
drasticamente quando gli eserciti avevano a che fare con popolazioni nemiche, perché in tal
caso si provocava addirittura la fuga generale dei contadini e uno stato di desolazione e
depauperazione delle campagne che poi durava per diversi anni anche dopo la fine della
guerra; gli ottomani in questo caso, avendo con loro appunto sempre tante provviste, non
avevano generalmente bisogno di depredare le campagne del nemico e quindi addirittura le
bruciavano e ne distruggevano villaggi e poderi per impedire ai soldati cristiani di trovare
cibo. Si aggiunga la grande parsimonia dei soldati turchi nel mangiare e nel bere e nel vestire;
nei loro eserciti, a similitudine di quelli degli antichi spartani, si mangiavano le cose più
semplici ed economiche e i giannizzeri, i quali costituivano il loro nerbo, erano abituati sin da
piccoli a fare un solo pasto al giorno al tramonto; innanzitutto si cercava di far provviste di riso
e non di farina perché quello non aveva bisogno né di forni né di macine come questa e non
si guastava presto come il pane, il quale per questo motivo aveva bisogno di essere
trasformato e conservato sotto forma di biscotto. Inoltre, come si sa, poiché la religione
vietava ai mussulmani di bere sia il vino che la birra, essi non dovevano di conseguenza
impegnare tanti traini di carri e animali per portarsene dietro grandi quantità come dovevano
fare invece i viziosi cristiani, i cui stomaci non erano allora abituati a ricevere acqua, anzi
ancora un paio di secoli fa, prima che cioè si cominciassero a diffondere in Europa più sobrie
e salutari abitudini americane, si pensava che berla facesse male e che andava fatto
eccezionalmente solo in mancanza delle suddette bevande alcoliche.
Anche i francesi, come gli imperiali, avevano abbandonato le complesse classificazioni
tradizionali dell’artiglieria e si limitavano ora a quella seguente:
Cannone da 48 libbre.
Bastardo da 36.
Mezzo-cannone o colubrina da 24.
Cannone leggero da 24
203
Moiana da 24.
Colubrina straordinaria da 16, lunga 15 piedi.
Falcone da 10.
Falconetto da 5.
Un cannone da 48 poteva tirare una decina di colpi l’ora e un’ottantina al giorno con una
carica teorica di 24 libbre di poudre commune o poco di più (teorica perché tale ‘polvere
comune’ ormai, come presto vedremo, non più si usava) e una gittata di punto in bianco, cioè
quella del tiro orizzontale, di sei o settecento passi, quindi all’incirca di mille/milleduecento
metri odierni, mentre con elevazione si potevano superare i milleduecento passi ; occorrevano
venti cavalli per trainarlo e una carretta tirata da quattro cavalli poteva portare 36 delle sue
palle; per il suo servizio servivano due canonniers (‘artiglieri’), tre chargeurs (‘caricatori’) e 30
pionniers (‘guastatori’). Comunque, i cannoni più trasportati erano quelli da 24 perché ora i più
usati per battere le piazze nemiche; anche con un pezzo da 24 si potevano tirare dieci colpi
l’ora, ma sospendendo per un’ora ogni tre di fuoco per lasciarlo riposare e per rinfrescarlo
adeguatamente.
Tantissime altre bocche da fuoco molto difformi dalle suddette sia in calibro sia in
spessore di metallo sia per maggior lunghezza di canna, quali per esempio il dragone, il
basilisco e la sirena, in Francia non si usavano più, come c’informa il Manesson Mallet nel suo
trattato del 1684, e quelli esistenti erano stati da tempo riciclati in fonderia su disposizione di
Luigi XVI per farne pezzi dalla lega più fine, ricca e moderna. La lega di bronzo
regolamentare ora in Francia era quella che voleva dalle 12 alle 15 libbre di stagno puro ogni
cento di rame puro; si usava in quel grande paese tradizionalmente misurare il peso del
bronzo non il libbre, bensì in marcs, ossia in mezze libbre.
Usavano poi i francesi una serie di pezzi leggeri da campagna e da difesa di
fortificazioni secondarie, agevoli da trasportare e da maneggiare:
Colubrina a 16.
Colubrina bastarda da 8, lunga10 piedi.
Bastarda leggera da 8.
Pezzo da reggimento da 4.
Petriero a braga da 3.
Per questi pezzi si usava una carica di polvere che andava dalla metà a due terzi del peso del
loro proiettile.
Francesi e svedesi avevano frattanto introdotto artiglierie navali di ghisa, materiale più duro
del bronzo e molto più resistente al surriscaldamento; ad esempio vedremo nel 1657, oltre alla
già ricordata fregata francese Le Chasseur, La Reine, vascello anch’esso francese, ma costruito
in Svezia, il quale sarà equipaggiato con 237 uomini ed armato con 30 cannoni appunto di ghisa e
2 di ferro. Ecco poi un interessante avviso di Foligno del 3 giugno 1692, il quale ci segnala uno dei
primi esempi di artiglieria da montagna:
Torino: In questi arsenali si fabricano cannoni in due pezzi di libre 15 di palla, quali con facilità
possono essere portati sopra le montagne da soli 4 muli.
Nel 1686 si sentì parlare a Napoli per la prima volta di haubitzen (oggi hauwitzer, ‘obici’)
e ciò a proposito del secondo assedio di Buda allora in corso; infatti il Filamondo, laddove
narra le imprese militari del napoletano Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle, il
204
quale a quell’assedio partecipò, così ne scriveva:
Irreparabili ruine scagliava su la città il celebre Antonio Gonzales spagnuolo da certi cannoni
che di proprio ingegno fabricò e chiamò ‘haubizzi’, le cui palle, dette ‘angeli’ – o più veramente
‘demonii’ – cagionavano sterminio maggior di una bomba.
Di questo Antonio Gonzales, benché celebre ai suoi tempi, oggi poco si sa, forse
soprattutto perché, come leggiamo nell’opera del de Salas, il suo trattato Arte tormentaria,
rimasto manoscritto, andò perduto dopo la sua morte; lo stesso predetto autore ci dice che fu
prima gentilhuomo (‘ufficiale’) dell’artiglieria a Napoli e poi tenente generale dell’artiglieria dei
Paesi Bassi, ma delle cosiddette innovazioni tecniche pirobalistiche che gli attribuisce
qualcuna non può esser vera, per esempio lo spostamento degli orecchioni dei mortari, e
qualche altra e poco chiara; d’altra parte, purtroppo, anche da quanto suddetto dal
Filamondo, non molto si capisce; egli dovrebbe dunque aver inventato un tipo di bocca da
fuoco d’assedio intermedio tra il cannone e il mortaro, appunto l’obice, per sfruttare quelle
elevazioni di tiro subito seguenti i 45 gradi sino allora trascurate dall’artiglieria. Forse
effettivamente, per ottenere questo risultato, dové modificare le camere dei cannoni, come
appunto scrisse il de Salas o forse copiò semplicemente dai francesi i quali, in considerazione
che a bombardamenti d’assedio, ne avevano recentemente, come abbiamo visto, molto
innovato le tecniche.
La polvere pirica era in questo periodo di due tipi e cioè la 5.asso.asso e la 6.asso.asso
(dove asso stava per uno); la prima, commercializzata in Francia come polvere fina era
composta da una mistura di cinque parti di salnitro, una di carbone e una di solfo, la seconda,
detta polvere finissima da una di sei parti di salnitro, una di carbone e una di solfo; la prima, la
meno potente a causa del minor quantitativo di salnitro, si usava per le grosse bocche da
fuoco, la seconda per quelle molto piccole, soprattutto moschetti, pistole e carabine, le cui
canne, in proporzione fatte con maggior spessore di metallo, sopportavano di conseguenza
cariche più potenti. Nel secolo precedente si era usata la prima per le piccole bocche da
fuoco e, per le grandi, la 4.asso.asso, polvere debole ormai obsoleta, detta ora in Francia
polvere comune, adatta a quelle vecchie artiglierie dallo spessore di metallo più sottile e che
ora non più si usavano, mentre nel secolo seguente, a motivo dei progressi frattanto ottenutisi
nella metallurgia e nella fondizione dell’artiglieria, si potrà usare la 6.asso.asso anche per le
grandi bocche da fuoco con conseguente aumento della potenza balistica; in Portogallo, dove
i fonditori dell’artiglieria erano soprattutto lorenesi e tedeschi, come testimonia nel suo trattato
il Manesson Mallet, usavano a quest’epoca per tutta l’artiglieria una sola polvere
particolarmente forte e cioè ogni cento libbre 77 di salnitro, 11 ed ½ di solfo ed 11 ed ½ di
carbone.
L’artiglieria delle galere era quasi del tutto concentrata all’estrema prua e quindi esse
dovevano in battaglia offrirsi al nemico sempre di fronte, tranne quando volessero abbordarlo,
perché allora era molto più conveniente - ma non sempre - presentargli il fianco; i pezzi di
prua erano andati un secolo prima da sette a nove, poi, col progredire dell’efficienza e della
potenza dell’artiglieria, erano diminuiti sempre di più, fino a diventare generalmente quattro
(due bastardi, cioè grossi, e due più piccoli) alla fine del Seicento e anche tre nel secolo
successivo. In effetti l’artiglieria stava diventando troppo potente perché le leggere e fragili
galere potessero continuare a farle da piattaforme; alla battaglia che avverrà nelle acque di
Malaga il 24 agosto 1704, nella quale i franco-spagnoli avranno la meglio sugli anglolandesi,
ma riporteranno anch’essi grossi danni, soprattutto la perdita di tre galere e tra di esse la
stessa Capitana del duca di Tursi:
205
… che si era aperta per mezzo per l’impeto delle tante cannonate che avea tirate (Avvisi di
Napoli. B.N.Na. Sez. Nap. Per. 12O.)
Ci fermeremo però qui in questo discorso sull'artiglieria del tempo e non approfondiremo
quindi né l’argomento di quella di marina in generale né quello delle casse (dette anche letti e
carri) e ruote né l’esame, assetto e caricamento dei pezzi né degli orecchioni, gioie (‘cornici’),
gengive, foconi, cartigli e bassorilievi ornamentali né le fonderie e leghe di metallo né i traini e
sollevamenti dei pezzi né l’addestramento degli artiglieri né mire ed elevazioni di tiro né
cazze, scartocci, stivadori, cavafieno, lanate o scovoli, leve e insomma tralasceremo tutto il
lavoro ordinario degli uomini addetti a queste armi (it. bombardieri, sp. artilleros, fr.
cannoniers), perché per tanto occorrerebbero ancora moltissime pagine e si perderebbe
quindi definitivamente di vista il nostro tema principale. Anche in questo caso, al lettore
eventualmente interessato all’argomento, possiamo solo consigliare di attendere
pazientemente la nostra prossima opera sull’arte della guerra al tempo della Controriforma,
poiché in realtà da allora, per quanto riguarda il maneggio dell’artiglieria, poche erano le cose
sostanzialmente cambiate.
Ma torniamo ora alle nostre cronache e precisamente alla fine di settembre di questo
1692, quando si seppe a Napoli che, nella guerra che i veneziani conducevano allora in
Canea, era morto al loro soldo il calabrese fuoruscito barone di Montebello, dei cui gravi reati
abbiamo più sopra già detto; evidentemente aveva avuto già in precedenza rapporti con
Venezia, repubblica sempre pronta, come si sa, a fomentare e ad alimentare disordini nel
Regno di Napoli. La sera di martedì 28 dello stesso ottobre arrivò a Napoli l'armata di
Spagna, formata da 17 velieri e da due o tre brulotti, e la mattina seguente il viceré si portò a
bordo del vascello reale a complimentare Pedro Corbete, comandante generale di detta
armata, dieci vascelli della quale, circa 20 giorni dopo l'arrivo, si trasferirono a Baia per i
lavori di concia e spalmatura, mentre i rimanenti sette sarebbero stati, per gli stessi lavori,
trattenuti a Napoli nella darsena e in altri approdi protetti del porto. Le milizie che vi si
trovavano imbarcate furono alloggiate a Pozzuoli nel palazzo detto di don Pietro - forse
perché una volta di esso poteva disporre il famoso viceré Pedro de Toledo, in case private e
in molte baracche fatte per l'occasione; dettero mostra nel mese successivo nella stessa
Pozzuoli (con gran disciplina, che non se ne è inteso sinora un minimo disturbo, e
pontualmente pagata e fatta vestir di nuovo...) Evidentemente la precedente negativa
esperienza del 1675 era servita a far prendere misure preventive efficaci contro i disordini che
potevano nascere dalla presenza in regno di questa gran armata e dei suoi turbolenti
equipaggi.
Frattanto nell'arsenale di Napoli proseguiva la costruzione di tre nuove galere, le quali
dovevano sostituirne altrettante della squadra ormai vecchie, e si diceva che sarebbe stato
trasformato in vascello da guerra un legno che si trovava nel porto e che era detto la controcarcassa, forse perché dotato di contro-fasciame.
(Napoli, 18 novembre:) Si rifondono molti cannoni di smisurata grandezza per farli più piccoli e
accomodati al bisogno (A.S.V. Nun. Nap. 112).
Purtroppo, se ci sono stati conservati dal tempo così pochi pezzi d'artiglieria medioevali
e rinascimentali, ciò si deve proprio alla normale e secolare abitudine di rifondere le vecchie
bocche da fuoco, spesso enormi come quelli che nei secoli precedenti erano stati detti
basilischi o come alcuni obsoleti petrieri di cui si narrava, così grandi che in alcuni poteva
206
addirittura viverci un Diogene, in modo da poterne riutilizzare il metallo per la fondizione di
pezzi più pratici e moderni.
A seguito di viglietto vicereale del 28 novembre fu nel dicembre assegnato un partito del
vestiario per ben 2mila vestiti violeti, cioè del colore turchino usato per le fanterie regnicole, e
ciò significa che le leve militari proseguivano intensamente. Nella seconda metà di questo
1692 risulta poi servire nel Milanese un terzo napoletano comandato dal mastro di campo
Ciarletta Caracciolo, militare da noi già incontrato quando era ancora capitano di cavalleria.
Nelle guerre europee i fatti militari più significativi erano stati la vittoria navale inglese all’Aia,
dove l’ammiraglio Edward Russell aveva il 3 giugno sconfitto quello francese de Tourville,
mentre il 30 giugno in Fiandra i francesi avevano preso Namur e poi il 3 agosto a Steenkerke
il generale francese maresciallo duca di Lussemburgo avrebbe respinto gli assalti delle forze
collegate del duca di Baviera, di Carlo Tomaso di Lorena principe de Vaudemont e di
Guglielmo III de Orange, quest'ultimo giunto alla testa degli inglesi solo sul finire della
battaglia.
1693. All’inizio di gennaio di quest’anno nel regno si reclutava per l'armata reale
dell’ammiraglio Pedro Corbete che, spartita tra Napoli e Baia, si trovava al raddobbo e si
trattava sia di marinari, essendone morti sull'armata di recente ben 300 soprattutto per eventi
epidemici, sia di fanti regnicoli, i quali erano destinati al ripristino del reggimento italiano,
ossia napoletano, che era di guarnigione sulla predetta armata, corpo che si trovava
anch'esso molto diminuito per morti e diserzioni; inoltre, sempre per l'armata spagnola, si
mandavano a Baia molte provvisioni di guerra e si disponevano su quella spiaggia alcune
batterie di cannoni per difendere quei vascelli alla concia da eventuali aggressioni dal mare.
In un documento del 16 gennaio che si trova all'Archivo General de Simancas il viceré
conte de San Estévan comunicava alla corte di Madrid quanto si stava facendo per l'armata in
sosta nel Napoletano, in particolare i lavori di carenamento a otto di quei vascelli e il
pagamento del soldo agli equipaggi. In quei giorni il viceré ordinava pure le provvisioni per lo
Stato di Milano, specie il denaro da inviare a quel governatore, il marchese de Leganes, a
titolo di pane di monizione per le soldatesche di stanza in Lombardia; infine dava
commissione al consigliero del Collaterale Joseph Pardo d’assumere tutte le necessarie
informazioni sugli insoliti eccessi commessi a Porto Longone dal sargente generale di
battaglia Juan Manuel de Sotomayor, governatore di quella piazza, un caso questo che merita
senza dubbio qualche parola di più.
Già nel 1691 erano cominciate ad arrivare a Napoli lamentele e accuse a carico del
Sotomayor, il quale si rivelava sempre di più un piccolo Verre; egli infatti riceveva tangenti su
tutte le attività commerciali della piazza, sia sulle provviste e forniture che sulle vendite al
dettaglio, faceva nutrire la bassa forza di un pane pessimo, poco nutriente e mal digeribile,
commetteva frodi monetarie, scacciava i liberi mercanti per costringere i soldati a spendere o
nella taverna (spaccio militare) da lui controllata od, a prezzi maggiorati, in sei botteghe che
gli versavano puntualmente percentuali fisse mensili; conviveva scandalosamente con una
prostituta, trattava con arroganza e prepotenza sia i suoi subordinati sia i ministri regi inviati a
porto Longone, commetteva abusi di potere e violava i diritti e la giurisdizione del principe di
Piombino, dissidio quest'ultimo che aveva provocato persino la morte di due soldati. La sua
qualità d’altissimo ufficiale spagnolo fece sì che le accuse contro di lui, sebbene
circostanziate, non gli procurassero che un temporaneo richiamo a Napoli; ma, quando nella
prima metà del 1692, oltre alle vessazioni del Sotomayor, si cominciò ad avere notizia nella
capitale di numerosi decessi epidemici di soldati a Porto Longone, si mandarono colà
anatomisti legali che effettuarono autopsie e le loro conclusioni furono che i soldati morivano
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per un’infezione agevolata dalla denutrizione conseguente alla pessima qualità del pane
fornito dal partitario scelto dal governatore e dall'omissione delle necessarie cure agli infermi.
A questo punto, siamo ora alla fine di questo 1693, il Sotomayor è imprigionato nel Castel
Nuovo, carcere riservato ai nobili e ai personaggi importanti, è processato, ma presto liberato,
il 14 agosto 1996 finalmente condannato alla sospensione dalla carica, a una forte ammenda
e alla relegazione domiciliare; ma le fortune napoletane di questo personaggio, anche se
retrocesso a semplice mastro di campo, non finirono qui, perché infatti solo alcuni mesi dopo
la sua condanna, cioè nel marzo 1697, giungeranno lettere reali da Madrid che gli porteranno
la nomina a castellano del Castello di Sant'Elmo (una volta ‘Sant'Eramo’).
Un documento milanese del 14 febbraio c'informa che era arrivata, forse a Finale o forse
già in Lombardia, un’altra compagnia di cavalleria smontata napoletana, questa comandata
dal capitano Gioseppe d'Ávalos figlio del principe di Troja e nipote di quello di Montesarchio,
ma, secondo il Filamondo, la partenza di questo corpo era avvenuta un paio di mesi più tardi
e cioè nell’aprile. All'inizio di marzo era ormai pronto il nuovo terzo di fanteria di 1.700 uomini
da inviare in Spagna e ne fu affidato il comando al mastro di campo Antonio Pappacoda dei
principi di Trigiano, il quale abbiamo in precedenza visto capitano di cavalleria in Lombardia;
questo corpo, vestito e armato di tutto punto, partirà per la Catalogna, portato da sette
tartane, solo domenica 19 aprile, essendo stato sino allora trattenuto a Napoli per mancanza
di legni adatti al suo trasporto:
Per compire le 18 compagnie inviate in Catalogna è stata presa a forza molta gente
vagabonda e inutile di questa Città e si è dato ordine di far il simile anco per il Regno (ib. 114).
Da un altro documento dell'Archivo General de Simancas, anch’esso di questo 1693, si
apprende che in effetti i 1.700 predetti nuovi fanti facevano parte di un piano di leva di 2.000
uomini, i quali, insieme con altri 700 soldati regnicoli che si trovavano allora nei Presidi di
Toscana, sarebbero dovuti servire a varie esigenze; cioè con loro bisognava, oltre a formare il
terzo suddetto per la Catalogna in sostituzione di quello levato da quelle parti per servizio
dell'armata reale di Spagna, inviare fanti a Milano in cambio di 100 dragoni testé ricevuti e di
cui ora diremo, fornire fanti alle galere del duca di Tursi, vascelli questi che, come abbiamo
già detto, erano tradizionalmente sempre andati guarniti di fanteria di marina napoletana e
infine usare il rimanente per i rimpiazzi del terzo napoletano che, anche questo da sempre,
guarniva l'armata spagnola dell'Oceano Atlantico.
La minaccia francese incombeva sempre sul regno e se n'ebbe un’altra prova giovedì 19
marzo, durante la Settimana Santa, quando la flotta dei transalpini, la quale era comandata
dal conte de Être e comprendeva 24 vascelli e tre palandre da gettar bombe, cercò di
sorprendere quella spagnola ferma a Baia per il carenamento, ma senza successo perché,
ben cannoneggiata da terra, fu costretta il giorno seguente a ritirarsi; in quest'occasione le
principali postazioni d'artiglieria della capitale, cioè la batteria sotto il ponte della Maddalena
e il posto del Carmine, erano state poste sotto il comando del duca d’Erchie Camillo di Dura.
In seguito a quest’episodio 4mila miliziani del Battaglione furono riuniti nei dintorni di Castell’a
Mare, da sempre uno dei bersagli più ricorrenti delle offensive marittime francesi nel golfo di
Napoli.
In questa fine del secolo, mentre le fanterie della monarchia spagnola erano ancora
suddivise in tercios (sebbene quello spagnolo fisso di Napoli già dal 1692 nei documenti,
precorrendosi i tempi di non molti anni, si dice talvolta reggimento), le superiori unità di
cavalleria erano ormai definite stabilmente appunto reggimenti, alla francese, eccezion fatta
per quella napoletana di Lombardia, detta per lo più ancora trozo, ma forse solo per
208
tradizione; la cavalleria poi nel suo complesso si divideva ora in cavallos corazas, cioè i
corazzieri, e cavalleria de dragones, nome quest'ultimo che compare per la prima volta in
connessione al Regno di Napoli proprio in questo 1693; ecco dunque una corrispondenza da
Genova del 14 febbraio:
Le due galere qui rimaste della squadra del sig. duca di Tursi, già poste all’ordine per rendersi
a Napoli, mercordì passorno al Finale per levare (‘imbarcare’) 2 compagnie di dragoni venute
da Milano, a effetto di traghettarle a Napoli per introdurre in quel Regno questa sorte di milizia
e la forma di servirsene.
Infatti sabato 28 marzo, provenienti appunto da Genova, giunsero nel porto partenopeo
le dette due galere del duca di Tursi con 100 soldati detti dragoni, fatti venire dal viceré dallo
Stato di Milano a guardia delle marine del regno. Si trattava delle due compagnie dei capitani
Prospero Emyñas Calizano (46 uomini) e Pascual Motet (47 uomini) e troveremo in seguito il
Motet di nuovo impegnato in simili trasferimenti; questa missione a Napoli dei due capitani è
annunciata da una liberanza milanese del 31 gennaio precedente con cui si liquidava il
relativo compenso spettante ai due ufficiali. I dragoni in questione, arrivati smontati perché
portati via mare, furono forniti delle necessarie cavalcature in capo a tre settimane. Mentre a
Napoli questo nome di ‘dragoni’ era stato sino a questo momento quasi sconosciuto, all’estero
si parlava invece di dragons già dalle guerre di Piemonte del Rinascimento (1536-1559);
eppure in effetti questa fanteria montata (da annoverarsi comunque tra le forze di cavalleria,
in considerazione che l’uso dei cavalli era determinante per il successo delle loro azioni, era
un’invenzione italiana, trattandosi non d’altro che dei comuni archibugieri a cavallo nati nel
Cinquecento e di cui già parlava il Machiavelli quando proponeva di creare corpi di
scoppiettieri a cavallo; infatti, per esempio, nel Fascio 12 del fondo Filiazioni della Sez. Mil.
dell’Archivio di Napoli c’è un documento che registra l’attribuzione in data 21 gennaio 1702 al
cap. Joseph de Velasco del capitanato di una compagnia nel reggimento di cavallos
arcabuzeros dragones del col. Joseph de Armendariz e ciò perché quello si era trovato tra
coloro che il 23 febbraio 1701 avevano combattuto a Napoli contro i rivoltosi del Macchia. Il
primo importante impiego di questo tipo di cavalli leggieri - erano così chiamati sin dal Basso
Medioevo tutti quei soldati a cavallo che, qualunque armamento offensivo adoperassero, o
non indossavano armi difensive o le indossavano sottili, quindi non a prova d’arma da fuoco –
era stato appunto nelle guerre di Piemonte della prima metà appunto del sedicesimo secolo;
ora, cioè nella seconda metà del Seicento, le sole due novità erano che questi fanti a cavallo
usavano generalmente la nuova arma di cui abbiamo già parlato e cioè il moschettone invece
del vecchio archibugio, per cui si chiamavano in Francia anche moschettieri a cavallo, e che
in tutta Europa si era ora perlopiù adottato il cinquecentesco nome francese di dragoni, in
considerazione che si era già da qualche tempo preso l'andazzo generale di scimmiottare i
francesi in tutte le cose militari, riconoscendosi così implicitamente la superiorità da loro
raggiunta in quasi ogni campo dell'arte della guerra. Ecco cosa ne scriveva il Montecuccoli
nel suo già spesso da noi citato Aforismi dell’arte bellica (1668-1673):
I dragoni non sono altro che fanti posti a cavallo, armati di moschetti leggieri, un poco più corti
degli altri, di mezze-picche e di spade per occupare con diligenza un posto, per prevenire
l’inimico a un passaggio - e perciò forniti di zappe e pale - e per porsi a cavallo in mezzo e nel
vôto dei battaglioni, per quindi tirar sopra gli altri, combattendo essi altramente per l’ordinario a
piedi.
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La suddetta descrizione del Montecuccoli sarà confermata dal Guillet nel suo dizionario
del 1678:
Dragons, sont des mousquetaires à cheval qui combattent tantost à pied tantost à cheval et
qui dans une bataille ou dans de grandes attaques, servent d’enfans-perdus et vont les
premiers à la charge… Cependant ils sont reputés du corps de l’infanterie par une
ordonnance positive du 25 juillet 1665…
L’evoluzione tattica dei dragoni li porterà poi man mano a essere sempre meno fanteria
e sempre più cavalleria. Possiamo ricavare l'armamento che portavano i predetti dragoni
milanesi da quello di un reggimento che nel dicembre 1685 il governatore di Milano, il già
menzionato conte di Melgar, s’impegnò a inviare, unitamente ad altri corpi, al servizio della
Signoria di Venezia, perché se ne servisse nella guerra che allora quella repubblica stava
combattendo contro i turchi, cessione di soldatesche a cui abbiamo già più addietro
accennato; dunque l'armamento in questione consisteva in un moschettone con baionetta,
una pistola, spada e strumenti da guastatore.
Lunedì 20 aprile salparono le galere del duca di Tursi con 500 spagnoli destinati a
Milano, i quali, suddivisi in sette compagnie, sbarcarono a Voltri tra il 7 e il 9 maggio; ma
poiché il viceré aveva manifestato il suo malcontento a privarsi di questi soldati spagnoli, il re
gli aveva in cambio concesso di conferire 12 patenti di capitano per la leva in Spagna
d’altrettante compagnie di fanteria da portare a Napoli per il reintegro del terzo fisso, il quale
allora contava 481 ufficiali e 5.000 soldati, quindi non pochi. In effetti non doveva essere cosa
facile – e la corte di Madrid ben lo sapeva - trovare nella ormai semi-spopolata Spagna
uomini validi a sufficienza per formare ben 12 nuove compagnie di fanti. Secondo il nunzio
apostolico a Napoli le galere dei particolari genovesi portavano invece 300 fanti regnicoli, ma,
eccetto che costoro non siano stati lasciati nei Presidi di Toscana, non risulta che fanti italiani
siano stati poi sbarcati in Liguria in quest'occasione e, d'altra parte, i dispacci napoletani dei
nunzi peccano di frequenti imprecisioni; è invece certo che alla fine di questo mese d'aprile
nell'arsenale di Napoli si attendeva a rispalmare la squadra delle galere del regno, le quali si
diceva dovessero imbarcare alcune compagnie di nuova leva destinate alla Lombardia e
infatti all'inizio del mese seguente era in corso un arruolamento di 500 nuovo fanti. Secondo il
Nicolini verso la fine di giugno un contingente napoletano comandato da Diego de Benavides,
figlio del viceré, sarebbe partito per il settentrione, dove avrebbe poi partecipato alla
campagna piemontese di quell'anno, ma di tale partenza noi non abbiamo trovato traccia né
nelle cronache né nei documenti d'archivio da noi consultati. In questo tempo in Piemonte
l'esercito francese del maresciallo de Catinat sconfiggeva quello savoiardo comandato ora da
Eugenio di Savoia, cugino del duca, nella battaglia di Marsiglia; i francesi proseguivano
anche la guerra nel Palatinato, da loro per l'ennesima volta devastato, dove distruggevano
nuovamente la disgraziata città di Heidelberg.
C'è da chiarire il perché di queste continue osmosi di milizie tra un possedimento e
l'altro della Spagna; la politica imperiale spagnola tendeva a evitare la formazione di eserciti
nazionali nei suoi possedimenti, eserciti che avrebbero un giorno potuto scendere in campo
non più da amici, bensì da nemici Ogni esercito di quella corona doveva quindi essere
sovranazionale, formato da soldatesche spagnole, valloni, italiane e completato da corpi
mercenari svizzeri e alemanni, specie grigioni e tedeschi cattolici; tra tutti somma preminenza
toccava però ai soldati spagnoli, perché appartenenti alla nazione dominatrice e perché erano
i più fedeli, tolleranti e coriacei di cui quella monarchia disponesse. A proposito poi della
tradizionale lega con gli svizzeri instaurata da Carlo V e che implicava da parte loro una
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fornitura fino a 30mila fanti, se necessario, da impiegare alla difesa del Ducato di Milano,
essa sarà rinnovata ancora nel 1702.
Sabato 6 giugno una violenta zuffa si accese tra un gruppo di spagnoli dell'armata che si
trovava a Baia per i lavori di carenamento e uno di lacchè, essendo costoro spadaccini
facinorosi, pericolosi attaccabrighe che, in barba alle reiterate prammatiche contro il porto
d’armi, portavano illegalmente la spada sotto la cappa o la marsina e che servivano come
guardie del corpo i nobili e in genere chi li poteva pagare, corrispondendo quindi ai bravi
manzoniani e ai vapos palermitani; gli spagnoli ebbero la peggio, restandone tre trafitti e
uccisi, ma diversi lacchè, i quali indossavano una livrea gentilizia turchina, sebbene la
vecchia prammatica del 29 ottobre 1683, della quale abbiamo a suo tempo già detto,
proibisse agli uomini questo colore, ed erano forse per questo stati scambiati per fanti
regnicoli dagli spagnoli, furono arrestati, convinti con la tortura a confessare e condannati;
l’Operti, nella sua relazione del 1697, ricorderà però quest’episodio in maniera diversa, molto
meno circoscritta e cioè come un vero e proprio moto popolare che per poco non si trasformò
in un’aperta rivolta contro gli spagnoli.
Frattanto alla fine del marzo di quest’anno, subentrando ad Antonio Vasquez, divenuto a
sua vola castellano di Sabbioneta, era stato nominato commissario generale della cavalleria
dello Stato di Milano Gaetano Coppola, fratello del duca di Canzano, capitano della
compagnia di lance della guardia del viceré marchese di Leganes, mentre un terzo fratello,
Nicolò, come abbiamo già detto, serviva da capitano di una delle due compagnie di corazze
della guardia del viceré di Napoli conte di San Estévan; militava poi nell'Europa orientale il già
nominato maresciallo Antonio Carafa con l'incarico di commissario generale degli eserciti
cesarei e nell'agosto un altro napoletano, cioè Gioseppe Montoya, aiutante generale nello
stesso esercito imperiale, fu ferito da una moschettata mentre, sotto il comando del duca di
Croy, si assediava Belgrado nel tentativo di riprenderla ai turchi che l'avevano in precedenza
occupata; ma il Filamondo, per questo 1693, che è proprio l’anno in cui egli termina la sua
narrazione, elenca allora in servizio all’estero, oltre ai predetti, anche i seguenti altri ufficiali
napoletani – e qui riteniamo utile e interessante elencare per una volta anche quelli di
compagnia, cosa che in genere evitiamo per non appesantire troppo questo lavoro:
Antonio Conte Carafa, maresciallo di campo.
Andrea Coppola, duca di Canzano, capitano generale in Orano e regno di Tremisen in
Africa.
Domenico Pignatelli marchese di S. Vincenzo, capitano generale in Estremadura.
Eustachio Brancaccio, tenente di mastro di campo generale.
Sargenti generali di battaglia: Giovanni Pignatelli dei duchi della Rocca.
Restaino Cantelmo principe di Pettorano.
Marino Carafa dei duchi di Maddaloni.
Andrea Cicinello dei principi di Cursi, poco dopo deceduto.
Orazio Coppola dei duchi di Canzano.
Colonnelli di cavalleria:
Nicolò Pignatelli dei duchi di Bisaccia, morto il 29 luglio nella
battaglia di Landen.
Fra’ Fabrizio Ruffo.
Antonio Maria Gambacorta dei duchi di Limatola, morto nel
luglio alla battaglia di Charleroi.
Mastri di campo:
Giulio Cesare Capuano.
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Ferrante Pignatelli.
fra’ Alvaro Minutillo.
Gioan Battista Caracciolo dei duchi di Martina.
Domenico Dentice.
Domenico Acquaviva d’Aragona dei conti di Conversano.
Annibale Moles dei duchi di Parete.
Antonio Domenico di Dura.
fra’ Francesco di Gennaro.
Capitani e sargenti maggiori: Cesare Mormile.
Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano.
Diego Moles dei duchi di Parete.
Alfonso Sanfelice dei duchi di Lauriano.
Carlo di Sangro dei marchesi di Santo Lucido.
Marcello Ceva Grimaldi dei duchi di Telese, oriundi
genovesi.
Cesare Brancaccio.
Antonio della Marra.
Carlo de Montoja.
Antonio di Gennaro.
Giacomo Filomarino dei principi della Rocca.
Giulio Galluccio.
Gioan Battista e Michele Giudici fratelli del defunto
Gioseppe
Antonio Pappacoda dei principi di Trigiano.
Ciarletta Caracciolo dei principi della Torella.
fra’ Domenico e Francesco Gaetano d’Aragona dei duchi di
Laurenzana.
Gioan Battista Brancaccio nipote di fra’ Titta.
Vincenzo de Capua dei principi della Riccia.
Pietro Sances de Luna.
Nicolò e Gioseppe Dentice.
fra’ Tomaso Caracciolo dei marchesi di Gioiosa.
Gioan Battista Parise.
Lorenzo de Franchis marchese di Taviano
Francesco Pisanelli.
Il tercio del Pappacoda stava però per passare di mano perché sarà molto presto
falcidiato da diserzioni ed epidemie causanti la morte di moltissimi soldati, di tanti ufficiali
subalterni, di cinque capitani e dello stesso mastro di campo, come si leggerà poi in missive
del 5 gennaio e del 23 marzo 1694 inviate dal nunzio apostolico di Napoli al suo governo a
Roma:
Si dice che saranno distribuite patenti per la leva di 500 soldati per reclutare il reggimento
italiano Pappacoda che si trova in Catalogna, in gran parte distrutto, né si sa per ancora chi
sarà nominato per maestro di campo del sudetto reggimento in luogo del medesimo
Pappacoda, morto ultimamente d’infirmità naturale (A.S.V. Nun. Nap. 117).
212
Per ritornare ora alle cronache militari del Regno di Napoli diremo che l'armata di
Spagna che si era trattenuta a Baia tanti mesi lasciò finalmente il regno venerdì 3 luglio, dopo
esser costata all'erario napoletano 260mila scudi, oltre ai 14mila spesi peri fortini costruiti a
Baia per l'occasione allo scopo di difenderla da possibili incursioni francesi. Si componeva
ora di 16 vascelli da guerra e due brulotti, i quali salparono da Napoli, dove si erano in ultimo
trasferiti per le cerimonie ufficiali di commiato - prassi del tutto tradizionale in questi casi,
accompagnati da altri bastimenti e da 19 galere, tra napoletane, genovesi e siciliane e si
diceva fossero diretti a porto Mahón nell'isola di Minorca, dove avrebbero atteso gli ordini
della corte di Spagna; restavano così in darsena solo tre, tra cui le due galere di Sardegna,
che non potevano salpare per mancanza di ciurma, la quale vi stava morendo a causa di
un'epidemia che era scoppiata a bordo di quei legni. L'armata di Spagna - flotta di velieri da
guerra, da non confondersi con la squadra di Spagna, la quale era invece l'insieme delle
galere - portava a bordo tradizionalmente, tra le altre soldatesche, di guarnigione anche un
vecchio terzo napoletano, detto pertanto Armada viejo, allora ancora comandato dal mastro di
campo marchese Antonio Domenico di Dura.
Frattanto in questo stesso luglio del 1693 Muley Ismael re di Mequinez tentava ancora
Orano assediandola con 20mila cavalli, ma il suddetto Andrea Coppola duca di Canzano,
viceré napoletano di quel regno, lo costrinse a ritirarsi dopo averne ributtati moltissimi assalti
e aver fatto gran strage dei suoi.
In questo periodo furono riformate dal viceré ben 15 o 16 compagnie del terzo fisso
spagnolo, le quali erano divenute evidentemente troppo carenti di effettivi, con conseguente
sospensione di tutti gli emolumenti, cioè soldi, trattenimenti e vantaggi, degli ufficiali che
restavano così temporaneamente privi d’impiego, mentre i soldati erano ovviamente subito
riutilizzati per rinfoltire i ranghi delle altre compagnie e quindi nulla perdevano; poiché, come
si sa, rumor crescit eundo, in seguito a questi provvedimenti nel suddetto luglio si vociferava
che si stesse anche per ridurre della metà gli emolumenti degli ufficiali che restavano
impiegati. In effetti troviamo nel Giuliano la trascrizione di una deliberazione reale del 21
settembre successivo con cui il re, trattandosi di una materia molto delicata e senza
precedenti, cioè di togliere lo stipendio a ufficiali spagnoli, si riservava di dare la sua
approvazione alle modalità della suddetta sospensione.
All'inizio d’agosto si trovavano rinchiusi nell'arsenale 400 soldati di nuova leva da usarsi
probabilmente per rinforzo del presidio di Porto Longone, mentre nello stesso periodo si
vociferava d'organizzare una nuova leva di 3mila uomini da dividere in compagnie che
sarebbero state arruolate dai capitani spagnoli ultimamente riformati, anche questa però
anomalia poco credibile. Domenica 16 agosto lasciarono Napoli per Bercellona, per dove
avevano poi proseguito anche le altre partite il 3 luglio, le due galere di Sardegna che erano
rimaste in attesa del reintegro delle ciurme e la settimana successiva partirono anche due
tartane cariche di munizioni da guerra destinate al duca di Savoia, seguendo così delle altre
già salpate con la stessa destinazione alla fine della prima settimana del mese,
approfittandosi dell'avviso che i vascelli francesi che pattugliavano le coste liguri si erano
allontanate. Invece, nell'ultima settimana d'agosto due fregate o guardacoste francesi
comparvero improvvisamente tra l'isola di Ponza e quella d'Ischia e predarono 2 tartane
cariche di vino; poi, portatesi nelle acque dell'isola di Procida, presero su quella spiaggia
alcune tartane vuote e si diceva che però il giorno seguente le stesse fossero state restituite
ai loro padroni, i quali erano andati a raccomandarsi ai capitani di quei vascelli nemici; in
seguito le due fregate si spostarono nelle acque calabresi e siciliane, dove fecero preda
213
d'altre tartane e poi, come si disse, pare che fossero tornate nelle acque di Ponza; infine, per
la fine della prima decade di settembre si erano finalmente allontanate dai mari del regno.
Non si era potuto uscire in mare a contrastare queste scorrerie in considerazione che
nell'arsenale di Napoli era rimasta allora, come abbiamo già accennato, una sola galera e in
aggiunta provvista di poca ciurma; per lo stesso motivo non si poteva in quei giorni nemmeno
andare a contrastare i corsari turco-barbareschi che continuavano a infestare i mari calabropugliesi, specie le acque d'Otranto, e a far preda di legni cristiani con gran danno del
commercio marittimo del regno. Fortunatamente, i soliti combattivi liparoti, messa in mare una
loro squadriglia di barche e feluche armate, all’inizio d’ottobre andarono ad attaccare i detti
corsari e tolsero loro alcune delle prede che avevano fatto rimettendo in libertà più di 120
schiavi cristiani.
Verso la fine di settembre giunse da Alicante una nave che portava 120 soldati spagnoli
che dovevano servire di rinforzo al presidio di Napoli, mentre nell'arsenale si trovavano
ancora 300 reclute regnicole, le quali attendevano il ritorno delle squadre di galere per essere
trasportate a Porto Longone e avrebbero viaggiato di conserva con alcune barche cariche di
provvisioni. Domenica 11 ottobre un corriero straordinario spedito dal governatore di Milano, il
predetto marchese di Leganes, portò al viceré conte di San Estévan la ferale notizia della
morte del suo primogenito Diego de Benavides marchese di Solera, mastro di campo del
terzo fisso spagnolo di Lombardia, avvenuta il 4 precedente mentre il giovane combatteva
contro i francesi nell'avversa battaglia di Pinerolo o d'Orbassano che dir si voglia, dove il duca
di Savoia era stato, come alla Staffarda, di nuovo battuto dal maresciallo de Catinat; eppure
tale battaglia era cominciata nel precedente agosto con un’iniziativa dell'esercito di Milano, il
quale aveva assalito il piccolo, ma strategicamente importante forte di Santa Brigida di
Pinerolo - questo, come anche la piazza di Casale, era rimasto in mano francese sin dalla
guerra precedente; gli scontri erano stati sanguinosi e vi aveva partecipato anche il terzo
napoletano del mastro di campo Antonio di Francia, corpo che poi, alla rivista che a novembre
sarà passata al predetto esercito, risulterà contare infatti solo 445 fanti. Alla stessa suddetta
rivista saranno inoltre presenti nove compagnie di cavalleria napoletana per un totale di 475
soldati,i quali erano stati invece 442 in occasione della riforma generale dello stesso esercito
di Milano decretata il precedente 19 ottobre.
Si usava prender mostra, ossia controllare forza e armamento, di tutti i corpi dell'esercito
una volta il mese prima di pagar loro il soldo, il quale anche era mensile; questa frequenza
delle riviste serviva a evitare il più possibile di pagare piazze, ossia ruoli di soldati che fossero
morti o licenziati; ecco il risultato della rassegna passata nel mese d’ottobre dal commissario
militare e dagli ufficiali pagatori alle due compagnie di corazze della guardia del viceré di
Napoli e alle due di dragoni recentemente giunte dal Milanese:
Soldati
Cavalli
55
53
51
52
49
45
43
41
Compagnie della guardia del viceré
Capitano Nicolò Coppola
Capitano Andrea de la Rinze y Muñoz
Compagnie di cavalli dragoni
Capitano Prospero Emiñas Calizano
Capitano Pascual Motet
214
In seguito alla predetta grave sconfitta subita dagli imperiali, il viceré si attivò per
incrementare le rimesse di denaro a Milano a titolo di contribuzioni di guerra e ordinò a tutti i
baroni (feudatari) del regno di assoldare un soldato ogni 100 fuochi, in modo da poterne
ricavare più di 5mila uomini da inviare in Lombardia; inoltre, non essendo sufficienti le
frequenti e tradizionali contribuzioni volontarie offerte al sovrano specie dalla città di Napoli,
nell’ultima decade dello stesso ottobre il Consiglio del Collaterale, in una delle sue ormai
frequenti riunioni, decise un aumento del 10% degli arrendamenti (‘appalti e pigioni’) e dei
fiscali (‘dazi e tributi’) e l’introduzione di nuove imposizioni allo scopo di mettere insieme una
somma di 300mila ducati da mandare in soccorso dello Stato di Milano, dal cui governatore
arrivavano sempre più pressanti richieste di uomini, mezzi e denaro, mentre si ammassavano
nell'arsenale provvisioni per le piazze di Toscana, naturali porte d'accesso al Regno di Napoli
e quindi da tenersi il più munite possibili; inoltre verso la fine del detto mese erano inoltre già
pronti mille fanti da inviare a Milano non appena avessero fatto ritorno le galere e se ne era
ordinata la leva d'altri mille. In una sua lettera del 3 novembre il nunzio apostolico a Napoli
aveva cominciato a parlare delle leve in corso come di un arruolamento prefissato totale di
3mila uomini, cifra che poi ribadirà in altre del 17 seguente e del 1° dicembre:
(Napoli, 3 novembre:) Si prosegue con sollecitudine la leva delli 3mila huomini destinati per
reclutare le truppe dello Stato di Milano e si prendono ancora con la forza per questa Città e
Regno molti vagabondi e altre persone inutili (A.S.V. Nun. Nap. 115).
A proposito del termine truppe (dal lat. turbae) è questa una delle prime volte che lo
troviamo usato nel senso contemporaneo di soldatesche, mentre sino allora tale voce aveva
sempre avuto un significato ben preciso e cioè quello di una partita o distaccamento di
cavalleria - e solo di cavalleria - formato da alcune compagnie.
(Napoli, 10 novembre:) Arrivano giornalmente in questa Città truppe di soldati di nuova leva
che si vanno facendo per le Provincie di questo Regno, affine di reclutare le truppe dello Stato
di Milano (ib.)
Poiché però le galere del regno tardavano a tornare e giovedì 12 novembre era arrivato
un altro corriero straordinario dal governatore di Milano per sollecitare i soccorsi, si caricarono
delle predette provvisioni da bocca e da guerra parecchie tartane già in attesa nel porto e poi,
sabato 14, essendo il vento ormai favorevole alla navigazione, su nove d’esse s’imbarcarono
anche le soldatesche; si trattava di 1.300 fanti regnicoli che si tenevano alloggiati
nell’arsenale per i Presidi di Toscana, essendo questi molto esposti alla minaccia nemica, e di
due compagnie spagnole, una di fanti e una di dragoni, da sbarcare invece a Finale perché
destinate all’esercito di Lombardia.
(Napoli, 1 dicembre:) Concorrono giornalmente molti ufficiali, anco forastieri, per arruolarsi
nelle compagnie di nuova leva che si vanno tuttavia proseguendo in questa Città e Regno per
servizio dello Stato di Milano. Non riesce però così facile d’assoldare la gente ordinaria, onde
per compire il numero delli 3mila uomini ha bisognato adoperare la forza (ib.)
S’aspettava il ritorno delle tartane che avevano fatto vela per Finale prevedendo di
potervi imbarcare un altro pari numero di uomini; frattanto la sera di martedì 8 dicembre
fecero invece finalmente ritorno le galere della squadra di Napoli. Nei giorni seguenti
partirono alcune altre tartane, le quali portavano molte provvisioni e 300 soldati alla piazza di
215
Porto Longone, mentre ogni giorno da ogni parte del regno arrivavano nella capitale gruppi di
soldati arruolati dai baroni nei loro feudi. In seguito una corrispondenza da Genova datato 12
dicembre così informerà:
Lunedì (7 dicembre) approdarono qua 9 barche col resto de’ soldati che il Viceré di Napoli
manda nello Stato di Milano e mercordì mattina si cominciò il sbarco delli suddetti soldati a
Ultri che fanno circa 1.500.
Povere reclute regnicole! Era stato loro detto a Napoli che sarebbero stati sbarcati in
Toscana dove avrebbero fatto una pacifica e oziosa vita di presidio e per un solo anno e
invece li si era portati in Liguria per incamminarli da lì verso i tragici campi di guerra! Ma
quello che i disgraziati giovani non sapevano era che nemmeno il servizio di guarnigione era
esente da pericoli, anzi erano uno dei luoghi di maggior virulenza delle gravi malattie
epidemiche; infatti ecco quanto tra l’altro scriverà il nunzio pontificio al suo governo il 22
febbraio del 1695:
Il signor don Marino Carafa, vicario generale de’ Presidii di Toscana, fa istanza per nuove
provvisioni di genti e di denari, essendo anco in quelle piazze periti molti soldati (A.S.V. Nun.
Nap. 119).
Più volte il conte di San Estévan, da due anni a questa parte, aveva chiesto senza
successo alla Regia Camera della Sommaria una fornitura straordinaria di livree ai suoi
alabardieri della guardia, avendo avuto l’ultima più di quattro anni prima in occasione dei
festeggiamenti per le seconde nozze del re Carlo II, apparendo pertanto ora detta compagnia
in uno stato estetico impresentabile (in forma tanto indecente de’ vestiti che più (che) di
decoro serviva oggi d’indecenza); ora rinnovava la richiesta con un suo viglietto (‘ordine’)
datato 13 dicembre, ma la risposta era ancora una volta sostanzialmente negativa:
…(per)che è stato solito vestirsi detta guardia alemana all’ingresso de’ signori viciré in questo
regno ed in occasione di feste regali ed accasamento del re nostro signore e nel solidissimo
governo di Vostra Eccellenza è stata detta guardia alemana due volte vestita, avendo anche
avuta la librera di lutto per la morte della regina nostra signora, che sia in cielo, e le strettezze
in che la presente si ritrova la Real Azienda non permettono di far spese straordinarie…
(A.S.N. Somm. Cons. 90).
Il regno era stato difatti di recente del tutto spremuto dalle tante contribuzioni di guerra
ordinarie e straordinarie; comunque quei magistrati rimettevano ovviamente la decisione
finale allo stesso viceré, il cui potere era insindacabile. Sennonché, con altro viglietto del 30
seguente, il viceré ordinava che si fosse concluso partito (‘incanto ad estinzione di candela’)
per la fornitura di 100 vestiti nuovi per le sue due compagnie di cavalleria della guardia più di
altri cinque per i quattro trombetti ed il timballo delle relative piane maggiori e stavolta la
Sommaria non trovo nulla da ridire, anche perché in questo caso si trattava di unifomi più
ordinarie e non di costose livree come quelle, ricche di sete, velluti e trine; l’incanto fu vinto
dal partitario Nicola di Martino, un habitué di tali competizioni, il quale aveva, com’era d’uso,
presentato una mostra (‘modello’) di detta uniforme e la stessa era stata approvata dal viceré.
Il prezzo pattuito era di 28 ducati per vestito, cioè più del doppio di quello che sarebbe
costato un vestito di fante; ma l’abbigliamento di cavalleria includeva parecchio di più e cioè
stivali con speroni, mantello, gualdrappa ricamata, tappafonde per pistole da sella, senza
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contare che si trattava qui di soldati della guardia e quindi anche la qualità delle pannine
usate doveva essere migliore. I vestiti si dovevano consegnare per il giorno di S. Antonio
Abate, cioè il 17 gennaio:
… ad avvertenza che, (se) non si potessero consignare per detto giorno per intero, si fossero
almeno consignati le casacche e li cappelli nei vestiti dei trombetti e timballo… (ib.)
Finalmente alla fine dell’anno le frenetiche leve forzose finalmente cessarono perché,
arrivatisi alla normale sospensione invernale della guerra, l'esercito di Lombardia non aveva
per il momento più bisogno d'altri soldati:
Si sono sospese le leve che si erano principiate con la forza, assoldandosi solamente qualche
soldato che s’offerisce d’andare spontaneamente alla guerra. Si trovano in quest’arsenale 300
soldati con i quali si rinforzano (‘rinforzeranno’) i Presidii della Toscana, non avendo il
governatore di Milano bisogno d’altra gente (ib.115)
Si continueranno comunque ad ammassare nell’arsenale coscritti inviati dai baroni del
regno allo scopo di potenziare i predetti presidi.
Un’altra corrispondenza - questa da Milano - segnalava che un reggimento napoletano probabilmente il trozo di cavalleria, il quale serviva in quello stato agli ordini di un esponente
della famiglia Carafa, forse il maresciallo Antonio, era stato comprato dal suddetto
governatore di Milano affinché restasse permanentemente incorporato in quell'esercito; il che
significa evidentemente che il marchese di Leganes aveva accreditato denaro sia al Carafa, il
quale aveva a suo tempo comprato quella patente dal viceré di Napoli, sia al viceré medesimo
che quella patente aveva concesso.
L'anno si chiudeva infine con una notizia funesta:
(Napoli, 22 dicembre:) È stato inteso qui con molta amarezza il naufragio delle due galere
della squadra del duca di Tursi, non essendosi salvata che la metà della gente di una di dette
galere (A.S.V. Nun. Nap. 115).
La guerra in Europa era proseguita nel frattempo con grandi successi francesi; il 9 luglio
il maresciallo de Noailles aveva preso Rosas in Catalogna e il 29 dello stesso mese a Landen
in Fiandra il maresciallo duca di Lussemburgo aveva battuto le forze alleate di Guglielmo III
d’Orange; erano qui periti, tra i napoletani, anche Nicolò e Antonio Pignatelli dei duchi di
Bisaccia, il primo colonnello e il secondo capitano di cavalleria; Niccolo, dopo 17 anni di
esperienza di guerra in Catalogna, Fiandra e Ungheria, aveva infatti avuto il comando di un
reggimento di cavalleria alemanna (mercede insolita a italiani, Filamondo), con cui aveva
anch'egli partecipato alla predetta battaglia, scontro ferocissimo e sanguinosissimo in cui
erano morti d'ambedue le parti circa 27mila uomini in totale (in sagrificio all'odio delle nazioni,
che in questi tempi ha il general comando degli eserciti, Filamondo). Più tardi in Piemonte,
nonostante che i savoiardi e i loro alleati avessero tentato una nuova invasione del Delfinato,
Vittorio Amedeo II era stato sconfitto pesantemente il 4 ottobre dall’esercito francese del
maresciallo Catinat nella battaglia detta della Marsaglia; infine poco dopo, il 10 dello stesso
ottobre, era avvenuta la famosa battaglia di Charleroi o di Neerwinden, a seconda della lingua
che si vuole usare, nella quale, combattendo contro i francesi, era morto Antonio Maria
Gambacorta dei duchi di Limatola, capitano di cavalleria napoletano, il quale in quel conflitto
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era però al comando non di una sola compagnia, bensì di un’intera tropa, ossia di un
raggruppamento di compagnie; in quest'importante scontro il maresciallo di Lussemburgo
aveva attaccato il principe d'Orange asserragliato in un sistema di trincee sostenute da due
forti e l'aveva sconfitto espugnando queste sue difese; di conseguenza i francesi avevano
occupato l'importante piazzaforte di Charleroi, ma non erano riusciti invece a riprendere Liegi;
Charleroi sarà però ripresa ai francesi appena nel settembre successivo da Massimilano di
Baviera e i transalpini saranno pure sconfitti sul mare dagli inglesi.
Tanti altri valorosi ufficiali napoletani militavano allora in Fiandra, per esempio il
sargente generale di battaglia Michele Cajafa, soldato vecchissimo delle guerre di Fiandra
(ib.), il quale aveva iniziato la sua carriera come alfiere nel terzo d’Alfonso Filomarino e poi fu
capitano nel famoso terzo vecchio dei napoletani d’Andrea Cantelmo dei duchi di Popoli,
corpo che era sempre ricordato come scuola d'ottimi soldati, tanto che lo stesso Andrea era
poi divenuto governatore della Catalogna; il Cajafa divenne in seguito capitano di cavalleria,
sargente maggiore di cavalleria e ritornò in seguito alla fanteria come mastro di campo,
colonnello e brigadiero; suo figlio Gioan Maria marchese di Massa Nuova seguiva le orme
paterne in Fiandra come capitano di cavalli corazze, dopo esserlo stato di fanteria nel terzo di
Gioan Battista Pignatelli.
1694. E’ della primavera di quest’anno una delle peggiori eruzioni del Vesuvio, vulgo detto
allora monte di Somma, di cui però, non presentando essa particolari conseguenze militari,
non altro diremo. Riconfermandosi dunque la grande determinazione del viceré in carica,
nella prima settimana di febbraio salparono per Porto Longone tre galere dello stuolo di
Napoli le quali avevano imbarcato sei compagnie di fanteria spagnola destinate a dare il
cambio a quell’importante presidio e si diceva che sarebbero presto tornate a Napoli per poter
così portare nello Stato dei Presidi anche le soldatesche regnicole tenute nell’arsenale,
alloggiamenti dove nel terzo lustro di febbraio arrivarono altri 300 coscritti. Verso la fine della
seconda decade del detto febbraio il viceré nominò Gaetano Gambacorta principe di Macchia,
personaggio che diventerà presto infelicemente famoso, nuovo mastro di campo del terzo del
defunto Pappacoda e costui sarebbe quindi presto salpato per la Catalogna con un buon
numero di rimpiazzi destinati a quello sfortunato corpo.
Il governatore di Milano, nell’approssimarsi della nuova campagna bellica, aveva
ripreso a chiedere ripetutamente uomini e anche denaro a Napoli, dove i ministri della Regia
Camera della Sommaria continuavano a ammassarne per lui, mentre erano in corso molte
leve proprio per l’esercito di Milano, colà infatti affermandosi che da Napoli ci si aspettavano
invii per un totale di 2mila spagnoli e 2mila napoletani; inoltre nell’arsenale si preparavano
provvisioni belliche per il duca di Savoia in conto dei 100mila ducati annui assegnatigli da
Carlo III re delle Spagne.
Alla fine di marzo nell’arsenale si lavorava incessantemente al completamento di una
nuova galera destinata a sostituirne un’altra della squadra che non era ormai più in grado di
navigare; le leggere galere, se fatte di legno ben stagionato, se strutturate con pesi ben equilibrati,
specie quelli più gravi costituiti dalla zavorra di ciottoli o ghiaietta o sabbia che si deponeva
ordinatamente sul fondo di cala ai due lati del paramezzale della chiglia o controcarena, dall’albero
maestro con la sua scassa (‘zoccolo’) posta sul detto paramezzale e dall’artiglieria di prua, e se
tenute d’inverno ben protette nei volti dell’arsenale, duravano tranquillamente minimo un decennio,
ma altrimenti il legno troppo giovane marciva in pochi anni e i punti del sottile fasciame soggetti ad
anomale tensioni s’aprivano tanto che non era più possibile risolvere con il solo calafataggio. Inoltre,
se si tenevano all'aperto, il loro fasciame risultava d’inverno inevitabilmente deteriorato
dall'intemperie e dal freddo e d’estate spaccato dal caldo sole; se poi d’inverno erano tenute
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invece ormeggiate, il fasciame ne risultava poi irreparabilmente infradiciato dal mare o roso dalla
bruma; pertanto, come norma generale, nella stagione invernale andavano, come del resto tutti
i leggeri vascelli remieri, conservate al coperto nei loro volti, mentre d’estate si tenevano in acqua
ormeggiate, mentre e si potevano tenere a secco all’aperto solo per il tempo necessario a lavori
di carenamento. La manutenzione era in ogni caso determinante e infatti le galere turche,
mantenute con molto maggior cura dai loro rais (‘capitani’) di quanto fosse usata a quelle dei
cristiani, perché, quando non erano più buone per navigare anche loro perdevano l’impiego,
duravano anche 18 o 20 anni; molto poteva durare anche quindi una galera Reale, perché appunto
tenuta con cura particolare.
Continuavano in quel mentre ad arrivare dalle province del regno nuove reclute negli
alloggiamenti dell’arsenale e alla fine della prima decade d’aprile cominciarono di nuovo le richieste
di soccorsi e i solleciti del governatore di Milano, il marchese di Leganes, il quale non voleva farsi
trovare impreparato dalla prossima apertura della nuova campagna bellica in Alta Italia, e
quindi richiamava a Milano anche il napoletano Paolo Spinola, marchese de los Balbases, duca
di S. Severino e Sesto, il quale si era sempre dimostrato buon comandante, intendente di cose
militari.
Martedì 20 aprile partirono le tartane che portavano in Catalogna mille fanti suddivisi in
dieci compagnie (‘tutti buona gente’) con il loro mastro di campo principe di Macchia, il quale
conduceva dunque così in Catalogna non solo dei rimpiazzi per l’ex-Pappacoda, come si era
inteso in un primo momento, ma un nuovo terzo intero; si diceva che questo convoglio, il
quale portava anche molte munizioni da guerra e attrezzature militari, poiché non era scortato
da legni armati, non essendocene in quei giorni di disponibili, avrebbe navigato d’isola in isola
in modo da prender lingua del nemico, ossia raccogliere informazioni dell'eventuale presenza
in mare di vascelli prima d’inoltrarsi. Purtroppo verso la fine del viaggio una delle tartane,
incappata in uno scoglio nei pressi di Barcellona, affonderà portandosi negli abissi marini due
intere compagnie di soldati e i marinari per un totale di circa 160 uomini.
Restavano in arsenale a Napoli ancora 600 fanti di nuova leva, dai quali si poté così
trarre alcune altre nuove compagnie per rinforzo dei Presidi di Toscana, le quali la sera di
sabato 8 maggio furono imbarcate su tre galere di Napoli e quella stessa notte salparono per
Porto Longone; queste galere faranno ritorno venerdì 28 maggio. La notte di domenica 6
giugno partì per la Spagna anche la squadra di galere del regno, la quale, comandata dal
cuatralbo Lorenzo Villa Vincenti (o di Villavincencio), si unì in Sardegna a quella di Sicilia; tra
il lunedì 21 e il sabato 26 dello stesso mese salpò quella del duca di Tursi per la medesima
destinazione. Ambedue le squadre portavano un buon numero di soldatesca spagnola e
regnicola destinata a consumarsi nel sanguinoso conflitto di Catalogna, dove il 27 seguì
l’importante battaglia di Palamós vinta dai francesi, i quali, sotto il comando del duca di
Noailles, avevano in precedenza passato il confine e pertanto gli anglo-olandesi avevano
inviato una flotta nelle acque catalane a evitare che Barcellona cadesse in potere di Luigi XIV,
mentre con una seconda squadra navale bombardavano pesantemente i porti settentrionali
della Francia e tentavano, però inutilmente, d'impadronirsi di Brest. Poco tempo dopo i
francesi prenderanno Girona.
Il cronista delle predette spedizioni in Catalogna scrive che con le nuove leve reclutate
ancora disponibili il viceré avrebbe potuto formare più di un altro terzo e a breve ne sarebbero
infatti stati nominati anche i comandanti; e ciò non ostante il gran numero di soldati mandati,
non solo in Spagna, ma anche a Milano, gran numero che si capisce dalla seguente
corrispondenza da Torino del 10 luglio:
Sono giunti (dal Milanese) gli spagnuoli consistenti in 14 terzi, (di cui) 5 effettivi spagnuoli e
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lombardi, uno vittemberghese e il resto napoletano, e fanno in mostra 10mila huomini e in
armi 8mila. I cavalieri sono 3mila…
In quel mentre, prima della metà di giugno, era partito per militare in Fiandra il mastro di
campo Domenico Acquaviva d'Aragona dei conti di Conversano. Gli ufficiali napoletani
all'estero continuavano a segnalarsi e infatti nell’ottobre il mastro di campo Ferrante o
Fernando Pignatelli sarà promosso sargente generale di battaglia dell’esercito di Catalogna e
il tenente di mastro di campo generale Eustachio Brancaccio guidava prima in Fiandra un
reggimento di 600 dragoni spagnoli e in seguito un terzo di fanti napoletani in Catalogna,
regione da cui farà ritorno a Napoli alla metà di maggio del 1695; Tomaso Pallavicino dei
duchi di Castro era invece allora capitano generale dell'armata reale dell'oceano del sud, altro
comando raro e prestigioso per un italiano, e nello stesso 1694 moriva il napoletano fra’
Fabrizio Ruffo mentre comandava in Spagna il trozo chiamato Milano.
Martedi 29 giugno galere pontificie che si trovavano in sosta a Napoli partirono per
Messina, probabilmente per attendervi la famosa annuale fiera estiva delle sete e farne buon
carico, ma furono respinte a Castell’a Mare dai venti contrari e poterono ripartire solo dopo
qualche giorno d’attesa.
(Napoli 6 luglio:) Sono giunti a questo viceré altri ordini della corte di Spagna d’ammassar
denari per li correnti bisogni di Catalogna e sollecita anco il governatore di Milano le solite
rimesse (A.S.V. Nun. Nap. 118).
Napoli era dunque per gli spagnoli, dopo l’America, il loro secondo inesauribile forziere;
come potranno nel 1707 darsi così poco da fare per non perderla? Si mandarono in quei
giorni ordine agli ufficiali del Battaglione di visitare le loro compagnie e di tenerle pronte per
ogni occorrenza, mentre nell’ultima decade di luglio giungevano a Napoli per reclutare le loro
compagnie alcuni capitani regnicoli che militavano nel Milanese e le province continuavano
ad arruolare gente per i rimpiazzi dei due terzi italiani che operavano in Catalogna e che
avevano perso molti uomini; tali rimpiazzi saranno sollecitati dalla Spagna con lettere
dell’inizio di settembre.
All'inizio d'agosto piccole imbarcazioni ben armate e guarnite di milizie furono spinte nei
mari del regno per contrastare le attività dei corsari nemici; nella seconda metà dello stesso
mese due legni barbareschi fecero schiave 14 persone a Ventotene, inclusi sei facinorosi
ischitani che in quell’isola avevano trovato rifugio.
(Napoli, 31 agosto:) Li ministri della Regia Camera hanno pronta un’altra rimessa di 60mila
ducati per sussidio dello Stato di Milano e si ammassano diverse provisioni di guerra in
quest’arsenale per servizio del signor duca di Savoia (ib.)
Verso il 10 settembre arrivò a Napoli da Alicante una tartana che portava una
compagnia di fanti coscritti spagnoli comandati dal cap. del terzo fisso di Napoli Bartolomé
Baldazano, il quale, munito d’apposita patente rilasciatagli dal viceré, era andato appunto in
Spagna ad arruolarla. Domenica 26 settembre due tartane cariche di polveri piriche, bombe,
granate e altri strumenti bellici per il duca di Savoia (in conto del sovvenimento dovutogli da
questa Regia Camera) salparono alla volta di Finale Ligure. A ottobre 400 fanti spagnoli
erano pronti nel Napoletano per essere impiegati nella tradizionale guarnigione delle galere
del regno, 800 fanti regnicoli di nuova leva erano invece nell’arsenale, in maggioranza
destinati alla campagna di Catalogna, anche se non si disponeva al momento di legni per il
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loro trasporto, mentre invii di soldatesche e di denaro erano in previsione anche per lo Stato
di Milano; in una corrispondenza da Genova del 9 ottobre si segnalava infatti il passaggio di
due barche napoletane cariche di munizioni da guerra e dirette a Finale e forse queste
imbarcazioni portavano pure soldati, giacché un documento milanese del 12 settembre
accenna a due compagnie di fanteria ultimamente giunte da Napoli. La grande esportazione
di milizie di questo 1694 trova anche adeguato riscontro nei partiti del vestiario; c'è per
esempio un partito di 300 vestiti violetti e un altro fatto nel novembre per ben 2mila abiti
turchini per fanti napoletani, a cui ne furono aggiunti altri 202 per soldati pure regnicoli che in
quel tempo stavano di guarnigione sulle galere dei particolari genovesi. Da un documento
dell'Archivo General de Simancas risulta inoltre che il predetto governatore di Milano, il
marchese de Leganes, nella seconda metà dell'anno aveva inviato rinforzi al duca di Savoia,
il quale gliene aveva fatto richiesta a causa del pericoloso passaggio di reggimenti imperiali
dalle sue parti, e si trattava di 300 spagnoli ed 800 napoletani. Nell'ottobre alla mostra
dell'esercito di Milano risultarono ancora il terzo del di Francia, ora della forza di 848 fanti, e
nove compagnie di cavalleria napoletana che raggiungevano un totale di 494 uomini.
La mattina di lunedì 18 ottobre Camillo di Dura duca di Erchie (cavaliere napolitano di
gran valore, prudenza e bontà) partì per Roma, dove si trasferiva a esercitare la carica di
mastro di campo generale dell’esercito ecclesiastico conferitagli da papa Innocenzo XII. In
seguito, la sera di sabato 18 dicembre, giungerà un corriero straordinario dal governatore di
Milano con un messaggio al mastro di campo generale Fernando Gonzales de Valdés, figlio
naturale di Filippo IV, nel quale lo si informava che Carlo III lo aveva nominato governatore
del castello di Milano; in verità si trattava d’una carica formalmente inferiore, ma sicuramente
il sovrano aveva previsto i modi retributivi per risarcirlo.
Tra la fine d’ottobre e l’inizio di novembre compagnie di fanteria spagnola e una di 100
fanti di nuova leva furono inviate di rinforzo alla fortezza di Porto Longone e poi dopo qualche
giorno si distribuirono patenti per la formazione d’un altro terzo di fanteria destinato anch’esso
a rinforzare le guarnigioni dei Presidi di Toscana, dove negli ultimi tempi c’era stata, come
abbiamo già detto, una notevole mortalità di soldati; altre patenti per la leva di ulteriori 500
fanti da inviarsi nei detti Presidi saranno poi distribuite alla fine della seconda settimana di
dicembre.
L'ultimo avvenimento militare di rilievo del 1694 a Napoli sembra sia stato l'arrivo, nella
prima metà di dicembre, di due compagnie di fanti spagnoli da Valenza in Spagna (tutta bella
e scelta gente), destinate presumibilmente al reclutamento del terzo fisso del mastro di campo
Espluga, e si trattava con ogni probabilità delle compagnie andate a reclutare in Spagna dai
capitani Andrea Urziz y Caz e Francisco de la Manca, mentre alla ricerca di spagnoli da
reclutare che fossero già in regno si metterà l’anno seguente il cap. Christóval de Ybarra.
In Catalogna In quel mentre il maresciallo de Noailles aveva sconfitto il 27 maggio il
duca d’Ascalona nella battaglia del fiume Ter ed era così avanzato sino a prendere Gerona e
altri importanti centri abitati; sul mare invece prevaleva l’armata anglo-olandese, la quale,
dopo aver pesantemente bombardato le maggiori città costiere della Francia nordoccidentale, aveva ricevuto ordine di spostarsi nel Mediterraneo, costringendo le forze navali
francesi a rifugiarsi a Tolone e a togliere il loro supporto al Noailles, il quale quindi, a sua
volta, era dovuto arretrare di molto le sue posizioni in Catalogna.
1695. All’inizio di gennaio, per mancanza di legni più grossi, furono imbarcati su otto feluche
50 fanti e un capitano di nuova leva e spediti a Finale, da dove avrebbero proseguito via terra
per lo Stato di Milano.
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(Napoli, 11 gennaio:) Molti soldati napoletani che, disertando dall’esercito di Catalogna, erano
ritornati in questa città, sono stati condannati alla galera (A.S.V. Nun. Nap. 119).
Nella terza settimana di febbraio si cominciò a carenare e a provvedere del necessario
la squadra di galere di Napoli, appena ritornata, per renderla così al più presto pronta a ogni
esigenza:
… La difficoltà maggiore sarà in ritrovar la ciurma per esserne perita una gran parte nella
navigazione della passata campagna (ib.)
Qui, non essendoci stati nei mesi precedenti né grandi battaglie marittime né importanti
ammutinamenti, si era trattato certamente delle solite epidemie che, in ambienti così ristretti e
sovraffollati quali erano appunto le galere, purtroppo non mancavano mai; la
somministrazione di acqua spesso infetta e di cibi talvolta avariati, le conseguenti dissenterie,
la quasi inesistente igiene post-defecatoria, provocavano frequenti infezioni coleriche, alle
quali s’aggiungevano quelle, ancora più frequenti, dovute all’esposizione alle intemperie (i
remieri dormivano all’aperto in coperta, protetti di notte da una grande tenda). Mentre l'Europa
faceva preparativi di guerra per il teatro dell'Italia settentrionale, nel regno si ripresero
intensamente le leve e a Napoli s’andava facendo preda di vagabondi da reclutare per la
Catalogna, dove la guerra era già in corso:
Si vanno tuttavia prendendo per la Città persone disutili e vagabonde per servire la guerra e si
portano nell'arsenale per lo bisogno di soldatesca che vi è particolarmente alla guerra che fa il
Francese nella Catalogna (D. Confuorto, Gior.)
Era difatti molto importante in quel tempo poter dimostrare o fingere di avere un lavoro e
di non farsi trovare da birri e reclutatori a ciondolare oziosamente per la città. Nella terza
settimana di febbraio nell’arsenale le reclute rinchiuse nell’arsenale avevano raggiunto già il
numero di 800. C’è da chiedersi come si facesse nelle campagne del regno, dopo lunghe o
ripetute guerre, a reperire braccianti per i raccolti, ma la verità è che, soprattutto per questo
motivo delle incessanti leve militari, ai lavori dei campi erano adibite soprattutto le donne,
come del resto, seppure sotto la guida di caporali maschi, anche a quello gravosissimo del
trasporto di corbe di terra per la costruzione dei terrapieni militari.
Il Confuorto giustifica questo modo di reclutare asserendo che molti dei giovani poveri
così razziati dai birri in fondo se lo meritavano, poiché si trattava di persone indigenti non per
costrizione, ma per la loro poltroneria e il non voler lavorare; in realtà a Napoli c'era in quei
tempi lavoro per tutti, trattandosi di una città operosa e fortunata dove tutte le arti e tutti i
mestieri erano praticati, e quando proprio un’attività stabile non si fosse riuscita a trovare un
giovane poteva sempre fare il lazzarone, ossia uno che dormiva per strada od in una barca
sulla spiaggia e sbarcava il lunario facendo del facchinaggio spicciolo. E’intuibile che corpi
militari costituiti da simili elementi e da briganti accordati dovessero essere governabili
sicuramente solo con l'aiuto delle punizioni corporali, le quali allora erano di prassi comune
sia nell'esercito sia in marina, e non potevano certo diffondere all'estero una buona fama dei
napoletani, inconveniente questo che dura purtroppo ancor oggi. Quest'ultima leva forzata
doveva aver dato i suoi buoni frutti se un avviso da Milano del 4 maggio informava che 800
soldati da poco arrivati da Napoli erano stati distribuiti tra i terzi napoletani e spagnoli che
facevano parte dell'esercito di Lombardia.
Lunedì 7 marzo furono rassegnati nell’arsenale 700 coscritti e poi, imbarcati su alcune
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tartane, dopo qualche giorno partirono per la Catalogna; ne restavano altre quattro
compagnie, le quali però sarebbero servite per rinforzare Porto Longone e Port’Ercole. Si
distribuivano frattanto altre patenti di leva e, poiché i capitani nominati, trovavano ormai
difficoltà a reperire volontari, si andavano arrestando con la forza le solite persone inutili e
vagabonde; si sollecitarono inoltre i presidi delle province perché inviassero scrupolosamente
a Napoli tutti i condannati, dovendosi completare le ciurme delle galere, le quali, come da
ordine reale, sarebbero dovute salpare per Barcellona nella prima settimana di maggio. La
sera di lunedì 28 dello stesso marzo, essendo pronti nell’arsenale altri 500 fanti di nuova leva,
furono imbarcati su quattro tartane per passarli a Finale Ligure e poi a Barcellona per la
recluta dei due terzi italiani che colà operavano e già dopo un solo mese ne saranno stati
raccolti ulteriori 500 nel suddetto arsenale, dove pure si continuavano ad ammassare
munizioni da guerra per lo Stato di Milano e per il duca di Savoia.
Nella seconda decade di maggio arrivò da Barcellona con viaggio veloce di pochi giorni
una barca che portò conferma di una ferale notizia e cioè del naufragio di una grossa tartana
napoletana, una cioè delle suddette quattro che avevano lasciato Napoli il 28 marzo
precedente, con perdita di tutte le soldatesche che vi erano state imbarcate. Guerre,
epidemie, naufragi, solo diversi ufficiali maggiori e generali e qualche soldato disertore
riuscivano a ritornare in regno e a rivedere le loro case!
Nello stesso maggio galere napoletane, partite dai Presidi di Toscana sotto il comando
di Marino Carafa bloccarono e presero l’isola di Ponza, la quale era in quel tempo proprietà
del duca di Parma, ed il cui governatore, un calabrese, aveva dato asilo a un corsaro
francese e cannoneggiato le galere napoletane quando queste precedentemente si erano
avvicinate per catturarlo; tolta quindi l’isola al Farnese, il Carafa vi pose di guarnigione una
compagnia di fanti spagnoli. La notte di sabato 28, sempre di maggio, scortate dalle otto
galere di Napoli condotte dal loro capitano generale Beltrán de Guevara duca di Nájera,
salparono dal porto della capitale per la Catalogna 11 tartane cariche d’altre 500 nuove
reclute regnicole che stavano nell’arsenale:
Questo Eccellentissimo signor Vice-Ré, doppo aver fatto ridurre a perfezzione lo scritto terzo
di mille fanti italiani, tutta scelta e bella gente, avendo fatto dar loro armi e abiti nuovi, li fe'
partire sabato trascorso sopra ben corredati legni sotto il comando del consaputo maestro di
campo don Domenico Caracciolo della Torella…
C'è qui da notare il termine maestro usato, alla spagnola, al posto di mastro, questo
invece italiano. Le suddette tartane portavano inoltre viveri, munizioni e denaro per l'esercito
di Catalogna, il quale, con l’appoggio dell’armata di mare inglese comandata dall’ammiraglio
Russel, combatteva allora contro quello francese; le galere portavano invece soldatesca
spagnola e attrezzature militari a Genova, dove arriveranno il giorno 11 giugno, anche per
attendere colà d’imbarcare in cambio 200 condannati al remo spediti proprio in quei giorni
dalla Lombardia, come da avviso da Milano del giorno 16, galeotti che avrebbero poi dovuto
recare alle galere del duca di Tursi che si trovavano in Spagna; infatti i forzati provenienti
dallo Stato di Milano erano tradizionalmente riservati a quella squadra e le galere napoletane
non erano autorizzate a servirsene. In realtà, quando, dopo qualche giorno, detti forzati
arrivarono a Genova, furono sì immediatamente imbarcati sulle dette galere per essere
passati a Barcellona, ma non erano 200, bensì solo 95; era errato quel numero di 200
avvisato da Milano o ce n’era stata una spaventosa moria lungo la strada? Le dette galere
arriveranno a Barcellona l’8 luglio.
A fine giugno furono inviate in più riprese ai magazzini militari della piazza di Finale
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quattro barche, in questo caso le solite tartane, cariche di bombe, granate, polvere da sparo e
altre provvisioni militari per l'esercito alleato che campeggiava sotto Casale in Piemonte,
fortezza occupata dai francesi, ma che Vittorio Emanuele di Savoia riuscirà a riprendersi,
arrendendoglisi la stessa il 9 luglio, riacquisto a cui parteciperà il solito terzo napoletano
d’Antonio di Francia, mentre per via di terra si mandavano 25mila scudi per mezzo di un
corriero espresso; le quattro suddette barche, le quali non arriveranno a Finale prima
dell’inizio d’agosto, saranno scortate colà da due galere sarde che proseguiranno poi per la
Catalogna. La fondizione di bombe e granate avveniva nelle ferriere di Stilo in Calabria; da lì
le s’inviava alla polveriera di Torre dell’Annunziata, dove le si riempiva generalmente di
polvere, misture incendiarie e mitraglia e dove le si muniva di miccio (oggi diremmo ‘spoletta’);
poi le si trasferiva all’arsenale dove s’immagazzinavano in attesa di spedirle ai teatri di guerra
esteri.
Frattanto il 10 giugno i veneziani avevano frattanto conseguito una grande vittoria sui
turchi nei pressi di Argos in Grecia; in Fiandra invece l'esercito francese, comandato ora dal
duca di Villeroi, era all’offensiva e bombardava terribilmente e molto riprovevolmente
Bruxelles con i suoi famosi e tremendi mortari, distruggendo gran parte della città, e ciò per
controbilanciare l’assedio di Namur, la quale però cadde egualmente, riconquistata da
Guglielmo III d'Orange re d'Inghilterra il 5 settembre con opere d’assedio condotte dal famoso
ingegnere militare Menno von Coehoorn; dal canto suo la flotta inglese bombardava il porto
francese di Saint Malo in Normandia. Ebbero invece la peggio i transalpini in Piemonte, dove
l’11 luglio s’arrese al nemico la piazza di Casale, uscendone il presidio francese con otto
cannoni e a tutte le altre solite condizioni onorifiche. La notizia di questa importante vittoria fu
portata a Napoli da una feluca inviata dal residente di Spagna a Genova e arrivata in soli
quattro giorni di veloce navigazione; fu poi presto confermata ufficialmente da un mastro di
campo appositamente inviato dal governatore di Milano e giunto la mattina di mercoledì 20
luglio; il viceré fece subito cantare un Te Deum di ringraziamento nella Chiesa del Carmine
Maggiore.
Sono della seconda metà di agosto le prime notizie che davano in corso a Baia la
costruzione d’un grande vascello da guerra, costruzione insolita per i cantieri partenopei,
tradizionalmente esperti in vascelli remieri e latini, ma non in grandi vascelli a prevalente vela
quadra, cioè quelli che sino a non molti anni prima si era usato chiamare vascelli tondi, data la
somiglianza che si vedeva tra il garbo del loro scafo e il corpo del pesce tondo (‘tonno’); certo
c’era stato il napoletano Sant’Antonio che aveva partecipato alla guerra di Messina, ma non
c’è memoria che fosse stato costruito nei cantieri del regno e non piuttosto acquistato
all’estero, come allora già correntemente s’usava. Certamente richiesto dalla corte di Madrid
per sfruttare maggiormente le risorse finanziarie del regno, si diceva che fosse da 50 cannoni,
ma in realtà, come presto vedremo, sarà da 80.
Come ogni anno, mercoledì 7 settembre si commemorò a Napoli la grande vittoria
cattolica di Nördlingen e il dí seguente la ricorrenza della Natività della Madonna in tutte le
chiese, ma specialmente in quella di Piedigrotta, giorno festivo che fu però angustiato da tre
forti e spaventose scosse di terremoto, come ricorda il già menzionato Operti; in quegli stessi
giorni arrivava a Napoli una tartana che portava una compagnia di fanteria spagnola reclutata
dal capitano Bartolomé Baldazano, il quale ne aveva ricevuto patente dal viceré; poco dopo
200 fanti italiani furono inviati alle piazze di Toscana in rinforzo di quei presidi, i quali
costituivano il principale baluardo anti-francese di tutto il Tirreno e nell'anno 1700 risulteranno
formati da una guarnigione complessiva di 1.300 uomini. Verso la metà di settembre arrivò
l’alcance (‘corriere straordinario di Spagna’) con la notizia della suddetta caduta di Namur,
vittoria considerata così importante da esser festeggiata a Napoli per un’intera settimana.
224
A metà ottobre si dettero altre patenti per assoldare altri 500 uomini da inviare ai soli
Presidi di Toscana, perché, per quanto riguardava la Catalogna, le perdite in questa
campagna erano state poche e cioè solo pochi uomini morti d’infermità, e nell’ultima decade
dello stesso mese furono imbarcate per Porto Longone altre compagnie di nuova formazione
che si trovavano nell’arsenale e che dovevano dare il cambio a quelle che già servivano in
quella piazza; queste ultime, addestrate se non alla guerra, perlomeno alla vita di presidio e
di conseguenza alla subordinazione militare, dovevano infatti essere inviate in Catalogna; ma
già altre leve erano in corso, anche se i giovani utili incominciavano ormai a scarseggiare:
(Napoli, 8 novembre:) Si è dato già principio a formare diverse compagnie di soldati per
rinforzare i Presidii di Toscana e, per la poca gente che si trova, hanno avuto ordine i capitani
di assoldare anco con la forza i forastieri vagabondi e le persone inutili di questa città (A.S.V.
Nun. Nap. 120).
Domenica 30 ottobre era frattanto arrivato al viceré un tradizionale tributo che la
repubblica dalmata di Ragusa (oggi Dubrovnik) doveva ogni anno al sovrano delle Spagne e
si trattava di 12 bellissimi falconi da caccia.
La sera di domenica 27 novembre tornò a Napoli Giuseppe Dazza, incontrato da alcuni
eleganti tiri a sei di principali ufficiali generali di Napoli; egli era stato di recente giubilato dal
suo lungo incarico di generale della cavalleria leggera dello Stato di Milano ed ottenuto dal re
la carica di mastro di campo generale a Napoli, il che significava aver concesso a
quest'ottuagenario ufficiale napoletano di chiudere nella sua città natale la sua valorosa
carriera e contemporaneamente la sua vita; la nomina ufficiale arriverà solo nel luglio
successivo, ma il suo nuovo stipendio già decorreva e lo dimostra un documento di cassa
militare (A.S.N. Tes. An. fs. 143) che riporta un esborso di 550 ducati per suo soldo del mese
di dicembre del 1695, uno stipendio grosso davvero e pari a quello che aveva goduto il
predecessore del Dazza, ossia il mastro di campo generale Fernando Gonzales de Valdés, il
quale - com'anche risulta dalla predetta cassa militare - lo aveva ricevuto ultimamente per il
trimestre gennaio-marzo dello stesso 1695, aggiungendosi a questo ducati 247.2.10 mensili
per suoi alimenti.
Al Dazza, in qualità dunque di nuovo commissario della cavalleria leggera dello Stato di
Milano, era nel mentre subentrato il napoletano Gaetano Coppola, carica che era terza per
importanza nella detta cavalleria dopo quelle di generale e di tenente-generale; il Coppola
sarà in seguito nominato tenente generale della cavalleria straniera e poi sargente generale
di battaglia, grado molto alto, a cui, come vedremo, la sua prestigiosa carriera nemmeno si
fermerà.
Furono alla fine dell’anno dispensate ancora altre patenti di leva di compagnie da inviare
stavolta nello Stato di Milano, mentre erano ormai pronte nell’arsenale le reclute per la
Catalogna.
1696. Verso il 20 gennaio morì a Napoli un vecchio e valoroso soldato, il sargente generale di
battaglia barone Vincent Misnot di nazionalità fiamminga, il quale aveva servito
ragguardevolmente la Corona per lunghi anni; fu sepolto nella chiesa dei Padri Predicatori al
Monte di Dio. Sabato 21 dello stesso mese quattro galere della squadra del regno partirono
per dar la muta ai presidi delle fortezze di Toscana, dove portavano a tal scopo nove
compagnie di fanti spagnoli del terzo fisso, e fecero ritorno sabato successivo con le
soldatesche sostituite; ancora quattro galere, probabilmente le stesse, partirono lunedì 7 del
mese successivo, cariche anch'esse di fanti spagnoli, stavolta per mutare il solo presidio della
225
real piazza di Longone, e tornarono dopo il 20; verso il 25, comandate dal capitano Rossetti,
arrivarono anche quattro galere del duca di Tursi provenienti dalla loro base di Gaeta, dove
erano state appena spalmate, e all’inizio del mese seguente, poiché si vociferava che la flotta
francese del Mediterraneo avesse preso il mare, queste portarono, ancora a Porto Longone,
ben 12 compagnie di sperimentati spagnoli, cioè in tutto 540 soldati e 30 ufficiali, più un
mortaro, due cannoni, abbondanti munizioni da guerra e da bocca e altre attrezzature
belliche; il che fa ritenere che a questo punto la maggior parte del terzo fisso di Napoli fosse
stato schierato a difesa dello Stato dei Presidi e quindi non sembra dunque un caso che il
nunzio pontificio prenda adesso a dire Marino Carafa commissario generale delle piazze
spagnuole in Toscana; le galere del duca di Tursi faranno ritorno a Napoli domenica 18
marzo.
In quel mentre lunedì 6 febbraio era morto un altro famoso militare, stavolta però
napoletano e dei più celebri del suo tempo; si trattava del più volte già nominato generale
dell'artiglieria del regno Marzio Origlia duca d'Arigliano, cavaliere di Calatrava e nobile del
Seggio (‘sesto cittadino’) di Capuana; fu sepolto privatamente nella chiesa privata della sua
famiglia a Monte Oliveto; con lui s’estingueva una delle più nobili famiglie napoletane.
Presumibilmente per andare a richiedere il posto dell’Origlia, verso la fine della prima decade
di febbraio partì per le poste alla volta di Madrid Restaino Cantelmo principe di Pettorano ora
anche nuovo duca di Popoli e quindi doveva in quel mentre esser morto il fratello che aveva
portato sinora quel titolo; infatti all’inizio del giugno seguente giungerà notizia a Napoli che il
re gli aveva conferito il detto generalato.
Alla metà di febbraio arrivò a Napoli da Vienna un altr'ufficiale che faceva onore alla sua
patria e cioè il tenente colonnello di cavalleria Paolo Carafa duca di Bruzzano, il quale,
trovandosi al servizio cesareo, aveva partecipato ai più recenti fatti d'arme contro i turchi
nell'Europa orientale.
Con avviso di Livorno pubblicato a Genova il 18 febbraio si seppe che il padrone
napoletano Grattacascio, comandante di una grossa barca armata a corso, si trovava
ormeggiato a Livorno quando, vedendo partire da quel porto neutrale una barca francese che
andava a Tripoli a portarvi alcuni schiavi riscattati, era salpato anch'egli e, raggiunta al largo
l'imbarcazione francese, l'aveva impegnata in un ostinato combattimento con morti e feriti
d'ambo le parti; alla fine l'aveva catturata e sembra che avesse già catturato in precedenza un
vascello corsaro inglese, ma ritroveremo forse più avanti le gesta di quest'intraprendente
corsaro napoletano.
Domenica 11 marzo s’incamminò verso i confini del regno la compagnia di corazze della
guardia comandata da Nicolò Coppola di Canzano, mentre l’altra, capitanata da Partenio
Petagna principe di Trebisacce, accompagnava il conte di San Estévan a Gaeta; tutti
andavano a ricevere il nuovo viceré e capitano generale del regno di Napoli, il cui nome
completo -ricavabile dalla locandina d’una rappresentazione teatrale romana del tempo data
in suo onore - era Luis Francisco de la Zerda y Aragón, Enriquez Afán de Ribera, Ramón
Folch de Cardona, olim Fernandez di Córdoba, marchese di Cogolludo e duca di Medinaceli e
d’Alcalà, conte di Ampurias ecc., cameriere di Sua Maestà, il quale era stato un tempo, come
già sappiamo, capitano generale delle galere di Napoli e in seguito ambasciatore di Spagna a
papa Innocenzo XII, arrivava ora via terra da Roma e un po’ improvvisamente, perché
privatamente; ciò nonostante la detta cavalleria l’avrebbe poi ugualmente scortato fino a
Napoli insieme alla compagnia di alabardieri svizzeri, i quali però, essendo dei fanti, si erano
limitati ad andare ad aspettare il nuovo venuto a Sant’Antonio Abbate. Il Medinaceli arrivò a
Napoli martedì 20 e fu alloggiato a Pozzuoli nel palazzo detto di Don Pietro; recatosi poi a
palazzo in forma privata a contraccambiare l’accoglienza ricevuta a Capua dal viceré uscente,
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il conte di San Estévan, costui gli rinnovò presto l’omaggio recandosi alla predetta dimora di
Pozzuoli dove però aveva già inviato al nuovo viceré una compagnia di guardia (gareggiando
questi gran personaggi tra di loro negli atti di galanteria, generosità e compitezza. Avvisi di
Napoli).
In quei giorni un avviso genovese del 17 marzo informava esser colà arrivato lunedì
precedente un picciol vascello - con ogni probabilità una tartana, da cui erano sbarcati a
Finale 256 soldati venuti da Napoli e da Porto Longone.
Mentre ancora finivano di giungere a Napoli le ben nove tartane che portavano il
bagaglio del nuovo viceré, includente un treno di tre splendide carrozze che erano che le più
belle e ricche che si fossero mai viste, lo stesso duca di Medinaceli già firmava la
concessione di patenti per una leva di altri 500 fanti regnicoli per le fortezze di Toscana,
considerandosi allora le stesse particolarmente esposte al nemico francese, e ordinava che si
rivestisse immediatamente di nuovo tutta la fanteria spagnola; mercoledì 4 aprile il conte di
San Estévan lasciava Napoli con la sua famiglia per tornarsene in Spagna e raggiungeva
Gaeta, portatovi da cinque galere dei particolari genovesi, le quali furono presto seguite dalle
altre due galere della stessa squadra con il resto dei suoi famigli; bisogna pensare che il
numero delle persone al seguito di questi personaggi era elevatissimo, per esempio nel corso
dello stesso mese d’aprile, proveniente dalla Spagna e diretto a Palermo, passerà per
Genova il duca di Veraguas, nuovo viceré di Sicilia in sostituzione del duca di Uzeda, con una
famiglia di più di cento persone! Con le suddette altre due galere partì pure il reggente della
Gran Corte della Vicaria Francesco Marciano che si recava anch’egli a Madrid, ma per
prender possesso del suo nuovo incarico di membro del Supremo Consiglio d’Italia; questi
sarà sostituito da un militare e cioè dal mastro di campo spagnolo Martín de Castrejon,
usandosi allora correntemente impiegare alti ufficiali militari, ormai troppo anziani per
continuare a esercitare la milizia, in posti molto elevati dell'amministrazione civile del regno e
ciò anche a titolo di riconoscimento dei meriti di servizio accumulati nel corso della carriera
militare.
Non appena il tempo fu di nuovo favorevole, il che avverrà solo dopo Pasqua, le dette
sette galere del duca di Tursi proseguirono con la ex-viceregina e tutta la sua famiglia per
Civitavecchia, da dove dovevano con l’occasione rimorchiare a Genova un buco (‘uno scafo’)
di galera, e poi appunto per la Liguria, dove arriveranno non prima del mercoledì 9 maggio
insieme a sei grosse barche, presumibilmente tartane, cariche del bagaglio dei San Estévan;
In quel mentre infatti il conte, per anticipare appunto i non favorevoli tempi marittimi e poter
far fronte così a suoi ulteriori impegni in Italia, aveva lasciato i suoi e proseguito via terra
verso Roma. A Genova il San Estévan e tutti i suoi sarebbero stati ospitati dal duca di Tursi
nel suo palazzo e già lo si stava appunto preparando a tal scopo; egli si era inoltre anche già
premurato d’ottenere da quella Signoria altre due galere per poter continuare, con queste e
con le suddette barche del bagaglio, il suo viaggio verso Barcellona costeggiando la Francia,
percorso per cui già si era ottenuto anche il necessario lasciapassare dal Re Cristianissimo.
Singolari queste cortesie tra regnanti anche quando erano in procinto di farsi la guerra! Infatti
le due monarchie si stavano già allora preparando a un nuovo, imminente conflitto in
Catalogna e in Alta Italia.
All'inizio d'aprile il nuovo viceré duca di Medinaceli conferì anche la capitania di una
delle due compagnie di corazze della guardia appena lasciata vacante dal predetto principe
Partenio Petagna e la detta al cavaliere gerosolimitano commendator fra’ Ventura Saracini,
mentre dell'altra rimaneva capitano Nicolò Coppola; capitano degli alabardieri svizzeri della
guardia era invece in quel tempo ancora il marchese Pompeo Azzolini e suo tenente il
cavaliere di San Giacomo Pietro Santa Colomba.
227
Alla fine della prima decade d'aprile dalle province del regno arrivarono nella capitale
due catene di condannati al remo per vari delitti per un totale di una cinquantina di forzati e si
diceva che il nuovo viceré intendesse rinfoltire le ciurme delle galere facendo arrestare più
furbi e ladri che fosse possibile; infatti lo stesso Medinaceli aveva ordinato il celere
allestimento della squadra del regno e aveva dato disposizioni perché si condannassero alla
voga forzata tutti i ladri e i malviventi che si riuscisse ad arrestare, perché si fosse così in
grado di portare tutta l'assistenza possibile alle truppe regie in Piemonte e Lombardia od
anche a Barcellona in vista della nuova prossima campagna contro la Francia:
(Napoli, 17 aprile:) Continuano in tanto a capitare in questa dominante da diverse provincie
del regno catene di condennati per vari delitti al maneggio del remo e ogni giorno qui cadono
in potere della giustizia furbacchiotti che giuocano di mano per ricevere castigo adeguato a
loro delitti, volendo in ogni conto Sua Eccellenza estirparli tutti (A. di Costanzo).
Per giocatori di mano s’intendevano probabilmente i tanti che si guadagnavano da vivere
imbrogliando per le strade la gente con giochi di destrezza, quale per esempio l'ancora
praticato giuoco delle tre carte.
Nella seconda decade del mese fu ordinata anche la leva di alcune compagnie per
riempire i vuoti determinatisi ultimamente nel terzo napoletano di Catalogna.
Sabato 21 aprile, a quanto ricorda l’Operti nella sua già più volte citata relazione, ci fu a
Napoli un inizio di sommossa popolare, di cui però non spiega né gli aspetti né le motivazioni;
il giorno seguente ci fu la cavalcata pubblica di due viceré, quello entrante e quello uscente,
accompagnati dalle due compagnie di cavalli corazze della guardia con i loro suddetti capitani
Coppola e Saraceni, dagli alabardieri guidati stavolta da due capitani e cioè il marchese
Pompeo Azzolini e uno spagnolo, certo Tenendo (sic), dal cavallerizzo maggiore e da un
numeroso seguito di palafrenieri e lacchè; nella stessa domenica 22 il Medinaceli fece
rimettere 50mila scudi al governatore della Lombardia, il marchese di Leganes, da spendersi
per le occorrenze della guerra, ossia un ennesimo di quei ricorrenti sussidî in denaro che,
unitamente a quelli in uomini e armi, Napoli inviava a Milano da più di un secolo e mezzo. Poi
ci fu la partenza dell'ex-viceré conte di San Estévan e della sua famiglia, portati da cinque
delle sette galere del duca di Tursi prima a Gaeta e poi a Genova, mentre i loro bagagli,
includenti un treno di carrozze tant'opulento da essere famoso, viaggiavano su ben nove
tartane.
All'inizio di maggio capitò a Napoli il conte de Aguilar, mastro di campo del terzo fisso
spagnolo di Lombardia e governatore di Novara, il quale stava facendo un giro per l'Italia,
viaggio che non sappiamo se avvenisse in forma privata o pubblica né, nel secondo caso, con
quale mandato; ripartirà la sera di lunedì 7 maggio. In questi giorni poi, essendosi inteso che
qualche legno corsaro turchesco e francese andava infestando le acque delle riviere del
regno, il viceré aveva fatto provvedere di munizioni da guerra e da bocca quattro galere
napoletane e lo stesso predetto giorno 7 le fece salpare in traccia di tali corsari sotto il
comando del cuatralbo della squadra Lorenzo de Villavincencio. A proposito di questo grado
di cuatralbo, pensiamo che sia il caso di spendere qualche parola per spiegarne la funzione e
diremo pertanto che il nome non deriva affatto, come molti hanno scritto da ‘quattr'alberi’,
dall'essere cioè grado di comando di quattro galere e ciò anche se, sia in questa circostanza
sia in altre che si leggono per esempio nell'opera del Cervantes, se ne parla appunto in
occasione di squadriglie di quattro galere, essendo questa, come si può notare anche
leggendo queste cronache, una suddivisione tattica molto comune delle squadre di tali
vascelli; che non sia così lo dimostra anche proprio il Villavincencio, il quale era, come
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s’intende, il cuatralbo della squadra di Napoli e non uno dei cuatralbi. In effetti il nome
significa ‘quadro albo’ e cioè si riferisce a quella banderuola quadrata e bianca che
mostravano sul calcese di maestra le galere dei vice-comandanti di squadra; quindi era
questo il secondo grado di comando di una squadra di galere - dopo quello di capitano
generale o di governatore - e si trova raramente in squadre non grandi qual'era quella di
Napoli, la quale contava in questo periodo solo otto galere. Ecco a tal proposito un avviso da
Genova del 4 gennaio 1687 che riferiva una controversia di saluti marittimi nata in quel porto
proprio a causa della presenza di un vessillo quadro:
… Sono entrati in questo porto 8 vascelli olandesi venuti da Cadice con scorta di due
comandati dal conte di Stirum, quale, per avere il carattere di vice-ammiraglio, portando la
bandiera quadra al trinchetto, pretese il saluto della città, ma gli fu risposto che si
osservarebbe la consuetudine; al che, sogiongendo volere il saluto del pari, finalmente si
risolse a salutare con 7 tiri, rispondendoseli con 5, e, per dimostrare la sua sodisfazione,
ringraziò con altri 3 (B.N.N. Sez. Nap. Per. 120).
Approfittando poi della circostanza che siamo ad argomenti strettamente filologici,
vogliamo anche spiegare perché, nel caso delle galere, si parli di squadre e invece, nel caso
di velieri da guerra, d’armate; ciò nasce dalla circostanza che ab antiquo le galere
viaggiavano in una formazione appunto dalla forma di squadra, ossia la Capitana avanti in un
ideale angolo retto e tutte le altre galere della formazione gradatamente più indietro, formanti
le due semirette dell'angolo; cosa questa che non era invece praticabile dai velieri, i quali,
spinti dal volubile vento e dotati di superfici veliche diverse, non potevano facilmente
mantenersi a interdistanze fisse, com'era possibile invece alle galere spinte da una voga
controllata dai comiti e com'è possibile oggi alle squadre di vascelli a elica.
...In quel mentre sono capitate da diverse provincie del regno altre numerose catene di
condennati al remo e Sua Eccellenza fa esercitare del continuo gli atti di un'incorrotta giustizia,
senza riguardo né distinzione di persone (A. di Costanzo).
In effetti, questa mancanza di distinzione tra le persone esercitata dalla giustizia
spagnola in Italia, cioè il perseguire i nobili alla stessa stregua dei popolari - prassi che
meravigliava gli osservatori stranieri, alienò spesso l'affezione della nobiltà alla dinastia
asburgica e mantenne sempre vivo nel regno un attivo e pericoloso partito filo-angioino o filofrancese che dir si voglia; in realtà l'unica distinzione che si faceva era quella sfacciata a
favore dei naturali spagnoli, a cui si perdonavano o si punivano molto blandamente tutti i reati
tranne quello di lesa maestà, a differenza di quanto facevano invece i cesarei, i quali
condannavano molto più correntemente i propri soldati a pene cruente, per esempio al taglio
della mano in caso di furto, uso crudele che anche la civilissima Venezia praticava
correntemente.
Le quattro galere del Villavincencio tornarono a Napoli, sembra sabato 19 maggio,
conducendo con loro una tartana corsara francese, comandata da monsieur La Roche et Reul
e armata da guerra con sei cannoni, 30 petriere e 115 uomini, e inoltre altre quattro tartane e
due legni più piccoli carichi di grano e legnami che la predetta corsara aveva predato nei mari
di Calabria e che sembrava avesse già ammarinati per portarli a vendere in Levante; il
Villavincencio l'aveva abbordata con la sua Padrona - dunque la sua era la seconda galera
della squadra, a comprova di quanto abbiamo più sopra sostenuto - nelle acque di Capo del
Cedraro (oggi Cetraro) e l'aveva sottomessa con l'uccisione di cinque corsari francesi e il
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ferimento d’altri sette, ma prima il legno corsaro aveva avuto il tempo di scaricare le sue
artiglierie contro la stessa galera che l'assaliva provocando la morte di un forzato e ferendone
altri.
(Napoli, 21 maggio:) Avendo Sua Eccellenza ordinata la fabbrica di due nuove galere, l’una delle
quali per Capitana di questa squadra, ieri in questo regio arsenale, coll’intervento dell’illustre
monsignor di Vidania, cappellano maggiore del Regno, si fece la funzione di benedire due aurati
chiodi e Sua Eccellenza li pose, com’è costume, a suo luogo. ()
Nello stesso maggio si seppe da Madrid che Beltrán de Guevara duca di Nájera era
stato promosso al generalato della squadra di galere di Spagna, mentre al suo posto al
comando di quella di Napoli sarebbe subentrato il marchese d’Aytona, genero dell’ex-viceré
conte di San Estévan, notizia quest’ultima che però presto si rivelerà infondata. Avendo
ordinato il Medinaceli la costruzione di due nuove galere, una di cui avrebbe dovuto essere la
nuova Capitana della squadra, lunedì 21 maggio, accompagnato da monsignor de Vidania
Cappellano Maggiore del regno, si recò nel regio arsenale e piantò, com'era costume, due
chiodi dorati che il detto cappellano aveva benedetto per dare solenne inizio alle costruzioni;
frattanto aveva mandato altri 50mila scudi al Leganes per le necessità della guerra e ancora
50mila ne invierà nella prima metà d'agosto.
Si seppe da Gallipoli che, essendo quei mari infestati da legni corsari turcheschi, il
castellano di quel castello Joseph de la Cueva aveva indotto i capitani di due vascelli
olandesi poderosamente armati di cannoni, i quali si trovavano in quel porto per caricare olii,
ad andare in traccia dei detti corsari e, alla prima loro uscita, i due legni avevano incontrato
una caravella turchesca nei pressi del Capo dell'Alice e le avevano dato la caccia, perdendola
però poi di vista a causa del sopraggiungere della notte; me i vascelli olandesi si erano
impegnate a uscire nuovamente in corso. Una corrispondenza da Livorno del 25 maggio
informava, in maniera un po’ vaga in verità, che un padrone di barca palermitano aveva
portato colà la notizia che due galere napoletane avevano catturato una barca corsara
francese comandata da certo signor La Roquet et Reul, liberando così ben sei legni da carico,
quattro dei quali spagnoli, da essa predati e ammarinati, ossia dotati di un minimo
d’equipaggio francese perché potessero proseguire di conserva con la corsara. Un avviso da
Genova del giorno seguente informava poi che era stato scoperto che una grossa barca
napoletana si armava in corso in quel porto in violazione della neutralità genovese e allora le
si era intimato di sbarcare la gente del luogo già arruolata; ma, non avendo la barca obbedito
all'ordine, il maggiore della piazza, autorità genovese, l'abbordò con quattro barche montate
da 100 uomini; arrestato il suo padrone, posti in galera alcuni soldati disertori che si erano
trovati a bordo e sequestrati circa altri 20 giovani, alla barca - non si sa se con il predetto
padrone - fu intimato di salpare perché si andasse ad armare nei porti soggetti alla Spagna.
Questi padroni corsari si chiamavano comunemente - specie nel secolo precedente - anche
armatori e ciò proprio perché, ricevutane apposita patente dal loro principe, armavano a
guerra di corso barche private di proprietà loro o d’altri con cui entravano in società con il fine
di spartirsi le prede fatte sul mare; stranamente è rimasto oggi questo nome d'armatori per i
proprietari di naviglio commerciale, mentre sarebbe stato molto più proprio quello di padroni, il
quale invece cadde in disuso.
Alla fine di maggio il Medinaceli nominò il mastro di campo Domenico Dentice preside
della provincia di Montefusco in considerazione dei suoi meriti militari; il Dentice, nobile della
Piazza o Seggio di Nido, si era sposato alla fine del febbraio precedente e probabilmente i
suoi sopraggiunti doveri coniugali lo avevano indotto a chiedere e a ottenere un incarico non
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militare che non lo portasse lontano, almeno per qualche anno, dalla giovane consorte.
Continuava pure il viceré a dedicare molta attenzione a tenere pronte, provviste ed
equipaggiate di tutto punto le galere, avendo anche fatto dare le paghe a ufficiali, marinari e
soldati delle stesse; solo di remieri c'era ancora molto bisogno:
...Intanto, premendo Sua Eccellenza con suoi ordini per il celere disbrigo delle cause, ogni
giorno si veggono votar le prigioni di rei di diversi delitti e riempir le medesime galere di
condennati al remo (A. di Costanzo).
Domenica 3 giugno, nell'ambito delle operazioni della guerra d'Italia allora in corso,
partirono da Napoli due tartane che portavano al Finale 400 fanti napoletani per reclutare il
terzo della medesima nazione che serviva nell'esercito dei collegati in Piemonte; portavano
inoltre una compagnia di fanti spagnoli, formatasi d'ordine del viceré e sotto il comando di
Blas Loya, la quale era destinata allo stesso teatro di guerra, mentre si preparavano le otto
galere della squadra regia di Napoli e si davano, come già ordinato, nuovi vestiti alla fanteria
spagnola, destinata a imbarcarsi in buon numero sulla medesima squadra. Le dette tartane
giunsero felicemente a Finale circa due settimane dopo e i 400 fanti regnicoli furono posti in
marcia verso Alessandria, mentre dal Milanese s’inviavano loro 400 vestiti nuovi. Queste
soldatesche arrivarono ad Alessandria verso la metà di luglio unitamente a cinque compagnie
di spagnoli tolti al presidio di Porto Longone e a fanterie svizzere. Come risulta da un partito
del vestiario coevo, in questo 1696 furono spedite a Milano anche compagnie di cavalleria;
ma la guerra d'Italia stava nel frattempo terminando in seguito a un trattato di pace intercorso
tra Francia e Piemonte.
All’inizio di giugno, come già accennato, arrivò dalla Spagna la nomina a generale
dell'artiglieria del regno per il sargente generale di battaglia Restaino Cantelmo duca di Popoli
e principe di Pettorano, fratello dell'arcivescovo di Napoli, nomina che il re Carlo II gli aveva
concesso in sostituzione del deceduto Marzio Origlia e in riconoscimento dei rilevanti servigi
militari da lui prestati alla Corona nella guerra di Messina, in quelle di Fiandra e in altre nel
corso della sua lunga carriera; alla cerimonia d'investitura avvenuta circa una settimana dopo
il viceré gli donò un bastone di comando ingioiellato di gran valore.
Un avviso genovese del 9 giugno portò a Napoli la notizia che due feluconi corsari
napoletani, i quali operavano nelle acque della riviera ligure di ponente, avevano catturato
cinque bastimenti, tra cui due sanremesi che erano da Marsiglia e quindi, avendo trafficato col
nemico, potevano evidentemente essere considerati oggetto di preda. Domenica 10 dello
stesso giugno il cuatralbo Lorenzo Villavincencio uscì al largo con una galera e, facendone
sparare i pezzi di prua, provò le polveri fornite alla squadra e le trovò d'ottima qualità; in
quegli stessi giorni lasciarono il golfo di Napoli cinque galere pontificie arrivate a Baia circa
una settimana prima sotto il comando del cavaliere gerosolimitano Ferretti e che, come il
solito, erano dirette a Messina per poi proseguire verso il Levante, dove andavano a
partecipare alla campagna di quell'anno contro gli ottomani; giunte all'isola di Capri, a causa
del vento contrario furono costrette a ritornarsene in porto, per poi ripartire definitivamente
due giorni dopo, e questo contrattempo fu purtroppo solo un prodromo della sorte avversa di
questi sfortunati legni; infatti, giunti nel golfo di Crotone, il maltempo le assalì e la galera
Padrona, la S. Alessandro, naufragò con perdita di tutto l’equipaggio, compresi il capitano
comandante cav. Alfieri e il capitano della fanteria da sbarco conte Saracinelli.
Verso la metà dello stesso giugno il viceré conferì la carica di governatore
dell'importante piazza di Reggio in Calabria al sargente maggiore Gioseppe Garofalo Suarez
dei marchesi della Rocca, anch'egli per i meriti acquisiti in tanti anni di servizio militare, e,
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sempre nel corso dello stesso mese, si celebrarono le esequie della regina-madre Maria Anna
d’Austria, morta a Toledo.
La notte di giovedì 14 giugno la squadra delle otto galere di Napoli, imbarcati 400 fanti
spagnoli vestiti di nuovo e suddivisi in quattro compagnie più una nuova compagnia di
fanteria italiana, accompagnata dalle quattro del duca di Tursi che, come sappiamo, sino
allora avevano stazionato a Napoli, salpò comandata dal di loro quatralvo don Lorenzo Villa
Vincenzio - il che ulteriormente dimostra quanto da noi più sopra affermato riguardo al ruolo
del cuatralbo, ma questa condotta dové fermarsi alcuni giorni a Baia a causa dei suddetti
venti contrari; poi, dopo aver toccato Porto Longone, il 7 luglio sbarcò a Pegli le dette
soldatesche, le quali il giorno seguente si misero in marcia verso Serravalle, mentre le galere
la notte del lunedì successivo riprendevano il mare per Barcellona, la quale allora rovinava
terribilmente sotto il tiro delle bombe e delle carcasse lanciate dalle palandre o meglio
galeotte da bombardamento della flotta francese che l’assediava dal mare; nelle acque della
Catalogna avrebbero trovato pure le galere del duca di Tursi, le quali avevano infatti lasciato
Genova per quella destinazione nell’ultima domenica di giugno, ma senza il duca, il quale era
rimasto a terra per motivi che non furono divulgati. Mercoledì 20 giugno aveva in quel mentre
lasciato il porto di Napoli per la Calabria, in traccia di legni pirati o corsari, una tartana
corsara il cui armamento era stato concesso dal viceré al principe di Montesarchio, il quale,
come abbiamo già visto, non accontentandosi evidentemente dei lauti vitalizi che gli avevano
certamente procurato le cariche ricoperte nel corso della vita, cercava in tarda età d’integrarli
con questa lucrosa d’attività e si trattava di una tartana rinforzata, ossia con equipaggio e
armamento aumentato, essendo infatti questa armata di otto cannoni e 36 petriere ed
equipaggiata da più di 100 uomini; d’altra parte egli sarà poi ricordato come un generoso
perché sarà solito assegnare ai suoi equipaggi ben un quinto del valore delle prede catturate.
Da una lettera di Spagna giunta a Napoli il 9 luglio si seppe che il re aveva conferito i
nuovi generalati delle squadre delle galere di Sicilia, di Sardegna e di Napoli e quest'ultima
era andata non al marchese d’Aytona, bensì al generale della squadra di Sicilia Joseph
Fernandez de Velazco marchese di Jodar, il quale lascerà detto suo precedente incarico il
seguente 14 agosto; avrà decorrenza 15 agosto invece la nomina di capitano generale di
quelle di Sicilia conferita a Emmanuel de Silva y Meneses, fratello dell’influentissimo duca
dell’Infantado e figlio del marchese di Alconchel, il quale come vedremo, lo sarà in seguito
anch’egli della squadra di Napoli; infine di quelle di Sardegna aveva avuto il capitanato
generale Antonio Branciforte conte di S. Antonio, carica che egli ancora manterrà nel 1705.
La carriera di questi capitani generali del mare consisteva infatti di solito,come abbiamo già
detto, nel passare dal comando di una squadra di galere più piccola a una più grande. Verso
il 10 agosto il duca di Medinaceli inviò ancora 50mila scudi al marchese di Leganes, allora
governatore di Milano, sempre a titolo di contribuzioni per la guerra contro la Francia; il 15
agosto si arrese Barcellona.
All’inizio di settembre il famoso avvocato napoletano Flavio Gurgo fu fatto giudice della
Gran Corte della Vicaria, secondo un comune uso del tempo certo molto favorevole alla difesa
degli imputati, ma che comunque non era una regola, tant’è vero che circa otto mesi dopo
arrivò da Madrid la stessa nomina per il signor Cesare Invitti, non risultando dalle cronache
del tempo che fosse anch’egli un avvocato, ma solo sembra un raccomandatissimo ufficiale di
detto tribunale; di costui anche si sa che nel corso del secolo seguente o lui stesso od un suo
discendente comprerà il titolo di marchese di Pinto, essendo ormai già da tanto finiti i tempi in
cui i titoli nobiliari si potevano guadagnare solo sul campo di battaglia.
Venerdì 7 si tenne, come al solito, si tenne a corte cappella reale nella Real Chiesa del
Carmine Maggiore per la già più volte ricordata commemorazione della vittoria cattolica di
232
Nördlingen ed era allora maestro della Real Cappella di Napoli nientedimeno che il
grandissimo Alessandro Scarlatti. Il giorno seguente ci fu il solito corteo vicereale e la solita
parata militare al borgo di Chiaia in occasione della tradizionale festa della Natività della
Madonna.
Alla metà dello stesso settembre il grande vascello di 80 cannoni in costruzione a Baia
dall’anno precedente, battezzato San Carlo, fu varato e poi trasferito al largo della Torre di S.
Vincenzo a Napoli per il completamento del suo arredo; questo gran veliero, orgoglio della
cantieristica napoletana non molto adusa in verità, come abbiamo già detto, a simili grandi
costruzioni, era destinato all'armata oceanica della Spagna, era cioè un ennesimo
costosissimo donativo che Napoli faceva al suo lontano re, dono più che a chiavi in mano,
diremmo oggi, dal momento che lo stesso sarebbe partito già completamente armato ed
equipaggiato di marinari e artiglieri napoletani. Che tipo di vascello da guerra si poteva
considerare questo? Secondo i criteri di classificazione francese, i quali si ricavano da due
grandi ordinanze di Francia, una del 1670 e l’altra del 1688, e che poi furono adottati anche
da altre potenze, questo era un vascello di ‘primo rango’; ecco dunque la detta distinzione dei
vascelli degni di far parte d’un copro d’armata:
RANGO - CANNONI – PONTI - LUNGHEZZA DELLA CHIGLIA IN METRI - PORTATA IN KG
Primo 70 a 120
Secondo 50 a 70
Terzo
40 a 50
Quarto 30 a 40
Quinto 18 a 20
3
3
2
2
2
circa m. 40 a 50
“
“ 34 a 36 ½
“
“ 34
“
“ 30 ½
“
“ 24 ½
936.000
686.400 a 748.800
499.200 a 561.600
312.000 a 374.400
187.200
Ovviamente la lunghezza complessiva d’un vascello da estrema prua a estrema poppa era,
anche escludendo lo sperone, alquanto superiore a quella della sua chiglia; il quinto rango sembra
troppo piccolo per far parte d’un corpo d’armata, invece era ancora robusto e armato abbastanza;
le portate (pesi del volume d’acqua occupato) sembrano piccole, ma naturalmente non significano
che i detti vascelli, oltretutto sovraccarichi com’erano di pesantissime artiglierie, pesassero
nel complesso altrettanto poco! Per quanto riguarda gli equipaggi, i velieri da guerra
erano necessariamente montati da equipaggi molto più numerosi di quelli dei mercantili, portando
inoltre a bordo anche fanterie di marina ed un maggior numero di bombardieri; a partire proprio
da questo secolo, diventerà invalso l'uso di calcolare l’equipaggio loro necessario in base al
numero dei cannoni che avevano e ciò indipendentemente dalla sola necessità di artiglieri,
il che significherà sette od otto uomini per cannone nel Seicento e dieci nel Settecento.
Domenica 16, di ritorno a Livorno, approdarono a Napoli le ora tre galere del granducato
di Toscana, le quali, comandate dal loro governatore Lanfranchi, cavaliere dell’ordine militare
di S. Stefano, venivano dalla fiera di Messina cariche di seta, come facevano del resto tutti gli
anni; stava approfittando del loro passaggio verso Livorno un altro militare napoletano che si
era fatto molto onore combattendo contro i turchi nell'Europa orientale e si trattava del mastro
di campo Adriano Carafa conte del Sacro Romano Impero e signore di Forlì, il quale era
fratello del sargente generale di battaglia Marino Carafa fratello del duca di Maddaloni
cavaliere dell'ordine di San Giacomo; ripartiranno mercoledì 19, giorno della festa di S.
Gennaro. Domenica 23, sempre di settembre, arrivò un vascello genovese da 40 cannoni, in
precedenza predato ai francesi, il quale trasportava anche 50 pezzi d'artiglieria destinati a
completare gli 80 destinati al predetto vascello San Carlo; evidentemente la qualità della
produzione della fonderia di cannoni di Genova, la quale nei secoli precedenti era stata ben
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nota per esser tutt'altro che eccellente, doveva esser ora molto migliorata se Napoli ne
comprava i cannoni navali per un vascello destinato alla più prestigiosa flotta della Spagna.
Infine, alla fine del mese, arrivò a Napoli anche un vascello inglese armato a guerra, il quale
ne conduceva seco un altro francese;questo, mercantile e corsaro allo stesso tempo, appariva
notevolmente danneggiato dalle cannonate ed era stato predato dopo un lungo
combattimento avvenuto nelle acque di Cipro.
All’inizio d’ottobre si festeggio la recuperata salute della regina, la quale era stata di
nuovo malata; poi, dopo qualche giorno, si festeggiò anche la guarigione del re, la cui
infermità era stata, scriveva l’Auria, grave e pericolosa. Questi festeggiamenti erano dovuti,
ma il duca di Medinaceli credeva particolarmente nelle feste come strumento di governo e
infatti, laddove diceva del suo rigore, così anche scriveva infatti di lui il residente sabaudo a
Napoli Giovanni Operti nella sua relazione del 1697:
… Congiunge però a questo un’ottima massima che è di tenere lieta la città, procurando con
la diversità delle feste, nelle quali è magnifico, e con la frequenza d’altri pubblici divertimenti di
distraer l’animo del popolo dal torbido col gioviale…
Una condotta di governo che era stata comunque creduta utile e praticata anche dalla
maggioranza dei viceré che l’avevano preceduto e che più tardi anche i Borboni
perpetueranno con il loro famoso Feste, farina e forca.
Non ostando che il 29 agosto, con il trattato di Torino, si fosse posto fine alle ostilità tra
Francia e Savoia e in seguito, il 7 ottobre, fosse sottoscritto a Vigevano un armistizio tra
Francia e impero che impegnava francesi e imperiali a lasciare i campi di battaglia italiani con
inizio dal giorno 20, il viceré, il quale n'aveva ricevuto notizia il 16, qualche giorno dopo fece
un ulteriore rimessa di 30mila scudi al predetto governatore di Milano, denaro che arrivò a
destinazione per mezzo del corriero ordinario di Spagna circa due settimane dopo;
evidentemente anche la smobilitazione aveva un suo costo. Nel corso dello stesso ottobre
comunque il viceré, probabilmente in considerazione della predetta tregua, dispensò
parecchie grazie a detenuti civili e militari, questi ultimi scarcerati dai regi presidi. Al contrario
furono senza pietà impiccati due rei di delitto abominevole, incapace di grazia e, poiché i loro
corpi vennero poi dati alle fiamme, c’è da supporre che si fosse trattato di un reato aggravato
dalla pederastia; c’era poi un loro complice dalle minori responsabilità, il quale, essendo
minorenne, scampò la condanna al remo di galera, ma fu prima fustigato (com’è l’uso) e poi
condannato a dieci anni di carcere.
L’ultimo sabato dello stesso ottobre il viceré ricevé il consueto tributo di 12 falconi vivi in
nome della repubblica di Ragusa, tributo che era evidentemente quanto restava di quello
originario dei tempi della resistenza anti-turca degli albanesi e di Giorgio Castriota; alla fine
dello stesso mese, giunse infine un ordine reale a conferma della riforma dell'organico del
castello di Monopoli voluta dal viceré e ne era ora nominato governatore o castellano che dir
si voglia Jerónimo de la Fuente con soldo di 12 scudi mensili; era poi in questo periodo
Segretario di Stato e Guerra del regno uno spagnolo, cioè Diego Cabreros, cavaliere
dell’ordine di S. Giacomo. Un avviso di Genova del giorno 10 o del 16 novembre informava
che le otto galere della squadra di Napoli e quelle della squadra del duca di Tursi avevano
lasciato Barcellona e, mentre le prime dovevano toccare la Sardegna per prendere a bordo il
conte de Altamira, nuovo ambasciatore di Spagna a Roma, e portarlo a Gaeta, le seconde
portavano il duca di Nájera, generale dello stuolo di galere di Napoli e nominato tra aprile e
maggio di quest’anno generale di quello di Spagna, il quale veniva a Napoli a riprendersi la
sua gentile consorte e vi resterà all’incirca fino alla fine del gennaio successivo, quando la
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coppia lascerà il regno, forse portata da galere del duca di Tursi, e farà sosta a Livorno. Delle
galere di Napoli in effetti tre rimasero in Sardegna nell’attesa dell'imbarco dell'ambasciatore e
le altre cinque proseguirono per Napoli via Civitavecchia, approdando infine nella capitale
nella serata della vigilia di Natale.
Tra i festeggiamenti militari che, come ogni anno, avvennero verso la metà di novembre
in tutti i presidi spagnoli del Vecchio e del Nuovo mondo in occasione del compleanno del re
Carlo II, le cronache riportano quello tipico che si era tenuto a Gaeta da parte della locale
guarnigione spagnola:
Sentesi da Gaeta che ivi (om.) fu fatto squadrone da quei fanti spagnuoli al numero di 300 con
quel signor don Emanuele de Toledo y Portugal ivi capitano a guerra, quale marchiava alla
testa di esso per tutta la piazza con l'archibugio, precedendogli la sua guardia di 12 ben vestiti
alabardieri; e il suo luogotenente capitan don Diego Gonzales de Silva assisté alla guida e
formazione di esso (squadrone) da sargente maggiore; l'accompagnarono molti cavalieri che
occuparono la prima fila di esso, anche loro con archibugi, e doppo moltissime scariche del
medesimo (squadrone, om.) seguì quella di tutto il cannone della piazza e del castello...
La scorta di 12 alabardieri era prerogativa di tutti i governatori di castelli e piazze
importanti, così anche come dei generali dell'esercito.
Le cronache militari napoletane di questo 1696 si chiudono con la morte del
settuagenario Juan Alonzo de Salzedo, generale dell'artiglieria e castellano del regio castello
di S. Eramo, avvenuta dopo lunga malattia sabato 15 dicembre; il viceré affidò l'incarico del
defunto, ma solo pro interim, al tenente di mastro di campo generale Tommaso Cabanilla, uno
spagnolo cavaliere dell'ordine di Montesa da noi già ricordato in un non edificante episodio
della guerra di Messina, il quale, alla fine del marzo successivo, sarà sostituito dal mastro di
campo Juan Manuel de Soto Mayor, nominato dal re nuovo governatore del castello predetto,
nomina scandalosa di cui abbiamo già detto a proposito dell'anno 1693.
In seguito al summenzionato armistizio in Italia, che aveva finalmente fermato le
ininterrotte leve di Napoli, eccezion fatta per qualche rimpiazzo che bisognava ancora inviare
in Catalogna, i francesi avevano evacuato Nizza e la Savoia, rinunziando anche alle loro
pretese su Casale Monferrato, e il duca di Savoia aveva riottenuto Pinerolo; la guerra era
però continuata sugli altri fronti europei e americani; i francesi, con il rinforzo delle
soldatesche distolte dal fronte italiano, avevano infatti ripreso l’iniziativa.
1697. All’inizio dell’anno il viceré riformò 11 capitani della fanteria spagnola in modo che i loro
soldati potessero passare a rinfoltire i ranghi di quelle che, tra le rimanenti, fossero più carenti
di uomini. Verso il 10 gennaio, di venerdì, salparono da Napoli due galere che portavano due
compagnie di fanti spagnoli - per un totale di 300 uomini - a Gaeta, dove, portato, come
abbiamo già detto, da altre tre delle galere napoletane, era previsto l'arrivo dalla Sardegna
del suddetto conte di Altamira; il viaggio durò sei ore e dopo qualche giorno le prime due
galere fecero ritorno, mentre le seconde tre che portavano il conte arrivarono a Gaeta verso il
giorno 20 e poi, sbarcato colà l’illustre passeggero, proseguirono per Napoli dove giunsero di
mercoledì. Alla metà di gennaio il viceré conferì al mastro di campo Antonio di Gaeta
marchese di Montepagano, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, il presidato della città
dell'Aquila, incarico che si era reso vacante.
Durante la prima settimana di febbraio due barche da corso francesi che avevano fatto
scalo a Genova - secondo altra fonte a Livorno -avevano lasciato quel porto lunedì
precedente e nelle acque di Porto Venere avevano armato e messo in mare i loro palischermi
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(‘poliscalmi’) o schifi che dir si voglia, per poter così controllare un più ampio tratto di mare;
attaccarono infatti sei feluche napoletane dirette a Genova con carico di merci, ma queste si
erano difese e poi erano riuscite a porsi in salvo nel porto di Lerici.
Sabato 9 febbraio morì in età senile Luis de Espluga, mastro di campo del terzo fisso
degli spagnoli di Napoli e soldato dalla lunga e onoratissima carriera, il cui funerale ebbe
forma pubblica e fu sepolto nella chiesa gesuita di san Francesco Saverio; il suo posto sarà
dal re conferito, con lettera reale del successivo 16 maggio, al mastro di campo Martín de
Castrejon y Medrano, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, il quale sino allora aveva
esercitato l'altissima carica civile di reggente della Vicaria e prenderà ufficialmente possesso
della sua nuova carica sabato 29 giugno, festa dei SS. Pietro e Paolo, con l'intervento del
mastro di campo generale dell'esercito del regno e d’altri principali capi militari. Nella seconda
metà dello stesso febbraio il viceré faceva allestire la squadra di galere per averla pronta alle
occorrenze della prossima campagna di guerra, in considerazione che, come si è detto, il
conflitto tra Spagna e Francia, fermato in Italia, proseguiva su altri fronti. In questo periodo
s’inizio la pavimentazione selciata della strada costiera di Chiaia per una lunghezza di circa
un miglio, cioè dal palazzo del principe di Striano di casa Ravaschieri sino alla chiesa della
Madonna di Piedigrotta; era larga ben 53 palmi, ornata di 20 fontane e detta strada di
Medinaceli in considerazione che voluta appunto dal viceré; il termine di questi lavori era
previsto per la fine dell’estate.
All’inizio di marzo in Catalogna, mortovi il mastro di campo napoletano Domenico
Caracciolo della Torella, il suo terzo, il quale, come si ricorderà, era arrivato in quel principato
meno di due anni prima, era stato riformato e la sua gente residua era stata aggregata agli
altri due terzi napoletani di quell'esercito, cioè quelli del principe di Macchia e di Domenico
Recco, mentre si attendevano da Napoli altri mille uomini di rinforzo; in effetti alla metà del
detto mese si ritrovavano nell’arsenale napoletano già 600 coscritti e si prevedeva d’inviarli
con altri ancora d’arruolare in Catalogna nel maggio seguente. Verso la metà del predetto
mese approdò a Napoli un vascello di 40 cannoni armato a guerra dal duca di Veraguas in
Sicilia e diretto a Finale, dove si diceva andasse a imbarcare soldatesca che dallo Stato di
Milano, ormai in pace, s’inviava in Catalogna, sempre che fosse riuscito a sfuggire ai corsari e
alla flotta francese che si aggiravano nel Tirreno. Verso la fine dello stesso marzo, nell'ambito
di una riforma generale dell'esercito di Lombardia che ebbe luogo a seguito della fine della
guerra d'Italia, furono, tra gli altri, riformate quattro compagnie del terzo spagnolo detto ‘di
Napoli’ e due delle compagnie della cavalleria napoletana che serviva in quello stato e cioè
quelle dei capitani conte Besozzi e Onofrio Afro, il primo di cui, a giudicare dal cognome, non
era certamente un ufficiale partenopeo. Il suddetto terzo fisso spagnolo di Lombardia, il cui
nome completo originario era de la Mar de Nápoles - e in seguito appunto più brevemente
Nápoles – era di stanza a Valenza; esso doveva questo suo suggestivo nome all'esser stato
formato nel 1635 il suo primo nucleo con alcune compagnie del terzo fisso di Napoli, il quale
era stato inviato dall'allora viceré conte de Monterey alla guerra che si combatteva nell'Alta
Italia per mezzo di una flotta da lui all'uopo approntata e che quindi proveniva appunto dal
mare di Napoli.
Verso la metà d'aprile morì a Napoli il tenente di mastro di campo generale Antonio
Amaldia e allora il viceré elevò a tale carica un capitano del terzo fisso degli spagnoli, ossia
Bartolomeo Specchio (‘Bartolomé Espejo’) e conferì la capitania della sua compagnia a
Jerónimo de Baldes, aiutante dello stesso terzo. Un avviso livornese datato 19 aprile
informerà poi che il re d'Algeri aveva ordinato il blocco dei riscatti degli schiavi cristiani finché
non avessero avuto la libertà gli algerini che si trovavano in schiavitù a Napoli, evidentemente
molti in quel tempo. Aveva intanto il Medinaceli in quei giorni inviato quattro galere
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napoletane nelle acque di Calabria e di Messina per garantire un sicuro passaggio dello
stretto a molte tartane cariche di grano pugliese che veleggiavano verso Napoli per
approvvigionarla; queste galere tornarono a Napoli nella prima domenica di maggio
convogliando ben 19 tartane granarie; esse, avvicinatesi alla spiaggia di Chiaia, salutarono
con la tradizionale salva di cannone la chiesa della Madonna di Piedigrotta, poi andarono ad
ancorarsi all'isola di Nisida e infine il 6 maggio mattina si trasferirono alla darsena di Napoli,
da dove sabato precedente erano invece salpate quattro galere del duca di Tursi venute da
Gaeta e dirette ora all'isola di Ponza con la missione d'incrociare in quelle acque che si
dicevano infestate dai pirati. Sabato seguente vennero ad ancorarsi per un solo giorno nelle
stesse suddette acque di Nisida invece due galere della repubblica di Genova, le quali erano
dirette in Sicilia, essendo la loro missione quella di servire quel viceré portandolo da Palermo
a Messina, come si diceva; perché poi si fossero dovute muovere a tal scopo due galere da
così lontano, non era noto. Verso il giorno 17 salpò in compagnia di una tartana il
summenzionato vascello armato a guerra giunto circa due mesi prima dalla Sicilia, il quale si
era fatto attendere tanto per approfittarne con l’imbarco di una compagnia di 200 nuovi fanti
regnicoli da portare in Catalogna a reclutare qualche terzo napoletano colà operante; questo
legno farà scalo a Genova in otto giorni.
In seguito, durante il medesimo maggio, il viceré sollecitò sia l'equipaggiamento del
predetto vascello San Carlo, sia il completamento delle due nuove galere iniziate l'anno
precedente e il giorno 19 fu varata la nuova galera Capitana, mentre, trainato a rimorchio da
due galere napoletane, il San Carlo fu condotto nel porto della capitale da quello di Baia
perché ne fosse terminato l'equipaggiamento; a dir il vero, se le maestranze di Baia avevano
legittimamente impiegato un intero anno a ultimare un vascello grosso e complesso come il
San Carlo, non altrettanto perdonabili erano quelle dell'arsenale napoletano per non aver
completato, nello stesso lasso di tempo, le due galere; infatti un anno e più per costruirne solo
due era un tempo più che sufficiente e si comprendono le sollecitazioni del Medinaceli.
(Napoli, 20 maggio:) Ha Sua Eccellenza fatto dar libertà a circa 200 condennati al remo che
avevano già terminato il tempo della loro condennazione, quali andarono ieri tutti unitamente
trascinando le loro catene, accompagnati da i biferi (pifferi), flauti e altri stromenti, a
disciogliersi e a lasciar le medesime catene alla chiesa di San Paolo de’ Padri Teatini...
Quest'atto d'inusitata liberalità, in una squadra di galere dove non erano impiegati
remieri buonevoglie, si spiega però probabilmente con il prosieguo dello stesso predetto
avviso, il quale infatti pure segnalava l'arrivo a Napoli in più riprese di numerose catene di
delinquenti destinati chi alla guerra e chi appunto al remo delle galere, catene mandate dal
commissario di campagna Ignazio d'Amico e dai tribunali provinciali del regno; ciò per il
disposto rapido disbrigo delle cause criminali a cui abbiamo più sopra accennato.
Era in questo periodo auditore generale dell'esercito del regno il marchese di Monte
Falcone di casa de Santis.
In quel mentre lettere dalla Calabria descrivevano un combattimento costiero avvenuto
tra la città di Cariati e tre caravelle tripoline da 44 pezzi ciascuna, le quali avevano cominciato
coll'inseguire in quelle acque una nave genovese carica di ricche merci; riuscita questa a
ripararsi sotto le artiglierie di Cariati, i tripolini le spinsero contro all'abbordaggio cinque lancie
armate e i genovesi, appoggiati sia dai cannoni della città, sia dagli stessi cittadini, i quali,
distribuitisi sulle mura e guidati dal loro feudatario principe Palegorio Rovegno e da suo
suocero Vincenzo Carafa di Stigliano, mantenevano un nutrito fuoco di moschetteria contro i
corsari, risposero al fuoco per ben sei ore continue, ma furono poi costretti ad abbandonare la
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loro nave e a lasciarla preda del nemico. Non ostante però l'insuccesso di questa difesa,
anche i tripolini subirono notevoli danni e principalmente la perdita di una delle loro caravelle,
finita fracassata dalle cannonate con morte di molti barbareschi, ma le due residue, allargatesi
in mare con la loro ricca preda, si rifecero il giorno seguente predando una tartana nelle
acque del Capo dell'Alice.
Arrivò da Genova avviso datato 11 maggio in cui si riportava che una feluca napoletana
con ricco carico per poco non era rimasta preda di una galeotta turchesca nelle acque
dell'isola di Ponza e un paio di settimane più tardi si seppe poi da Livorno che due feluconi
corsari napoletani avevano catturato un bergantino corsaro turco, che un altro era stato
invece predato da un bergantino corsaro d’Alassio e che due barche da corso francesi
avevano fatto diverse prede nei mari di Calabria; da Milano s’informava invece che il 28
maggio il principe Trivulzio e gli ufficiali pagatori di quello stato si erano avviati verso
Cremona per prender mostra e dare il soldo alla cavalleria straniera (alemanna) e napoletana
di stanza in Lombardia; nello stesso tempo si dovevano riformare da quell'esercito diversi
mastri di campo delle varie nazionalità e ciò perché, a seguito della pace, si licenziava parte
delle milizie.
Verso il 10 maggio salparono diverse tartane cariche della suddetta soldatesca di nuova
leva per la Catalogna, mentre se ne arruolava altra per i soliti Presidi di Toscana, e circa una
settimana dopo partirono ancora altri 200 fanti regnicoli a bordo di una nave armata a guerra
di circa 40 cannoni, la quale era di proprietà del suddetto duca di Vereguez ed era giunta
appositamente a Napoli due mesi prima; anche queste reclute, come quelle partite in
precedenza, erano destinate a rinfoltire i ranghi dei terzi napoletani di stanza in Catalogna e
fecero tappa a Genova e a Finale Ligure dopo otto giorni di viaggio.
Domenica 9 giugno, provenienti da Civitavecchia, approdarono nel golfo di Napoli le
galere della squadra pontificia, comandata dal cavaliere gerosolimitano Ferretti, le quali
sabato seguente ripartirono verso Levante dove, ancora una volta, si sarebbero unite
all'armata veneta per la lotta contro il comune nemico turco; nel frattempo, dopo aver
costeggiato il regno in servizio di guarda-coste, ne giungevano a Napoli quattro della squadra
del duca di Tursi, le quali avevano approfittato di quella missione per fare anche un carico di
pannine di Castiglione (Salerno), poi detta ‘Castiglione del Genovesi’ - altro feudo questo dei
d’Oria del Carretto duchi di Tursi dal 1648 e da non confondersi con Castiglione Marittima
(Falerna, Catanzaro), feudo questo invece dei principi d’Aquino; colà infatti il duca aveva
appunto fatto erigere una nuova fabbrica di dette pannine, riuscendo colà le stesse delle
migliori che si producessero nel regno. Giovedì 13 il nuovo mastro di campo del terzo fisso
spagnolo del regno, Martín de Castrejon y Medrano, prese possesso della sua carica, inoltre
lettere reali di Spagna datate 30 maggio, ma pervenute a Napoli solo il 23 di questo mese di
giugno, portavano la nomina a governatore di Porto Longone per il mastro di campo
fiammingo Alaba, mentre non ancora giungeva quella di nuovo capitano generale delle galere
di Napoli, (essendovi diversi qualificati soggetti che lo pretendevano), e ne restava pertanto
governatore provvisorio il già nominato cuatralbo Lorenzo de Villavincencio, cavaliere di San
Giacomo, comando che sarà poi ufficializzato dalla Spagna alla fine di giugno; il
Villavincencio guidava infatti le sei galere della squadra del regno che la notte tra giovedì 27
e venerdì 28 giugno lasciarono Napoli dirette a Finale, dopo esser state ben rifornite di
provianda e attrezzature da guerra e dopo che le loro guernizioni (‘guarnigioni’) di fanteria di
marina erano state opportunamente rinforzate; due sole galere della squadra restavano così a
Napoli, su istanza della stessa cittadinanza, al fine di proteggere il commercio marittimo dalla
pirateria. Le sei suddette galere erano state precedute dalle sette della squadra del duca di
Tursi (talvolta detto Tursis), avendo anch'esse lasciato Napoli per la Spagna via Finale, in
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vista della ripresa delle ostilità contro la Francia, ma in due gruppi distinti e cioè le prime tre
lunedì 3 giugno e le restanti quattro, abbonacciatosi finalmente di nuovo il tempo, la mattina
del detto giovedì 27; queste sette galere avrebbero però prima fatto sosta a Civitavecchia per
sostituirvi i loro vecchi buchi (‘scafi’) con quelli nuovi per loro appositamente costruiti in quel
porto; sostituire lo scafo rappresentava infatti per una galera una sostituzione molto parziale
dell'intero vascello e non pressoché totale, come invece intenderemmo oggi, perché
altrettanto vitali erano le altre parti -tutte asportabili dallo scafo - e cioè alberatura, palamento,
banchi, corsia, posticcie e altre attrezzature. Sabato 20 luglio le suddette sei galere
napoletane e sei del duca di Tursi saranno segnalate in sosta a Genova, ma pochi giorni più
tardi, cioè lunedì successivo, come riportato da un avviso genovese del 27, si trasferiranno a
Finale a imbarcare 1.200 fanti provenienti dal Milanese e il giorno seguente partiranno, via
Porto Mahón, in soccorso di Barcellona assediata dai francesi; in seguito, con avviso da
Genova del 3 agosto, si saprà che le suddette 12 galere erano state prima avvistate nelle
acque di Provenza mentre rimorchiavano quattro tartane, le quali o erano evidentemente al
seguito e mancanti di vento oppure erano state predate ai francesi, e poi erano state
segnalate in sosta il 28 luglio nel porto di Calvi in Corsica; infine, con avviso di Genova del 12
ottobre, si saprà che all’inizio di detto mese le sei del duca di Tursi avevano sbarcato a
Vinaroz le genti imbarcate a Finale, come anche avevano fatto quattro delle napoletane, le
quali poi erano ripartite verso Porto Mahón.
A Napoli frattanto il viceré Medinaceli provvedeva con molto impegno a tenere la
Capitale sgombra dai malfattori castigandoli decisamente e pare che addirittura andasse
talvolta egli stesso di ronda con le guardie per la città; a tal proposito valga per tutti il caso del
pericoloso brigante Domenico Bruno, conosciuto come Rodomonte, il quale da ben 15 anni
viveva rifugiato nella chiesa di Santa Maria del Pianto con imbarazzo di tutto il vicinato,
approfittando delle immunità ecclesiastiche che impedivano ai birri d'entrarvi; costui, nella
seconda decade di luglio, mentre si tratteneva tracotantemente fuori della chiesa a discorrere
con una sua amica, fu assalito dalla gente di Corte che lo aveva appostato; ebbe il tempo di
scaricare l'archibugio contro i birri, ma questi lo uccisero e, mozzatagli la testa, la portarono in
esibizione per la città secondo il solito costume. Il duca di Medinaceli volle ai suoi inizi tentare
di eguagliare il merito guadagnatosi dal marchese del Carpio, suo antecessore, con
l’estirpazione del brigantaggio mettendo fine invece ai contrabbandi, altra piaga del regno; ma
i rigori che mise in atto contro tale male si rivelarono subito non confacenti alle particolarità
mercantili e sociali del regno, e pertanto presto li convertì in semplici provvedimenti di una
maggior vigilanza. Tentò, agli inizi del suo vice regnato, di eguagliare il merito guadagnatosi
dal marchese del Carpio, suo antecessore, con l’estirpazione del brigantaggio mettendo
invece fine ai contrabbandi, altra piaga del regno; ma i rigori che mise in atto contro tale male
si rivelarono subito non confacenti alle particolarità mercantili e sociali del regno, e pertanto
presto li convertì in semplici provvedimenti di una maggior vigilanza.
Un avviso da Bruxelles del 21 giugno dava notizia che il terzo napoletano del principe
d'Acquaviva colà operante era passato di stanza a Malines. Nel luglio, a seguito di
prescrizioni mediche, sia il viceré, il quale soffriva di fiacchezza di testa, sia la regina, affetta
da altri disturbi, si recarono nell’isola d’Ischia in località Testaccio, dove il duca e altri del suo
seguito si sottoposero a un ciclo di rimedi detti sudatori o stufe e che si potevano praticare
solo nella stagione estiva e la consorte a uno di bagni termali.
Intorno al 20 luglio giunse l'assentista (‘appaltatore’) delle galere pontificie,
accompagnato da marinari, soldati e remieri, per prendere possesso di uno scafo di galera
recentemente regalato al Papa dalla Serenissima e recentemente trasferito dalla darsena di
Messina a quella di Napoli; questa nuova galera, presto armata ed equipaggiata, si trattenne
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per qualche tempo a Napoli nell’attesa del primo vento propizio per condursi a Civitavecchia;
ci fu in questo mentre avviso dalla Calabria che il 4 luglio si erano viste passare al largo di
Capo di Santa Maria le squadre delle galere pontificie e maltesi, le quali passavano di
conserva in Levante. Giovedì 8 agosto, provviste di tutto e rinforzate, salparono le due galere
napoletane rimaste nella darsena della capitale e, accompagnate da due tartane armate a
guerra, iniziarono una serie di crociere nel basso Mediterraneo, accorrendo laddove si aveva
notizia della presenza di pirati barbareschi, specie per proteggere i legni cristiani che
sarebbero concorsi alla fiera che nel settembre si sarebbe tenuta a Salerno.
Avendo ad agosto il viceré replicato ai tribunali del regno l'ordine di spedire rapidamente
le cause criminali, onde procurare gli altri galeotti che servivano alle galere, molti erano i
condannati alla voga e, tra questi, se ne vide alla fine del mese entrare in Napoli una catena
di più di 40 inviata dal commissario di campagna Ignazio d'Amico, il quale presiedeva il
tribunale più famoso del regno dopo quello della Vicaria e cioè quello appunto detto di
Campagna, a cui abbiamo già più volte accennato e che aveva sede a Fratta Maggiore,
istituito nel Cinquecento per combattere la criminalità del circondario di Napoli, affinché
questa non finisse per esserne soffocata. Le sollecitazioni del Medinaceli, oltre a procurare
remiganti alle galere, ebbero il positivo effetto d'allentare la predetta pressione criminale su
Napoli e su tutto il regno in generale:
Facendo le zelanti premure di quest'eccellentissimo signor Viceré continuare gli effetti della
giustizia con illibata e incorrotta permanenza, si gode nel castigo dei rei una tranquillissima
quiete in questa Capitale e Regno, venendone ogni dí condannati al remo e a altri supplicii...
Come si seppe poi tramite un avviso di Genova del 4 settembre, domenica notte
precedente una nave francese proveniente da Levante con un ricco carico, valutabile - come
si diceva - a 40mila pezze da 8, mentre era alla fonda nel golfo di San Firenzo, era stata
sorpresa e catturata da una barca e una galeotta, ambedue corsare napoletane, essendo la
galeotta una galera più piccola con due soli rematori a ogni remo, mentre che cosa era una
barca abbiamo già detto. Erano frattanto tornate in porto le sopraddette due galere che erano
state inviate a costeggiare le spiagge del regno per difendere il traffico commerciale dai pirati,
ma, provvedute delle necessarie proviande, il viceré le fece subito risalpare verso la Calabria,
nei cui mari si era inteso esser state predate quattro tartane genovesi vuote che andavano a
caricare grano e la cui gente era riuscita però fortunosamente a porsi tutta in salvo. Questa
spedizione marittima tornerà definitivamente a Napoli lunedì 30 settembre dopo aver protetto
nella sua crociera, tra l'altro, anche i numerosissimi vascelli che sarebbero concorsi alla fiera
di Salerno, fiera che, anche se non notoria come quelle di Messina e di Crema, aveva avuto
molto successo, tant'è vero che il viceré ne aveva concesso la proroga di quattro giorni.
Come ogni anno, sabato 7 settembre si tenne cappella reale nella solita Real Chiesa del
Carmine Maggiore in commemorazione della famosa vittoria di Nördlingen ottenuta dai
cattolici sui protestanti nel 1634 e poi si festeggiò con salva reale dell'artiglieria dei castelli
della Capitale; il giorno seguente ci fu invece la tradizionale festa della Natività della
Madonna e, squadronatasi come il solito la fanteria spagnola sulla spiaggia di Chiaia, il viceré
e la viceregina in una delle loro tre bellissime carrozze e accompagnato dalle due compagnie
di corazze, dagli alabardieri alemanni, dal Cavallerizzo Maggiore e dalla loro numerosissima
corte bassa, ossia da tutti i famigli, si recò al santuario della Madonna della Natività di
Piedigrotta; prima di quella vicereale sfilò la carrozza del reggente della Vicaria, cioè ora il
principe d’Ottaiano di casa Medici, scortata dai soliti 12 alabardieri dell'alto magistrato, ma
seguita stavolta da un gran numero di uomini armati d'arma da fuoco, evidentemente per
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precauzione nel passaggio in mezzo a quella gran calca di popolo dopo le molte condanne
inflitte da quel sommo tribunale; ma la vera novità di quest'anno era che il corteo vicereale
passava ora per il nuovo lungomare del Borgo di Chiaia, strada voluta appunto dal Medinaceli
e non ancora del tutto terminata, la quale era abbellita da numerose piante ornamentali e da
una serie di belle fontane, oggi in massima parte scomparse e, per il resto, trasferite altrove.
Verso la metà di settembre, con lettere di Spagna datate 23 agosto, arrivò ufficialmente
a Napoli la pessima notizia della resa di Barcellona ai francesi di Louis-Joseph de Vendôme
duca di Vendôme (1695-1710) e dell’ammiraglio d’Êtrées, resa avvenuta il 10 agosto e
capitolata il 15, dopo che la città era stata semidistrutta da un’ininterrotta pioggia di bombe e
carcasse e scossa dallo scoppio di tantissimi fornelli (‘mine’) e da molteplici assalti generali. Il
dispiacere che questa brutta nuova provocò fu solo in parte mitigato dalla notizia che
resistevano invece bravamente all’assedio dei mori, iniziato nel marzo precedente, le
guarnigioni di Ceuta e di Melilla in Marocco e da quella della nuova della grande vittoria che il
principe Eugenio di Savoia il giorno 11 dello stesso settembre riportava sui turchi a Zenta in
Ungheria, la più grande vittoria che si fosse mai ottenuta in Europa contro gli ottomani, per cui
nella prima settimana d’ottobre il viceré tenne di nuovo cappella reale nella Real Chiesa del
Carmine Maggiore, con accompagnamento delle due compagnie di corazze, squadronamento
della fanteria spagnola nella piazza antistante, triplicata salva dei moschetti e salva reale
delle artiglierie dei castelli, e che poi fu ufficialmente festeggiata il 13 seguente; alla fine
d’ottobre Eugenio di Savoia prenderà Sarajevo, ma la migliore notizia in assoluto risulterà poi
quella della pace di Riiswijck sottoscritta in più riprese - tra il settembre e l'ottobre - tra le
principali potenze europee, pace che metteva finalmente fine alla novennale guerra detta
della Lega d'Augusta.
Giovedì 19 settembre i coniugi vicereali si recarono in seggetta (‘portantina’) ad
assistere al miracolo di S. Gennaro, quest’anno particolarmente felice perché il ribollimento
del sangue continuò anche nei giorni seguenti; frattanto, poiché a seguito di una ricorrente
attività eruttiva del Vesuvio erano iniziati dei disordini nelle zone interessate da quel
distruttivo fenomeno, il viceré aveva ordinato a Ignazio d’Amico, Regio Commissario della
Campagna, di trasferirsi dal suo tribunale di Fratta Maggiore alla Torre del Greco con un
grosso numero dei suoi soldati, cosa che fu sollecitamente eseguita. Verso il 20 ottobre,
saputosi che un bergantino corsaro turchesco infestava le acque di Ponza, il Medinaceli fece
salpare a quella volta una galera della squadra di Napoli armata rinforzatamente e abbiamo
forse già spiegato che rinforzare una galera significava aumentare i suoi remiganti da tre a
quattro per banco e si diceva infatti anche inquartarla, mentre rinforzare una galeotta, ossia
aumentarne i remieri da due a tre per banco, si diceva interzarla; ma le galere più grandi,
come le capitane, avevano quattro uomini per remo di prassi e quindi, quando si voleva
rinforzarle, si ponevano cinque uomini a banco. La mattina di lunedì 21 ottobre mattina
approdarono a Pozzuoli quattro galere pontificie provenienti da Levante, dove avevano
combattuto con l'armata veneta contro gli ottomani e, essendo ora la loro campagna
terminata, a causa dell'avanzata stagione poco adatta alla navigazione delle galere, le quali
non reggevano il tempo inclemente, dopo una breve sosta in quel porto ripresero il viaggio
verso la loro base di Civitavecchia. Giovedì 21 novembre il San Carlo, ossia il grande
vascello reale appena costruito, armato ed equipaggiato nell'arsenale di Napoli, partì per il
suo primo viaggio sotto il comando del suo capitano britannico Albert Adsor; portava a bordo
150 fanti spagnoli e 200 italiani alla volta di Longone, dove avrebbe sbarcato i primi e
imbarcato altre due compagnie d'italiani per dirigersi poi verso la Spagna; ma, arrivato poi
all’imboccatura del golfo di Cadice, incappato probabilmente in una burrasca, si sfasciò in
maniera irreparabile, immaginiamo con grande vergogna delle maestranze napoletane che
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l’avevano costruito e che non avevano saputo forse ben equilibrare i pesi delle alberature o,
più probabilmente, degli artiglieri di bordo che non avevano sufficientemente assicurato con
funi quelli delle loro pesanti bocche da fuoco. Il Savérien, eruditissimo architetto navale di
Arles che eppure scriveva molto più tardi, alla metà del Settecento, se fosse vissuto già
allora, avrebbe certamente commentato: L’avevo detto io! Egli infatti, ancora alla sua epoca
era contrario alla costruzione di vascelli molto grandi, affermando che più grossi erano e più
grandi e pericolosi erano i loro difetti di costruzione:
… Qualunque vantaggio essi presentino, l’architettura navale è ancora troppo imperfetta per
esporsi ai pericoli d’una cattiva costruzione, la quale è inevitabile, come si è provato nell’usare
tali vascelli…
E raccontava diversi episodi storici al riguardo; è comunque davvero sorprendente
notare come fosse presente la consapevolezza del certo avanzare del progresso tecnicoscientifico già in un uomo di quei tempi. Certo di grandi vascelli nei cantieri di Francia,
Spagna, Olanda, Inghilterra, Svezia se ne costruivano tanti, ma quelli napoletani, prima dello
sfortunato San Carlo, non ne avevano mai provato a fare uno e quelli più grandi che avessero
mai costruito erano state le famose quattro galeazze che nel 1588 andarono a potenziare
l’Invencible Armada, congregazione di grandi vascelli che però poi, come si sa, nemmeno se
la passò abbastanza bene quando si trattò di affrontare il maltempo! In verità in generale i
marittimi e le maestranze dei porti oceanici (ponentini, come allora si diceva) non avevano
nessuna stima di quelli levantini, perché dicevano che era gente molto sfaticata, inoltre cattivi
artiglieri ed infine, come se questo non bastasse, come navigatori erano solo abituati ad
affrontare la tranquilla, quasi lacustre navigazione mediterranea; ma il bello è che col termine
levantini non indicavano, come facciamo noi, i soli popoli che si affacciano sul Mar di Levante,
chiamavano infatti così tutti i mediterranei; insomma i navigatori di S. Malo, Le Havre o
Boulogne non avevano nessuna stima di quelli di Marsiglia o di Tolone!
A consolazione delle maestranze partenopee si può però dire che perlomeno il San
Carlo era arrivato da Napoli fino al golfo di Cadice; il 10 agosto 1628 il superlativo Vasa non
era invece nemmeno arrivato a uscire dal porto di Stoccolma!
All'inizio di dicembre arrivò la notizia che al principe di Cariati di Casa Spinelli, fratello
del duca di Seminara, come già al padre era stato concesso il grandato; la mattina del 10
dello stesso mese entrarono in darsena tre delle sei galere napoletane comandate dal loro
governatore Villavincencio; queste tornavano dalla Spagna, dove avevano attivamente
partecipato alle operazioni di guerra, via Civitavecchia, mentre le altre tre, a causa del
maltempo, si erano dovute dividere dalle prime e riusciranno ad approdare nel porto
partenopeo solo due giorni più tardi.
Qualche tempo prima di Natale capitò a Napoli di passaggio il generale tedesco barone
Steinau (Stenhaus, secondo altra fonte), il quale aveva esercitato l'incarico di generale da
sbarco sull'armata veneta che aveva recentemente operato in Levante; era costui sbarcato a
Otranto in compagnia di suo fratello colonnello, del suo tenente e del suo medico e, godute le
degne accoglienze della corte di Napoli, ripartì poi domenica 22 dicembre alla volta di Roma e
Venezia, avendo come destinazione ultima la sua patria in Sassonia. Trovavasi anche a
Napoli, ma venuto dalla corte di Madrid, il mastro di campo biscaglino Joseph Alava, il quale
era con patente reale di nuovo governatore della piazza di Longone, a tanto promosso in
considerazione della sua ben nota perizia militare e del valore sempre dimostrato al servizio
della Corona, e non aspettava altro che le istruzioni del viceré per recarsi a prendere il
comando di quella fortezza; infine diremo che in questo periodo, come esperto di costruzioni
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civili e militari, il viceré utilizzava i servigi dell’architetto Cristofano Schor e dell’ingegnere
maggiore e tenente generale dell’artiglieria Luc’Antonio Natale, questo dopo qualche anno
deceduto e sostituito da un figlio anche lui ingegnere militare esperto di fortificazioni.
1698. Giovedì 2 gennaio furono passati in rassegna mensile le due compagnie di cavalli
corazze della guardia del viceré e risultarono così costituite:
Soldati Cavalli
Compagnia del capitano Nicolò Coppola
Compagnia del capitano fra’ Ventura Saracini
56
62
46
47
Nel maggio il viceré fece rivestire con nuovi abiti buona parte delle soldatesche del
regno per poi provvedere a uno dei soliti ordinari cambi delle guarnigioni della fortezza di
Gaeta e dei presidi di Toscana; a titolo esemplificativo, riportiamo qui di seguito il piede o
forza di una delle compagnie del terzo fisso spagnolo che erano di presidio a Porto Ercole in
questo 1698 e si tratta della compagnia del capitano Juan Prieto:
Capitano
Alfiero
Sargente
2 tamburi
Piffero
Abbanderato (ossia portabandiera)
Barbiero
Foriero
94 soldati.
Si noti la mancanza del tenente e ciò in conformità alla vecchia tradizione dell'esercito
spagnolo, la quale voleva il luogotenente solo nella compagnia di cavalleria, mentre in quella
di fanteria tale ruolo era sostenuto dall'alfiero; tale concezione però presto cambierà,
uniformandosi a quella della fanteria francese dove invece era presente anche il tenente.
Giovedì 21 agosto fecero mostra le cinque compagnie di corazze dette di nuova leva che si
trovavano di presidio a Napoli e il 28 successivo le si fece partire smontate per il Milanese; tra
queste notiamo la compagnia del tenente generale della cavalleria Sigismondo de Rho e
quella di fra’ Tomaso Caracciolo, il quale poi in quello stato diventerà mastro di campo.
Alla fine d'agosto arrivarono a Napoli in visita di cortesia 20 galere francesi comandate
dal loro tenente generale Jacques de Noailles, cavaliere e balì di Malta, fratello del duca di
Noailles e del vescovo di Chálons, in onore di cui il 1° settembre il Medinaceli offrì un gran
convito. Nel corso di questo 1698 Domenico de Sangro fu nominato capitano della compagnie
di corazze della guardia del viceré che era stata sino allora del Coppola.
1699. Lunedì 26 gennaio di quest’anno si stipulò la pace di Karlowitz, con cui i turchi
restituivano all’impero la Transilvania e l’Ungheria e a Venezia il Peloponneso, arretrando
quindi la Gran Porta consistentemente in Europa. Nel marzo era luogotenente generale della
cavalleria napoletana che da lunghi anni stanziava nel Milanese Arcato Araceli, mentre alla
fine dell’ottobre, essendo vacato il mastrato del terzo di fanteria spagnola, detto tercio viejo
de la Mar de Nápoles, pure operante in quello stato, per la morte di Juan Zeñuda, sarà
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conferito a Luis de Guzman y Spinola, secondogenito di Juan Antonio de Guzman y Spinola
duca di San Pietro. Il terzo dello Spinola, che come sappiamo, era di stanza a Valenza, a una
rivista che gli sarà poi passata nel Regno di Napoli all’inizio di giugno del 1702 risulterà
formato di 12 compagnie.
Da una corrispondenza da Bruxelles dell'11 dicembre si venne a sapere che il generale
dell'artiglieria di Fiandra, cioè il napoletano duca di Bisaccia di casa Pignatelli, stava
ispezionando artiglieria e magazzini militari delle piazze di quelle frontiere; il Pignatelli
risulterà esercitare ancora quell’alto incarico nel maggio del 1703.
1700. Nell'anno 1700, secondo il de Clonard, le fanterie della corona di Spagna in Europa
comprendevano i seguenti terzi napoletani o comandati da napoletani:
Provincia
Mastro di campo
Spagna:
Pietro Garofalo
Gioan Battista Visconti (ex Armada viejo)
Luigi Gaetano d'Aragona
Domenico Recco
Paesi Bassi:
Marcello Ceva Grimaldi
Paolo Magno
Domenico Acquaviva
Tomaso Caracciolo
Milano:
Ciarletta Caracciolo
Gioseppe de Mariconda
Ma il de Clonard, sempre approssimativo e impreciso, si sbagliava anche stavolta a
proposito del Mariconda, il quale diventerà mastro di campo solo nel 1705; il terzo di Ciarletta
Caracciolo dei principi della Torella era di stanza a Tortona e colà infatti nel maggio del 1700
riceverà la visita di Francisco de Córdoba, mastro di campo generale dello Stato di Milano, il
quale stava compiendo un giro della Lombardia per ispezionarvi tutte le soldatesche stanziali.
Chiamato ad altri non ben precisati incarichi e onori il mastro di campo Domenico Acquaviva,
nel marzo del 1701 il suo terzo passerà al mastro di campo Antonio Grimaldi e risulterà
ancora in Fiandra nel maggio del 1704; probabilmente passerà ad altro mastro di campo,
nello stesso 1700, anche il terzo di Marcello Ceva Grimaldi, perché questi tornerà a Napoli in
licenza sabato 26 giugno dopo esser stato appena promosso nei Paesi Bassi sargente
generale di battaglia, come coronamento dei suoi 25 anni di servizio militare prestato alla
corona di Madrid (alle importanti promozioni seguiva spesso una licenza straordinaria che
permetteva al neopromosso di rivedere il suo paese, spesso dopo tanti anni d'assenza). Con
il Grimaldi il predetto 26 giugno farà ritorno a Napoli un altro mastro di campo, il cavaliere
gerosolimitano commendator fra’ Domenico Recco, il quale sarà però per un’altra ragione e
cioè per reclutare 400 fanti nelle province di Montefusco, Salerno, Aquila e Chieti a beneficio
del suo terzo di sperimentati napoletani che operava in Catalogna; egli mancava da Napoli da
ben 24 anni, in cui aveva sempre servito la monarchia, e arriverà via terra accompagnato dai
quattro capitani superstiti del detto terzo, avendo fatta la strada di Roma per approfittare
dell'Anno Santo e del relativo giubileo. In realtà poi troveremo due di questi suoi capitani a
reclutare in tutt’altre province e cioè il cap. Antonio Scano in Abruzzo e il cap. Galluccio in
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Principato Ultra, mentre un cap. Gioseppe Gaudio recluterà invece in Calabria e Basilicata
per i terzi napoletani di Fiandra.
Il già ricordato reggimento di Antonio Grimaldi si troverà comunque ai confini del
Lussemburgo alla fine del maggio del 1704, come testimoniato da un avviso da Bruxelles del
24 di quel mese, così come anche risulterà ancora operante nell'ottobre del predetto anno il
terzo Aragon (?), nel frattempo però divenuto reggimento. Ai terzi combattenti nei Paesi Bassi
se ne deve poi aggiungere, già dal maggio 1700, quello non napoletano del baron de
Corrieres, corpo che, venendo il suo mastro di campo promosso governatore della città di
Courtrai, sarà affidato in tal mese a Francesco (Cicco) Gaetano d'Aragona, figlio del duca di
Laurenzana, anch'egli mastro di campo in quell'esercito, ma senza terzo, essendo il suo stato
riformato due anni prima; nel 1702 troveremo il d'Aragona colonnello di un reggimento di
cavalleria della guardia reale. Sempre nei Paesi Bassi, si formava in questo periodo un terzo
vallone sotto il comando del napoletano Filippo Caracciolo, corpo che poi - sabato 22
novembre 1702 – si trasferirà da Bruxelles a Charleroy.
Venerdì 15 gennaio 1700 fece ritorno a Napoli da Roma il conte di Lemos, grande di
Spagna, parente del Medinaceli e generale delle galere di Napoli, mentre, provenienti da
Genova, tra mercoledì 20 e sabato 23 seguenti approdavano nel porto partenopeo tre galere
del duca di Tursi; furono poi condannati a Napoli 15 rei, di cui 11 al remo e quattro alla
guerra. Martedì 16 febbraio la contessa di Lemos, la marchesa del Valle di casa Alarcón y
Mendoza, la principessa di Santobuono e sua nuora si recarono a bordo della galera
Capitana della squadra di Napoli, dove furono raggiunte dal sunnominato conte di Lemos e da
un principe straniero di casa d'Harmstadt, il quale si trovava di passaggio a Napoli, e dove
furono servite di rinfresco e di innumerabili curiosi giuochi da i forzati di quella, giuochi tra il
ginnico e il clownesco che si facevano forzatamente eseguire ai remiganti per divertimento
degli ospiti di riguardo e di cui scrivono pure il Cervantes e Jean Marteilhe nelle sue memorie;
tale esibizione fu infatti accolta con indicibile sodisfazione di tutte quelle dame e cavalieri e
bisogna anche tener conto di un possibile pizzico di morbosità in questa soddisfazione,
giacché talvolta i capitani facevano esibire i remiganti completamente nudi, specialmente se
tra gli ospiti v'erano, come in questo caso, delle dame; gli invitati furono inoltre salutati, sia nel
salire a bordo, sia nello sbarcare, da una salva di tutta l'artiglieria di detta galera.
Erano in questo periodo castellano del Castel dell'Ovo il mastro di campo spagnolo
Torrejon y Peñalosa, il quale morirà però nel gennaio del 1706, e capitani delle due
compagnie di cavalli corazze della guardia del viceré il cavaliere di Malta commendator
Saraceni e Domenico di Sangro di Torre Maggiore. Verso la metà di marzo di questo anno
1700 furono catturati due disertori del terzo fisso spagnolo, i quali furono condannati da
Francisco de la Cueba, auditore dello stesso terzo, a essere archibugiati e quindi furono
condotti al patibolo; questo per lo più consisteva in pali piantati a terra nel largo del Castello
Nuovo e a cui, davanti al plotone d'esecuzione, si legavano i condannati. Questa forma di
pena capitale era riservata ai militari non nobili, perché i nobili avevano invece diritto alla
tradizionale decapitazione nel largo del Mercato, luogo dove pure si giustiziavano civili e
plebei, ma questi a mezzo d'impiccagione, forma d’esecuzione quest’ultima che, in caso
d’occasionale mancanza di un boia, si faceva generalmente eseguire a un forzato di galera;
allo stesso modo, la pena del remo non era per i nobili, i quali per reati equivalenti ad anni di
galera erano invece condannati ad anni di relegazione, cioè d’esilio. I due predetti disertori
avevano però evidentemente la fortuna d'essere spagnoli e per gli spagnoli che servivano e
commettevano delitti all'estero quasi mai si arrivava effettivamente a eseguire una condanna
capitale; infatti nell'avviso del 23 marzo che riporta l'episodio così si conclude:
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...e nel giovedì 18 del corrente furono ambedue detti soldati condotti al patibolo e, nell'atto di
doversi effettuare la giustizia (esecuzione), l'Eccellenza Sua (il viceré) si compiacque far loro
la grazia della vita, essendo rimasti semivivi per l'orrore concepito dell'imminente morte...
Che non si volesse, in effetti, far a meno di due soldati spagnoli, soldati tanto rari e
preziosi per le loro indiscusse virtù militari, lo dimostra la circostanza che l'avviso predetto
non prosegue affatto col dire che le due condanne erano state convertite in voga forzata ai
remi delle patrie galere, cosa che sarebbe stata invece automatica nel caso di due condannati
a morte italiani.
Negli ultimi giorni dello stesso marzo numerose soldatesche spagnole lasciarono Napoli
via mare per andare a mutare i presidi di Gaeta e di Reggio e via terra per sostituire invece
quelli d'Abruzzo. Martedì 27 aprile si dette notizia della morte del preclaro mastro di campo
Alvaro Minutillo y Quiñones, cavaliere di S. Giovanni gerosolimitano e membro del Regio
Consiglio Collaterale, il quale fu sepolto con pomposo funerale nella chiesa di Santa Maria
Maggiore detta la Pietra Santa, evidentemente per qualche reliquia che in essa si conservava.
Altra nuova di quello stesso giorno 27 - questa portata dal corriero di Spagna - fu che il
castellanato o governatorato del castello di Civitella del Tronto, allora vacante, era stato
conferito a Manuel de Arrieta, sargente maggiore del terzo fisso degli spagnoli. Domenica 9
maggio lasciò Napoli Giovanni Carafa di Policastro, il quale tornava in Germania a esercitarvi
la sua carica di colonnello al servizio cesareo, mentre giovedì 20 dello stesso predetto mese
moriva un altro ben noto e distinto mastro di campo e cioè Martín de Castrejon y Medrano, il
quale, oltre a essere, come sappiamo, il comandante del terzo antico o fisso degli spagnoli,
era anche cavaliere dell'ordine di San Giacomo, consigliere del Consiglio Collaterale e
membro della Giunta di Guerra; fu sepolto nella chiesa di S. Lucia del Monte, chiesa dei
francescani riformati spagnoli.
Martedì 25 maggio faceva ritorno a Napoli dalla Puglia l’ottantenne generale principe di
Montesarchio; perché ci fosse andato, non sappiamo; nella notte di giovedì 27, saputosi che i mari di
Calabria erano infestati dai pirati tripolini, i quali intercettavano i mercantili diretti alla capitale, e che
molte tartane cariche d’olio erano a causa loro bloccate nel porto di Crotone, quattro galere delle
cinque del duca di Tursi (squadra che allora contava, come sappiamo, un totale di sette galere)
da alcuni anni poste al servizio del viceré di Napoli e che allora si trovavano in sosta a Baia, mentre la
quinta, ossia la Capitana, era invece ormeggiata nella darsena di Napoli, salparono per andare a
pattugliare quelle marine, compito che non si poteva affidare a quelle della squadra del regno, in
considerazione che queste, ricevute le loro paghe e provviste di tutto l'occorrente, partivano la stessa
notte per i Presidi di Toscana, dove portavano ben 1.300 fanti destinati alla muta di quelle guarnigioni.
I dispacci inviati nel giugno al suo senato dal residente veneziano Savioni confermano la
recrudescenza delle incursioni barbaresche nelle acque dello stretto di Messina, verso le quali, per
partecipare alla difesa, navigavano allora anche le galere di Malta; ma una burrasca che le colse
nelle acque di Ustica ne fece naufragare una, la S. Paolo, perendovi la maggior parte della ciurma
e tre cavalieri gerosolimitani; ma già nell’agosto successivo nell’arsenale della Valletta, approfittando
del legname all’uopo regalato dalla Signoria di Venezia e della promessa del regalo di 200 forzati fatta
dal Pontefice, si darà inizio alla costruzione di una nuova galera.
Un avviso da Genova del 26 giugno informava inoltre che tre barche sorrentine, di cui due
cariche di frumento e una d'aceto che portava a Livorno, erano state predate dai barbareschi lungo il
famigerato litorale laziale, sempre molto infestato da detti corsari, e pertanto si apprestavano a uscire
in corso le galere del granduca di Toscana e ciò in nome della strettissima collaborazione che c'era
tra quel principe e il Vaticano; in effetti anche la squadra di Napoli, per antico obbligo assunto dalla
corona di Spagna con lo Stato della Chiesa, correva spesso in aiuto di quella dell’ordine militare di S.
246
Lazzaro, il quale era stato a suo tempo istituito dal Papato proprio con il compito di tener purgata da
quella calamità la cosiddetta spiaggia romana. Questo disgraziato litorale era stato in questo stesso
secolo molto travagliato anche da corsari francesi e catalani, i quali avevano intensificato la loro
presenza in quelle acque ai tempi della guerra per la successione di Mantova (1630-1631) e
dell’instaurarsi d’una preponderanza francese in Piemonte, e, come se tutto ciò non bastasse, era da
sempre lo spauracchio dei naviganti, specie delle galere che venivano da sud, per le correnti e i venti
contrari in cui così spesso colà s’imbattevano e che spesso le obbligavano a indietreggiare a Gaeta e
restare riparate in quel porto per periodi a volte anche d’una quarantina di giorni.
Frattanto anche Le forze marittime francesi minacciavano il regno, specie per la lunga
sosta di una loro squadra a Genova, e da Otranto s’informava che vascelli armati francesi
erano stati avvistati nelle acque di Zante e così il 6 e il 13 luglio scriveva il detto Savioni dei
preparativi di difesa che pertanto in quei giorni si facevano a Napoli:
A scopo, più che altro, decorativo si sono collocati pezzi di artiglieria nei punti più esposti di
questa città, specie al capo di Posilipo e al molo…
… pertanto si è ordinato alle provincie di tenere al completo le loro milizie, ossia il così detto
‘Battaglione’, quanto mai trascurato da anni, e alla cui testa si vanno ponendo ufficiali capaci in
sostituzione di quelli o inabili o morti. Ufficiali superiori di provata esperienza (tra gli altri il duca
di Popoli, generale dell’artiglieria, recatosi a Gaeta) sono stati inviati a ispezionare le principali
fortezze costiere.
Per rinforzare le ciurme delle galee si è presa l’abitudine di condannare al remo i rei di
qualunque delitto, grosso o piccolo; tanto che dai balconi di questo palazzo Venezia (oggi il n.
civico 352 a via Toledo) ne vedo passare incatenati da quattro a sei per giorno…
Il 24 agosto aggiungerà:
… Qui poi si continua a raccogliere e armare il ‘Battaglione’, ma i soldati regnicoli che lo
compongono si contentano per ora di guerreggiare contro il popolo napolitano, vittima d’ogni
sorta d’avanie (‘soperchierie’). Per ricordare un esempio solo, mentre passavo in carrozza per
la via Santo Spirito di Palazzo, un soldato ubbriaco si avventò col brandistocco (‘spiedo,
mezza picca’) contro i miei cavalli e sarebbe accaduto chissà quale disastro se un suo
compagno non fosse riuscito a disarmarlo.
Il mese successivo però il detto soldato sarà portato in stato d’arresto al palazzo di San
Marco, cioè al suddetto palazzo Venezia dove chiederà perdono al Savioni; sicuramente lo
ottenne, anche se non c’è dubbio che gli era stato imposto di chiederlo.
Sabato 3 luglio nel largo del Castel Nuovo era stato In quel mentre archibugiato un
soldato disertore come dispongono le leggi militari; evidentemente il disgraziato non aveva
avuto la fortuna d'essere spagnolo, come i due graziati dal viceré nel precedente marzo! Un
altro sventurato fu giustiziato alla stessa maniera sabato 10 seguente, ma questo nei quartieri
di Pizzo Falcone, dotati di un largo cortile come ancor oggi si può vedere, e ciò forse per non
impressionare troppo la gente comune con tutte queste ricorrenti diserzioni:
Nel sabato 10 del corrente entro il presidio di Pizzo Falcone fu archibugiato un altro soldato
disertore, non volendo l'Eccellenza Sua usar veruna indulgenza a tali delitti per esempio degli
altri.
Un altro avviso genovese ci permette di capire l'intensità dei movimenti di galere che, al
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servizio della monarchia di Madrid, si avvicendavano nel Tirreno:
(Genova, 24 luglio:) Sono partite per il corso le nostre 4 galere e si aspettano quelle di Napoli
con alquanti soldati da sbarcar al Finale, essendone giunte due dello stuolo di Tursis per
ricevere la catena de’ condannati al remo proveniente da Milano e ripartirli su le altre galere
che sono a Gaeta.
Probabilmente le galere napoletane, dopo aver fatto nel mese di giugno una sosta nel
Presidi di Toscana, come sopra detto, invece di tornare a Napoli avevano proseguito il loro
viaggio per sbarcare parte del loro carico umano anche in Liguria; per quanto riguarda la
rigata, che così si chiamava a Milano la catena dei galeotti, essa lascerà la capitale lombarda
per Genova il giorno seguente, 25 luglio, come si può leggere in un avviso milanese del 28.
Lunedì 26 luglio moriva nella sua città di Catanzaro il settantottenne Geronimo Susanna, un
mastro di campo che aveva servito il suo re per 50 anni, sia in guerra viva, sia passando sei
anni prigioniero e schiavo dei turchi, di cui uno al remo delle galere e tre ai lavori forzati, in
ricompensa di cui servigi il re gli aveva conferito nel tempo i governatorati di Gallipoli, Brindisi
e Tropea e i presidiati di Montefusco e dell'Aquila; fu sepolto nella locale chiesa dei padri
gesuiti, dove la sua famiglia aveva cappella gentilizia.
Nella prima settimana d'agosto cinque galere de’ particolari, ossia degli armatori privati
condotti da Gioan Andrea d’Oria del Carretto duca di Tursi, le quali si trovavano a Napoli,
partirono in corso verso le acque di Calabria e Messina e faranno ritorno a Napoli nella terza
settimana di settembre, mentre verso il 15 tornarono da Genova le altre due, e quali erano
andate in quel porto a imbarcare 150 condannati provenienti dallo Stato di Milano.
In quel mentre il suddetto d’Oria, trovandosi a Genova, aveva compiuto un viaggio a
Milano:
(Genova, 15 agosto, missiva dell’ambasciatore veneziano Sornioni:) Insofferente di scambiare
visite di urbanità con gli ufficiali della squadra francese ancorata qui, il duca di Tursi, generale
delle galee particolari ora al servizio di Napoli, ha colto il pretesto di un’indisposizione del suo
amico Marc’Antonio Visconti per andarsene a Milano.
Alla fine dello stesso agosto si saprà che i tripolini, sbarcati da due vascelli presso il
Capo di Alici (oggi ‘Punta dell’Alice’), avevano catturato sette contadini e inoltre nelle acque di
Messina avevano predato una tartana trapanese, il cui equipaggio era fortunatamente riuscito
a porsi in salvo in quella città; negli stessi giorni lettere dalla Spagna portavano il
conferimento del terzo antico degli spagnoli, il cui comando era vacante dalla summenzionata
morte del Castrejon y Medrano, al mastro di campo Joseph Caro, governatore dell'armi di
Gaeta, il quale giungerà a Napoli da detta piazzaforte nella prima decade d'ottobre.
(Savioni, 31 agosto:) In un diverbio accaduto nel cortile di Palazzo Reale il nocchiero di
monsignor Nasoni ha ricevuto da un soldato alcune piattonate sulla testa, di che invano il
nunzio (apostolico) abbia chiesto soddisfazione.
Martedì 7 settembre fu commemorata, com’era tradizione, la grande vittoria di
Nördlingen del 1634 e il giorno seguente fu quindi festeggiata la Madonna di Piedigrotta; nella
serata di domenica 12 settembre si tenne poi, nelle acque e sulla costa del golfo di Napoli,
una finta battaglia navale tra cristiani e turchi, finzione a cui parteciparono le galere che si
trovavano allora in darsena a Napoli. Giunse poi da Madrid ordine di costruire a Messina due
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vascelli da guerra e a Napoli tre, tra cui uno da 70 cannoni per l’Almirante dell’Oceano, ma,
non trovandosene poi traccia negli avvisi, c’è da ritenere che il progetto non sarebbe stato
realizzato e ciò con certo sollievo non solo del popolo, per cui ciò avrebbe significato pesanti
vessazioni fiscali aggiuntive, come era già accaduto pochi anni prima per la costruzione del
pessimo San Carlo, ma riteniamo anche dei protomastri dell’arsenale napoletano, non usi in
verità alle grandi costruzioni oceaniche. In verità anche i due vascelli da costruirsi a Messina
arrecavano qualche preoccupazione a Napoli:
(Savioni, 14 settembre:) …al qual proposito il principe di, generale delle galee regie siciliane,
mi disse due giorni fa che prevedeva d’essere chiamato da un momento all’altro in Spagna,
non ostanti i suoi ottant’anni e i non pochi malanni che lo rendono un cadavere ambulante.
All'inizio della seconda metà di settembre moriva un quarto alto ufficiale e cioè il mastro
di campo fra’ Nicolò Recco, cavaliere gerosolimitano come il suo sunnominato parente
Domenico, e fu sepolto nella sua cappella gentilizia nella chiesa di San Giovanni a carbonara
dei padri agostiniani. Sabato 25, sempre di settembre, il viceré graziò un soldato disertore che
l'auditore generale del regno, il marchese di Montefalcone, aveva condannato
all'archibugiazione e la grazia raggiunse il disgraziato mentre già lo si conduceva al patibolo;
nel medesimo giorno arrivò a Napoli una catena di 12 delinquenti condannati chi al remo, chi
a servire in guerra e l'inviava il già nominato Ignazio d'Amico, giudice di Vicaria e regio
commissario generale della campagna di Terra di Lavoro, territorio ancor oggi famigerato col
nome di i Mazzoni. Seppesi poi dalla Fiandra che il suddetto mastro di campo napoletano
Domenico Acquaviva era tornato colà dalla Spagna, dove aveva ricevuto l'onorificenza del
Toson d'Oro dalle stesse mani del re, ma, lupus in fabula, troveremo costui a Napoli alla fine
dello stesso settembre in partenza per Parigi via Genova né sappiamo quando e perché fosse
tornato in regno e che cosa andasse ora a fare nella capitale francese.
Seppesi che quattro corsari tripolini continuavano a infestare le coste calabresi e, tra
l’altro, avevano catturato nel golfo di Catanzaro due tartane frumentarie napoletane e ne
avevano incendiata una terza che non erano riusciti a rimorchiare come le altre.
Nella mattinata di sabato 23 ottobre il viceré si portò nel regio arsenale a piantare il
tradizionale primo chiodo dorato alla nuova galera che si doveva costruire e che sarebbe
servita come Capitana della squadra di Napoli, in considerazione che la vecchia non era
ormai più in condizione di tenere il mare; un avviso genovese del 30 seguente portò poi la
notizia che una caravella turca aveva catturato una barca sorrentina carica di grano nel
canale di Piombino.
Il 1° novembre moriva il re di Spagna Carlo II, l'ultimo della dinastia degli Asburgo di
Spagna, detti los Austrias, senza eredi di sangue e questa disgraziata circostanza
provocherà, già con inizio dall'anno seguente, un’altra guerra lunga e sanguinosissima, cioè
quella detta della Successione Spagnola, la quale non avrà termine prima del lontano 1714;
infatti il sovrano, contro le attese del mondo intero, lasciava suo erede Filippo Borbone duca
d'Angiò, figlio del Delfino di Francia e nipote di Luigi XIV, estromettendo così la casa d'Austria
dal trono di Madrid e gli Asburgo di Vienna, come vedremo, non tollereranno una scelta che
faceva entrare la Spagna e i suoi immensi possedimenti nell'area d'influenza francese.
Nell’Europa settentrionale era frattanto già iniziata una nuova guerra del Nord, in cui l’8
agosto Carlo XII, un altro sovrano svedese che si distinguerà per le sue grandi capacità di
condottiero, aveva, con la vittoria di Copenhagen, subito costretto la Danimarca a trattative di
pace e poi il 30 novembre a Narva in Estonia aveva disfatto un esercito russo quattro volte
più numeroso del suo.
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Sabato 18 dicembre giungeva a Napoli, in missione da Milano, il già nominato tenente
generale Gaetano Coppola di Canzano, il quale era stato inviato da Carlo Tomaso di Lorena
principe di Vaudemont, ultimo governatore e capitano generale di Spagna a Milano, a
chiedere al Medinaceli ancora soldati e denaro; ottenne una tratta di 50mila ducati, con cui
ripartì subito per la Lombardia, e la promessa di alcune centinaia di reclute e infatti l’anno si
chiudeva con l'arrivo di tre galere della squadra dei privati del duca di Tursi, squadra che
svernava, come ogni anno, a Gaeta, le quali erano state richiamate a Napoli per effettuare il
trasporto a Finale dei suddetti soldati regnicoli destinati allo Stato di Milano. Frattanto era
inziata anche
1701. All’inizio dell’anno erano inoltre pronte a salpare da Napoli le tre suddette galere del
duca di Tursi che dovevano portare circa 450 soldati, tra sperimentati e coscritti, destinati a
Milano, i quali erano stati sino allora alloggiati, come il solito, nell’arsenale, ma la partenza fu
ritardata dal maltempo e riuscì solo il giorno mercoledì 5 gennaio; queste galere, le quali
viaggiavano di conserva con due tartane genovesi sulle quali erano state caricati 1.500 barili
di polvere e 2mila bombe, arriveranno a Genova la mattina del sabato 22 e il 25
proseguiranno per Finale dove sbarcheranno i predetti soldati, i quali da lì dovevano
incamminarsi per Alessandria, dove sarebbero stati armati di fucili e non più dei vecchi
moschetti a miccio; le predette galere faranno ritorno a Genova il 27, porto da cui infine
salperanno martedì 15 febbraio per riprendere la rotta per Napoli; le dette tartane invece
arriveranno a Porto Venere parecchio più tardi, cioè tra il 10 e il 12 febbraio seguente.
Frattanto giunse notizia da Capri che, in occasione del Trigesimo della morte del re, quella
popolazione aveva voluto commemorare degnamente il triste avvenimento formando, tra
l’altro, due squadroni di soldati di presidio e di miliziani armati tratti per l’occasione dagli
abitanti dell’isola medesima.
Giovedì 6 gennaio si tenne a Napoli una sontuosissima cavalcata pubblica di titolati e
cavalieri nell'ambito dei festeggiamenti organizzati per l'acclamazione di Filippo d'Angiò,
nipote di Luigi XIV, nuovo re delle Spagne. La Corte del viceré, i funzionari pubblici e i civili
sfilavano vestiti di nero con la golilla, cioè alla spagnola, secondo una moda che era entrata in
uso generale in Spagna più di un secolo prima, quasi a voler ribadire che, anche se il nuovo
re era francese, Napoli restava fedele alla tradizione spagnola della monarchia; i militari
invece nella foggia francese:
… Comparivano dopo questi, vestiti alla franzesa, come persone militari, due ajutanti del
mastro di campo generale e due tenenti generali… (Bulifon, XXVIII.C.12)
Iniziava la cavalcata la compagnia di corazze della guardia del commendator Saraceni
vestita molto riccamente e poi, per quanto riguarda i militari, si notava la guardia degli
alabardieri alemanni - in realtà svizzeri di lingua tedesca, come già sappiamo - con il loro
capitano marchese Pompo Azzolini e il loro tenente Pietro Santa Colomba, due aiutanti di
mastro di campo generale e due tenenti generali; infine, la seconda compagnia di corazze
della guardia - quella cioè di Domenico di Sangro dei principi di San Severo. La cavalcata
accompagnava il viceré Medinaceli il quale andava a prendere possesso ufficiale dei castelli
di Napoli in nome del nuovo re e cominciava da Castel di Capuana, antica residenza dei re di
Napoli e ora sede di tutti i principali tribunali del regno, dove si consegnavano al viceré
simbolicamente le chiavi delle annesse carceri e dove egli ordinava di metterne il libertà i
numerosi detenuti, e aveva termine alla cittadella della capitale, cioè a Castel Nuovo, dove a
tal scopo lo attendeva il governatore di quella, ossia il mastro di campo Antonio de la Croux
250
Aedo, il quale era accompagnato dai suoi 12 alabardieri riccamente vestiti e armati di petto e
schiena di ferro, mentre vestita a nuovo si presentava al viceré l'intera guarnigione del
castello e dove il Medinaceli riceveva dalle mani del predetto governatore simbolicamente
anche le chiavi di quella fortezza. Queste cerimonie furono, come il solito, accompagnate da
salve d'artiglieria, ma anche da quelle di migliaia di mortaletti (‘mortaretti’) che erano sparati a
mina corrente, cioè in catena, l'uno dopo l'altro, per mezzo di lunghe mine di polvere o di
stoppini; inoltre si spararono migliaia di fuochi d'artificio, mentre gli spalti del Castel Nuovo e
le alberature delle galere in darsena erano zeppe di luci; il tutto accompagnato da un festoso
suonare di trombette, timpani e tamburi.
Tutta questa festosità era però soltanto formale, come ci spiega il diarista fra’ Costanzo
da Napoli (al secolo Angelo di Costanzo) a proposito di questa stessa cavalcata del 6
gennaio, durante la quale il viceré incedeva facendo gettare alla folla monete con l'effigie del
nuovo re da una parte e dei gigli di Francia dall'altra:
Nell'anno 1701, facendosi l'acclamazione del nuovo Re di Spagna Filippo V di Borbone nel
giorno dell'Epifania a’ 6 di gennaro, sebbene il Popolo non acclamò ’Viva il Re Filippo!’ con
tutto ciò si fece la funzione quietamente. E, perché la maggior parte degli animi erano inclini
alla Casa d'Austria come quella che per tanti anni l'aveva così benignamente governati,
miravano il tutto con riverente silenzio.
Mercoledì 26 dello stesso mese di gennaio salperà ancora da Napoli un’altra tartana che
poi nel corso del mese successivo sbarcherà a Finale 10mila palle di cannone e 2mila bombe
da mortaro, tutti proiettili esitati dal suddetto arsenale. In un dispaccio inviato in quei giorni al
suo senato l’ambasciatore veneziano a Genova Corniani opponeva la grande disciplina delle
soldatesche francesi, da ora non più nemiche della Spagna, all’indisciplina di quelle
napoletane testé sbarcate a Finale:
(Genova, 6 febbraio 1701:) … Sono sopraggiunte le altre dieci navi che si attendevano da
Tolone, una di cui, sbattuta più delle altre dal mare, è dovuta approdare ad Alassio. I soldati
sbarcati finora sono seimila, che, disciplinatissimi, hanno già preso la strada di Alessandria;
indisciplinate, per contrario, e già decimate dalle diserzioni le truppe napoletane sbarcate al
Finale.
Di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i contadini liguri non vedevano di buon
occhio questi passaggi di soldatesche straniere attraverso le loro campagne, come sembra di
capire da un successivo dispaccio del Corniani:
(Genova, 20 febbraio:) Asprezza di strade, facilità di diserzioni (frequenti, non ostanti punizioni
severissime) e maltrattamenti da parte dei contadini, da cui sono stati persino uccisi alcuni
soldati, hanno indotto questi residenti (ambasciatori) delle due Corone a chiedere alla Signoria
che il resto delle truppe francesi, invece che a Vado, sbarchi tutto a San Pier d’Arena, donde
riuscirà molto più agevole avviarle in Lombardia; il che è stato concesso…
All'inizio di questo 1701, stretti dunque da un’inusitata e storicamente inopinata
alleanza, francesi, spagnoli e napoletani si preparavano a difendere la Lombardia da un
incombente attacco dei cesarei, ossia degli imperiali sudditi degli Absburgo di Vienna, non
essendo ormai più questa e Madrid signoreggiate da una comune dinastia, mentre il primo
atto di questa nuova guerra si apprestava a essere l'occupazione francese della Fiandra
251
spagnola. Il tenente generale della cavalleria dello Stato di Milano, il napoletano Gaetano
Coppola, fu spedito in Francia, dove ottenne un soccorso di 50mila ducati da quella Corte, il
qual buon servigio nel marzo successivo non gli eviterà però di essere declassato al grado di
semplice colonnello comandante di reggimento e ciò nell'ambito di una generale riforma,
ossia ridimensionamento, della cavalleria di quello stato ordinata da Madrid; in Spagna si
stava per imbarcare soccorsi per la Lombardia; nel Regno di Napoli si levavano reclute per i
terzi regnicoli che servivano all'estero e si riattavano e rifornivano di munizioni le principali
fortezze del regno, specie i castelli di Capua e di Baia; alla fine di gennaio il viceré ordinò che
si mettesse in ordine anche il Battaglione del regno:
… si provvede a inviare nelle provincie di Bari e di Lecce grande quantità di letti per quelle
milizie provinciali o Battaglione che si voglia dire (Savioni da Napoli, l’8 febbraio 1701, in
Fausto Nicolini, L’Europa ecc.)
Fu ordinata anche l’adunata della cavalleria provinciale detta della Sacchetta e a questo
scopo era stato inviato nel Lucerese Domenico Dentice, ufficiale esperto di quell’arma.
Frattanto la giunta di governo di Madrid, come informava un dispaccio inviato il 20 gennaio al
suo senato dall’ambasciatore veneziano Mocenigo, aveva ingiunto al viceré d’inviare al
predetto governatore principe di Vaudemont altri soldati e altri centomila ducati, la metà di cui,
in una tratta, erano già partiti per corriere espresso nella prima metà di febbraio, mentre
un’altra tratta di 25mila ducati era inviata al governatore di Milano, il già più volte ricordato
marchese di Leganes, da Pedro Colón y Portugal duca di Veraguas e viceré di Sicilia dal
1696, richiestone in realtà di 50mila, insieme a 3mila cantara di polvere pirica, la quale era
colà di gran facilità di produzione in considerazione che quell’isola era particolarmente ricca
di salnitri; inoltre aveva ordinato che le galere rege sia di Napoli che di Sicilia salpassero per
Barcellona, dove avrebbero dovuto imbarcare le soldatesche catalane destinate alla difesa
della Lombardia, difesa a cui stavano allora confluendo anche ingenti forze francesi; per tal
motivo poi all’inizio di marzo a Napoli si vedrà riattare appunto le galere ed essersene posta
in costruzione una nuova. Anche su richiesta del suddetto principe di Vaudemont, un ordine
reale imponeva poi la costituzione di un terzo di fanteria di 800 uomini che il mastro di campo
Ciarletta Caracciolo, fratello di Marino Caracciolo principe della Torella [Tor(r)ella del Sannio],
doveva levare in Napoli e se ne nominarono anche i capitani; passarono a servire da
venturieri, ossia da volontari senz'incarico né soldo, in questo nuovo reparto anche cinque
capitani napoletani riformati. In quei giorni partivano per la Calabria 200 soldati spagnoli
portati da un vascello inglese all’uopo noleggiato e destinati a potenziare il presidio di Reggio.
A Napoli, dove, a causa della diffusa e tradizionale francofobia, si era facilmente formato
un partito filo-asburgico che diventava ogni giorno più forte e riottoso, l’opinione pubblica
generalmente avversava decisamente l’alleanza francese, come del resto anche a Milano, e
mal tollerava l’afflusso di civili di quella nazione:
(Savioni, da Napoli l’8 marzo:) In proporzione agli aumentati arrivi di francesi crescono gli odii
di questi popoli contro la Francia e le mene di coloro che hanno interesse a soffiare sul fuoco,
senza parlare degl’insulti quotidiani della plebaglia a carrozze recanti individui di quella
nazione. Al Molo Piccolo c’è stata battaglia tra francesi e marinari messinesi con archibugiate
e feriti da tutt’e due le parti…
Le nuove leve disposte dal Medinaceli nella stessa città di Napoli danno ottimi risultati,
giacché, trovandosi sul lastrico ben ventimila setaiuoli disoccupati, parecchi di essi accorrono
ad arrolarsi…
252
E poi ancora il Savioni il 15 seguente:
Per nascondere il più possibile i continui arrivi di francesi da Roma, li si fa entrare in città o di
notte oppure mercè il giro delle mura, dalla porta di Chiaia, sperando, per tal modo, di farli
credere viaggiatori stranieri venuti a Napoli per diporto e reduci da gite alle antichità di
Pozzuoli, Baia e luoghi convicini; ma con ciò non si getta polvere negli occhi né alla plebe né
alla nobiltà…
Ma non tutti i nobili erano di parte austriaca:
… Parecchi di questi nobili, per farsi merito col nuovo sovrano, si preparano a militare
volontariamente nel Milanese e tra essi, quale venturiero, il principe di Avellino, che si dispone
alla partenza col fasto consueto… (Ib.)
Già 6mila uomini, tra fanti e cavalli, delle milizie provinciali del Battaglione erano stati
raccolti e molti di questi erano stati posti a guardia delle marine pugliesi per il timore che
vascelli veneziani vi venissero a sbarcare soldatesche cesaree; gli effetti di questa
mobilitazione saranno presto visibili nella capitale:
(Napoli, 18 marzo:) La Settimana Santa hanno principiato di venire li soldati de’ battaglioni di
questa provincia per rinovare l'assento (il contratto), tanto quelli a cavallo quanto a piedi,
volendo Sua Eccellenza che si esercitano nella milizia, e ciò si fa per tutto il regno.
(Savioni, da Napoli il 22 marzo:) Cominciano ad affluire in Napoli le truppe del ‘Battaglione’,
alle quali, provincia per provincia, si da la rassegna, sostituendo giovani agli uomini avanzati in
età; ciò non ostante, quella che si è vista finora è, generalmente parlando, gente così rozza,
stolida e feroce che, quando passa per le strade, vien salutata dal popolo con sibili e sberleffi.
A ogni modo si è cominciato a istruirla…
Intorno allo stesso martedì 22 era pure arrivata a Napoli una catena di 26 malfattori, ma
questi nell’avviso definiti tutta bella gente, i quali erano stati condannati chi al remo e chi alla
guerra, In quel mentre il giorno 20 il viceré, pagatone il passaggio a un vascello inglese
evidentemente allora a Napoli per motivi commerciali, aveva fatto partire per Reggio Calabria
100 fanti spagnoli; ma leggiamo ancora il Savioni:
(Napoli, 29 marzo:) Per calmare questa plebe non solo non si sono fatti venire altri francesi,
ma parecchi sono ripassati alla spicciolata nello Stato della Chiesa e il Berwick, anziché per
Napoli, è partito da Roma per la Francia.
Un episodio di severa repressione della pederastia è riportato nell’anonima cronaca napoletana
da noi già citata:
(Aprile 1671:) …Trovandosi un certo schiavo della galera di S. Teresa avere forzosamente commesso
vizio nefando con un figliuolo di 12 anni dentro uno schifo dietro la torre di S. Vincenzo e trovato in
flagrante dalla guardia de’ spagnoli che vigilava nella garitta ivi vicina, fu carcerato. (Il) quale, dopo
aver confessato il tutto ai giudici competenti, fu condannato a morte, ma l’Avvocato de’ Poveri di dette
galere andò così dal duca di Ferrandina generale come dal signor Viceré rappresentandogli che non
253
poteva aver luogo la condanna di morte, stante che la confessione di detto schiavo non conteneva
avere emesso il seme intra vaso… ()
Nel frattempo il predetto reo, poiché maomettano, si era fatto cristiano per cercare d’evitare
così la pena capitale, ma malgrado questo espediente e malgrado il parere contrario dell’Avvocato
dei Poveri (ossia d’ufficio) delle Regie Galere, il quale, ricoprendo a quanto pare anche la ben più
importante carica d’auditore delle stesse galere, non voleva evidentemente che la squadra perdesse
un buon vogatore, la massima condanna non fu purtroppo evitata:
… per il che ad un’ora di notte della medesima giornata di martedì fu eseguita la giustizia sopra un
palco nel largo della Tarcia, dove, doppo esser stato strangolato (‘garrotato’) detto schiavo, fu
abbruciato come sodomita. ()
Ancora un dispaccio del Savioni ci fa capire le difficoltà in cui la Corona metteva il
Regno di Napoli e la sua cassa militare in forte deficit con le sue continue richieste di denaro,
contributi ora divenuti di 50mila ducati mensili fissi, e di uomini e mezzi:
(Napoli, il 5 aprile:) Da Madrid giunge ordine di far partire ai primi del mese entrante queste
galee regie per Porto Mahon (nelle Baleari); da che grande imbarazzo del Medinaceli e del
conte di Lemos, sia perché lo spalmo di esse non sarà terminato se non il 20 maggio sia
perché manca del tutto il denaro per mantenerle – si riesce a gran fatica a raggranellare i
50mila ducati da mandare a Milano a principio di ciascun mese – sia perché occorrono
almeno quaranta giorni per la stagionatura del non ancora fabricato biscotto, tanto che il
Collaterale, convocato in seduta straordinaria, ha disposto di farne venire dai presidi viciniori, a
cui si danno in cambio razioni di pane, quel tanto che basti a nutrire le ciurme sino a Genova.
L’ordine suddetto fu poi sollecitato, ma le suddette difficoltà perduravano:
(Napoli, 26 aprile:) … Non ostanti gli sforzi del viceré e del conte di Lemos sembra difficile che
queste galee regie possano salpare, come si vorrebbe, doman l’altro; si pensi che fino a
stasera le ciurme non hanno avuto ancora né paghe né vestiti…
Finalmente sabato 30 aprile salparono:
(Napoli, 3 maggio:) Sabato, di conserva con la squadra particolare (‘privata’) del duca di Tursi,
queste galee regie sono finalmente partite, ma, per fornir loro il denaro necessario, il viceré ha
dovuto dare in pegno una cassetta di gioielli della viceregina. Sono stati obbligati a imbarcarsi
anche gli ufficiali i quali, pur percependo sul fondo della Marina soldi giungenti in qualche caso
sino a 50 ducati il mese, usavano restare quasi tutto l’anno inoperosi; quindi anche nobili
spagnuoli e napoletani avvezzi a viaggi marittimi non più lunghi di quelli occorrenti pei cambi di
guarnigione nei Presidii di Toscana…
Salparono dunque per la Liguria le suddette riattate otto galere di Napoli di conserva con
le sette galere dei particolari di Genova, ossia quelle del duca di Tursi, tutte sotto il comando
del Lemos, in considerazione che il duca di Tursi si tratteneva allora a Genova, e le seconde
portavano a Finale alcuni personaggi e gli 800 uomini del terzo di nuova leva del predetto
Caracciolo con destinazione ultima allo Stato di Milano, come il solito; a proposito di questo
terzo, una registrazione di dazione di denaro che si conserva nel fondo Papeles de Estado,
254
Nápoles dell’Archivio General de Simancas ci fa capire che i suoi 800 fanti erano suddivisi in
otto compagnie di 100 fanti l’una:
A 8 alfieri e 8 sargenti delle compagnie del terzo d’infanteria napoletana del mastro di campo
Ciarletta Caracciolo in luogo dei vestiti che non si poterono fare per la brevità del tempo…
Mentre domenica 1° maggio si teneva a Napoli un’altra sfarzosa cavalcata pubblica per
festeggiare l’arrivo di Filippo V a Madrid, tutte le suddette galere, dopo aver raggiunto la
Liguria, avrebbero poi proseguito per Porto Mahón in ignota missione, come si diceva, perché
solo in quel porto avrebbero trovato gli ordini di Sua Maestà; in effetti andavano a unirsi a
cinque galere di Sicilia, una di Sardegna, sette del duca di Tursi e dieci di Francia, venendo
così a formare una squadra di 30, da porsi agli ordini del vice-ammiraglio francese conte
Victor Marie d’Êtrées, forse per andare a liberare Ceuta dall’assedio dei barbareschi. Esse
erano precedute a Porto Mahón da tartane che portavano 3mila tomoli di frumento con cui
fabbricare a Minorca il biscotto occorrente alle ciurme, essendovi colà scarsità di grano, e
dovendo approvvigionarsene per il viaggio a Porto Longone e a Genova:
(Savioni da Napoli, 10 maggio:) … Sulle galee anzidette è stato imbarcato il ricchissimo
equipaggio (‘bagaglio e servitù’) del Gran Cancelliere del regno principe d’Avellino, che,
cognato del marchese de los Balbases, è in procinto di partire per la Lombardia, ove intende
militare da venturiero con numeroso seguito ingaggiato a sue spese.
Il predetto marchese de los Balbases, il napoletano Filippo Spìnola d’Oria, comandava
allora una compagnia di cavalleria dello Stato di Milano, unità che si faceva notare per
l’eleganza delle sue fin troppo sontuose uniformi, a quanto si legge in un messaggio del 18
maggio inviato dal residente veneziano Bianchi; a metà dell’anno seguente lo troveremo però
capitano generale della cavalleria di quello stato.
Il maltempo obbligò però questa squadra a riparare subito nel vicino porto di Baia, dove
dovettero trattenersi qualche giorno e poi ancora, oppresse da una vera e propria tempesta,
anche in quello di Gaeta, dove in aggiunta disertarono moltissimi uomini, circa 400, i quali,
passato il confine dello Stato della Chiesa, furono poi accolti a Roma dall’ambasciatore
austriaco, il quale li munì viveri, denaro e passaporti perché raggiungessero l’esercito
cesareo operante in Italia e vi costituissero un reggimento di fuorusciti; ciò era perfettamente
in linea con la tradizionale italica esterofilia, atteggiamento nato nella penisola già al tempo
delle invasioni barbariche che dissolsero l’impero romano e che faceva a pugni con le
diserzioni che, per esempio, pur numerose, si verificavano tra le soldatesche savoiarde
aggregate all’esercito francese di Lombardia, perché quei disertori, non andavano a servire lo
straniero, ma, passando per il territorio della Repubblica di Genova e vivendo di furti, se ne
tornavano alle loro case in Savoia; e come se ciò non bastasse, disertori tedeschi
dell’esercito di Milano, non volendo combattere contro gli austriaci, andavano a ingrossare le
loro fila. Queste 15 galere napoletane e genovesi dovettero fermarsi parecchi giorni pure a
Porto Longone, sempre a causa del maltempo, e si videro comparire davanti a Genova quindi
solo mercoledì 25 maggio; colà arrivate, il Lemos non si vide salutare dalle artiglierie dei forti
locali come si aspettava, probabilmente ciò era dovuto alle gelosie di comando del duca di
Tursi, il quale, come abbiamo già detto, non si trovava imbarcato sulla sua squadra, ma era
già a Genova, e allora con 13 galere proseguì per Finale dove avrebbe sbarcato il terzo
napoletano destinato alla Lombardia, mentre due galere del duca di Tursi, tra cui la Capitana,
restavano a Genova per ricevervi la catenata dei condannati di Milano, la quale giunse infatti
255
quella sera stessa e fu subito imbarcata. Si sarebbero poi imbarcati sulle galere genovesi,
oltre allo stesso Tursi, alcuni personaggi di qualità e cioè Camillo d’Oria, il quale aveva
ottenuto un importante posto di ufficiale delle galere rege di Napoli, e poi il marchese di
Francavilla, il napoletano Tomaso Caracciolo e altri, i quali, diretti a Madrid, sarebbero stati
sbarcati a Marsiglia. Avvenne allora un grave tentativo d'ammutinamento sulle galere rege di
Napoli, mentre queste erano alla fonda nella rada di Vado; si scoprì infatti una congiura dei
forzati, molti di cui erano scontenti perché, pur scaduto il tempo della loro condanna, si
continuava a trattenerli alla catena, e altri addirittura sostenevano d’esser stati costretti al
remo senza alcuna condanna; progettarono questi l’uccisione dei soldati di guarnigione e il
loro stesso generale conte di Lemos, particolarmente odiato dalle ciurme a causa della sua
durezza e della sua mancanza di liberalità, poi una fuga generale per portare infine le galere
a Trieste e porle al servizio dell’imperatore; ma il complotto fu svelato al Lemos da un pilota e
dunque, trovate infatti molte armi nascoste sotto i banchi dei rematori, i 13 principali
congiurati furono impiccati alle antenne; ecco come fra’ Costanzo da Napoli, predicatore
cappuccino, ricorda nei suoi diari questa vicenda, arricchendola cioè di dettagli più crudi di
quelli che erano concessi agli avvisi ufficiali:
...Ma queste arrivate a Genova, essendosi trattenute per lo mal tempo molti giorni a Gaeta,
nel porto della Spezia si scoprì una congiura di forzati ed era di dar la morte al generale signor
conte di Lemos e capitani e soldati; per cui ne furono molti di essi forzati squartati, appiccati
alle antenne e altri mercati (marcati) R e C, dicendo: Regia Corte, condannati a perpetua
galera; poi il medesimo generale, prima di ritornare a Napoli, fe’ l'indulto agli altri.
In effetti, se il marchio frontale d’infamia R.C. (‘Regia Corte’ o Real Corte) e l’estensione
della pena del remo a vita natural durante era una pena comminata frequentemente, ancora
sussisteva, in caso di gravissimi reati quali fellonia o lesa maestà, anche quella dello squartamento
e d’altra parte non c’è da meravigliarsene, se si pensa che stiamo parlando di un’epoca in cui le
malate d’isteria e di mente in generale ancora si bruciavano come streghe sul rogo; s’adagiava e
legava il condannato su uno dei banchi d’uno schifo di galera e poi a ciascuno dei suoi polsi e delle
sue caviglie, pertanto sporgenti dal bordo della piccola imbarcazione, s’attaccava un cavo tirato
dalla poppa d’una galera; poi, a uno squillo di tromba, le quattro galere così impegnate iniziavano
una voga divergente verso i quattro punti cardinali e lo squartavano; nel 1690 anche i veneziani
avevano così giustiziato un loro disertore catturato alla presa di Malvasia, mentre altri nove
furono impiccati alle antenne delle galere. L’indulto ai più era inevitabile perché il Lemos non
poteva ovviamente lasciare le sue galere prive di braccia sufficienti alla voga.
Il Lemos proseguì poi con le sole galere napoletane verso Porto Mahón, ma lentamente,
perché, timoroso di un altro tentativo di sollevamento, voleva farsi raggiungere da quelle del
duca di Tursi; ma queste il 2 e il 4 giugno, proprio mentre si disponevano a lasciare Genova,
furono raggiunte da replicati ordini del principe di Vaudemont da Milano, che le obbligava a
ritornare invece subito a Napoli dove il viceré ne richiedeva la rassicurante presenza perché
oppresso da diversi timori e cioè da quello di uno sbarco cesareo in Abruzzo e Puglia, dell’ingresso
di una flotta anglo-olandese, dell’approdo della flotta turca a Malta e infine di una sollevazione
filo-asburgica di cui già s’intravedevano possibili premesse; si diceva per esempio di turbolenze
provocate colà dal noto capo-bandito Santuccio, il quale, pur rifugiatosi a Spàlato sotto la
protezione della Signoria di Venezia, colà si dedicava a raccogliere e armare fuorgiudicati e
banditi a favore appunto del partito austriacante, in ciò sostenuto da altro famoso capo-bandito
fuoruscito e cioè da Domenico Soderini da Ascoli Piceno, il quale invece anni prima si era
rifugiato a Parigi. Partì dunque il duca di Tursi con le sue galere per Napoli sabato 5 giugno,
256
mentre le galere napoletane, giunte a Marsiglia, dove il conte di Lemos fu ricevuto con magnificenza
dal già ricordato tenente generale delle galere di Francia, cioè Jacques de Noailles, essendone
allora invece capitano generale il già ricordato duca di Vendôme, vi trovarono ordini di ritorno
urgente a Napoli anche per loro e pertanto subito ripartirono e venerdì 17 giugno erano di
nuovo all’ancora nella rada di Vado, da dove però potranno riprender il viaggio solo la mattina del
29 a causa del vento contrario, per poi però doversi fermare ancora due giorni a Porto Fino. Per gli
ordini militari urgenti, i messaggi diplomatici, cosiccome anche per i brevi passaggi veloci a
personaggi importanti, s’usavano allora nel Mediterraneo di ponente rapidissime le feluche
napoletane e, in quello di levante, i caichi o caicchi, imbarcazioni velico-remiere molto simili a
quelle, altrettanto veloci e che poi nel Settecento saranno con nuovo nome chiamati a Venezia
peote o peotte (da pedota, ‘pilota’, quindi ‘pilotine’), mentre sino alla prima metà del Seicento se
ne erano, specie in guerra, molto usate in ambedue i mari delle altre, ancora un po’ più grandi,
dette fregate d’armata o fregatine.
Alla fine di giugno Milano, alle prese con ingenti spese di guerra, ebbe un ennesimo
soccorso finanziario da Napoli e si trattava di centomila scudi a cui se n’aggiungevano altri
cinquantamila inviati da Madrid; continui erano gli esborsi fatti dall’erario di Napoli in soccorso
degli altri possedimenti spagnoli e così scriveva infatti il 6 settembre Savioni:
…Da qualche tempo il Collaterale non attende quasi ad altra che a studiare la guisa in cui
aderire alle continue richieste di denaro che pervengono qui da Milano e da Madrid.
Infatti a metà settembre furono trasmessi a Milano ulteriori 50mila ducati; frattanto a
Napoli si era saputo da Otranto che i marinai di vascelli mercantili francesi giunti in quel porto
da paesi infetti si erano rifiutati di sottoporsi a quarantena e avevano disperso a moschettate
le locali guardie di sanità che si opponevano al loro sbarco.
Ma, tornando ora alle cronache napoletane, diremo subito che il primo maggio si era
festeggiato l'arrivo del re Filippo V a Madrid con pubbliche cerimonie e giochi cavallereschi,
ma a Napoli in realtà, mentre ai confini d’Italia si andava ammassando un grosso esercito
cesareo, proliferava sempre più il partito filo-absburgico. Per ordine di Madrid si preparavano
incessantemente legnami da costruzione di vascelli e si fabbricavano palle e bombe da
cannone, inviandosi a tal scopo, sia alle ferriere di Calabria sia ai boschi di Misuraca, il
soprintendente dell’arsenale presidente de Andrada, il quale era considerato espertissimo in
tali materie; si davano inoltre pure nuove patenti per la guerra di corso, in considerazione che,
specie nei mari di Sicilia e di Malta, era divenuta di nuovo molto virulenta la pirateria
barbaresca, ora perdipiù esercitata non più con piccole fuste remiere come nel passato, ma
con grosse caravelle, ossia con vascelli velieri, per cui questi corsari potevano ora trattenersi
più a lungo anche nel Mediterraneo settentrionale, per esempio nelle acque livornesi, ricche
di traffici marittimi, e si era saputo che una tartana che portava roba del gran priore Vaini,
generale delle galere maltesi, inseguita da quei pirati, era naufragata sulle coste della
Calabria. A proposito del suddetto passaggio dalla navigazione bellica remiera a quella velica
che stavano mettendo in atto i barbareschi, bisogna dire che esso era ormai alquanto
generale nel Mediterraneo; infatti la flotta che nel maggio di quest’anno l’ammiraglio turco
chiamato dai cristiani Mezzomorto portò fuori dai Dardanelli a minacciare la Morea veneziana
era costituita da 14 legni barbareschi e da 29 sultane – così chiamandosi una volta i galeoni
ottomani e ora i subentrati grandi vascelli di linea, non parlandosi più ormai di galere e
galeotte come nel passato, e gli stessi cavalieri gerosolimitani avevano appena incominciato
ad armare velieri invece di galere, in considerazione che i primi, oltre al vantaggio offerto
dalle loro numerose grosse artiglierie, con i loro grandi carichi di munizioni e provvisioni
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permettevano missioni in Levante molto più lunghe.
Martedì 24 maggio giunse a Napoli una tartana francese che portava 30 ufficiali tra
capitani, alfieri e sargenti del terzo napoletano del Grimaldi in Fiandra, terzo che era stato di
Domenico Acquaviva e che era stato conferito al Grimaldi dall'Elettore di Baviera, allora
governatore di Fiandra, verso la metà di marzo; costoro erano venuti a reclutare questo loro
reparto e addirittura si diceva che dovessero arruolare 2.500 uomini, mentre ancora sei di
quegli ufficiali dovevano giungere via terra.
Il giorno seguente partirono due delle compagnie di spagnoli del terzo di Napoli che
andavano a rinforzare il presidio di Pescara sotto la condotta di Rodrigo Correa, governatore
dell'armi del Torrione del Carmine, nel frattempo elevato a mastro di campo, il quale avrebbe
dovuto colà pure organizzare i locali soldati del Battaglione perché sorvegliassero le marine;
si sguarniva Napoli di soldati per inviarli alla difesa delle coste abruzzesi e ciò su richiesta del
potente Cesare d’Ávalos marchese di Pescara e del Vasto, il quale aveva avvisato al viceré
l'avvistamento di molte vele, probabilmente turco-barbaresche (turchesche) o forse cesaree,
al largo della seconda di quelle città costiere, dove egli si trasferì dalla prima, preferendo la
protezione di un numeroso esercito vassallo personale d’alcune migliaia di uomini che vi
aveva raccolto a quella della guarnigione di Pescara ora pullulante di soldati spagnoli; entrate
ormai le armi imperiali in Italia, un’invasione del Regno di Napoli specie dalla parte d’Abruzzo
era molto temuta, ma si fortificavano nel frattempo anche Ischia, feudo anch’essa del
marchese del Vasto, e Procida. In questo periodo fu eletto il nuovo mastro di campo generale
delle fortezze di Toscana e governatore d’Orbitello nella persona dello spagnolo Bartolomé
Espejo, carica che era rimasta vacante alla morte di Marino Carafa dei duchi di Maddaloni.
Mercoledì 22 giugno arrivarono dunque di ritorno nel porto della capitale, con il loro
generale duca di Tursi, le sette galere dei particolari genovesi che, come abbiamo detto, alla
fine del precedente maggio avevano sbarcato a Finale il suddetto terzo di nuova leva di
Ciarletta Caracciolo, portando anche a Napoli la notizia del suddetto tentativo
d’ammutinamento avvenuto sulle galere rege di Napoli, ma ripartirono già la notte del giorno
seguente, avendo imbarcato milizie italiane destinate a dar il cambio a quelle spagnole allora
di presidio a Port’Ercole e Longone; dopodiché, riportate le seconde a Napoli, sarebbero
andate a incrociare sulle coste calabresi e tarantine dove imperversava una flottiglia turcobarbaresca di cinque caravelle (tartane armate o altri velieri medio-piccoli in genere) e sette
galeotte, da cui 600 corsari, sbarcati a Boccalino, terra del conte Ferrante Spinelli, presso
Brancaleone, avevano catturato tre tartane napoletane colà ancorate e cariche di olio,
formaggio e pece da portare a Napoli; poi avevano subito la stessa sorte altre due tartane
napoletane che navigavano in quelle vicinanze e venerdì 24 giugno il mercantile veneziano
Santo Speridione, il quale era partito il giorno precedente da Augusta con un carico di sale e
formaggi per Venezia. Il Savioni si fece promettere dal viceré che avrebbe inviato in quella
zona anche le galere rege, tornate frattanto a Napoli lunedì 4 luglio, ma dubitava che la
promessa sarebbe stata mantenuta; invece lo fu, anche perché cominciò a non passar quasi
giorno senza che mancasse notizia di qualche nuova cattura di vascelli cristiani fatta da quelli
turco-barbareschi nelle acque siciliane e calabresi, aggiungendosi a questa quella, ancor più
negativa e non resa di pubblico dominio, di un’importante vittoria militare ottenuta in quel
tempo dagli imperiali a Carpi:
(Savioni, da Napoli il 26 luglio:) Le scorrerie dei corsari tripolini sono divenute così esiziali,
anche ai piccoli legni, da determinare l’interruzione di qualunque commercio con la Calabria e
la Sicilia con danno gravissimo di questa popolosissima capitale, che trae gran parte del suo
vettovagliamento proprio da quelle parti. Sopra tutto per siffatta considerazione giovedì (21
258
luglio), a mezzanotte, salparono a quella volta anche queste galee regie…
Dopo qualche giorno partirono per Messina anche le galere del duca di Tursi, ma si
trattò comunque di partenze solo d’apparenza, tanto per far contento il Savioni, perché,
lasciata sola a incrociare nelle acque di Otranto la squadra dell’ammiraglio veneziano Diedo,
tutte prestissimo tornarono nuovamente a Napoli, destinate ad altra ben più vanagloriosa
missione, come racconta ancora il succitato Costanzo, il quale però erra sul mese di questo
secondo ritorno, essendo ritornate le prime, cioè quelle di Napoli, solo giovedì 4 agosto e le
seconde nella notte del martedì 9 seguente:
...Quali, ritornate in questa Città nel luglio, ebbero di nuovo l'ordine di prepararsi ad andare a
Nizza di Provenza, ove si sarebbe fatta l'unione delle altre galere, così di Spagna come di
Francia, per levare la figlia secondogenita del duca di Savoia, destinata per sposa di Filippo V
re di Spagna, che calava in Barcellona a giurare li privilegi di quel contato. Per la qual cagione
si prepararono le nostre galere e in particolare la Capitana, mentre si diceva che la regina
voleva far quest'onore alla Capitana di Napoli; onde si vide tutta la poppa indorata, li remi, il
nuovo stendardo, tutti i forzati con giubbe di damasco rosso con berrette in capo e altre
bizzarrie, che v'accorse tutta la Città a vederla e il giorno prima della partenza vi calò la
Viceregina colle sue dame di Corte e furono complimentate di rinfreschi; e poi a’ 27 d'agosto
partirono al numero di 15 alla volta di Nizza. Stavano di giorno in giorno aspettando l'avviso
dell'imbarco della sudetta regina, essendo sino ora un mese e mezzo che sono partite, col
continuo buon tempo, e non è giunta la nuova del suo arrivo...
In una missiva del predetto Savioni datata 2 agosto, a proposito della difficoltà del tempo
ristretto che si era avuto dalla Corte di Madrid per preparare degnamente le galere, tra l’altro
così si legge:
… A ogni modo il Viceré ha dato in appalto la doratura della poppa e dei remi a persona che si
è impegnata a compiere il lavoro in soli nove giorni e, al tempo medesimo, egli fa preparare in
tutta fretta un grande apparato di damasco orlato d’oro nonché cinquecento vestiti di gala da
indossare dalle ciurme e dai soldati di scorta.
Un avviso di Foligno del successivo 2 settembre darà anch’esso notizia del suddetto
addobbo della Capitana (o Generalizia, come anche si diceva a Venezia):
La galera Capitana è addobbata per trasportare la Regina di damasco cremisi e frange
d’oro; anche i forzati sono vestiti del medesimo damasco e coppo lini alla turchesca pure
tramati d’oro.
L’abbigliamento speciale dei forzati fu ricordato anche dal Bulifon:
… Tutti li forzati della ‘Capitana’ con una tabella conga di mezzo damasco incarnato, con uno
alone di seta gialla berrettone simile.
Questo addobbo speciale sarà ricordato e sommariamente descritto anche dal de Ubica
y Medina nella sua Successione de el rey D. Phelipe V. In realtà, come si legge nelle missive
del Savioni, la notte di sabato 27 agosto partirono per Villafranca solo le sette galere del duca
di Tursi, le quali faranno poi sosta a Genova il 5 settembre, mentre le otto rege di Napoli
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salperanno solo la notte di martedì 30; frattanto a Nizza, arrivatavi sin dal 6 agosto
precedente, già si trovava la squadra di galere di Sicilia sotto il comando del suo generale
Emmanuel de Silva y Meneses. Il duca di Tursi fece un viaggio molto fastidioso, come lui
stesso poi racconterà, sia per il palese austriacantismo delle milizie napoletane imbarcate
sulle sue galere in considerazione che destinate in Lombardia sia per i continui litigi tra gli
ufficiali di quelle e i capitani di queste, tanto che era stato costretto a porre ai ferri i primi e,
giunto appunto a Genova, a consegnare a bordo i secondi; tutto ciò avrà come seguito la
diserzione di molti di questi militari napoletani, i quali, per non andare a servire contro gli
austriaci, si arruolarono nelle milizie genovesi e infatti sembra che dopo pochi giorni i
rappresentanti delle due corone alleate ne richiesero a quella repubblica la consegna. Il 6
settembre arrivarono a Genova anche le galere rege del conte di Lemos, le quali, dopo due
giorni di sosta in quel porto, ripartirono per Villafranca dove avrebbero trovato le galere di
Spagna e quattro di Francia, anch’esse destinate alla predetta regale scorta.
A differenza di quelle del duca di Tursi e di Sicilia, le quali saranno subito rimandate
nelle acque del Regno di Napoli a seguito delle sopravvenute concrete minacce di colpi di
stato filo-austriaci, le galere napoletane, ridotte ora da otto a sette per motivi non riportati,
sosteranno a lungo a Nizza nell’attesa della nuova regina di Spagna, Luisa Maria di Savoia,
la quale il 17 settembre di questo 1701 aveva in quel mentre compiuto appena tredici anni;
essa non si presenterà all'imbarco di Villafranca prima della fine di settembre e vi riceverà il
regalo di nozze inviato dal viceré di Napoli Medinaceli, regalo del valore di 300mila scudi e
che era portato da Carmine Nicola Caracciolo principe di Santo Buono. Imbarcatasi dunque la
giovanissima regina sulla Capitana di Napoli, accolta da tre salve dell’artiglieria di tutte le
galere, vi trovò in attesa di servirla madame Marie Anne de la Tremoville, le dette galere
salparono il 27 settembre e avrebbero dovuto subito trasferire la regale ospite dapprima a
Tolone, poi a Marsiglia, e infine a Barcellona; ma martedì 25 ottobre giungerà a Napoli la
nuova che, dopo ben 17 giorni di difficoltosa e lenta navigazione dovuta ai venti contrari e al
mare alquanto mosso che la giovanissima regina non sopportava, la stessa era stata sbarcata
il giorno 14 a Marsiglia per farle proseguire il viaggio via terra via Perpignano, come da
rapidissimo ordine reale del 12 ottobre controfirmato da Colbert a Fontaineblau, ordine che
d’altra parte anche stabiliva la necessità che le galere di Napoli, appena sbarcata la regina,
tornassero in quel regno a causa dei torbidi che l’agitavano. In seguito una feluca proveniente
appunto da Marsiglia porterà a Genova notizia di una baruffa colà avvenuta tra il conte di
Lemos e il comandante delle galere francesi, conte de Luc, per motivi non riportati. In effetti,
anche se la regina era sbarcata prima del tempo e del luogo programmato, le galere
napoletane proseguirono ugualmente per Barcellona, probabilmente perché il Lemos voleva
rendere omaggio al re Filippo V, il quale era colà in attesa della sua sposa, e infatti arrivarono
in quel porto a mezzogiorno del 25 ottobre e il detto generale si recò subito a palazzo a
baciare la mano al sovrano, come anche fece Emmanuel de Silva y Meneses, il quale,
probabilmente come comandante della loro fanteria di marina spagnola con il grado però di
mastro di campo, si trovava ora imbarcato sulle galere di questo generale, avendo in
precedenza dovuto inviare a Napoli le sue, come da istruzioni reali ricevute e come abbiamo
già detto; nella serata poi del giorno seguente il re, accogliendo il doveroso invito del Lemos e
salutato da tre salve d’artiglieria fatte da tutte le galere della squadra e dagli altri vascelli
allora in quel porto, venne a bordo della Capitana di Napoli, la quale era sicuramente ancora
addobbata come quando c’era stata a bordo la regina e dove fu accolto dal generale
sfarzosamente; poiché poi Filippo aveva manifestato il suo desiderio di una corsa al largo, le
galere salparono ponendosi subito nella loro tipica formazione a squadra e s’ingolfarono per
circa una lega marina, infine riportarono il re al porto ed egli si ritirò nel suo palazzo.
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Avvicinandosi il giorno della partenza per Napoli, la notte del 30 ottobre le galere di Napoli
dettero spettacolo alla cittadinanza di Barcellona con una vistosa luminaria, gran numero di
fuochi artificiati e salve di cannoni; la squadra e altri legni allo scopo noleggiati avrebbero ora
convogliato soldatesche da trasferire nel Napoletano sotto il comando del Lemos, ciò
nell’ambito di un piano di potenziamento dei presidi di quel regno deciso, più da Luigi XIV che
dalla Corte di Madrid, per fronteggiare eventuali ulteriori tentativi di sovvertimento da parte
del sempre temibile partito filo-austriaco.
Ma facendo un passo indietro e tornando alla nostra cronologia generale, diremo che
intanto giovedì 23 giugno era tornato a Napoli Restaino Cantelmo duca di Popoli, principe di
Pettorano e generale dell'artiglieria del regno; nel luglio si conferirono onorificenze reali a
Scipione Brancaccio, distinto militare che aveva servito per ben 37 anni in Fiandra e che per
questo, non ostante l'età per quei tempi ormai avanzata, sarà compensato dal re con la
nomina a governatore di Cadice. Venerdì 15 luglio nel largo del Castel Nuovo fu archibugiato
un soldato disertore del terzo di Ciarletta Caracciolo, i cui fanti, come sappiamo, erano di
nuova leva (de’ quali molti sono fugiti); ad altri due disertori di quel corpo il viceré, il quale nel
frattempo aveva ricevuto da Madrid la conferma di ulteriori tre anni, dopo che il suo viceregnato durava già da 6, concesse invece, quando erano già legati al palo per l'esecuzione,
la grazia di commutarne la pena di morte in galera a vita. Secondo un’anonima cronaca questi
tre soldati sarebbero fuggiti quando erano già a Milano e quindi sarebbero riusciti a tornare in
regno quasi subito, magari nascondendosi a bordo delle stesse galere tornate il 22 del mese
precedente, e non si possono certo biasimare quelle povere reclute, le quali erano ben
consapevoli che, si vincesse o si perdesse la guerra, sicuramente non sarebbero più riuscite
a rivedere la loro patria, giacché allora il soldato privato, ossia semplice, se non moriva di
ferite riportate combattendo, periva di malattie dovute alla malnutrizione, alla sporcizia e
all'intemperie cui era generalmente esposto. Inoltre sabato 30 luglio fu impiccato un
grassatore notturno omicida, triste fenomeno questo delle sanguinose rapine compiute
nottetempo che affliggeva da sempre la città di Napoli e che in quei giorni aveva riacquistato
virulenza.
Verso la fine della prima decade d’agosto, arrivò la riconferma per tre anni del vice
regnato del Medinaceli, il quale sarebbe scaduto nel marzo dell’anno successivo, e tutti i
notabili napoletani facevano a gara ad andare a congratularsi con lui. L'esercito imperiale
comandato dal principe Eugenio di Savoia frattanto, invasa la Lombardia, sconfiggeva i
franco-spagnoli (detti allora angioini per motivi dinastici) prima a Carpi, come abbiamo già
detto, e poi anche Chiari, entrando a Castiglione e a Solferino, ma a Napoli non se ne fece
notizia ufficiale, mentre l’ormai maggioritario partito austriacante esultava apertamente e
liberamente esagerando le vittorie del principe.
All’inizio di luglio a Madrid il re aveva frattanto accettato le dimissioni del suo capitano
generale delle galere di Spagna, il duca di Nájera, e tra i pretendenti alla successione di
questi c’era il suddetto conte di Lemos, il quale l’avrebbe tanto voluta non solo per la maggior
importanza e il maggior prestigio di quella carica, ma anche per liberarsi dal comando di
ciurme che lo odiavano e che avevano anche tentato d’ammazzarlo; ma otterrà molto di più di
quanto sperava e cioè addirittura il vice regnato di Sardegna. Una corrispondenza dalla
stessa Madrid del 21 agosto informava che, mutata la dinastia seduta sul trono di Spagna,
anche la livrea di Casa Reale era stata mutata, passando dal tradizionale giallo al turchino
gallonato di velluto cremisi, a imitazione di quella di Francia. Nello stesso suddetto agosto
s’incominciarono a prendere misure di polizia straordinarie per timore di una sommossa degli
austriacanti e così infatti si legge in una corrispondenza del Savioni:
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… giovedì notte (18 agosto) si sono mandati (ben) ottanta birri ad arrestare due agostiniani
riformati, spiegamento di forze del tutto inutile in considerazione che a Napoli la giustizia è di
solito così rispettata che basta un birro solo a condurre in carcere due arrestati. Trecento altri
birri, comandati direttamente dal proreggente della Vicaria principe di Ottajano, perlustrano di
notte le vie cittadine afflitte in questi ultimi trenta giorni da novanta omicidi notturni, dopo venti
mesi che, al dir del Viceré, non se n’era perpetrato alcuno. E due giorni fa si sono fatti entrare
nella città cinquecento assassini di strada maestra, già fuorbanditi e ora graziati e riuniti in una
compagnia, detta ‘degli armigeri’, con l’incarico, in caso di tumulti, di usare l’archibugio, nel cui
maneggio sono espertissimi. Senza dubbio si è raggiunto lo scopo di far chiacchierare meno la
gente, ma – domandano gli uomini sennati – ‘quis custodit custodes?’
Al proposito del suddetto rispetto, c’è da spiegare che opporre resistenza ai birri era
considerato dalla giustizia criminale napoletana un delitto di lesa maestà e quindi comportava
la pena di morte, ma in verità lo stesso Savioni un paio di mesi più tardi riporterà anche di un
birro disarmato e gravemente ferito dalla folla. Domenica 28 agosto arrivò al viceré un
espresso dalla costa pugliese che segnalava lo sbarco a Noia presso Bari di 150 reclute
albanesi e d’altre 150 a Monopoli di un numero di mille che il console spagnolo a Corfù stava
arruolando per conto del Regno di Napoli. Martedì 30 tutti i marinari liberi delle galere rege
che si trovavano a Baia disertarono in massa e si rifugiarono nelle chiese come forma di
protesta per la mancanza della loro paga e impedendo in tal modo alle galere di salpare; ma il
Lemos, elargito alle ciurme un piccolo regalo e promesso di non far mancare loro le paghe
durante il viaggio, ne ottenne il ritorno a bordo, eccezion fatta dei tre capi della protesta, i
quali non si sa se scapparono o se furono presi e puniti, e quindi la squadra poté quella
stessa notte salpare per Villafranca. All’inizio di settembre il Savioni fu informato che i
veneziani stavano armando contro i legni barbareschi che infestavano le coste adriatiche del
Regno di Napoli perché ciò comprometteva anche i loro traffici marittimi; infine un avviso da
Milano del 12 settembre informava che erano appena partite da quella città dieci compagnie
di cavalleria smontata che il governatore Carlo Tomaso di Lorena principe di Vaudemont
inviava nel Regno di Napoli, dove le medesime sarebbero state fornite di cavalcature e poi
rispedite via terra a Milano; la predetta condotta si dirigeva a Genova sotto il comando del già
nominato Gaetano Coppola e colà si sarebbe imbarcata per Napoli sotto altro comando. Non
bisogna dimenticare che, come abbiamo già detto, il Regno era uno dei migliori produttori di
cavalli da guerra d'Europa e quindi il predetto andirivieni si spiega con tale circostanza.
Venerdì 23 e sabato 24 settembre avvenne la famosa sommossa originata da una
congiura filo-austriaca capeggiata da Gaetano Gambacorta principe di Macchia e i cui primi
sentori il Medinaceli aveva già avuto nella precedente notte di giovedì 22. Si trattò di una
ribellione che durò in effetti solo 40 ore e non staremo a raccontarla nei suoi aspetti politici,
perché questi esulano dal tema della presente cronologia; diremo solo che il partito cesareo,
ossia filo-austriaco, forte a Napoli e a Milano come del resto anche in Aragona e in
Catalogna, capeggiato a Napoli appunto dal Gambacorta, da Malizia e Tiberio Carafa dei
principi di Chiusano, da non confondersi con l’omonimo Tiberio Carafa dei principi di
Belvedere di parte invece angioina e di cui poi più volte diremo, e da altri, si era proposto di
sollevare il popolo contro il regime angioino e quasi ci riusciva. Probabilmente i congiurati si
mossero perché in procinto d’essere scoperti, ma forse anche per approfittare dell’assenza
delle galere di Napoli, le quali, come sappiamo, erano guarnite di ottime ed esperte
soldatesche spagnole, mentre quelle del duca di Tursi, anche se da qualche giorno tornate in
regno, disponevano, come anche abbiamo visto, di soldatesche napoletane di dubbia fedeltà
e il viceré non ne avrebbe quindi certo richiesto lo sbarco; essi cominciarono col farsi forti nei
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monasteri di S. Chiara e di S. Lorenzo e nella Casa della Città (oggi diremmo ‘nel palazzo
comunale’) e da questi luoghi, essendo spalleggiati da una sommossa del popolaccio (questi
quasi tutti erano della più vile canaglia che sia in Napoli, Bulifon), il quale, rafforzato proprio la
sera di venerdì 23 da tre o quattrocento uomini venuti dai casali vicini e dalla campagna:
… ma tutti gente quanto mai facinorosa e composta nella maggior parte da fuorbanditi per
delitti atrocissimi, (Savioni.)
Si trattava quindi di un migliaio di uomini in totale; si mossero per assalire Castello di
Capuana, sede dell’odiata Vicaria criminale, in cui imperava, specie di notte, il sadico caporuota inquisitore Francisco Torrejon Peñalosa, infliggitore di crudelissimi tormenti, e di cui, per
ulteriormente ingraziarsi la peggiore e più violenta parte della popolazione, aprirono le carceri
liberandone i reclusi e saccheggiandone e distruggendone l’archivio, come del resto anche
fecero di quello, vastissimo, contenuto in ben 48 stanze, della Regia Camera della Sommaria,
la quale aveva anch’essa sede in quell’edificio, rubandone persino le porte e le strutture in
ferro, come balconi, cancelli, catene e simili, e, ahimé, bruciando, disperdendo e distruggendo
registri e documenti vecchi anche più di sette secoli. Furono recuperati poi una decina di
carrettoni pieni dei detti registri della Sommaria, ma si trattava solo di una piccola parte di
quelli che andarono perduti. Purtroppo questa sventura - tutta partenopea - di prendersela
con gli antichi documenti, sventura di cui abbiamo già parlato in occasione di un precedente
incendio, non si fermerà qui, come dimostrerà poi l'incendio appiccato dai soldati tedeschi ai
più preziosi documenti napoletani durante la seconda guerra mondiale; il che dimostra che
purtroppo nel corso del processo storico l’ignoranza finisce prima o poi ineluttabilmente per
prevalere sulla cultura così come, altrettanto storicamente, fa la forza bruta sul diritto. La
stessa notte di giovedì 22 il viceré si rifugiò nel Castel Nuovo, dove fece affluire dei rinforzi, e
ordinò che le sue corazze della guardia occupassero immediatamente le venute, cioè le
traverse, sia della strada di Toledo sia della piazza del castello medesimo, poi fece mettere in
postazione quattro bocche da fuoco davanti al palazzo reale e infine chiamò il vecchissimo,
ma stimatissimo e fedelissimo Andrea de Ávalos principe di Montesarchio, membro del
Consiglio di Guerra, il quale aveva servito la Casa d’Austria per 40 anni in tante guerre e in
particolare per mare, era stato più volte ferito e - nella rivoluzione del 1647 - gravemente da
un’archibugiata, lo incaricò di reprimere la rivolta con mezzi militari e il principe, coadiuvato
soprattutto dal sunnominato Restaino Cantelmo, generale dell’artiglieria, e da Joseph Caro di
Montenegro, mastro di campo del terzo fisso degli spagnoli, lo stesso venerdì 23 settembre
fece mettere in ordine le due uniche compagnie di cavalleria allora di presidio a Napoli e le
poche soldatesche spagnole, circa 500 fanti, che si trovavano nel presidio di Pizzo Falcone e
quelle che stavano in darsena a bordo delle quattro galere di Sicilia che qualche giorno prima,
ossia tra martedì e mercoledì, erano giunte da Nizza da dove, come abbiamo detto, erano
state con quelle del duca di Tursi urgentemente richiamate, vi aggiunse poi la guardia del
viceré, fece porre quattro cannoni e un mortaletto nel cortile del real palazzo, dette il comando
della fanteria al mastro di campo Recco e organizzò un’offensiva, facendo avanzare il piccolo
esercito così raccolto lungo via Toledo con il seguente ordine e facendogli sparare
moschettate da ambedue le parti. Precedevano dunque i soldati di campagna, ossia i birri
della compagnia del commissario di campagna, destinati alla lotta al brigantaggio in Terra di
Lavoro e nel circondario di Napoli in generale, insieme con un buon numero di quelli urbani
della capitale, tutti costoro ordinati in 15 file di soli cinque uomini l'una, essendo via Toledo,
come si può vedere ancor oggi, una strada piuttosto angusta; seguivano 14 granatieri
spagnoli, il sunnominato generale dell'artiglieria duca di Popoli a cavallo, Tomaso d’Aquino
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principe di Castiglione, la compagnia di cavalleria di Domenico di Sangro fratello del principe
di Sanseverino, la cui prima fila, capeggiata dal predetto capitano, era costituita da cavalieri
napoletani; era poi parte dei 400 soldati delle galere di Sicilia in 18 file di sei uomini l'una,
mentre il resto era rimasto a guardia del regio palazzo; procedevano poi sei file di soldati
spagnoli del presidio di Napoli a cinque fanti l'una, una compagnia di cavalieri napoletani e
ufficiali riformati a piedi con i loro servitori armati in 21 file di cinque o di sei uomini l'una,
alcuni bombardieri con due cannoni di bronzo da batteria tirati ognuno da sei cavalli frisoni
(oggi diremmo olandesi) del viceré e due carrettoni, uno carico di munizioni e l'altro di
granate, anch'essi tirati ognuno da sei di quei grandi cavalli abituati a trainare solo le
opulente carrozze vicereali; seguiva ancora il principe di Montesarchio, il quale, a causa della
sua decrepita età, si faceva portare da un cocchio scoperto e procedeva armato di moschetto
e spalleggiato da 12 suoi armigeri e da un paggio a cavallo; dopo il principe incedevano altre
17 file di cavalieri e gentiluomini, un gruppo costituito da civili delle corporazioni, francesi che
si trovavano a Napoli e ufficiali riformati, ancora 14 file di fanti spagnoli, la compagnia di
corazze della guardia del commendator Saraceni e infine altri 14 granatieri. Questo
dispiegamento di forze, per un totale di quasi 2.500 uomini, di cui però solo un 700 erano
soldati regolari, ebbe facilmente ragione dei pochi congiurati che opposero resistenza armata,
i quali, subito abbandonati dal volubile popolo, si erano barricati nel fortissimo campanile
della suddetta chiesa di Santa Chiara e a Port'Alba, quest'ultima vulgo detta Fuscelli, forse
perché fatta di legno molto debole. Presi più di 150 dei suddetti ribelli e imprigionatili in Castel
Nuovo, l’anno seguente saranno mandati a scontare la loro pena al presidio d’Orano in Africa;
parecchi insorti invece riuscirono a fuggire dirigendosi verso Montevergine e furono allora
inviati sulle loro tracce 300 uomini comandati da Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio
del principe d’Ottaiano e da Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle; parecchi
furono presi od uccisi, ma diversi, tra i quali Malizia Carafa, riuscirono a rifugiarsi nella solita
Benevento, possedimento della Santa Sede che tradizionalmente, come fosse una grande
chiesa, dava ricovero a tutti i perseguiti che riuscivano a raggiungerla e che si trovò allora di
conseguenza quasi assediata da forze angioine, ossia da numerose soldatesche comandate
dal preside di Montefusco e da 300 birri capitanati dal commissario di campagna. In effetti la
rivolta, soffocata a Napoli, si trasferì nelle province, dove sembrò trovare nuovi capi nel
principe della Riccia e negli Acquaviva di Conversano e per questo motivo le galere del duca
di Tursi, ripartite, come abbiamo visto, da Napoli qualche giorno prima della sommossa, si
trattenevano nella loro base di Gaeta, pronte a intervenire in caso di bisogno.
Si cominciò subito a far epurazioni nei castelli di Napoli perché i nobili congiurati
avevano avuto collusioni con elementi di quelle guarnigioni al fine di procurarsi molte armi; si
cambiarono quindi completamente i presidi del Castel Nuovo, di Sant'Elmo e di Castel
dell'Ovo e si liberò in tal circostanza questi castelli da tutt'una folla di civili che vi abitavano
indebitamente (altro abuso questo tipicamente napoletano che dura ancor oggi) e che quindi li
rendevano poco utilizzabili in caso di sommosse:
...in questo castello (Castel Nuovo) si trovavano genti che dagli anni (erano anni) che sempre
vi aveano habitati e, quando uno soldato vi moriva, si lasciava le abitazioni a sua famiglia per
ricompensa; cossì si è fatto a S. Eramo e castello dell'Uovo...
In Castel Nuovo avveniva anche che il suo governatore, il mastro di campo Antonio de la
Croux Aedo, vi faceva alloggiare a pagamento una moltitudine di gentarella, ma il luogo era
sempre stato abusivamente utilizzato come una specie di mercatino rionale; ecco infatti una
istruzione reale al Medinaceli del 23 settembre 1622 in cui gli si ordinava di accertare e di
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riferire su quanto era stato recentemente denunziato e cioè:
…sobre el descuido con que se vive en la guarda de Castilnovo y las puertas que se habren
de noche, la mucha jente que entra de día a comprar cossas de comer…
Circa un anno dopo evidentemente disattesa l’istruzione suddetta, ne arrivava un’altra,
questa del 23 novembre 1623, sullo stesso argomento:
Sobre que se averiguen los excessos de Castilnovo y se visite el dicho castillo por persona
práctica y de confianza y de todo se envie relación con parezer de Vuestra Excellencia…
La suddetta relazione che poi sarà inviata dal viceré avrà certamente dovuto
prospettare delle convenienze di contenimento della quiete popolare, perché ancora un’altra
istruzione, questa definitiva, datata 21 novembre 1624 chiuderà in maniera alquanto
permissiva questa materia dell’utilizzo civile del Castel Nuovo:
…no permitiendo que se puedan vender en el otra cossa que pan y vino y carne…
In quel mentre in Europa la guerra per la successione al trono di Spagna era ormai
iniziata e Luigi XIV, temendo che l'imperatore Leopoldo, alleatosi con Olanda, Inghilterra e
principati imperiali, assalisse il Ducato di Milano, rivendicato in considerazione che feudo
imperiale, e se ne impadronisse, oltre a invadere subito la Fiandra spagnola, aveva mandato
in Italia 25mila soldati con ausiliari dell'esercito spagnolo; gli imperiali passeranno però
egualmente l'Adige, dandosi così inizio alle ostilità, ed Eugenio di Savoia sconfiggerà i
francesi due volte, a Carpi nel Veronese e poi a Chieri in Piemonte; ma, tornando ora alle
nostre cronache del 1701, si seppe a Napoli che gli imperiali continuavano ad ammassare
soldatesche e munizioni da guerra a Trieste e in altri luoghi del loro litorale adriatico, il che
faceva pensare e temere che stessero progettando uno sbarco invasore sulle marine
d’Abruzzo; queste paure facevano ‘sì che i napoletani benestanti corressero a ritirare i loro
depositi di denaro liquido dai banchi della città, privandoli così in breve tempo di più di un
milione di ducati, mentre sino allora avevano tutti avuto l’abitudine di non effettuare il benché
minimo pagamento se non con fedi di credito, ossia con gli assegni bancari del tempo; per
evitare quindi il fallimento dei banchi si adotto la misura che per le somme superiori ai 50
ducati si rimborsassero ai depositanti solo un quinto di quanto richiedevano. Il viceré Luis de
la Cerda marchese di Cogolludo e duca di Medinaceli, a titolo di ulteriori misure
precauzionali, ordinò di ripristinare il più possibile le artiglierie da tempo in disuso nei castelli
e addirittura si barricò nel suo palazzo, fortificandolo e affollandolo di soldati, in ciò imitato da
tutti i principali nobili che si misero a vuotare di ogni bene di valore le loro magioni e a farle
guardare da armigeri privati, per cui il Savioni scriveva che Napoli aveva assunto l’aspetto di
una grande caserma; uscirà la prima volta dal palazzo reale solo sabato 15 ottobre, festa di S.
Teresa d’Avila, per recarsi, come da tradizione, alla chiesa del Carmine d a quella appunto
detta di S. Teresa degli Spagnuoli, ma stavolta non più quasi solo, come era anche tradizione,
bensì circondato da tutta la sua guardia svizzera e seguito da 250 altri armati. Frattanto
all'inizio d'ottobre lo stesso predetto viceré aveva conferito al già nominato Gioan Girolamo
Acquaviva d'Aragona duca d'Atri il vicariato generale delle due province d’Abruzzo, incarico
impegnativo perché implicava l'organizzazione della difesa di quella delicata provincia di
frontiera, la quale era oltretutto travagliata da un cronico brigantaggio.
Nell’ambito di una riforma complessiva della spesa erariale che si stava attuando in
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Spagna e allo scopo di risparmiare i pingui stipendi di tre generali di mare, lo stesso Luigi XIV
volle riordinare le preminenze delle galere di comando nelle varie squadre delle due corone;
sino allora, ad esempio, la galera Patrona era stata tradizionalmente la seconda dello stuolo
dopo la Capitana, se non c’era anche una galera Reale - il che succedeva quindi proprio in
Francia, ma anche in Toscana e a Malta, mentre in Spagna, esistendo la detta Reale, era la
terza. Egli ordinò che solo la galera Capitana di Spagna dovesse conservare questo titolo e
quindi lo stendardo regio, che quella della squadra di Napoli doveva invece essere
declassata a Patrona Reale e inoltre che le squadre di Sicilia, Sardegna e del duca di Tursi
dovevano da allora in poi esser, all’uso di Francia, comandate da un semplice caposquadra
(sp. cuatralbo), nuove norme queste che entrarono in vigore proprio in occasione del
suddetto accompagnamento in Spagna della nuova regina. In quel mentre Filippo V ordinava
al Regno di Napoli di continuare a spedire a Milano i soliti 40mila scudi il mese a titolo di
normale soccorso in denaro che dal regno così si elargiva per la Lombardia, unitamente agli
invii di milizie che si facevano in quell'antico stato, elargizioni e invii che duravano ormai da
due secoli, ossia sin da quando il ducato e il regno erano entrambi venuti in possesso della
Spagna, anche se in quantità all’incirca consistenti a seconda dei periodi e ciò si giustificava
allegando - ed era vero - che lo Stato di Milano faceva da baluardo avanzato al Regno di
Napoli, impedendo agli eserciti invasori di spingersi al sud per andare a conquistarlo, come
invece aveva potuto, alla fine del Quattrocento, Carlo VIII.
Inoltre la sera del mercoledì 19 ottobre tornò a Napoli il corriere che il de la Cerda aveva
inviato a Parigi con la notizia d’aver domato l’insurrezione e portava, oltre a complimenti e a
ringraziamenti di Luigi XIV al viceré per il successo ottenuto nella repressione, a esortazioni
ad arrestare i contumaci e ad assicurazioni che, in caso di ulteriore bisogno, l’armata del viceammiraglio conte Victor Marie d’Êtrées, tenente generale del mare di ambedue i sovrani,
sarebbe prontamente intervenuta, veri e propri ordini anche da questo sovrano; infatti Luigi
chiedeva al predetto de la Cerda la leva di un trozo di cavalli corazze - ma in realtà,
trattandosi di 500 uomini suddivisi in dieci compagnie, di un intero reggimento - da porre sotto
le capitane di signori (parola testuale), ossia di esponenti delle prime famiglie del regno e
ufficialmente da far servire nello stesso regno nella forma di compagnie franche, né paleso la
sua vera intenzione che era quella di procurare con questo nuovo corpo a Filippo V un vero e
proprio reggimento della guardia personale, da trasferire quindi prima o poi al seguito di
costui, tanta era sempre stata in Francia la stima della cavalleria napoletana, considerata
seconda in Europa solo a quella francese. Così inizia dunque una conseguente prammatica
napoletana del 23 ottobre 1701:
Haviendo resuelto el Duque mi Señor (‘il duca di Medinaceli’) que se formez en este Reyno
un trozo de Cavalleria para que sirva a Su Magesta en el, compuesto de diez compañias de a
cinquenta soldados cada una y servidose de nombrar por capitanes de ellas a...
Le nomine furono ufficialmente conferite domenica 23 ottobre, ma già da giovedì 20,
cioè da quello subito successivo all’arrivo dell’ordine reale, erano stati resi noti i nomi dei
dieci capitani prescelti, ossia dei seguenti nobili appartenenti a famiglie titolate di prima sfera,
come allora si diceva per indicare le famiglie primarie del regno:
Paolo di Sangro principe di San Severo;
Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle (ma costui sarà presto nominato
mastro di campo);
Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e primogenito del principe d'Ottajano;
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Carlo Carafa principe della Guardia e figlio di Marzio duca di Maddaloni;
Tiberio Carafa marchese d'Anzi e primogenito di Francesco Maria principe di Belvedere;
Giosia IV Acquaviva d'Aragona marchese di Giulianova e primogenito del duca d'Atri;
Titta (Gioan Battista) Caracciolo Pisquizj fratello di Petricone, duca di Martina (ma
passerà poi a Francesco Felice Ajerba dei duchi d’Alessano);
Fabrizio Ruffo figlio del duca di Sant'Antimo (della Bagnara) e fratello del maestro di
camera del Papa;
Titta Brancaccio (ma passerà poi a Nicolò di Sangro);
Antonio della Marra.
Ciascuno dei suddetti capitani prescelti aveva a sua volta nominato i suoi ufficiali
subalterni, anch'essi tutti appartenenti alla nobiltà titolata del regno, ed era tenuto ad
arruolare (per conto della regia corte, ma anticipandone le spese) 50 uomini, a fornirli di
cavalcatura, vestito, mantello, stivali, speroni e spada e per questo avrebbe in seguito
ricevuto un fondo di 85 ducati dalla Corte stessa, la quale avrebbe anche dato direttamente
l'armamento da fuoco e cioè 50 carabine e 50 pistole per compagnia; ma avrebbe cominciato
a percepire il suo soldo da capitano solo quando avesse arruolato perlomeno i primi 25
uomini. Erano comunque i capitani facilitati nell'arruolamento dalla seguente clausola:
...que los soldados hayan de ser de todas naciones excepto subdidos del Emperador...
Ovviamente non era consentito arruolare potenziali nemici! Queste disposizioni
lasciarono scontente diverse famiglie importanti, quali quelle dei Pignatelli e dei Filomarino,
per non essere stati prescelti anche loro componenti, ma soprattutto i nobili napoletani si
sentivano offesi da quell’epiteto di ‘signori’ venuto dalla Corte di Francia, epiteto colà
giustamente ritenuto rispettosissimo e molto significativo in fatto di diritto feudale, ma in Italia
considerato invece sminuente in considerazione che già da secoli erroneamente concesso a
troppe persone anche non propriamente nobili.
Frattanto il conte d’Êtrées aveva effettivamente ricevuto da Luigi XIV ordine di uscire da
Cadice, dove allora la sua armata si trovava, di andare a imbarcare le fanterie francesi che il
maresciallo Villeroi avrebbe ritenuto opportuno inviargli e di portarsi quindi nelle acque del
Regno di Napoli. Mercoledì 26 ottobre giunse da Milano nella capitale il colonnello Gaetano
Coppola dei duchi di Canzano, ex-commissario generale della cavalleria lombarda con il suo
nuovo incarico di tenente generale della cavalleria del Regno di Napoli, essendone allora
capitano generale lo stesso viceré, e portò la notizia che era imminente l’arrivo di 500 soldati
appiedati di cavalleria, i quali, spediti a Napoli in rinforzo della guarnigione di quella capitale
dal principe di Vaudemont a seguito di pressanti richieste del Medinaceli, erano giunti il 19
ottobre a San Pier d’Arena via Pavia e Voltaggio; colà erano stati imbarcati subito i loro
bagagli ammontanti a più di 30 carri, mentre gli uomini, prima di salire a bordo di un vascello,
avevano preteso quanto era loro dovuto in paghe e in risarcimento per i cavalli che avevano
dovuto lasciare a Milano; il convoglio era complessivamente formato dal suddetto vascello, il
quale aveva imbarcato le dette soldatesche e salpato l’ancora la sera di domenica 23, e da tre
tartane, le quali erano invece partite il giorno dopo. In tale occasione ai soldati della
guarnigione di Genova era stato proibito di lasciare la città a evitare che alcuni disertassero
unendosi ai partenti; di converso molti disertori del corpo di spedizione francese in Lombardia
si trovavano nel Genovese, essendo infatti quelli ancora tempi in cui le continue diserzioni
affliggevano tutti i principali eserciti europei, assumendo questo fenomeno quasi le
caratteristiche di una continua osmosi tra l’uno e l’altro.
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Giovedì 27 ottobre approdarono a Napoli le galere di Sicilia, le quali portavano due
compagnie di fanteria spagnola sottratte da Porto Longone per rinforzare la Capitale e
sostituite colà da milizie italiane e nel frattempo si stavano preparando a Pozzuoli magazzini,
vettovaglie e alloggi per ricevere l’armata del suddetto conte d’Êtrées che portava nel regno
rinforzi di fanteria francese. Il Savioni scriveva in questi giorni che di notte a Napoli
scorazzavano gruppi d’armati che fermavano i passanti chiedendo Chi vive? Se la risposta
era Filippo V, i malcapitati subivano subito una crudele bastonatura; se invece rispondevano
Cesare (ossia l’imperatore d’Austria), ricevevano elogi.
Lunedì 31 il viceré firmò i viglietti, ossia gli ordini brevi, per la leva di 11 nuove
compagnie di 60 fanti ciascuna con la nomina degli 11 capitani, i quali erano in parte nobili
napoletani, tra i quali il diciottenne Nicola Antonio Caracciolo marchese di Torrecuso, il quale,
come presto vedremo, stava per esser fatto grande di Spagna come il defunto padre Carlo
Andrea, e l’altrettanto diciottenne primogenito del suddetto principe di San Severo, e per il
resto ufficiali riformati di condizione civile, tra cui un tre spagnoli. Frattanto i nobili e i
benestanti avevano abbandonato le loro abitazioni site nel centro cittadino per timore di
nuove violenze; per lo stesso motivo il viceré aveva accresciuto le fortificazioni del palazzo
reale e inoltre aveva preso l’abitudine di pernottare nel Castel Nuovo.
4 capitani di fanteria napoletana furono riformati e cioè Nicola di Manzo, Gabriele
Speradios, Gioan Battista Pappacoda e Ottavio Cavafelice.
(Giovedì, 3 novembre:) Detto giorno fu mandato in galera in vita uno che si era assentato per
soldato di cavalli con don Fabrizio Ruffo perché aveva ucciso uno ragazzo.
Probabilmente l'essersi arruolato nella cavalleria era stato considerato dai giudici
comportamento meritevole e aveva quindi evitato all'assassino la pena di morte, anche se in
effetti al remo quasi mai si riusciva a invecchiare e la galera a vita non era dunque che una
lentissima pena capitale.
In questo periodo il viceré, per scongiurare una ripresa del partito filo-austriaco, il quale
era ringalluzzito per l'arrivo, giovedì 3 novembre, di voci di una prossima venuta dell'esercito
imperiale e dell'armata navale inglese contro il regno, raddoppiò le guardie per tutta la città e
fece venire a questo scopo 100 soldati di campagna, i quali, insieme con i birri urbani,
andavano pattugliando Napoli in grosse truppe; a questi si aggiungevano le milizie regolari,
cioè le pattuglie di cavalleria e le ronde di fanteria che scorrevano la città per tutta la notte, e
infatti le cronache riportano la morte di un granatiere che partecipava a una di queste ronde,
decesso avvenuto nella notte di domenica 6 novembre in seguito a un incidente; il Savioni
così descriveva i provvedimenti presi dal viceré:
… Per suo ordine, pertanto, furono rinforzati i posti di guardia della città e forniti di granate per
disperdere, occorrendo, la folla, s’introdussero carri di granate e di polvere e altri duecento
soldati, oltre i molti che già la presidiavano, nella reggia; nel largo antestante vennero
squadronate compagnie di cavalleria e di fanteria, si alzarono i ponti levatoi dei castelli, si
prescrisse ai bombardieri di restare in piedi tutta la notte con la miccia accesa, si disposero
pattuglie notturne a cavallo con istruzione di girare incessantemente per le varie ottine,
vennero occupate infine le strade principali da altre milizie e gente armata.
… Salvo due stanzini e una galleria, ove restano alcune sedie e quadri di poco valore, Palazzo
Reale è stato spogliato de’ mobili, caricati tutti sulle galee, che il viceré ha fatto allontanare
dalla darsena. I campanili di Santa Chiara e di San Lorenzo sembrano divenuti due fortezze
da quando, alla stessa guisa che in tutti i castelli, compreso Castel Capuano, e in altri posti,
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