Massime e sentenze sul lavoro Una piccola raccolta di sentenze della Suprema Corte di Cassazione e di alcuni tribunali e preture italiane, riguardanti il rapporto di lavoro... [ Home page ] [ Links ] Sentenze della Suprema Corte di Cassazione Sentenza Corte di Cassazione n° 8804 del 1994 (criteri distintivi) Sentenza Corte di Cassazione n° 9606 del 1997 (vincolo della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 10689 del 1997 (volontà delle parti) Sentenza Corte di Cassazione depositata il 4.3.1998 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Corte di Cassazione n° 11885 del 1998 (subordinazione in scrittura artistica) Sentenza Corte di Cassazione n° 1676 del 1998 (connotati della subordinazione nel lavoro a domicilio) Sentenza Corte di Cassazione n° 2315 del 1998 (socio di cooperativa: decisione contrastante con il prevalente orientamento giurisprudenziale) Sentenza Corte di Cassazione n° 3272 del 1998 (contenuto attenuato della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 3959 del 1998 (contenuto attenuato della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 5361 del 1998 (efficacia probatoria dei libri obbligatori) Sentenza Corte di Cassazione n° 5363 del 1998 (prestazioni lavorative tra conviventi: presunta gratuità) Sentenza Corte di Cassazione n° 5412 del 1998 (assoggettabilità contributiva a seguito di conciliazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 5792 del 1998 (criteri per l'accertamento della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 6868 del 1998 (transazione novativa) Sentenza Corte di Cassazione n° 10906 del 1998 (socio lavoratore di cooperativa) Sentenza Corte di Cassazione n° 11711 del 1998 (volontà delle parti e criteri sussidiari) Sentenza Corte di Cassazione n° 11924 del 1998 (direttive esercitate "de die in diem") Sentenza Corte di Cassazione n° 12459 del 1998 (illeciti amministrativi commessi da società di persone) Sentenza Corte di Cassazione n° 61 del 1999 (nomen iuris) Sentenza Corte di Cassazione n° 379 del 1999 (accertamento della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 865 del 1999 (prestazione creativa) Sentenza Corte di Cassazione n° 3304 del 1999 (gratuità delle prestazioni) Sentenza Corte di Cassazione n° 4558 del 1999 (direttore di testata giornalistica: subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 4725 del 1999 (subordinazione di soci in società di persone) Sentenza Corte di Cassazione n° 5787 del 1999 (lavoro autonomo o subordinato) Sentenza Corte di Cassazione n° 5960 del 1999 (rilievo dei dati fattuali in caso di giudizio) Sentenza Corte di Cassazione n° 6150 del 1999 (distinzione tra lavoro autonomo e lavoro a domicilio) Sentenza Corte di Cassazione n° 6645 del 1999 (socio consulente inserito nell'organizzazione aziendale) Sentenza Corte di Cassazione n° 7304 del 1999 (scarsità e saltuarietà di prestazione lavorativa) Sentenza Corte di Cassazione n° 7552 del 1999 (accordo transattivo) Sentenza Corte di Cassazione n° 8132 del 1999 (lavoro parentale) Sentenza Corte di Cassazione n° 8187 del 1999 (qualificazione del rapporto di lavoro) Sentenza Corte di Cassazione n° 11332 del 1999 (partecipazione all'impresa familiare) Sentenza Corte di Cassazione n° 12634 del 1999 (criteri sussidiari nell'individuazione della subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 12926 del 1999 (volontà delle parti) Sentenza Corte di Cassazione n° 14120 del 1999 (lavoro subordinato a domicilio) Sentenza Corte di Cassazione n° 14579 del 1999 (criteri di subordinazione in una comunità familiare) Sentenza Corte di Cassazione n° 381 del 14.1.2000 (amministratore società di capitali e subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 1186 del 2000 (diritto alle prestazioni previdenziali in agricoltura) Sentenza Corte di Cassazione n° 1490 del 10/2/2000 (amministratore società commerciale) Sentenza Corte di Cassazione n° 1791 del 17/2/2000 (amministratore di società di capitali e subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 1924 del 19/2/2000 (nomen iuris e comportamento fattuale) Sentenza Corte di Cassazione n° 2033 del 23/2/2000 (forma scritta del contratto "part-time") Sentenza Corte di Cassazione n° 2039 del 23/2/2000 (effettivo svolgimento del rapporto di lavoro) Sentenza Corte di Cassazione n° 2228 del 28/2/2000 (socio di cooperativa e subordinazione) Sentenza Corte di Cassazione n° 6570 del 2000 (importante sentenza su lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Corte di Cassazione n° 8330 del 2000 (lavoro svolto nella sfera familiare) Sentenza Corte di Cassazione n° 13861 del 2000 (moglie collaboratrice in una attività societaria) Sentenza Corte di Cassazione n° 151 del 2001 (lavoro autonomo e subordinato: distinzione) Sentenza Corte di Cassazione n° 1626 del 2001 (impresa familiare costituita per evadere le imposte) Sentenza Corte di Cassazione n° 7800 del 2001 (conciliazione sindacale: irrinunciabilità dei contributi) Sentenza Corte di Cassazione n° 9167 del 2001 (nuove forme di organizzazione del lavoro: attenuazione delle direttive datoriali) Sentenze di Tribunali e Preture Sentenza Tribunale di Catania del 24/10/94 (prestazioni lavorative fra conviventi) Sentenza Pretura di Pistoia del 14/1/95 (valore professionale delle prestazioni) Sentenza Pretore di Milano del 24/1/1995 (subordinazione ed elementi sussidiari) Sentenza Pretore di Milano del 30/12/1995 (natura subordinata del rapporto di lavoro) Sentenza Pretore di Vicenza del n° 26 del 22/1/1996 (volontà negoziale delle parti) Sentenza Pretore di Parma del 12/12/1996 (elementi della subordinazione) Sentenza Pretura di Massa del 13/1/1997 (nomen iuris ed effettivo svolgimento della prestazione) Sentenza Tribunale di Trani n° 1400 del 1997 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Pretore di Vicenza n° 5 del 21/1/1998 (subordinazione degli addetti alle televendite) Sentenza Pretore di Padova n° 339 del 10/6/1998 (subordinazione dell'amministratore delegato) Sentenza Tribunale di Trani n° 740 del 1998 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Pretore di Lecce n° 2043 del 1998 (occasionalità delle prestazioni) Sentenza Tribunale di Roma del 22/1/1999 (indici della subordinazione) Sentenza Pretore di Modena n° 281 del 1999 (inserimento del lavoratore nella struttura aziendale) Sentenza Tribunale di Trani n° 114 del 1999 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Tribunale di Asti del 12/10/1999 (lavoro autonomo e subordinato: attività intellettuale) Sentenza Tribunale di Bari n° 10065 del 3/11/1999 (attività di insegnamento e requisiti della subordinazione) Sentenza Tribunale di Trani n° 33 del 27/1/2000 (lavoro subordinato) Sentenza Tribunale del lavoro di Bari n° 3749 del 20/3/2000 (atto transattivo) Sentenza Tribunale di Bari n° 4609 del 27/3/2000 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Tribunale di Trani n° 610 del 8/5/2000 (lavoro autonomo e subordinato) Sentenza Tribunale di Trani n° 511 del 19/6/2000 (lavoro subordinato e socio-lavoratore) Sentenza Corte di Appello di Bari n° 591 del 28/11/2000 (lavoro subordinato ed autonomo) Sentenza Tribunale di Trani n° 256 del 29/1/2001 (casi di notifica - socio di cooperativa e subordinazione) Sentenza Tribunale di Trani n° 1095 del 13/2/2001 (natura subordinata del rapporto di lavoro) Sentenza Corte di Appello di Bari n° 76 del 20/2/2001 (verifica ispettiva su indennità di maternità agricola) Sentenza Corte di Cassazione n° 12634 del 15 novembre 1999 Lavoro autonomo e subordinato: autonomia e subordinazione - indici - volontà delle parti - potere gerarchico e direttivo del datore di lavoro - rilevanza. Solo qualora l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente focalizzabile, a causa del concreto atteggiarsi del rapporto, è dato fare riferimento a criteri sussidiari, e quindi all'oggetto della prestazione, all'organizzazione dell'impresa, alla incidenza del rischio, all'inserimento del lavoratore nell'impresa, al sistema di retribuzione, all'esistenza di un orario di lavoro, alla collaborazione e alla continuità della prestazione. Il tutto, poi, valutato in prospettiva della volontà delle parti, manifestata espressamente ovvero in modo implicito. NOTA La sentenza in esame costituisce un intervento della Suprema Corte diretto a definire il "modus operandi" che deve essere seguito al fine di accertare la natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro. La Corte censura il ragionamento condotto dai giudici di merito per giungere alla qualificazione del rapporto come subordinato, rilevando come questi ultimi abbiano omesso di effettuare una rigorosa indagine sui requisiti che preliminarmente debbono essere indagati al fine di accertare la sussistenza della subordinazione etero-direzionale e volontà delle parti risolvendo la delicata questione oggetto di controversia sulla base di aspetti del tutto marginali dell'attività lavorativa dei soggetti (quali lo svolgimento delle mansioni in normali orari di ufficio, con mezzi propri dell'impresa e nell'esercizio di funzioni pressoché analoghe a quelle di altri lavoratori dell'azienda in rapporto di subordinazione, le modalità di esecuzione del lavoro con squadre includenti sempre altro personale dipendente), elementi di cui si può tenere conto solo qualora l'indagine preliminare di cui sopra non porti a risultati certi. Natura del rapporto di lavoro e rilievo della volontà delle parti Cassazione Sezione Lavoro 22 novembre 1999, n. 12926 Ove le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere la natura subordinata di un rapporto di lavoro, è possibile pervenire ad una diversa qualificazione di esso, soltanto se si dimostra in concreto l’elemento della subordinazione, intesa come vincolo di natura personale, che assoggetta il prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore, che si deve estrinsecare nella specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore medesimo; subordinazione che deve essere in fatto provata nello svolgimento del rapporto di lavoro. Le indagini del giudice Nel caso in cui un lavoratore sostenga di avere prestato la sua opera in condizioni di subordinazione, pur avendo inizialmente firmato un formale contratto di lavoro autonomo, possono distinguersi due ipotesi, che il giudice deve verificare. La prima è che le parti abbiano voluto attuare un rapporto di subordinazione, ma, per aggirare o nascondere la subordinazione, e con essa gli obblighi e gli oneri che la sua disciplina comporta, abbiano dichiarato espressamente di volere un rapporto di lavoro autonomo oppure se siano espresse in modo non chiaro. Il contratto dissimulato prevale su quello simulato ai sensi del secondo comma dell’art. 1414 cod. civ., mentre le difficoltà di interpretare le dichiarazioni di volontà debbono essere superate ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., che prescrive all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole, ma di valutare anche il comportamento delle parti in sede esecutiva. Ciò in quanto, la pur preliminare indagine sull’effettiva volontà negoziale non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati con riguardo alle modalità e caratteristiche concrete assunte dalla prestazione nel corso del rapporto. La seconda ipotesi è che i contraenti, voluto effettivamente un rapporto di lavoro autonomo, non abbiano, poi, tradotto in atto la dichiarazione, ma durante lo svolgimento del rapporto stesso abbiano manifestato – attraverso fatti concludenti – modifiche o mutamenti della volontà negoziale già espressa, con conseguente mutamento del regime normativo. Specialmente nel rapporto di lavoro, del resto, gli atteggiamenti delle parti assumono rilevanza giuridica non tanto in sede di conclusione del contratto quanto nella fase in cui le prestazioni vengono scambiate, onde è dal contenuto di essa che è dato risalire al tipo negoziale in cui la vicenda concreta deve essere inquadrata. Nell’una e nell’altra ipotesi spetta dunque al giudice di merito il rilievo, e la conseguente qualificazione giuridica, del comportamento tenuto dalle parti durante l’attuazione del rapporto di lavoro, prendendo come base di partenza il nomen iuris, utilizzato dai contraenti Commento Sul rilievo da dare alla volontà delle parti in ordine alla qualificazione del rapporto di lavoro (se subordinato o autonomo) esistono nella giurisprudenza della Cassazione due ben distinti indirizzi giurisprudenziali: uno, come la decisione in commento, che attribuisce rilevanza primaria, anche se non determinante, alla volontà delle parti ed alla qualificazione del rapporto data dalle stesse; l’altro (di cui è espressione Cass. N. 7885 del 1997) secondo cui aspetta al giudice del merito accertare il comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto di lavoro, al fine della conseguente qualificazione giuridica dello stesso come lavoro autonomo ovvero lavoro subordinato, senza che a ciò sia di impedimento la formale qualificazione delle parti in sede di conclusione del contratto individuale, sia nel caso in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di subordinazione, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo (al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia), sia nell’ipotesi in cui tale volontà sia autentica, ma durante lo svolgimento del rapporto medesimo le parti stesse, con comportamenti concludenti, abbiano manifestato l’intenzione di mutare la natura del rapporto, ponendo in essere un rapporto di lavoro subordinato. LAVORO AUTONOMO E SUBORDINATO ( Cassazione - Sezione Lavoro - Sent. n. 6570/2000 - Presidente R De Musis - Relatore N. Capitanio ) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato il 22 marzo 1990 S. D. a conveniva in giudizio davanti al pretore di Modena la ( omissis ), chiedendo che venisse affermata la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con essa e che, in conseguenza, venisse affermato il suo diritto a ottenere la regolarizzazione assicurativa e contributiva con condanna della società convenuta al pagamento della complessiva somma di lire 273.574.467, oltre rivalutazione, interessi e spese. Il D. assumeva di essere stato incaricato, quale responsabile dell'ufficio della società convenuta sito a New York, della acquisizione e conclusione per conto di detta società di contratti di trasporto tra l'Italia e l'America e di avere percepito per l'espletamento di tale attività un compenso annuo di 50 mila dollari Usa, aumentato di 10mila dollari a partire dal 1987. Il lavoratore aggiungeva che si era dimesso il 30 giugno 1989 senza percepire la promessa buonuscita, corrispondente a cinque mensilità di compenso e a un premio di 72.500 dollari, in quanto la società convenuta si era rifiutata di regolarizzare la sua posizione contributiva. La ( omissis ) si costituiva eccependo che tra le parti era stato pattuito ed era intercorso un rapporto di lavoro autonomo. Dispiegava domanda riconvenzionale con la quale chiedeva la condanna del D. al risarcimento dei danni subiti per violazione del patto di non concorrenza. Con sentenza in data 23 ottobre 1992 il pretore di Modena rigettava sia la domanda principale come quella riconvenzionale e compensava le spese del giudizio. Il tribunale di Modena con sentenza in data 6 dicembre 1995-22 luglio 1996 rigettava l'appello proposto dal D. avverso la sentenza pretorile, che confermava condannando l'appellante al rimborso delle spese del giudizio in favore della società appellata. Il tribunale, in particolare, osservava che dall'accordo contrattuale, di cui alla lettera di incarico del 20 marzo 1983, veniva a desumersi che le parti avevano inteso instaurare un rapporto di lavoro non ordinato e che tale caratteristica veniva a desumersi dalle stesse dichiarazioni rese dal D. in sede di libero interrogatorio. Il giudice d'appello aggiungeva, altresì, che da tutte le deposizioni acquisite, compresa quella della M., non era stato possibile desumere che il rapporto di lavoro nel corso del suo svolgimento, si fosse trasformato da autonomo in subordinato con la soggezione del D. al potere organizzativo e disciplinare della società. Secondo il tribunale era risultato, invece, che il D. acquisiva contratti di trasporto avvalendosi dei dipendenti della società e della sua filiale di New York, organizzando, però, il suo lavoro in piena autonomia e senza soggiacere al potere direttivo altrui. Contro la suindicata sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi. Resiste la ( omissis ) con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo dì ricorso il D. denunzia violazione e falsa applicazione dell'articolo 2094 Cod. civ., anche in relazione all'articolo 2697 Cod.civ. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo in ordine alla volontà originaria delle parti sulla qualificazione del rapporto giuridico tra loro intercorso, nonché violazione degli articoli 1362 e seguenti Cod.civ. Con il terzo motivo. infine, il D. denunzia insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alla avvenuta realizzazione, in concreto, della subordinazione nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro e omesso esame di documenti decisivi. I tre dedotti motivi, che, nella sostanza, si concretizzano nell'unica censura dell'omessa individuazione ad opera del tribunale del rapporto di lavoro subordinato nell'attività di acquisizione dei contratti di trasporti tra l'America e l'Italia svolta, dal D. in favore della società ( omissis ), per ragioni di logica connessione vanno esaminati congiuntamente. La sentenza impugnata muove da questi erronei principi di diritto, attribuiti a questa Suprema corte, secondo cui: a) qualsiasi lavoro potrebbe essere svolto in regime di subordinazione o di autonomia; b) sarebbe la comune volontà delle parti e stabilire se il lavoro viene svolto in modo subordinato o autonomo; c) gli elementi indiziari costituiti dalla fissità e periodicità della retribuzione, la predeterminazione dell'orario l'utilizzo della sede e dei mezzi produttivi del datore di lavoro, ecc. non potrebbero eliminare l'accordo contrattuale e cioè la comune volontà delle parti che abbiano inteso instaurare un rapporto dì lavoro autonomo; d) al di fuori della volontà delle parti, rimarrebbe l'ipotesi di un successivo loro accordo realizzabile anche tacitamente per fatti concludenti, e diretto a modificare nel corso del suo svolgimento l'iniziale rapporto di lavoro autonomo in rapporto di lavoro subordinato. Tali principi di diritto, da cui la sentenza ha preso le mosse sono, invece, erronei e in conseguenza appare fondato il ricorso del D. che si è doluto della loro applicazione, con conseguente erronea valutazione degli elementi di prova, eseguita sulla base di tali principi. Non corrisponde, intanto, al vero, che non siano ipotizzabili attività lavorative che siano tipicamente subordinate (si pensi ad es., all'attività lavorativa del maggiordomo). Invero, quando questa Corte ha affermato che ogni attività umana può essere oggetto di rapporto di lavoro autonomo o subordinato (v. Cass. 9 giugno 1998, n.5710) ha inteso semplicemente precisare che la natura dell'attività svolta dal lavoratore deve indurre il giudice a ritenere la sussistenza della subordinazione non già in relazione all'oggetto della prestazione lavorativa (ad es. di quella del maggiordomo intesa a esaudire le esigenze personali della persona a cui egli è addetto), bensì in relazione agli elementi tipici della subordinazione, costituiti dall'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale (domestica, commerciale o industriale) del datore di lavoro e dalla soggezione conseguente del lavoratore al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro (ad es. per il maggiordomo la subordinazione è ravvisabile nel fatto che egli è inserito nell'organizzazione domestica del palazzo signorile ove svolge la sua attività ed è assoggettato alle direttive e alle eventuali sanzioni disciplinari della persona cui egli è addetto). In altri termini ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato può rilevare il nomen juris utilizzato dalle parti o la loro volontà come risulta dal contratto da esse stipulato, a condizione, però, che tali elementi corrispondano effettivamente al rapporto di lavoro così come si è instaurato e si è svolto con l'avvenuto inserimento o meno del lavoratore nell'organizzazione aziendale del datore e il suo avvenuto assoggettamento o meno al potere gerarchico e disciplinare del datore con conseguente sussistenza o meno del rapporto di lavoro subordinato o autonomo. Alla luce di tali principi il tribunale avrebbe dovuto esaminare sia le prove documentali come quelle testimoniali e presuntive al fine di accertare se alla volontà delle parti fosse corrisposta la effettività della sussistenza del rapporto instauratosi tra le parti, tenendo presente, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, che quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri sussidiari come quello della collaborazione, della continuità della prestazione, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a scadenza fiscale di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo del datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una pur minima struttura imprenditoriale, ecc., elementi, questi, che pur essendo, se singolarmente considerati, sforniti di valenza probatoria decisiva, possono tuttavia globalmente essere assunti a indizi probatori della subordinazione (v. Cass. Sezioni unite, 30 giugno 1999, n. 379). Il tribunale, invece, con la sentenza impugnata si è limitato ad accertare che dalla lettera di incarico sarebbe risultato che le parti avevano inteso instaurare un rapporto di lavoro autonomo e aveva corroborato tale tesi interpretativa con l'equivoco tenore delle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio del D. e dalle quali, viceversa, poteva desumersi che le parti avevano simulato un rapporto di lavoro autonomo al fine di consentire al datore di lavoro di eludere gli oneri contributivi. Decisivo, a questo punto, doveva essere per il giudice di appello l'esame delle prove testimoniali al fine di accertare con quali caratteristiche tra le parti si era instaurato il rapporto di lavoro. Il proposto ricorso va, pertanto, accolto. Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, al tribunale di Reggio Emilia il quale si uniformerà ai seguenti principi: "Ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato occorre fare riferimento non già al nomen juris utilizzato dalle parti nella stipula del contratto di lavoro o alla volontà delle medesime risultante dal contratto, bensì al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro sin dal momento del suo instaurarsi sino a quello del successivo suo svolgimento. A tal fine, sussiste rapporto di lavoro subordinato se il lavoratore viene inserito nell'organizzazione dell'azienda datoriale e viene assoggettato al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro, costituendo criteri sussidiari indiziari ai fini della prova della subordinazione, quello della retribuzione prestabilita pagata a scadenze stabilite, quello dell'inserimento della prestazione lavorativa offerta nell'ambito della organizzazione imprenditoriale, quello dell'assenza di una sia pur minima struttura imprenditoriale in capo al lavoratore, tutti elementi, questi, che possono esser decisivi solo se valutati globalmente e non singolarmente". PER QUESTI MOTIVI La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, al tribunale di Reggio Emilia Sentenza Corte di Cassazione n° 9167 del 6 luglio 2001 (Cassazione Sezione Lavoro: Pres. Santojanni, Rel. Simoneschi) LE NUOVE FORME DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO SUBORDINATO COMPORTANO UN’ATTENUAZIONE DEGLI INTERVENTI DIRETTIVI E DEI CONTROLLI DELL’IMPRENDITORE Concetta T. ha lavorato per la S.p.A. Molteni Farmaceutici con mansioni di propagandista in base a un formale contratto di collaborazione autonoma. Ella ha chiesto al Pretore di Firenze di accertare che in realtà aveva lavorato in condizione di subordinazione e di riconoscerle i diritti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha accolto la domanda, ma la sua decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Firenze, che ha escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Il Tribunale ha rilevato che alla propagandista era stata assegnata una zona prestabilita e che ella doveva visitare almeno dieci medici al giorno, usando un proprio mezzo, secondo un percorso stabilito di volta in volta, di regola senza affiancamento di un capo area; ha inoltre accertato che ella doveva presentare i rapportini delle visite effettuate e che la società aveva predisposto modalità di propaganda dei prodotti anche mediante direttive. Peraltro il Tribunale ha ritenuto che l’organizzazione del lavoro dei propagandisti fosse ben lontana dal concretare l’esistenza di una forte ed efficace posizione di controllo in capo all’impresa, apparendo il sistema piuttosto basato su una relazione fiduciaria, in assenza di obblighi puntualmente esigibili e quindi di controllo sulle operazioni lavorative; pertanto ha dichiarato l’esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato caratterizzato da un coordinamento esterno dell’impresa, secondo un sistema di direttive generali e programmatiche tese ad indicare al prestatore di lavoro le sole modalità di massima delle operazioni da eseguire. Connotato della subordinazione – ha affermato il Tribunale – è "una completa alienazione della libertà e delle iniziative del lavoratore al fine di poter rispondere ed adeguarsi inderogabilmente a un tipo di organizzazione unilateralmente imposta". La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale per difetto di motivazione e per violazione della normativa di legge in materia di rapporto di lavoro subordinato. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La "completa alienazione" che, secondo il Tribunale, caratterizzerebbe la subordinazione – ha affermato la Corte – è fuori della realtà giuridica, dovendo in materia applicarsi i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza, secondo cui gli ordini specifici e l’esercizio di un’attività di vigilanza e di controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative, nei quali si estrinseca il potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, si atteggiano diversamente in relazione alla peculiarità delle suindicate prestazioni; inoltre, non è necessario che i predetti ordini siano continui, dettagliati e strettamente vincolanti, considerato altresì che l’assoggettamento può realizzarsi anche con riferimento a direttive programmatiche soltanto impresse nella struttura aziendale. Inoltre – ha osservato la Corte – il potere direttivo dell’imprenditore, generalmente ritenuto il criterio tipicizzante il lavoro subordinato, con l’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro, sempre più caratterizzati dalla tendenza alla esteriorizzazione o terziarizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di una serie di professionalità specifiche, ove si riferisca a questi processi, diviene sempre meno significativo della subordinazione, per la impossibilità di un controllo pieno e diretto delle diverse fasi della attività lavorativa prestata; così è, ad esempio, in una recente e nuova tipologia contrattuale, quale è il lavoro temporaneo, ove il potere direttivo addirittura si scinde tra due diversi soggetti, ovvero l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice. Lo stesso avviene – ha rilevato la Corte – nelle diverse forme di lavoro atipico caratterizzate dalla locazione flessibile del lavoro (lavoro di ufficio e lavoro di gruppo a distanza, lavoro mobile, lavoro a domicilio, il telecommunting, ecc.), nelle quali l’attività dei prestatori di lavoro è naturalmente caratterizzata da un’ampia autonomia operativa. La subordinazione – ha affermato la Corte – sussiste quando il lavoratore si obbliga a porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, e ad impiegarle con continuità, con fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartitegli ed in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione: costituendo tali condizioni il requisito minimo ma sufficiente per ritenere la natura subordinata del rapporto di lavoro. Questo requisito – ha concluso la Corte – sussiste nel caso di specie, nel quale il Tribunale ha accertato il collegamento della prestazione ai fini dell’attività di una casa farmaceutica e la sussistenza di direttive entro le quali, sia pure con i margini di discrezionalità di un rappresentante commerciale, la prestazione doveva essere eseguita. Sentenza della Pretura di Pistoia del 14 gennaio 1995 Ai fini dell'accertamento della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, può essere riconosciuto un ruolo rilevante alla volontà manifestata dalle parti al momento dell'instaurazione del rapporto stesso, soprattutto in quei casi in cui la prestazione sia di notevole valore intellettuale e/o professionale, il lavoratore non sia persona sprovveduta né in posizione di inferiorità rispetto al datore di lavoro sotto il profilo economico - sociale - culturale e il lavoratore medesimo sia pienamente consapevole delle conseguenze derivanti dalla qualificazione in via autonoma del rapporto di lavoro in termini di perdita delle tutele e delle garanzie connesse al rapporto di lavoro subordinato, talché le stesse possano considerarsi ultronee rispetto alla reciproca soddisfazione degli scopi e degli interessi perseguiti dalle parti. Nella fattispecie, ai fini dell'accertamento della natura del rapporto di lavoro intercorso tra una biologa e un centro di analisi mediche, è stata attribuita rilevanza decisiva alla volontà delle parti di instaurare un rapporto di lavoro autonomo in considerazione del fatto che, in concreto, il rapporto non si è svolto con modalità che potessero far presumere il superamento dell'originario intendimento della parti attraverso la realizzazione della subordinazione, non essendo state considerate tali la corresponsione di un compenso mensile e l'utilizzazione da parte del lavoratore delle strutture del datore di lavoro, in quanto compatibili anche con un rapporto di lavoro autonomo. COLLABORAZIONE CONTINUATIVA E LAVORO SUBORDINATO: DALLA DEFINIZIONE LEGALE ALLE ULTIME INDICAZIONI GIURISPRUDENZALI SULLA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO Commento a Cassazione 13 maggio 2004 n. 9151 Giuseppe Mommo Prima di esaminare la recente decisione della Cassazione n. 9151/2004, in fatto di diversificazione del rapporto di lavoro subordinato da altre forme di collaborazione (materia in cui esiste copiosissima giurisprudenza), è opportuno delineare il contesto legale e giurisprudenziale nel quale si inserisce quest’ultima decisione, per meglio comprendere la sua particolarità. Occorre premettere che la situazione di incertezza nel distinguere la collaborazione continuativa dal lavoro subordinato si ricollega soprattutto al fatto che il Codice civile, principale fonte normativa, si limita a definire in modo abbastanza generico le due principali categorie di lavoro, individuate in quello subordinato ed in quello autonomo, senza curarsi di prendere in considerazione e disciplinare in modo specifico ed indipendente le varie prestazioni autonome e quindi la collaborazione coordinata e continuativa. Il Codice civile, infatti, definisce con l'articolo 2094 lavoratore subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore” e ricollega tutte le prestazioni di lavoro autonomo al contratto d’opera di cui all’articolo 2222 che si configura “quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”. Si può aggiungere che i rapporti di collaborazione furono presi in considerazione (come “semplice citazione”), solo con la legge 11 agosto 1973, n. 533, intervenuta a disciplinare le controversie individuali di lavoro ed a modificare la procedura del contenzioso del lavoro. Infatti, solo il Codice di procedura civile, all’articolo 409 comma 3 contiene l’indicazione: “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato” (art. 409 c.p.c. comma 3). Per tale ragione, evidentemente, il decreto legislativo 276/2003 (riforma Biagi), nel definire all’articolo 61 il campo di applicazione del “lavoro a progetto” (in luogo della collaborazione continuativa), non può fare riferimento al Codice civile o ad altre norme, ma all’indicazione contenuta dal codice di procedura: “rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile”. Quindi, risulta del tutto evidente come, anche a causa della generica ed incerta definizione normativa, siano sorti contrasti e richieste di tutela giudiziaria e si sia posto spesso il problema di verificare giudizialmente quando la prestazione “autonoma” della collaborazione a carattere continuativo (prevista contrattualmente per regolare il rapporto), nel suo effettivo esplicarsi, andava invece ad assumere le caratteristiche proprie del lavoro subordinato. Sta pure di fatto che quando un rapporto abbia effettivamente natura subordinata, non è concesso “camuffarlo” perché, anche se il lavoratore non si attiva per reclamare i diritti aggiuntivi che la subordinazione gli riconosce, sorgono, indipendentemente dalla volontà delle parti, determinati obblighi inderogabili, specie di natura contributiva. In estrema sintesi e con molta semplicità, a proposito della distinzione tra lavoro subordinato e collaborazione continuativa, si potrebbe dire che si configura il lavoro subordinato quando il lavoratore non abbia la possibilità di determinare tempi e modi della propria attività lavorativa e che in presenza di tali vincoli risulta difficile parlare di prestazioni riconducibili al lavoro autonomo e quindi ad una forma di “permanente” collaborazione. Nondimeno, nel concreto atteggiarsi della prestazione, per la similarità del lavoro subordinato con la collaborazione continuativa (non a caso definita come attività “parasubordinata”), possono concretarsi situazioni particolari di non facile, esatta ed immediata qualificazione del rapporto. E’ bene quindi focalizzare almeno le più importanti indicazioni della ricca e vasta elaborazione giurisprudenziale che, intervenuta a dirimere le numerose controversie, si è raccolta negli ampi spazi di “indefinizione legale” lasciati liberi dal legislatore ed ha dettato criteri di diversificazione, metodi di indagine e linee di condotta. Bisogna, in primo luogo, richiamare l’attenzione sul fatto che la giurisprudenza non ha ritenuto decisiva la “qualificazione contrattuale” del rapporto di lavoro, ove le caratteristiche con cui questo si svolga non corrispondano al cosiddetto nomen juris, cioè alla qualificazione attribuita dalle parti al contratto da loro stipulato. Più precisamente la Cassazione ha stabilito che, dovendo distinguere tra lavoro autonomo e subordinato, non si può prescindere dalla volontà delle parti e, sotto questo profilo, va tenuto presente il nomen iuris utilizzato. Tuttavia, è stato pure precisato che la denominazione non può avere un rilievo assorbente perché, ai sensi del secondo comma dell’articolo 1362 del Codice civile, deve tenersi conto anche del comportamento dei contraenti posteriore alla conclusione del contratto “e, in caso di contrasto tra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità delle prestazioni, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela relativa al lavoro subordinato non può essere elusa per mezzo di una configurazione pattizia non rispondente alle concrete modalità di esecuzione del rapporto”. (Cass. Sez. Lav., sent. n. 3001 del 01-03-2002). Per esprimere sostanzialmente lo stesso concetto, che corrisponde ad un principio giurisprudenziale costante e consolidato, la stessa Cassazione, in una tra le più recenti massime, ha usato le seguenti parole testuali: “Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, qualunque sia il tenore delle pattuizioni intervenute tra le parti, assume rilevanza primaria il concreto atteggiarsi del rapporto stesso, il che impone la necessità di verificare, alla stregua delle effettive modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, l'esattezza della qualificazione effettuata dalle parti” (Cass. Sez. Lav., sent. n. 9654 del 16-06-2003). A proposito della verifica, la stessa decisione precisa che compete al giudice di merito, senza che il suo operato possa essere sindacato in sede di legittimità “ove non siano stati violati i principi dettati dagli artt. 2094 e 2222 c.c. sulla distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, e qualora di tali principi il giudice di merito abbia fatto corretta applicazione con motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici”. Al fine di valutare l’effettiva natura del rapporto di lavoro, in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa codicistica (circostanza giudizialmente spesso evidenziata), la giurisprudenza di legittimità ha dovuto individuare una serie di indici, tra importanti e secondari, in base ai quali risulta possibile valutare se un rapporto lavorativo sia caratterizzato da subordinazione o autonomia. Tra gli indizi di cui si deve tenere conto, quello che comunemente è stato ritenuto di maggiore importanza, nel rivelare la natura subordinata del rapporto, riguarda “l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro”. In concreto, l’importanza di tale assoggettamento deriva dal fatto che ad esso si ricollegano altri fattori indicativi della subordinazione come il rispetto dell’orario di lavoro indicato dal datore di lavoro; lo svolgimento della prestazione stabilita in locali e con strumenti messi a disposizione dal datore di lavoro; l’obbligo di richiedere permessi in caso si abbia necessità di assentarsi o non si possa rispettare gli orari previsti; la necessità di comunicare assenze e malattie; la possibilità di effettuare le ferie nei periodi indicati dal datore di lavoro ecc.. A proposito dei fattori indicativi e del ricorso ai criteri sussidiari, è stato recentemente chiamato a pronunciarsi anche il massimo organo giudicante, ovvero le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il quale ha testualmente stabilito: “Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione”. (Cass. Sez. U., sent. n. 379 del 30-06-1999). Con l’importante decisione di cui è stato riportato il principio di diritto massimato, le Sezioni Unite si sono pronunciate su un caso in cui, per particolari mansioni di natura intellettuale e professionale, non era agevolmente apprezzabile l’assoggettamento del lavoratore alle direttive del datore. Più precisamente, nella specie, il rapporto dedotto in giudizio, aveva ad oggetto “prestazioni didattiche in ambito universitario” e la suprema Corte ha ritenuto che anche a tale tipo di prestazione può riconoscersi il carattere subordinato in presenza di altri fattori “probatori della subordinazione”. Il sintesi, la decisione a sezioni unite, nel confermare l’importanza dell’assoggettamento come fattore rivelatore della natura subordinata del rapporto, fissa l’importante principio di diritto secondo cui, quando ci siano dei dubbi sulla effettività della sottomissione, gli altri criteri complementari devono essere valutati non singolarmente ma globalmente. Pur “privi ciascuno di valore decisivo”, possono rivelare “indizi probatori della subordinazione” se valutati globalmente. Nel contesto giurisprudenziale sopra delineato si inserisce la sentenza n. 9151 del 13 maggio 2004 che merita un breve commento per una sua “particolarità”: quella di aver inserito il concetto di “reperibilità telefonica”, come fattore svincolante dall’obbligo di svolgere la prestazione in un luogo preciso (generalmente messo a disposizione dal datore di lavoro). Con quest’ultima sentenza la Cassazione ha ricordato i criteri per la distinzione fra lavoro autonomo e subordinato ed ha ribadito come tra i diversi e variabili criteri, che distinguono il lavoro subordinato dal lavoro autonomo o dalla prestazione di opera continuativa e coordinata, “il principale è perciò decisivo ... consiste nell'assoggettamento del prestatore al potere direttivo (e disciplinare) del datore di lavoro, ossia al potere di precisare il contenuto della prestazione lavorativa e di controllarne l'esecuzione”. Tale recente decisione, si inserisce quindi perfettamente nel contesto delineato dalla precedente giurisprudenza di legittimità, salvo la sua “precisazione innovativa” in merito alle modalità ed al luogo in cui può svolgersi la prestazione. Infatti, è stato chiarito che per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, non è indispensabile la prestazione lavorativa in azienda, potendo sussistere anche nel caso di un obbligo di “reperibilità telefonica del lavoratore”. In particolare, nel caso di specie, è stata cassata la decisione della Corte di appello che aveva ritenuto d’ostacolo al riconoscimento del rapporto subordinato: l’esecuzione delle prestazioni anche fuori sede con reperibilità attraverso il telefono portatile; l’iscrizione della lavoratrice, in una gestione previdenziale separata; la variabilità della retribuzione in quanto la lavoratrice percepiva una percentuale dei corrispettivi pagati dai clienti che prendevano in locazione (noleggio) autovetture dell'impresa. Anche in presenza delle suddette circostanze, la Cassazione ha ritenuto che il lavoratore possa considerarsi inserito nell'organizzazione produttiva diretta dal datore, ove il lavoro venga svolto dietro specifiche e vincolanti disposizioni e non in base a generali direttive, compatibili col lavoro autonomo. Più precisamente, la sentenza della Corte di appello è stata cassata perché avendo attribuito rilevanza decisiva alle suddette circostanze, ha omesso di fare una serie di accertamenti che avrebbe dovuto fare e che sono stati puntualmente elencati (da A ad F). Stando al tenore delle censure mosse dai giudici di legittimità, la Corte di merito avrebbe dovuto accertare quanto meno le effettive mansioni espletate dalla lavoratrice ed a quale orario di lavoro precisamente ella fosse tenuta, senza considerare a priori preclusa la possibilità di riconoscere il rapporto subordinato, per lo svolgimento di parte del lavoro fuori sede (stante la reperibilità) e per le altre due ininfluenti circostanze. Per tutti gli accertamenti indicati (da A ad F), la causa è stata rinviata alla Corte d'appello di Venezia, la quale, uniformandosi ai principi di diritto enunciati, dovrà pervenire “all'esatta qualificazione del rapporto di lavoro in questione”. Volendo mutuare le parole usate dalle sezioni unite della Cassazione, dovrà valutare complessivamente le circostanze del caso, tenendo conto del fatto che gli accertamenti pur “privi ciascuno di valore decisivo” , possono rilevare ” indizi probatori della subordinazione” se valutati globalmente. La qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato od autonomo deve incentrarsi sulla verifica dell'assenza di organizzazione imprenditoriale e dell'assoggettamento al potere gerarchico del datore di lavoro, mentre il riscontro di una serie di elementi, quali l'osservanza di un orario di lavoro, la cadenza e la misura fissa della retribuzione, come pure l'assenza di rischio, assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, con la sentenza 9900 del 20 luglio 2003, ricordando inoltre che anche il nomen juris usato dalle parti nel contratto non ha rilievo decisivo per qualificare il rapporto. (Nota a cura della redazione. Cfr. Cassazione, sentenza 1420/02). Corte di cassazione Sezione lavoro Sentenza 20 luglio 2003, n. 9900 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Coni propose opposizione al decreto con cui il Pretore di Verona, ad istanza dell'Inps, gli aveva ingiunto il pagamento di lire 615.134.375, a titolo di contributi e sanzioni di legge per l'omessa registrazione a libro paga e matricola di 17 lavoratori, assunti formalmente come lavoratori autonomi nel periodo fra il settembre 1980 e l'ottobre 1994 e ritenuti per contro dall'Inps lavoratori subordinati. A fondamento dell'opposizione, per quanto ancora rileva, il Coni dedusse la prescrizione parziale del credito per il periodo ottobre 1980-gennaio 1985, risalendo al 20 gennaio 1995 l'unico atto interruttivo da parte dell'Inps, e l'insussistenza dei presupposti di fatto per qualificare il rapporto intercorso con i lavoratori come lavoro subordinato. Il Pretore accolse parzialmente l'opposizione e condannò il Coni al pagamento dei contributi nei limiti della prescrizione decennale. La sentenza, su appello del Coni, contrastato dall'Inps, è stata confermata dal Tribunale di Verona, previo espletamento di consulenza tecnica sulla misura dei contributi dovuti. Nella motivazione il Tribunale, per quanto ancora rileva, ha premesso anzitutto che la subordinazione lavorativa consiste nell'inserimento organico del lavoratore nella struttura dell'impresa e può esser colta sulla base di elementi oggettivi quali l'assenza di una organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore e il suo assoggettamento al potere gerarchico del datore di lavoro, mentre non ha rilievo decisivo il nomen juris usato dalle parti per qualificare il rapporto. Il giudice d'appello ha quindi osservato che in base alle risultanze processuali, e in particolare alle testimonianze dei dipendenti, era risultato che i c.d. collaboratori autonomi dei quali il Coni, dotato di un numero limitato di funzionari, si avvaleva erano tenuti ad osservare un orario di lavoro, godevano di una retribuzione fissa mensile, non modificata per effetto di periodi di malattia o ferie, non sopportavano alcun rischio, non avevano alcuna organizzazione lavorativa propria, neppure di tipo elementare, rendevano una prestazione di fatto che si esauriva nella messa a disposizione delle loro energie lavorative. Quanto ai conteggi dell'Inps, il Tribunale sulla scorta della Ctu ne ha confermato la correttezza, sia sotto il profilo dell'inquadramento categoriale che per quel che riguardava la misura degli importi pretesi. Contro questa sentenza il Coni ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. L'Inps resiste con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso, denunziando, ai sensi dell'articolo 360 nn. 3 e 5 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, come pure violazione e falsa applicazione degli articoli 2094 e 1362 e seguenti c.c., avuto riguardo al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, il ricorrente addebita anzitutto alla sentenza impugnata di essersi limitata a richiamare l'insegnamento di questa Corte sui criteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, senza svolgere un'indagine specifica sulle singole posizioni lavorative dei 17 collaboratori per i quali erano stati richiesti i contributi ed irrogate le sanzioni, equiparandole tutte senza verificare in concreto l'esistenza per ognuna di esse degli elementi caratteristici o almeno sintomatici della subordinazione, benché nell'atto di appello fossero state messe in rilievo le peculiarità di ciascuna. In secondo luogo, il ricorrente addebita alla sentenza di non aver tenuto conto della volontà delle parti di dar vita ad un rapporto di lavoro autonomo, volontà espressa anche nel trattamento fiscale dei compensi, trascurando quindi tanto la presunzione correlata al nomen juris utilizzato dalle parti, quanto il loro comportamento successivo, con cui esse avevano manifestato adesione allo schema contrattuale convenuto. Oltre a ciò, al giudice di merito è ancora addebitata l'omessa effettuazione di qualsiasi indagine sull'esistenza del potere gerarchico del datore di lavoro, e il mancato esame di circostanze, emergenti dalla prova orale, idonee a determinare una diversa decisione della causa, quali la totale inesistenza di qualsiasi esercizio di poteri direttivi, disciplinari e di controllo da parte del Coni nei confronti dei collaboratori, e l'inesistenza di obblighi di presenza o di orario di lavoro da parte di questi ultimi. Il motivo è sostanzialmente fondato, benché alcune delle tesi che esso contiene non siano condivisibili. In particolare, non merita approvazione quella che intende far leva sulla volontà delle parti non quale si è manifestata nel concreto svolgimento del rapporto ma come configurata nelle originarie pattuizioni contrattuali, tanto più se, come sostenuto dal ricorrente, una tale volontà sia, almeno presuntivamente, da considerare conforme al nomen juris adoperato dalle parti. Al riguardo va invece ribadito il prevalente orientamento di questa Corte secondo cui la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del contratto non è determinante, stante la idoneità, nei rapporti di durata, del comportamento delle parti ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale che una diversa nuova volontà (così, di recente, Cass. 1420/02). Il comportamento delle parti va dunque considerato e valorizzato proprio perché idoneo a render manifesto il concreto assetto che esse hanno inteso imprimere ai loro rapporti, a prescindere dal carattere confermativo o non della originaria qualificazione da essi voluta, fermo restando il ruolo di questa nei casi, peraltro marginali, in cui ogni altra circostanza complessivamente valutata non offra, ai fini della qualificazione del rapporto, elementi decisivi in un senso o nell'altro. Va poi aggiunto che, in assenza di precise indicazioni sul contenuto delle pattuizioni originarie, non si può accogliere la pretesa del ricorrente di attribuire carattere sintomatico della volontà delle parti all'assoggettamento da parte del Coni a ritenuta d'acconto dei compensi corrisposti ai collaboratori, accettato costantemente da costoro. Si tratta, infatti, di un comportamento dal significato quantomeno ambiguo, non potendo ravvisarsi (e comunque non essendo dedotto) uno specifico interesse dei soggetti coinvolti per una diversa modalità di tassazione. D'altra parte, se, com'è noto, le modalità della retribuzione non hanno di per sé rilievo decisivo ai fini che qui interessano, appare arduo attribuire tale rilievo al trattamento fiscale dei compensi. Sono fondate, invece, le ulteriori censure contenute nel motivo. Premesso che il controllo di questa Corte non riguarda la valutazione da parte del giudice del merito dei fatti e delle prove, ma solo il ragionamento giustificativo delle conclusioni raggiunte in base alle risultanze processuali, si deve osservare che la dimostrazione del positivo riscontro della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra il Coni e ognuno dei 17 collaboratori è affidato, nella sentenza, ad un primo gruppo di asserzioni così riassumibili: il Coni aveva un numero limitato di dipendenti, e si avvaleva di cosiddetti collaboratori autonomi; questi, tuttavia, erano tenuti ad osservare un orario di lavoro, godevano di una retribuzione fissa mensile, e tale retribuzione non subiva alcuna variazione per effetto di periodi di malattia o della fruizione di ferie. La corrispondenza ai fatti di tali affermazioni deriva, secondo il Tribunale, dalle testimonianze assunte, in particolare dalle dichiarazioni del teste M. La sentenza contiene poi una seconda affermazione, secondo la quale quella dei lavoratori in argomento era «una prestazione di mero fatto, che si esauriva, in assenza di alcun rischio o di organizzazione lavorativa, anche elementare, nella messa a disposizione delle energie lavorative dei dipendenti». Benché possa apparire come la conclusione che il Tribunale trae da una serie di fatti, questa seconda affermazione, nell'economia della sentenza, è presentata piuttosto come una circostanza di fatto, il cui supporto probatorio sarebbe costituito dalle dichiarazioni di taluni testi (T., B., B., R., F., e B.), non contraddette da quelle del già menzionato M.. Ulteriore elemento di riscontro sarebbe costituito dalle dichiarazioni rese dai collaboratori all'ispettore dell'Inps, da questi richiamate nella sua deposizione, e confermate, del resto, direttamente dagli stessi collaboratori ascoltati come testi. Questa seconda affermazione, da intendere necessariamente come ulteriore base per la conclusione raggiunta, e da riguardare quindi nel suo profilo fattuale, equivale a dire che le prove assunte avevano dimostrato l'assenza di rischio o di una organizzazione anche elementare in capo ai lavoratori. Fatte tali premesse, deve subito osservarsi che, come esattamente sottolineato dal ricorrente, pur avendo ricordato, benché sinteticamente, l'insegnamento di questa Corte circa i criteri di qualificazione di un rapporto come subordinato od autonomo, richiamando in proposito essenzialmente l'assenza di organizzazione imprenditoriale e l'assoggettamento a potere gerarchico del datore di lavoro, la sentenza impugnata giustifica in realtà la ritenuta sussistenza del rapporto di lavoro con il riscontro di una serie di elementi, quali l'osservanza di un orario di lavoro, la cadenza e la misura fissa della retribuzione, come pure l'assenza di rischio, che, nel costante orientamento di questa Corte, assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva (v. fra le molte, recentemente, la già cit. Cassazione, 1420/02). Quindi, l'aver orientato la propria indagine in base ai criteri meramente sussidiari di accertamento della concreta esistenza della subordinazione, costituisce un primo errore della sentenza impugnata, dal momento che essa non si dà carico di spiegare perché si sia reso necessario il ricorso ai suddetti criteri e sia stata invece tralasciata l'indagine centrale in materia, ossia quella diretta ad accertare l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con la conseguente limitazione della sua autonomia ed il suo inserimento nella organizzazione aziendale (Cassazione, 4682/02). Il che è tanto meno comprensibile in quanto non emergono dalla sentenza profili di specificità, né per ciò che attiene alla natura della prestazione né per quel che riguarda la struttura organizzativa del Coni, tali da rendere evidente la scarsa concludenza del ricorso al criterio fondamentale di distinzione delle due fattispecie. Inoltre, dovendo decidere delle posizioni di 17 collaboratori e di un arco di tempo che andava dal 1980 al 1994, il Tribunale avrebbe dovuto chiarire la ragione per la quale non aveva ritenuto di dover effettuare un'indagine sulle singole posizioni lavorative, non risultando dalla motivazione della sentenza alcun elemento che possa indiscutibilmente giustificare una assoluta uniformità di situazioni per un così lungo periodo di tempo. A parte questi rilievi di ordine generale, già idonei peraltro a rendere inadeguata la motivazione della sentenza, si deve osservare ulteriormente che in realtà dalle dichiarazioni testimoniali, riportate nel ricorso, non sembra adeguatamente giustificato neppure il positivo riscontro degli anzidetti indici secondari di subordinazione. Infatti le testimonianze T., B. e B., hanno riguardo testuale ed esclusivo ad istruzioni ricevute, pienamente compatibili, come noto, con una collaborazione autonoma, e non contengono invece riferimenti di alcun genere al potere gerarchico del Coni. Il Tribunale avrebbe quindi dovuto spiegare come questi riferimenti testimoniali fornissero argomento per sostenere la sottoposizione dei lavoratori a veri e propri ordini o quantomeno a direttive specifiche e puntuali provenienti dalla controparte, e, naturalmente, l'indagine avrebbe dovuto esser compiuta, ancora una volta. con riferimento specifico alle singole posizioni lavorative coinvolte. Quanto all'orario di lavoro, le testimonianze B. e R. fanno riferimento ad accordi con i responsabili del Coni e mai ad imposizioni unilaterali da parte di costoro, ed in tal senso è anche la deposizione M., benché essa venga indicata nella sentenza come idonea ad avvalorare la tesi della sussistenza dell'obbligo dei collaboratori di rispettare un determinato orario di lavoro. Quanto al tema, connesso, degli obblighi di presenza e di giustificazione delle assenze, la testimonianza B. depone testualmente in senso contrario, avendo la teste riferito che non potendo recarsi al lavoro a seguito di un incidente si era limitata ad avvertire il Coni, senza far parola di obblighi di documentazione dell'impedimento. Nello stesso senso, d'altra parte, appare la deposizione M., dalla quale risulta che i collaboratori Walter e Massimiliano P. non avevano obbligo di orario, convenivano i compensi per le loro prestazioni con il presidente del comitato provinciale, si recavano presso la segreteria Coni in un giorno di volta in volta convenuto, anche in questo caso avvertendo di eventuali impedimenti a rispettare l'impegno preso. Non diversamente, sempre in base alla medesima testimonianza, avveniva per la collaboratrice T. che "in linea di massima" veniva a lavorare tutte le mattine e che, sempre "in linea di massima" riceveva istruzioni dal M.. Ancora, quanto al collaboratore Veneri risulta dalla medesima testimonianza che egli collaborava "in linea di massima" la mattina, e gestiva autonomamente l'orario di lavoro, il che fra l'altro appare coerente con la circostanza, dedotta dal ricorrente, e sulla quale la sentenza nulla dice, che il Veneri nello stesso periodo lavorava quale insegnante di educazione fisica presso un'altra pubblica amministrazione. Infine, come già emerge da quel che s'è detto, il Tribunale non si è dato carico di spiegare la totale assenza di occasioni di esercizio di potere disciplinare nei confronti di un numero cospicuo di persone e per un arco di tempo assai ampio. Ora è vero che per poter affermare che vi sia o no tale potere è necessario accertare in fatto quali conseguenze si siano verificate in presenza di fatti che ne giustifichino l'esercizio, mentre in assenza di tali fatti il riferimento ai profili disciplinari del rapporto perde di univocità, ma è anche vero che il numero dei collaboratori e la durata del rapporto avrebbero dovuto indurre il Tribunale ad indagare anche in questa direzione ed a motivare sui risultati di tale indagine. Infine, sempre per effetto di una, non adeguatamente motivata, considerazione globale ed unificante della situazione, la sentenza, come rilevato dal ricorrente, non chiarisce la posizione dei soggetti ascoltati in sede di ispezione Inps ma non ulteriormente escussi in giudizio quali testi, né degli altri che non avevano rilasciato dichiarazioni in sede ispettiva. Il motivo va quindi accolto. Conseguentemente la sentenza è cassata con rinvio della causa per un nuovo esame alla luce anzitutto dei criteri di distintivi fra collaborazione autonoma e lavoro subordinato, ricordati in precedenza. Il giudice di rinvio accerterà quindi con riguardo a ciascuno dei diciassette collaboratori l'effettivo assoggettamento al potere direttivo e disciplinare e il loro inserimento nell'organizzazione del Coni, ricorrendo solo in via eventuale, qualora tale indagine non dovesse fornire sicuri elementi di riscontro, anche agli ulteriori criteri sussidiari. Gli ulteriori motivi di ricorso restano pertanto assorbiti. P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso; assorbiti gli altri; cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Trento. LAVORO SUBORDINATO O AUTONOMO: PREVALE LA VOLONTA’ DELLE PARTI (Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n° 10689 del 29 ottobre 1997) Costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di rapporto di lavoro autonomo. In mancanza di accertamento di modalità incompatibili con l’espletamento in forma autonoma delle prestazioni di lavoro, può tenersi conto della dichiarazione della volontà delle parti per risolvere situazioni di ambiguità fattale. NOTA Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento in virtù del quale il criterio di riferimento per la determinazione della natura di un rapporto di lavoro è dato dalla volontà delle parti (vedi Cass. n° 2690 del 8.3.1995; Cass. n° 4948 del 1996). Tale criterio, considerato imprescindibile ai fini di una corretta interpretazione circa la natura del contratto, si rivela addirittura risolutivo laddove il rapporto di lavoro, come nel caso in specie, presenta, per dirla come la Suprema Corte, "un’ambiguità fattuale". Nella fattispecie in esame, infatti, era emerso dalle risultanze istruttorie che il ricorrente osservava un orario di lavoro coincidente a quello rispettato da alcuni colleghi dipendenti. La Corte, attraverso l’espressione "ambiguità fattuale" si riferisce, in questo caso, al fatto che il rispetto di un orario di lavoro non costituisce elemento idoneo per provare la natura subordinata di un rapporto, dal momento che l’osservanza di un orario di lavoro è compatibile anche con un rapporto di lavoro autonomo. Giova ricordare, in conclusione, che solo la prova, non raggiunta nel caso in specie, il cui onere incombe in capo al lavoratore, dell’esercizio del potere direttivo in ordine allo svolgimento intrinseco delle mansioni consente di qualificare come subordinato un rapporto di lavoro. (vedi Cass. n° 5912 del 2.7.1997: Cass. n° 8635 del 6.9.1997). Sentenza Corte di Cassazione n° 290 del 12 gennaio 2000 Corte di Cassazione - Sez. lav. - 21.4.99/12.1.00 n. 290 - Pres. De Tommaso - Rel. Figurelli - P.M. Nardi (Conf.) - Scanu (Avv. Corrias) - I.N.P.S. (Avv.ti Sarto - Lironcurti) - I.N.A.I.L. (Avv.ti Varone - Lai - Muccio). Lavoro Subordinato - Caratteri del Rapporto Individuale - Rapporto del Socio Nell'associazione in partecipazione - Contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa dell'associato e contratto di lavoro subordinato con partecipazione agli utili - Distinzione - Criteri - Fattispecie. Associazione in Partecipazione - In Genere (Nozione, Caratteri, Distinzioni) Contratto di associazione con apporto di prestazioni lavorative dell'associato e contratto di lavoro subordinato con partecipazione agli utili - Distinzione - Criteri - Fattispecie. In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, la riconducibilità del rapporto all'uno o all'altro degli schemi predetti esige un'indagine del giudice del merito (il cui accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità) volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante in relazione al potere dell'associato di controllo sulla gestione economica dell'impresa, e l'esistenza per quest'ultimo di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell'associante d'impartire direttive ed istruzioni al cointeressato, oltre alla salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato. (Nella specie l'attrice era addetta ad una elementare e ripetitiva operazione produttiva; il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., ha qualificato come di lavoro subordinato il rapporto in questione, caratterizzato dai corrispondenti poteri organizzativi e gerarchici del datore di lavoro, dall'assenza di un suo obbligo di rendiconto, e da una determinazione della retribuzione collegata non già agli utili, e neanche al fatturato, dell'impresa, ma semplicemente alla quantità di lavoro eseguito in relazione a determinate percentuali di prezzo). FATTO. - Con atto depositato in data 15 Febbraio 1994 la signora Antonina Scanu proponeva appello avverso la sentenza non definitiva n. 632 del Pretore di Oristano in data 9 novembre - 2 dicembre 1993, con la quale era stata rigettata l'opposizione della predetta avverso i decreti ingiuntivi INPS n. 228/88 e 229/88 ed avverso l'ordinanza ingiunzione I.N.A.I.L. n. 159/89, ed era stato dichiarato che il rapporto di lavoro intercorso tra la medesima e la signora Rossella Matta aveva avuto natura di lavoro subordinato, con rimessione della causa in istruttoria per la determinazione del "quantum" dovuto a quest'ultima. Nel primo grado del giudizio erano state, invero, proposte, separatamente, tre distinte cause contro la Scanu, l'INPS e l'INAIL. I decreti ingiuntivi erano stati emessi a seguito di ispezioni da parte dell'Istituto, avendo gli incaricati di questo accertato che tra la Scanu ed il personale impiegato nella sua azienda era intercorso un rapporto di lavoro subordinato e che la datrice di lavoro non aveva ottemperato agli obblighi contributivi e previdenziali. Anche l'ordinanza-ingiunzione INAIL era stata emessa sulla base di accertamenti ispettivi. La signora Matta, poi, aveva proposto autonomo ricorso finalizzato a far dichiarare la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la Scanu ed ad ottenere le differenze retributive dovute a tale titolo. Il Pretore, ravvisando nelle tre distinte controversie, ragioni di connessione, ne aveva disposto la riunione, di tal che esse, dopo una separata fase istruttoria iniziale, erano proseguite congiuntamente fino alla sentenza, oggetto dell'appello della Scanu. L'appellante chiedeva la riforma della sentenza appellata, in considerazione dell'erroneità della qualificazione giuridica del rapporto. L'INAIL contestava "in toto" le osservazioni della appellante - esclusa quella relativa alla tempestività dell'opposizione -, ed, in particolare il fatto che l'attività dell'azienda non rientrasse tra quelle per le quali era prevista l'assicurazione obbligatoria. L'INPS chiedeva la conferma della sentenza appellata, stante l'esatta qualificazione del rapporto di lavoro da parte del Pretore. La signora Matta confermava la posizione assunta nel ricorso introduttivo, chiedendo la conferma della sentenza appellata. Con sentenza n. 379/96 il Tribunale di Oristano rigettava l'appello e dichiarava le spese processuali interamente compensate tra le parti. Osservava il Tribunale che il contratto ex art. 2549 c.c. è un contratto a forma libera, ma che, in assenza di un supporto cartaceo, s'imponeva un onere probatorio più gravoso per la sedicente associante, e che un contratto scritto all'inizio dell'attività lavorativa non esisteva, essendo questo stato redatto nel 1986, in epoca successiva agli accertamenti degli enti pubblici; che, nonostante la fondatezza di talune doglianze della Scanu, l'analisi delle deposizioni testimoniali dei testi escussi in istruttoria conduceva alle medesime conclusioni del Pretore. Ai fini della qualificazione del rapporto ex art. 2549 il Tribunale riteneva elemento imprescindibile il tipo di retribuzione pattuita, oltre che, in assenza di forma scritta, l'individuazione delle volontà delle parti. Il Tribunale osservava poi che l'unico apporto delle lavoratrici all'azienda avrebbe dovuto essere l'attività lavorativa, ed esse dovevano infilare gli "anellini nelle spalline dei reggiseni", senza alcuna ingerenza nella gestione dell'azienda, affidata alla sola associante; che il sistema retributivo pattuito aveva, quale unico presupposto, un rapporto tra la quantità di lavoro eseguito ed il prezzo pattuito per ciascun pezzo, e nessun effettivo riferimento al fatturato ed agli utili, in relazione ai quali non vi era alcuna effettiva verifica da parte delle lavoratrici per constatare la percentuale di loro pertinenza; che anche la descrizione del sistema retributivo, fornita dal coniuge della Scanu in sede di interrogatorio libero, appariva carente ed in contrasto, con le affermazioni dei testi; che, al momento dell'assunzione, ogni lavoratrice era al corrente del fatto che la sua retribuzione sarebbe stata variabile in base al numero dei pezzi lavorati sulla base delle percentuali pattuite e che la volontà delle lavoratrici non era certo finalizzata a costituire un rapporto di associazione in partecipazione, ma solo un rapporto di lavoro subordinato, retribuito in maniera difforme alle regole, e tale circostanza risultava confermata dall'analisi degli altri elementi rilevanti, ma non determinanti (orario di lavoro, assenza dal lavoro, lavoro straordinario, retribuzione legata al fatturato, gestione dell'azienda). Non poteva, poi, secondo il Tribunale, attribuirsi valore negoziale ai contratti di associazione in atti, e l'opposizione all'ordinanza ingiunzione INAIL andava rigettata, risultando dai verbali ispettivi in atti, presenti nell'azienda macchinari ed attrezzature, per i quali è imposta la tutela assicurativa obbligatoria, indipendentemente dall'uso concreto che ne faccia ogni singola dipendente. Avverso detta sentenza, con atto notificato il 18 febbraio 1997, la signora Antonina Scanu ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. Resiste con controricorso l'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro. L'INPS ha depositato solo procura speciale. L'intimata signora Rossella Matta non si è costituita in giudizio. DIRITTO. - Con il primo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 ss. e 2549 ss c.c., nonchè vizi di motivazione, la ricorrente deduce inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta irrilevanza delle due dichiarazioni con valore negoziale firmate dalle "associate" nel 1986 e nel 1989; che le affermazioni del Tribunale si risolvevano in mere petizioni di principio indimostrate ed immotivate, ed in contrasto con le risultanze testimoniali comprovanti che le associate erano state rese edotte fin dal principio del tipo di rapporto instaurato, da esse accettato in piena consapevolezza e senza alcuna costrizione; che nella specie risultava insussistente una concreta limitazione dell'autonomia negoziale del lavoratore; che vi era pure contraddittorietà della motivazione del Tribunale in relazione all'analisi del tipo di retribuzione pattuita, della partecipazione delle lavoratrici al rischio d'impresa, e del controllo esercitato dalle associate sui guadagni realizzati; che vi erano vizi di motivazione in ordine alla sussistenza o meno della subordinazione. Con il secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del T.U. n. 1124 del 1965, nonché vizi di motivazione, la ricorrente deduce che nel verbale di accertamento INAIL non si fa cenno alla presenza in laboratorio di macchinari di qualsiasi genere, né tanto meno all'uso di macchinari da parte delle associate ed in particolare non si fa cenno a macchinari il cui utilizzo rende obbligatoria la copertura assicurativa; che le deposizioni testimoniali erano nel senso indicato dalla ricorrente e l'attività svolta dalle associate non rientrava tra quelle protette dal d.p.r. n. 1165 del 1924. Il ricorso, articolato in due motivi, non è fondato. Riguardo al primo mezzo va osservato che, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema (v. "ex plurimis" Cass. 6 novembre 1998 n. 11222), in tema di distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, la riconducibilità del rapporto all'uno od all'altro degli schemi predetti esige un'indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo importa l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio d'impresa, non imputabile dall'associante e non limitato alla perdita della retribuzione, con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell'associante d'impartire direttive ed istruzioni al cointeressato. Non è necessario peraltro, nella specie, determinare l'esatta natura del rapporto associativo, e neppure se esso sia vero o simulato, potendo coesistere nello stesso soggetto la duplice qualità di associato e quella di lavoratore subordinato. Occorre, invece, accertare se il corrispettivo dell'attività lavorativa escluda o meno un apprezzabile rischio se colui che la esplica sia assoggettato al potere disciplinare e gerarchico della persona o dell'organo che assume le scelte di fondo nell'organizzazione delle persone e dei beni, e, ancora, se il prestatore abbia un potere di controllo sulla gestione economica dell'impresa, in particolare in relazione ad un obbligo di rendiconto periodico da parte degli organi amministrativi. Trattasi di un accertamento di fatto, esclusivamente devoluto al giudice del merito, non sindacabile in questa sede se risulti - come nella specie - sufficientemente e correttamente motivato, sulla base di una valutazione logica ed esauriente delle risultanze istruttorie. Il Tribunale è pervenuto al convincimento che nella specie si trattava di un rapporto di lavoro subordinato, considerando in particolar modo il sistema retributivo, il limitato controllo che le lavoratrici potevano effettuare, l'osservanza di un orario di lavoro, la subordinazione alle direttive dell'attuale ricorrente, cui interamente facevano capo la gestione dell'azienda, nonchè l'organizzazione del lavoro ed i rapporti con i committenti; la mancata assunzione del rischio d'impresa da parte delle lavoratrici; l'individuazione della volontà delle parti e l'esclusione di qualsiasi ingerenza delle lavoranti nella gestione dell'azienda, affidata alla sola ricorrente, sulla quale non gravava alcun obbligo di rendiconto nei confronti delle dipendenti. Tutto ciò comprovava la qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato, in assenza peraltro di qualcosa di definito che deponesse per l'associazione in partecipazione. Anche il secondo motivo è privo di pregio, in quanto anch'esso ha per oggetto un apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede, e tenuto conto che, ai sensi dell'art. 1 del T.U. nr. 1124 del 1965, l'obbligo assicurativo sussiste anche a favore delle persone comunque occupate in uffici, laboratori od ambienti organizzati per lavori, opere o servizi che comportano l'impiego di macchine, apparecchi od impianti elettrici; e nel caso specifico dai verbali ispettivi - come accertato dal Tribunale - era risultata la presenza nell'azienda di quei macchinari ed attrezzature per i quali si impone la tutela assicurativa obbligatoria. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza nei confronti dell'INPS e dell'INAIL, con la liquidazione come da dispositivo. Non deve provvedersi in ordine alle spese nei confronti dell'intimata non costituita. (Omissis) o . Lavoro, Sentenza 20 ago. 1997, n. 7785 Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 25 gennaio 1993 n. 811 Carattere distintivo essenziale del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione, intesa come vincolo personale di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; la sussistenza di tale elemento deve essere quando, in base alla volontà delle parti, la prestazione lavorativa possa essere non effettuata secondo l'apprezzamento del soggetto che deve renderla, senza alcuna conseguenza diversa dalla mancata corresponsione del compenso previsto per la singola prestazione (nella specie, la decisione dei giudici di merito, confermata dalla Suprema Corte, ha escluso la natura subordinata del rapporto di lavoro di addetti al trasporto urbano di plichi per conto terzi, i quali erano liberi di non accettare l'incarico di recapito trasmesso via radio dalla sede aziendale). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 7 febbraio 1994 n. 1219 Ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di rapporto di lavoro autonomo e l'elemento essenziale del primo tipo di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo di lavoro che inserisca alle intrinseche modalità di svolgimento, e non soltanto al risultato, della prestazione lavorativa. Non è pertanto censurabile in sede di legittimità, ove correttamente motivata, la decisione del giudice del merito che, in applicazione del citato principio, abbia ritenuto la riconducibilità di determinate prestazioni ad un rapporto di lavoro subordinato invece che ad un rapporto di lavoro autonomo. (Nella specie l'impugnata sentenza - confermata dalla S.C. - aveva ritenuto riconducibile nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato lo svolgimento, da parte del dirigente di una società, dell'incarico di direttore dei lavori e di ingegnere capo attinente alla realizzazione di opere pubbliche, in regime di concessione, da parte della società stessa). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 4 agosto 1995 n. 8565 Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato ovvero come autonomo occorre far riferimento oltrechè al momento attuativo del rapporto anche all'atteggiarsi della volontà delle parti nel momento costitutivo dello stesso, sicchè ove esse abbiano dichiarato di voler escludere la subordinazione è possibile pervenire ad una diversa qualificazione del rapporto solo se si dimostra che tale subordinazione si è di fatto realizzata in fase di esecuzione, con l'assoggettamento del lavoratore al potere del datore di lavoro di disporre della prestazione e controllarne intrinsecamente lo svolgimento, restando altrimenti esclusa l'utilizzabilità, ai fini dell'affermazione della natura subordinata dell'attività, di elementi compatibili con l'uno o con l'altro tipo di rapporto, quali la continuità della prestazione, la retribuzione fissa, l'orario predeterminato, le direttive ed i controlli sull'esecuzione, l'inesistenza di un'organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore (fattispecie relativa ad attività di pulizia nei locali di un'impresa). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 23 aprile 1998 n. 4207 Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è corretto il ricorso al criterio ermeneutico dell'accertamento della comune intenzione delle parti evincibile dalle espressioni letterali usate nei contratti, quando in concreto manchino elementi obiettivi non equivoci circa le caratteristiche del rapporto. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in relazione a prestazioni di consulenza tecnico-sportiva rese ad una società calcistica professionistica, si era attenuta alla qualificazione, in un primo momento di lavoro autonomo e poi di lavoro subordinato, contenuta nelle intese tra le parti, poiché alcuni elementi - quali il potere della società di impartire ordini e direttive, lo svolgimento dell'attività presso la sede sociale, ecc. - erano equivoci, ed elementi tipici del lavoro subordinato - quali le ferie, i riposi periodici, l'applicabilità di contratti collettivi, ecc. - non erano stati dedotti dalle parti). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 5 dicembre 1998 n. 12357 Con riguardo alle prestazioni di contenuto intellettuale, che per la loro stessa natura non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale, né postulano un'assunzione di rischio a carico del lavoratore, l'accertamento della natura (autonoma o subordinata) del rapporto va desunta esclusivamente dalla posizione tecnicogerarchica in cui si trovi o meno il lavoratore medesimo, in correlazione ad un potere direttivo del datore di lavoro, che inserisca all'intrinseco svolgimento di quelle prestazioni, restando irrilevante, ove difetti detto requisito, l'eventuale sussistenza di connotati normalmente propri del lavoro subordinato, quali la collaborazione, l'osservanza di un determinato orario, la continuità dell'attività e la forma della retribuzione. Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 30 ottobre 1997, n. 10704 Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, la rilevanza della qualificazione data dalle parti al rapporto è quella di una presunzione semplice di adeguamento delle parti alla volontà contrattuale, che può essere vinta, in presenza di un contratto qualificato come di lavoro autonomo, anche da opposte presunzioni tratte da elementi indicanti l'assoggettamento del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, caratteristico della subordinazione. Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 4 agosto 1995 n. 8565 Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato ovvero come autonomo occorre far riferimento oltrechè al momento attuativo del rapporto anche all'atteggiarsi della volontà delle parti nel momento costitutivo dello stesso, sicchè ove esse abbiano dichiarato di voler escludere la subordinazione è possibile pervenire ad una diversa qualificazione del rapporto solo se si dimostra che tale subordinazione si è di fatto realizzata in fase di esecuzione, con l'assoggettamento del lavoratore al potere del datore di lavoro di disporre della prestazione e controllarne intrinsecamente lo svolgimento, restando altrimenti esclusa l'utilizzabilità, ai fini dell'affermazione della natura subordinata dell'attività, di elementi compatibili con l'uno o con l'altro tipo di rapporto, quali la continuità della prestazione, la retribuzione fissa, l'orario predeterminato, le direttive ed i controlli sull'esecuzione, l'inesistenza di un'organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore. (Fattispecie relativa ad attività di pulizia nei locali di un'impresa). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 22 agosto 1997, n. 7885 Spetta al giudice del merito accertare il comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto di lavoro, al fine della conseguente qualificazione giuridica dello stesso come lavoro autonomo ovvero lavoro subordinato, senza che a ciò sia di impedimento la formale qualificazione delle parti in sede di conclusione del contratto individuale sia nel caso in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di subordinazione, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nell'ipotesi in cui tale volontà sia autentica, ma durante lo svolgimento del rapporto stesso le parti stesse con comportamenti concludenti abbiano manifestato l'intenzione di mutare la natura del rapporto ponendo in essere un rapporto di lavoro subordinato. Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 10 febbraio 1992, n. 1502 L'attività d'insegnamento - come ogni altra attività umana economicamente rilevante - può essere svolta sia in regime di autonomia che di subordinazione, della quale è elemento rivelatore decisivo la circostanza che le prestazioni del docente siano soggette, nel loro concreto svolgimento, a poteri datoriali di direzione e di controllo momento per momento, pur compatibilmente con le peculiari caratteristiche della detta attività intellettuale, e che la violazione degli obblighi del docente esponga il medesimo a responsabilità disciplinari, avendo invece carattere meramente sussidiario altri elementi (come l'inserimento del docente in un'organizzazione imprenditoriale, la mancanza di rischio economico, la continuità del rapporto, il vincolo di orario e la predeterminazione di un programma) e salva comunque, nei casi dubbi, la rilevanza della qualificazione assegnata al rapporto dalle stesse parti. (Nella specie, l'impugnata sentenza - cassata dalla S.C. - aveva ritenuto la sussistenza del lavoro subordinato, sul rilievo che gli insegnanti prestavano un'attività inserita nell'impresa del Centro Studi Meccanografici, che organizzava i corsi ed assumeva ogni rischio, con corrispettivo commisurato alla durata dell'attività e con indicazione di materie, programmi ed orari da parte dello stesso Centro, trascurando, fra l'altro, la qualificazione di lavoro autonomo operante dalle parti). Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 23 novembre 1998, n. 11885 Ogni attività umana economicamente rilevante può essere espletata nelle forme del rapporto di lavoro subordinato ovvero di quello autonomo, in relazione alla scelta liberamente compiuta dalle parti circa lo schema maggiormente idoneo a soddisfare i loro rispettivi interessi, sicchè ai fini della qualificazione è necessario procedere all'individuazione della comune intenzione delle parti onde accertare se esse hanno voluto l'inserimento del prestatore di lavoro nell'organizzazione del datore di lavoro con conseguente assoggettamento del primo al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del secondo. Tale situazione, infatti, rappresenta l'elemento caratteristico del rapporto di lavoro subordinato. Peraltro, la valutazione degli elementi di fatto idonei nel caso concreto a ricondurre il rapporto nell'ambito dell'uno o dell'altro dei due predetti schemi contrattuali è riservata al giudice di merito, rimanendo censurabile in sede di legittimità solo la violazione dei generali ed estratti criteri distintivi. (Nella specie la sentenza impugnata, confermata dalla S.C. aveva affermato che l'assunzione, per un determinato spettacolo televisivo, operata dalla RAI nei confronti della ricorrente aveva dato luogo ad un rapporto di lavoro subordinato a termine essendo stata la stessa adibita a mansioni prive di creatività da svolgere secondo le istruzioni dei funzionari RAI e con assoggettamento al relativo potere organizzativo, direttivo e disciplinare come poteva desumersi da una serie di obblighi molto specifici posti a carico della lavoratrice in materia di orario di lavoro e di comunicazione e documentazione delle assenze per malattia). Cassazione Sezione Lavoro Sentenza n. 6752 del 26.07.1996 Perché sia configurabile un rapporto di collaborazione ai sensi dell'articolo 409 n. 3 codice di procedura civile, con conseguente devoluzione della controversia alla competenza per materia del Pretore quale giudice del lavoro, è richiesto che la prestazione non abbia carattere occasionale ma perduri nel tempo (cosiddetta continuità); che essa sia funzionalmente connessa con le finalità perseguite dalla controparte, con conseguente ingerenza di quest'ultima nelle attività del prestatore (cosiddetta coordinazione); che il lavoro personale del preposto prevalga sull'opera svolta da collaboratori e sull'utilizzazione di una struttura di tipo materiale (cosiddetta personalità). Pertanto il lavoro di redazione della contabilità aziendale e di predisposizione dei bilanci effettuato dal dipendente di una società "capo gruppo", in favore di altra società collegata, qualora sia stato svolto per un lungo periodo di tempo e con assoggettamento alle direttive e all'ingerenza della società stessa, configura un rapporto di collaborazione con quest'ultima, rientrante nella competenza del Pretore - giudice del lavoro - non avendo rilievo in contrario la mancata predeterminazione di un compenso, il quale potrà eventualmente essere stabilito dal giudice a norma dell'articolo 2225 codice civile. Cassazione Sezione lavoro Sentenza n. 7785 del 20.08.1997 Per ritenere l'esistenza dei cosiddetti rapporti di collaborazione contemplati dall'articolo 409 n. 3 codice di procedura civile, devono sussistere i seguenti tre requisiti: la continuità, che ricorre quando la prestazione non sia occasionale ma perduri nel tempo e che importa un impegno costante del prestatore a favore del committente; la coordinazione, intesa come connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell'organizzazione aziendale o, più in generale, nelle finalità perseguite dal committente e caratterizzata dall'ingerenza di quest'ultimo nell'attività del prestatore; la personalità, che si ha in caso di prevalenza del lavoro personale del preposto sull'opera svolta dai collaboratori e sull'utilizzazione di una struttura di natura materiale. Lavoro subordinato Cassazione: distinzione tra lavoro autonomo e subordinato Con sentenza n. 4797 del 9 marzo 2004, la Cassazione ha affermato che ai fini della distinzione del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, pur non potendosi prescindere dalla volontà dei contraenti, tenendo presente il “nomen iuris” dalle stesse adottato, elemento fondamentale è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare, estrinsecantesi in ordini specifici oltre che in una vigilanza ed un controllo assiduo delle prestazioni lavorative, da valutarsi con riferimento alla peculiarità dell’incarico conferito al lavoratore e alle modalità della sua attuazione. Distinzione tra lavoro subordinato ed associativo La Cassazione, con sentenza n. 19475 del 19 dicembre 2003, ha affermato che in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione legata agli utili dell'impresa, l'elemento differenziale tra le 2 fattispecie risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione lavorativa. dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa, dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdite (nella specie, relativa a opposizione a sanzioni amministrative per evasioni contributive, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, alla luce di ulteriori elementi caratterizzanti il contratto di associazione, quali il controllo della gestione dell'impresa da parte dell'associato ed periodi rendiconto dell'associante e della circostanza che gli associati, già dipendenti con rapporto di lavoro subordinato, avevano continuato a svolgere la loro attività lavorativa, con le modalità precedenti, aveva escluso la sussistenza dell'associazione in partecipazione. Subordinazione nel rapporto scolastico La Cassazione, con sentenza n. 5508 del 18 marzo 2004, ha affermato che nel rapporto tra lavoratore scolastico e scuola il rapporto di lavoro subordinato si configura sulla base dei seguenti elementi: a) orario di insegnamento ed attività ausiliarie stabilite dalla scuola; b) retribuzione fissata in misura indipendente dal numero degli alunni; c) utilizzazione di strumenti didattici conferiti dall’Istituto; d) assenza di rischio; e) partecipazione ai consigli di classe ed agli scrutini; f) esistenza di un potere disciplinare. Elementi della subordinazione Con sentenza n. 17549 del 19 novembre 2003, la Cassazione ha affermato che la caratteristica principale del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione intesa come vincolo di soggezione al potere direttivo del datore di lavoro, che deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative, sia pure diversamente atteggiata rispetto alle loro peculiarità. Contratto di lavoro subordinato nelle congregazioni religiose: requisito dell'onerosità Con sentenza n. 16774 del 7 novembre 2003, la Cassazione ha affermato che ai fini della subordinazione, occorre che la prestazione venga retribuita: ciò non si configura nel caso di una religiosa che insegna e fa opere di assistenza all’interno di una congregazione religiosa, in conformità con le finalità della stessa. Lavoro subordinato, convivenze familiari e religiose Con sentenza n. 17096 del 2 dicembre 2002, la Cassazione ha affermato che l’attività didattica svolta dal religioso non alle dipendenze di terzi ma nell’ambito della propria congregazione e quale componente di essa, non costituisce prestazione lavorativa ai sensi dell’art. 2094 c.c., soggetta, come tale, alla disciplina sulla prestazione di lavoro subordinato, bensì opera di evangelizzazione, in adempimento dei fini della congregazione stessa e regolata esclusivamente dal diritto canonico ex artt. 1 e 2 della legge n. 810/1929 e 7 della Costituzione. Contratto di lavoro subordinato e conflitto d’interessi Con sentenza n. 16708 del 26 novembre 2002, la Cassazione ha affermato che il conflitto d’interessi, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante su domanda del rappresentato, ricorre allorquando il primo sia portatore di interessi incompatibili con quelli del secondo. Pubblico impiego: mutamento di mansioni nei servizi di trasporto pubblico Con sentenza n. 12119 del 9 agosto 2002, la Cassazione ha affermato che in considerazione delle esigenze attinenti il servizio pubblico di trasporto, il rapporto di lavoro dei dipendenti delle aziende autoferrotranviarie è regolato da una disciplina speciale, sicchè, in tema di inquadramento dei dipendenti, non trova applicazione l’art. 2103 c.c. ma il R.D. n. 148/1931, All. A art. 3, che attribuisce al datore di lavoro un amplissimo "ius variandi", con facoltà di trasferire l’agente da un servizio ad un altro non soltanto nell’ambito della stessa qualifica o di altra equivalente ma anche quando ciò determini un cambiamento "in peius". Socio amministratore di società e lavoro subordinato Con sentenza n. 7465 del 21 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che la qualifica di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci. Lavoro subordinato: nozione Con sentenza n. 7310 del 20 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che un rapporto di lavoro subordinato può essere sostituito da uno di lavoro autonomo a seguito di uno specifico negozio novativo, ma a tal fine è necessario che all’univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico (ed il “nomen iuris”) del rapporto si accompagni un effettivo mutamento dello svolgimento delle prestazioni lavorative come conseguenza del venir meno del vincolo di assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro, sebbene rimanga identico il contenuto della prestazione stessa. La valutazione (positiva o negativa) del giudice di merito – la cui reale prosecuzione come rapporto di lavoro subordinato anche dopo la sua convenzionale qualificazione come rapporto di lavoro autonomo deve essere dimostrata dal lavoratore stesso – è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata. Lavoro subordinato: criteri distintivi Con sentenza n. 4682 del 2 aprile 2002, la Cassazione torna a parlare degli elementi distintivi del rapporto di lavoro subordinato osservando che il cardine di tutto è rappresentato dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore, peraltro configurabile con intensità ed aspetti diversi in relazione alla maggiore o minore elevatezza delle mansioni e alla natura delle stesse. Gli altri elementi quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva. Lavoro subordinato e sicurezza sul lavoro Con sentenza n. 7726 del 27 febbraio 2002, la quarta Sezione Penale della Cassazione ha affermato che in materia di sicurezza sul lavoro si può parlare di lavoratore subordinato anche in quelle ipotesi in cui il lavoro non sia eseguito con continuità quotidiana ma avvenga nelle esecuzioni di ordini impartiti dal datore di lavoro, senza alcuna autonomia discrezionale. Nozione di lavoro subordinato Con sentenza n. 2842 del 26 febbraio 2002, la Cassazione si è nuovamente occupata dei criteri di distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporti di lavoro autonomo affermando che, ai fini della distinzione, assume valore determinante l'accertamento dell'obbligo contrattuale di porre a disposizione del datore le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dall'imprenditore e in funzione dei programmi cui è destinata la produzione, per il perseguimento dei fini propri del datore di lavoro. Natura del rapporto per l’amministratore di società " Con sentenza n. 2861 del 26 febbraio 2002, la Cassazione ha affermato che in tema di società cooperativa a responsabilità limitata, il rapporto che lega l’amministratore, cui è affidata la gestione sociale, alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né come rapporto di lavoro subordinato, né come rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, orientandosi le prestazioni piuttosto nell’area delle prestazioni professionali autonome. E’, pertanto, legittima la previsione statutaria della gratuità. Lavoro subordinato: nozione e criteri distintivi Con sentenza n. 14664 del 21 novembre 2001, la Cassazione è tornata sui criteri identificativi della subordinazione affermando che il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di specifici ordini, oltrechè dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni. L'esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione. Distinzione tra lavoro autonomo e subordinato: "nomen iuris" Con sentenza n. 6570 del 19 maggio 2000, la Cassazione ha ricordato che ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato occorre andare oltre il "nomen iuris" e riferirsi al concreto atteggiarsi del rapporto fin dal momento della sua instaurazione. Gli elementi che determinano la sussistenza della subordinazione sono l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, il suo assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare. Vi sono poi altri elementi sussidiari da valutare globalmente come la retribuzione predeterminata da pagare a scadenze fisse e l'assenza di una sia pur minima struttura imprenditoriale in capo al lavoratore. Contratto Formazione e Lavoro Contratto di formazione e lavoro stipulato durante un rapporto a tempo indeterminato Con sentenza n. 16969 dell’11 novembre 2003, la Cassazione ha affermato che il contratto di formazione e lavoro stipulato nel corso di un rapporto a tempo indeterminato (e pertanto con lo stesso datore di lavoro di questo preesistente rapporto) è affetto da nullità per illiceità della causa, atteso che in tale ipotesi si determina la trasformazione di un rapporto stabile in un rapporto di per sé precario, con l’apposizione di un termine in un’ipotesi non prevista dalla legge. Contratto di formazione e lavoro: forma scritta Con sentenza n. 3120 del 3 marzo 2003, la Cassazione ha affermato che la forma scritta nel contratto di formazione e lavoro non è surrogabile da dichiarazioni unilaterali delle parti, come la comunicazione di assunzione al servizio per l’impiego o la qualificazione del rapporto sul libretto di lavoro. Da ciò ne consegue che il rapporto deve intendersi costituito a tempo indeterminato. Contratto di formazione e lavoro: criteri per la formazione Con sentenza n. 1006 del 23 gennaio 2003, la Cassazione ha affermato che lo svolgimento dell’attività formativa deve essere adeguata ed effettivamente idonea ad attuare una sorta di ingresso guidato del giovane nel mondo del lavoro. Contratto di formazione e lavoro: nullità e poteri di diffida dell’ispettore del lavoro Con sentenza n. 29 del 7 gennaio 2003, la Cassazione ha affermato che nel nostro ordinamento esistono due diversi meccanismi sanzionatori (art. 3, comma 9, legge n. 863/1984 e art. 8, comma 8, legge n. 407/1990) per i casi in cui il contratto di formazione e lavoro sia posto in essere fuori dalle ipotesi previste ovvero non possa raggiungere i risoltati per i quali è stato introdotto nel nostro ordinamento. L’ipotesi della conversione è attivabile soltanto dal lavoratore con un’azione giudiziaria di natura "civilistica". La revoca dei benefici contributivi fin dalla costituzione del rapporto con diffida dell’ispettore del lavoro è un potere che per legge è riconosciuto soltanto a lui e non all’ispettore dell’INPS e si pone sul piano "amministrativo". La diffida, dunque, non ha alcun nesso necessario con la conversione, nel senso che non occorrono la stessa e la successiva inottemperanza del datore di lavoro per poter operare la conversione ai soli fini civilistici. INPS: recupero dei contributi per CFL nulli Con sentenza n. 23 del 7 gennaio 2003 la Corte di Cassazione ha affermato che in caso di Contratti di formazione lavoro nulli (in quanto il lavoratore era già stato formato per quella qualifica), non è necessaria la preventiva diffida dell'ispettore del lavoro prevista dall'art. 8, comma 8, della legge 407/90, in quanto si tratta di contratto "ab origine" nullo per i quali è ininfluente il discorso formativo. Contratto di formazione e lavoro: stipula nel corso di un rapporto a termine Con sentenza n. 8250 del 6 giugno 2002, la Cassazione ha affermato che anche durante lo svolgimento di un rapporto di lavoro a tempo determinato può ritenersi validamente concluso un contratto di formazione e lavoro, ove le finalità formative traggano origine dal comune interesse delle parti ad un mutamento delle mansioni contrattuali o di quelle precedentemente svolte e, quindi, alla prosecuzione del rapporto di lavoro con mansioni diverse, in quanto in tali situazioni il contratto di formazione e lavoro può assolvere pienamente alla sua ragione causale, quale mezzo idoneo a promuovere l’acquisizione di nuove professionalità (nell’interesse del lavoratore), oltre che l’esatto adempimento delle diverse mansioni (nell’interesse del datore di lavoro). Contratti di formazione e lavoro: trasformazione "ab origine" del rapporto Con sentenza n. 5363 del 13 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che il rilevante inadempimento degli obblighi formativi non sanabile in tempo utile, comporta la trasformazione dall’inizio di un contratto di formazione e lavoro in uno a tempo indeterminato senza vincoli formativi. Ciò discende dal fatto che la formazione, per esplicito riferimento normativo, costituisce una vera e propria obbligazione del datore di lavoro. Nel caso di specie la Corte aveva esaminato un ricorso di un giovane che, assunto con contratto di formazione e lavoro da un istituto di credito siciliano, aveva visto il proprio rapporto trasformato dopo i due anni di durata e chiedeva il riconoscimento "ab initio" del contratto di lavoro subordinato, con i conseguenti vantaggi economici. L’addestramento teorico era iniziato dopo circa diciotto mesi, mentre per quel che riguardava l’addestramento pratico il giovane non aveva ricevuto alcun insegnamento particolare né era stato affiancato a lavoratori già qualificati ed aveva ricevuto soltanto le normali istruzioni che la banca impartisce a tutti i neo assunti (a prescindere dal tipo di contratto stipulato). L’orientamento seguito dalla Suprema Corte con questa sentenza è difforme da uno precedente riportato nella decisione n. 1907/2001, con la quale si affermò che qualunque fosse stata la formazione impartita (quindi anche se minore o difforme rispetto al progetto iniziale approvato) ciò che era importante e decisivo era l’inserimento definitivo del lavoratore nell’organizzazione aziendale. Vale la pena di ricordare come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 190 del 1997, avesse affermato che la funzione principale del contratto di formazione e lavoro è quella di agevolare i giovani a superare il “gap” tra la scuola ed il mondo del lavoro. Simulazione nei contratti di formazione e lavoro Con sentenza n. 8562 del 1° marzo 2001, la seconda Sezione penale della Cassazione ha stabilito che commette il delitto di truffa aggravata nei confronti dello Stato e dell'INPS chi, dopo aver denunciato l'instaurazione di contratti di formazione e lavoro, di fatto ponga in essere con i propri dipendenti normali rapporti di lavoro subordinato, versando i contributi in misura inferiore al dovuto. Obblighi formativi nel contratto di formazione e lavoro Con sentenza n. 1907 del 9 febbraio 2001, la Cassazione ha affermato che il discostamento (anche non lieve) dagli obblighi previsti dal programma di formazione non comporta la conversione del contratto ai sensi dell'art. 3 della legge n. 863/1984, qualora si accerti in concreto il raggiungimento della sua prevalente finalità, che è quella di consentire al giovane un ingresso "guidato" nel mondo del lavoro, con il superamento del "gap" determinato dalle precedenti esperienze esclusivamente scolari. Apprendistato Apprendista adolescente: orario di lavoro Con sentenza n. 9516 del 3 marzo 2003, la terza Sezione Penale della Cassazione, ha affermato che nel caso di apprendista adolescente (età compresa tra i 15 ed i 18 anni) l’orario di lavoro non può superare i limiti di orario previsti dall’art. 18, comma 2, della legge n. 977/1967, più rigorosi di quelli ipotizzati, in via generale, dall’art. 10 della legge n. 35/1955, e che l’orario di istruzione non può aggiungersi a quello di lavoro, senza comportare il superamento dei particolari limiti prescritti “ratione aetatis”, che invece devono ritenersi riferiti al tempo complessivamente impiegato, sia per l’esecuzione delle prestazioni lavorative vere e proprie, sia per l’apprendimento teorico del lavoro. Contratto a termine Contratto a tempo determinato e nullità del termine Con sentenza n. 995 del 22 gennaio 2004, la Corte di Cassazione ha affermato che dalla dichiarazione di nullità del termine apposto al rapporto di lavoro non discende automaticamente il diritto del lavoratore ad essere retribuito: è necessario, infatti, che lo stesso offra la propria prestazione, mettendo in “mora accipiendi” il datore di lavoro. Lavoratori interinali: quando scatta la trasformazione Con la sentenza n. 3020 del 27 febbraio 2003 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla correlazione esistente tra il contratto di fornitura ed il contratto che lega l'Agenzia interinale ed il dipendente temporaneo. La Suprema Corte ha osservato che nel caso in cui le date di utilizzazione del lavoratore fissate nei due contratti non corrispondano ed il lavoratore continui a prestare la propria opera presso l'impresa utilizzatrice dopo la data fissata nel contratto stipulato con l'agenzia interinale, il rapporto di lavoro è trasformato a tempo indeterminato presso il datore di lavoro che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione. Prescrizione dei crediti di lavoro derivanti da distinti contratti a termine Con sentenza n. 575 del 16 gennaio 2003, la Cassazione ha affermato che nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi di cui agli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1, c.c. inizia a decorrere per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento, dovendo - ai fini della decorrenza della prescrizione - i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo intercorrenti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la "tassatività" delle elencazione delle cause sospensive di cui agli artt. 2941 e 2942 c.c. e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest’ultime norme espressamente previste. Contratto a termine: forma scritta Con sentenza n. 17674 dell’11 dicembre 2002, la Cassazione ha affermato che per la valida costituzione del contratto di lavoro a termine , pur essendo ammissibile che la dichiarazione di volontà e l’apposizione del termine siano contenuti in documenti separati, sussiste la necessità che la lettera di assunzione del datore di lavoro contenga anche la sottoscrizione del lavoratore apposta in un momento anteriore o, almeno, contemporaneo all’inizio del rapporto. Contratto a termine illegittimo e tutela reintegratoria Con sentenza n. 14381 dell’8 ottobre 2002, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che, nell’ipotesi di scadenza di un contratto illegittimamente stipulato e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non è applicabile la norma dell’art. 18 della legge n. 300/1970, sebbene la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia diritto al lavoratore di riprendere il suo posto. Contratto a termine per i dirigenti Con sentenza n. 13326 del 12 settembre 2002, la Cassazione ha riconosciuto la validità del termine di durata del rapporto di lavoro nella misura massima prevista per i dirigenti di azienda (5 anni per effetto dell’art. 10, comma 4, D.L.vo n. 368/2001) ed al di fuori dei casi consentiti per i lavoratori in possesso di qualifica inferiore, pur se la qualifica di dirigente sia stata convenuta derogando il contratto collettivo e indipendentemente dalle mansioni effettivamente svolte ex art. 2103 c.c. . Contratto a termine: non applicabilità al settore agricolo ed adeguamento retributivo Con sentenza n. 12409 del 22 agosto 2002, la Cassazione ha ribadito che la disciplina specifica prevista per i contratti a termine non trova applicazione al settore agricolo. Per quel che concerne una eventuale rivendicazione di retribuzione legata all’art. 36 della Costituzione, la Suprema Corte ha chiarito che il giudice di merito può utilizzare criteri equitativi facendo riferimento alla natura dell’attività svolta dall’impresa, alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, alle condizioni personali e familiari del lavoratore . Maternità e contratto a tempo determinato Con sentenza n. 9864 del 6 luglio 2002, la Cassazione ha affermato che non si rinviene alcuna norma che imponga alla lavoratrice gestante di notiziare, al momento della stipula del contratto, il datore di lavoro del proprio stato. Né un siffatto obbligo può ricavarsi, pur quando la lavoratrice viene assunta con contratto a tempo determinato, dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. o da altro generale principio del nostro ordinamento, considerato che l’accoglimento di una diversa opinione condurrebbe a ravvisare nello stato di gravidanza e puerperio di cui agli articoli 16 e 17 del D. L.vo n. 151/2001 un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe, così, per legittimare operazioni ermeneutiche destinate a minare in maniera rilevante la tutela apprestata a favore delle lavoratrici madri. Contratto a termine: qualificazione Con sentenza n. 7468 del 21 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che anche dopo la riforma ex D. L.vo n. 368/2001 il contratto a termine mantiene una collocazione speciale rispetto alla tipologia tradizionale dell’obbligazione di lavoro. Nell’ipotesi di assunzione per un giorno, rientrante nella previsione convenzionale riguardante speciali servizi di durata temporalmente limitata, non è necessario fornire la prova dell’imprevedibilità, straordinarietà od eccezionalità del servizio, quanto, invece, dell’effettiva utilizzazione del lavoratore per il relativo disbrigo. Contratto a termine e forma scritta Con sentenza n. 15801 del 14 dicembre 2001, la Cassazione ha ribadito che l'indicazione del termine iniziale della prestazione deve esser precedente o contestuale all'inizio della prestazione lavorativa e non può esser sostituito da singoli atti relativi alla procedura di avviamento o da un contratto stipulato successivamente all'inizio della stessa. Lavoratori stranieri e contratto a termine Con sentenza n. 9407 dell’11 luglio 2001, la Cassazione ha sostenuto che la normativa sui contratti a termine non può trovare ostacolo nel fatto che sulla conclusione del rapporto possa incidere un provvedimento dell’autorità amministrativa (es. Questura) con il quale sia stata, a priori, fissata la scadenza del permesso di soggiorno. La Suprema Corte ha argomentato tale indirizzo sostenendo che il principio di parità di trattamento e di diritti con i cittadini italiani non può essere precarizzato. Il requisito del termine con atto scritto non può, quindi, essere surrogato dall’atto dell’autorità amministrativa: da ciò ne consegue che non è legittima la tesi secondo cui alla scadenza del permesso il rapporto si conclude automaticamente per impossibilità sopravvenuta della prestazione. E’ pur vero che è vietata l’occupazione del lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno e della autorizzazione al lavoro in corso di validità, ma da ciò la Corte non fa discendere automaticamente la risoluzione del rapporto, in quanto l’atto amministrativo può essere rinnovato. La Cassazione fa, poi, una distinzione giuridica affermando che la cessazione della validità del permesso non comporta la risoluzione del rapporto ma soltanto una sospensione da ogni effetto giuridico ed economico e può costituire giustificato motivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966. Part-time Lavoro a tempo parziale: modificazione dell’orario a seguito di accordo collettivo Con sentenza n. 3898 del 17 marzo 2003, la Cassazione ha affermato che è scusa dal potere gestionale del datore di lavoro una modifica unilaterale (non concordata con il dipendente) dei tempi della prestazione, sebbene autorizzata dalla contrattazione aziendale. Disabili: Contratto a tempo parziale Con sentenza n. 14823 del 22 novembre 2001, la Cassazione ha enunciato il principio secondo il quale il contratto a tempo parziale è compatibile con il sistema del collocamento obbligatorio, purchè lo stesso sia riferibile alla libera volontà del lavoratore, restando irrilevanti le esigenze produttive dell’impresa. Criteri di assunzione Bando di concorso e criteri di assunzione Con sentenza n. 570 del 19 gennaio 2002, la Cassazione ha ribadito che è affetta da nullità assoluta la clausola di un bando di concorso di un Ente pubblico il quale subordini l’assunzione dei vincitori alla inesistenza di vincoli di parentela con propri dipendenti. La motivazione addotta è che tale "status" è estraneo alla professionalità dei lavoratori. Tipologie varie Trattamento illecito dei dati personali Con sentenza n. 30134 del 9 luglio 2004, la terza Sezione Penale della Cassazione ha affermato che il trattamento illecito dei dati personali, attuato in violazione della normativa prevista in materia di privacy, non costituisce reato se da ciò non è derivato un concreto e significativo danno all'interesse dei soggetti passivi. Patto di prova ed assunzione obbligatoria Con sentenza n. 1458 del 27 gennaio 2004, la Cassazione ha affermato che nell'ipotesi di patto di prova legittimamente stipulato, il recesso dell'imprenditore durante il periodo di prova è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale, anche per quanto riguarda l'onere dell'adozione della forma scritta e non richiede pertanto una formale comunicazione delle ragioni del recesso. La fornitura di personale - raccordo tra la legge 1369/60 ed il d.l.vo 276/03 Con sentenza n. 2583 del 26 gennaio 2004, la terza Sezione Penale della Cassazione ha affrontato, per la prima volta, il rapporto tra il D. L.vo n. 276/2003 e le leggi precedenti che avevano vietato e, poi, parzialmente ammesso, a determinate condizioni, la fornitura di personale. Partendo da una condanna di un imprenditore ex art. 1 della legge n. 1369/1960 confermata in appello, la Suprema Corte ha effettuato una disamina della normativa, caratterizzatasi con il progressivo superamento del monopolio pubblico del collocamento, già affermato dalla legge n. 264/1949 e confermato dalla legge n. 1369/1960, avvenuto con la legge n. 196/1997 (che legittimava le imprese fornitrici di lavoro interinale autorizzate dal Ministero del Lavoro) e con l’art. 10 del D. L.vo n. 469/1997 che ha consentito, anche in questo caso previa autorizzazione ministeriale, l’esercizio della mediazione tra domanda ed offerta di lavoro. In tale quadro, ricorda la Cassazione come la legge n. 1369/1960 trovasse applicazione in caso di mediazione non autorizzata (Cass. Terza Sezione Penale, n. 1055 del 14 gennaio 2003). Passando, poi, ad esaminare le novità introdotte con il D. L.vo n. 276/2003 la Suprema Corte si è soffermata sia sull’albo ministeriale istituito in cinque sezioni, che sul contratto di somministrazione distinto da quello dell’appalto, che sull’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 18 che, infine, sulla somministrazione fraudolenta (art. 28) finalizzata ad eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. Alla luce delle considerazioni espresse circa le novità introdotte la Cassazione si è chiesta se, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p., i fatti puniti dalle orme abrogate non costituiscano più reato ai sensi delle norme sopravvenute, ovvero se, ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p., i fatti puniti dalle norme abrogate sono ancora punibili a norma della legge sopravvenuta. La Corte ha ricordato di essersi già pronunciata, in passato, circa la permanenza della legge n, 264/1949 e della legge n. 1369/1960, pur dopo l’emanazione sia della legge n. 196/1997 che del D. L.vo n. 469/1997. Ma il problema si pone, oggi, in modo diverso atteso che il D. L.vo n. 276/2003 ha espressamente abrogato le norme sanzionatorie previste dalle prime due leggi sopra citate e le ha sostituite con nuove norme incriminatrici. Prima di entrare nel merito del problema la Cassazione ha ricordato i principi in materia di continuità normativa affermati dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 25887 del 16 giugno 2003) per i quali ricorre la c.d. “abrogatio sine abolitione” se i fatti costituenti reato secondo la legge anteriore sono punibili secondo la legge posteriore, mentre se alcuni fatti puniti dalla legge anteriore restano fuori dal perimetro normativo della nuova fattispecie penale ricorre una abrogazione con effetto parzialmente abolitivo. Alla luce di tali premesse, la Suprema Corte ha osservato che, considerate le fattispecie tipiche, quella di illecita mediazione nella fornitura di manodopera punita dall’art. 27 della legge n. 264/1949 è solo parzialmente abrogata dalla fattispecie di esercizio abusivo della intermediazione di cui all’art. 18, comma primo, secondo e terzo periodo, del D. L.vo n. 276/2003. Da ciò ne discende che i fatti di intermediazione commessi da soggetti privati non formalmente autorizzati, che erano già puniti sulla base della legge precedente, restano punibili anche con la nuova legge, con la conseguente applicazione della normativa più favorevole ex art. 2, comma 3, c.p.. Da ciò discende, altresì, che altri fatti divenuti, nel frattempo, legittimi, restano fuori dalla norma incriminatrice e non possono essere puniti neppure se commessi sotto il vigore della norma abrogata. Proseguendo nella sua disamina, la Corte ha osservato che risulta più complesso il rapporto tra la fattispecie penale già contemplata dagli articoli 1 e 2 della legge n. 1369/1960 e quella introdotta dall’art. 18 comma 1, primo periodo e comma 2, primo periodo, del D. L.vo n. 276/2003, in quanto appare di più incerta applicazione il criterio della coincidenza strutturale tra le due fattispecie. I primi due commi dell’art. 1 della legge n. 1369/1960 avevano una formulazione estremamente ampia e la fattispecie abrogata puniva sia il committente che l’appaltatore nelle ipotesi in cui c’era una qualsiasi prestazione lavorativa con impiego di manodopera assunta dall’appaltatore ma di fatto alle dipendenze del committente. La nuova fattispecie, invece, punisce (sempre, come prima, con un’ammenda proporzionale al numero dei lavoratori ed alle giornate lavorative) sia chi esercita attività non autorizzate, che l’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di lavoro fornita da soggetti non abilitati o comunque al di fuori dei casi previsti dalla legge. Se si tiene presente la chiara opzione non formalistica del Legislatore per cui i contratti valgono per il loro contenuto effettivo e non per il “nomen iuris” e se si considera la distinzione tra somministrazione di lavoro ed appalto di servizi effettuata all’art. 29, secondo la quale sussiste l’appalto soltanto nel caso in cui l’organizzazione dei mezzi produttivi, la direzione dei lavoratori ed il rischio d’impresa ricadono sull’appaltatore, se ne deve concludere, ha affermato la Cassazione, che ogni volta che un imprenditore utilizzi prestazioni di lavoro fornite da altri, assumendosi però l’organizzazione dei mezzi, la direzione dei lavoratori e il rischio d’impresa si concretizza una somministrazione di manodopera che resta vietata e penalmente sanzionata se priva dei requisiti soggettivi ed oggettivi prescritti dal D. L.vo n. 276/2003. Da ciò ne consegue, da un punto di vista interpretativo che ciò che per l’art. 1, comma 3, della legge n. 1369/1960 era considerato appalto di mere prestazioni di lavoro, perché l’appaltatore impiegava capitali, macchine e attrezzature fornite dal committente, è ora qualificato come somministrazione di lavoro ed è ugualmente punito se esercitato da soggetti non abilitati o fuori dalle ipotesi previste dalla nuova legge. In questo senso, secondo i parametri precisati dalle Sezioni Unite, anche in questa ipotesi si verifica una abrogazione parziale della fattispecie penale precedente, in quanto solo alcuni fatti puniti dalla legge abrogata non costituiscono più reato (le somministrazioni di lavoro da parte di agenzie private abilitate e nei casi consentiti), mentre altri fatti continuano ad essere puniti (le somministrazioni di lavoro da parte di soggetti non abilitati o fuori dai casi consentiti, che la legge abrogata puniva come appalti di mere prestazioni di lavoro). Presunzione, non assoluta, di gratuità nelle prestazioni tra coniugi Con sentenza n. 18284 del 28 novembre 2003, la Cassazione ha affermato che per la prova di un rapporto di lavoro tra persone legate da un vincolo di parentela, affinità o coniugio, anche non conviventi, sussiste una presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative. Tale presunzione non è, però, assoluta o così rigorosa, come nel caso di rapporto di lavoro tra coniugi, da escludere in modo assoluto la prova contraria. Lavoro interinale: nozione e struttura Con sentenza n. 3020 del 27 febbraio 2003, la Cassazione è intervenuta sul rapporto di lavoro interinale affermando che lo stesso si realizza attraverso due distinti contratti, quello di fornitura di lavoro temporaneo e quello di prestazione di tale lavoro. Esso è caratterizzato da una scissione fra gestione normativa e gestione tecnico produttiva del lavoratore; in tale ambito il contratto di prestazione di lavoro temporaneo costituisce per il lavoratore la fonte esclusiva della disciplina normativa del suo rapporto di lavoro (c.d. contratto base) ed al suo contenuto va fatto riferimento per accertare l'assoggettamento della impresa utilizzatrice alla sanzione prevista dal comma 3 dell'art.10 l. 196/97, con la conseguenza che in caso di contrasto fra il termine finale contenuto nel contratto di prestazione di lavoro e quello contenuto nel contratto di fornitura, ai fini predetti, ha rilievo unicamente il termine contenuto nel primo contratto; il contenuto di detto contratto è rilevante anche nei confronti dell'impresa utilizzatrice perché ad essa si estende per effetto di una fattispecie caratterizzata da due autonomi negozi ontologicamente fra loro collegati che danno luogo ad un rapporto indivisibile trilaterale; sul lavoratore, attesa la sua posizione nel contratto di fornitura, non incombe alcun obbligo di conoscenza del contenuto dello stesso. Rapporto di lavoro parasubordinato: caratteristiche Con sentenza n. 16582 del 25 novembre 2002, la Cassazione ha affermato che fra i rapporti parasubordinati le cui controversie sono attribuite ex art. 409 cpc alla competenza del Giudice del Lavoro sono inclusi, purchè si concretino in una prestazione di opera coordinata e continuativa – tutti quei rapporti aventi ad oggetto prestazioni di "facere" riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo. Dipendenti del Senato: autodichia e giurisdizione Con sentenza n. 16267 del 19 novembre 2002 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che le controversie inerenti il rapporto di lavoro del personale dipendente dal Senato della Repubblica esulano dalla competenza sia del giudice ordinario che di quello amministrativo in quanto spettano, uin via esclusiva, al Senato ed ai suoi organi. Contratto collettivo: efficacia del recesso unilaterale Con sentenza n. 14827 del 18 ottobre 2002, la Cassazione ha sostenuto che, in seguito alla soppressione dell’ordinamento corporativo e della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione, il contratto collettivo spiega la propria operatività nell’area dell’autonomia privata, per cui la regolamentazione ad esso applicabile è quella dettata per i contratti in generale, e non quella dei contratti collettivi; ne consegue che deve ammettersi la possibilità che accordi collettivi vengano stipulati a tempo indeterminato, ma in questo caso va ammessa anche la facoltà di recesso unilaterale, in quanto essa è rispondente all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio anche in relazione ai contratti collettivi di diritto comune. Contrattazione collettiva: formazione degli usi aziendali Con sentenza n. 7200 del 17 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che per la formazione dei c.d. "usi aziendali" occorre un ripetuto comportamento del datore di lavoro che si inserisce direttamente ed automaticamente nel contratto individuale (comunque, in senso migliorativo, rispetto al CCNL) . Lavoro a domicilio: nozione Con sentenza n. 7328 del 22 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che con il lavoro a domicilio si realizza una forma di decentramento produttivo caratterizzato dal fatto che l’oggetto della prestazione non viene in rilievo come risultato, ma come energie lavorative utilizzate in funzione complementare e sostitutiva del lavoro eseguito all’interno dell’azienda. Il vincolo della subordinazione è qualificato non tanto dall’elemento della collaborazione, intesa come svolgimento di attività per il conseguimento dei fini dell’impresa, quanto da quello tipico dell’inserimento dell’attività lavorativa nel ciclo produttivo dell’azienda, di cui il lavoratore a domicilio diventa elemento ancorchè esterno. Socio amministratore di società e lavoro subordinato Con sentenza n. 7465 del 21 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai due medesimi soci. Lavoro a domicilio: nozione Con sentenza n. 5840 del 22 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che con il lavoro a domicilio si realizza una forma di decentramento produttivo: l’oggetto della prestazione viene in rilievo non come risultato, ma come energie lavorative utilizzate in maniera complementare e sostitutiva rispetto all’attività eseguita all’interno dell’azienda. Il vincolo della subordinazione richiamato dalla legge n. 877/1973 è quello tipico dell’inserimento dell’attività lavorativa nel ciclo produttivo dell’azienda, di cui il lavoratore a domicilio diventa elemento ancorchè esterno. Collaborazioni coordinate e continuative: presupposti Con sentenza n. 5698 del 19 aprile 2002, la Cassazione ha fissato gli elementi che debbono ricorrere perché si possa invocare l’art. 409, n. 3, cpc per la devoluzione della controversia al tribunale, inteso quale giudice del lavoro. Essi sono: a) continuità, che ricorre quando la prestazione non sia occasionale ma perduri nel tempo ed importi un impegno costante del prestatore a favore del committente; b) coordinazione, intesa come connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale; c) personalità, che si ha in caso di prevalenza del lavoro personale del preposto sull’opera svolta dai collaboratori e sull’utilizzazione di una struttura di natura materiale. Non è necessario che la prestazione consti di un’attività diversa da quella abitualmente esercitata dal prestatore, né che tale prestazione sia resa con totale esclusione di mezzi organizzati o personale subordinato, essendo peraltro irrilevante che il suddetto prestatore agisca in regime di autonomia o di subordinazione. Soci di cooperative e di altre società: assoggettabilità all’assicurazione INAIL Con sentenza n. 5382 del 15 aprile 2002, la Cassazione ha stabilito l’assoggettabilità all’obbligo assicurativo contro gli infortuni sul lavoro sia dei soci delle cooperative, che dei soci di ogni altro tipo di società quando prestano attività lavorativa per lo scopo della società , in tutte quelle ipotesi in cui gli stessi svolgono attività lavorativa di tipo manuale, in modo permanente o avventizio, o attività non manuale (cioè intellettuale) di sovraintendenza al lavoro altrui. Contratto di associazione in partecipazione: elemento essenziale riferimento agli utili d’impresa Con sentenza n. 1420 del 4 febbraio 2002, la Cassazione ha affermato che nel contratto di associazione in partecipazione il quale mira, nel quadro di un rapporto sinallagmatico con elementi di aleatorietà, al perseguimento di finalità in parte analoghe a quelle dei contratti societari, è elemento costitutivo essenziale, come si evince chiaramente dall’art. 2549 c.c., la pattuizione a favore dell’associato di una prestazione correlata agli utili d’impresa e non ai ricavi, i quali ultimi rappresentano in se stessi un dato non significativo circa il risultato economico effettivo dell’attività dell’impresa. Natura del rapporto dei medici convenzionati Con sentenza n. 14026 del 12 novembre 2001, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che la disciplina delle visite mediche di controllo "ex lege" n. 638/1983 prevede prestazioni d'opera professionale nell'ambito di una attività autonoma continuativa svolta in regime convenzionale e, quindi, estranea, data l'assenza di subordinazione, alla fattispecie del pubblico impiego. Da ciò ne consegue che le relative controversie sono devolute alla cognizione del giudice ordinario. Patto di prova Lavoratori disabili: patto di prova Con sentenza n. 3920 del 18 marzo 2002, la Cassazione ha affermato che il sistema legislativo di protezione dei disabili, pur consentendo il controllo giudiziario sul corretto esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro, non richiede che l’indicazione dei motivi del licenziamento sia contestuale alla manifestazione della volontà di recesso dal rapporto durante il periodo di prova, sicchè l’assenza di un motivo contestuale all’atto della risoluzione non può, di per sé, incidere sulla validità e l’efficacia del medesimo. Lavoratore disabile: patto di prova Con sentenza n. 15943 del 17 dicembre 2001, la Cassazione ha stabilito che il recesso del datore di lavoro durante il periodo di prova è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale, non richiedendo una formale comunicazione delle ragioni del recesso. Il lavoratore può, tuttavia, contestare l'illegittimità dell'atto, sostenendo in giudizio che l'esito negativo è stato determinato o influenzato dall'obbligo di assunzione previsto dalla legge. Vale la pena di ricordare che le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 1766 del 27 marzo 1979, ritenendo ammissibile il patto di prova, hanno precisato che l'oggetto dello stesso deve essere limitato alla capacità residua dell'invalido, senza alcun riferimento al rendimento medio del lavoratore valido. Patto di prova: contenuto Con sentenza n. 15307 del 4 dicembre 2001, la Cassazione ha affermato che il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve risultare non solo da atto scritto, ma anche contenere la specifica indicazione delle mansioni da espletare, in relazioni alle quali il datore di lavoro dovrà esprimere la propria valutazione sull’esito della prova; a tal fine, mentre non può ritenersi sufficiente la mera indicazione del reparto aziendale ove si svolgerà la prova del lavoratore, il riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva può integrare la necessaria specificazione delle mansioni, ove le classificazioni contengano una nozione dettagliata del profilo professionale, idonea a specificare l’effettiva struttura delle mansioni e non si limitino ad un’indicazione positiva o negativa della preparazione professionale necessaria allo svolgimento delle mansioni medesime. Lavoratore disabile o protetto (orfano, coniuge superstite, profugo): patto di prova Con sentenza n. 13525 del 30 ottobre 2001, la Cassazione, nel confermare la legittimità del patto di prove in tutti quei casi nei quali l’assunzione avviene per effetto della normativa sul collocamento obbligatorio dei disabili, ha affermato due principi: a) il giudice di merito può verificare la validità o meno del recesso del datore di lavoro, impedendo che quest’ultimo basi l’esito negativo della prova, attraverso un riscontro con il rendimento dei c.d. lavoratori "sani"; b) il patto di prova è apponibile anche ai rapporti dei lavoratori che, seppur non invalidi, sono ugualmente protetti dalla legge (profughi, orfani, coniugi superstiti) ed anche rispetto ad essi si applica il "controllo giudiziale" correlato ad una eventuale elusione dell’obbligo di legge. Periodo di prova: mancato superamento Con sentenza n. 9948 del 21 luglio 2001, la Cassazione ha ritenuto che nel potere discrezionale del datore di lavoro in ordine alla valutazione del comportamento del lavoratore, rientri non soltanto l'accertamento sulla capacità professionale, ma anche quello relativo alla correttezza complessiva ed al modo con il quale si manifesta la sua personalità (nel caso di specie la Corte ha ritenuto pienamente legittimo il recesso dell'imprenditore il quale aveva valutato negativamente la circostanza che il lavoratore, nella domanda di assunzione, avesse "negato" la sussistenza di precedenti penali a suo carico). Malattia Malattia del disabile e periodo di comporto Con sentenza n. 7730 del 23 aprile 2004 la Cassazione ha affermato che nell'ipotesi di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente, le assenze per malattia collegate con lo stato di invalidità non possono essere incluse nel periodo di comporto ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro se l'invalido sia adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche. Visite fiscali di controllo Con sentenza n. 4247 del 2 marzo 2004 la cassazione ha affermato che l’obbligo di presenza domiciliare nelle ore destinate alla visita ispettiva di controllo può essere superato dal lavoratore che affermi la contemporanea effettuazione di una visita medica, esclusivamente sulla base di un impedimento molto serio che sia tale da rendere gli accertamenti sanitari non compatibili con il rispetto delle fasce orarie di reperibilità. Malattia: periodo di comporto e richiesta di ferie Con sentenza n. 3028 del 27 febbraio 2003, la Cassazione ha affermato che, in linea generale, gli interessi particolari dei singoli prestatori di lavoro possono essere presi in considerazione dal datore di lavoro, al fine di determinare il periodo di fruizione delle ferie, solo se gli sono portati a conoscenza; più in particolare: la fruizione delle ferie durante la malattia si pone potenzialmente in contrasto con il principio di (possibile) incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia, di modo che solo ove sussista una richiesta del lavoratore, che intenda privilegiare l'interesse a prevenire l'esaurimento del periodo di comporto, può ipotizzarsi la sua collocazione in ferie in costanza di denunciata malattia. Malattia: visita di controllo ed oneri a carico del lavoratore Con sentenza n. 15766 del 9 novembre 2002, la Cassazione ha affermato che, sulla base della Sentenza della Corte Costituzionale n. 78/1988, il dovere di cooperazione imposto al lavoratore risponda sia all’esigenza di garantire funzionalità ad un apparato diretto ad assicurare interventi di natura previdenziale a tutti i lavoratori in stato di bisogno, sia al principio generale di correttezza e buona fede. Pertanto, su lavoratore grava un obbligo di diligenza proporzionato alla situazione tutelata, che gli impone un ragionevole onere di reperibilità e richiede, in caso di indifferibilità dell’allontanamento dal domicilio, che egli ne dia tempestiva comunicazione all’organo di controllo. Malattia: criteri per la determinazione del periodo di comporto Con sentenza n. 13396 del 13 settembre 2002, la Cassazione ha affermato che, in applicazione dei principi di logica, la base annua cui va rapportato il periodo di comporto (nel caso di specie, pari a 180 giorni), si identifica nell’anno solare, cioè nell’intervallo di 365 giorni decorrente dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa, ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento. Licenziamento, periodo di comporto e matrimonio Con sentenza n. 5065 del 9 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato entro l’anno dalla celebrazione del matrimonio è attuato per causa di matrimonio vigendo la presunzione legale, che non può essere superata se non al verificarsi delle ipotesi tassativamente indicate dalla legge. Periodo di comporto: sospensione per fruizione delle ferie Con sentenza n. 15594 del 17 dicembre 2001, la Cassazione ha stabilito il principio secondo il quale un lavoratore assente per malattia può mutare il titolo dell’assenza richiedendo ferie già maturate. Ciò sospende il decorso del periodo di comporto anche se dopo tale richiesta il dipendente abbia fatto richiesta, in costanza di malattia, di un periodo di aspettativa non retribuita con decorrenza anteriore al godimento delle ferie stesse. Malattia grave: comunicazione prima della scadenza del periodo di comporto Con sentenza n. 14475 del 19 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che in caso di tubercolosi o altra malattia grave per la quale la legge o il contratto prevedono la conservazione del posto per periodo eccedenti il limite massimo di comporto, incombe sul lavoratore l'onere della comunicazione della natura della malattia al proprio datore di lavoro, prima che lo stesso eserciti la facoltà di recesso ex art. 2110 C.C. alla scadenza del comporto ordinario. Malattia: certificato e luogo di degenza Con sentenza n. 5023 del 4 aprile 2001, la Cassazione ha affermato in materia di assenza per malattia che incombe sul lavoratore, nel momento in cui invia il certificato all’INPS ed al proprio datore, l’obbligo di verificare che sia stato indicato (ed, in difetto, lo deve indicare lui stesso) il luogo del proprio domicilio durante la malattia e di rendersi reperibile alle visite di controllo disposte dall’INPS. Maturazione delle ferie durante la malattia Con sentenza n. 14020 del 12 novembre 2001, le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che la maturazione delle ferie non trova limiti ostativi nella sospensione del rapporto dovuta a malattia e che l’autonomia privata trova un limite insuperabile, per quel che riguarda la loro durata, nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli dell’assenza per malattia. Le Sezioni Unite hanno affrontato anche il problema relativo alla circostanza che dopo una lunga malattia il lavoratore richieda un periodo di ferie. Esso è stato risolto positivamente, nel senso dell’accoglibilità della richiesta, in base alla necessità che il diritto alle ferie, irrinunciabile, sia esercitato in condizioni di salute, o almeno in condizioni fisiche compatibili con la funzione di riposo e di ricreazione. Retribuzioni varie Assegni familiari per gli extracomunitari Con sentenza n. 16795 del 25 agosto 2004, la Cassazione, operando una distinzione tra residenza anagrafica ed effettiva presenza nel nostro Paese dei familiari del lavoratore extracomunitario, ha affermato che ai fini della decorrenza del sostegno economico correlato alla corresponsione dell'assegno per il nucleo familiare, non conta il perfezionamento amministrativo della congiunzione ma l'arrivo in Italia dei familiari (la questione trae origine dal fatto che l'INPS, in un caso risalente al 1997, aveva riconosciuto l'assegno soltanto dal giorno in cui i familiari erano stati iscritti anagraficamente tra la popolazione residente nel comune del capofamiglia). Prescrizione dei crediti Con sentenza n. 11644 del 22 giugno 2004, la Cassazione ha affermato che la prescrizione quinquennale in costanza del rapporto di lavoro del crediti del dipendente non decorre se lo stesso non si è instaurato regolarmente anche quando è applicabile la tutela dell’art. 18 della legge n. 300/1970 contro il licenziamento illegittimo. La Suprema Corte afferma tale principio in quanto il lavoratore si trova, comunque, in una situazione di particolare debolezza. Danno biologico ed esenzione IRPEF Con sentenza n. 11186 dell’11 giugno 2004, la sezione tributaria della Cassazione ha affermato che le somme erogate a titolo di risarcimento per danno biologico hanno natura risarcitoria e non sono soggette a tassazione IRPEF. Premio di rendimento: natura contributiva Con sentenza n. 7154 del 9 maggio 2003, la Cassazione ha affermato che la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, anche se di ammontare variabile, come elemento della retribuzione. Indennità di disoccupazione: presupposti Con sentenza n. 14956 del 23 ottobre 2002, la Cassazione ha affermato che ai fini del computo delle settantotto giornate di attività di lavoro per il riconoscimento dell’indennità ordinaria di disoccupazione, deve tenersi conto non solo delle giornate di effettivo lavoro, ma anche di quelle (non lavorate) per le quali sussista l’obbligo di contribuzione, come le giornate di ferie, ma anche quelle che, comunque maturate in relazione all’attività lavorativa prestata nell’anno di riferimento e dunque, in tal senso, "interne" al rapporto, non siano godute durante il periodo lavorativo, bensì siano "sostituite" da un’indennità ( es. ferie non godute) corrisposta alla cessazione del medesimo rapporto. Retribuzione per lavoro a cottimo Con sentenza n. 17407 del 6 dicembre 2002, la Cassazione ha affermato che per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato retribuiti col sistema del cottimo misto non è configurabile un diritto all’adeguamento di tale corrispettivo alle variazioni disposte per il lavoro straordinario, con riferimento alle prestazioni lavorative che si siano svolte nel normale orario di lavoro. Retribuzione e riduzione tariffaria: imponibile previdenziale Con sentenza n. 10716 del 22 luglio 2002, la Cassazione, intervenendo su alcune riduzioni tariffarie operate da una compagnia di assicurazione in virtù degli obblighi derivanti dalla contrattazione collettiva, ha osservato che le stesse hanno natura retributiva e sono, quindi, assoggettabili alla contribuzione previdenziale, dal momento che si traducono in un vantaggio economico dipendente dal rapporto di lavoro. Retribuzione: compensi aggiuntivi per festività lavorate Con sentenza n. 10309 del 16 luglio 2002, la Cassazione ha stabilito che qualora la festività ricorra di domenica, ai lavoratori retribuiti in misura fissa che in tale giorno riposino, spetta anche un’ulteriore retribuzione corrispondente all’aliquota giornaliera. Ciò trova giustificazione nel fatto che, ove le suddette festività non coincidessero con la domenica, il lavoratore fruirebbe di un giorno in più di riposo e la misura fissa della sua retribuzione lo priverebbe, in mancanza di siffatta previsione normativa, di un corrispondente compenso. Somme erogate da fondi aziendali: retribuzione imponibile Con sentenza n. 5202 dell’11 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che le somme erogate da fondi aziendali hanno natura retributiva e funzione previdenziale e vanno pertanto incluse nella retribuzione imponibile ai fini del versamento dei contributi obbligatori, dal momento che non rientrano in alcuna delle eccezioni previste dall’art. 12 della legge n. 153/1969. Retribuzione: minaccia indiretta finalizzata alla corresponsione di un salario inferiore al CCNL Con sentenza n. 5166 dell’11 febbraio 2002, la Cassazione Penale ha affermato che la sussistenza di un accordo individuale tra datore e dipendente finalizzato a corrispondere una retribuzione inferiore al CCNL non è di per sé sufficiente ad escludere il reato di estorsione: il giudice di merito deve accertare se la condotta dell’indagato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno attraverso un comportamento che, al di là dell’aspetto contrattuale, ponesse concretamente la vittima in uno stato di soggezione. Processo del lavoro: mancata contestazione dei conteggi Con sentenza n. 761 del 23 gennaio 2002, le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che nelle cause di lavoro la mancata contestazione dei conteggi da parte del datore di lavoro convenuto comporta l'integrale accoglimento della domanda solo per i fatti posti a base dei calcoli. Nozione di retribuzione e contrattazione Con sentenza n. 132 dell'8 gennaio 2002, la Cassazione ha sostenuto che la eventuale disparità di trattamento tra lavoratori della medesima posizione, una volta che sia stato rispettato il dettato del CCNL, non costituisce titoli per ottenere la differenza economica o il risarcimento del danno. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto legittimo l'accordo sindacale in vigore presso l'azienda che aveva escluso i lavoratori neo-assunti dal diritto di percepire il c.d. E.D.R "elemento distinto della retribuzione". Lavoro straordinario degli autotrasportatori Con sentenza n. 16098 del 20 dicembre 2001, la Cassazione ha affermato che in tema di accertamento del lavoro prestato da un autotrasportatore e, quindi, dello straordinario eventualmente svolto da tale dipendente i dischi cronotachigrafi, in originale od in copia fotostatica, ove da controparte ne sia disconosciuta la conformità ai fatti in essi registrati e rappresentati, non possono fornire da soli piena prova, stante la preclusione sancita dall'art. 2712 c.c., né dell’effettuazione del lavoro e dell’eventuale straordinario, né dell’effettiva entità degli stessi, occorrendo a tal fine che la presunzione semplice costituita dalla contestata registrazione o rappresentazione anzidetta sia supportata da ulteriori elementi, pur se anch’essi di carattere indiziario o presuntivo, offerti dall’interessato o acquisiti dal giudice del lavoro nell’esercizio dei propri poteri istruttori . Agenti e rappresentanti: retribuzione proporzionata Con sentenza n. 15661 del 12 dicembre 2001, la Cassazione ha affermato che il principio costituzionale relativo al diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, oltrechè sufficiente alle esigenze minime personali e familiari, è indubbiamente inapplicabile a quelle prestazioni che pur prevalentemente personali e coordinate, siano caratterizzate dalla imprenditorialità, sotto il profilo del ruolo svolto da fattori produttivi non riconducibili alla mera attività lavorativa del contraente, e della determinante influenza dei rischi tipici di impresa sul risultato economico rilevante ai fini del compenso. Indennità estero: natura retributiva Con sentenza n. 15656 del 12 dicembre 2001, la Cassazione ha affermato che la natura retributiva dell'indennità all'estero è tale non soltanto per la funzione compensativa derivante dal disagio e dalla maggiore gravosità. Giusta retribuzione: determinazione Con sentenza n. 14211 del 15 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che la determinazione della giusta retribuzione ex art. 36 della Costituzione, nei casi in cui le parti non aderiscono ai contratti collettivi di settore stipulati, non comporta l'automatica adesione alle tariffe minime previste dagli stessi. Infatti, secondo la Corte, si può procedere anche alla loro riduzione in ragione delle modeste dimensioni dell'impresa. Tale sentenza si pone in linea con il principio già affermato nella sentenza n. 12528 del 12 novembre 1998, secondo la quale in tema di adeguamento della retribuzione ex art. 36 Cost., la disciplina collettiva adottata come parametro non può trovare applicazione automatica soprattutto per quanto concerne speciali istituti retributivi riservati all'autonomia contrattuale (come i compensi aggiuntivi, integrativi dei minimi salariali o la 14^ mensilità). Indennità di mensa e retribuzione Con sentenza n. 14198 del 14 novembre 2001, la Cassazione ha stabilito che la mensa, come istituto contrattuale, rientra nella busta paga, anche per quel che concerne gli istituti correlati, soltanto allorché è accompagnato da una indennità sostitutiva e solo in misura corrispondente al valore dell’indennità. CIGS: risarcimento del danno e prescrizione Con sentenza n. 13926 del 9 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che il comportamento del datore di lavoro il quale non consenta ad un proprio dipendente di rientrare in servizio dopo un periodo di integrazione salariale, seguendo il criterio prefissato della rotazione, costituisce un illecito contrattuale. Da ciò ne consegue che il lavoratore ha diritto a chiedere il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. . Tale diritto è assoggettato alla prescrizione ordinaria (cinque anni), anche nella ipotesi in cui sia stato quantificato sulla base delle retribuzioni non percepite. Giornalisti : iscrizione all’albo Con sentenza n. 13778 del 7 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che la prestazione giornalistica di un soggetto privo dell’iscrizione all’albo è da considerare come resa da un soggetto privo del requisito e l’eventuale iscrizione dell’organismo professionale non può avere effetti retrodatati. Ovviamente, secondo un indirizzo gia espresso dalla Suprema Corte il 1° giugno 1998, il contratto di lavoro stipulato con un soggetto non iscritto all’albo è invalido ma non illecito nell’oggetto e nella causa e, pertanto, il lavoratore ha diritto, per il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione, al trattamento economico relativo all’attività espletata. Dimissioni per giusta causa e richiesta di risarcimento Con sentenza n. 13782 del 7 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che, pur in presenza di dimissioni per giusta causa (es. molestie sessuali, comportamenti illeciti, ingiuriosi od illegali del datore di lavoro), non spetta al lavoratore alcun risarcimento ulteriore rispetto all’indennità di preavviso che compete ex art. 2119 c.c. . La sentenza che si annota si sofferma sulla questione se per il susseguente stato di disoccupazione il lavoratore dimissionario abbia diritto ad un risarcimento del danno ex art. 1453 c.c. . La Suprema Corte esclude tale possibilità sostenendo che, pur se è vero che nei contratti a prestazioni corrispettive è ammissibile la richiesta di risarcimento del danno, è anche vero che il contratto di lavoro ha una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella prevista dall’art. 1453 c.c. . Il danno susseguente alla risoluzione del rapporto di lavoro per inadempimento del datore di lavoro è stato, infatti, determinato dal Legislatore con la corresponsione di una indennità pari al a quella di preavviso: ovviamente, resta salvo il diritto al risarcimento per tutti i danni eventualmente verificatisi ma diversi dalla risoluzione anticipata del rapporto. Da ciò ne consegue che le dimissioni per giusta causa non vanno considerate, ai fini dell’applicabilità dei danni verso il datore di lavoro, come un licenziamento illegittimo od ingiustificato. Lavoro straordinario: richiesta del compenso - onere probatorio Con sentenza n. 12695 del 17 ottobre 2001, la Cassazione ha ribadito che l’onere probatorio relativo al pagamento delle prestazioni lavorative effettuate oltre il normale orario di lavoro, è a carico del lavoratore. L’altra parte, infatti, non ha l’onere di dimostrare l’insussistenza di circostanze non dedotte dal ricorrente, né di fornire la prova contraria se l’attore viene meno all’onere probatorio. Reintegrazione: natura risarcitoria delle somme dovute ed eccezione di "aliunde perceptum" Con sentenza n. 12534 del 15 ottobre 2001, la Cassazione ha confermato che le somme dovute dal datore di lavoro a seguito di sentenza di reintegra hanno natura risarcitoria. Dopo aver affermato tale principio la Corte ha, altresì, sostenuto che l’eventuale eccezione avanzata dal datore di lavoro circa la percezione di altro reddito di lavoro da parte del lavoratore (perché, nel frattempo, ha trovato un’altra occupazione c.d. aliunde perceptum) presenta caratteristiche di mera difesa ed è proponibile anche in appello, in quanto non si configura come un allargamento della materia su cui si deve decidere. Ovviamente, spetta al datore di lavoro provare, con i mezzi che la legge gli mette a disposizione, che il lavoratore ha percepito un altro reddito. Lavoro parasubordinato: determinazione della retribuzione dovuta Con sentenza n. 11210 del 22 agosto 2001, la Cassazione ha ritenuto che nella determinazione del compenso per un’attività di lavoro parasubordinata, una volta accertata l’inesistenza del rapporto subordinato, il giudice possa liquidare il compenso facendo riferimento ai criteri individuati dall’art. 2225 c.c. . Ciò è possibile, tuttavia, al termine di un iter logico motivato attraverso il quale il giudice di merito abbia accertato l’impossibilità oggettiva di una determinazione certa dell’importo dovuto. Da qui la valutazione equitativa che trae spunto dalla norma sopra riportata secondo la quale il corrispettivo, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro necessario per ottenerlo. Danno biologico e morale: risarcimento dei danni non patrimoniali Con sentenza n. 8182 del 16 giugno 2001 la Cassazione ha stabilito che l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorso al lavoratore e limita l'azione risarcitoria di quest'ultimo al danno differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità penali ex. art. 10 DPR n. 1124/1965: in sostanza, l'assicurazione copre il danno patrimoniale legato alla riduzione della capacità lavorativa e non il danno alla salute o quello morale di cui all'art. 2059 C.C. che il lavoratore, in armonia con i principi ricavabili dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 356 e n. 485 del 1991, può rivendicare ove sussistano i presupposti di responsabilità del datore di lavoro. Contribuzioni Contributi prescritti e costituzione di rendita vitalizia Con sentenza n. 9305 del 15 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che la costituzione di una rendita vitalizia sostitutiva dei contributi non versati e prescritti presuppone sia l’accertamento dell’effettivo svolgimento del rapporto che l’inadempimento del datore. L’iniziativa della costituzione della rendita può partire sia dal datore di lavoro che dal lavoratore: tuttavia, quest’ultimo può provvedere autonomamente soltanto nel caso in cui dimostri di non aver potuto ottenere tale adempimento da parte del proprio datore. Sanatoria attraverso i contratti di riallineamento Con sentenza n. 10228 del 27 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che la previsione dell'accordo provinciale che preveda un programma di riallineamento graduale delle retribuzioni ai minimi previsti dai CCNL, introdotto dall'art. 5 della legge 608/96 ed i riflessi relativi agli sgravi contributivi, abbisogna di una valutazione che va effettuata alla fine del programma. Infatti le agevolazioni sono riconosciute a condizione dell'effettiva osservanza, nel tempo, del programma di riallineamento, nel senso che gli effetti della sanatoria possono essere riconosciuti soltanto alla conclusione. L'applicazione dell'accordo provinciale è dunque una condizione che costituisce elemento della fattispecie e come tale deve essere dedotto e provato dall'imprenditore che intenda avvalersi della procedura. Contribuzione per i lavoratori dello spettacolo Con sentenza n. 5157 del 12 marzo 2004, la Cassazione ha affermato che ai fini della determinazione della base contributiva per i lavoratori dello spettacolo assunti a termine, la disposizione prevista dall’art. 2, comma 5, del DPR n. 1420/1971, va interpretata nel senso che il dato di riferimento (divisore) è quello pertinente ai singoli giorni di prestazione lavorativa e non ai giorni compresi nel periodo di durata contrattuale, atteso che la norma fa sorgere l’obbligo del versamento dei contributi in relazione ad “ogni giornata di lavoro” (comma 1), fissa il calcolo delle aliquote contributive "sulla retribuzione giornaliera” (comma 3) ed esclude dal calcolo i giorni di riposo, nei quali il lavoratore non ha svolto alcuna attività lavorativa, salva la possibilità di stabilire con decreto ministeriale una “durata convenzionale” non superiore a sei giorni per ogni settimana (commi 5 e 6). Ambito territoriale per gli sgravi contributivi Con sentenza n. 18347 del 1° dicembre 2003, la Cassazione ha affermato che gli sgravi contributivi per le imprese operanti nel Mezzogiorno si applicano, anche per i periodi antecedenti il 1° gennaio 2000, soltanto per i lavoratori che, concretamente, svolgano la loro attività nel meridione e non per quelli che, pur essendo dipendenti dell'azienda operanti nei medesimi territori, svolgano effettivamente altrove la loro attività, restando irrilevante se lavorino in regime di trasferta. Omissioni contributive: reato istantaneo e continuazione Con sentenza n. 29275 dell’11 luglio 2003, la terza sezione penale della Cassazione ha affermato che l’art. 2 della legge n. 638/1983, nel punire il datore di lavoro che abbia omesso il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni di lavoratori dipendenti, contempla un reato omissivo istantaneo, che si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento delle ritenute, con la conseguenza che ogni mancato versamento costituisce una autonoma fattispecie criminosa, eventualmente collegabile alle altre sotto il vincolo della continuazione. Volontà delle parti ed obbligo di contribuzione Con sentenza n. 10232 del 27 giugno 2003, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che la volontà delle parti, sia pure collettiva, non può derogare alla contribuzione stabilita per legge. Infatti, “il principio secondo cui l’art. 6, comma 2, della legge n. 138/1943, esonera l’INPS dal pagamento dell’indennità quando il trattamento economico di malattia venga corrisposto per legge o contratto collettivo dal datore di lavoro in misura non inferiore a quella fissata dai contratti collettivi, non vale ad escludere l’obbligo di contribuzione a favore dell’INPS”. Omesso versamento di ritenute su retribuzioni non corrisposte Con sentenza n. 27641 del 26 giugno 2003, le Sezioni Unite della Cassazione Penale hanno affermato che il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei dipendenti di cui all’art. 2, comma 1 – bis della legge n. 638/1983 non è configurabile a carico del datore di lavoro nel caso di mancata corresponsione della relativa retribuzione ai dipendenti. Estratti contributivi INPS: valore probatorio Con sentenza n. 4297 del 24 marzo 2003, la Cassazione ha affermato che gli estratti contributivi su modulo a stampa fanno piena prova pur senza la sottoscrizione del dirigente, essendo la riproduzione di un documento elettronico. Omissione contributiva e mancata retribuzione Con una recentissima sentenza (n. 27641/03) le sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che per la configurabilità del reato di appropriazione indebita riscontrabile nell'omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, occorre verificare se la retribuzione è stata corrisposta ai dipendenti. Violazione previdenziale e sanzione penale Con sentenza n. 12858 del 20 marzo 2003, la terza Sezione Penale della Cassazione ha affermato che nella ipotesi di pagamenti in "nero" ai dipendenti, pur con l'accordo degli stessi, il datore di lavoro commette il reato previsto dall'art. 2 della legge n. 638/1983. Prescrizione dei crediti contributivi Con sentenza n. 2100 del 12 febbraio 2003, la Cassazione ha affermato che l’art. 3, comma 9, della legge n. 335/1995 ha ridotto il termine di prescrizione decennale delle contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni obbligatorie a cinque anni, con decorrenza dal 1° gennaio 1996, senza comprendere le contribuzioni maturate prima di quella data. L’art. 3, comma 10, ha, invece, eliminato la sospensione triennale del corso della prescrizione (introdotto dalla legge n. 683/1983), salvo il caso di atti interrottivi già validamente compiuti o di procedure in corso al momento dell’entrata in vigore della legge n. 335/1995. Minimale contributivo e retribuzione imponibile Con sentenza n. 456 del 14 gennaio 2003, la Cassazione ha affermato che ai fini della determinazione del minimale contributivo occorre prendere quale parametro di riferimento il contratto collettivo di settore stipulato dalle Associazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, quandanche il datore di lavoro, ai fini della retribuzione, faccia riferimento all’art. 36 della Costituzione (c.d. "minimo retributivo costituzionale"). Imponibilità contributiva sulla quattordicesima mensilità e indennità "una tantum" Con sentenza n. 11199 del 29 luglio 2002, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il principio secondo il quale l’importo della retribuzione da assumere a base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. "minimale contributivo"), secondo il riferimento ad essi fatto "con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale "dall’art. 1 del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella legge 7 dicembre 1989, n. 389, senza le limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 della Costituzione (c.d. "minimo retributivo costituzionale"), che sono rilevanti solo a quando a detti contratti si ricorre "con incidenza sul distinto rapporto di lavoro" ai fini della determinazione della giusta retribuzione. Da ciò discende che emolumenti come la quattordicesima mensilità e l’indennità "una tantum" , previste dai contratti collettivi nazionali, si valutano nella base imponibile sulla quale sono commisurate le aliquote contributive, mentre sarà escluso l’emolumento quale il "terzo elemento" contemplato dal contratto integrativo provinciale. Omissioni contributive e soggetti responsabili Con sentenza n. 23655 del 20 giugno 2002, la terza sezione penale della Cassazione ha stabilito che, nel caso in cui non vengano versate all’INPS le ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti, il presidente del consiglio di amministrazione di una società ne risponde penalmente in quanto è tenuto ad accertare l’adempimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali che sono da considerare primari anche nelle imprese che versino in difficoltà economiche. Omissioni contributive e responsabilità del datore Con sentenza n. 21414 del 31 maggio 2002, la terza Sezione Penale della Cassazione ha affermato che anche in caso di delega il datore di lavoro è tenuto a vigilare ed a supplire al comportamento negligente, a maggior ragione nel caso in cui l'omissione sia pluriennale e relativa a somme rilevanti. Transazione innanzi alla commissione provinciale di conciliazione, o in sede sindacale, o in sede giudiziale e contributi assicurativi Con sentenza n. 6663 del 9 maggio 2002, la Cassazione è intervenuta sul problema relativo alla assoggettabilità a contribuzioni obbligatorie delle erogazioni economiche del datore di lavoro previste in occasione di transazioni. La Corte ha osservato che il principio secondo cui le erogazioni dipendenti da transazioni aventi la finalità non di eliminare la “res dubia” oggetto della lite, ma di evitare il rischio della lite stessa e non contenenti un riconoscimento neppure parziale del diritto del lavoratore, debbono considerarsi in nesso non di dipendenza ma di occasionalità con il rapporto di lavoro e quindi non assoggettabili a contribuzione, va coordinato con il concetto, desumibile dall’art. 12 della legge n. 153/1969, secondo cui l’indagine del giudice di merito sulla natura retributiva o meno delle somme erogate al lavoratore non trova alcun limite nel titolo formale di tali erogazioni. Parimenti, esso va altresì coordinato con il principio che, nell’ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi, rientra tutto ciò che in denaro, o in natura, il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza o a causa del rapporto di lavoro, sicchè per escludere la computabilità di un istituto non è sufficiente la mancanza di uno stretto nesso di corrispettività, ma occorre che risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione. Allorquando un accordo transattivo sia stato preceduto dalla manifestazione di volontà del datore di lavoro di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro con un proprio dipendente e dalla richiesta, da parte di quest’ultimo, di una somma di denaro, quale condizione per addivenire alla risoluzione consensuale del rapporto, alla corresponsione di una somma in denaro, erogata in esecuzione di quell’accordo, deve essere riconosciuta natura retributiva, con conseguente assoggettamento della somma stessa a contribuzione previdenziale, In tale situazione, secondo la Corte, non può trovare applicazione l’art. 4, comma 2 bis, della legge n. 291/1998 che esclude dalla retribuzione imponibile le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro alfine di incentivare l’esodo dei lavoratori. Osserva la Corte che che ciò che difetta nel caso di specie è il presupposto, in quanto non sono stati interessati all’esodo una pluralità di lavoratori il cui posto di lavoro non è esposto al rischio della precarietà e che proprio per questa ragione devono essere incentivati a dimettersi attraverso la corresponsione di una gratifica. Somme erogate da fondi aziendali: retribuzione imponibile Con sentenza n. 5202 dell’11 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che le somme erogate da fondi aziendali hanno natura retributiva e funzione previdenziale e vanno pertanto incluse nella retribuzione imponibile ai fini del versamento dei contributi obbligatori, dal momento che non rientrano in alcuna delle eccezioni previste dall’art. 12 della legge n. 153/1969. Omissioni contributive nella società in nome collettivo: responsabili Con sentenza n. 8775 del 7 marzo 2002, la terza Sezione Penale della Cassazione ha affermato che nelle società in nome collettivo la rappresentanza spetta a cioascun socio a meno di eventuali limitazioni rinvenibili nell'atto costitutivo od in una procura. Da ciò ne consegue la responsabilità di ognuno verso l'esterno e nei confronti dell'INPS per l'omesso versamento dei contributi previdenziali. Omesso versamento di ritenute su retribuzioni non corrisposte Con sentenza n. 32 del 3 gennaio 2002, la terza Sezione penale della Cassazione ha affermato che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali previsto dall’art. 2, comma 1 bis, della legge n. 638/1983, trova applicazione anche quando il datore di lavoro, pur essendovi tenuto, non abbia corrisposto la retribuzione. Appropriazione indebita di somme trattenute dal datore di lavoro Con sentenza n. 41826 del 22 novembre 2001, la seconda Sezione penale della Cassazione è tornata ad affrontare un tema, quello del mancato accantonamento per la Cassa Edile delle somme dovute ai lavoratori edili. Dopo aver affermato che nel caso di specie il datore di lavoro non solo ha omesso di accantonare le quote trattenute da versarsi alla Cassa Edile, ma le ha trattenute nella propria disponibilità, la suprema Corte ha stabilito che commette il reato di appropriazione indebita aggravata il datore di lavoro che, anziché accantonare presso un istituto di credito le percentuali da lui trattenute sulle somme spettanti ai lavoratori per ferie, gratifica natalizia e festività soppresse, mantenga le stesse, di proprietà dei dipendenti, nella sua materiale disponibilità. Omissioni contributive e legge finanziaria 2001 Con sentenza n. 38781 del 30 ottobre 2001 la terza sezione della Cassazione Penale ha ricordato che, per effetto della sostituzione dell'art. 37 della legge n. 689/81 con l'art. 116, comma 19, della legge n. 388/00, la sussistenza del reato è condizionata da due presupposti: a) l'omesso versamento non deve essere inferiore a Euro 2582.28 mensili; b) l'omesso versamento non deve tener conto del maggiore importo tra questi e la metà dei contributi dovuti complessivamente. Condono previdenziale: effetti processuali Con sentenza n. 11205 del 22 agosto 2001, la Cassazione ha affermato che la normativa sui condoni sia contributivi che tributari ha come scopo principale quello di consentire l’immediata percezione di entrate altrimenti sospese e di eliminare il contenzioso con tutto ciò che ad esso è correlato (aggravi economici ed organizzativi). L’accoglimento della domanda comporta l’estinzione di ogni contestazione sull’esistenza del debito contributivo, senza che sia perciò configurabile una lesione del diritto di difesa. Infatti, il condono è una via discrezionale e non obbligata, tanto è vero che chi ritiene di non essere tenuto all’obbligo contributivo conserva la possibilità di far valere le proprie ragioni. Da ciò, secondo la Corte, discendono conseguenze diverse per il giudice di merito adito: a) rigetto della domanda di accertamento negativo dell’obbligo contributivo proposta dopo l’adempimento degli obblighi derivanti dalla disciplina del condono; b) dichiarazione di cessata materia del contendere se l’adempimento è avvenuto nel corso del procedimento giudiziale; provvedimento meramente processuale qualora il beneficiario si sia avvalso della facoltà di dilazione: ciò consente di non pregiudicare l’originaria pretesa dell’Ente previdenziale nel caso in cui il soggetto obbligato dai benefici del condono decada per una qualsiasi ragione (es. mancato pagamento delle rate successive). Indebito contributivo e decorrenza degli interessi Con sentenza n. 11033 del 10 agosto 2001, la Cassazione, risolvendo un problema di restituzione di somme a titolo di indebito contributivo nei confronti dell’INAIL, derivante da erroneo classamento delle lavorazioni ai fini della tariffa dei premi, ha confermato che la decorrenza degli interessi e la rivalutazione delle somme dovute, spetta dal momento della domanda amministrativa, attesa la sostanziale equiparabilità di quest’ultima alla domanda giudiziale ex art. 2033 C.C. Sgravi contributivi per le nuove assunzioni Con sentenza n. 8537 del 22 giugno 2001, la Cassazione ha affrontato il problema del riconoscimento degli sgravi contributivi, affermando che la nozione di azienda va intesa in senso oggettivo. Di conseguenza, ha stabilito che essi non spettano allorché si è in presenza di elementi di permanenza della precedente struttura aziendale, come nel caso in cui vi sia una sostanziale identità tra l'impresa che ha proceduto ai licenziamenti e quella che ne ha disposto l'assunzione. L'onere della prova ricade, in ogni caso, sul datore di lavoro richiedente. Contribuzione aggiuntiva per i lavoratori dell'amianto: soggetti esclusi Con sentenza n. 5764 del 19 aprile 2001, la Cassazione ha confermato l'orientamento secondo il quale la maggiorazione del periodo lavorativo ai fini pensionistici, riconosciuta dall'art. 13 della legge 257/1992, spetta soltanto ai lavoratori tuttora in servizio e non a coloro che già usufruirono della pensione di vecchiaia o di anzianità. Mansioni Demansionamento e danno non patrimoniale Con sentenza n. 10157 del 26 maggio 2004, la Cassazione ha affermato, in forza di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 C.C., che il danno non patrimoniale è comprensivo del danno biologico (inteso come lesione dell'integrità psico-fisica della persona secondo canoni medici), del danno morale (inteso come sofferenza psitica e patema d'animo) e della lesione di interessi costituzionalmente protetti. Nel vigente assetto dell'ordinamento nel quale assume posizione preminente la Costituzione, che all'art. 2 riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, che non si esaurisca nel danno morale e che non sia correlato alla qualifica di reato del fatto illecito ex art. 185 C.P. Unica possibile forma di liquidazione del danno privo delle caratteristiche della patrimonialità, è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico. Demansionamento e produzione di prove Con sentenza n. 10361 del 28 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che il lavoratore il quale chieda la condanna del datore al risarcimento del danno per effetto della lesione del proprio diritto ad eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica rivestita, deve fornire sia la prova del danno che del nesso di causalità. Ciò comporta che tra i due elementi non c'è una conseguenza automatica ma incombe sul lavoratore l'onere di fornire la prova in base alla regola generale individuata dall'art. 2697 del Codice Civile. Mansioni superiori Con sentenza n. 4463 del 4 marzo 2004, la Cassazione ha affermato che l’art. 13 della legge n. 300/1970, non contiene un assoluto divieto, per i datore di lavoro, di assegnare il lavoratore mansioni superiori senza il suo consenso. E’ pertanto consentito alla contrattazione collettiva disciplinare le modalità secondo cui, nei limiti derivanti dall’esigenza di tutela della professionalità del lavoratore, deve esercitarsi il c.d. “ius variandi in melius”. Demansionamento e brevità del periodo di adibizione Con sentenza n. 3772 del 25 febbraio 2004, la Cassazione ha affermato che poiché l'art. 2103 del Codice Civile pone il divieto al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quella di assunzione o corrispondenti alla categoria successivamente acquisita e, all'ultimo comma, sanzioni con la nullità i patti contrari, è illegittimo il demansionamento di un dipendente bancario protrattosi per ul periodo anche breve (4 mesi) qualora non sussista alcuna delle deroghe consentite dalla legge (art. 6 Legge 190/85, art. 4, comma 11, Legge 223/91) ovvero ammesse dalla giurisprudenza al fine di difendere meglio l'interesse tutelato e, in casi marginali, per esigenze aziendali. Dequalificazione Con sentenza n. 3772 del 25 febbraio 2004, la Cassazione ha affermato che è illegittima, per violazione dell'art. 2103 del C.C., la adibizione a mansioni inferiori rispetto a quelle contrattualmente stabilite, anche se l'adibizione si è protratta per un breve periodo. Tale sentenza si pone nell'alveo interpretativo della disposizione anche alla luce di alcuni principi stabiliti dallo stesso legislatore e dalla giurisprudenza di legittimità. Si ricorda che secondo la Suprema Corte: a. è stato ritenuto non contrario all'art. 2103 del C.C. il comportamento acquiescente del lavoratore allo svolgimento di nuove e meno qualificanti mansioni (Cassazione 12 gennaio 1984 n. 266) b. sono state considerate legittime le modifiche "in peius" delle mansioni finalizzate ad evitare il licenziamento o motivate dalla salute del lavoratore (Cassazione 7 marzo 1986 n. 1536 e Cassazione 4 maggio 1987 n. 4142) c. occorre acquisire il consenso del lavoratore in caso di adibizione a mansioni inferiori anche quando la scelta è finalizzata ad evitare il licenziamento o la CIG (Cassazione 29 novembre 1988 n. 6441 e Cassazione 24 ottobre 1991 n. 11297) d. è stato ritenuto illegittimo il recesso del datore di lavoro per sopravvenuta infermità e. f. g. permanente del lavoratore nel caso in cui sia possibile adibire lo stesso a mansioni diverse (CAssazione S.U. 7 agosto 1998 n. 7755, Cassazione 18 ottobre 1999 n. 11727 e Cassazione 14 settembre 1995 n. 9715) è stato riconosciuto legittimo, in quanto previsto dall'art. 4, comma 11, l'accordo sindacale in base al quale le mansioni ed il trattamento economico dei dipendenti possono essere riformate "in peius" al fine di evitare i licenziamenti: e ciò anche senza il consenso degli interessati (Cassazione 07 settembre 2000 n. 11806 e Cassazione 29 settembre 1998 n. 9734) è stato riconosciuto legittimo lo svolgimento di mansioni inferiori in misura non prevalente e non caratterizzante, ma occasionale e marginale (Cassazione 8 giugno 2001 n. 7821) è stata riconosciuto legittima l'adibizione temporanea del lavoratore ad alcune mansioni seppur non strettamente equivalenti a quelle di appartenenza, per l'acquisizione di una maggiore professionalità (Cassazione 1° marzo 2001, n. 2948). Mansioni superiori e sostituzione di lavoratore assente Con sentenza n. 3145 del 5 marzo 2002, la Cassazione offre una qualificazione della definizione di "lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto", la cui sostituzione non attribuisce diritto alla promozione ex art. 2103 C.C. Le ipotesi di sostituzione che non danno diritto sono le c.d. "sospensioni legali" (sciopero, funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, servizio civile o militare) o convenzionali del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare in un altro reparto, o invitato a partecipare ad un corso di formazione. Demansionamento e risarcimento del danno Con sentenza n. 10 del 2 gennaio 2002 , la Cassazione ha stabilito che la modifica "in peius" delle mansioni incide altroché sulla potenzialità economica del lavoratore, anche sulla libera esplicazione della personalità, sulla vita professionale e di relazione, con conseguente diritto al risarcimento. Mansioni superiori: computabilità dei riposi settimanali Con sentenza n. 15766 del 13 dicembre 2001, la Cassazione ha stabilito che ai fini del compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, necessario per la previsione dell’art. 2103 C.C., si deve tenere conto dei riposi settimanali. La decisione della Corte trova il proprio fondamento nel fatto che i riposi settimanali, strettamente correlati alla prestazione lavorativa, sono pause insopprimibili e non procrastinabili (salvo casi eccezionali): essi cadenzano l’attività lavorativa e, in loro mancanza, lo stesso espletamento delle mansioni superiori può risultare pregiudicato. Diverso è, invece, il discorso relativo alle ferie ed alle assenze per malattia. Nel primo caso la Corte afferma che, l’assenza prolungata dal servizio per periodo feriale, non può far ritenere che in quel lasso di tempo maturi quella esperienza professionale in base alla quale si matura il diritto alla promozione automatica. Nella seconda ipotesi, le motivazioni sono analoghe e trovano riferimento in una precedente pronuncia dello stesso organo (Cass., 21 ottobre 1992, n. 11494). Mansioni diverse da quelle dell’assunzione - danno professionale Con sentenza n. 14199 del 14 novembre 2001, la Cassazione ha stabilito che dall’art. 2103 c.c. discende non soltanto il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, ma anche il diritto, in caso di inadempimento contrattuale, al risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale danno può assumere aspetti diversi perché può essere correlato sia all’impoverimento della capacità professionale già acquisita che alla mancata acquisizione di maggiore professionalità, che nella perdita di ulteriori opportunità di guadagno che, infine, nella lesione di un diritto all’immagine, alla salute o, più semplicemente, alla vita di relazione. La Suprema Corte conclude affermando che spetta al giudice di merito accertare lo stesso, individuarne l’ammontare e procedere alla sua liquidazione anche in via equitativa Preavviso Periodo di preavviso: efficacia reale e diritto alle ferie Con sentenza n. 14646 del 21 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che dal principio secondo il quale il preavviso ha efficacia reale, discende la conseguenza che durante il suo decorso proseguono gli effetti previsti dal contratto. Conseguentemente, il lavoratore ha diritto di godere delle ferie durante il preavviso e che quest'ultimo, se lavorato, comporta la maturazione del diritto al numero proporzionale correlato di giorni di ferie, sicchè lo spostamento del termine finale del preavviso avviene "ope legis". Demansionamento e tutela giudiziale Con sentenza n. 13580 del 2 novembre 2001, la Cassazione ha ritenuto che il giudice di merito possa, con un apprezzamento adeguatamente motivato, desumere l’esistenza di un danno derivante da un demansionamento, stabilendone l’entità , anche in via equitativa, sulla base di elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e di altre circostanze riferite al caso concreto. Periodo di preavviso ed accettazione dell’indennità sostitutiva Con sentenza n. 13581 del 2 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che l’accettazione dell’indennità sostitutiva del preavviso, con conseguente esonero dalle prestazioni per il periodo contrattualmente previsto, comporta la immediata interruzione del rapporto di lavoro. Da ciò ne consegue che al lavoratore non competono gli eventuali nuovi emolumenti introdotti da disposizioni legislative intervenute successivamente all’accettazione dell’indennità sostitutiva ed anteriormente alla scadenza del periodo di preavviso. (Nel caso di specie il lavoratore licenziato era un dirigente di una società finanziaria controllata dall’EFIM a cui la Corte non ha ritenuto applicabile la legge n. 738/1994, che aveva esteso a tali dirigenti i trattamenti supplementari previsti per i dirigenti EFIM). Trasferimento di azienda Trasferimento di azienda Con sentenza n. 19105 del 13 dicembre 2003, la Cassazione ha affermato che in caso di cessione di ramo di azienda, la garanzia della continuazione del rapporto, assicurata dall’art. 2112 c.c. e dall’art. 47 della legge n. 428/1990, può ben attuarsi, nel rispetto della procedura di consultazione, con il mantenimento, da parte dell’impresa cedente, nelle attività aziendali non interessate alla cessione, dei rapporti di lavoro con i dipendenti, già addetti all’attività oggetto di cessione, senza che la esclusione del passaggio dei predetti dipendenti alla cessionaria comporti una lesione del diritto di costoro. Trasferimento di azienda Con sentenza n. 13949 del 20 settembre 2003, la Cassazione ha affermato che è riconducibile al trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c., anche il cambiamento di titolarità di un’impresa che sia la conseguenza di un atto autoritativo della Pubblica Amministrazione (es, revoca della concessione di un servizio pubblico di trasporto e suo affidamento ad una cooperativa). Trasferimento di azienda per provvedimento dell’autorità pubblica Con sentenza n. 2936 del 26 febbraio 2003, la Cassazione ha affermato che la disciplina del trasferimento di azienda non è applicabile nei casi in cui il trasferimento di azienda derivi non da atto negoziale, ma avvenga in forza di provvedimento autoritativo. Esternalizzazione di lavoratori e trasferimento d’azienda Con sentenza n. 17207 del 4 dicembre 2002, la Cassazione ha affermato che la disciplina del trasferimento di azienda trova applicazione in tutte le ipotesi di trasferimento anche di una singola attività d’impresa " sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo " ma esclusivamente riguardo a rami di azienda dotati di autonomia funzionale e preesistenti alla vicenda traslativa. Trasferimento d’azienda e diritti dei lavoratori Con sentenza n. 10701 del 22 luglio 2002, la Cassazione ha affermato che nell’accezione allargata del trasferimento d’azienda dopo il D. L.vo n. 18/2001, esso può configurarsi con riferimento alla posizione del lavoratore come successione legale nel contratto che, non richiedendo il consenso del contraente ceduto, non è assimilabile alla cessione negoziale per la quale il suddetto consenso è elemento costitutivo della fattispecie di cui ll’art. 1406 c.c. Trasferimento d’azienda e licenziamento Con sentenza n. 7458 del 21 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che l’art. 2112 c.c., il quale regola la sorte dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento d’azienda, trova applicazione – ove rimanga immutata l’organizzazione dei beni aziendali, con lo svolgimento della medesima attività – in tutte le ipotesi in cui il cedente sostituisca a se il cessionario senza soluzione di continuità, anche nel caso di restituzione dell’azienda da parte del cessionario per cessazione del rapporto di affitto. Trasferimento d’azienda: nozione Con sentenza n. 3469 dell’11 marzo 2002, la Cassazione ha affermato che per la configurabilità del trasferimento di azienda, così come previsto dall’art. 2112 c.c., occorre verificare, oltre all’eventuale collegamento economico-finanziario fra le imprese e la continuità delle prestazioni lavorative dei lavoratori nelle due aziende interessate, anche la volontà dei contraenti. Va accertato, inoltre, se il complesso dei beni ceduti siano stati considerati autonomamente o nella loro funzione unitaria e strumentale. Trasferimento d’azienda: natura transattiva degli accordi sindacali Con sentenza n. 14091 del 13 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che l’accordo collettivo il quale, in caso di passaggio d’azienda e nella prospettiva di salvaguardare i livelli occupazionali, preveda la risoluzione dei singoli rapporti di lavoro con l’impresa cedente e la costituzione di nuovi rapporti con il cessionario, è pienamente valido. Esso ha efficacia vincolante nei confronti dei lavoratori iscritti alle associazioni stipulanti o che abbiano aderito successivamente all’accordo anche nella parte in cui esso libera il nuovo datore di lavoro dall’onere del riconoscimento dell’anzianità pregressa di servizio, contenendo esso una deroga convenzionale, pienamente valida, al principio di continuità del lavoro stabilito dall’art. 2112, comma 1, c.c. Trasferimento di azienda Con sentenza n. 8621 del 23 giugno 2001, la Cassazione ha affermato che si ha trasferimento di azienda assoggettato per i rapporti di lavoro alla disciplina dell’art. 2120 c.c., quando l’oggetto del trasferimento risulta essere un complesso funzionale di beni idoneo a consentire l’inizio o la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. L’accertamento della sussistenza di queste condizioni è demandata al giudice di merito che, tuttavia, non può sindacarne la legittimità se congruamente motivata. Trattamento di fine rapporto TFR e computabilità dello straordinario continuativo Con sentenza n. 8716 del 7 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che ai fini della computabilità del lavoro straordinario continuativo nella determinazione del TFR, il carattere continuativo va posto in relazione con le normali esigenze dell'azienda, programmate e ricorrenti nel tempo e deve essere supportato da significativi elementi di prova. Prescrizione del TFR pagato dal fondo di garanzia INPS Con sentenza n. 3939 del 26 febbraio 2004, la Cassazione ha affermato che secondo l'art. 2 della legge n. 297/82 il lavoratore può insinuarsi nello stato passivo del proprio datore di lavoro anche tardivamente e conseguentemente, soltanto dopo l'ammissione al passivo può presentare la domanda al fondo di garanzia INPS. Conseguentemente la prescrizione non può partire prima di tale data in quanto non è possibile presentare istanza ll'INPS prima dell'accertamento dell'insolvenza del datore di lavoro e prima che il credito per il TFR sia stato verificato in sede di ammissione al passivo fallimentare. TFR: legittimità della cessazione a garanzia del finanziamento Con sentenza n. 4930 del 1° aprile 2003, la Cassazione ha affermato che il lavoratore che abbia ceduto, a garanzia di un finanziamento ricevuto, il proprio futuro credito per trattamento di fine rapporto, non commette frode alla legge, consistente nella violazione del patto compromissorio relativo al credito suddetto, essendo estensibile in via analogica, oltre le alienazioni dei diritti reali e la costituzione di ipoteca e di pegni anche di crediti, la disciplina di cui all’art. 2744 c.c. costituente norma di carattere eccezionale. Premio aziendale e trattamento di fine rapporto Con sentenza n. 1693 del 5 febbraio 2003, la Cassazione ha affermato che qualora il premio aziendale dall’originaria spontaneità si sia trasformato per effetto dell’inequivoco comportamento delle parti da iniziale liberalità in “fedeltà della prestazione”, resa per un certo numero di anni, rientra nel computo del TFR. Trattamento di fine rapporto e concetto di "retribuzione utile" ai fini del calcolo Con sentenza n. 12411 del 22 agosto 2002, la Cassazione ha affermato che il comma 2 dell’art. 2120 c.c., ha disposto soltanto che debbano esser esclusi dal calcolo unicamente i compensi aventi carattere sporadico od occasionale. Con tale definizione si intendono solo quelli collegati a ragioni aziendali del tutto imprevedibili e fortuite mentre, all’opposto, si devono computare ai fini della determinazione del trattamento di fine rapporto gli emolumenti collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione del lavoro. Cessazione del rapporto e indennità per agenti e rappresentanti Con sentenza n. 11189 del 29 luglio 2002, la Cassazione ha affermato che la disciplina legale dell’indennità dovuta all’agente, a norma dell’art. 1751 c.c. (nel testo introdotto dal D. L.vo n. 303/1991 e dal D. L.vo n. 65/1999 per dare attuazione alle direttive comunitarie in materia), riferimento al criterio dell’equità ( che prevede anche l’esame di tutte l circostanze del caso) non solo per determinare quando l’indennità deve essere erogata, ma anche per la determinazione dell’indennità stessa, e, di conseguenza, deve ritenersi prevalente sulla contrattazione collettiva tutte le volte che il criterio stabilito dalla legge conduca a un trattamento in concreto più favorevole all’agente, restando irrilevante una valutazione "ex ante" della maggior convenienza della regolamentazione patrizia rispetto a quella legale. Quietanze a saldo e accettazione del licenziamento Con sentenza n. 10193 del 12 luglio 2002, la Cassazione ha affermato che le quietanze a saldo o liberatorie che il lavoratore sottoscriva a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro, accettando senza riserve la liquidazione e le altre somme dovutegli, non implicano di per sé l’accettazione del licenziamento e la rinuncia ad impugnarlo; tuttavia, predetti comportamenti possono assumere tale significato negoziale, in presenza di altre circostanze precise, concordanti ed obiettivamente concludenti, che dimostrino l’intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo, in base ad un adeguato accertamento da parte del giudice di merito. Trattamento di fine rapporto: termine di pagamento Con sentenza n. 4822 del 4 aprile 2002, la Cassazione è tornata ad affrontare, in modo diverso rispetto alle precedenti pronunce, il problema del termine di pagamento del TFR. La Corte osserva che l'art. 2120 c.c. non lascia dubbio sulla circostanza che l'obbligazione trova fonte nella cessazione del rapporto che ne rappresenta, quindi, il momento genetico a partire dal quale deve essere adempiuta. La Cassazione continua in tale ragionamento osservando che, quand'anche non si consideri tale articolo come produttivo dell'obbligo immediato, c'è sempre l'art. 1183, comma 1, c.c., che consente al creditore di esigere immediatamente il pagamento del TFR: ovviamente, da tale momento decorrono gli interessi. La Suprema Corte conclude, infine, affermando che nessun accordo collettivo, tendente a dilazionare il termine di pagamento, può modificare il precetto dell'art. 2120 c.c. Trattamento di fine rapporto: termine di pagamento Con sentenza n. 4222 del 25 marzo 2002, la Cassazione ha stabilito che il pagamento del TFR alla data di cessazione del rapporto è condizionato dal fatto che il datore sia a conoscenza di tutti gli elementi di calcolo. Da ciò ne consegue che il TFR produce interessi e rivalutazione su tutto ciò che può essere determinato ed esigibile. In caso contrario, produce gli accessori dal giorno in cui il credito può esser liquidato nel suo ammontare integrale, anche se ciò si realizza, per la successiva acquisita conoscenza di tutti gli elementi di calcolo, dopo la cessazione del rapporto. Conseguentemente, osserva la Corte, che il termine inderogabile per il pagamento del TFR è il momento in cui può esser liquidato nel suo ammontare integrale e, quindi, il momento della cessazione del rapporto di lavoro se in tale momento il TFR è determinabile. Indennità di prepensionamento: imponibilità Con sentenza n. 2817 del 26 febbraio 2002, la Cassazione ha affermato che l’erogazione corrisposta al lavoratore, in occasione della cessazione anticipata del rapporto di lavoro in aggiunta al TFR, costituisce una vera e propria contro prestazione, effettuata per ottenere il consenso del dipendente alla risoluzione anticipata del rapporto. Integrando, quindi, il trattamento di fine rapporto, non rientra tra le erogazioni eccezionali e non ricorrenti di cui all’art. 48, comma 2, lettera f) del DPR n. 917/1986, bensì tra le varie indennità erogabili a causa ed in dipendenza del rapporto d’impiego e, come tale, è da ritenersi imponibile ex art. 16, comma 1, DPR citato. Trattamento di fine insolvenza del datore rapporto: mancato pagamento per Con sentenza n. 1136 del 29 gennaio 2002, la Cassazione ha stabilito che il lavoratore per poter ottenere, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 297/1992, il pagamento del TFR (entro 60 giorni dall’istanza) dal Fondo di garanzia istituito presso l’INPS, deve provare sia la cessazione del rapporto, che l’inadempimento del datore che, infine, lo stato di insolvenza dimostrabile attraverso la c.d. “presunzione legale” (apertura del fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo). Se, invece non è possibile applicare la legge fallimentare perché non ricorre la condizione soggettiva prevista dall’art. 1 del R.D. n.267/1942, il lavoratore deve, altresì, fornire la prova che il datore di lavoro non è soggetto alle procedure esecutive concorsuali e deve, inoltre, dimostrare in base alla diversa presunzione legale pure prevista dalla legge (l’esperimento di una procedura esecutiva individuale, senza che ne sia necessario il compimento), che mancano o sono insufficienti le garanzie patrimoniali del debitore. Trattamento di fine rapporto: termini di pagamento Con sentenza n. 1040 del 28 gennaio 2002, la Cassazione ha affrontato il problema del momento del pagamento delle competenze di fine rapporto stabilendo che: a) il trattamento di fine rapporto va corrisposto all’atto della cessazione del contratto; b) le rivalutazioni correlate all’accantonamento del TFR vanno corrisposte al momento in cui l’ISTAT rende noti (alla metà di ogni mese) gli indici di aumento dei prezzi al consumo; c) il ritardato pagamento delle competenze di fine rapporto abilita il lavoratore a chiedere gli interessi e la rivalutazione ex art. 429 cpc; d) i contratti collettivi possono prevedere dilazioni per il pagamento del TFR, collegate all’acquisizione dei dati ISTAT (Nel caso di specie, il TFR era stato pagato con 45 giorni di ritardo rispetto alla data di cessazione del rapporto). Trattamento di fine rapporto:fondo di garanzia Con sentenza n. 14091 del 13 novembre 2001, la Cassazione ha ricordato come il pagamento del TFR da parte del Fondo di garanzia istituito presso l'INPS configura una ipotesi di accollo "ex lege". Da ciò discendono alcune conseguenze: 1. inoppunibilità all'INPS della rinuncia alla prescrizione compiuta dal datore di lavoro 2. obbligo da parte del Fondo di corrispondere oltre al capitale, anche gli interessi e la 3. 4. rivalutazione; riconosciemtno di identico privilegio ai lavoratori ed all'INPS nei confronti del datore di lavoro, senza alcuna graduazione od ordine di precedenza, ai sensi dell'art. 2751 bis C.C.; natura di capitale del credito come forma di risparmio forzoso e la inconfigurabilità della sua natura previdenziale. Indennità di buonuscita: cumulo tra interessi e rivalutazione Con sentenza n. 13025 del 23 ottobre 2001, la Cassazione ha fornito la propria interpretazione sull’art. 16, comma 6, della legge n. 412/1991 che vieta il cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria. La Corte ha affermato che è necessario porre attenzione alla natura ed all’oggetto della prestazione, attesochè la disposizione sopra citata fu emanata per ridurre gli effetti della pronuncia della Corte Costituzionale n. 156/1991 che aveva equiparato i crediti previdenziali a quelli retributivi ai fini delle conseguenza del ritardo nell’adempimento. Il riferimento alle “prestazioni dovute” secondo la Cassazione deve essere limitato alle sole prestazioni di carattere previdenziale cui è tenuto l’ente debitore ( nel caso di specie l’Opafs, Opera di previdenza a favore del personale delle Ferrovie dello Stato), senza che possa darsi rilievo alla qualità di quest’ultimo di “ente gestore di forme di previdenza obbligatoria”. Conseguentemente, con riferimento all’indennità di buonuscita che ha natura retributiva e non previdenziale, si deve escludere l’applicabilità di detto divieto. Dimissioni del lavoratore in costanza di procedura disciplinare Con sentenza n. 13523 del 30 ottobre 2001, la Cassazione ha affermato che le dimissioni presentate dal lavoratore sottoposto a procedura disciplinare non possono essere subordinate ad alcuna condizione risolutiva correlata all’accertamento dei fatti contestati, attesochè un atto di tal genere comporterebbe una sospensione, oltretutto non quantificabile in termini temporali, del rapporto di lavoro, al di fuori delle ipotesi normative di sospensione. Le dimissioni, concretizzandosi in un atto unilaterale ricettizio, acquistano efficacia dal momento in cui il datore ne ha avuto notizia: per l’eventuale revoca è necessario il consenso del destinatario (Cass., 19 aprile 1990, n. 3217, Cass., 20 novembre 1990, n. 11179). Ovviamente, le dimissioni non producono alcun effetto se sono la conseguenza di minacce di denuncia penale o di licenziamento (Cass., 28 dicembre 1999, n. 14621). Cessazione del rapporto di lavoro: quietanza a saldo Con sentenza n. 9407 dell’11 luglio 2001, la Cassazione ha ribadito che la dichiarazione di rinuncia a maggiori somme scaturenti da un rapporto di lavoro cessato deve esser considerata una normale quietanza a saldo, tutte le volte in cui la stessa presenti caratteristiche di assoluta genericità. Si può parlare di rinuncia o transazione soltanto nelle ipotesi in cui si accerti una piena consapevolezza del lavoratore in ordine alla sua volontà di privarsi di diritti specifici, determinati o determinabili. Credito di lavoro: interessi e rivalutazione Con sentenza n. 5363 del 10 aprile 2001, la Cassazione ha stabilito che la rivalutazione e gli interessi liquidati dal giudice ex art. 429 c.p.c., vanno calcolati sulla somma dovuta al lavoratore al lordo delle ritenute fiscali e contributive (questo principio è importante anche per gli arbitri dei collegi arbitrali irrituali costituiti in virtù dell'art. 412 c.p.c. e degli accordi collettivi). Mobilità Indennità di mobilità e lavoro autonomo Con sentenza n. 6463 del 1° aprile 2004, la Cassazione ha affermato che il lavoratore in mobilità che svolga lavoro autonomo conserva il diritto alla iscrizione nella lista di mobilità e conserva, ugualmente, il diritto all'indennità di mobilità. Tuttavia, poiché l'indennità di mobilità ha la funzione di contrastare la situazione di mancanza di reddito conseguente alla perdita dell'occupazione, lo svolgimento dell'attività lavorativa ha lo stesso effetto di alleviare la situazione di difficoltà del lavoratore fino al punto in cui la copertura previdenziale obbligatoria risulterebbe eccedente ai fini della sicurezza sociale. L'individuazione di tale soglia marginale di intervento è, tuttavia, rimessa alla discrezionalità del legislatore. Benefici contributivi per l'assunzione di lavoratori in mobilità Con sentenza n. 1446 del 27 gennaio 2004, la Cassazione ha affermato che per ottenere il beneficio contributivo conseguente alla trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto a tempo determinato costituito con un lavoratore in mobilità, occorre inviare agli organi del collocamento la comunicazione entro i 5 giorni successivi. Il ritardo nella comunicazione non comporta la perdita del beneficio contributivo che, però, decorre soltanto dalla ricezione della stessa. Indennità di mobilità e lavoro autonomo Con sentenza n. 11539 del 25 luglio 2003, la Cassazione è intervenuta sull’art. 7 della legge n. 223/1991 che disciplina la corresponsione anticipata di tutta l’indennità di mobilità nel caso in cui un lavoratore interessato licenziato per riduzione di personale intenda svolgere un’attività di lavoro autonomo. La Suprema Corte ha osservato che la corresponsione, in un’unica soluzione, si ha anche allorquando il lavoratore era dipendente a tempo parziale e già svolgeva nel tempo residuo altra attività di lavoro autonomo. Nulla vieta che allo stesso, anche se l’attività era già iniziata, sia corrisposta (chiaramente “pro quota” in relazione alla sua attività subordinata) l’indennità di mobilità con le modalità previste dall’art. 7 della legge n. 223/1991.. Indennità di mobilità: procedura per il godimento Con sentenza n. 17389 del 6 dicembre 2002, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che per ottenere l’indennità di mobilità è necessario presentare la domanda all’INPS entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. La Corte ha, in sostanza, ritenuto applicabile anche all’indennità di mobilità il termine di decadenza fissato per l’indennità di disoccupazione dall’art. 129 del R.D.L. n. 1827/1935. Lavoratori in mobilità: precedenza nelle riassunzioni Con sentenza n. 14293 del 5 ottobre 2002, la Cassazione ha affermato che esiste un diritto soggettivo dei lavoratori collocati in mobilità alla precedenza nelle assunzioni decise dal loro ex datore di lavoro: se quest’ultimo procede all’assunzione degli altri lavoratori, nel periodo in cui vige il diritto di precedenza, deve dare la prova che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile. Mobilità: anticipazione dell’indennità Con sentenza n. 9007 del 20 giugno 2002, la Cassazione ha affermato che l’erogazione dell’indennità di mobilità è consentita anche per intraprendere attività di natura imprenditoriale, senza sottoposizione a limiti né a condizioni non previste dall’art. 7, comma 5, della legge n. 223/1991. Diritto alla mobilità lunga Con sentenza n. 8840 del 18 giugno 2002, la Cassazione ha affermato che per la concessione della c.d. “mobilità lunga”, prevista dall’art. 7, comma 7, della legge n. 223/1991, la locuzione “possano far valere” deve essere intesa nel senso che, al momento della cessazione del rapporto, il lavoratore deve trovarsi nelle condizioni di diritto che gli consentano di poter ottenere che i contributi versati sino a quel momento in gestioni speciali gli siano computati nell’assicurazione generale obbligatoria Ivs alfine del raggiungimento dell’anzianità contributiva di 28 anni. Straordinario Straordinario ed effetti sugli istituti retributivi Con sentenza n. 10167 del 26 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che per dimostrare che il lavoro straordinario ha mutato la propria natura con effetti sul calcolo degli istituti retributivi, attesa la prestazione costante e sistematica, non basta provare la continuità delle prestazioni ma occorre verificare che il ricorso allo straordinario sia da porre in relazione con le normali esigenze dell'azienda programmate e ricorrenti nel tempo. la prova dell'esistenza di questa relazione può anche derivare dalla circostanza che lo straordinario sia stato prestato per un'apprezzabile intervallo di tempo con esclusione dei caratteri di occasionalità e transitorietà, rientrando così nella normale organizzazione del lavoro, perché funzionale al fabbisogno ordinario dell'impresa. Lavoro straordinario del dirigente Con sentenza n. 9650 del 16 giugno 2003, la Cassazione ha affermato che il diritto al compenso per lavoro straordinario del dirigente (che è escluso dalla disciplina legale sulle limitazioni di orario ribadita dall’art. 17, comma 5, del D.L.vo n. 66/2003) può sorgere o nel caso in cui la normativa collettiva (o la prassi aziendale, o il contratto individuale) delimiti anche per esso un orario normale di lavoro e questo venga in concreto superato nel caso in cui la durata della prestazione fornita ecceda i limiti determinabili in rapporto alla tutela costituzionalmente garantita del diritto alla salute. Lavoro straordinario: prova in giudizio Con sentenza n. 1389 del 29 gennaio 2003, la Cassazione ha affermato che il lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro, senza che l’assenza di tale prova possa essere supplita dalla valutazione equitativa del giudice. Lavoro straordinario e retribuzione Con sentenza n. 10312 del 16 luglio 2002, la Cassazione, riallacciandosi ad un orientamento consolidato, ha affermato che l’unico reale limite alla durata massima della prestazione ordinaria lavorativa è quello settimanale e che la previsione giornaliera delle otto ore ha soltanto valore di indicazione media. Altro Esclusione del socio dalla cooperativa Con sentenza n. 11402 del 18 giugno 2004, la Cassazione ha affermato che costituisce condizione di efficacia l’annotazione nel libro soci previsto dall’art. 2527, comma 4, del C.C. La Corte sostiene appunto, che si tratta di condizione di efficacia e non di validità della delibera di esclusione del socio in quanto questa formalità è a garanzia di tutti quei terzi che possono avere interesse alla presenza di una determinata persona nella cooperativa e altresì a difesa dell’affidamento degli stessi. Diverse sono le regole per quanto riguarda i rapporti interni alla cooperativa in quanto l’esclusione del socio scatta con la delibera che non sia stata impugnata nei termini di legge o la cui legittimità sia stata accertata attraverso un giudicato. Forme di critica ed obbligo di fedeltà Con sentenza n. 11220 del 14 giugno 2004, la Cassazione ha affermato che in forza dell'obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, il lavoratore deve mantenere un tale comportamento nei confronti dei datore di lavoro, esprimibile con le regole di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 Codice Civile. Secondo la Cassazione, il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo 2105 Codice Civile ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso. La Cassazione ha pertanto concluso sancendo che è suscettibile di violare il disposto dell’articolo 2105 Codice Civile e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore un esercizio da parte di quest’ultimo del diritto di critica che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si sia tradotto in una condotta lesiva del decoro della impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro. Secondo la Corte, una siffatta lesione del carattere fiduciario del rapporto lavorativo va accertata dal giudice di merito con giudizio sindacabile in sede di legittimità unicamente per vizi di motivazione. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto di confermare la sentenza del giudice d'appello.. Presupposti per le agevolazioni incrementali Con sentenza n. 8742 del 7 maggio 2004, la Cassazione ha affermato che il presupposto necessario per il "godimento" del beneficio contributivo correlato ad un incremento occupazionale, è insussistente tutte quelle volte in cui ci si trova di fronte ad un trasferimento o fusione di aziende, con un mero passaggio di personale alla nuova impresa senza, che il numero complessivo dei lavoratori occupati risulti aumentato (il caso di specie era rappresentato da lavoratori licenziati da una ditta individuale e riassunti da una società di persone di cui era socio il precedente datore, ed inoltre, l'attività aveva continuato a svolgersi negli stessi locali e con le medesime attrezzature). Valore certificativo dell'estratto conto contributi La Cassazione, con sentenza n. 7859 del 24 aprile 2004, ha affermato che l'errata certificazione dell'INPS, relativa ad una posizione contributiva, fa sorgere il diritto al risarcimento dei danni, atteso che l'Istituto è responsabile delle inesattezze contenute nelle comunicazioni fornite, a seguito di uno specifico obbligo di legge. Orario di lavoro e trasferta Con sentenza n. 5701 del 22 marzo 2004, la Cassazione ha affermato che il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e propria (con sommatoria al normale orario di lavoro), allorchè sia funzionale rispetto alla prestazione. Tale requisito sussiste quando il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede dell'impresa, sia inviato, di volta in volta, in varie località per svolgere la prestazione lavorativa. La Corte aggiunge che un discorso diverso va fatto, invece, durante il periodo della trasferta. Il tempo impiegato ogni giorno per raggiungere la sede di lavoro non può considerarsi esplicazione di attività lavorativa vera e propria e pertanto non si somma al normale orario di lavoro salvo diverse previsioni contrattuali. Ciò discende dal fatto che l'indennità di trasferta è finalizzata a compensare il disagio psico-fisico e materiale correlato alla faticosità degli spostamenti. Trasferimento illegittimo per violazione di accordi sindacali Con sentenza n. 4771 del 9 marzo 2004, la Cassazione ha affermato che è illegittimo il trasferimento di un lavoratore in violazione dell'accordo sindacale che aveva garantito uno stabile mantenimento dei livelli occupazioni nell'azienda indipendentemente dalle ragioni tecnico-produttive di esso. Patto di non concorrenza con il lavoratore Con sentenza n. 13282 del 10 settembre 2003, la Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia di patto di non concorrenza del lavoratore, di cui all'articolo 2125 del Codice Civile. Secondo la Cassazione, il patto di non concorrenza, previsto dall’articolo 2125 Cc, può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. Il giudice di merito deve, quindi, procedere a tale accertamento - da compiersi in relazione alla concreta personalità professionale dell’obbligato - e non può ritenere nullo il patto stesso per il solo fatto di non avere circoscritto l’obbligo di astensione del lavoratore alle attività esercitate presso il datore, di lavoro. Nel caso di specie, l'ex addetto marketing ufficio estero, di una nota società che produce e commercializza macchine per il fitness, si era impegnato ad astenersi in territorio italiano ed europeo, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto, verso il corrispettivo di lire 200.000 mensili, per tredici mensilità, dal prestare la propria opera, sia in qualità di lavoratore autonomo sia in qualità di lavoratore subordinato, in favore di aziende che producono e/o commercializzano articoli per il fitness, la preparazione atletica, la medicina dello sport, la riabilitazione, ecc. in concorrenza con la predetta società. Secondo la Cassazione, tale patto era stato quindi validamente stipulato poiché non avrebbe impedito al dipendente di svolgere, alla cessazione del rapporto di lavoro, un’attività di pari livello, utilizzando tutte le esperienze e la professionalità precedentemente maturate, non risultando compromessa in maniera gravosa la futura possibilità occupazionale del soggetto, che avrebbe potuto svolgere la sua attività in tutti i restanti settori merceologici non contemplati dal patto. Anche l’elemento territoriale del divieto, pur ampio, è stato correttamente rapportato dai giudici di merito alla concorde affermazione delle parti circa il livello dell'azienda leader del settore a livello internazionale ed alla notoria esigenza, per un’impresa di tale livello, di evitare distorsioni nella concorrenza in un mercato internazionale sempre più globale. Inoltre, l’elemento territoriale è stato ritenuto non eccessivamente ampio proprio se rapportato alle attività oggetto del patto, potendo, appunto, l’interessato dispiegare il proprio bagaglio professionale in Italia e in Europa in tutti i settori merceologici non coperti dal patto. La prescrizione delle provvigioni nel contratto di agenzia Con sentenza n. 9636 del 16 giugno 2003, la Corte di Cassazione ha affermato che la sospensione della prescrizione durante il decorso del rapporto di lavoro, conseguente alla sentenza n. 63/1966 della Corte Costituzionale, si riferisce solo alla retribuzione del lavoratore dipendente che gode della speciale garanzia derivante dall’rt. 36 della Costituzione e non è pertanto applicabile alle provvigioni spettanti all’agente; né tale differenziazione di disciplina può fondare alcun dubbio di costituzionalità per violazione del principio di uguaglianza. Estinzione del rapporto annullamento delle dimissioni Con sentenza n. 7485 del 14 maggio 2003 la Cassazione ha affermato che ai fini dell’annullamento delle dimissioni non è necessaria la totale privazione delle facoltà volitive ed intellettive ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente. Mansioni inferiori legittime se marginali ed accessorie Con sentenza n. 6714 del 2 maggio 2003 la Corte di Cassazione ha stabilito che:" una volta che l'attività prevalente ed assorbente del lavoratore rientri fra le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza, non viola i limiti esterni dello ius variandi - né frustra la funzione di tutela della professionalità, che ne risulta perseguita - l'adibizione del lavoratore stesso a mansioni inferiori, purché si tratti di mansioni che - oltre ad essere marginali ed accessorie, rispetto a quelle di competenza - non rientrino nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata." Prestazione di lavoro oltre il sesto giorno consecutivo: risarcimento Con sentenza n. 5207 del 3 aprile 2003, la Cassazione ha affermato che la mancata concessione del riposo settimanale è illecita ed al lavoratore spetta una maggiore remunerazione ‘, in considerazione della sua superiore gravosità. Qualora il lavoratore richieda, in relazione a tali modalità di prestazione, anche il risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute, è tenuto ad allegare e provare il pregiudizio nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti di cui all’art. 36 della Costituzione. Legge n. 104/92: riposo retribuito, per figlio disabile, in favore dell’unico genitore che lavora Secondo un recente indirizzo della Corte di Cassazione (Cass. 7707/2003) i genitori che hanno un figlio con problemi di handicap possono usufruire di permessi retribuiti anche se sono sposati e l’altro coniuge non lavora. Secondo la Corte lo scopo della legge è quello dell’assistenza all’handicappato: conseguentemente, se per una ragione qualsiasi chi vi è addetto continuamente, non può assisterlo convenientemente, la disposizione ammette una sua sostituzione almeno temporanea. Se questo soggetto è un lavoratore dipendente è “ovvio e necessario” che possa godere di brevi permessi retribuiti. Cassazione: revoca delle dimissioni Secondo un recente indirizzo della Corte di Cassazione (Cass. 7485/2003) le dimissioni di un lavoratore sottoposto a stato d’ansia, provocato da esaurimento nervoso, possono essere ritenute sufficienti, dal giudice di merito, a determinare la totale, per quanto momentanea, incapacità di intendere e di volere del lavoratore, con il conseguente annullamento delle dimissioni per “incapacità di intendere e di volere” ex art. 428 del codice civile. Raggiungimento del luogo di lavoro Con sentenza n. 5775 del 11 aprile 2003 la Corte di Cassazione ha affermato che il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro è ricompreso nell'attività lavorativa e va sommato al normale orario di lavoro, quando è funzionale rispetto alla prestazione. il carattere di funzionalità sussiste allorché il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia di volta in volta inviato in diverse località per svolgere la sua prestazione. Indennità di maternità per le lavoratrici agricole “autonome” Con sentenza n. 3364 del 6 marzo 2003, la Cassazione ha affermato che l’indennità giornaliera spettante per il periodo di astensione obbligatoria, non può essere erogata in epoca anteriore a quella in cui è stata presentata la domanda di iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli. Ferie e risoluzione del rapporto Con sentenza n. 2360 del 17 febbraio 2003, la Cassazione ha affermato che la norma contrattuale che attribuisce al lavoratore, in caso di risoluzione del rapporto, il diritto al periodo completo annuale di ferie alla condizione che nell’anno le stesse possano essere godute, prima della risoluzione, non esclude l’obbligo di corresponsione dell’indennità sostitutiva qualora la integrale fruizione sia risultata impossibile. Mobbing Con sentenza n. 3779 del 24 gennaio 2003, la seconda Sezione penale della Cassazione ha ritenuto ipotizzabile il delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p. nella ipotesi in cui nel settore delle imprese di pulizia si registrino casi in cui i responsabili adottino comportamenti tali da far accettare ai dipendenti trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle effettive prestazioni lavorative. Ferie: indennità sostitutiva Con sentenza n. 15776 del 9 novembre 2002, la Cassazione ha affermato che qualora il lavoratore non abbia goduto delle ferie e sia divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, consentirne la fruizione, ha il diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica, in misura pari alla retribuzione. Dimissioni: nullità per violenza morale del datore Con sentenza n. 12693 del 29 agosto 2002, la Cassazione ha affermato che ai fini dell’annullabilità dell’atto di dimissioni del lavoratore ottenuto con la minaccia del licenziamento, vanno valutate, oltre all’oggettiva natura intimidatoria o meno dell’invito alle dimissioni anche, in modo compiuto ed approfondito, le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro. Proclamazione dello sciopero e condotta antisindacale Con sentenza n. 9709 del 4 luglio 2002, la Cassazione ha affermato che non costituisce attività antisindacale il comportamento di un datore di lavoro che in caso di sciopero, disponga l’adibizione del personale rimasto in servizio alle mansioni dei lavoratori in sciopero, anche se ciò avvenga mediante l’assegnazione a mansioni inferiori. Transazioni e conciliazioni: tassazione delle indennità percepite Con sentenza n. 9111 del 21 giugno 2002, la Cassazione ha affermato che l’indennità corrisposta in sede transattivi dal datore di lavoro, a titolo del risarcimento del danno, per la reintegrazione delle energie psico-fisiche spese dal lavoratore oltre l’orario massimo di lavoro da lui esigibile, non è assoggettabile a tributo. Le somme percepite a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile solo e nei limiti in cui abbiano la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione dei redditi, in base all’art. 6, comma 2, del DPR n. 917/1986. Risoluzione del rapporto di lavoro Con sentenza n. 8102 del 4 giugno 2002, la Cassazione ha affermato che il rapporto di lavoro può risolversi, oltrechè mediante gli atti unilaterali di recesso di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c., per mezzo di negozi bilaterali riconducibili alla previsione di cui all’art. 1372, comma 1, c.c. (scioglimento del contratto per mutuo consenso). L’accertamento della risoluzione consensuale del rapporto costituisce un apprezzamento di fatto del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato. Successione di contratti collettivi aziendali Con sentenza n. 7318 del 20 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che in caso di successione di contratti collettivi aziendali tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all’originario accordo, sebbene non iscritti al sindacato, sono vincolati dall’accordo successivo e non possono invocare soltanto l’applicazione del primo. Transazione innanzi alla commissione provinciale di conciliazione, o in sede sindacale, o in sede giudiziale e contributi assicurativi Con sentenza n. 6663 del 9 maggio 2002, la Cassazione è intervenuta sul problema relativo alla assoggettabilità a contribuzioni obbligatorie delle erogazioni economiche del datore di lavoro previste in occasione di transazioni. La Corte ha osservato che il principio secondo cui le erogazioni dipendenti da transazioni aventi la finalità non di eliminare la “res dubia” oggetto della lite, ma di evitare il rischio della lite stessa e non contenenti un riconoscimento neppure parziale del diritto del lavoratore, debbono considerarsi in nesso non di dipendenza ma di occasionalità con il rapporto di lavoro e quindi non assoggettabili a contribuzione, va coordinato con il concetto, desumibile dall’art. 12 della legge n. 153/1969, secondo cui l’indagine del giudice di merito sulla natura retributiva o meno delle somme erogate al lavoratore non trova alcun limite nel titolo formale di tali erogazioni. Parimenti, esso va altresì coordinato con il principio che, nell’ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi, rientra tutto ciò che in denaro, o in natura, il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza o a causa del rapporto di lavoro, sicchè per escludere la computabilità di un istituto non è sufficiente la mancanza di uno stretto nesso di corrispettività, ma occorre che risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione. Allorquando un accordo transattivo sia stato preceduto dalla manifestazione di volontà del datore di lavoro di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro con un proprio dipendente e dalla richiesta, da parte di quest’ultimo, di una somma di denaro, quale condizione per addivenire alla risoluzione consensuale del rapporto, alla corresponsione di una somma in denaro, erogata in esecuzione di quell’accordo, deve essere riconosciuta natura retributiva, con conseguente assoggettamento della somma stessa a contribuzione previdenziale, In tale situazione, secondo la Corte, non può trovare applicazione l’art. 4, comma 2 bis, della legge n. 291/1998 che esclude dalla retribuzione imponibile le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro alfine di incentivare l’esodo dei lavoratori. Osserva la Corte che che ciò che difetta nel caso di specie è il presupposto, in quanto non sono stati interessati all’esodo una pluralità di lavoratori il cui posto di lavoro non è esposto al rischio della precarietà e che proprio per questa ragione devono essere incentivati a dimettersi attraverso la corresponsione di una gratifica. Prestazioni in natura ed obbligo contributivo Con sentenza n. 6494 del 7 maggio 2002, la Cassazione ha affermato che ove la retribuzione consista in tutto od in parte in natura e sia necessario, per la determinazione del valore ai fini contributivi, un decreto del Ministro del Lavoro, l’Ente previdenziale, qualora si sia in carenza di detto decreto, non può sostituirsi al Ministro e procedere direttamente alla determinazione della suddetta prestazione. Ferie e periodo di comporto Con sentenza n. 5824 del 22 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che non sussiste nell’ordinamento un principio generale di convertibilità, né è configurabile una regola di automatico prolungamento nel periodo di comporto per malattia (anche in assenza di una richiesta del lavoratore) per un tempo corrispondente ai giorni di ferie maturati e non goduti. Patto di non concorrenza: ambito applicativo Con sentenza n. 5691 del 10 aprile 2002, la Cassazione ha affermato che il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 c.c., può riguardare non soltanto i dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, ma anche coloro che, pur essendo impiegati in compiti non intellettuali (anche di natura esecutiva), operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale dalla utilizzazione (sia in corso di rapporto che successivamente) da parte dei lavoratori medesimi della lunga esperienza e delle numerose conoscenze acquisite alle sue dipendenze. (Nel caso di specie si trattava di un commesso addetto alla vendita di capi di abbigliamento). Forme di controllo sui lavoratori Con sentenza n. 4746 del 3 aprile 2002, la Cassazione ha legittimato il comportamento del datore di lavoro finalizzato all’uso del telefono aziendale. La Corte ha osservato che “ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dei lavoratori previsto dall’art. 4 della legge n. 300/1970, è necessario che il controllo riguardi direttamente od indirettamente l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (c.d. controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate o, appunto, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate. Lavoratore assente: sostituzione Con sentenza n. 3145 del 5 marzo 2002, la Cassazione ha affermato che per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest’ultimo il diritto alla promozione ex art. 2103 c.c., deve intendersi soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale o convenzionali del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell’azienda o in un’altra unità o reparto o, ancora, invitato a partecipare a corsi di formazione. Mobbing sessuale Con sentenza n. 6010 del 14 febbraio 2002, la terza Sezione Penale della Cassazione ha stabilito che commette il delitto di violenza sessuale previsto dall’art. 609-bis c.p. il datore di lavoro che, in maniera subdola, tocca, seppur fugacemente, la coscia di una dipendente, trattandosi di parte “del corpo femminile rientrante nella vasta gamma della c.d. appetibilità sessuale. Indennità sostitutiva per ferie non godute: assoggettabilità all’IRPEF Con sentenza n. 1713 del 2 febbraio 2002, la Cassazione ha ritenuto la piena assoggettabilità all’IRPEF della indennità corrisposta al lavoratore in sostituzione delle ferie non godute. Le motivazioni risiedono nelle seguenti considerazioni: a)assenza di perdita patrimoniale e, quindi, impossibilità di attribuire a tele compenso natura risarcitoria; b)natura e funzione di compenso in denaro percepito in dipendenza del rapporto di lavoro. Forme di controllo sui lavoratori Con sentenza n. 14957 del 27 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che la concessione di permessi per cure termali - stante la normale compatibilità di dette cure con il godimento delle ferie annuali - una certificazione medica specialistica contenente una espressa motivazione in ordine alla indifferibilità delle cure in rapporto alle esigenze terapeutiche e riabilitative derivanti dalla patologia in atto. Secondo la Corte non è sufficiente la semplice attestazione medica, con la formula stampigliata ("indilazionabile") della sussistenza del requisito clinico e medico legale previsto dalla normativa. Maternità delle libere professioniste Con sentenza n. 14814 del 22 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che il diritto delle libere professioniste iscritte ad una cassa di previdenza e assistenza a percepire l’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto ed i tre mesi successivi, ex art. 70 del D. L.vo n. 151/2001, spetta anche allorchè il rapporto assicurativo non copra tutto l’arco dei cinque mesi del periodo protetto, per essere stato costituito in epoca successiva al sessantesimo giorno precedente il parto, ben potendosi, in tal caso, frazionare l’indennità in rapporto al periodo di copertura assicurativa. Trasferta: nozione Con sentenza n. 14470 del 19 novembre 2001, la Cassazione ha fornito una definizione chiara dell'istituto della trasferta. Essa si distingue dal trasferimento essenzialmente per il suo carattere di provvisorietà, intesa come limite temporale dello spostamento del lavoratore. Ciò che è essenzialmente nella trasferta non è tanto il limite temporale(inseribile anche nel trasferimento), ma il legame funzionale con l'originario luogo di lavoro. CIGS: risarcimento del danno e prescrizione Con sentenza n. 13926 del 9 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che il comportamento del datore di lavoro il quale non consenta ad un proprio dipendente di rientrare in servizio dopo un periodo di integrazione salariale, seguendo il criterio prefissato della rotazione, costituisce un illecito contrattuale. Da ciò ne consegue che il lavoratore ha diritto a chiedere il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. . Tale diritto è assoggettato alla prescrizione ordinaria (cinque anni), anche nella ipotesi in cui sia stato quantificato sulla base delle retribuzioni non percepite. Giornalisti : iscrizione all’albo Con sentenza n. 13778 del 7 novembre 2001, la Cassazione ha affermato che la prestazione giornalistica di un soggetto privo dell’iscrizione all’albo è da considerare come resa da un soggetto privo del requisito e l’eventuale iscrizione dell’organismo professionale non può avere effetti retrodatati. Ovviamente, secondo un indirizzo gia espresso dalla Suprema Corte il 1° giugno 1998, il contratto di lavoro stipulato con un soggetto non iscritto all’albo è invalido ma non illecito nell’oggetto e nella causa e, pertanto, il lavoratore ha diritto, per il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione, al trattamento economico relativo all’attività espletata. Obbligo di fedeltà e divieto di concorrenza Con sentenza n. 13329 del 26 ottobre 2001, la Cassazione ha affrontato il problema dello svolgimento di un’attività lavorativa alle dipendenze di un’impresa in concorrenza con il datore di lavoro. Essa ha affermato che il divieto imposto dall’art. 2105 c.c. sotto il profilo della trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l’imprenditore si configura nel caso in cui esso consista in prestazioni di notevole autonomia e discrezionalità, dal momento che solo soggetti in possesso di una certa qualificazione al di fuori della ipotesi di divulgazione di notizie riservate e di metodi di lavoro particolari possono porre in essere quella concorrenza che il Legislatore ha voluto reprimere. Distacco del lavoratore: potere del datore di lavoro distaccante Con sentenza n. 10771 del 3 agosto 2001, la Cassazione ha ribadito che anche nel caso in cui vi è stato un distacco temporaneo di un lavoratore presso un altro imprenditore (che usufruisce dell'attività), rimangono in essere tutti i vincoli obbligatori tra distaccante e dipendente riconducibili al rapporto di lavoro. Trasferimento: La comparazione delle opposte esigenze Con sentenza n. 9459 del 12 luglio 2001, la Cassazione ha avuto modo di precisare che, nel caso in cui vi sia in corso una separazione tra coniugi e sussistendo per il genitore non affidatario i diritti ed i doveri previsti dall’art. 155 c.c. con la relativa esigenza della vicinanza al luogo di residenza del figlio, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una comparazione tra le opposte esigenze alfine di stabilire, nel rispetto della disciplina collettiva, la correttezza del trasferimento. Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il trasferimento in quanto le esigenze del lavoratore erano palesi (figlio gravemente malato), mentre era del tutto sfornita di prova l’esigenza della qualifica del lavoratore per l’azienda. Indennità di mobilità e lavoro autonomo Con sentenza n. 5951 del 21 aprile 2001, la Cassazione ha affermato che un lavoratore parttime posto in mobilità che svolge contestualmente attività di lavoro autonomo, può godere dell'indennità prevista dall'art. 7 della legge n. 233/1991, non essendo prevista alcuna incompatibilità. Mobbing Con sentenza n. 10090 del 12 marzo 2001, la sesta Sezione penale della Cassazione ha stabilito che commette il delitto di maltrattamento previsto dall'art. 572 c.p. il datore di lavoro che realizzi nei confronti di lavoratori dipendenti ripetute e sistematiche vessazioni atte a produrre in essi uno stato di abituale sofferenza fisica e morale. Mancato godimento delle ferie Con sentenza n. 7445 del 3 giugno 2000, la Cassazione ha stabilito che grava sul lavoratore l'onere della prova del mancato godimento delle ferie.