Accordatura e
temperamento:
cronaca di un
‘compromesso storico’
Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari
Dipartimento di Teoria, Analisi, Composizione e Direzione
Area dipartimentale di Musica antica
in collaborazione con
Università degli Studi “Aldo Moro” e Politecnico di Bari
Dipartimento Interateneo di Fisica “Michelangelo Merlin”
bari - 22 giugno 2016
ore 9.30/13 - 15.30/19
Aula A · Dipartimento Interateneo di Fisica
Accordatura e
temperamento:
cronaca di un
‘compromesso storico’
Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari
Dipartimento di Teoria, Analisi, Composizione e Direzione
Area dipartimentale di Musica antica
in collaborazione con
Università degli Studi “Aldo Moro” e Politecnico di Bari
Dipartimento Interateneo di Fisica “Michelangelo Merlin”
bari - 22 giugno 2016
ore 9.30/13 - 15.30/19
Aula A · Dipartimento Interateneo di Fisica
Conservatorio di Musica “Niccolò Piccinni” - Bari
Direttore onorario M° Riccardo Muti
Presidente Prof. Avv. Ida Maria Dentamaro
Direttore M° Gianpaolo Schiavo
Direttore amministrativo Dott.ssa Anna Maria Sforza
Direttore Ufficio di ragioneria Nicola Luisi
Coordinamento e libretto di sala a cura del Prof. Domenico Molinini
Domenico Molinini, Responsabile del convegno
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Dipartimento di Teoria, Analisi, Composizione e Direzione
Introduzione
Domenico Di Bari, Coordinatore dei Corso di Laurea in Fisica
Dipartimento Interateneo di Fisica Michelangelo Merlin di Bari
Musica e Fisica
Guido Cantalupi, docente di Liuto
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Area dipartimentale di Musica antica
Jacomo Gorzanis
Relatori
Federico Del Rosso, studente
Dipartimento Interateneo di Fisica
Michelangelo Merlin di Bari
già studente presso il Conservatorio
di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Il cammino del suono
Caterina Aruta, studentessa
Dipartimento Interateneo di Fisica
Michelangelo Merlin di Bari
Accordiamoci sull’accordatura
Marco Masiello, studente *
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Dalla dottrina dell’êthos alla teoria degli affetti
Angelo Colelli, studente
Dipartimento Interateneo di Fisica
Michelangelo Merlin di Bari
La propagazione del suono:
dall’anfiteatro greco a oggi
Giuseppe Amoruso, studente *
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Accordatura e Temperamento (nel corso della
relazione, con lo scopo di dimostrare la fruibilità
auditiva del temperamento mesotonico a ¼ di
tono, sono eseguiti il Preludio I in Do maggiore
BWV 846 di J. S. Bach, la Pavane in Fa# minore
ton de la chèvre di L. Couperin, la Romanesca
di Antonio Valente. Clavicembalista, Giuseppe
Gaeta, studente – Conservatorio di Musica Niccolò
Piccinni di Bari - Corso di Clavicembalo della
Prof.ssa Vera Alcalay)
Francesca De Carlo, studentessa *
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Consonanza e dissonanza:
storia di un binomio indissolubile
Cristina di Lecce, Viviana Viggiano, studentesse
Dipartimento Interateneo di Fisica
Michelangelo Merlin
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Battimenti e figure di Lissajous:
la danza dei suoni
Lazzaro Cicolella, studente *
Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari
Dimostrazioni con il programma elettronico
Zarlino, progettato ad hoc per il convegno
Concerto
Jacomo Gorzanis (1520 ca.-1575/1579) - Ventiquattro salterelli e passamezzi in tutti i tuoni
Liutisti: Diego Cantalupi, docente di Liuto; Fabio Armenise, Angela Lacalamita, studenti Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari – Corso di Liuto del Prof. Diego Cantalupi
* Studenti dei corsi dei Proff. Domenico Molinini; Vincenzo Pannarale; Nicoletta Sciangalepore
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Introduzione
Domenico Molinini
Il 22 Giugno 2016, nell’Aula A del Dipartimento Interateneo di Fisica Michelangelo Merlin di Bari, si
tiene un convegno sull’accordatura e sul temperamento.
Accordare uno strumento musicale, per ottenerne i suoni corrispondenti alle immagini sonore ‘sentite’
nella mente, è una pratica antica, messa in atto dopo aver operato con discernimento una segmentazione del continuum sonoro, ottenendo una partizione che si traduce in una serie di suoni differenti;
una gamma di entità sonore definite e, per questo, in qualche maniera diversamente ‘intervallate’ l’una
dall’altra.
Di quest’operazione di discernimento l’occidente è in debito verso la Grecia. Nel 146 a.C. Roma conquista la Grecia, e a Roma giungono musici, intellettuali, artisti e filosofi. Per un processo che si potrebbe
definire di contaminatio, l’intero sistema culturale romano è condizionato da quello greco. L’occidente,
pertanto, assimila il sistema musicale greco, pur compiendo una rielaborazione in una prospettiva storicamente consapevole, e eredita il dibattito teorico sulle relazioni fra intervalli, che animerà la storia della
teoria degli intervalli nella musica colta occidentale, aperto dai pitagorici (in particolare Filolao e Archita), che elaborano il metodo sperimentale basato sul monocordo (strumento costituito da una corda
tesa, su cui scorre un ponticello mobile) e ricostruiscono l’ampiezza degli intervalli individuando il loro
valore grazie a parametri numerici. La scoperta dei pitagorici prelude alle scale musicali, e gli intervalli
sono forieri del concetto di consonanza per stabilire l’autenticità della quale i pitagorici tengono conto
dei numeri della frazione a essa corrispondente, così come per dimezzare un intervallo controllano che
l’operazione sia esprimibile come rapporto soddisfatto solo se avvenga tra numeri interi.
Dopo l’invenzione di quella pitagorica, l’accordatura, con l’avvento della polifonia, per gli strumenti
musicali a suoni fissi diventa una questione problematica: suoni posti sullo stesso asse temporale, se
formano intervalli consonanti, ‘devono suonare bene insieme’, e pertanto devono essere ‘bene temperati’.
Ma si tratta di un obiettivo non perseguibile: a partire dal temperamento pitagorico cui seguono in ordine cronologico il mesotonico, il ben temperato, e l’equabile, in ognuno di essi, a parte le consonanze di
ottava, vi sono problemi con le quinte e le terze. Nel sistema pitagorico non tutte le quinte sono perfette;
nel mesotonico tutte le quinte sono leggermente calanti, a eccezione di una che è fortemente crescente.
Il passaggio che avviene verso il 1680 dal temperamento mesotonico al ‘buon temperamento’, emblematicamente fissato e celebrato dal Das wohltemperirte Clavier di J. S. Bach (e non wohltemperierte Klavier,
come spesso è scritto) è dovuto all’imporsi del ‘pensiero tonale’ e della pratica della modulazione che
non è compatibile col sistema pitagorico, né col mesotonico: ammettendo di aver predisposto una scala
in modo che il terzo e il quinto grado siano consonanze perfette rispetto alla tonica, non appena cambiamo tonalità in generale la nuova tonica non formerà più consonanze perfette con il nuovo terzo e quinto
grado. Bach, dal canto suo, allorquando scrive Das wohltemperirte Clavier, ossia ‘la tastiera ben temperata’, non si riferisce neppure minimamente al temperamento a gradi equalizzati, quanto piuttosto a un
‘buon temperamento ineguale’, dove tutte le terze tra loro, e ugualmente le quinte, siano temperate in
maniera appena diversa, allo scopo di chiudere il circolo delle quinte nella cosiddetta accordatura ciclica.
Ma la questione dei temperamenti include anche il loro stretto legame con gli affetti, topos del Rinascimento e del Barocco, che affonda le sue radici nella dottrina dell’êthos della Grecia antica.
Accordatura e temperamento sono un binomio che si aggetta fino alla contemporaneità, dialettico al suo
interno, e ancor più all’esterno, e che anima il dibattito dei compositori-trattatisti in un contradditorio
che talvolta sfocia in un clima di aperta conflittualità.
L’area tematica del convegno, affidata alle relazioni degli studenti del Conservatorio e del Dipartimento Interateneo di Fisica, muove dall’accordatura pitagorica; si sofferma sulle teorie della consonanza;
prende in esame altre accordature concepite nel corso della storia del pensiero musicale, include aspetti
scientifici e problematici, compresi quelli relativi alla costruzione degli strumenti musicali.
La presenza di un clavicembalo a due tastiere con i registri precedentemente accordati, e di un programma, che abbiamo chiamato Zarlino, progettato per l’occasione da uno studente del Conservatorio,
esperto di informatica, sono un utile sussido all’ascolto di esempi musicali eseguiti con differenti temperamenti.
Il convegno si conclude soffermandosi sul temperamento mesotonico a ¼ di comma, con un concerto
in cui, di Jacomo Gorzanis, compositore, cieco, nato in Puglia (Bari?) nel 1520 ca. e morto a Trieste tra
il 1575 e il 1579, saranno eseguiti in prima assoluta i 24 saltarelli e passamezzi in tutti i tuoni (Mus. Ms.
1511a della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco), nella revisione e edizione moderna in intavolatura
per liuto di Diego Cantalupi. Questo convegno è per lo scrivente un momento di gioia, poiché vede la
Musica nell’Università, trattata così come lo è stata per secoli nel Quadrivium, quando essere scientia
nulla toglieva all’essere ars, e essere ars non escludeva il fatto di essere scientia.
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Musica e Fisica
Domenico Di Bari
Da anni il Dipartimento Interateneo di Fisica organizza eventi in cui le note accompagnano e si mescolano alla scienza, a riprova di un’antica sinergia tra la meraviglia delle infinite possibili armonie sonore
e l’inesauribile sorpresa di straordinarie consonanze nelle leggi fisiche.
Infatti, periodicamente il Dipartimento riunisce studenti e professori in kermesse musicali, nelle quali
gli uni e gli altri possono proporsi come spettatori o come diretti esecutori di brani di ogni genere: discenti e docenti si esibiscono volentieri, anche improvvisando ensemble assortiti per l’occasione, in cui
danno prova di passione e competenza.
L’interesse e la partecipazione suscitati testimoniano quanto l’impegno per lo studio della fisica conviva
spesso con l’attenzione e l’attitudine per la musica.
Anche la storia attesta questo ricorrente intreccio. Come se le note combinate nell’armonia delle composizioni musicali abbiano avuto da sempre profonde affinità con i numeri accordati dalla sintonia
cosmologica delle leggi fisiche:
Vincentio Galilei, musicista e padre di Galileo, stabilì nel XVI secolo regole che corrispondono a quelle
del Metodo Scientifico galileiano.
Riprendendo la percezione di Pitagora della sinfonia planetaria, nella fantasia di G. Keplero il cosmo si
dispiegava come uno sconfinato pentagramma, sul quale le orbite dei corpi celesti tracciano note che
fanno vibrare melodicamente l’universo.
A. Einstein, figlio di una pianista virtuosa, affermava: “…se non fossi stato un fisico, probabilmente sarei
stato un musicista” “ …penso spesso in musica” “…vedo la mia vita in termini musicali…”, a viva testimonianza della connessione tra intuizione e conoscenza.
R. Feynman fisico teorico impararò a suonare la frigideira, un particolare strumento a percussione,
durante una permanenza in Brasile, continuando in seguito a suonare per tutta la vita, in particolare i
bongos, tanto da definirsi “Nobelist Phisicist, teacher, storyteller, bongo player”.
La scoperta dei segreti del mondo della musica, d’altronde, parte dal concetto di generazione e propagazione di un’onda fino ai fattori implicati nell’intensità di emissione di un suono, cosicché l’arte dei suoni
possa essere considerata come un sistema organizzato di vibrazioni, in cui a conferire il colore a ogni
nota è la concomitanza di specifiche frequenze.
Per questo ho accolto con entusiasmo il suggerimento del collega Nicola Cufaro - coinvolto a pieno titolo in qualità di violinista nel mondo della musica - di organizzare l’evento da svolgersi congiuntamente
con il Conservatorio di Musica Niccolò Piccini di Bari mi è parsa un’occasione imperdibile per mettere in
risalto lo stretto primigenio rapporto tra aspetto artistico e aspetto scientifico del suono.
Gli studenti del corso di laurea proporranno relazioni dedicate all’ancestrale connessione tra fisica e musica, evidenziando quanto realmente sulle righe del pentagramma rigore e bellezza trovino uno spazio
inesauribile per fondersi in modo sempre nuovo in multiformi accordi di note e numeri.
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Jacomo Gorzanis
Diego Cantalupi
Le informazioni biografiche attorno alla figura di Giacomo Gorzanis sono scarsissime, in particolare
quelle riguardanti la prima parte della sua vita. Già nel frontespizio della sua prima opera a stampa (l’Intabolatura di liuto - Libro primo, stampata a Venezia nel 1561) ama definirsi ‘cieco, pugliese, habitante
nella città di Trieste’. Nacque, quindi, in Puglia, probabilmente tra il 1520 e il 1525, anche se il cognome
Gorzanis, dal quale deriverebbe l’odierno Gortani, è un nome comune in Friuli.
Dal 19 maggio al 15 settembre 1484 Gallipoli fu in mano ai Veneziani, e il 28 maggio 1487 il Senato veneto nominava Bartolomeo Zorzi provveditore della cittadina pugliese. Potrebbe essere un ricordo della
colonia veneta in Puglia il saltarello ‘detto il Zorzi’ del primo libro d’intavolatura di Gorzanis? È solo
un’ipotesi. A Gallipoli i registri dei battezzati iniziano solo dal 1541, anno in cui Gorzanis doveva essere
almeno ventenne, per cui non è possibile individuare un atto di battesimo del nostro compositore.
La presa di Gallipoli da parte dei Veneziani turbò solo per qualche mese l’intenso scambio di merci tra
Veneto, Puglia e Carinzia nei secolo XV e XVI: I veneziani impedivano la nostra navigazione depredando
le barche di Trieste che ci portavano le provvigioni di olio dalla Puglia, lamenta infatti lo storico Morelli
di Schönfeld; inoltre nella prima metà del 1500, gli Asburgo avevano fissato delle rappresentanze rette
da ‘consoli’, nelle Marche e in Puglia.
I nati in Puglia con nomi veneti sono molti, e fra questi non sarebbe difficile inserire il Gorzanis. Tuttavia, nei principali archivi di Bari, Taranto e Lecce non sono mai state trovate tracce di questo cognome.
Possiamo solo ipotizzare che si sia formato alla scuola del Felis, del Nenna, e degli altri contemporanei
pugliesi, senza ricorrere ai quali, rimanendo nei confini di Trieste e dell’Istria, sarebbe impossibile spiegare l’origine della sua musica, e delle sue napolitane in particolare.
Anche le notizie riguardanti la diffusione del liuto in Puglia sono scarse, ma il drammaturgo Luigi
Groto, detto “il Cieco d’Adria” (Adria, 8 settembre 1541 – Venezia, 13 dicembre 1585), ci informa che i
musici di Puglia guariscono i melitori imperversanti per lo morso della tarantola co’ leuti (lettere famigliari, Venezia 1606, p. 101).
Almeno fino al 1561, non abbiamo quindi tracce in Puglia del ‘cieco Pugliese’, né a Trieste dell’habitante
nella città di Trieste: in questa città probabilmente risiedeva, ma i Signori a cui dedicava le sue opere
agivano in un’area più vasta: da Gorizia a Vienna ad Augsburg. Alcuni suoi lavori giunsero in Inghilterra: ricercari e passamezzi pubblicati tra il 1561 e il 1579 si trovano infatti nella raccolta manoscritta
per liuto nota come Dallis pupil’s lutebook (1583-85; Dublino, Trinity College Library, ms. 410/1). Ma
soprattutto è dai nomi dei destinatari delle dediche dei suoi libri che si comprende come il Gorzanis
instaurò rapporti con alti dignitari della corte dell’imperatore Massimiliano II, e con lo stesso arciduca
dell’Austria Interiore, Carlo, cui è dedicato Il secondo libro delle napolitane a tre voci
Nel 1579 le ultime fatiche del Gorzanis sono raccolte dal figlio Massimiliano nell’Opera nova de lauto,
libro quarto; in quest’ultimo anno Gorzanis era già morto, ma non sappiamo esattamente dove né quando sia morto, come non sappiamo dove né quando sia nato.
Ma, citando Agostina Zecca Laterza, una delle prime studiose del Gorzanis, cosa potrebbero aggiungere
due date all’opera del ‘suonatore ambulante’ che, oggi, come nel Cinquecento, richiama l’attenzione di passanti frettolosi?
Il Manoscritto 1511a della Biblioteca di Monaco
Un capitolo importante nell’opera del Gorzanis è rappresentato dal manoscritto datato 1567 (Monaco,
Staatsbibliothek, Mus. Ms. 1511a), dal semplice titolo Libro de intabulatura di liuto.
Nel frontespizio si legge: Libro de Intabulatura di Liuto nel qualle si contengano vinti quatro passa mezi
dodeci per be molle et dodeci perbe quadro sopra dodeci chiaue nouamente composte con alcune napollitanae […]; esso contiene, oltre a sette napolitane, un ricercare, e 24 saltarelli abbinati ai 24 passamezzi, dei
quali rappresentano una variazione ritmica, pur condividendo la stessa struttura armonica.
Questi 24 brevissimi dittici, coppia di passamezzo e saltarello, di cui 12 di modo minore e 12 di modo
maggiore, sono composti a partire dal suono più basso del liuto, ascendendo progressivamente su ognuno dei 12 semitoni della scala cromatica.
Tale opera riveste un’importanza particolare, perché, anticipando di circa un secolo e mezzo il Das wohltemperirte Clavier [ossia ‘la tastiera ben temperata’] di J.S. Bach, rappresenta il primissimo esempio di
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ciclo compositivo svolto su tutti i dodici suoni della scala per uno strumento, come il liuto, che praticava
di fatto, data la sistemazione dei suoi tasti, il temperamento equabile.
L’uso di un sistema equabile sul liuto è testimoniato sino dalla prima metà del Cinquecento da importanti teorici quali Zarlino, Artusi, Salinas, Praetorius e Mersenne.
Lo stesso Vincenzo Galilei, nel 1582, fornirà le istruzioni per il calcolo della posizione dei tasti del liuto
avvicinandosi a un temperamento pressoché equabile.
La piacevolezza del risultato sonoro di un temperamento circolante, per noi scontata, non era tuttavia
condivisa; Nicola Vicentino nel 1555 dedicherà il capitolo V della sua Antica Musica ridotta alla Moderna prattica alla “dichiarazione sopra li difetti del Lauto […] che finora sempre s’ha suonato con la divisione
dei semituoni pari”.
A nostro avviso quest’opera rappresenta il primo tentativo da parte di un ‘musico prattico’ di dare una
risposta al dibattito, molto acceso attorno alla metà del XVI secolo, circa la divisibilità dell’ottava in dodici parti uguali; progetto molto difficile da realizzare su uno strumento a tasto, ma estremamente più
adatto a uno strumento a manico tastato come il liuto.
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Il cammino del suono
Federico Del Rosso
Vi siete mai domandati che cosa sia esattamente il suono, e in che modo questo possa viaggiare dalla
sorgente all’orecchio dell’ascoltatore? Per rispondere a tali domande facciamo innanzitutto alcune osservazioni di carattere sperimentale. Quando gettiamo un sasso in uno specchio d’acqua, vediamo formarsi
sulla sua superficie, a partire dal punto in cui il sasso l’ha colpita, una serie di increspature concentriche
che chiamiamo onde. Inoltre, se sull’acqua galleggia un pezzetto di legno, quest’ultimo, al passaggio delle
onde, si solleva e si abbassa ma non si allontana mai dal punto in cui si
trova. La propagazione delle onde avviene infatti senza che le particelle
d’acqua subiscano uno spostamento orizzontale, ma solo verticale.
Qualcosa di simile accade nell’aria quando essa viene colpita da una vibrazione emessa da una sorgente sonora. I suoni, infatti, si propagano
nell’aria mediante una successione di compressioni e espansioni, dette
onde sonore. D’altra parte, i suoni sono in grado di viaggiare anche nei
solidi e nei liquidi: se percuotiamo a esempio l’orlo di un bicchiere con
la lama di un coltello, otterremo un segnale acustico e, allo stesso tempo,
toccando il bicchiere, potremo sentire che esso entra in vibrazione. In questi casi il suono è dovuto alle
oscillazioni reticolari dei corpi elastici. Le vibrazioni del vetro si trasmettono poi all’aria circostante e
giungono infine al nostro orecchio. Quest’ultimo è in grado di percepire le onde sonore purché esse non
siano contraddistinte da una frequenza inferiore a 16 battiti al secondo e non superiore a 40.000 battiti
al secondo. Una caratteristica importante del suono è che esso non si trasmette nello spazio vuoto, ha
infatti bisogno di un mezzo elastico in cui propagarsi. Questa proprietà può essere messa in evidenza
facendo trillare a esempio una sveglia posta sotto una campana di vetro da cui è stata tolta l’aria: nessun
segnale acustico giunge all’esterno.
Sempre sperimentalmente si osserva che le onde sonore sono longitudinali. Ciò significa che le vibrazioni delle particelle (atomi e molecole) che compongono il mezzo in cui si propaga l’onda sono parallele
alla direzione di propagazione della stessa. In generale la velocità con cui una perturbazione sonora
viaggia dipende dai parametri elastici del mezzo di propagazione, in quanto è proprio dal grado di deformazione e dalla reazione elastica che trae origine il meccanismo della propagazione. La velocità non
dipende invece dalle caratteristiche intrinseche dell’onda sonora, ma è stato provato sperimentalmente
che essa aumenta al crescere della temperatura e della densità del mezzo. Il suono viaggia quindi più
rapidamente nei materiali più densi. Lo dimostra il fatto che le onde sonore si propagano nell’aria più
lentamente che nell’acqua, e nell’acqua più lentamente che nel ferro (pensate a esempio ai binari ferroviari quando sta per sopraggiungere un treno).
Spostiamoci adesso in un contesto più teorico. Spesso in fisica, quando si desidera descrivere quantitativamente un certo fenomeno, si costruisce per prima cosa un suo modello. Un modello è sostanzialmente una rappresentazione concettuale di un avvenimento reale in cui intervengono un oggetto
oppure un sistema inteso come un complesso di elementi interagenti. Un modello è quindi ben distinto
dal fenomeno che esso riproduce. In generale, i modelli possono essere, sia qualitativi, sia quantitativi:
la maggior parte dei modelli fisici fa parte della seconda categoria, in quanto
essi sono espressi attraverso il linguaggio della matematica. La modellizzazione
di un sistema fisico non è comunque un’attività del tutto mentale in quanto,
sebbene basata sull’applicazione dei principi basilari di una teoria, essa prevede
anche l’interazione con oggetti reali nelle attività di osservazione e sperimentazione. Un esempio di modello molto utilizzato in fisica (soprattutto in acustica)
è costituito dall’oscillatore armonico semplice, il quale è rivolto alla descrizione
di un qualsiasi sistema dinamico che compie piccole oscillazioni nei pressi di
una posizione di equilibrio stabile, come il pendolo rappresentato in figura.
Per descrivere le modalità di propagazione del suono attraverso un mezzo materiale (diverso dall’aria),
si utilizza un modello molto semplificato. Quest’ultimo è basato principalmente sulla seguente ipotesi:
nonostante le onde sonore si propaghino a partire dalla sorgente in tutte le direzioni, ci si focalizza soltanto su una di queste, vale a dire si considera solo la piccola frazione di onde che, una volta originatasi
dalla sorgente, si propaga soltanto lungo una direzione prefissata, a esempio quella congiungente la
sorgente con l’orecchio dell’ascoltatore. Il modello unidimensionale che si desidera analizzare è pertanto
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schematizzabile attraverso un insieme di tante particelle (gli atomi del mezzo) allineate e separate in
condizioni di equilibrio da una distanza costante per tutte. Immaginiamo poi di collegare due particelle
adiacenti con una molla e estendiamo tale configurazione a tutte le coppie di particelle contigue. Tali
molle (che nella realtà ovviamente non esistono) servono a modellizzare la forza elastica che sentono
gli atomi del mezzo nel momento in cui questi vengono spostati dalle rispettive posizioni di equilibrio.
È importante inoltre ipotizzare che le varie particelle possano
compiere piccole oscillazioni soltanto lungo l’asse delle molle:
questo assicura, di fatto, il carattere longitudinale delle onde
sonore. Il sistema fisico appena descritto è rappresentato nella
figura seguente.
Nel momento in cui si esamina tale modello da un punto di
vista fisico-matematico si nota che, con l’aumentare del numero di particelle e col diminuire delle distanze relative, la descrizione del moto delle singole particelle
diventa sempre più complessa. Si scopre infatti che il nostro sistema (il quale è composto da tanti oscillatori armonici accoppiati) è soggetto ad una serie di moti collettivi che coinvolgono tutte le particelle,
in maniera non indipendente l’una dall’altra. Ebbene, un tale fenomeno è molto difficile da riprodurre
matematicamente. Tuttavia la fisica fornisce sempre una soluzione ai vari problemi! Attraverso alcuni
accorgimenti di carattere matematico, è infatti possibile riformulare opportunamente il problema in
esame e scoprire così che il sistema degli oscillatori armonici accoppiati è in realtà decomponibile in
un insieme di oscillatori armonici indipendenti, ciascuno caratterizzato da una frequenza propria di
oscillazione che dipende principalmente dai parametri fisici del mezzo. Questi oscillatori indipendenti
si chiamano modi normali e, più in generale, rappresentano una caratteristica assimilabile ad ogni sistema vibrante (sia esso meccanico, elettrico o acustico). Ad ogni modo normale corrisponde quindi
una particolare frequenza di oscillazione, ma è
bene sottolineare che non è verificato anche il
viceversa: ad una stessa frequenza possono infatti essere associati diversi modi normali. Nella
figura seguente sono illustrati i due modi oscillatori corrispondenti ad un sistema composto di
due sole particelle ad estremi fissi.
L’importanza della conoscenza dei vari modi di oscillazione appartenenti ad un qualsiasi sistema vibrante risiede in alcune loro interessanti proprietà:
1) i modi normali sono sempre indipendenti tra di loro;
2) qualunque modo di vibrazione di un sistema, per quanto complesso sia, può essere descritto combinando opportunamente i suoi modi normali;
3) tutte le parti di un sistema decomposto nei suoi modi normali si muovono di moto armonico semplice. Di conseguenza un modo normale è definito essenzialmente da una sola frequenza, ampiezza
e fase, indipendentemente dal numero degli oscillatori elementari che compongono il sistema.
In sintesi, lo studio dei modi normali permette di scomporre un qualsiasi moto oscillatorio (comunque
complesso) in componenti armoniche semplici, rivelando così la dinamica interna del sistema.
Diamo infine alcuni cenni relativamente al fenomeno della propagazione delle onde sonore nei gas (e
quindi anche nell’aria). A differenza di quel che avviene per i solidi, nei gas e nei vapori le molecole sono
maggiormente libere di muoversi, senza essere legate le une alle altre da intense forze. Infatti possiamo
cambiare la forma di un gas senza che questo opponga resistenza. Tuttavia un gas manifesta un comportamento tipicamente elastico quando lo si comprime. Precisamente, confinando le molecole in spazi
sempre più piccoli, si aumenta la pressione che esse esercitano sulle pareti del recipiente che contiene
il gas, e poi, quando gli spazi diventano ancora più piccoli, le molecole iniziano ad interagire tra di
loro. Di conseguenza le uniche onde che possono propagarsi in un gas sono onde di compressione e di
espansione. Quando queste sono caratterizzate da frequenze comprese tra 20 Hz e 20.000 Hz circa, esse
si comportano a tutti gli effetti come onde sonore.
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La propagazione del suono:
dall’anfiteatro greco a oggi
Angelo Colelli
L’accordatura è il punto di partenza per la buona riuscita di un’esecuzione musicale. È altrettanto importante l’ambiente in cui questa viene eseguita. È comune accettare l’idea che ascoltare musica sinfonica
in un capannone industriale spoglio, sia cosa ben diversa, bellezza estetica a parte, dall’apprezzarla nella
Goldener Saal del Musikverein di Vienna. Un po’ meno comune è l’idea che la musica da camera affascinerà il pubblico maggiormente se eseguita in un ambiente più piccolo rispetto alla Sala Dorata sopra
citata. Non è un caso, infatti, che il tempio della musica viennese abbia al suo interno la Brahmssall
dedita a questo scopo. La differenza di tutto ciò sta in come la musica, o meglio, fisicamente parlando,
le onde sonore si propagano ed interagiscono con l’ambiente circostante. La branca della Fisica che si
occupa di studiare tali fenomeni, prende il nome di Acustica. Vediamo, quindi, come l’Acustica nasce e
si sviluppa dal Mondo Greco fino ai giorni nostri.
I Greci sono noti per le loro straordinarie Tragedie e Commedie dai contenuti ancora attuali. Il primo luogo di spettacolo fu, in principio, un semplice spiazzo. Intorno al VI-V
sec. a. C., prende forma il Teatro Greco composto essenzialmente da Cavea, Orchestra e Scaena.
Gradinate di forma semicircolare, suddivise per gerarchie
sociali, poggiate su un pendio naturale, formavano la Cavea
adibita ad ospitare l’uditorio. Nell’Orchestra, posizionata al
centro della Cavea, si posizionava il coro; gli attori, invece,
di fronte nella struttura chiamata Scaena, successivamente,
estesa con un proscenio.
L’approccio all’Acustica, in primis con Pitagora (VI sec. a. C.) e Aristosseno (VI sec. a. C.), è di natura
osservativa. Il suono giungeva al pubblico per via diretta e sfruttare le brezze ascendenti aiutava il suo
diffondersi. Si è visto, infatti, che i teatri greci ed anche romani, presenti nel Sud Italia, sono esposti verso
il mare per il 70% dei casi. La brezza di mare pomeridiana agevola la propagazione del suono lungo le
gradinate costruite in modo da non ostacolare ciò. L’uso di un muro come fondale del proscenio serviva
a riflettere la voce nel teatro ed eliminare i rumori di fondo. I Greci, inoltre, erano a conoscenza del fenomeno secondo cui un onda sonora si riflette diversamente a seconda del materiale con cui interagisce
e dalla posizione di quest’ultimo. Ciò spiega l’uso di pietre differenti per la costruzione delle gradinate.
Esempio di Teatro Greco per eccellenza è quello di Epidauro costruito nel 360 a. C. da Polykleitos.
Per via della forma ellissoidale se si prova a strappare un foglio in uno dei due fuochi si osserva che il
suono si propaga fino alle gradinate più alte. Secondo moderni studi, tale fenomeno non è solo dovuto
alle onde dirette e a quelle riflesse dal proscenio, ma, anche alla riflessione del suono diretto contro le
gradinate alle spalle degli spettatori che fungono da retro riflettori.
Il Teatro Romano nasce, a partire dal I sec. a. C., seppur con qualche variazione, sul modello di quello
greco. La cavea gradinata viene mantenuta, ma, la profonda differenza sta nel fatto che i romani svilupparono, grazie a strutture a volte e blocchi di pietra, dei veri e propri edifici monumentali svincolandosi
dai pendii naturali.
Con Vitruvio e il suo De Architectura si ha il primo testo in cui si parla di regole di costruzione dettate
da ragioni acustiche. Ritroviamo, infatti, il suggerimento di costruire la cavea in modo che, in sezione,
gli spigoli siano uniti da un filo teso, al fine di non ostacolare l’onda sonora.
Esempio di teatro romano è l’Arena di Verona: tempio della Lirica,
oggi. A rendere tale edificio ottimo per tali rappresentazioni è di certo la forma ellittica: la posizione del palco, in un’area prossima al
fuoco, non è solo un’esigenza per massimizzare i posti a sedere.
Dopo Vitruvio si aprirà un profondo silenzio che verrà interrotto mille anni dopo da Leon Battista Alberti che riprenderà il testo dell’architetto romano ampliandolo. Nel “De Re Aedificatoria”
(1485) si legge, infatti, di come l’effetto acustico dei teatri romani variava con la presenza dei velari
eretti sulla scaena per riparare dalle intemperie. Con la presenza di questi ultimi, inconsciamente, si
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trasforma l’ambiente da aperto a chiuso introducendo il fenomeno del riverbero la cui spiegazione sarà
data più avanti.
Nel Cinquecento, all’interno dei palazzi nobili sorgono sale per l’ascolto di musica da camera; non sono
molto grandi, essendo rivolte a un pubblico di poche persone, e hanno la caratteristica forma parallelepipeda detta ‘a scatola di scarpe’. Anche qui, inconsciamente, tale forma sarà ripresa per la costruzione
di sale da concerto nel Settecento e nell’Ottocento, e risulterà essere vincente per i motivi che verranno
successivamente esposti.
Nasce quindi la necessità di trattare l’Acustica negli spazi chiusi. Nel trattato Phonurgia Nova di Athanasius Kircher (1673) si trova uno studio riguardo la riflessione del suono a seconda della forma degli
ambienti. Vi si osserva che l’idea è di trattare le onde sonore come raggi. Se la sala ha una soffitto ellittico
vi sarà una zona di alta concentrazione del suono.
A parte lo studio di Kircher, regole empiriche, esperienza, e estro guidarono la progettazione dei teatri tra il Seicento e l’Ottocento. Con il trattato The Theory of Sound di Sir Lord Rayleigh (1877) l’Acustica diviene
una vera e propria Scienza.
A dotare l’Acustica di un’impostazione rigorosa fu il fisico americano W.
C. Sabine. Egli fu interpellato per porre rimedio alla pessima acustica
della Hall del Fogg Art Museum, della Harvard University, ove era docente. Servendosi di una canna d’organo che emetteva una nota per un
tempo fissato osservò che il suono persisteva per 5,5 secondi dopo l’interruzione: ecco il fenomeno del
riverbero. Il valore non differiva molto in presenza del pubblico. Sabine intuì, presto, che poteva variare
il riverbero aggiungendo volume assorbente e così fece servendosi di cuscini. Ecco come la teorizzazione dell’Acustica nasce e si sviluppa in perfetto stile galileiano: osservazione del fenomeno e successiva
modellizzazione tramite la matematica! Celebre è ancora oggi il testo Collected Paper on Acoustic di
W.C. Sabine.
Il modello più semplice è quello della ‘acustica geometrica’ che assimila le onde sonore a raggi sonori assumendo che essi si riflettano specularmente. Tale metodo è aderente alla realtà se la lunghezza d’onda,
λ, delle onde sonore in esame è ridotta rispetto alle dimensioni dell’ambiente in esame. Tale approccio
è analogo a quello dell’ottica in cui la luce viene emessa sotto forma di raggi. Nell’ipotesi che le superfici
riflettenti siano lisce ed estese (rispetto alla λ), i raggi riflessi avranno lo stesso angolo di incidenza.
Diversamente si avrà riflessione diffusa.
Tale figura evidenzia, in alto, una superficie che riflette il suono nel modo appena descritto creando, di conseguenza, una propagazione uniforme nella sala. Al
contrario, in basso, si osserva una concentrazione di onde in un punto particolare cosa che non contribuisce ad un buon ascolto.
Fondamentale è la forma di tali superfici: se convesse si ha dispersione di raggi
sonori; se concave possiamo avere zone di maggiore concentrazione. Le prime,
ad esempio, possono essere usate per indebolire riflessioni indesiderate.
La riflessione dà luogo al fenomeno dell’eco.
In riferimento alla figura a lato, indichiamo con C1 il cammino diretto e C2 il cammino che presenta una riflessione. Si vede che C1
sarà sempre minore di C2. Ciò implica che all’ascoltatore il suono
riflesso giungerà con un ritardo temporale. Si avranno tre casi in cui
l’ascoltatore percepisce:
Due suoni distinti
Un suono unico, ma, prolungato (riverbero)
Un suono unico e rafforzato
Osserviamo che 1/10s è il tempo minimo affinché l’orecchio percepisca due suoni distinti
La distanza minima per il verificarsi dell’eco è
(assumendo pari a 340m/s la
velocità di propagazione del suono nell’aria ad una temperatura di 20°C). Al di sotto di tale distanza, si
percepirà riverbero. Vediamo nello specifico di cosa si tratta.
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Generalizzando quanto appena detto, supponiamo che un’onda acustica si propaghi isotropicamente,
ovvero senza una direzione privilegiata. Occorre definire l’energia sonora, Es, cioè l’energia trasportata
dall’onda. Di qui la densità di energia sonora D= Es/V, con V volume unitario. Detto altrimenti, tale
grandezza esprime quanta energia sonora c’è nell’unità di volume. Essendo la propagazione isotropa la
D=D(t) è funzione solo del tempo. Riprendendo l’onda acustica essa subirà ripetute riflessioni contro le
pareti dell’ambiente così di seguito qualitativamente rappresentate.
Mediante la ormai nota rappresentazione dei raggi sonori si ha
In P giunge il suono diretto dopo
. (c è stato definito precedentemente).
Si avrà un aumento D1 della densità sonora. Dopo
giunge un altro contributo, e cosi via.
Come si osserva i contributi sono via via più piccoli. Si raggiunge un valore limite D0 detta densità
sonora di regime. Ciò non avviene in modo discontinuo, ma, progressivamente, come di seguito rappresentato
La parte di curva discendente rappresenta il decadimento della densità sonora una volta terminata l’emissione da parte della sorgente. Tali incrementi/decrementi sono dovuti alla Riverberazione Acustica
che possiamo intendere come l’effetto di innumerevoli riflessioni che le onde effettuano prima di annullarsi. La rapidità con cui D va a zero dipende da come è composta la sala, dai materiali ed, ovviamente,
influisce sulla comprensione della musica e del parlato. Di qui la domanda: il riverbero è un bene o un
male? Limitandosi al semplice fatto che le sillabe o le note musicali per poter essere comprese devono
essere sufficientemente distinte, una riverberazione troppo lunga non permetterebbe di percepire con
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chiarezza i suoni. D’altra parte, un tempo di riverbero troppo corto non consentirebbe che il suono
diretto si rafforzi tramite i contributi riflessi.
Si definisce tempo convenzionale di riverberazione, Tc ,l’intervallo di tempo perché, cessata l’emissione
della sorgente, la densità sonora D(t) si riduce di un milionesimo del valore iniziale D0.
Sabine nel 1898 propose una relazione piuttosto semplice per il calcolo di Tc.
Con:
k= 0,16s/m
V è il volume delimitato dalle superfici di assorbimento
ove ai è il coefficiente di assorbimento i-esimo e Si è l’area dell’i-esimo mezzo assorbente (tenda, poltrona, …).
Tale formula mostra come i fenomeni fisici, talvolta, vengono espressi attraverso rapporti matematici
semplici!
Quanto detto è sufficiente per analizzare significativamente delle qualità acustiche in Sale da Concerto
e Teatri. Molteplici sono i parametri che, al giorno d’oggi, caratterizzano i parametri acustici. Per semplicità ci limiteremo al tempo di riverbero. È importante sottolineare che ogni tipo di musica ha un suo
tempo di riverberazione ottimale. Si è visto che 3-4 secondi sono ottimali per un coro accompagnato da
un organo; per una sinfonia di Beethoven o di Brahms invece 2 secondi; il tempo si riduce a 1,6 secondi
per la musica di Debussy. Andando ai dai sperimentali si osserva che il Musikverein di Vienna ha un
Tc=2,05s, il Concertgebouw di Amsterdam ha Tc=2,03s, la
Symphony Hall di Boston Tc=1,80s. Non a caso, sono le sale
da concerto migliori del mondo!
Guardando alla Lirica, essa necessita di un tempo di riverberazione variabile tra gli 1,2 secondi per la voce e gli 1,8
secondi per la musica.
I Teatri all’Italiana rispondono bene a questa esigenza. La
figura accanto mostra a sinistra e a destra, rispettivamente
la pianta del Teatro Alla Scala di Milano e del Teatro San
Carlo di Napoli.
Tale successo è dovuto innanzi tutto alla pianta a ferro di
cavallo leggermente divergente a partire dal boccascena: ciò
agevola una buona distribuzione dell’onda diretta. I palchi a
più ordini favoriscono l’uniformità dell’energia sonora. L’orchestra posta in un volume compatto e di forma convessa
verso la sala permette la libera propagazione delle onde sonore emesse dai singoli strumenti. Non per
ultima, la struttura del soffitto, le quinte, i fondali e soprattutto il volume complessivo, abbastanza vicino a quello cubico, ottimale per una buona acustica. Volendo fare degli esempi: il Teatro Alla Scala di
Milano ha un Tc=1,2s. Il San Carlo Tc=1,4 s . Il Petruzzelli Tc=1,8s.
L’Acustica spiega i motivi per cui esistono al mondo centri d’ascolto musicale d’eccellenza ed è un parametro di riferimento cardine in fase di progettazione. Accanto all’ elementare tecnica dell’acustica
geometrica, di cui si sono dati i caratteri essenziali, vi sono, al giorno d’oggi, tecniche di simulazione
elettroniche d’avanguardia. L’obiettivo a cui si tende è creare ambienti acusticamente ottimali senza tralasciare le esigenze architettoniche.
Tanti sono i fattori che, assieme, esaltano la bellezza di un’esecuzione musicale e, di certo, la Fisica, tramite l’Acustica, contribuisce al raggiungimento di tale scopo.
Bibliografia
I teatri antichi e la loro acustica – Luigi di Francesco
Considerazioni sull’Acustica nelle sale – Alfonso Pezzi
Acoustic of the Restored Petruzzelli Theater – Facondini et Al.
Acustica Architettonica – Dip.to Architettura UniGe
Lineamenti di Acustica Applicata- Dalberto Faggiani – Politecnica Tamburini
Sound – Frederick – William Heineman LTD
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Consonanza e dissonanza:
storia di un binomio indissolubile
Francesca De Carlo
L’ascolto simultaneo e il confronto di due eventi sonori di altezza definita sono stati a più riprese sottoposti, a partire dalla storia musicale più antica, a un giudizio che tradizionalmente dà come risultato
un posizionamento intorno ai due poli della consonanza e della dissonanza. Alcune ricerche etnomusicologiche hanno ipotizzato che il concetto di consonanza sia apparso molto presto nella storia dei
popoli, già dalla semplice sperimentazione sulla risonanza della voce e dei tubi sonori, e non è improbabile che essa costituisca uno dei criteri originari di selezione del materiale musicale. La distinzione tra
combinazioni di suoni consonanti e dissonanti appare necessaria, infatti, non soltanto per definire una
delle dimensioni più importanti della sintassi musicale, quella relativa alle regole di sovrapposizione
dei suoni, ma, probabilmente, anche per favorire l’intonazione delle note successive di una melodia,
che risulta facilitata quando esse sono separate da un intervallo consonante, cioè quando condividono
un certo numero di armonici. Pertanto, procedendo idealmente a ritroso, il giudizio di consonanza e
dissonanza potrebbe aver svolto un ruolo non secondario in fase di selezione dei suoni facenti parte
della gamma utilizzata in una determinata esperienza storico musicale. La condivisione di alcune delle
prime armoniche dello spettro può trovare utilità anche in altri aspetti della pratica musicale; a esempio
nell’accordatura di alcuni strumenti a corda o dell’organo tramite i battimenti. In realtà il posizionamento di cui si parlava all’inizio andrebbe, quanto meno, distribuito lungo un segmento che abbia ai due poli
estremi la massima consonanza e la massima dissonanza – considerando le due sensazioni come complementari, ossia tali che l’assenza di dissonanza corrisponda alla massima consonanza, e viceversa - ma
anche la possibilità di collocazioni intermedie, a maggiore o minore distanza dall’uno o dall’altro polo.
Se poi si pensa ai molteplici significati che, nel corso dei secoli, si sono stratificati intorno al nuclei semantici dei due termini consonanza e dissonanza (gradevole/sgradevole, fusione/separazione, tensione/
distensione, aspettativa/risoluzione...), la distribuzione andrebbe forse sparsa su altrettante dimensioni,
senza dare a priori per scontata l’equivalenza fra le coppie antinomiche citate che andrebbero esaminate,
invece, indipendentemente l’una dall’altra. A esempio, la ricerca di una tensione che si risolva su una
consonanza è una pratica che si diffonde nella musica occidentale con l’introduzione della polifonia
e delle clausule cadenzali che, nei punti della composizione che avevano una funzione strutturale di
chiusura, riconducevano a unità la molteplicità delle voci della testura polifonica. Si viene a creare, a
partire da questo periodo, un meccanismo che, ancora di più con il passaggio allo stile tonale, giocherà
in maniera sempre più consapevole con la percezione dell’ascoltatore, in una serie ripetuta, a tutti i livelli, di tensioni e distensioni armoniche, di aspettative disattese o prevedibilmente risolte. Pur esistendo
leggi universali legate alle caratteristiche fisiche dei fenomeni di vibrazione e risonanza e alla fisiologia
del nostro sistema uditivo, il giudizio di consonanza dei suoni è soggettivo e variabile nel tempo, in
quanto legato alla elaborazione del segnale sonoro da parte di ciascun essere umano e al suo ambiente
socio-culturale. Può essere utile ricordare, qui, una metafora spesso proposta a proposito del rapporto
generale tra musica, fisica, psicoacustica, cultura. La conoscenza musicale di ogni singolo essere umano
può essere paragonata, nella sua struttura, a quella di un frutto, come una drupa, a esempio la pesca. I
fenomeni fisici studiati dall’acustica ne costituiscono i semi; questi sono avvolti nel nocciolo che, a sua
volta, potremmo paragonare alla dotazione fisiologica e psicoacustica della nostra specie. Ma all’esterno
c’è la polpa che è costituita dalle conoscenze culturali generali e specificamente musicali dell’ascoltatore.
In definitiva, il giudizio di consonanza e dissonanza, come tutti gli altri giudizi sulla musica, è di natura
culturale, seppure fondato su una base fisica e psicoacustica. Proprio per questa ragione, su tale giudizio
hanno giocato un ruolo fondamentale, nelle diverse epoche e per le diverse civiltà, varie considerazioni
di ordine filosofico, matematico, logico, estetico, che andremo, adesso, a descrivere e analizzare.
La scuola pitagorica fu la prima a cercare una relazione tra suono, numeri e implicazioni simboliche degli stessi. Adoperando il monocordo, e ascoltando i suoni prodotti da due segmenti di corda di lunghezza diversa, i pitagorici giudicarono la sovrapposizione consonante solo quando il rapporto tra le misure
delle lunghezze delle corde fosse di tipo epimorio (con il numero superiore del rapporto più grande di
1, rispetto al numero inferiore), e soltanto limitatamente a numeri interi piccoli. Fu così che, ponendo
in relazione i numeri dall’1 al 4, la scuola pitagorica limitò il numero delle consonanze a tre, quelle che,
ancora oggi, la teoria definisce consonanze giuste o perfette: l’ottava (espressa dal rapporto 2:1), la quinta (3:2), la quarta (4:3). Accanto a esse, anche i relativi intervalli composti di undicesima, dodicesima e
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quindicesima rientravano tra le consonanze. I numeri dall’1 al 4 furono i soli presi in considerazione,
in quanto la loro somma corrisponde al numero perfetto per eccellenza, il 10, la tetraktys, dai pitagorici
eletta a ‘fondamento dell’immortalità’. La bellezza delle relazioni tra i suoni veniva così ‘legittimata’ dalla
natura stessa, e il Numero se ne ergeva a simbolo supremo. Pitagora e la sua scuola, in definitiva, espressero un giudizio di consonanza motivato essenzialmente da ragioni filosofiche, e basato sull’aritmetica.
Vale la pena ricordare qui, che gli antichi Greci non furono davvero così ‘sordi’ da non riconoscere la
consonanza dell’intervallo di terza maggiore che è alla base dell’armonia moderna. Fu proprio Tolemeo
a utilizzare, per la costruzione della scala, tale intervallo, costituito da un rapporto pari a 5:4 tra la
lunghezza originaria della corda e quella della corda bloccata dal ponticello mobile. Come è noto, lo
stesso Tolemeo, che si era dimostrato così di ampie vedute dal punto di vista musicale, lo fu un po’ meno
in astronomia, rifiutando la teoria eliocentrica di Aristarco di Samo, e trasmettendo alla posterità la
propria teoria geocentrica. Allo stesso modo, quasi per ironia della sorte, l’opera di mediazione tra l’Antichità e il Medioevo, compiuta da Boezio, trasmise al mondo occidentale non la teoria tolemaica, bensì
l’idea di consonanza di matrice pitagorica che rimase il punto di riferimento fino al XVI secolo. Parte
fondamentale di questa teoria era, come è noto, il concetto di armonia delle sfere, la cosiddetta musica
mundana, fondata sui medesimi rapporti numerici della musica humana e della musica, diremmo, vera
e propria, quella instrumentalis. Che le consonanze di terza maggiore e minore (anche quest’ultima
corrispondente a un rapporto epimorio tra numeri piccoli, 6:5) fossero, in realtà, comunemente usate
nella polifonia medievale, seppure con uno status di rango inferiore a quello delle consonanze perfette,
e con l’intonazione ‘aggiustata’ rispetto a quella prevista dalla teoria pitagorica, ci è data testimonianza
indiretta da uno dei più famosi editti papali della storia della musica, quello di Giovanni XXII, che, nel
1324, prescriveva l’uso esclusivo di accordi di quarta, quinta, e ottava, per l’accompagnamento del canto
ecclesiastico. D’altra parte, già nel secolo precedente Johannes de Garlandia aveva classificato tutti gli
intervalli diatonici distinguendoli in consonanze perfette (unisono e ottava), medie (quarta e quinta),
imperfette (terza maggiore e minore; le seste rientravano nel novero delle dissonanze.
Il contributo di Galileo Galilei sposta definitivamente la riflessione sulla consonanza dei suoni dal campo filosofico e matematico a quello fisico. Per uno scienziato moderno, di cui il metodo di Galileo si
erge a paradigma, la scoperta di un legame tra i ‘rapporti semplici’ delle lunghezze delle parti di una
corda e la consonanza dei due suoni prodotti doveva avere origine nei fenomeni fisici connessi alle
modalità di produzione e di percezione dei suoni. Galileo attribuisce l’origine della consonanza al fatto
che, quando l’orecchio è investito da due suoni di frequenze commensurabili (secondo rapporti piccoli),
percepisce una regolarità del fenomeno che si ripete secondo un periodo di breve durata. In un famoso
passo dei Discorsi intorno a due nuove scienze, opera pubblicata nel 1637, Galileo rafforza l’argomento
con una similitudine meccanica: due pendoli che completassero l’oscillazione rispettivamente in 2 e
in 3 secondi, in breve tempo recupererebbero la sincronia (esattamente dopo 6 secondi, numero pari
al minimo comune multiplo di 2 e 3). Va notato che, con questa ipotesi, ulteriormente generalizzabile
in ambito musicale – si pensi alla commensurabilità di gruppi ritmici diversi, quando questi abbiano
un valore complessivo uguale – Galileo intuisce perfettamente uno dei due meccanismi principali con
cui la scienza moderna spiega il riconoscimento delle altezze da parte del sistema uditivo, non a caso
chiamato ‘teoria della periodicità’.
Dopo un filosofo e uno scienziato, tra i più influenti delle rispettive discipline, nel Nouveau système de
musique théorique, del 1726, è un musicista, Jean Philippe Rameau, a esprimere la propria teoria sulla
consonanza dei suoni. Il trattato di Rameau giunge quasi un secolo dopo le considerazioni di Galileo,
quando ha ormai avuto modo di compiersi, nella composizione, il passaggio dalla concezione ‘contrappuntistica’, della dialettica delle voci, a quella ‘armonica’ della sovrapposizione di parti. Infatti, Rameau,
nello studio della consonanza rivolge la sua attenzione, invece che agli intervalli, ai nuovi protagonisti
della scena sonora, gli accordi. Il passaggio dal pensiero di una polifonia come sovrapposizione di bicordi a quello di una successione di accordi fu preparato da alcuni contributi teorici, già apparsi nel corso
del secolo precedente. Già da tempo i compositori erano consapevoli del fatto che, escludendo i raddop15
pi, le sole sovrapposizioni di note che producano esclusivamente intervalli consonanti sono quelle di
terza e quinta, terza e sesta, quarta e sesta. Nel 1608 Harnisch faceva notare come, quando di un accordo
di tre suoni (do-mi-sol) si spostino le prime due all’ottava alta, ottenendo quindi il secondo rivolto, cioè
l’accordo di quarta e sesta (sol-do-mi), qualora si togliesse il Mi rimarrebbe un semplice intervallo di
quarta (sol-do) che suonerebbe, secondo il suo giudizio, dissonante: la quarta giusta è diventata, nel giro
di due o tre secoli, da una consonanza perfetta addirittura una dissonanza! Altri teorici, quali Lippius e
Campian, avevano introdotto il concetto di ‘triade’ e quello di basso fondamentale, seppure in una accezione diversa da quella successiva di Rameau. All’inizio del Settecento erano poi apparsi gli importanti
studi di Sauveur sui suoni armonici nelle corde, che fornirono al compositore francese un determinante
quadro di riferimento fisico.
Rameau fa notare che le note costituenti l’accordo perfetto maggiore (Do2-Mi2-Sol2 nella figura) derivano da uno stesso basso fondamentale, cioè sono, rispettivamente, la quarta, quinta e sesta armonica di
una stessa serie di frequenze, la cui fondamentale, il Do0, che ne è il massimo comune divisore, assume
il ruolo di riferimento unificante che spiega la sensazione di fusione e, dunque, di consonanza, prodotta
dall’accordo stesso. Inoltre, se le note dell’accordo vengono considerate a due a due, esse derivano da un
‘terzo suono’ che è anch’esso parte della serie armonica. Nel caso in esame, infatti, i terzi suoni degli intervalli Do2-Mi2, Do2-Sol2 e Mi2-Sol2 sono rispettivamente, Do0, Do1 e Do0. Inoltre, gli accordi non vanno più considerati come entità singole, ma devono essere contestualizzati nell’ambito della tonalità di
riferimento, e quindi posti in un sistema di relazioni reciproche. Rameau rileva, infatti, che anche la successione temporale delle fondamentali degli accordi, in una composizione musicale, trova un riferimento comune e unificante nel ‘basso fondamentale’ fittizio. Si pensi all’accordo Sol2-Si2-Re3, le cui frequenze
fondamentali, relativamente al Do0, sono 6, 7.5 e 9; in questo caso il basso fondamentale dell’accordo è il
Sol0, che non fa parte della serie armonica dell’accordo di tonica (e questo spiega il senso di tensione creato dall’accordo di dominante). D’altra parte, guardando i tre terzi suoni, essi sono Sol0, Sol1 e Sol0, il secondo dei quali fa parte della serie armonica dell’accordo di tonica. Quest’ultima caratteristica, insieme
al fatto che entrambi i bassi fondamentali Do0 e Sol0 apparterrebbero, eventualmente, alla serie generata
da un basso profondo comune Do-1, spiegano l’unitarietà complessiva della successione fondamentale
di accordi tonica-dominante. Viene così a generarsi una gerarchia di funzioni, facenti capo a tale basso
profondo che costituisce la struttura portante nascosta dell’armonia, la cui esplicitazione costituisce il
tessuto del discorso tonale. Come ovvio per i suoi tempi, Rameau evita di porsi il problema dei riscontri
psicofisiologici della sua teoria, basandosi esclusivamente su considerazioni fisiche che partivano dalla
formalizzazione delle armoniche fisiche effettuata da Sauveur.
In molte condizioni, dato un suono complesso, l’altezza percepita corrisponde all’altezza della sola fondamentale di frequenza, poiché è la frequenza dell’onda risultante. Data una serie armonica senza la
fondamentale, il sistema percettivo è in un certo senso in grado di ‘ricostruirla’.
A un suono complesso con parziali armoniche viene attribuita l’altezza che avrebbe la fondamentale, anche in assenza della stessa. Si parla in questi casi di altezza virtuale o residua del suono.
Già all’inizio del XVIII secolo Tartini notò che suonando un bicordo a intervallo di quinta, ossia con
rapporto 3:2, si ottiene allo stesso tempo un terzo suono, più grave. Il terzo suono, nel basso, è una nota
la cui frequenza è la differenza fra quelle dei due suoni originari. Il terzo suono è ottenibile eseguendo
bicordi anche su altri intervalli, non solo terze e quinte. La teoria posizionale di Helmholtz, che esporremo fra poco, non spiega la fusione di un suono composto da parziali esattamente armoniche. Inoltre,
basandosi su questa teoria non sarebbe possibile udire un’altezza virtuale corrispondente a una regione
di membrana basilare non sollecitata. Questi limiti sono stati superati dalla teoria della periodicità,
secondo la quale la sensazione di altezza del suono viene prodotta anche mediante un’analisi temporale
del suono e in particolare della frequenza di ripetizione con cui i segnali vengono incanalati nel nervo
uditivo da parte delle cellule del Corti, per poi arrivare al cervello. Quando giungono alla membrana
basilare due armoniche, a esempio di frequenza 2f e 3f, siamo in grado di decodificare la frequenza del
segnale percependo l’esistenza di una periodicità di ordine più elevato (e quindi di frequenza minore)
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rispetto a quello delle singole armoniche (esperimenti, in questo senso, sono stati condotti per mezzo
di onde impulsive di medesima frequenza ma con impulsi alternativamente positivi e negativi, e quindi
con spettro differente). La spiegazione del fenomeno per il quale il nostro sistema percettivo riesce a ricreare altezze virtuali è ancora oggetto di discussione ma la presenza dell’effetto è innegabile; esso viene
utilizzato negli strumenti che devono generare note di frequenza molto bassa che hanno, per problemi
di andamento di impedenza con la cassa armonica, l’armonica fondamentale molto debole, oppure nella
radiofonia, dove le basse frequenze tagliate dai sistemi di riproduzione sonora vengono in parte ricostruite nel sistema percettivo dell’ascoltatore.
Nel XIX secolo Helmholtz propose dei criteri generali per le condizioni di consonanza che facessero
riferimento alla fisiologia umana. A questo punto
conviene, però, premettere qualche breve cenno alla
anatomia e alla fisiologia dell’orecchio umano, relativamente al meccanismo di riconoscimento dei suoni.
Questo è strutturalmente e funzionalmente diviso in
tre parti: orecchio esterno, orecchio medio e orecchio
interno. L’orecchio esterno è formato dal padiglione
auricolare e dal condotto (o meato) uditivo. Il padiglione auricolare ha il compito di raccogliere il suono
da un’area sufficientemente ampia e permette, tramite il pattern di riflessioni e sovrapposizioni generato
dalla struttura irregolare della sua superficie, di stabilire l’altezza da terra del punto di provenienza del
suono. Il condotto uditivo è un canale di lunghezza pari a circa 2.5 cm e ha, pertanto, l’effetto di un
risonatore (tubo chiuso) con frequenza di risonanza pari a 3400 Hz. L’orecchio medio si estende dal
timpano alla finestra ovale; questa ha una superficie più piccola del timpano e, conseguentemente, la
potenza acustica che le viene trasmessa tramite la catena cinematica costituita dai tre ossicini, martello,
incudine, staffa, risulta amplificata di un fattore pari a circa 25-30. Infatti, il riflesso acustico o di Stapedio è un meccanismo di difesa contro i suoni eccessivamente forti che funziona proprio allontanando
la staffa dalla finestra ovale. Infine, nell’orecchio interno, le vibrazioni acustiche sono convertite, a opera
delle circa 20000 cellule ciliate del Corti in impulsi elettrochimici che vengono inviati al cervello per
essere elaborati e dar luogo alla sensazione uditiva. Tale trasduzione avviene all’interno della coclea,
un tubicino ripiegato a forma di chiocciola della lunghezza di circa 3 cm. Nella coclea trova posto la
membrana basilare, fulcro del meccanismo di riconoscimento delle frequenze dei suoni, la quale è più
stretta e rigida nella parte iniziale, quella vicina alla finestra ovale, ove ha quindi frequenze di risonanza
più alte; è più larga e flessibile nella parte finale, dove le frequenze di risonanza sono quindi più basse.
Si pensi, per confronto, alla frequenza di risonanza di una corda che risulti più o meno tesa e spessa. Il
riconoscimento della frequenza è spiegato da due teorie. La prima, detta tonotopica, è basata su un meccanismo di riconoscimento spaziale: ogni diversa frequenza, a causa della conformazione variabile della
membrana basilare e della conseguente variabilità della sua frequenza di risonanza, fa sì che la membrana stessa abbia il massimo dell’inviluppo spaziale dell’ampiezza di oscillazione in un punto diverso. Il
cervello associa la posizione, lungo la membrana, dalla quale le cellule del Corti gli stanno trasmettendo
il segnale alla frequenza corrispondente. E’ interessante notare, qui, che ogni ottava copre all’incirca uno
spazio uguale lungo la membrana basilare, nonostante le ottave più acute corrispondano ad intervalli di
frequenza maggiori, rispetto alle ottave più gravi. Si è ipotizzato che questa conformazione ci permetta
di riconoscere, appunto, un raddoppio di frequenza come un intervallo sempre uguale, pur al variare
della differenza di frequenza nei vari registri d’altezza. Inoltre, poiché determinate configurazioni accordali, al variare dell’altezza, corrispondono a spostamenti isometrici sulla membrana basilare, questo
meccanismo spiegherebbe anche il riconoscimento di accordi, secondo la teoria di Rameau, o persino
di configurazioni timbriche già ascoltate e memorizzate. La seconda teoria, complementare della prima,
ipotizza un riconoscimento delle frequenze basato sulla temporizzazione degli impulsi elettrici inviati
dalle cellule ciliate. Confrontando i due treni d’impulsi nella figura seguente notiamo che, sebbene i
picchi di pressione abbiano la stessa distanza temporale, nel secondo caso l’alternanza di impulsi positivi e negativi fa sì che la frequenza fondamentale sia pari alla metà. Ciò nonostante l’altezza percepita è
uguale nei due casi, il che si spiega soltanto ipotizzando che, in questo caso particolare di forma d’onda,
il meccanismo di riconoscimento è basato non su un’analisi spazio-frequenziale ma sulla frequenza di
ripetizione degli impulsi, indipendentemente dal loro segno.
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Quando due onde sonore hanno frequenza minimamente diversa, tra di esse c’è un’interferenza dal
risultato chiaramente percepibile. I segnali acustici si rafforzano e si elidono parzialmente in istanti
successivi, dando origine al fenomeno dei battimenti (l’intensità del suono risultante varia con una
frequenza pari alla differenza delle frequenze dei due suoni, detta frequenza di battimento). Helmholtz
definì una teoria, detta posizionale, secondo cui suoni di frequenze diverse mettono in moto regioni
diverse della membrana basilare che si comporta come una sorta di analizzatore di spettro che associa
posizioni a frequenze. Tramite questa teoria spiegò il fenomeno dei battimenti dal punto di vista fisiologico, osservando che frequenze vicine vengono recepite da cellule ciliate in posizioni adiacenti sulla
membrana basilare, dando luogo a un disturbo reciproco che il cervello decodifica come una dissonanza. Quando le note si discostano poco dall’unisono, come nel caso delle corde doppie o triple degli strumenti a tastiera, si generano leggeri battimenti che rendono il suono percettivamente più vivo e dinamico, come nel caso dell’effetto corale in orchestra, o del registro vox humana dell’organo. Tuttavia, quando
la differenza di frequenza risulta maggiore di 20 Hz, l’orecchio non riesce più a seguire le fluttuazioni
di intensità, ormai troppo rapide, e le percepisce come ‘asprezza’ (roughness), cioè come dissonanza
sensoriale. Secondo Helmholtz, maggiore è il numero di battimenti nella zona di massima asprezza della
banda critica generato da due suoni, maggiore è la loro dissonanza. Il fenomeno dei battimenti dipende
dal valore assoluto delle frequenze, infatti nel registro più basso della tastiera, dove l’intera ottava rientra
nella banda critica, tutti gli intervalli appaiono dissonanti mentre nel registro più alto avviene il contrario. David Huron, della Ohio State University, ha mostrato che le distanze medie tra le due note più
basse degli accordi dei quartetti di Haydn e delle opere per strumenti a tastiera di Bach si incrementano
progressivamente man mano che la nota inferiore diviene più bassa. Evidentemente i grandi compositori del passato avevano compreso da soli che tutto ciò era da attuare per cercare di evitare la dissonanza
sensoriale nel registro basso. Tutti quanti gli intervalli situati oltre il punto critico di separazione delle
altezze dovrebbero essere consonanti. In realtà i suoni prodotti dagli strumenti musicali sono complessi,
in quanto combinazioni di parziali, armoniche o non armoniche. L’orecchio esegue un’analisi spettrale
del suono cogliendone separatamente le parziali. Se gli ipertoni dei suoni sono concatenati, i siti di eccitazione della membrana basilare coincidono parzialmente, dando origine a una dissonanza tanto più
forte quanto maggiore è l’energia sonora associata agli armonici che generano battimenti in banda critica. Proviamo a calcolare, in base a questo principio, la differenza tra i battimenti generati dalle prime
10 armoniche di una terza maggiore, accordata secondo il sistema naturale e secondo quello pitagorico.
Ordine armonica
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
DO
264
528
792
1056
1320
1584
1848
2112
2376
2640
MINAT
MIPIT
330
660
990
334.13
668.25
1002.38
1320
1650
1980
2310
1336.5
1670.63
2004.75
2338.88
2640
2673
Le frequenze segnate in corsivo/grassetto, nel caso della terza maggiore accordata con il sistema pitagorico, sono quelle che, secondo la teoria di Helmholtz, causano battimenti (rispettivamente, 16.5 e 33 al
18
secondo) in banda critica, e quindi dissonanza, rispettivamente tra la decima armonica del Do e l’ottava
armonica del Mi accordato con il sistema pitagorico.
Il risultato della teoria di Helmholtz, per certi aspetti, dà conferma alla teoria pitagorica: più piccoli
sono i numeri del rapporto, maggiore è la consonanza, ma questo avviene perché a numeri piccoli corrisponde una maggiore coincidenza delle armoniche. L’armonia non è data dai numeri in sé, bensì intesi
come rappresentazioni di entità fisiche, gli spettri armonici, e da come il nostro sistema psicoacustico
condiziona il modo di rappresentare mentalmente tali entità fisiche.
Intervallo
Grado di consonanza/dissonanza
Ottava
Consonante
Quinta
Consonante
Quarta
Mediamente consonante
Sesta maggiore
Mediamente consonante
Terza maggiore
Mediamente consonante
Terza minore
Poco consonante
Sesta minore
Al limite della dissonanza
Settima maggiore
Al limite della dissonanza
Nella tabella precedente viene riportata una classificazione, effettuata da un gruppo di ascoltatori, di una
serie di intervalli suonati al pianoforte; gli intervalli sono elencati in ordine di consonanza percepita,
con a fianco un giudizio qualitativo di consonanza o dissonanza. Abbiamo specificato che gli intervalli
sono suonati al pianoforte, perché tale classificazione potrebbe essere diversa con uno strumento differente, a causa della diversa quantità e intensità degli armonici (persino la frequenza degli armonici
sarebbe diversa, data l’inarmonicità delle parziali di ordine superiore nel pianoforte).
La teoria di Helmholtz ha anche due interessanti corollari. Il primo è il seguente: per alcuni strumenti,
come il clavicembalo, estremamente ricchi in armoniche, quelle più acute potrebbero risultare talmente
vicine da cadere nella stessa banda critica, generando battimenti con una parte dell’energia sonora,
quella distribuita alle alte frequenze, e quindi una sensazione di dissonanza, pur in presenza di un solo
suono. Allargando il discorso, ci si rende conto qui, di come la teoria della consonanza e della dissonanza di Helmholtz getti le basi anche per affrontare in maniera concettualmente corretta l’annosa
distinzione tra suono e rumore, in musica. Il secondo corollario è invece il seguente. Con le moderne
tecniche di analisi e risintesi spettrale sarebbe, in teoria, possibile analizzare il contenuto spettrale di
una registrazione di un brano in stile tonale classico, eliminare tutte le armoniche che cadano nella
stessa banda critica e risintetizzare il brano ‘depurato’, secondo la teoria di Helmholtz, di tutte le cause
di dissonanza. Ora, al di là del senso che potrebbe avere un’operazione del genere, data l’importanza, nel
linguaggio musicale, della dicotomia consonanza-dissonanza, sarebbe interessante esaminare l’effettivo
risultato dal punto di vista percettivo.
Un esperimento che sfrutta le moderne tecnologie per indagare le teoria sulla consonanza è quello ideato da Pierce nel 1979, che, in realtà, dà come risultato un’ulteriore conferma dell’importanza del basso
fondamentale di Rameau. Pierce adottò, invece della consueta ottava, un’ottava espansa con un rapporto
di frequenza uguale a 2.4. All’interno della scala cromatica ‘allungata’ i singoli semitoni hanno un rapporto di frequenza pari alla radice dodicesima di 2.4, ovvero 1.0757. Ogni singola nota in questo sistema
avrà parziali non armoniche, le cui frequenze non sono multipli interi della fondamentale. Tuttavia la
struttura matematica e le regole di consonanza di Helmholtz verranno conservate.
DO
1
SOL
1.67
2.4
4.01
5.76
4.01
7.7
6.67
9.6
9.6
Come si vede nella tabella precedente, se due parziali coincidono nella versione normale, coincideranno anche nell’ottava espansa, mentre le parziali che non coincidono risulteranno più lontane, e quindi
l’intervallo dovrebbe sembrare più consonante. In base alla teoria posizionale, nell’ottava espansa ogni
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combinazione di note non dovrebbe apparire mai meno consonante che nell’ottava normale. Il risultato
è, però, completamente opposto. Eseguendo un brano utilizzando l’ottava espansa, risulta difficile riconoscere la melodia e si perdono tutti gli effetti armonici. Altri esperimenti successivi hanno rivelato
che l’orecchio non percepisce ogni singola nota come un unico amalgama dotato di altezza e timbro
caratteristici, ma coglie le parziali come suoni individuali. Ciò che ne deriva è un senso di disordine e
di ‘dissonanza’ generale. La motivazione di questo fenomeno risiede nella mancanza di un basso fondamentale. La differenza di frequenza fra le armoniche e fra le note dell’accordo è sempre diversa, perciò è
assente un basso fondamentale che funga da chiave interpretativa di questi insiemi di suoni sovrapposti.
Dal punto di vista fisiologico, è rivelante la perdita della scansione temporale. Nell’ottava espansa risulta
impossibile, infatti, trovare una periodicità fra i suoni che generi il terzo suono di Tartini e dia omogeneità all’accordo. Va fatto notare qui, tuttavia, come molti strumenti a percussione siano effettivamente
privi di parziali armoniche, pur generando un suono perfettamente fuso. In tal caso, altri parametri
psicoacustici, come la coincidenza nel tempo d’attacco delle parziali e la loro estinzione coerente nel
tempo, forniscano alla nostra percezione la possibilità di identificare tali parziali non armoniche come
provenienti dalla medesima sorgente fisica.
In conclusione, non è sempre vero che dietro la dissonanza si nasconda la brutta musica: le dissonanze
arricchiscono e aggiungono senso alla musica che siamo abituati a ascoltare. Oggi molti sono gli sforzi
di fisici, musicisti, e ingegneri acustici, di trovare delle leggi che diano un fondamento fisico e psicologico al linguaggio della musica, a tutti i livelli di formalizzazione; si tratta di ricerche complesse che
sicuramente trarranno vantaggio dagli sviluppi nel campo, a esempio, dell’intelligenza artificiale. Per il
momento non possiamo che confidare ancora nella capacità dell’uomo di plasmare e vivificare la materia musicale con un occhio attento al momento in cui, non si sa quando, la musica prodotta da una
macchina non sarà davvero indistinguibile da quella prodotta dall’uomo.
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Battimenti e figure
di Lissajous:
la danza dei suoni
Cristina di Lecce, Angela Viggiano
Molti di voi avranno sentito almeno una volta un accordatore di pianoforti al lavoro. L’avrete visto suonare un intervallo di ottava e poi allentare o stringere le corde con la chiavetta. Ma come fa l’accordatore
a sapere quando l’ottava è accordata bene? Quando si accorge che i battimenti fra le due note scompaiono. Cosa sono questi battimenti che guidano l’accordatore?
Tecnicamente i battimenti sono prodotti dalla sovrapposizione di due onde sinusoidali aventi la medesima ampiezza e frequenze f1 e f2 solo ‘leggermente diverse’. L’onda risultante possiede una forma
caratteristica che mostra una sorta di ‘doppia oscillazione’:
- un’oscillazione rapida di frequenza f0, pari al valor medio delle due frequenze f1 e f2 (è ovvio che, essendo f1 e f2 molto vicine, f0 sarà circa uguale a f1);
- un’oscillazione molto più lenta che ‘modula’ l’ampiezza con una frequenza di battimento fb, pari alla
differenza delle due frequenze f1 e f2 (è ovvio che, essendo f1 e f2 molto vicine, fb sarà molto minore
delle due frequenze f1 e f2).
A prima vista sembrerebbe che i battimenti siano semplicemente una manifestazione del principio di
sovrapposizione: sommando due onde si ottiene una nuova onda con caratteristiche differenti. Non è
così. Di fatto il fenomeno del “battimento” manifesta appieno la sua importanza solo nel campo dell’acustica. Non a caso il nome stesso del fenomeno è dovuto alla lenta fluttuazione dell’intensità percepita che
fa somigliare il suono ad una pulsazione regolare. Nel caso delle onde sonore, infatti, il nostro sistema
uditivo percepisce la sovrapposizione di due suoni in modo molto differente, a seconda della distanza
tra le frequenze dei suoni componenti. Se le frequenze delle onde sinusoidali si avvicinano, i battimenti
diventano più lenti. Ma quando le due onde hanno frequenze uguali i battimenti scompaiono e viene
percepito un suono di altezza costante.
Quando l’accordatore suona l’ottava, i due suoni hanno teoricamente frequenze abbastanza lontane da
non far percepire il fenomeno del battimento. Sarebbe così se ogni nota del pianoforte fosse un suono
puro, ma in realtà ogni singola nota del pianoforte ha diverse armoniche. In particolare la seconda
armonica di una nota è un’ottava più alta della fondamentale. Quindi i battimenti che l’accordatore
percepisce sono quelli tra la seconda armonica della nota più bassa e la fondamentale di quella più alta.
Oltre all’ottava, anche altri intervalli possono essere accordati con il metodo dei battimenti e inoltre i
battimenti sono fenomeni estremamente rilevanti per definire concetti molto delicati della teoria musicale: consonanza, dissonanza e armonia. Nel diciannovesimo secolo Helmholtz, fisico e fisiologo tedesco, cercò di spiegare l’armonia interamente in termini di battimenti. Egli pensava che gli intervalli fossero consonanti quando non vi erano (o vi erano pochi) battimenti fra le parziali. Per quel che riguarda
la dissonanza invece, Helmholtz riteneva che negli intervalli dissonanti le frequenze delle parziali delle
note fossero così vicine da produrre dei battimenti percepiti come dissonanti. Questa tuttavia è una
interpretazione troppo semplice di un fenomeno ben più complesso.
Il fenomeno dei battimenti si manifesta nel modo più evidente solo nella sovrapposizione di suoni
puri (corrispondenti ad onde sinusoidali), e la completa sparizione del suono ad intervalli regolari si
ottiene solo quando i due suoni hanno anche la stessa intensità. Queste condizioni ideali sono molto
difficilmente ottenibili nei suoni reali, specie se prodotti da due strumenti diversi. Tuttavia i battimenti si
manifestano in musica molto più frequentemente di quanto si creda, anche se, spesso, serve un orecchio
allenato per riconoscerli.
In alcuni casi possiamo riprodurre artificialmente le condizioni necessarie, per esempio sfruttando il
suono prodotto da due diapason, piccole “forchette” metalliche progettate per generare suoni particolarmente puri. È una comune esperienza osservare che, se i diapason sono perfettamente accordati si può
produrre il fenomeno del battimento modificando leggermente la frequenza di uno dei due. Ciò può
essere ottenuto applicando una piccola massa ad uno dei due rebbi modificando la frequenza propria di
oscillazione. Si possono utilizzare inoltre i diapason per mostrare visivamente, con un breve esperimento, cosa accade quando si sovrappongono due suoni con frequenze molto simili: la composizione delle
onde sonore andrà a formare delle particolari figure dette di Lissajous.
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Si è già fatto accenno ai battimenti nel pianoforte, ma il caso del pianoforte, da questo punto di vista,
è più complesso e più interessante. Infatti, nel pianoforte due o tre corde identiche vengono percosse
simultaneamente dal martelletto per produrre una singola nota, ed esse, per dare l’unisono perfetto
devono produrre meno battimenti possibile. Tuttavia le tre corde corrispondenti ad un singolo tasto del
pianoforte non sono oscillatori indipendenti, ma accoppiati attraverso l’anima, e, dalla fisica (oscillatori
accoppiati) sappiamo che ogni volta che due oscillatori sono accoppiati le frequenze proprie del sistema
cambiano, e, in particolare, sono possibili modi di vibrazione in cui l’energia passa da un oscillatore
all’altro periodicamente. Questi modi corrispondono proprio ai battimenti acustici.
Allora, in breve, nel pianoforte i battimenti compaiono in diverse situazioni:
- Quando le tre corde di un tasto non sono perfettamente accordate (battimenti della fondamentale,
indesiderati);
- In misura minore quando le tre corde di un tasto sono perfettamente accordate (battimenti molto
lenti, desiderati perché conferiscono calore al suono);
- Sempre, tra le armoniche superiori, quando si premono due tasti differenti (non percepibili dall’orecchio non allenato, ma utilizzate dall’accordatore per accordare correttamente tutti i tasti dello strumento).
In altri strumenti i battimenti fanno sempre parte del timbro. In particolare nelle percussioni (sia ad
altezza definita, come i timpani, sia ad altezza indefinita, come il tamburo rullante, o il triangolo). Le
percussioni, infatti sono caratterizzate dal fatto che i loro armonici non stanno in rapporti interi, e quindi, diversi battimenti “interni” (tra armoniche diverse prodotte dallo stesso suoni) sono sempre presenti.
Nel caso particolare di strumenti ad intonazione libera (come il violino), è anche possibile ottenere una
particolare forma di battimenti, percepita come un suono fantasma, detto terzo suono di Tartini.
Oppure si prenda in considerazione il meraviglioso effetto di un coro di canto gregoriano in una cattedrale gotica, o un organo che suona nel registro vox humana. Il suono sembra lentamente “pulsare” con
un lento alternarsi nel tempo dell’intensità;
A volte il battimento è uno e molto evidente (si veda per esempio il suono di un timpano). Altre volte
essi sono talmente tanti da conferire al suono un aspetto cangiante e fluttuante (come nel caso del
triangolo).
Dunque, lo studio fisico del suono musicale è di grande interesse, perché la musica è, per la nostra cultura, un’espressione estremamente importante e perché la qualità del suono è fondamentale per la buona
musica. La fisica è l’unica disciplina che fornisce gli strumenti per comprendere a fondo l’affascinante
mondo del suono.
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Accordiamoci sull’accordatura
Caterina Aruta
La maggior parte degli strumenti a note fisse è accordata sulla base del temperamento equabile.
L’accordatura è generalmente effettuata mediante l’annullamento dei battimenti tra il primo ipertono di
una nota e la stessa nota dell’ottava superiore e i relativi armonici.
Tuttavia questo processo di accordatura non si rivela sempre ottimale.
Tra gli strumenti a tastiera, l’organo è quello che meglio si presta a questo tipo di accordatura, con un
risultato notevolmente preciso: in questo strumento infatti, gli ipertoni sono armoniche pressoché esatte del tono fondamentale.
L’accordatura del pianoforte invece richiede un procedimento differente; per capirne la ragione analizzeremo la propagazione del suono su una corda.
Nell’ipotesi semplificatoria che la velocità del suono sulla corda non dipenda dalla frequenza, per le
frequenze fondamentali si ha:
dove T è la tensione della corda e μ la sua densità lineare.
Consideriamo il rapporto di lunghezza di due corde di note a distanza di un’ottava: esso risulta essere
pari a 2.
Quindi quello tra le lunghezze delle corde del Do1 e del Do8 deve risultare pari a 27.
In un pianoforte Steinway a coda (modello A) la corda del Do8 è lunga 5 cm; questo valore moltiplicato
per 27 corrisponde alla lunghezza della corda del Do1 che quindi dovrebbe essere di ben 6.4 m (in realtà
è lunga solo 1.4 m).
Da ciò si deduce che il rapporto tra la lunghezza delle corde a distanza di ottava è molto meno di 2 (si
può vedere che non è neppure costante)!
In realtà la precedente relazione è approssimata. Infatti, la velocità di dispersione della velocità del suono per una corda di pianoforte può essere più correttamente espressa da:
dove a è una piccola costante positiva.
Pertanto la velocità aumenta al decrescere della lunghezza d’onda, cioè all’aumentare della frequenza.
Di conseguenza nel pianoforte le frequenze degli ipertoni sono più alte del valore che avrebbero se fossero armonici(cioè multipli esatti del tono fondamentale).
Questo fenomeno è detto ‘inarmonicità degli ipertoni’, e segna marcatamente il ‘colore’ (timbro) dello
strumento.
A esempio, si può osservare che gli armonici di Do4 sono leggermente calanti rispetto ai corrispondenti
di Do3, quindi l’ottava si allargherà leggermente.
Si può anche verificare che l’inarmonicità è tanto più grande quanto più la corda è corta e spessa.
Ci si imbatte così in esigenze contrastanti: un’alta efficienza richiede che la corda sappia reggere grandi
forze tensili, e ciò implica un grosso diametro; viceversa, la minimizzazione degli effetti di inarmonicità
(imputabili alla rigidità della corda), impone che il diametro sia il più piccolo possibile.
La soluzione trovata consiste nel non superare il millimetro di diametro, ma aumentare la massa lineare
con almeno un avvolgimento di filo di rame, ciò infatti non altera apprezzabilmente la rigidità della
corda.
L’effetto di inarmonicità, per quanto riguarda le corde delle note più alte, è circa di uguale entità nei diversi tipi di pianoforte, mentre risulta aggravato per le corde delle note più basse del pianoforte verticale
rispetto a quelle del piano a coda, poiché quest’ultimo impiega corde più corte e spesse.
Tutto ciò è rappresentato dalla cosiddetta ‘Curva di Railsback’.
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In conclusione, il metodo impiegato per l’accordatura del pianoforte in scala temperata è il seguente.
Anzitutto si fissa una frequenza di riferimento, tipicamente il La fondamentale a 440 Hz, oppure il Do
centrale a 261.6 Hz, eliminando i battimenti tra il tono fondamentale di tale nota e l’opportuno diapason.
Facendo riferimento al circolo delle quinte, si fa in modo di azzerare i battimenti tra il Do e il Sol, i quali
hanno in comune rispettivamente la terza e la seconda armonica.
Poiché nel temperamento equabile l’intervallo di quinta deve essere 2 cent più corto, bisogna abbassare
il Sol in modo che la sua seconda armonica produca i dovuti battimenti con la terza armonica del Do
(cioè 0.8 battimenti al secondo circa).
Si procede quindi alla quinta successiva ripetendo lo stesso ragionamento.
L’accorciamento dell’ottava dovrà sempre essere di 2 cent ma la frequenza dei battimenti varierà al variare delle frequenze fondamentali in gioco.
Di conseguenza il processo descritto, a causa della dispersione della velocità del suono sulla corda, genera inevitabilmente quinte allargate.
Per l’accordatura delle altre ottave, se si trattasse di un organo, basterebbe eliminare i battimenti tra ogni
nota e la sua omologa nelle ottave adiacenti. Nel caso del pianoforte l’allungamento delle ottave non
permette di usare questa semplice procedura, ma piuttosto di estendere l’impiego delle quinte verso le
frequenze più alte e quelle più basse, fino a ricoprire l’intera gamma dei tasti.
Concentriamo ora la nostra attenzione su i metodi di accordatura di tipo automatizzato, utili a chi voglia
accordare da sé lo strumento che suona.
Il metodo più comune è quello del ‘disco stroboscopico’, basato sullo stesso principio che serve a mettere
a punto la velocità di rotazione di un giradischi.
Il suono da accordare è utilizzato, attraverso un microfono e un amplificatore, per alimentare una lampada a scarica che emetterà luce con la stessa periodicità dell’onda sonora.
Il disco stroboscopico è fatto ruotare a una di dodici possibili velocità prefissate, in modo tale che, quando la frequenza del suono è corretta, i segmenti bianchi e neri sul disco risultano immobili.
Il disco inoltre presenta diverse configurazioni di segmenti in modo da poter accordare le dodici note
della scala cromatica in una varietà di possibili temperamenti con notevole precisione.
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Dalla dottrina dell’êthos
alla teoria degli affetti
Marco Masiello
(Relazione tratta da: Domenico Molinini, Suono Segno Suono – Elementi di semiologia, semiografia e storia
della teoria musicale occidentale, Florestano Edizioni, Bari, 2015. Si ringrazia la casa editrice Florestano Edizioni per aver consentito la pubblicazione con la clausola: si consente la riproduzione parziale dell’opera e la sua
diffusione, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta)
[…] La definizione che si dà della musica è quella di linguaggio: forma di linguaggio che si esprime per
mezzo dei suoni. Ma riconoscere alla musica lo statuto di linguaggio, seppure di un linguaggio non
verbale la cui dimensione sintattica consista nell’organizzazione del materiale sonoro, significa riconoscerle una natura linguistica, e, per conseguenza, una carica semantica. […] Una volta stabilito che la
musica è un linguaggio, il dibattito sul significato, o i significati della musica rimane, tuttavia, aperto. È
un contraddittorio che oppone chi afferma che il significato della musica sia esclusivamente da cercare
all’interno della musica stessa, cogliendone la sostanza formale, a chi sostiene che il significato della
musica sia esterno, extra musicale, e, pertanto da cogliere nelle reazioni psico-emotive dell’ascoltatore.
[…] La dialettica sul significare, ovvero sul non significare della musica, è inizialmente riconducibile a
due correnti di pensiero: l’espressionismo, anche detto contenutismo, che attribuisce alla musica significati; il formalismo che, al contrario, non riconosce alla musica alcuna valenza semantica. Il dibattito si
arricchisce, in seguito, di nuove tesi, nuovi punti di vista che […] mirano a stabilire una sintesi che sia
una conciliazione tra i due primi dettati, fondamentalmente tra loro antitetici. Le divergenze che animano il dibattito tra formalismo e contenutismo, e le varie tesi che interagiscono con queste correnti di
pensiero, sono precedute da due tesi che vertono sul significato della musica. Entrambe fondamentali,
queste due tesi risalgono al periodo greco classico; entrambe attraversano la storia, conservando ognuna il proprio contenuto, seppure formulato via via in modi differenti, fino al Novecento. La prima tesi
ha origine con la scuola pitagorica. Questa attribuisce alla musica un significato in termini puramente
matematici e cosmologici in cui i suoni rispecchiano i rapporti numerici dell’universo e la musica è
simbolo e espressione di un’armonia superiore che si esplica per mezzo di proporzioni numeriche (per
armonia la dottrina pitagorica intende la nozione di un ordine, finalisticamente organizzato, la cui tesi
fondamentale è che il numero è la sostanza delle cose, e, siccome per i pitagorici la scienza dell’armonia
è la musica, i rapporti musicali esprimono la natura dell’armonia universale, e sono il modello di tutte
le armonie che si trovano nell’universo). Concezione che nei secoli permea la trattatistica medievale,
quella rinascimentale, e giunge fino alle soglie dell’Illuminismo, condivisa da filosofi e pensatori quali
Agostino, Boezio, Zarlino, Descartes, Mersenne, Eulero.
Con l’Illuminismo la prima tesi assume una dimensione fisiconaturalistica: i suoni sono identificati quali conseguenza di fenomeni acustici, primo fra tutti la successione delle armoniche naturali. Esponente
di questo periodo è Jean-Philippe Rameau (1683-1764) che apre un contraddittorio con la maggior
parte dei filosofi del Seicento e del Settecento i quali attribuiscono alla musica lo stato di forma d’arte
minore, considerandola fondamentalmente priva di razionalità. Secondo Rameau, la musica nei suoi
fondamenti può essere ridotta a scienza, razionalizzata nei suoi principi, e rivelare nella sua essenza
un ordine naturale eterno e immutabile. Per questo non può essere ritenuta estranea all’intelletto e alla
razionalità. Semmai, afferma Rameau, tra ragione e sentimento, intelletto e sensibilità, natura e legge
matematica non c’è nessun contrasto, ma esiste di fatto e soprattutto di diritto un perfetto accordo, per
cui questi elementi operano armonicamente. Più avanti nel tempo la formulazione della tesi assume una
dimensione mistica: la musica, direbbe Schophenauer (1788-1860), è un linguaggio universale, capace
di parlare al cuore senza nessuna mediazione di immagini. […] La seconda tesi parte dalla Teoria o Dottrina dell’êthos, attraversa la Teoria degli affetti del tardo Rinascimento, la Affektenlehre per i tedeschi, che
domina interamente l’epoca del razionalismo, costituisce un tema centrale del Barocco, e approda infine
nell’estetica romantica del sentimento.
La concezione che l’ascolto della musica influenzi profondamente l’animo è un topos dell’antica Grecia.
Per la maggior parte degli antichi greci, infatti, la musica ha un enorme valore psicagogico (psicagogia
è il termine greco che, da Platone in poi, si riferisce alla filosofia intesa come ‘prendersi cura di sé’. La
filosofia, in senso etimologico, non è un’attività, una cosa che si fa, come lo sport o lo studio di una
materia, bensì un’affinità che si sente, un’amicizia, philìa, che si prova per una sapienza, sophìa, che non
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si possiede, ma di cui si intuisce la possibilità. Quando, sulla base di quest’affinità, si cerca di orientare
concretamente la propria vita verso questa possibilità intuita, in qualunque modo la si chiami, si sta
facendo psicagogia. La psicagogia è un ‘fare’ che solo in parte può riguardare lo studio di testi o il
lavoro intellettuale attorno a un argomento, la filosofia come la si intende e si pratica nelle università.
Può afferire alla psicagogia cosa e come mangiamo, come gestiamo i nostri ritmi di vita, le emozioni e
i pensieri che ci abitano, la visione della vita che coltiviamo, come godiamo del presente e molto altro.
Anticamente era questo l’inesorabile sbocco pratico della filosofia in antitesi, già secondo Socrate, alla
cultura nozionistica proposta dai sofisti. È quindi psicagogico tutto ciò che tende a educare la mente
umana, guidandola e modificandola pedagogicamente o attraverso la psicoterapia, allo scopo di favorire
lo sviluppo della personalità e delle capacità di riflessione e di analisi), e l’autorità politica greca è la prima a essere convinta di tale valore, ritenendo la musica come uno dei fattori più importanti nel formare
e disciplinare il costume individuale del cittadino e quello collettivo della società. Pertanto, il governo
esercita il controllo della musica, applicando una concezione etica, la dottrina dell’êthos, che attribuisce
a ogni componente dell’espressione musicale un determinato valore etico, un êthos appunto, e che, sostenuta da Damone di Oa (V sec. a.C.), è condivisa tra gli altri da Platone (428/427 a.C.-348/347 a.C.)
e Aristotele (384 a.C.-322 a.C.). La dottrina o teoria dell’êthos si fonda sull’attribuire a ogni nómos effetti
psicologici, e educativi, stabilendo quanto sia giusto utilizzarne uno piuttosto che un altro. I nómoi,
νόμοι, che si distinguono in quelli da eseguirsi cantando, con la lyra, con la kithara o con altri strumenti,
sono formule melodiche precostituite (modus operandi che i greci ereditano dalle antiche civiltà egizie e
babilonesi), ciascuno adatto a una diversa occasione o funzione. Dei nómoi si fa uso fino al periodo classico più avanzato della cultura greca. I diversi nómoi sono identificati per la regione di provenienza, per
il modo tipico di intonare i canti o di accompagnare i riti, per le caratteristiche musicali, per la funzione
rituale. Di qui le denominazioni di: dorico, ionico, lidio, beotico, eolico, trocaico, pitico, di Atena, eccetera.
La dottrina dell’êthos si occupa sostanzialmente dell’effetto morale più che del significato della musica,
evidenziando con questo il fatto che al centro della riflessione antica è posta sempre e esclusivamente la
reazione psicologica dell’ascoltatore. Nondimeno, allorquando l’effetto morale della musica è posto (in
particolare da Aristotele) nella capacità che essa ha di imitare i sentimenti e le passioni umane, viene
spontaneo pensare che le classificazioni sistematiche, elaborate sulla corrispondenza tra precisi modi
e generi musicali (in senso strettamente tecnico) e determinati stati d’animo e effetti morali, abbiano
un portato semiologico. Basti pensare all’analisi delle aJrmonivai (harmoníai), le armonie, compiuta da
Socrate, che Platone riporta nel III libro della Repubblica. Si tratta di un passo molto noto, come scrive
Alessandro Pagliara (Alessandro Pagliara, La musica di Socrate piaceva a Damone? Sui confini dell’originalità platonica nella censura dei modi di Resp. III 10, 398d-399c, Le musiche dei greci: passato e presente
valorizzazione di un patrimonio culturale, III Seminario, 2002, Dipartimento di Storie e Metodi per la
Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna, sede di Ravenna, pag. 2) che lo commenta e
riassume come di seguito: Se “nelle composizioni letterarie non c’è bisogno alcuno di lamenti e pianti”,
conseguentemente saranno da bandirsi le armonie lamentose (θρηνώδεις), [trenódeis], la mixolidia, [...]
la sintonolidia e le altre simili: esse infatti, commenta Socrate [470/469 a.C.-399 a.C.], “non sono utili
neanche alle donne, se devono essere donne dabbene, per non parlare degli uomini”. E se “per i guardiani
(Nell’ideale Stato platonico, diviso in tre classi: filosofi; soldati; produttori; la classe dei soldati, detti
phylakes, guardiani, è quella che assicura e garantisce la difesa dello stato) [...] sono molto sconvenienti
l’ubriachezza, la mollezza e l’indolenza”, allora non si dovranno ammettere nemmeno le armonie molli e
conviviali (μαλακαί τε καί συμποτικαί) [malakài te kài sympotikài], inutili a formare dei guerrieri: pertanto, al bando anche la ἰαστί [iastì, armonia ionica] e la λυδιστί [ludistì, armonia lidia]. Ecco dunque
che rimangono le sole dorica e frigia, osserva Glaucone [445 a.C.-V secolo a.C.]; Socrate, professando
una strumentale ars nesciendi, afferma di non conoscerne il nome, ma descrive le caratteristiche di due
harmoniai che Glaucone identifica proprio nella δωριστί [doristì, armonia dorica] e nella ϕρῠγιστί [fryghistì, armonia frigia]. La censura di Platone salva solo le armonie dorica e frigia. L’una evoca il coraggio
in guerra e in ogni azione violenta, e la fermezza e la sopportazione di fronte alla sconfitta e alla sciagura;
l’altra è propria di chi spontaneamente persua-de, chiede, prega, e per converso evoca chi, con saggezza
e moderazione, accetta le sollecitazioni provenienti da altri, lungi dal mostrare orgoglio. La dottrina
dell’êthos, per il fatto che sostanzialmente nega una certa libertà musicale, non raccoglie la totalità delle
adesioni da parte dei pensatori greci (vedi Aristòsseno che prende una posizione decisamente moderna,
contestando, a esempio, che l’armonia lidia sia dannosa alla formazione del carattere, e poco virile).
26
L’umanesimo rinascimentale, con la riscoperta dei classici greci e latini, recupera e rivaluta il concetto di
relazione tra parola e suono, sottolinea il carattere linguistico della musica e la sua portata denotativa, e,
rivelando che la musica e la poesia costituivano un unicum, determina la riappropriazione della musicalità del dire, non più attuata fino a quel momento. Difatti, nel mondo classico la musica era intesa come
l’arte del dire, e il pubblico dello scrittore non era formato da lettori, bensì da uditori, per cui la retorica
costituisce il fondamento per la realizzazione fonetica del pensiero (Cfr. Renzo Cresti, Il Canto alle Corti
italiane del Quattro-Cinquecento, Harmoniae.com, 2006, pag. 3).
Nella seconda metà del XVI secolo […] la musica, grazie alla retorica, può cercare di realizzare le sue
funzioni di arte imitativa e di arte persuasiva; il Musico, similmente all’Oratore che è alle prese con il
suo ‘discorso’, nell’organizzare il suo prodotto deve tenere presenti tutti gli elementi strutturali e retorici
necessari per ‘commuovere’ i suoi ascoltatori, per tener viva l’attenzione (Stefano Agostino Emilio Leoni,
La trattatistica musicale tra XVI e XVII secolo: retorica e scienza, filosofia e musica. Alcune note introduttive, in Atti del Convegno internazionale di studio: Ruggero Giovannelli e il suo tempo, Palestrina-Velletri,
12-14 giugno 1992, editi a cura della Fondazione G. P. da Palestrina, Palestrina, 1999, pag. 6). L’indagine
dei musicisti e dei teorici si volge a indagare tutti i possibili riscontri tra gli stati d’animo e i mezzi musicali più adatti a rappresentarli (Renzo Cresti, Ibidem).
Sarà solo dal Rinascimento in poi che si scoprirà la funzione psicologica attiva (espressiva) della musica: importante sarà l’opera della Camerata fiorentina, Accademia [Le Accademie nascono nel XV secolo come luogo di ritrovo e di discussione tra umanisti. Il termine ‘accademia’ è il nome della scuola
che Platone fonda a Atene, con sede in un parco che Platone acquista appositamente, e che è dedicato
all’eroe Academo: di qui il nome Accademia. Legate a fazioni politiche, le Accademie si danno spesso
nomi quali Accademia degli Intronati, degli Invaghiti, degli Infiammati, degli Eterei, ecc.. Membri celebri
dell’Accademia de’ Bardi sono umanisti e musicisti quali Giovanni de’ Bardi (1534-1612), Giulio Caccini (1545/1550-1618) Gabriello Chiabrera (1552-1638), Vincenzio Galilei, Girolamo Mei (1519-1594),
Jacopo Peri (1561-1633). Il contesto dialettico delle riunioni è spesso quello della corrente neoplatonica
rinascimentale, soprattutto a Firenze] e il ‘cantare con affetto’ di Giulio Caccini, ma anche il perfezionarsi
degli strumenti, a corda e a fiato, che rispose ad una maggiore esigenza di espressività da parte degli autori
(si veda soprattutto il comune progresso della letteratura per violino e dello strumento stesso); non a caso,
i testi di tecnica esecutiva del XVIII secolo si pongono proprio il fine di guidare a un’ermeneutica delle
intenzioni dell’autore (Luigi Enrico Rossi, Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la
teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti, Le musiche dei greci: passato e presente
valorizzazione di un patrionio culturale, De Musicis, Anno I, 2000).
All’inizio del Seicento, ma il fenomeno conosce anticipazioni nella Mantova dei Gonzaga, nella Ferrara degli Este, e nella stessa Firenze medicea, alcune forme di inflessioni melodiche, determinate dalla
riscoperta del mondo classico attuata dagli umanisti [che] ripropone con forza l’ideale di una comunicazione musicale più diretta, affidata a mezzi ‘semplici’, in grado di coinvolgere l’ascoltatore nella dolcezza
del suono e nella chiarezza dei contenuti del testo (Renzo Cresti, ivi, pag. 2), sono introdotte e teorizzate
a Firenze dalla Camerata dei Bardi con il nome di affetti (oltre a essere un’epoca cruciale quanto ai
mutamenti nella teoria musicale, il Rinascimento dà vita anche a motivi estetici responsabili di grandi
novità, come l’introduzione di un genere che tanta fortuna avrà nei secoli a venire: l’opera in musica.
Questa amata forma d’arte ha una genesi alquanto complessa, che va indubbiamente chiarita alla luce
delle considerazioni mosse all’interno della celebre Accademia de’ Bardi in Firenze).
Le discussioni che si tengono in casa del letterato Giovanni de’ Bardi attribuiscono alla musica il potere
di muovere gli affetti dell’animo, e riconoscono tale potere, in particolare, alla musica della tragedia
greca, capace di condurre lo spettatore alla catarsi, purificazione emozionale, originata dalla pietà e
dalla paura, che passa attraverso la agnoresis e la peripezia, ossia il riconoscimento degli eventi e il loro
capovolgimento, per cui, grazie alla rappresentazione del mito, gli impulsi istintuali sono superati. Questo concetto è espresso più di una volta da Vincentio Galilei […] (padre di Galileo) che, nel suo trattato
Dialogo sopra la musica antica et moderna (1581), afferma l’efficacia dell’antica monodia greca e critica
la pratica polifonica, richiamando a sostegno della sua tesi il concetto greco di êthos, per cui ogni melodia, musica, strumento o voce, è portatore di un determinato valore, di un êthos, quindi, che, proprio
perché espresso monodicamente, rimane ben definito, mentre, con la pluralità della polifonia, diviene
confusione di valori e ‘contraddizione’ sonora.
Un dotto letterato del Cinquecento, Lorenzo Giacomini, definisce dal più al meno un affetto come un
moto spirituale od operazione della mente in cui essa è attratta o respinta da un oggetto con cui è venuta a
27
contatto, e lo descrive come uno squilibrio negli spiriti animali e nei vapori che continuamente fluiscono
attraverso il corpo. Un’abbondanza di spiriti snelli e vivaci dispone una persona a affetti gioiosi, mentre
vapori torbidi e impuri spianano la strada alla tristezza e al timore. Le sensazioni interne e esterne stimolano il meccanismo corporale a alterare lo stato degli “spiriti”. Quest’attività è sentita come un “movimento degli affetti”, e il risultante stato di squilibrio è l’Affetto, appunto. Una volta raggiunto questo
stato, il corpo e la mente tendono a restare nella stessa “affezione” fino a che nuovi stimoli conducano a
un’alterazione della combinazione dei vapori. Affetto e passione sono allora due termini che indicano il
medesimo processo, il primo lo descrive dal punto di vista del corpo, il secondo da quello della mente.
L’alterazione del sangue e gli spiriti danno affettoeffetto sul corpo, mentre la mente passivamente ne
soffre i disturbi. È così perpetuata l’opinione, proposta per primo da Aristotele nella sua Retorica, che
esistano stati, modi di ‘sentire’, differenziati, come timore, amore, odio, gioia, e così via (Stefano Agostino Emilio Leoni, ivi pag. 5).
Secondo la fisiologia antica, risalente a Ippocrate, ampliata da Galeno, e ancora da Filistione di Locri, il
temperamento umano è definito dagli umori vitali, fluidi corporei che si bilanciano per formare la complessione dell’individuo. Laddove tra essi ci sia uno stato di equilibrio si ha l’eucrasia, in caso contrario
c’è la discrasia che comporta la malattia.
Gli umori sono quattro: l’atrabile, detta bile nera, con sede nella milza; la linfa detta flegma, con sede
nella testa; il sangue, con sede nel cuore; la bile, detta bile gialla, con sede nel fegato. A questi umori
corrispondono i quattro temperamenti estremi: alla bile nera il temperamento melanconico; al flegma il
temperamento flemmatico; al sangue il temperamento sanguigno; alla bile gialla il temperamento collerico. A loro volta i quattro temperamenti corrispondono ai quattro elementi: il melanconico alla Terra; il
flemmatico all’Acqua; il sanguigno all’Aria; il collerico al Fuoco. E i quattro elementi corrispondono alle
quattro qualità elementari: la Terra al freddo e secco; l’Acqua al freddo e umido; l’Aria al caldo e umido;
il Fuoco al caldo e secco. E via dicendo, di corrispondenza in corrispondenza.
t
e
m
p
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temperamento malinconico
bile nera
freddo & secco
Terra
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Aria
umido & caldo
sangue
temperamento sanguigno
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c
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Pertanto, a un rapporto equilibrato tra i quattro umori, nel corpo umano, corrisponde una condizione
di stabilità armonica, quindi, di benessere. Lo squilibrio tra i quattro umori determina una condizione
di instabilità armonica che determina uno stato patologico di malessere. Attraverso gli esprits animaux
diffusi nel corpo umano, le qualità melodiche, ritmiche, armoniche specifiche di una composizione
musicale influiscono, tramite l’udito, sull’equilibrio umorale dell’individuo e vi provocano delle ‘perturbazioni’ (passeggere e gratificanti) dell’animo: affezioni, sensazioni di passioni determinate (Lorenzo
Bianconi, Il Seicento, EDT srl, Bologna, 1991, pag. 58).
28
A partire dagli ultimi decenni del XVI secolo, principale obiettivo della poesia e della musica è stimolare
gli affetti (sui quali è tale l’attenzione che uno degli intermezzi, un carro mascherato, per il Carnevale fiorentino del 1574 è titolato Gli Affetti). Nello stesso tempo, si apre una speculazione sulle umane passioni
che dura per i due secoli successivi. La teoria degli affetti, Affektenlehre per i teorici tedeschi che, partendo da Eger von Kalkar (1328-1408), elaborano una vera e propria teoria, stimolati dalla forte valenza
educativa assegnata alla musica dalla Riforma luterana, domina interamente l’epoca del razionalismo e
costituisce un tema centrale del Barocco, e approda infine nell’estetica romantica del sentimento. Essa si
fonda, attraverso una classificazione di varie tipologie di affetti e una individuazione di simboli, formule
e figure che li rappresentino e traducano in qualche modo, su un’ideale corrispondenza tra sentimenti e
determinate figurazioni musicali (Gli schematismi espressivi dettati dalla Affektenlehre, giudicati meccanici e innaturali già nel periodo Classico, sono del tutto superati con il Romanticismo, quando si fa
strada una visione più storicizzata dell’espressione artistica e, in ogni caso, a fondamento di ogni approccio al fatto musicale si pone l’attenzione verso la soggettività dell’autore e non gli effetti sull’uditorio).
Tali figurazioni rappresentano agglomerati sonori riconoscibili, con i quali gli affetti si identificano più
o meno formalmente, e in grado di generare nell’animo dell’ascoltatore situazioni ben definite. Ne viene
la dottrina degli affetti che studia le regole compositive da utilizzare per ottenere nell’animo di chi ascolta
gli effetti più diversi e che tratta della rappresentazione in musica delle passioni e dei moti dell’animo.
Le emozioni e i sentimenti, sono l’oggetto a cui si rivolge la musica, soprattutto dopo la svolta che Claudio Monteverdi ha impresso alla musica vocale profana con la nascita del melodramma, e la particolare
attenzione dedicata al contenuto dei testi e alla loro resa emotiva tramite scelte melodiche descrittive e
non prevaricanti è particolarmente evidente nei compositori che si rifanno alla seconda pratica monteverdiana nella quale, nel solco del suo ideale di una musica che non si chiude mai nel gioco astratto dei
rapporti sonori, ponendosi invece come manifestazione e riproduzione delle passioni umane, Monteverdi afferma il primato del cantare col ‘tempo dell’affetto dell’animo e non quello de la mano’, richiedendo
all’esecutore di non attenersi rigidamente alla scansione del tactus, bensì di adeguare di volta in volta la
conduzione agogica al senso effettivo del testo cantato, ponendo così ‘per signora dell’armonia l’orazione’.
Il proposito di esprimere il contenuto affettivo dei testi è evidente nel madrigale italiano, classico e tardo, forma musicale dove il legame con la parola avviene inventando metafore sonore che a essa vogliono
corrispondere. Tali metafore costituiscono i lemmi di un vocabolario musicale: significanti di numerose
categorie di sentimenti che a loro volta sono i significati. Qui, a esempio, la gioia è espressa dal modo
maggiore, dalla consonanza, dalla tessitura acuta e dall’andamento rapido, mentre il modo minore, la
dissonanza, i registri gravi e l’andamento lento esprimono il dolore.
Tra gli studi più completi compiuti sugli affetti nella prima metà del Seicento c’è il frutto della speculazione filosofica di René Descartes, Il Traité des passions de l’âme, Le Passioni dell’Anima (pubblicato a Parigi nel 1649, pochi mesi prima della morte di René Descartes, avvenuta a Stoccolma l’11 febbraio 1650),
in cui il filosofo francese, precisando puntigliosamente di voler parlare in quanto fisico, trasfigura, includendola nel suo piano di ricerca, una materia d’occasione, suggerita dalla corrispondenza che intrattiene
con la principessa Elisabetta del Palatinato. Il Traité, infatti, in origine, è destinato solo a beneficio della
nobildonna, afflitta da numerosi problemi di salute che René Descartes ritiene conseguenze di affezioni
dell’anima. Nell’opera, che è una vera e propria monografia psicologica, il filosofo fonde la visione di una
nuova scienza dell’uomo e le prime rivoluzionarie prove della neurobiologia, affrontando razionalmente
e scientificamente la fisiologia delle passioni e la natura oggettiva delle emozioni e giungendo a indicare
sei forme fondamentali di affetto: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza, dalle quali hanno
origine infinite sfumature e mescolanze.
Oltre che da René Descartes, la teoria degli affetti, è trattata ampiamente da Athanasius Kircher, uno dei
primi a ipotizzare un preciso rapporto di corrispondenza tra gli affetti e alcune determinate sequenze
e figure sonore. Kircher, nella sua Musurgia Universalis (pubblicata a Roma nel 1650) enuncia una
serie di classificazioni stilistiche, per ognuna delle quali ricerca la corrispondenza che essa promuova
negli affetti, oltre a affermare che debbano essere soddisfatte quattro condizioni perché una musica desti
naturalmente degli affetti: “Prima est armonia; secunda numerus & proportio; tertia verborum […] vis;
quarta audientis dispositio”.Kircher, nel capitolo VI del libro VII della Musurgia, allo scopo di descrivere
come debba articolarsi una melodia per muovere a un determinato affetto, utilizza numerosi esempi di
musiche contemporanee e, attraverso la loro descrizione analitica, assume ognuna di esse a paradigma
di ciascun affetto. Quindi enumera otto affetti che si possono esprimere musicalmente: amore, dolore-pianto, letizia-esultanza, furore-indignazione, compassione-lacrime, timore-afflizione, presunzione-au29
dacia, ammirazione-stupore. Tuttavia, la musica, per Kircher, infonde nell’animo fondamentalmente tre
affetti: laetitia, remissio, misericordia, dalla varia gradazione dei quali deriva la grande varietà espressiva
della musica stessa.
In seguito, nel Settecento, la teoria degli affetti si applica anche alla musica strumentale che è considerata nella sua autonomia, senza l’ausilio della poesia e dell’azione melodrammatica, come linguaggio
autosufficiente, capace di imitare gli affetti, rappresentarne tutta la gamma, trasmettere emozioni e sentimenti, commuovere l’uditore, attraverso l’emozione derivata dalla rappresentazione di emozioni.
Questa teoria degli affetti testé non la si trova tanto in trattati di estetica a essa appositamente dedicati, quanto in numerosi trattati a sfondo pedagogico sulla prassi strumentale. Se si legga il Versuch
einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen (1752) di Johann Joachim Quantz (1697-1773), il grande
flautista, compositore e esecutore alla corte di Federico il Grande di Prussia, o il saggio Versuch über
die wahre Art das Clavier su spielen (1753-62) di Carl Philipp Emanuel Bach, o ancora il Versuch einer
gründlichen Violinschule (1756) di Leopold Mozart, ci si accorge che le minuziose istruzioni relative alla
prassi esecutiva degli strumenti descritti non sono mai fini a sé stesse, bensì saldamente legate non solo
a una teoria dell’interpretazione, ma a tutta un’estetica basata appunto sulla teoria degli affetti (Enrico
Fubini, Musica e cultura nel Settecento europeo, EDT srl, Bologna, 1986, pag 34).
30
Accordatura e temperamento
Giuseppe Amoruso
(Relazione tratta da: Domenico Molinini, Teoria musicale e dintorni, Il mondo della luna, Bari, 2013. Si ringrazia la casa editrice Il mondo della luna per aver consentito la pubblicazione con la clausola: si consente la
riproduzione parziale dell’opera e la sua diffusione, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa
dicitura sia riprodotta)
Temperare è verbo che deriva dal latino. Significa moderare, lenire, distribuire in giusta e equa misura
[…].
La voce umana è totalmente libera di muoversi melodicamente […] Ma la libertà melodica della voce
umana non si contempera con le possibilità degli strumenti musicali, ché queste sono limitate a produrre suoni determinati e, quindi, intervalli nettamente definiti. L’organizzazione di sistemi scalari nasce,
pertanto, per la necessità di accordare la libertà melodica della voce umana con la fissità intervallare
degli strumenti musicali […].
La prima forma sistematica di accordatura che abbia influenzato la cultura occidentale (utilizzata fino
al XV secolo), risale alla Grecia del VI secolo a.C., e è attribuita a Pitagora da Samo e alla scuola che da
lui prende il nome di pitagorica.
Il metodo adottato dai pitagorici è razionale, basato sulla trasposizione della quinta e costituisce il fondamento dell’intera dottrina cosmologica e metafisica di Pitagora, collegata al concetto di armonia,
nozione di un ordine, finalisticamente organizzato, la cui tesi fondamentale è che ‘il numero è la sostanza
delle cose’ […].
La scala che risponde al temperamento pitagorico […] è costruita, con l’impiego del monocordo, in base
alla legge fisica di proporzionalità in essere fra la lunghezza di una corda oscillante e la frequenza del
suono risultante. […]
Si abbia, quindi, una corda che oscilli per tutta la sua lunghezza. Essa produrrà un suono corrispondente
a una determinata frequenza.
Sia, a esempio, il Do1
Do1
Oscillando la stessa corda per metà lunghezza […], essa produrrà il suono corrispondente alla metà
della frequenza precedente, il Do2 […]
Do2
oscillando la corda per un terzo della sua lunghezza, si avrà il rapporto di Do/3, corrispondente al terzo
della frequenza iniziale: la 5a pitagorica […] detta naturale, perfetta o giusta, il Sol2
Sol2
a
[…] La 5 perfetta è il medio aritmetico dell’intervallo di ottava, infatti, il medio aritmetico di due numeri α e β corrisponde a
(α + β) e, pertanto (1 + 2) =
3
2
2
2
[…] La scala pitagorica si fonda, quindi, sulla sovrapposizione dei suoni ottenuti secondo la progressione dell’intervallo di 5a perfetta, e sulla sua successiva trasposizione nell’ambito dell’ottava iniziale […].
Per ottenere il Fa1, pari all’oscillazione di una sezione di 3/4 della corda originaria, al Do1 si fa precedere
il Fa (poi trasposto di un’ottava verso l’acuto), rispondente al rapporto 4/3 secondo la regola generativa
discendente:
31
I grafici seguenti mostrano la successione di note scritte per intervalli di quinta su un’accollatura formata da due pentagrammi; la scala che si ottiene trasponendo le note nell’ambito della ottava iniziale,
scrivendole su un solo pentagramma:
la sequenza Do1, Re1, Mi1, Fa1, Sol1, La1, Si1 è una scala eptafonica (o eptatonica) […]. L’accordatura degli
intervalli pitagorici è definita, come risulta dal grafico, tramite operazioni di moltiplicazione e divisione
tra i loro indici di proporzione:
Intervallo
Rapporto
Unisono
Do1 – Do1
(1/1) • (1/1) =
1:1
2a
Do1 – Re1
(1/1) • (3/2)2 : (2/1) =
9:8
tono
3
a
Do1 – Mi1
(1/1) • (3/2) : (2/1) : (2/1) =
81:64
ditono
4
a
Do1 – Fa1
(1/1) : (3/2) • (2/1) =
4:3
diatessaron
Do1 – Sol1
(1/1) • (3/2) =
3:2
diapente
6
Do1 – La1
(1/1) • (3/2) : (2/1) =
27:16
7a
Do1 – Si1
(1/1) • (3/2)5 : (2/1) : (2/1) =
243:128
Do1 – Do2
(1/1) • (2/1) =
2:1
5a
a
8
a
4
3
diapason
Il grafico mostra i rapporti intervallari che sussistono tra i gradi contigui della scala pitagorica nell’ambito Do1/Do2:
Do1 – Re1
9:8
tono
Re1 – Mi1
(81:64) : (9:8) =
9:8
tono
Mi1 – Fa1
(4:3) : (81:64) =
256:243
limma
Fa1 – Sol1
(3:2) : (4:3) =
9:8
tono
Sol1 – La1
(27:16) : (3:2) =
9:8
tono
La1 – Si1
(243:128) : (27:16)
=
9:8
tono
Si1 – Do2
(2:1) : (243:128) =
2:1
limma
Procedendo nella costruzione di intervalli di quinta pitagorica, sia nel verso ascendente, ossia oltre il Si,
sia nel verso discendente prima del Fa, si ottiene una serie di suoni non appartenenti alla scala diatonica
finora considerata […]:
Do, Si#, Reb, Do#, Re, Mib, Re#, Fab, Mi, Fa, Mi#, Solb, Fa#, Sol, Lab, Sol#, La, Sib, La#, Dob, Si, Do. Si noti come
i suoni non diatonici si interpongano tra quelli diatonici in contraddizione con la regolare successione
nominale dei gradi. Il Do è, infatti, seguito dal Si# che, a sua volta è seguito dal Reb, seguito dal Do# e via
dicendo. […] Si evince che nel sistema pitagorico il Si#7 è più acuto del Do8. Da ciò deriva che nel sistema
32
pitagorico, dato un qualsiasi suono di riferimento, la sua dodicesima quinta pitagorica superiore risulta
sempre più acuta della sua settima ottava superiore. Tale ‘eccedenza’ comporta che il circolo delle quinte
pitagoriche non si chiuda su sé stesso.
La differenza tra gli intervalli Do1/Si#7 e Do1/Do8 è definita dal rapporto tra le loro rispettive proporzioni
[…] entità che corrisponde a a 23,460 cents che corrispondono approssimativamente a un intervallo di
1/8 del tono temperato, detto comma pitagorico o comma ditonico.
[…] Quindi la successione degli intervalli di tono nella scala pitagorica è la seguente:
Il primo dei due grafici mostra la scala diatonica pitagorica nell’ambito Do1-Do2 con la quantificazione
in cents relativa a ogni grado; il secondo la serie completa dei suoni, diatonici e non, compresi nell’ambito dell’ottava Do1–Do2, disposti secondo la successione crescente delle frequenze, con la quantificazione
in cents relativa a ognuna di esse:
Rapporto
Valore e intervallo in cents
Rapporto
cents
Do1
1/1
0
-
Do1
1:1
0
Re1
9/8
204
204
Si 1
531441:524288
24
Mi1
81/64
408
204
Re 1
256:243
90
Fa1
4/3
498
90
Mi
2187:2048
114
Sol1
3/2
702
204
Re1
9:8
204
La1
27/16
906
204
Mi 1
32:27
294
Si1
243/128
1110
204
Re 1
19683:16384
318
Do2
2/1
1200
90
Fa 1
8192:6561
384
Mi1
81:64
408
Fa1
4:3
498
Mi 1
177147:131072
522
Sol 1
1024:729
588
Fa 1
729:512
612
Sol1
3:2
702
La 1
128:81
792
Sol 1
6561:4096
816
La1
27:16
906
Si 1
16:9
996
La 1
59049:32768
1020
Do 1
4096:2187
1086
Si1
243:128
1110
Do2
2:1
1200
1
La scala pitagorica resta in uso fino al 1560-1570. L’accordatura pitagorica soddisfa le esigenze dello
stile omofono, ma, con l’avvento della polifonia, la esecuzione simultanea di intervalli di 3a e di 6a risulta
dissonante. Considerando l’intervallo fra due suoni nell’accezione di rapporto fra le loro frequenze, si è
33
visto come l’intervallo di 8a corrisponda a un rapporto di 2/1 (2:1 = 2); la 5a a un rapporto di 3/2 (3:2 =
1,5); la 3a maggiore a un rapporto di 5/4 (5:4 = 1,25). Ne consegue che due suoni le cui frequenze siano
400 e 800 Hz, formano un intervallo di 8a; 300 e 450 Hz di 5ª; 400 e 500 Hz di 3a maggiore. Così, considerando come fondamentale un suono di 100 Hz (equivalente all’incirca aI Sol1), si può costruire su di
esso una triade maggiore, poiché la sua 3a, il Si, avrà una frequenza di 100 x 1,25 = 125 Hz; la 5a, il Re, di
100 x 1,5 = 150 Hz; la 8a di 100 x 2 = 200 Hz.
Considerando il Do1, come punto di partenza di una successione di quattro 5e, si avrà Do1 – Sol1 – Re2
– La2 – Mi3. […]
L’intervallo Do1/Mi1, derivante dal rapporto 5/4, è la 3a maggiore naturale o pura, già nota a Archita
(430-348 a. C.) e a Didimo. La 3a pitagorica, il ditono, 81/64, risulta più ampia della 3a maggiore naturale, 5/4, infatti (81:64) : (5:4) = 81/80 = 1,0125. L’entità di tale sfasatura (circa 21,5063 cents) è detta
comma sintonico o di Didimo.
Alla fine del 1400 (ma ci sono avvisaglie anche nei secoli precedenti) la 3a pitagorica è sentita sempre
meno eufonica rispetto alla 3a maggiore naturale, a causa dei problemi che comporta la sua intonazione
(affrontati e risolti in modo empirico dagli esecutori secondo procedimenti percettivi). La discrasia
tra la 3a maggiore naturale e quella pitagorica si amplia nel secolo successivo, poiché quest’ultima non
risponde alle esigenze del linguaggio polifonico della metà del Cinquecento, ormai tese verso l’accordo
di tre suoni, la triade maggiore, nel quale la 3a, accordata secondo le proporzioni della serie armonica,
riveste un ruolo di primaria importanza.
L’interesse verso il temperamento naturale (che, per determinare l’intonazione dei gradi rispetto alla
tonica, è basato sulla successione naturale delle armoniche), e la sua trattazione, sono storicamente
attribuiti a Archita, a Didimo, e a Claudio Tolemeo, teorici vissuti prima del 1500. È, tuttavia, Gioseffo
Zarlino (uno dei suoi più grandi teorizzatori), nelle Istitutioni Harmoniche (Venezia, 1558) a trattare
compiutamente il temperamento naturale, e a applicarlo nella pratica. Zarlino, oltre che determinare
l’altezza dei suoni della scala diatonica secondo la teoria fisica delle armoniche naturali, rivendica agli
intervalli di 3a e 6a piena legittimità di consonanza, seppure definita imperfetta. […]
Stabilito che tra le armoniche c’è la stessa proporzione che ogni loro numero d’ordine ha rispetto agli
altri numeri d’ordine, è possibile determinare i rapporti che intercorrono tra due armoniche, quale che
sia l’intervallo in essere tra loro, servendosi della sequenza ordinale della serie armonica:
La costruzione della scala musicale di riferimento avviene attraverso lo studio degli intervalli. Il modello fisico utilizzato è il già citato monocordo, col quale si può ottenere un numero arbitrario di intervalli e costruire la scala musicale di riferimento. Diventa, quindi, possibile accordare uno strumento
musicale su una determinata nota: basta applicare sullo strumento la divisione che corrisponde a quella
nota sul monocordo che, in tal modo, svolge le funzioni di un vero e proprio accordatore.
Sia data la triade Do–Mi–Sol secondo l’accordatura naturale. La 5a, poiché fondata sul rapporto 3/2,
coincide con quella pitagorica, mentre la 3a maggiore naturale, che risponde al rapporto 5/4, ne differisce, risultandone inferiore, come s’è visto, di 81/80: il comma sintonico o di Didimo. Inoltre l’accordatura
naturale prevede anche la 3a minore naturale, con rapporto 6/5.
A questo punto, per postulato, la scala diatonica maggiore naturale è tale quando risultino accordate
‘naturalmente’ le sue tre triadi principali.
Nel caso della scala di Do maggiore: Do-Mi-Sol; Fa–La–Do; Sol–Si-Re.
Per approfondire questo assunto, tenendo conto che la struttura degli intervalli è basata sul rapporto tra
l’armonico successivo e quello precedente, si consideri il seguente grafico:
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Intervallo
Rapporto
unisono
1/1
terza minore pura
6/5
terza maggiore pura
5/4
quinta giusta
3/2
ottava pura o giusta
2/1
quarta (rivolto della 5ª giusta)
4/3 = (2:1) : (3:2)
sesta minore (rivolto della 3ª maggiore)
8/5 = (2:1) : (5:4)
sesta maggiore (rivolto della 3ª minore)
5/3 = 10:6 = (2:1) : (6:5)
settima maggiore
15/8
seconda maggiore grande (tono maggiore)
9/8 = (3:2)2 : (2:1)
seconda maggiore piccola (tono minore)
10/9 = (5:4) : (9:8)
seconda minore (temitono diatonico)
16/15 = (4:3) : (5:4)
È possibile, in tal modo, calcolare l’intervallo che c’è tra ogni grado di questa scala con quello immediatamente precedente. Si procede dividendo il rapporto del grado che c’interessa per quello del grado che
lo precede. A esempio, il secondo grado, la nota Re, ha un rapporto di 9/8 con il primo, la nota Do. Il
risultato della divisione di 9/8 per 1 è uguale a 9/8. Così come il terzo grado, la nota Mi, ha un rapporto
di 5/4 con il Re, che lo precede, il quale ha, a sua volta, come s’è visto, il rapporto di 9:8. In questo caso,
il risultato della divisione di 5/4 per 9/8 è 10/9.
L’adozione della 3a pura (meno ampia della 3a pitagorica per la differenza di un comma sintonico), fatti
salvi i rapporti di 8a, 5a, 4a, rapporti che, come s’è detto, restano inalterati rispetto all’accordatura pitagorica, comporta, rispetto al suono di riferimento, modificazioni nell’ordine di un comma sintonico in più
o in meno per gli altri gradi, rispetto agli stessi dell’accordatura pitagorica. È questa la ragione per cui
nel grafico precedente sono riportati intervalli definiti come ‘grandi’, oppure ‘piccoli’.
Oltre alla 3a maggiore pura, hanno un comma sintonico in meno la 6a maggiore ‘piccola’ e la 7a maggiore
‘grande’. Le due seconde maggiori presenti nel grafico, una grande, con rapporto 9/8, l’altra piccola, con
rapporto 10/9, si giustificano alla luce del postulato prima enunciato, “la scala diatonica maggiore naturale è tale quando risultino accordate ‘naturalmente’ le sue tre triadi principali” che, nel caso della scala
di Do maggiore, sono Do-Mi-Sol; Fa-La-Do; Sol-Si-Re; considerando la triade pura Sol–Si–Re nella sua
scala di riferimento, dove il Re è la 5a, con rapporto 3/2.
Nella scala diatonica naturale di Do, il Re è dato dal rapporto 9/8, coincidente con quello dell’accordatura pitagorica, da cui non si differenzia in termini di comma, ossia di grandezza, e l’intervallo Do/Re
è detto 2a maggiore grande o tono maggiore. Stabilito che in questa scala il Re è dato dal rapporto 9/8 e
il Mi 5/4, ne deriva che l’intervallo Re/Mi è pari a (5:4) : (9:8) = 10/9, detto 2a maggiore piccola oppure
tono minore, poiché più piccolo della 2a maggiore grande nei termini di (9:8) : (10:9) = 81/80, ossia di
un comma sintonico.
A seguito di tale procedimento si hanno intervalli di 2a maggiore grande, tono maggiore, o anche TG,
ossia 9/8, tra Do/Re, Fa/Sol, La/Si; 2a maggiore piccola, tono minore, o anche Tp, ossia 10/9, tra Re/Mi
e il Sol/La. Ne deriva che la 3a maggiore pura della scala zarliniana è formata da due intervalli di tono
differenti: uno maggiore e l’altro minore. L’intervallo di 2a minore diatonica, ossia il semitono diatonico
piccolo, S/tdp, il cui rapporto è dato da (4:3) : (5:4) = 16/15, si trova tra Mi/Fa e Si/Do. Tale intervallo è più grande di un comma sintonico rispetto alla 2a minore pitagorica, dal momento che (16:15) :
(256:243) = 81/80.
Do
Re
Mi
Fa
Sol
La
Si
Do
9/8
10/9
16/15
9/8
10/9
9/8
16/15
TG
Tp
S/tdp
TG
Tp
TG
S/tdp
35
La 5a Re/La non è pura. Essendo formata da 1 TG + 2 Tp + 1 S/tdp, ha un comma sintonico di differenza
in meno rispetto alla 5a pura.
Il sistema dell’accordatura pura presenta notevoli problemi nella prassi esecutiva a carico della struttura
degli strumenti a tastiera, o a suono fisso. Uno dei più gravi è il non poter dare a intervalli identici lo
stesso valore su qualsiasi grado della scala. Valga come esempio la 5a Re/La che, come si è visto, nella
scala di Do è piccola, poiché formata da 1 TG + 2 Tp + 1 S/tdp, mentre in quella di Re è perfetta, essendo
formata da 2 TG + 1 Tp + 1 S/tdp. Ma basterebbe considerare il rapporto che c’è tra il Re e il MI: una 2a
maggiore piccola, ossia un tono minore, Tp, pari a 10/9, nella scala di Do; una 2a maggiore grande, ossia
un tono maggiore, TG, pari a 9/8, nella scala di Re.
La situazione si complica se si prendano in considerazione le note alterate, vedi il Fa#, dove la 3a minore
piccola Re/Fa, formata da 1 Tp + 1 S/tdp, con il Fa# si allarga di un semitono cromatico puro e diventa
3a maggiore piccola, 100/81.
Unica soluzione è quella di costruire strumenti con tastiere sconfinate, a meno che non si facciano
coesistere nello stesso brano gamme, ossia scale, differenti. Ma in tal caso il risultato sarebbe quello di
ascoltare suoni che risulterebbero estranei rispetto alle aspettative di natura percettivo tonale che, già
alla fine del secolo, vanno maturando nell’ascoltatore.
Mentre il sistema pitagorico è essenzialmente dinamico, vuoi per le accentuate differenze fra gli intervalli, alcuni dei quali tendono a risolvere su altri, vuoi per le dissonanze che devono risolvere, il sistema zarliniano può essere definito come statico. Questo per la 3a maggiore che opera un allargamento
armonico da due a tre suoni, e tende a smussare le attrazioni intervallari pitagoriche con un tappeto di
accordi con-sonanti, atti a fare risaltare la melodia. In questo caso, infatti, il moto Do → Fa → Sol → Do è
sostituito dalla struttura Do/Mi/Sol/Do.
Come si è già detto, il sistema zarliniano non permette la modulazione, se non fra tonalità molto vicine
(al massimo una nota alterata in più o in meno). Uno degli aspetti più essenziali dell’estetica barocca è
quello di voler risolvere i problemi dell’accordatura zarliniana, basandosi su quella mesotonica. Mesotonico sta per tono intermedio. Il termine si riferisce al calcolo matematico del medio aritmetico fra il tono
grande, 9/8, e il tono piccolo, 10/9, dell’accordatura zarliniana.
Si tratta di un’operazione di bilanciamento, per cui, dato, a esempio, un TG di 204 cents e un Tp di 182
cents, il suono mesotonico risulta (204+182) : (2) = (386:2) = 193 cents.
Questa accordatura, unificando l’intervallo, che nel sistema zarliniano distingue la 2ª maggiore grande
da quella maggiore piccola, con l’adozione del cosiddetto tono medio, tende a privilegiare la purezza
degli intervalli di 3ª, i più usati all’epoca. Ciò avviene a scapito degli altri intervalli, specialmente delle
quinte che, in determinate accordature mesotoniche, risultano circa 1/36 di tono più strette, poiché è
loro sottratta una frazione di comma, alla ricerca di un compromesso tra l’intonazione dei principali
intervalli armonici.
È evidente che, parlando di accordatura mesotonica, non ci si riferisce a un processo univoco, frutto di
un’unica scuola di pensiero. Si conoscono, infatti, più modi per temperare le quinte e ottenere il tono
medio.
Già in epoca rinascimentale erano ben conosciuti e non solo teorizzati, bensì applicati, temperamenti
che prevedono il frazionamento del comma pitagorico in più di quattro quinte. Giovanni Maria Lanfranco, a esempio, nel trattato Scintille di musica, del 1533, teorizza un sistema con quinte strette e terze
maggiori larghe, simile al nostro sistema moderno. Dal periodo barocco in poi la diffusione e la crescita
delle esigenze musicali, che muovono anche gli interessi teorici, spingono verso sistemi che temperano
molte quinte, in modo regolare o solo parzialmente regolare, addirittura allargandone alcune (soprattutto in ambito francese) e migliorando alcune tonalità, altrimenti non raggiungibili con la normale
ottava di dodici suoni.
La gran parte dei temperamenti (a prescindere dall’ordine con cui sono trattati) spesso sono coevi, pensati e adottati nello stesso periodo storico, in funzione della prassi esecutiva, in particolare clavicembalistica e organistica, realizzata su strumenti costruiti appositamente in applicazione di quei principi teorici (vedi l’archicembalo costruito da Nicola Vicentino che usa per la prima volta il nome archicembalo,
nel suo trattato L’Antica musica ridotta alla Moderna Prattica, pubblicato nel 1555 a Roma, riferendosi
a un clavicembalo a due tastiere, sovrapposte come nei consueti strumenti barocchi, o prevalentemente
nordici, di 36 tasti per ottava).
Una trattazione estesa su tutti i sistemi di accordatura ideati e adoperati a partire dal Rinascimento in
poi esula dai nostri obiettivi. Pertanto, senza entrare nei dettagli della loro complessione, ci si limita
36
semplicemente a citare alcuni tra quei temperamenti che si ritiene possano essere oggetto di eventuali
approfondimenti da parte degli studiosi in materia:
Werckmeister, quattro accordature che Andreas Werckmeister (1645-1706), organista e teorico musicale
tedesco, propone nel Musikalische Temperatur, pubblicato il 1691 a Lipsia. La terza delle accordature
di Werckmeister è nota con la denominazione di temperamento werckmeisteriano, che qualcuno dice
foriero del temperamento equalizzato (equabile). In effetti non può esserlo, in quanto fondato su otto
quinte naturali e quattro mesotoniche.
Kirnberger, due accordature che Johann Philipp Kirnberger (1721-1783), allievo di J. S. Bach, propone
nel Die Kunst des reinen Satzes in der Musik (L’arte della composizione naturale nella musica), 1771,
Berlino. La terza delle accordature di Kirnberger è il sistema normalmente impiegato nei paesi in lingua
tedesca fino a prima che si affermi il temperamento equalizzato, rimane in auge fino al XIX secolo inoltrato, e è l’accordatura per antonomasia del periodo che comprende Bach, Mozart e il primo Beethoven.
Quindi si prende in esame il sistema mesotonico regolare a 1/4 di comma, accordatura detta regolare,
poiché si realizza sottraendo la stessa quantità di comma a tutte le quinte. Si ottiene dalla equalizzazione
delle quattro quinte, Do/Sol, Sol/Re, Re/La, La/Mi, che si succedono nell’accordatura pitagorica. La loro
successione approda al Mi, la 3ª maggiore del suono di riferimento (dopo la trasposizione d’ottava), ossia il ditono, intervallo pari a 81/64, più ampio di un comma sintonico rispetto alla 3ª maggiore naturale
che, a sua volta, è pari a 5/4.
L’equalizzazione avviene sottraendo un quarto del comma sintonico (che costituisce l’eccedenza della 3ª
maggiore pitagorica rispetto a quella pura zarliniana) a ognuna delle quattro quinte pitagoriche sopra
citate. Così facendo, si ottengono quattro quinte che, come nell’accordatura pitagorica, sono uguali fra
di loro, ma meno ampie, poiché temperate di 1/4 di comma sintonico.
Ne deriva che, rispetto all’accordatura zarliniana, cade la differenza fra la 5ª giusta e quella piccola
(quest’ultima costruita sul secondo grado della scala diatonica maggiore), a esempio Re/La. Queste
quinte sono dette mesotoniche e la loro successione non dà più il ditono ma la 3ª maggiore pura, pari
a 5/4.
L’accordatura mesotonica, tuttavia, non risolve il problema della diversa identità delle note alterate con i
diesis o i bemolli, che comporta ancora scarse possibilità di passare da una gamma all’altra.
Inoltre, come avviene in tutti i sistemi in cui il circolo delle quinte non si completi (non si chiuda),
all’undicesima quinta segue una più ampia, sebbene collocata lontano dalla nota di riferimento dell’accordatura.
Pertanto, le quinte mesotoniche Mib/Sib Sib/Fa Fa/Do Do/Sol Sol/Re Re/La La/Mi Mi/Si Si/Fa# Fa#/Do#
Do#/Sol# sono tutte equivalenti a 696,5 cents, e percepite come ‘calanti’, ossia stonate.
La dodicesima quinta, che dovrebbe essere Sol#/Re#, in realtà corrisponde alla 6ª diminuita Sol#/Mib,
pari a 737,6373 cents, nettamente ‘crescente’ e stonata, al punto da essere denominata onomatopeicamente quinta del lupo, Wolfquinte, poiché fa pensare all’ululato di un lupo.
Il pregio di questo sistema, diffuso dal primo Cinquecento fino all’Ottocento inoltrato (è infatti utilizzato dagli organari inglesi fino al 1850) è sicuramente il fatto che la 3ª maggiore pura riesce a mitigare
notevolmente il battimento piuttosto rapido della 5ª, rendendo la percezione dell’accordo di Do maggiore, più gradevole (quantunque secondo criteri non oggettivi di valutazione) rispetto al sistema temperato
equalizzato.
Da notare è anche il fatto che con questo sistema nel genere cromatico (connesso anche allo sviluppo
del madrigalismo e alla teoria degli affetti) si esasperano le dissonanze e le consonanze in funzione
espressiva: ne sono esempio i brani di durezze e legature che compaiono proprio agli albori del Barocco
musicale italiano e trionfano poi con Girolamo Frescobaldi e Michelangelo Rossi.
Prendendo in esame il sistema mesotonico regolare a 1/4 di comma, si è specificato come l’aggettivo ‘regolare’ indichi che un particolare intervallo, in quel caso la 3ª, sia stato temperato in maniera da rendere
tutte le terze equivalenti fra loro in ampiezza. Per converso, si parlia di sistema ‘irregolare’ laddove tutte
le terze fra loro, e ugualmente le quinte, siano temperate in maniera appena diversa, allo scopo di chiudere il circolo delle quinte nelle cosiddette accordature cicliche.
Questi due differenti procedimenti, oltre che con la denominazione di temperamento regolare e temperamento irregolare, sono conosciuti come temperamento eguale e temperamento ineguale. Il temperamento
a gradi equalizzati (dizione scientifica di temperamento equabile) è un’accordatura regolare, quindi ciclica. In questa accordatura la contrazione della quinta equivale a 1/12 di comma (una contrazione equivalente a 1/6 di comma è, invece, quella che caratterizza l’accordatura attribuita a Gottfried Silbermann,
37
con cui Bach spesso collabora nella duplice veste di interprete di musica organistica e collaudatore di
organi).
Come già detto, la dodicesima quinta superiore di un qualsiasi suono di riferimento risulta sempre più
acuta della settima ottava superiore dello stesso suono di riferimento per un’entità che corrisponde a
23,460 cents. Approssimativamente un intervallo di 1/8 del tono temperato, dunque il comma pitagorico o ditonico.
Nel sistema a gradi equalizzati l’eccedenza commatica è equamente sottratta a ognuna delle dodici quinte. Procedimento, tanto pratico e comodo, quanto convenzionale, che porta alla scala dodecafonica
equalizzata. Il temperamento a gradi equalizzati si differenzia da quelli finora presi in considerazione,
definiti sistemi divisivi, essendo in essi fissata aprioristicamente la natura degli intervalli. Nel temperamento a gradi equalizzati, infatti, a essere fissato aprioristicamente è il numero degli intervalli in cui
suddividere l’ottava, non la loro natura. Per questo è definito come sistema partitivo. […]
Essendo la scala temperata a gradi equalizzati fondata sulla divisione dell’ottava in dodici semitoni
uguali, il semitono equalizzato, St, è tale che, moltiplicato dodici volte per sé stesso, dà l’ottava giusta:
St12 = 2, da cui St = 21/12 = 12√2 = 1,059463094959. Quindi, la base per la costruzione della scala è la radice dodicesima di 2, 12√2 che rappresenta l’altezza del semitono temperato equalizzato.
Ne deriva che:
a)il tono temperato equalizzato è 12√22 = 6√2
b)la 3ª minore equalizzata 12√23 = 4√2
c)il tritono temperato equalizzato 12√26 = √2
La frazione decimale 1,059463094959, che corrisponde alla determinazione numerica irrazionale del
semitono temperato equalizzato, costituisce la base per calcolare gli altri valori della scala dodecafonica
equalizzata, a esclusione dell’ottava e dei suoi multipli:
tono temperato equalizzato (temperirte
Ganzton) = 2a maggiore equalizzata
1,0594630949592
3 minore equalizzata
1,059463094959
3a maggiore equalizzata
1,0594630949594
=
1,25992105275
4 equalizzata
1,059463094959
5
=
1,33483985795
tritono temperato equalizzato
1,0594630949596
=
1,41421356718
5 equalizzata
1,059463094959
7
=
1,4983070828
6a minore equalizzata
1,0594630949598
=
1,5874010592
6ª maggiore equalizzata
1,059463094959
=
1,6817928391
7a minore equalizzata
1,05946309495910
=
1,7817974464
7 maggiore equalizzata
1,059463094959
=
1,8877486371
a
a
a
a
3
9
11
=
=
1,12246204958
1,18920711702
Nel calcolo in cents, essendo l’ottava pari a 1200 cents, il semitono temperato equalizzato, dodicesima
parte dell’ottava, è pari a 100 cents. […]
Nella tabella seguente sono riportati i rapporti che rappresentano gli intervalli, e le relative equivalenze
in cents dei tipi di intervalli contenuti in un’ottava, secondo i quattro sistemi su cui si è posta maggiore
attenzione: pitagorico, puro, mesotonico e a gradi equalizzati.
Restano, in ogni caso, evidenti le sfasature delle altezze dei gradi equalizzati, più o meno discordanti, a
esclusione dell’8a giusta, rispetto a quelli risultanti dall’accordatura pura, fondata sulla successione delle
armoniche.
A proposito del temperamento equabile, sembra ancora fin troppo diffusa l’idea di considerare il temperamento a gradi equalizzati come una sorta di traguardo assoluto nell’organizzazione sistematica della
scala dei suoni, raggiunto grazie alla naturale evoluzione dell’intelletto umano, così come può essere stato per le scoperte scientifiche. In tal senso, questa concezione ha il vizio sostanziale di creare una sorta
di graduatoria o gerarchia, considerando le altre accordature alla stregua di tappe, poste su un percorso
evolutivo, diretto verso il traguardo, rappresentato in questo caso dal temperamento a gradi equalizzati.
Un esempio emblematico di tale concezione è dato dalla (discutibile) valutazione filologica che si fa
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1a giusta - unisono
semitono cromatico
semitono diatonico
1a aumentata
2a diminuita
2a minore
2a minore diatonica piccola
2a minore diatonica grande
2a maggiore
2a maggiore piccola/Tp
2a maggiore grande - tg
2a aumentata
3a diminuita
3a minore
3a minore piccola
3a minore pura grande
3a maggiore
3a maggiore piccola
3a maggiore pura
3a aumentata
4a diminuita
4a giusta
4a pura giusta
4a grande
4a aumentata
5a diminuita
5a giusta
5a piccola
5a pura giusta
5a del lupo/wolfquinte
5a aumentata
6a diminuita
6a minore
6a minore pura piccola
6a minore grande
6a maggiore
6a maggiore pura piccola
6a maggiore pura grande
6a aumentata
7a diminuita
7a minore
7a minore piccola
7a minore grande
7a maggiore
7a maggiore piccola
7a maggiore grande
7a aumentata
8a diminuita
8a giusta
Pitagorico
1:1
0
2187:2048
113,68
128:125
256:243
Puro
1:1
25:24
0
70,67
16:15
27:25
111,73
133
10:9
9:8
75:64
182
203,91
274,58
32:27
6:5
294,13
315,64
100:81
5:4
364
386,314
Mesotonico
1:1
0
41,06
90,22
√5:2
9:8
19683:16384
203,91
317,59
32:27
294,13
81:64
407,82
177147:131072
8192:6561
5:4
386,314
2:51/4
503,422
51/4:1
579
621
696,579
32:25
4:3
498,045
611,73
588,27
4:3
27:20
25:18
36:25
498,045
520
568
632
729:512
1024:729
3:2
701,955
40:27
3:2
680
701,955
6561:4096
815,64
25:16
772,63
Equalizzato
1
0
100
100
12
√2
100
6
√2
0
12
√2
100
100
100
6
√2
200
200
200
300
6
√2
200
4
√2
300
300
300
3
√2
400
400
400
12
√32 500
3
√2
400
12
√32 500
500
500
12
√2
600
12
√2
600
12
√128 700
700
700
737
3
√4
√128
3
√4
800
700
800
800
800
4
√8
900
900
900
6
√32 1000
4
√8
900
6
√32 1000
1000
1000
12
√2048 1100
1100
1100
2
1200
12
√2048 1100
2:1
1200
12
128:81
792,18
27:16
59049:32768
905,865
1019,55
16:9
996,09
243:128
1109,775
4096:2187
2:1
8:5
81:50
813,69
836
5:3
27:16
225:128
884,359
905,865
976,54
7:4
16:9
9:5
968,82
996,09
1017,60
50:27
15:8
125:64
1067
1088,269
2:1
1200
1110
1200
39
53/4:2
889,735
55/4:4
1082,892
2:1
1200
dell’opera di J. S. Bach, quando gli si attribuisce di aver messo in pratica il temperamento a gradi equalizzati nei 48 preludi e fughe del Das wohltemperirte Clavier, opera comunemente nota con il nome di
Clavicembalo ben temperato, giungendo a asserire che Bach avrebbe fatto proprio, e proclamato con entusiasmo tale principio. È il caso di chiarire che clavicembalo ben temperato non è la traduzione corretta
di Das wohltemperirte Clavier (wohltemperirte Clavier, quindi, e non wohltemperierte Klavier, come
spesso è scritto). Bach, estremamente puntiglioso, per clavier intende uno strumento da tasto come l’organo, il clavicordo o il cembalo, mentre, quando si riferisce al clavicembalo, usa il termine clavicymbel.
Il termine klavier, con la lettera kappa, poi, come risulta sulla copertina di alcune edizioni, c’entra ancora
meno, essendo in uso a partire dall’Ottocento, per riferirsi al pianoforte. Ma, quel che più conta è che
Bach, allorquando scrive Das wohltemperirte Clavier, ossia ‘la tastiera ben temperata’, non si riferisce
neppure minimamente al temperamento a gradi equalizzati, quanto piuttosto a un ‘buon temperamento
ineguale’, dove tutte le terze tra loro, e ugualmente le quinte, siano temperate in maniera appena diversa,
allo scopo di chiudere il circolo delle quinte nella cosiddetta accordatura ciclica. L’accordatura mesotonica del suo allievo Kirnberger risponde a tali requisiti, alle esigenze dell’estetica barocca e, per di più,
permette di modulare ampiamente, mentre le tonalità conservano le loro caratteristiche sonore, ossia
quella che, traducendo il termine Toncharakter, si potrebbe dire: la loro identità. Per cui, probabilmente,
è quella di Kirnberger l’accordatura che Bach utilizza per le sue composizioni cembalistiche.
Uno dei grandi difetti del sistema a gradi equalizzati, infatti, è la ‘spersonalizzazione’ delle tonalità che,
da singole individualità dotate di caratteristiche proprie, diventano, per dirla con Andrea Padova, tutte
copie conformi a un medesimo originale, perdendo quelle peculiarità caratteriali tra l’una e l’altra, quelle
alterità che, all’epoca di Bach, sono elemento basilare per la teoria degli affetti, chiave di volta per la
comprensione dell’intera musica del periodo barocco.
L’accordatura a gradi equalizzati ha, pur tuttavia, una sua utilità. Come scrive Alessio Di Benedetto, è
‘vantaggiosa per mediare, mitigare e temperare le differenze d’intonazione tra i diversi gruppi strumentali e vocali […] Nell’orchestra, gli archi sono intonati secondo le quarte e quinte naturali; gli strumenti
a fiato e gli ottoni, in particolare, seguono il principio della risonanza e delle armoniche; le arpe e i pianoforti, costruiti in base al temperamento, sono accordati a orecchio, il quale ode secondo l’intonazione
naturale; il coro tende all’intonazione pitagorico-naturale e così di seguito. Per farla breve, l’orchestra
odierna si basa su un’intonazione mista compresa fra rapporti di tipo pitagorico, armonistico-naturale
e temperati in maniera inequale (Alessio di Benedetto, Johann Sebastian Bach odiava il temperamento
equabile, da Prospettive musicali, quadrimestrale di cultura e attualità dell’Accademia Musicale pescarese,
Anno XVIII, n. 1, 2000).
Il temperamento naturale resta un metodo pratico e empirico che permette di scegliere e stabilire le
frequenze tra le infinite esistenti in natura, assecondando in questo le modalità di ascolto dell’orecchio.
L’intonazione naturale è quella che nei fatti è adoperata nel corso dei tempi, quella che, per chiarire il
concetto, è realizzata al di sopra delle varie determinazioni calcolistiche. L’orecchio, infatti, opera attraverso un processo selettivo che consiste nell’isolare e assumere le frequenze semplici e nel semplificare
tutto quanto risulti fonicamente complesso per le sue capacità discrezionali. Ha ragione, quindi, il musicologo francese Alain Daniélou quando afferma che una musica la cui base strutturale non corrisponda
al nostro sistema di percezione e di analisi audiomentale non abbia valore come mezzo di comunicazione.
Nella pratica il temperamento naturale è valido per tutti gli strumenti a intonazione variabile, quali gli
archi e i legni, i quali possono anche suonare con il temperamento a gradi equalizzati, ma è preferibile
che, in assenza di strumenti a intonazione fissa, utilizzino la scala naturale, che garantisce una maggiore
consonanza e ricchezza armonica. Gli ottoni, invece, devono essere accordati solo secondo il temperamento naturale. […]
Il temperamento a gradi equalizzati, concludendo, può trovare la sua migliore funzione grammaticale
nella musica atonale e, ancor più, in quella dodecafonica e seriale, vale a dire in quei linguaggi musicali,
ancor prima che metodi, la cui fisiologia sia del tutto priva della dimensione gravitazionale che riconosciamo al linguaggio tonale che, invece, dà a ogni determinato suono-grado precisa identità, sia come
riferimento nella geografia della scala, sia come eventuale funzione di baricentro, laddove esso sia la
tonica. […].
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