RACCONTI BREVI PER RAGAZZI (… ma anche

RACCONTI BREVI PER RAGAZZI
(… ma anche per adulti …)
Brevi racconti pensati per accompagnare i ragazzi nella preparazione al
Natale, ma validi comunque in ogni occasione. Il loro carattere “naif” li
rende più appetibile a dei lettori giovani, ma non solo …!
Tutto il materiale è stato reperito in rete. Noi abbiamo solo provveduto
ad assemblarlo.
PRIMO RACCONTO – Tema: Aspettare
La storia: Una luce alla finestra
SECONDO RACCONTO – Tema: Cercare
La Storia: Le tre chiavi del cielo
TERZO RACCONTO – Tema: Vigilare
La storia: Arrivarono solo in tre
QUARTO RACCONTO – Tema: Vedere
La storia: L’antenna ribelle
QUINTO RACCONTO – Tema: Preparare la via
La storia: Peppino e la montagna nera
SESTO RACCONTO – Tema: Donare
La storia: Il pacchetto misterioso
SETTIMO RACCONTO – Tema: Accogliere
La storia: Nel paese dei coccoloni
OTTAVO RACCONTO – Tema: Povertà
La storia: Perché alla grotta c'erano l'asino e il bue
NONO RACCONTO – Tema: Gioia
La storia: La leggenda del pastore cattivo
ALTRI RACCONTI…
NON C'È POSTO NELLA LOCANDA
SIGNORA SI CHIUDE
LA STORIA DEL TRONCHETTO
I REGALI NELLO SGABUZZINO
I TRE AGNELLINI
NATALE AL FRONTE
IL PIÙ BEL CANTO DI NATALE
ELIOGABALO E MATUSALEMME
Riferimenti
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PRIMO RACCONTO
Tema: Aspettare
La storia: Una luce alla finestra
La strana epidemia si abbatté sulla città all'improvviso. Iniziava come un
raffreddore: i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno
strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua
virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori,
perfino ladri. E tremendamente sospettosi gli uni degli altri. Il pensiero
del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
«Ciò che conta, nella vita, sono i soldi. Con i soldi si fa tutto»,
sostenevano. Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura. I
venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli
ordini. In certi alloggi la porta d'ingresso arrivava ad avere diciotto
serrature a prova di tutto, anche di bazooka. Nelle famiglie, i papà e le
mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini. I bambini
rispondevano solo più: «Quanto mi dai?». Non solo per asciugare i piatti
o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare. E i
bambini di prima elementare imparavano a scrivere sul conto in banca.
Il farmacista provò a distribuire ai malati libri che parlavano di
generosità e bontà. Ma quelli scuotevano il capo e correvano a vendere i
libri sulle bancharelle. Un sabato pomeriggio, nella via principale,
scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinquecento lire.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine
scadute, che prima buttava via con molta attenzione. La vita in città
divenne insopportabile. Quasi tutti viaggiavano armati e i più ricchi si
pagavano le guardie del corpo. I malati avevano lo sguardo torvo ed
erano infelici. E soprattutto rendevano infelici tutti quelli che vivevano
con loro. Si sentivano solo più parlare di soldi, cambi, tassi di interesse e
azioni che andavano su o giù. Nessuno voleva più pagare le tasse. Il
sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso
Barbadoro, che era un po' eremita (…), per chiedere una medicina o
almeno un consiglio.
Il virus «Sgrinfiacchiappa»
L'eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi
lisciandosi la barba disse: «Conosco la malattia che ha colpito il vostro
villaggio. E’ dovuta ad un virus che si chiama "sgrinfiacchiappa" ed è
terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore
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si indurisce fino a diventare di pietra e al posto del cervello si forma un
pallottoliere. Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo
atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è
un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta. Dovete trovare un
giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato. Deve
affrontare questo impegno solo per amore della gente. Perché l'acqua
della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta. E
logico, no? Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le
difficoltà dell'impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo
se ci sarà qualcuno ad aspettarla».
«Noi aspetteremo. Tutti», giurarono il sindaco e i consiglieri.
«Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice
la nostra città». «...e vuota le casse comunali», aggiunse l'assessore alle
finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del
virus «sgrinfiacchiappa».
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando: «Cercasi
giovane coraggioso per impresa eroica». Si presentarono in duemila. Ma
appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero
guadagnato niente, si ritiravano. Tutti, meno uno. Era un giovane
robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi
concittadini e che rendeva infelici tante persone. Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri spiegarono a Giosuè quello che doveva fare,
anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la Montagna-CheCanta. «La cercherò», disse tranquillamente Giosuè. «Noi ti
aspetteremo», promise la gente. «Metteremo una luce sulla finestra tutte
le notti, così saprai che ti aspettiamo».
Giosuè mise un po' di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia,
baciò la mamma e il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli
sussurrò: «Anch'io ti aspetterò». Salutò tutti e partì.
Il gigante Soffione
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che
tremolavano nella luce azzurrina dell'orizzonte. «Una volta là, mi basterà
cercare la Montagna-Che-Canta. Non deve essere difficile», pensava. Ma
si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire
lontane, come profili di giganti dormienti, all'orizzonte. Ma Giosuè non
si fermava. Pensava agli abitanti della città che certamente si
ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni
mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.
Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi. Nella città, le prime notti
erano state un vero spettacolo. Sui davanzali di quasi tutte le finestre
brillava una luce. Era il segno della speranza: aspettavano l'acqua della
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generosità portata da Giosuè. Ma con il passare del tempo, molte
lampade si spensero. Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri,
colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa
dicendo: «Non ce l'ha fatta. Non tornerà più». Ogni notte, c'era qualche
luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne. Le prime erano
montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili. Poi si
fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli. Giosuè stava
con le orecchie tese per individuare la Montagna-Che-Canta. Qualche
picco, grazie al vento, fischiava. Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e
ai torrenti, rombava. Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un
vecchio pastore e gli chiese qualche informazione. Il pastore gli regalò
una scodella di latte fresco e poi gli disse: «La Montagna-Che-Canta?
Certo che so dov'è. Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a
pascolare da quelle parti. Ma è un accidenti di montagna! Ripida e
levigata come un obelisco e con il gigante Soffione». «Chi è?». «Un
gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla
montagna». «Pazienza, ma io devo salire lassù», disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
«Buona fortuna!». La montagna cantava davvero, con un vocione allegro
e un po' stonato. Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi. Le pareti della
montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con
le mani rovinate dalla roccia. Era quasi a metà della salita, quando un
soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù
per parecchi metri. Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione,
felice per lo scherzo che gli aveva giocato.
Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò. Si riempì le tasche e la camicia
di sassi e ricominciò a salire. Pesante com'era, ogni centimetro gli
costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare. Dopo un po' il gigante cominciò a
tossire e infine smise di soffiare. Quando Giosuè arrivò sulla vetta e vide
la sorgente cristallina dell'acqua della generosità, la montagna intonò
l'Alleluia di Händel a quattro voci.
Tutto inutile?
Il ritorno di Giosuè fu molto più rapido. Aveva compiuto la missione che
gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto: la gente della città
sarebbe tornata felice come prima. Portava sulle spalle una botticella
della preziosa acqua. Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la
strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si
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vedeva la città. Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli
ultimi metri. Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di
amarezza. La città era completamente avvolta dal buio. Non c'erano luci
sui davanzali delle finestre. Nessuno lo aveva aspettato.
«E’ stato tutto inutile... Se nessuno mi ha aspettato, l'acqua non farà
effetto... Tutta la mia fatica è stata inutile».
Si avviò mestamente. Aveva voglia di buttar via l'acqua che gli era costata
tanto. Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò. C'era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri
delle case. «Qualcuno mi ha aspettato!».
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa. Riconobbe la finestra e la
casa. In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato. Bussò forte e chiamò:
«Mariarosa!». I due giovani si abbracciarono.
«Io ti ho sempre aspettato», disse Mariarosa, semplicemente.
La riflessione
L'acqua della generosità che può guarire la città, caduta in preda
all'egoismo, ha effetto soltanto se è veramente attesa. Chi non si aspetta
nulla, di solito non riceve nulla. Sono le nostre attese che ci tengono vivi
e ci danno la forza di sperare e orientano la nostra vita. Mariarosa è stata
l'unica a continuare ad aspettare Giosuè, perché gli voleva bene. Bisogna
amare qualcuno per aspettarlo davvero. Che cosa si aspettano gli uomini
di oggi? Attendono ancora la salvezza che Dio vuole donare? O vivono
nella loro città buia accontentandosi di quello che trovano? In questi
giorni che cosa attendiamo? Le vacanze, i regali, le feste, i veglioni, la
tredicesima? Qui, nella nostra città, ci sono persone che attendono Gesù,
proprio lui, e il suo messaggio? Attendere una persona importante e
amata significa prepararsi all'incontro. Come ci stiamo preparando
all'incontro con Gesù?
La preghiera
Vieni, Signore Gesù! Forse molti non ti aspettano più, non hanno posto
nel loro cuore; eppure tu, Signore, Immenso Padrone dell'Universo, ti sei
fatto così piccolo. Vieni tranquillo, anche se non ci fosse nessun altro, ci
sono io qui ad aspettarti. Vieni, Signore Gesù!
Il fioretto
Aspettare, con un saluto o qualche piccolo gesto significativo, la mamma
o il papà quando tornano dal lavoro.
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SECONDO RACCONTO
Tema: Cercare
La Storia: Le tre chiavi del cielo
C'era una volta un grande re, il più grande del suo tempo. Un tempo nel
quale gli uomini conoscevano ancora il posto dove si trovava il cancello
del Cielo. Il re aveva conquistato tutto quello che c'era da conquistare,
ma voleva ancora una cosa, la più importante: voleva le chiavi che
aprivano il cancello del Cielo. Ma nessuno riusciva ad accontentarlo.
Il re aveva speso gran parte del suo enorme tesoro per pagare gente che
esplorasse ogni angolo della Terra per trovare quelle benedette chiavi,
ma senza esito. Aveva inviato i suoi coraggiosi paladini nelle zone più
nascoste. Invano.
Così un giorno, il re arrivò a cavallo davanti al cancello, che sembrava
sfidarlo, solido, inaccessibile. Agitò il pugno verso gli angeli che facevano
la guardia e gridò: «Non avrò pace, finché non avrò le chiavi che aprono
questo cancello!».
Un angelo lo guardò con una luce divertita negli occhi, perché i re della
Terra non sono poi così importanti per un angelo del Cielo, e rispose:
«Sulla Terra ci sono migliaia di chiavi che possono aprire il cancello del
Cielo, fioriscono proprio sotto i loro piedi, ma gli uomini continuano a
calpestarle. Le potrai trovare anche tu, se le saprai cercare. Sono tre
quelle destinate a te. Se le troverai, potrai aprire il cancello del Cielo».
Il re scese da cavallo e cominciò immediatamente la ricerca. Per parecchi
anni frugò con gli occhi il suolo dove posava i piedi, ma nessuna chiave
fiorì mai sotto i suoi piedi.
La prima chiave
Un giorno, mentre camminava, quasi inciampò in un alberello rachitico e
quasi secco. Gli anni trascorsi nella ricerca della chiavi del Cielo lo
avevano reso meno orgoglioso e più attento alle cose piccole e deboli.
Raccolse l'alberello e lo portò a casa. Preparò un letto di terra soffice,
piantò l'alberello e lo innaffiò con cura. Poi provvide a sostenere i piccoli
rami e il tronco con dei tiranti.
Un passante che assisteva alla scena gli disse: «Lascia perdere quello
sgorbietto d'albero. Anche se lo salvi, sei troppo vecchio per poter godere
della sua ombra e dei suoi frutti. Che te ne importa?».
«Un giorno qualcuno si siederà qui e benedirà l'ombra di questo albero e
i suoi frutti e quindi un po' anche me», rispose il re. «Posso esserne felice
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già adesso».
In quel momento vide la prima chiave. Era proprio sotto il suo piede
destro e sembrava spuntata dalla terra. Era una chiave forgiata in uno
strano metallo: verde come lo smeraldo.
La seconda chiave
Passò dell'altro tempo. Il re continuò la sua ricerca.
Un pomeriggio d'inverno, durante un forte temporale, vide una bambina
lacera e scalza, che tremava rannicchiata in un portone della città
vecchia. Il re si fermò, si tolse il mantello e lo avvolse attorno alla
bambina, poi la prese in braccio e la portò nel palazzo reale. Le preparò
un pasto caldo e cercò dei vestiti che le andassero bene.
Proprio in quel momento si accorse che sotto il suo piede sinistro c'era la
seconda chiave. Era anche quella una chiave forgiata in un metallo
speciale, color rosso rubino.
La terza chiave
Passarono altri anni. Il re era diventato un pellegrino vecchio e stanco.
Camminava a fatica, appoggiandosi ad un bastone, ma non aveva smesso
di cercare la chiave che gli mancava.
Giunse, una notte, in una piccola città dell'Oriente. Cercava un posto per
riposare, quando una strana animazione tra la gente lo incuriosì. Vide un
curioso corteo di persone eccitate che uscivano dalla città.
«Che ci vanno a fare in campagna a mezzanotte?», si chiese il re. E li
seguì. Arrivò davanti ad una baracca malandata che fungeva da stalla. La
gente che aveva camminato più in fretta di lui se stava già tornando in
città, quando lui si affacciò alla stalla. Alla scarsa luce di una fiaccola
fumosa, scorse una giovane mamma che cullava il suo bambino. In quel
momento il bambino aprì gli occhi.
Il vecchio re si sentì tutto illuminato da quello sguardo e, per la prima
volta nella sua vita, piegò le ginocchia davanti a qualcuno. Mentre il suo
cuore si riempiva di gioia, perché davanti a lui, fiorita dal nulla, c'era la
terza chiave. Una chiave tutta d'oro.
Aveva trovato le tre chiavi e ora poteva aprire il cancello del Cielo.
La riflessione
Il re del nostro racconto trovò le chiavi del Regno dei Cieli non con la
ricchezza, la forza o il potere, ma quando cominciò a vivere
concretamente la Fede, la Speranza e la Carità, simboleggiate dalla
chiave d'oro, verde e rossa. Tutti noi vorremmo trovare le chiavi del
Cielo, la soluzione a tutte le domande più importanti. Tutti abbiamo
dentro il desiderio di trovare Dio. La prima domanda che Gesù rivolge ai
due discepoli di Giovanni Battista che l'hanno seguito è: «Chi cercate?».
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Il Natale ci dice che Dio è venuto ad abitare la nostra terra e che si fa
trovare da chi lo cerca con sincerità. Cercare significa che si è per strada,
che si cammina verso una mèta. Cercare è sempre un atto di fiducia e di
coraggio. Per questo sono pochi quelli che cercano veramente le chiavi
del Cielo. Cercare è anche fatica, forza di volontà, prezzo da pagare,
com'è accaduto al re della nostra storia. «Cercare Dio» significa
soprattutto incominciare dall'attenzione verso ciò che è piccolo, debole,
nascosto. Il Natale ci vuole insegnare proprio che è il che si trovano le
tracce capaci di portarci a Dio. Molti non riescono a trovare Dio, che per
gran parte dei nostri contemporanei rimane uno sconosciuto. «In mezzo
a voi sta uno che non conoscete», ammonisce Giovanni Battista. Perché
cercano in modo sbagliato o non cercano affatto.
La preghiera
Gesù, ti prenderò per mano come un amico aspettato da tanto tempo.
Anche se sarai di un altro colore, anche se verrai da un paese straniero,
anche se si burleranno di te, anche se sarai solo, anche se piangerai, io ti
riconoscerò.
Il fioretto
Mettere in ordine la propria camera e le proprie cose.
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TERZO RACCONTO
Tema: Vigilare
La storia: Arrivarono solo in tre
Come tutti sanno, un tempo, quando non esistevano i computer, tutto il
sapere del mondo era concentrato nella mente di sette persone. Erano i
famosi Sette Savi. I sette sapienti che conoscevano le grandi ragioni, i
perché, i come, i quando e i rimedi di tutto quello che accadeva. Erano
così importanti che erano considerati re del paese in cui si trovavano,
anche se in effetti molti non lo erano. Per questo i Sette Savi, erano
anche chiamati Re Magi.
Ora, nell'anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i
Magi giunsero ad un'unica strabiliante conclusione. Proprio in una notte
di quell'anno sarebbe apparsa una stella straordinaria che li avrebbe
guidati alla culla del Re dei Re. Da quel momento, passarono ogni notte
febbrilmente a scrutare il cielo e ogni giorno a fare preparativi per la
spedizione. Finché, una notte, sul velluto nero del cielo apparve la stella
diversa da tutte le altre. Senza esitare, dai sette angoli del mondo dove
abitavano, i Sette Savi partirono. La stella indicava loro la strada. Tutto
quello che dovevano fare era non perderla mai di vista. Ognuno dei re
Magi cavalcava in testa al proprio seguito. Tutti e sette tenevano gli occhi
fissi sulla stella, che essi solo potevano vedere di giorno e di notte.
Indossavano mantelli di panno dorato e ogni mantello valeva un tesoro.
Dietro di loro venivano i loro emiri, i loro paladini, i loro scudieri, i loro
sultani. I cavalli e i cammelli erano carichi di molti abiti, molte
vettovaglie e, soprattutto, di doni preziosi per il Divino Bambino.
Lentamente le sette carovane si mossero verso il Monte delle Vittorie,
dove la stella aveva stabilito che i Sette Savi si dovevano incontrare, per
formare una sola carovana.
Sette destini
Olaf, re della fredda e inospitale Terra dei Fiordi, attraversò l'immensa
steppa e le catene dei monti di ghiaccio, e arrivò in una valle calda e
verde, dove gli alberi erano carichi di frutta squisita e il clima dolce,
carico di profumi. Olaf e i suoi uomini non avevano mai visto nulla di più
bello e decisero di fermarsi per un po' di tempo. Invano la stella, dal
cielo, palpitava e lampeggiava per invitare il saggio re a riprendere la
marcia. Olaf nuotava nell'acqua tiepida dei laghi della valle incantata e si
abbronzava al sole e cominciò a costruirsi un grande castello. Si
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dimenticò completamente della stella.
Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e baldanzoso,
abile con la spada e generoso. Era partito al primo apparire della stella e
cavalcava circondato dai suoi paladini, biondi e con gli occhi azzurri
come lui. Tutti indossavano elmi d'argento ornati di piume rosse e
armature intarsiate di rame e di bronzo dorato. Avevano attraversato le
pianure e i campi arati, finché erano arrivati nel regno del re Rosso, un
sovrano malvagio e crudele. I suoi sgherri frustavano e giustiziavano
senza pietà i sudditi, che erano ridotti come schiavi. Il nobile cuore di
Igor e dei suoi paladini si accese d'ira contro le ingiustizie che
avvenivano ad ogni angolo di strada e decisero di intervenire. Un
mattino incontrarono uno squadrone di guardie del re che trascinavano
una dozzina di poveri contadini, laceri, affamati e coperti di catene. Igor
sguainò la spada e si gettò sulle guardie seguito dai suoi paladini. E fu la
guerra. Una guerra lunga e sanguinosa. Igor divenne il difensore dei
poveri e dei deboli, ma perse di vista la stella e, dopo un po', non la cercò
più.
Yen Hui era il re del Celeste Impero. La sua mente era nitida come un
diamante e tagliente come una lama d'acciaio. I suoi compagni di viaggio
erano tutti scienziati e filosofi. E, mentre camminavano guidati dalla
stella, discutevano di matematica e risolvevano indovinelli difficilissimi.
Arrivarono in una splendida città, ricca di monumenti di marmo, di
giardini, stadi e una famosa università dove insegnavano celebri maestri.
Yen Hui non seppe resistere. «Mi fermerò solo qualche ora», si disse.
Proprio quel giorno uno scienziato di gran fama teneva una lezione sulle
origini dell'Universo. Yen Hui lo sfidò ad un dibattito pubblico, che fu
memorabile. Durò un'intera settimana, durante la quale, Yen Hui e lo
scienziato si confrontarono su tutti i campi del sapere e terminò con una
partita a scacchi che ancora oggi viene analizzata dagli esperti per la
genialità delle mosse del re mago Yen Hui. Fu proprio lui il vincitore, ma
quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a ritrovarla.
Lionei era un principe e poeta, veniva dalle terre dell'Ovest, e seguiva la
stella insieme ai suoi amici più cari, che non portavano armi ma solo
strumenti musicali. Lionei aveva composto un canto dolcissimo in onore
della stella e del Re dei Re venuto sulla terra a portare amore e pace per
tutti gli uomini. Tutti coloro che lo sentivano si commuovevano fino alle
lacrime. La carovana di Lionel attraversò due grandi foreste, e, una sera,
chiese ospitalità alla gente di un popoloso villaggio di contadini sereni e
operosi. Il giovane re e i suoi compagni furono invitati ad un banchetto
offerto dal borgomastro. Al termine del banchetto, la figlia del
borgomastro, una graziosa fanciulla, danzò e cantò per gli invitati. Fu
così che Lionei se ne innamorò perdutamente. Invano i suoi compagni gli
ricordarono la importante missione che aveva intrapreso. Tutti i pensieri
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di Lionei erano assorbiti dalla figlia del borgomastro. Nel suo cielo,
lentamente la stella miracolosa impallidì e scomparve.
Melchior, re dei Persiani, cavalcava in testa al suo corteo, senza perdere
mai di vista la stella. Era abituato alla fatica e ai sacrifici, e non diede
riposo ai suoi occhi né di giorno né di notte. Non voleva correre il rischio
di perdere di vista la stella che gli segnava il cammino.
Gaspar re degli Indi, aveva con sé pochi uomini fidati, il suo viaggio era
lunghissimo, e non voleva mancare all'appuntamento. «Lo so con
certezza, non posso ingannarmi. E’ nato un uomo del tutto simile a noi,
che sarà Signore di tutta la terra e regnerà in eterno attraverso i secoli.
Con animo trepidante mi getterò ai suoi piedi... E’ la cosa più grande
della mia vita», pensava.
Balthasar, re degli Arabi, era già anziano, viaggiava su un cammello che
con la sua andatura dondolante lo faceva assopire. Per questo era
affiancato da un paggio che aveva il compito di tenerlo sveglio, anche con
qualche brusco strattone, perché non gli accadesse la disgrazia di perder
di vista la stella che lo guidava.
Il Monte delle Vittorie
All'appuntamento al Monte delle Vittorie, così, giunsero soltanto tre re
Magi. Scesi dalle loro cavalcature videro aprirsi nel cielo un'immensa
porta, ed apparire angeli splendenti, i quali reggevano nelle loro mani la
stella cometa, e tutto il monte ne splendeva. Al piedi del monte si
unirono per purificarsi presso una fonte, che stava alle sue falde, e
intorno alla quale si levavano sette alberi: olivo, vite, mirto, cipresso,
limone, cedro, abete. Ma quattro alberi stavano seccando e Melchior,
Gaspar e Balthasar capirono che gli altri quattro Savi non sarebbero mai
arrivati. Dopo la purificazione, formarono una sola carovana. «E’ tempo
di mettersi in marcia», disse Balthasar, che dei tre era il più vecchio e il
più saggio. E la stella ricominciò a precederli, indicando loro il cammino.
Verso Betlemme.
La riflessione
Soltanto i re Magi che hanno davvero vigilato non hanno perso
l'appuntamento più importante della loro vita. Il cristiano, come una
sentinella, deve stare all’erta e non lasciarsi prendere dal torpore e dalla
pigrizia. Essere cristiani richiede anche attenzione e capacità di resistere
alle tentazioni. Celebrare la vigilanza significa vivere ben coscienti e
desti. Significa rimanere padroni della propria vita, senza lasciarsi
sempre trasportare dalle decisioni degli altri. Vivere è un 'avventura
importante. Per questo dobbiamo essere vigili e attenti e non rischiare di
perdere ciò che conta veramente nella vita: quello che Gesù è venuto a
dirci e a portarci. In questo tempo gli uomini partecipano a tante veglie e
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veglioni, ma corrono il rischio di mancare la veglia più importante:
quella di chi aspetta Gesù.
La preghiera
Tu sei grande, Signore, e sei venuto in mezzo a noi come un fratello,
come uno uguale a noi. Sei venuto a cercarci, a chiamarci uno per uno. Io
ti seguirò e a tutti i miei amici dirò: È venuto Colui che il nostro cuore
aspettava!
Il fioretto
Saltar giù dal letto prontamente all'ora stabilita.
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QUARTO RACCONTO
Tema: Vedere
La storia: L’antenna ribelle
C'era una volta, sui tetti rossi di un grande condominio, un'antenna della
televisione che faceva con molta diligenza il suo dovere. Era un'antenna
centralizzata e doveva quindi trasmettere le immagini sui televisori di
tutti gli alloggi. Erano anni che si trovava lassù e ormai conosceva tutti.
Ogni giorno mandava nei televisori del condominio le immagini che
catturava nell'aria, quelle immagini che lei sola vedeva e sentiva. Era
infatti circondata da un turbinio continuo di colori e suoni invisibili a
tutti, ma non a lei. Li ordinava e li trasmetteva agli apparecchi televisivi.
La sua giornata cominciava prestissimo. Il commendator Bepoli del
secondo piano si svegliava alle sei e voleva vedere un telegiornale. Nico e
Mario, i fratellini del terzo piano volevano i cartoni animati alle otto e li
guardavano standosene beatamente a letto. Quanto li invidiava la buona
antenna! Specialmente d'inverno, quando fischiava un vento gelido e i
ghiaccioli l'appesantivano e doveva aggrapparsi con tutte le sue forze alle
tegole per rimanere ben dritta e non rovinare le immagini. Poi venivano i
telefilm e le telenovele che commuovevano tanto anche lei. «Matrimonio
proibito» per le sorelle Bellotti del terzo piano, «Perla Nera» per
l'abbondante signora Sirano del piano terra e «Dolore, lacrime e
sconquassi» per il ragioniere in pensione Russo, che guardava le
telenovele, ma non voleva farlo sapere a nessuno. Poi Beautiful e
Karaoke per Lilli, la figlia ventenne dei signori Dolcetti del quinto piano.
E così via, per tutto il giorno e buona parte della notte: partite, film,
documentari, videoclip, varietà, e perfino «tribune politiche» (le più
pericolose, perché rischiava sempre di addormentarsi).
La più bella trasmissione della vita
Ogni volta che c'era un televisore acceso, l'antenna entrava in un
appartamento e non si limitava a mandare le immagini richieste, ma
approfittava degli occhi elettronici del televisore per dare una sbirciatina
all'interno.
Molti lasciavano il televisore acceso mentre facevano altro e la nostra
antenna imparò a conoscere le persone del suo palazzo, anche oltre i
gusti televisivi di ciascuno. Così si accorse che c'erano tante cose che non
andavano. «E se non ci penso io», si disse «non troveranno mai un
rimedio. Non se ne accorgono neppure, questo è il vero guaio!».
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Prese la sua decisione. Raccolse tutte le forze, si concentrò fino a cigolare
come una banderuola arrugginita, e realizzò la più bella trasmissione
della sua vita. Invece di prendere le immagini all'esterno, cominciò a
prenderle in un appartamento e a trasmetterle in un altro. Con un suo
progetto.
La vecchietta del quarto piano
Cominciò dalle sorelle Bellotti. Invece della telenovela preferita videro
improvvisamente sullo schermo del loro televisore una vecchietta, che
fissava una fotografia, con infinita tristezza. «Sarà una nuova
telenovela», disse la sorella maggiore. «Ma quella è la vecchietta del
quarto piano!», esclamò la minore. «E’ una diva della tv?». «Ma no,
quella è proprio la sua casa. Guarda le finestre». Si misero a guardare
con attenzione. La vecchietta aveva gli occhi pieni di lacrime. Si asciugò
gli occhi con un angolo del grembiule. Mangiò qualche cucchiaiata di
minestrina, controvoglia, sempre guardando la fotografia appoggiata alla
bottiglia dell'acqua. «Io non l'ho mai neanche salutata», disse la
maggiore delle sorelle Bellotti. «Deve essere tremendamente sola», fece
eco la minore. «Perché non la invitiamo a prendere il caffè?», disse la
maggiore. «E due biscotti», aggiunse la minore. «Andiamoci subito»,
disse la maggiore. Le due sorelle si alzarono e per la prima volta in tanti
anni dimenticarono la loro telenovela.
In quattro si litiga meglio
Nico e Mario si stavano dedicando al loro sport preferito che consisteva
nel litigare per tutto. Il televisore trasmetteva un documentario sugli
animali, che improvvisamente si interruppe. «Guarda», disse Nico. «C'è
una nuova pubblicità». Erano apparsi due ragazzini che giocavano nella
loro stanza. «Ma... ma...», balbettò Mario. «Quelli sono i figli del
portinaio!». «E quello è il gioco rotto che abbiamo buttato nella
spazzatura ieri». «E quelli sono i miei giornalini vecchi». Nico e Mario
rimasero in silenzio. «Giocano con quello che noi buttiamo via...», disse
Nico. «Chiamiamoli a giocare con noi!», replicò Mario. «In quattro si
litiga meglio che in due», concluse Nico. «Mamma, saremo in quattro a
merenda», gridarono insieme e uscirono.
Un amico per il pranzo di Natale
La graziosa Lilli si pettinava e sospirava per Fiorello, il divo della tv che
le faceva battere il cuore. Insieme a Ridge di Beautiful. Com'erano
scintillanti loro, altro che quei brufolosi ragazzi del gruppo parrocchiale.
Così noiosi. Meglio zitella che sposare uno di quelli. Ma ecco che la sua
trasmissione preferita si interruppe e sui teleschermo apparve una
stanzetta semplice ma ordinata. Con qualche cosa di familiare. Chino sul
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tavolo, un ragazzo con i capelli cespugliosi studiava su un grosso libro di
giurisprudenza. Si intuiva chiaramente che cascava dal sonno, ma
stringeva i pugni e leggeva e rileggeva. «Oh cielo!», fece Lilli. «Quello è il
ragazzo del quinto piano, che fa il fattorino ai Grandi Magazzini... Di
giorno... Mi saluta tutte le volte che lo incrocio sulle scale... e io non l'ho
mai degnato di uno sguardo... Ma quanto sono stupida... Mamma», gridò
all'improvviso «posso invitare un amico per il pranzo di Natale?».
In tutti gli appartamenti del condominio succedeva la stessa cosa.
Persone che vivevano nella stessa casa, che si incrociavano tante volte al
giorno su scale, pianerottoli e ascensori, che magari vivevano nello stesso
appartamento, improvvisamente «si vedevano» per la prima volta.
E in alto sul tetto, l'antenna spossata, ma felice, gongolava, preparandosi
a fare di nuovo il suo dovere e trasmettere la puntata di «Sentieri».
La riflessione
C'è una malattia misteriosa che colpisce molte persone. Si chiama la
«Sindrome dell'uomo invisibile». Ci sono delle persone che vivono con
noi, mangiano con noi, stanno con noi magari tutto il giorno, eppure
«non le vediamo». Quante persone soffrono proprio perché «non sono
viste», sono come la tappezzeria dei muri o dei mobili, sono lì, ben
visibili, ma non ci interessano. L'antenna ribelle ci insegna a vedere
l'«invisibile». Si vede bene solo con il cuore e con l'anima. Ma gli uomini
che non sanno vedere neppure chi sta tutto il giorno sotto il loro naso,
sapranno vedere Dio nel Bambino di Betlemme?
La preghiera
Tutto ci parla di te, Signore, da quando sei venuto in mezzo a noi. Aiutaci
a vedere la tua immagine nel volto degli altri.
Il fioretto
Scrivere gli auguri di Natale a qualcuno della città che probabilmente
non se l'aspetta o a qualcuno che quasi certamente non ne riceverà.
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QUINTO RACCONTO
Tema: Preparare la via
La storia: Peppino e la montagna nera
C'era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in
mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese
di prati e di pascoli. Gli abitanti del villaggio erano moderatamente
soddisfatti: le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e
formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un'ombra nera. L'ombra nera della Torre
Maledetta. La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che
chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere
illuminato dal sole, se non pochi minuti all'alba e altrettanto pochi al
tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all'ombra. Per colpa della Torre
Maledetta.
Un villaggio senza fiori
A Peppino, un giovane dall'aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la
cosa non andava proprio giù. Gli sarebbe tanto piaciuto avere un
giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un
melo. Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c'era
troppo poco sole. Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano
dal villaggio. Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano
piano, il villaggio perdeva abitanti. Il villaggio rischiava di morire per
colpa della Torre Maledetta. Era l'unica cosa che riusciva a guastare il
buonumore di Peppino. Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della
sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero
inghiottiti dall'ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che
mandavano lampi di dispetto. «Accidenti, accidentaccio», brontolava.
«Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio
senza bambini, un villaggio che muore...».
Girava gli occhi sui tetti d'ardesia che avevano riflessi d'argento e sui
camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta
che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva
tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva: «Devo assolutamente
fare qualcosa... Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!».
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre
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prese la decisione. Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva
comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la
montagna. «Dove vai?», gli chiese la mamma. «Vado a buttare giù la
Torre Maledetta», rispose semplicemente Peppino. «Ma cosa dici? Sei
diventato matto? Non ce la farai mai!». «Qualcuno deve incominciare
una buona volta!», ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l'immensa parete
scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia. «A noi
due!», disse Peppino. Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata
sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento. «Comincerò
dall'alto», si disse e cominciò a salire. La vetta della Torre aveva qualche
chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama. Alzò
il piccone e lo abbatté con tutte. le sue forze contro la roccia. «Tò, beccati
questo!». Con un po' di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone
aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla
vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli. «Allora si può!»,
esultò. Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia. «Aprirò la strada al
sole!».
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato. E guardò il risultato
della sua opera. Aveva buttato giù un bel po' di sassi, ma non aveva
abbassato la Torre neanche di un millimetro. «Dovessi impiegarci tutta
la vita ce la farò!», si disse.
Una vocina nella roccia
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno
della Torre. Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone. «Beccati questo!
E anche questo!», gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le
rocce della vetta. Passò quel giorno e quello dopo. Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta. Ma il
risultato non era granché: l'immane picco sembrava più alto e saldo che
mai. «Lascia perdere», gli dicevano i concittadini, che cominciavano a
crederlo un po' matto. «Tanto ci siamo abituati».
Scuotendo la testa, Peppino insisteva: «Farò arrivare il sole sul vostro
balcone tutto il giorno... E sbocceranno i fiori nella piazza». Tornava
lassù e ricominciava a picconare. Dopo qualche mese, il «pic... pic...» del
suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli
alti pascoli. Ma era così grande e solida quella roccia...
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria. Peppino stava
spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato,
quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava. «Peppino,
Peppino». Si guardò intorno sorpreso. La voce riprese a chiamare. La
cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna. «Dove
sei?», chiese Peppino. «Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!».
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Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal
masso. Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola
piccola si agitava una manina bianca.
«Liberami», implorò la vocina. Impugnò il piccone e in poco tempo
scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si
trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color
spuma di torrente.
«Grazie», disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l'aria
stralunata. «Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della
Torre mi ha imprigionata. Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si
avvererà». «E come farai? Sei così piccola e fragile». «Con la pazienza,
un po' di tempo e la forza dell'acqua», sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d'orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risatelle, sciacquii riempirono l'aria. Mille
sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta. Piccole all'inizio, si riunirono
a formare ruscelli, torrenti, cascate. E ognuno di essi incideva,
smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
«Stanno facendo a pezzi la Maledetta!», gridò Peppino e fece volare in
aria il cappello. Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non
c'era più. Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato
da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di
fiori, farfalle e bambini. Al posto della Torre c'è una serie di roccette
smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli. Ci vanno i vecchietti a
cercare i funghi.
La riflessione
Che tristezza vivere nell'ombra! Se ci fosse qualcosa che impedisce al sole
di arrivare fino a noi, faremmo come Peppino: cercheremmo di abbattere
l'ostacolo, perché il sole è importante: è la vita. Anche per l'arrivo di un
personaggio importante, per la visita di un capo di stato, si fanno tanti
preparativi: si studiano i percorsi, le soste, gli incontri. Vengono tolti
tutti i possibili intralci. Giovanni Battista ci invita a fare altrettanto per la
venuta di Gesù, che è più importante del sole e di qualsiasi altro
personaggio. Ma gli ostacoli che dobbiamo togliere e abbattere sono
dentro di noi: le cattive abitudini, i peccati, le pigrizie, le parole cattive.
Sono tutte queste cose che fanno ombra nella nostra anima. Peppino è
riuscito nella sua impresa perché si è fatto aiutare dalla fata delle
sorgenti. Anche noi dobbiamo farci aiutare dalla Grazia, cioè dalla forza
che Dio dona a tutti coloro che decidono davvero di accoglierlo nella loro
vita. Per questo esistono i Sacramenti e, in modo particolare il
Sacramento della Riconciliazione.
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La preghiera
Vieni, Signore, non ci sono ostacoli sulla strada che porta al mio cuore.
Risplendi come luce nelle mie tenebre, le mie labbra proclameranno il
tuo nome; tutta la terra conoscerà il tuo amore e tutti gli uomini la tua
salvezza.
Il fioretto
Eliminare per una giornata ogni tipo di capriccio.
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SESTO RACCONTO
Tema: Donare
La storia: Il pacchetto misterioso
Alla piccola Elena piaceva tantissimo andare a far commissioni con la
nonna. Specialmente nei giorni prima di Natale. Soprattutto perché la
nonna era molto sensibile alle sue richieste. Così ogni volta che usciva
con la nonna, Elena tornava a casa con un bel regalo: un nuovo libro, un
album da colorare, l'ovetto kinder con la sorpresa.
Ad Elena sarebbe piaciuto tanto giocare con gli altri bambini, mentre la
nonna faceva la spesa dal panettiere e dal droghiere, ma tutti i bambini
che incontrava avevano la faccia annoiata e nessuna voglia di giocare.
Perfino la nonna finiva in fretta di fare la spesa, perché nei negozi non
c'era nessuno di buon umore che si fermasse a scambiare due
chiacchiere, proprio nessuno che avesse tempo per qualche parola
gentile. Sulla strada del ritorno, nonna e nipote tacevano, tenendosi per
mano, mentre lemme lemme cominciava a scendere la neve.
«Uno solo basta»
Arrivata a casa, la nonna si sedette nella sua poltrona preferita. La
chiamava il suo pensatoio. Rimase a riflettere un po', poi si alzò decisa e
andò nello sgabuzzino. Tornò dopo un po' tenendo in mano un magnifico
pacchetto-regalo avvolto in carta dorata e legato con un nastro rosso.
Elena avrebbe voluto aprirlo per sapere che cosa c'era dentro, ma la
nonna le fece capire che il pacchetto era in realtà un segreto. Il mattino
dopo, nonna e nipote uscirono presto di casa portando il pacchetto
luccicante per la carta dorata e il nastro rosso. Il primo che incontrarono
fu Pasquale, la burbera guardia con i baffoni a manubrio. Era un tipo che
non dava confidenza a nessuno e viveva da solo.
La nonna gli si avvicinò e gli porse il pacchetto. «Che debbo farne?»,
domandò Pasquale colto di sorpresa. «E’ per lei», disse Elena. La guardia
era piena di stupore. «Che cosa contiene?», chiese. «Amicizia e felicità»,
disse la nonna e gli strinse la mano. «Hai visto com'era contento,
nonna?», disse Elena. «Torniamo a casa a preparare altri pacchetti da
regalare?». La nonna scosse la testa: «No, Elena», spiegò, «uno solo
basta».
«Finalmente ho anch'io degli amici in paese», pensò Pasquale, e riprese
il cammino con più baldanza e il cuore più caldo. Per la strada incontrò
Sebastiano, l'operatore ecologico, che poi significa spazzino. Sebastiano
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era timido e i bambini lo prendevano in giro. Quando vide arrivare la
guardia, lo spazzino si nascose dietro al carrettino. Ma Pasquale gli porse
il pacchetto dicendo: «E per te!». «Grazie», mormorò Sebastiano
incredulo e felice. Così la guardia e lo spazzino divennero amici.
Ma Sebastiano non aprì il pacchetto. «Farò un regalo a Dolores», pensò.
Dolores era una bambina magra magra con le treccine bionde, l'unica
che gli diceva sempre «Buongiorno». Dolores era a letto con l'influenza
e, un po' imbarazzato, Sebastiano affidò il regalo alla mamma di Dolores,
che gli offrì il caffè.
Quando Dolores ebbe il bellissimo pacchetto, si sentì subito meglio.
Accarezzò la bella carta dorata e il nastro rosso e pensò: «Deve essere un
regalo bellissimo. Lo manderò a Susi, per fare la pace». Susi era la
migliore amica di Dolores, ma a scuola due giorni prima avevano litigato
e si erano dette «strega» e anche «antipatica-smorfiosa».
Quando Susi ebbe il pacchetto, corse da Dolores e l'abbracciò, poi
insieme decisero che un regalo così bello poteva far felice la maestra, che
da un po' di tempo sembrava così triste.
La maestra si illuminò quando trovò sulla cattedra il pacchetto
scintillante e quel giorno non le pesò far scuola e le ore passarono una
più radiosa dell'altra.
Tornando a casa, la maestra portò il regalo alla signora Ambrosetti, che
aveva i figli lontani e piangeva spesso.
Neanche la signora Ambrosetti si tenne il regalo, ma lo portò a
Lucianone, che era sensibile e garbato, ma, siccome faceva il macellaio,
tutti lo credevano senza cuore.
Neanche Lucianone si tenne il pacchetto... Che continuò così a passare di
mano in mano e tutti quelli che se lo scambiavano si sorridevano e si
parlavano.
Qualche giorno dopo, quando Elena e la nonna tornarono a fare le
commissioni, si sentivano chiacchiere allegre venire dai negozi, mentre i
bambini avevano voglia di giocare. Un uomo salutò la nonna e le
raccontò che cosa era successo qua e là e di come la gente da qualche
tempo era più felice grazie ad un misterioso pacchetto.
Mentre la nonna trafficava nella borsa alla ricerca delle chiavi della porta
del suo appartamento, le venne incontro la signora Amalia, che abitava
al piano di sotto, e che non le aveva mai rivolto la parola. «Vorrei
augurarle Buon Natale», disse e le offrì... il bellissimo pacchetto con la
carta dorata e il nastro rosso. «Grazie», rispose la nonna sorridendo.
«Perché non viene dentro a far due chiacchiere di tanto in tanto?».
«Evviva», gridò Elena, quando furono soli in casa. «Il pacchetto è
tornato da noi! Ma ora mi dici cosa c’è dentro?». «Niente di particolare»,
rispose la nonna. «Solo un po' d'amore».
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La riflessione
Saper donare è la capacità più importante che possiamo imparare: è
come imparare a diventare seminatori di felicità. In questi giorni c'è un
dono per tutti, anche per coloro che sembrano dimenticati. Ma ogni festa
o ricorrenza possono essere occasione per fare un dono a coloro che
amiamo. Non si regalano solo cose: si può donare vita, gioia, bontà, un
sorriso, una parola... Possiamo così sperimentare ciò che afferma la
Bibbia: «C'è più felicità nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Un dono
fatto col cuore è gratuito, non ha secondi fini. Dice all'altro il nostro
amore, il nostro desiderio di entrare in comunione con lui. Così diventa
segno della bontà di Dio che, ogni giorno, fa sorgere il suo sole sui buoni
e sui cattivi e non aspetta nulla in cambio. I regali che in questi giorni ci
facciamo sono segno che c'è una sorgente all'origine di ogni dono: il
cuore di Dio, che ha voluto donare tutto se stesso a noi nel mistero del
Natale e continua a farlo ogni giorno nell'Eucaristia.
La preghiera
Tu ci hai donato tutto te stesso, Signore, e quel dono meraviglioso che è
la vita. Per ricambiarti voglio viverla alla grande ed essere anch'io un
dono di bontà per tutti quelli che metterai sulla mia strada.
Il fioretto
Impegno e attenzione nelle ore di scuola.
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SETTIMO RACCONTO
Tema: Accogliere
La storia: Nel paese dei coccoloni
«Stai dritto con la schiena. Quante volte te lo devo dire?», gli disse il
papà. «Muoviti o facciamo notte!», gli disse la mamma. «E piantala di
far domande su tutto: sei stressante», gli disse la sorella. «Guarda come
hai ridotto lo zainetto! Se lo dovessi pagare tu...», continuò il papà. «Non
mi stare sempre intorno», continuò la mamma. «Sei un mentecatto»,
continuò la sorella.
Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue
giornate. Si svegliava di solito al suono di: «Sbrigati, sei in ritardo, lavati
bene, hai messo tutto nello zaino? Ma quanto sei imbranato...». Finiva le
giornate al suono di: «Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai
a dormire e non far storie come tutte le sere! Quanto hai preso in
italiano? E spegni subito la luce!».
Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega. Alessandro, il suo migliore
amico, gli aveva buttato in faccia: «Ma sei diventato scemo?». Che poi
significa: «Ti stai comportando come uno scemo». Titti, la maestra,
l'aveva definito un «poltronaccio» e, durante la partita, Walter l'aveva
chiamato «schiappa». Così quella sera due grossi lacrimoni gli corsero
lungo le guance e finirono nel puré. «Uh, ué la lagna…», fece la sorella.
Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto. Almeno lì poteva
singhiozzare in pace.
Dolce come biscotti e Nutella
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione. Corse a
vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima.
Non si capiva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido,
luminoso, sorridente e carezzevole. «Chi sei?».
La risposta sbocciò come un trillo di campanelli, dolce come biscotti e
Nutella: «Sono un coccolone... E ho visto che hai bisogno di noi. Dammi
la mano e vieni con me».
Matteo si mosse come in un sogno. La morbida creatura lo prese per
mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo. «Dove mi porti?», chiese
Matteo. «Nel paese dei coccoloni». «Dov'è?». «Dietro l'arcobaleno».
Dopo un volo leggero attraversarono tutti i colori dell'arcobaleno, che
hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l'arancione sa di
aranciata, l'indaco è tamarindo e così via), atterrarono in un paese fiorito
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e pieno di allegria. Matteo vide che c'erano i bambini coccoloni e i
genitori coccoloni, i nonni coccoloni e perfino i maestri coccoloni,
naturalmente nelle scuole coccolone. I bambini coccoloni furono i primi
a invitarlo a giocare.
«L'importante è volersi bene e... dirselo»
Matteo ci si mise d'impegno, anche perché l'atmosfera era piacevole e
amichevole. E decisamente diversa da quella a cui era abituato. Quando
qualcuno sbagliava, c'era sempre qualcun'altro che diceva: «Coraggio. La
prossima volta andrà meglio», e quando Matteo riuscì a fare gol, perfino
il portiere avversario gli disse: «Bravo!». Matteo, invece di esultare,
constatò amaramente che probabilmente quello era il primo «bravo»
della sua vita.
Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fecero a gara per invitarlo
nelle loro case. Matteo accettò l'invito del portiere avversario, quello che
gli aveva detto «bravo». Era una famiglia come la sua: mamma, papà,
sorella e fratellino. Solo che questi erano tutti coccoloni... A tavola,
Matteo ebbe il posto d'onore. La mamma coccolona lo baciò e Matteo si
sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua
mamma non lo baciava più e lui non sapeva come fare a dirglielo. «Ho
anch'io una sorella più grande», disse Matteo. «Allora sai anche tu che
cos’è una rottura», disse il piccolo coccolone: «Ma è così comoda per i
compiti e per giocare». Tutti risero.
Poi tutti fecero il gioco «Racconta la tua giornata». Il papà, la mamma, la
sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli
avvenimenti belli e meno belli della loro giornata. Matteo fu colpito
soprattutto da una cosa: nella famiglia coccolona tutti si ascoltavano. Si
ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano:
«Smettila un po', mi fai venire il mal di testa». Si ascoltavano
semplicemente.
Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo. «E la tua giornata com'è
stata?», disse papà coccolone.
Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento
aveva confidato solo al cuscino. Lo ascoltarono comprensivi. Alla fine il
papà coccolone gli disse: «Vedi, l'importante è volersi bene e... dirselo».
Gli diede un sacchetto di polvere rosa. «Quando sarai a casa prova con
questa polverina. Soffiane un po', qua e là. E polvere coccolona...», gli
spiegò.
In quel momento Matteo si svegliò. «Che razza di sogno ho fatto», pensò.
Ma... Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto. Perché il suo pugno
stringeva una manciata di polvere rosa. «Ma allora è vero!».
Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò. «Voglio provare se
funziona». Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà. Furtivamente fece
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cadere nella tazzina un pizzico di polverina. Il papà, come al solito, era di
corsa. Bevve il caffè e poi disse soddisfatto: «Buono!». Questo non
l'aveva mai fatto. Anche la mamma se ne accorse. Poi, incredibilmente,
prima di uscire il papà fece una carezza affettuosa sulla testa di Matteo:
«Passa una bella giornata, ometto! E dacci dentro a scuola perché stasera
ti sfido a Scarabeo». «Urrà, funziona!», pensò Matteo, felice. «Ne
metterò una razione doppia nel caffè della maestra».
La riflessione
Quanta polvere coccolona avremmo bisogno anche noi? E così facile far
soffrire quelli che ci stanno intorno. E così facile essere sgarbati,
prepotenti, sbraitoni. E così facile dare spintoni, insultare, essere volgari,
rispondere di malagrazia, essere maleducati. Il messaggio del Natale è un
altro. Il Natale è la manifestazione della tenerezza di Dio. Nel Bambino
di Betlemme si manifestano la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini.
Gli uomini hanno bisogno di tenerezza come gli alberi hanno bisogno di
acqua e di luce. Senza di essa appassiscono e muoiono. I cristiani sono
chiamati a imitare Dio proprio in questo: portare la tenerezza, che è la
delicatezza dell'amore, in mezzo agli uomini.
La preghiera
Dio, tu ci hai affidati gli uni agli altri, aiutaci ad essere fedeli a questa
fraternità. Donaci la tua tenerezza per essere gli uni per gli altri luce,
calore, speranza, amore, grazia, perdono.
Il fioretto
Sotto il piatto di ogni familiare un bigliettino con la scritta: «Grazie,
perché ci sei» e la firma.
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OTTAVO RACCONTO
Tema: Povertà
La storia: Perché alla grotta c'erano l'asino e il bue
Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo
radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa
Famiglia nella stalla.
er primo, naturalmente, si presentò il leone. «Solo un re è degno di
servire il Re del mondo», ruggì. «Io mi piazzerò all'entrata e sbranerò
tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!». «Sei troppo
violento», disse l'angelo.
Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba e innocente insinuò: «Io
sono l'animale più adatto. Per il Figlio di Dio ruberò tutte le mattine il
miele più profumato e il latte più ricco di panna. Porterò a Maria e
Giuseppe, tutti i giorni, un pollo grasso!». «Sei troppo disonesta», disse
l'angelo.
Tronfio e sfolgorante arrivò il pavone. Dispiegò la sua magnifica ruota
color dell'iride e proclamò: «Io trasformerò quella povera stalla in una
reggia più bella del palazzo di Salomone!». «Sei troppo vanitoso», disse
l'angelo.
Passarono, uno dopo l'altro, tanti animali. Ciascuno magnificava il suo
dono, invano. L'angelo non riusciva a trovarne uno che andasse
veramente bene per il compito delicato di custodire e aiutare il Re dei Re.
Si accorse però di un paio di animali che continuavano a lavorare, con la
testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della stalla di
Betlemme. Erano l'asino e il bue.
L'angelo li chiamò: «E voi non avete niente da offrire?». «Niente»,
rispose l'asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie. «Noi non
abbiamo niente oltre l'umiltà e la pazienza. Tutto quello che abbiamo in
più sono le bastonate!».
Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: «Però potremmo di
tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code».
L'angelo finalmente sorrise: «Voi siete quelli giusti!».
La riflessione
Ormai tutti abbiamo fatto il presepio. Chi rappresentano le statuine che
abbiamo collocato intorno alla grotta? Gesù è nato nella povertà, tra
gente semplice e generosa. Perché questa scelta? Anche Maria e
Giuseppe erano poveri e semplici, proprio per questo sono totalmente
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disponibili alla chiamata di Dio. Coloro che hanno l'anima soffocata dal
peso delle ricchezze e del potere, come Erode, non sentiranno mai la
voce del Signore. Sono troppo occupati a difendere quello che hanno.
Così rischiano addirittura di intralciare i piani di Dio. I ricchi e i superbi
hanno tutto, i poveri invece non hanno niente. Per questo sanno
attendere dagli altri e da Dio. Sono capaci di ricevere e quindi di dare.
Sono gli occhi dei poveri e dei semplici che vedono Gesù Bambino e
soltanto le loro orecchie sentono il canto degli Angeli. Se vogliamo
sentire e vivere il messaggio eterno del Natale dobbiamo anche noi
liberarci dalle troppe cose che ci distraggono e impediscono la nostra vita
spirituale.
La preghiera
Signore Gesù, riempi tu il nostro cuore. Con Maria, con gli angeli e con i
pastori noi ti adoriamo. Ti sei fatto povero per farci ricchi con la tua
povertà: concedi a noi di non dimenticarci mai dei poveri e di tutti coloro
che soffrono.
Il fioretto
Rinunciare a qualcosa per darlo a qualcuno più povero, o fare un'offerta
alla Caritas parrocchiale prendendo il denaro dal proprio salvadanaio.
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NONO RACCONTO
Tema: Gioia
La storia: La leggenda del pastore cattivo
C'era una volta un pastore che aveva un gran brutto carattere e due
cagnacci anche peggiori di lui. Viveva da solo con le sue pecore e i suoi
cani, perché anche gli altri pastori lo temevano. Era un uomo ringhioso e
vendicativo, perennemente arrabbiato contro qualcuno o qualcosa. I suoi
occhi erano solitamente accesi d'ira e la sua barba incolta e irsuta. Le sue
parole erano sempre amare e nessuno lo aveva mai visto sorridere. I
mendicanti che bussavano alla sua porta dovevano scappare di corsa,
inseguiti dai cani e dalle minacce del pastore.
Quando, nella notte santa, agli altri pastori apparve l'angelo che
annunciava la nascita del santo Bambino, il pastore burbero brontolò:
«Uno stupido trucco per i gonzi», e si avvolse con rabbia nel suo
mantello, nero come il suo cuore. Ma proprio quella notte avvenne
qualcosa di straordinario.
Poco lontano di là, nella notte, uno straniero camminava per cercare del
fuoco. Bussava a tutte le porte. «Aiutatemi, brava gente», diceva, «mia
moglie ha appena avuto un bambino e io devo accendere un fuoco per
riscaldarli, lei e il piccolo». Ma era notte fonda, tutti dormivano e
nessuno gli rispondeva. L'uomo cercava e cercava. Era San Giuseppe.
Il buio lo avvolgeva da tutte le parti, ma ad un tratto vide il bagliore di un
fuoco. Si avvicinò quasi correndo. Era il fuoco del pastore scontroso e
iracondo che faceva la guardia al suo gregge. I cani dormivano accucciati
ai suoi piedi e tutt'intorno le pecore dormivano una addossata all'altra.
Quando San Giuseppe arrivò, i cani si destarono. Aprirono le fauci per
abbaiare, ma non ne uscì nessun suono. Il pastore li incitò ad attaccare
l'intruso. Con il pelo ritto e le zanne appuntite che luccicavano ai bagliori
del fuoco, i cani si scagliarono su San Giuseppe, ma quando gli
arrivarono vicino, come costretti da una mano invisibile, si accucciarono
uggiolando ai suoi piedi.
Il pastore sorpreso e contrariato strinse più forte il suo nodoso bastone,
poi, con un impulso improvviso lo lanciò con tutta la sua forza contro lo
straniero. Ma il bastone, arrivato davanti allo straniero, deviò dalla sua
traiettoria e sibilando finì lontano nel campo.
Il nuovo arrivato aveva l'aria mite e inoffensiva e si avvicinò al pastore
camminando tranquillamente sulle pecore addormentate, sfiorandole
appena, senza svegliarle.
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«Amico, dammi un po' di fuoco per scaldare il mio bambino e la sua
mamma», chiese San Giuseppe. Il pastore stava per rispondere
malamente, quando si ricordò che i cani non lo avevano morso, il
bastone non lo aveva colpito e le pecore non si erano svegliate. Un po'
inquieto, non osò rifiutare. «Prendine quanto ne vuoi!», fece brusco.
Come una manciata di mele rosse
Non c'erano quasi più fiamme, rami e tizzoni erano completamente
consumati. C'era solo un mucchio di braci e lo straniero non aveva né
secchio né pala per portarle via. Il vecchio pastore se ne accorse e
malignamente ripeté: «Prendine quanto ne vuoi... Se puoi».
San Giuseppe si chinò, prese con le mani un po' di braci ardenti, le
avvolse in un lembo del suo mantello e, dopo aver ringraziato, se ne
andò. E il fuoco non bruciò nè le sue mani nè il suo mantello. Se lo portò
via come fosse una manciata di mele rosse.
Il pastore era rimasto di sasso. «Ma che notte è mai questa», pensava
«che i cani non mordono, i bastoni non colpiscono, le pecore non si
spaventano e il fuoco non brucia?». Richiamò lo straniero, a voce alta:
«Che notte è questa? Perché sono tutti buoni?». L'uomo rispose con la
sua voce gentile: «Lo devi capire da solo. Con il cuore. Io non posso
dirtelo».
Il vecchio pastore decise di non perdere di vista lo straniero e incominciò
a seguirlo da lontano. Così scoprì che quell'uomo non aveva neppure una
baracca per ripararsi e che sua moglie e il bambino stavano in una specie
di grotta, senza difesa per il freddo.
Quando il pastore vide il bambino, il suo cuore freddo e inacidito si
riscaldò un po'. Il buio, cupo e scontroso, che abitava la sua anima
improvvisamente cominciò ad illuminarsi. Aprì la sua bisaccia ed
estrasse un vello di pecora, bianco e morbido, e lo porse alla donna
perché avvolgesse il bambino. Poi prese pane e formaggio e li offrì ai due
sposi.
In quel momento i suoi occhi si aprirono e vide ciò che prima non aveva
potuto vedere e udì ciò che prima non aveva potuto udire. Si accorse di
essere circondato da schiere di angeli che cantavano in coro che il Messia
era nato in quella notte, il Messia che avrebbe liberato il mondo intero
dal male. Allora comprese perché in quella notte di gioia niente e
nessuno poteva fare del male. E gli angeli non erano soltanto intorno a
lui ma dappertutto, nella grotta e sulle rocce, nel cielo e sulle colline:
avanzavano in processione per contemplare il Divino Bambino.
Dappertutto si respirava felicità, gioia, canti e danze.
E il pastore vide tutto questo in quella notte che gli era sembrata nera e
vuota prima che i suoi occhi fossero davvero aperti. Allora un'ondata di
felicità lo travolse e una gioia incontenibile vibrò in tutto il suo essere,
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fibra per fibra. Come se tutto in lui si fosse trasformato in una di quelle
arpe che suonavano gli angeli. Si buttò in ginocchio e ringraziò il
Signore. E per la prima volta nella sua vita, i suoi occhi si riempirono di
lacrime di felicità.
La riflessione
Non dimenticatelo mai, perché tutto questo è vero. Questa è la notte dei
miracoli. Non sono le candele e le lampade che contano, nè la luna o il
sole. Ciò che importa, è che noi abbiamo degli occhi capaci di vedere la
gloria di Dio. E in questa grande notte gli occhi degli uomini, anche di
quelli che hanno dentro rabbia e amarezza, si possono aprire a
contemplare quello che dalla notte dei secoli gli uomini volevano vedere:
il volto di Dio. Dio ha deciso di farsi conoscere. Lui, l'Onnipotente
Creatore del cielo e della terra, si è mostrato in Gesù. Possiamo toccarlo,
parlargli, mangiare con lui e scaldarci alla sua amicizia. Dio è vicino: si è
fatto uomo! Annunciate questa incredibile notizia! Dio è con noi. Ditelo a
tutti i vostri amici, ai vostri genitori riuniti intorno al presepio o
all'albero. Questa è una notizia da diffondere, perché nel cuore degli
uomini si metta a brillare una gioia luminosa più di tutti i soli
dell'Universo. Perché si faccia strada anche negli angoli più bui della
nostra storia questa sconvolgente certezza: Dio vive in mezzo a noi.
La preghiera
Oggi la notte è luminosa e il giorno risplendente. Perché lui è il bambino
che cambia il mondo. Sul suo viso danza il sorriso di Dio. Egli c'è e resta
con noi e la gioia degli uomini diviene la gioia di Dio. Egli c'è e resta con
noi e la sofferenza degli uomini diviene la sofferenza di Dio. Egli si
chiama Emmanuele: Dio con noi.
Il fioretto
Una preghiera con tutta la famiglia davanti al presepio o a un'immagine
natalizia.
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ALTRI RACCONTI…
NON C'È POSTO NELLA LOCANDA
Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato
bocciato due volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di
comprendonio, ma benvoluto dai compagni. Sempre servizievole,
volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini
più piccoli.
L'avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita
natalizia. A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la
signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del
locandiere, perché comportava poche battute e il fisico di Guido avrebbe
dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria.
La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e
parenti. Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di
Guido Purlini. E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che
avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente
Maria. Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario
dipinto. Guido il locandiere era là, in attesa.
“Che cosa volete?” chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
“Cerchiamo un alloggio”.
“Cercatelo altrove. La locanda è al completo”. La recitazione di Guido era
forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
“Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e
siamo stanchi morti”.
“Non c'è posto per voi in questa locanda”, replicò Guido con faccia
burbera.
“La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e
ha bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle
un angolino. Non ne può più”.
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e
guardò verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far
serpeggiare un filo d'imbarazzo tra il pubblico.
“No! Andate via!” sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
“No!” ripeté Guido automaticamente. “Andate via!”.
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò
sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei.
Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla
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soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia. Aveva la bocca aperta,
la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano
riempiendo di lacrime.
Tutt'a un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre. “Non
andar via, Giuseppe” gridò Guido. “Riporta qui Maria”. E, con il volto
illuminato da un grande sorriso, aggiunse: “Potete prendere la mia
stanza”.
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a
pallino la rappresentazione. Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la
più natalizia di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.
Per vivere diversamente
Il racconto è un invito a ritrovare il senso vero del Natale. Per troppa
gente quello che succede in questi giorni è solo una specie di “teatrino”,
una commedia recitata da tutti per antica tradizione. Guido doveva fare
l'attore e recitare una parte stabilita. Invece ha trasformato in vita lo
spirito autentico dei Natale.
Quali sono gli elementi che fanno veramente il Natale?
Sono le decorazioni, l'atmosfera creata da luci e musiche, i regali?
È solo un po' di sentimentalismo o qualcosa di molto concreto?
Lavoro di gruppo: scrivi su un grande cartellone: QUESTO È IL
MESSAGGIO DEL NATALE.
Passalo ad altri amici, e ognuno poi scriva quello che pensa. Alla fine
discutete le frasi scritte.
Proposta di lettura: dalla Bibbia, Isaia 11,1-9.
Gesù viene ad inaugurare un regno di pace, e giustizia e bontà.
Vivere veramente il senso del Natale è diventare con Gesù costruttori del
nuovo regno.
Preghiera
Tu lo sai Signore: dietro la maschera della nostra indifferenza c'è un
cuore che ti aspetta.
Dietro la maschera del nostro orgoglio c'è il volto di uno che ha paura
di proclamare la sua fede. Tu, Signore, sei colui che smaschera.
Tu togli i travestimenti e fai apparire la verità nascosta nel cuore degli
uomini.
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SIGNORA SI CHIUDE
Era la Vigilia di Natale e la commessa non vedeva l'ora di andarsene.
Pensava in continuazione alla festa che l'attendeva appena finito il
lavoro. Sentiva già i mormorii di ammirazione che l'avrebbero
accompagnata mentre entrava vestita con l'abito da sera di velluto, con il
cavaliere che la scortava... Quando arrivò l'ultima cliente. Mancavano
solo cinque minuti alla chiusura.
“Non è possibile che venga proprio al mio banco” pensò.
Finse di non sentire quando quella si schiarì la voce e disse piano:
“Signorina, signorina quanto costano quelle calze?”.
“Credo che sul cartellino ci sia scritto 8 euro” rispose brusca.
“Non ne avete di meno care?”.
“Quattro euro e mezzo” scattò guardando l'orologio.
“Mi faccia vedere quelle meno care”.
“Spiacente signora, stasera chiudiamo alle 18,30 perché, se non lo sa,
oggi è la Vigilia di Natale”.
Siccome non apriva bocca si decise a guardarla. Era pallida, aveva l'aria
affaticata, le occhiaie profonde… non doveva avere neanche 30 anni. “Ma
i miei figli non hanno neanche un regalo” disse alla fine tutta d'un fiato.
“Fino a stasera non avevo soldi”.
“Mi dispiace per lei signora” disse la commessa e se ne andò.
Non giunse fino al fondo del banco. La donna non aveva detto una parola
ma non le riuscì di fare un passo in più. Quando si voltò notò nei suoi
occhi l'espressione più triste che avesse mai visto.
Si ritrovò dietro al banco: “D'accordo, signora, ma faccia presto”.
Un sorriso le illuminò il volto, e si mise a correre dai calzini ai nastri poi
ai lettori portatili. Alla commessa quei pochi minuti sembravano lunghi
come l'eternità.
Finalmente si decise per alcune paia di calze, per dei nastri colorati, un
giradischi portatile e due CD di fiabe natalizie.
La commessa gettò gli acquisti in un sacchetto e le diede il resto. Ormai
non c'era più nessuno. Andò di corsa negli spogliatoi e si infilò in fretta il
vestito e corse fuori dal negozio incontro al suo “cavaliere” che
l'attendeva in macchina, con il motore acceso.
Fu al terzo semaforo rosso che vide la donna del negozio: camminava in
fretta tenendo stretto contro il suo esile corpo il pacco dei doni per i suoi
figli. Il suo volto, che aveva perduto la patina di stanchezza, era ancora
illuminato dal sorriso.
In quel breve istante qualcosa avvenne dentro di lei.
Non vide solo una donna: vide i suoi quattro bambini che, il mattino
dopo, si sarebbero infilati felici le calze nuove, messi i nastri nei capelli e
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avrebbero ascoltato le favole natalizie sul lettore portatile nuovo.
Per vivere diversamente
Sovente basta poco per fare felice chi ci sta accanto. La commessa del
racconto quel poco lo fa anche mal volentieri.
Il Signore, che non trascura neppure il dono di un bicchiere d'acqua, non
lascia senza risultato i nostri gesti di amore, anche i più poveri di senso
per noi.
Proposta di discussione: è vero o meno il proverbio: “Una cosa buona va
sempre fatta anche a costo di essere mal fatta”.
Personalmente, cosa ti impedisce di fare bene il bene che fai.
Natale è tempo di compere. Perché non aiutare i commessi dei negozi a
fare bene quello che devono fare?
Preghiera
Oggi la notte è luminosa e il giorno risplendente.
Perché lui è il bambino che cambia il mondo.
Conoscete il suo nome?
Sul suo viso danza il sorriso di Dio.
Egli c'è e resta con noi e la gioia degli uomini diviene la gioia di Dio.
Egli c'è e resta con noi e la sofferenza degli uomini diviene la sofferenza
di Dio.
Egli si chiama Emanuele, Dio con noi.
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LA STORIA DEL TRONCHETTO
Ogni sera, quando il padre di Nellina rientrava dal bosco, scuoteva la
neve dagli stivali e brontolava: “Oh, là là! Che caldo fa, qui! Sembra un
forno! Guarda, Nellina, i vetri delle finestre sono tutti appannati! E poi,
sempre questo odore di dolci e creme bruciacchiate! Toh, guarda tua
madre, coperta di farina dalla testa ai piedi! Che idea che ho avuto di
sposare una fornaia!”.
Naturalmente la mamma di Nellina non era contenta. I suoi occhi
brillavano di collera. Gridava: “Che cosa? Dolci bruciacchiati? lo? I miei
panettoni farciti sono i migliori dei mondo! E poi io faccio delle cose con
le mie mani. Tu, grand'uomo, non fai che demolire dei poveri alberi che
non t'hanno fatto niente. Guardalo, Nellina, tutto coperto di segatura
dalla testa ai piedi!”.
Nellina ne aveva abbastanza di questi litigi. Si arrotolava le trecce bionde
forte forte intorno alle orecchie e non sentiva più niente. Ma il papà
continuava a gridare: “Questa sedia è tutta appiccicosa. È ancora la tua
crema!”. E la mamma urlava: “Crema? Ma quale crema: è la resina dei
tuoi maledetti alberi. La spiaccichi dappertutto!”.
Quella sera, Nellina piangeva nel suo lettino. Amava tanto il papà e la
mamma. Ma ora esageravano. Due giorni dopo era Natale e loro non
facevano nessuno sforzo per andare d'accordo e passare una bella festa
insieme. Il papà si era rifiutato di ridipingere l'insegna della pasticceria.
La mamma non aveva voluto rammendare il gilet del marito. I grossi
lacrimoni di Nellina bagnavano la sua bambola preferita. Il giorno dopo
Nellina raccontò tutto al cugino Gianni.
“Non serve a niente piangere” le disse Gianni.
“Devi fare qualcosa. I tuoi genitori ti vogliono bene. Prepara tu la festa.
Fabbrica un regalino, addobba la casa e Natale sarà una festa
fantastica!”.
Nellina tornò a casa di corsa. Aprì le finestre, spazzò fuori farina e
segatura. Pulì e lucidò. Decorò la casa con rametti di agrifoglio e carta
crespa, aggiustò il gilet del papà e stirò il nastro che la mamma si
annodava nei capelli.
Poi si disse: “E adesso preparo una bella sorpresa! Almeno a Natale non
litigheranno”. E mentre mamma e papà erano al lavoro, Nellina preparò
la sua sorpresa, ridendo da sola.
Quando il padre rientrò, non riuscì a trattenere un fischio di sorpresa:
“Oh, là, là! Che bella casa! E il mio gilet riparato per Natale”. La madre a
sua volta: “La casa addobbata e il mio nastro lavato e stirato. Che
meraviglia!”.
Il giorno di Natale, andarono a Messa tutti insieme e poi tornarono per il
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pranzo. Al momento del dolce, Nellina portò la sua sorpresa. Mamma e
papà aggrottarono le sopracciglia.
La mamma domandò: “Che cos'è? Sembra un tronco d'albero, con la
corteccia scura e un po' di neve. È disgustoso!”.
Il papà annusò e disse: “Sa di biscotti, cioccolato e zucchero in polvere. È
disgustoso!”
Poi, tutto d'un colpo, la mamma scoppiò a ridere e disse: “È un dolce, è
per me. Grazie Nellina!”
Il papà scoppiò a ridere anche lui: “È un tronchetto d'albero, è per me.
Grazie Nellina!”.
Nellina, felice, gridò: “È per tutti e tre. E lasciatene un po' anche per
me!”.
Per vivere diversamente
“Prepara tu la festa, fabbrica un regalino, addobba la casa e Natale sarà
una festa fantastica”: è questo il consiglio che Gianni dà a Nellina. Natale
è senza dubbio anche la festa della famiglia ed è l'occasione giusta per
rivedere o anche 'ritoccare' l'atmosfera familiare.
Succedono, a volte, dissapori o contrasti nella tua famiglia?
Che cosa ne è più spesso la causa? Che cosa puoi fare tu per appianarli?
Organizza la festa di Natale della tua famiglia: raduna i tuoi genitori, fai
in modo che si conoscano, parlate di cose serie, scherzate e giocate
insieme.
Lavoro di gruppo: aiutandovi gli uni gli altri preparate ornamenti e
addobbi per le vostre case.
Organizzate nella parrocchia il concorso per il presepio più bello (ma
ricordatevi di premiarli tutti).
Preghiera
Ti sei presentato all'umanità come umile germoglio di un albero
cresciuto lungo i secoli.
Sei nato fra gli uomini.
Come me, Signore, hai conosciuto gli affanni della vita, la tenerezza di
una famiglia unita, l'angoscia per le difficoltà, la dolcezza dell'amicizia.
Tu sei diventato segno di unità.
Come te, Signore, che io sappia donare a chi mi vive accanto una
ragione per essere felice.
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I REGALI NELLO SGABUZZINO
Il postino suonò due volte. Mancavano cinque giorni a Natale. Aveva fra
le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e
legato con nastri dorati.
“Avanti”, disse una voce dall'interno.
Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena
d'ombre e di polvere. Seduto in una poltrona c'era un vecchio.
“Guardi che stupendo pacco di Natale!” disse allegramente il postino.
“Grazie. Lo metta pure per terra”, disse il vecchio con la voce più triste
che mai.
“Non c'è amore dentro”.
Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Sentiva
benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva
certo l'aria di spassarsela male. Allora, perché era così triste?
“Ma, signore, non dovrebbe fare un po' di festa a questo magnifico
regalo?”.
“Non posso... Non posso proprio”, disse il vecchio con le lacrime agli
occhi. E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella
città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli mandava un pacco,
per Natale, con un bigliettino: “Da tua figlia Luisa e marito”. Mai un
augurio personale, una visita, un invito: “Vieni a passare il Natale con
noi”. “Venga a vedere”, aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. il vecchio aprì la porta.
“Ma ... ” fece il postino. Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi.
Erano tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta
e i nastri luccicanti.
“Ma non li ha neanche aperti!” esclamò il postino allibito.
“No”, disse mestamente il vecchio. “Non c'è amore dentro”.
Per vivere diversamente
Natale è diventata la festa del regalo. Non è una brutta cosa, dopotutto!
Natale è la festa del grande dono fatto da Dio all'umanità: lui stesso
viene a vivere tra noi per insegnarci la strada della Vita Eterna.
Scambiarsi regali è un po' partecipare alla grande generosità di Dio. Il
regalo però, dice il racconto, può trasformarsi in una usanza senza amore
dentro, cioè in una triste ipocrisia.
Proposta di discussione: perché la gente si scambia regali a Natale?
Quali sono le motivazioni 'reali' che spingono la maggior parte della
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gente a fare regali vistosi?
Che cosa significa un regalo “con amore dentro”?
Prepara dei regali speciali, che abbiano un vero significato, per i tuoi
amici.
Lavoro di gruppo: organizzate una visita all'Ospedale o al Ricovero delle
persone anziane della vostra zona. Fate loro il dono più bello: un po' del
vostro tempo.
Preghiera
O Signore, che ti sei fatto dono per l'uomo; che non hai lasciato solo il
ricordo di te come tanti che sono passati.
Ci insegni che i nostri gesti d'amore sono vuoti se non portano agli altri
un poco di noi stessi.
Fa' che i miei doni non abbiano il sapore della circostanza, dell'obbligo,
della buona creanza, ma siano un modo d'andare incontro ai fratelli
nella gioia di un cuore aperto.
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I TRE AGNELLINI
Lassù sulle montagne del Tirolo, c'era un piccolo villaggio dove tutti
sapevano scolpire santi e Madonne con grande abilità. Ma giunse il
tempo in cui non ci furono più ordinazioni per le loro belle statuine
religiose. Un pomeriggio Dritte, uno dei maestri intagliatori, entrando
nella sua bottega trovò un fanciullo biondo, che giocava con le statuine
del presepio. Dritte gli disse con fare burbero che le statuine del presepio
non erano giocattoli.
Il bambino rispose: “A Gesù non importa, Lui sa che non ho giocattoli
per giocare”.
Maestro Dritte commosso gli promise un agnellino di legno con la testa
che si muoveva.
“Vienilo a prendere domani pomeriggio, però, strano che non ti abbia
mai visto, dove abiti?”
“Là”, rispose il fanciullo indicando vagamente l'alto.
Il giorno dopo, prima di mezzogiorno, l'agnellino era pronto, bello da
sembrare vivo. Ad un tratto si affacciò alla porta della bottega di Dritte
una giovane zingara con un bambino in braccio. Il bambino appena vide
l'agnellino protese le braccine e l'afferrò. Quando glielo vollero togliere di
mano si mise a piangere disperato. Dritte, che non aveva nulla da dare
alla povera donna, disse sospirando: “Tienilo pure. Intaglierò un altro
agnellino”.
Nel pomeriggio tardi Dritte aveva appena terminato il secondo agnellino
quando Pino, un povero orfanello, venne a salutarlo.
“Oh! che meraviglioso agnello”, disse. “Posso averlo per piacere?”.
“Sì tienilo pure, Pino, io ne intaglierò un altro”.
E così fece. Ma il bambino dai capelli d'oro non ritornò, e l'agnellino
rimase abbandonato sullo scaffale della bottega. La situazione del
villaggio continuava a peggiorare e Dritte cominciò ad intagliare
giocattoli per i bambini del villaggio per far loro dimenticare la fame. Un
giorno un mercante di passaggio si offrì di comperare tutti i giocattoli
che Dritte riusciva ad intagliare. Dritte rifiutò di intagliare giocattoli per
denaro.
“Sono alla locanda”, disse il commerciante, “in caso cambiate idea”.
La piccola Marta era molto malata e Dritte, per farla sorridere, le regalò
l'agnellino che aveva conservato sullo scaffale della sua bottega. Mentre
tornava dalla casa di Marta, incontrò il bambino dai capelli d'oro.
“Ho tenuto l'agnellino fino ad oggi, ma tu non sei venuto. Ne farò subito
un altro”.
“Non ho bisogno di un altro agnellino” disse il fanciullo scuotendo il
capo, “quelli che hai donato al piccolo zingaro, a Pino e a Marta li hai
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donati anche a me. Fare un giocattolo può servire alla gloria di Dio
quanto intagliare un santo”.
Un attimo dopo il fanciullo era scomparso. Quella notte Dritte si recò
alla locanda.
“Costruirò giocattoli per voi”, disse.
“Allora avete cambiato idea” sussurrò il mercante.
“No”, rispose Dritte con gli occhi scintillanti, “ma ho ricevuto un segno
da Dio!”
Per vivere diversamente
La gioia di una festa è veramente piena solo quando la si condivide. Il
racconto è un simpatico commento al detto di Gesù: “C'è più gioia nel
donare che nel ricevere”. Dritte, il maestro intagliatore, ha avuto anche la
soddisfazione di contribuire alla rinascita dell'economia del suo villaggio.
La nostra gioia-ricompensa sta invece nel sorriso degli altri.
Proposta di lettura: Atti degli Apostoli 4,32-37.
Il rendere partecipi gli altri dei nostri doni è il mezzo migliore per
togliere dal nostro cuore ciò che impedisce di accogliere il Signore che
viene.
Proponiti prima della festa dei Natale un gesto, concreto, di generosità.
Sarà ancora più ricco di significato se lo farai ad uno che non ti può
ricambiare oppure ad una persona che ti è poco simpatica.
Preghiera
Tu sei grande Signore e sei venuto in mezzo agli uomini.
Come un fratello, come uno uguale a noi, io ti dico, con tutta la mia
tenerezza:
Tu sei colui che amo e come te, Signore, passerò tra i miei fratelli
portando la tenerezza.
Lo dirò a mio fratello, come un messaggero che corre sui monti e
annunzia la pace da un estremo all'altro della terra, che l'uomo deve
sperare.
Dio è vicino, egli viene per la tenerezza.
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NATALE AL FRONTE
Nel dicembre 1914 inglesi e tedeschi si fronteggiavano dalle trincee
separate da una striscia di terra brutta e piatta, divisa al centro da filo
spinato. Di tanto in tanto alcune sagome si avventuravano nella terra di
nessuno, ma la maggior parte dei soldati rimanevano nel fango e
nell'acqua che stagnavano nelle trincee, intenti solo ad evitare il fuoco
dei nemico.
La Vigilia di Natale, l'aria era fredda e piena di nebbia. Improvvisamente
alcuni soldati inglesi stupefatti videro delle luci avanzare lungo le trincee
nemiche. Poi venne l'incredibile suono di un canto. I soldati tedeschi
cantavano Stille Nacht. Quando il canto cessò i soldati inglesi risposero
con First Christmas. Il canto da entrambe le parti durò per un'ora. Poi
una voce invitò tutti a superare le linee.
Un tedesco con grande coraggio uscì dalla trincea, attraversò la terra di
nessuno e scese nella trincea inglese. Altri commilitoni lo seguirono con
le mani in tasca per dimostrare che erano disarmati.
“Io sono un sassone e voi degli anglosassoni. Perché mai ci
combattiamo?” chiese.
Nell'alba limpida e fredda del giorno di Natale non ci fu nessuna
sparatoria. Gli uomini avevano autonomamente stabilito un giorno di
pace.
“Uno spirito più forte della guerra era all'opera”, commentò un
osservatore.
I comandanti di entrambe le parti non approvarono. Sapevano che
l'amicizia fra nemici dichiarati avrebbe impedito la guerra. Ma la tregua
continuò. Perfino gli uccelli selvatici, che tanto tempo prima occupavano
il rumoroso campo di battaglia, ritornarono e furono nutriti dai soldati.
Sarebbero stati salvati 9 milioni di uomini, se quei soldati avessero
potuto obbedire al loro desiderio di amicizia e di pace e la tregua non
fosse finita subito dopo Natale.
Un soldato inglese, che aveva preso parte a quella memorabile pace
natalizia, morì all'età di 85 anni. Fino alla fine dei suoi giorni non poteva
sentire Stille Nacht senza che le lacrime gli rigassero le guance. Si
ricordava degli amici tedeschi che aveva avuto in quel giorno di Natale e
che, per quanto ne sapeva, aveva poi ucciso nei giorni che seguirono.
Per vivere diversamente
“Pace in terra agli uomini di buona volontà” cantavano gli angeli a
Betlemme.
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Anche quest'anno però in molte parti della Terra non c'è vera pace. Le
armi continuano a mescolare la loro micidiale canzone di morte alle
canzoni natalizie. Segnate su una carta geografica tutti i paesi in cui c'è
guerra, cercando notizie sui giornali.
“Perché mai combattiamo?” Chiede un soldato del racconto.
Perché oggi c'è gente che combatte? Quali sono le cause più frequenti di
una guerra? Perché si costruiscono tante armi?
L'Italia ha dei nemici, secondo voi?
Potremmo eliminare dalla nostra vita il concetto di “nemico”? Come?
Leggete insieme il libro del profeta Isaia 2,2-5 e cercate di capire qual è il
sogno del profeta.
Preghiera
Tu hai fatto tutto con tenerezza e niente di ciò che esiste nell'immensità
dell'universo è stato fatto senza di essa.
In te Signore c'è la tenerezza e la tenerezza è la vita degli uomini.
Senza di essa nulla può crescere.
Essa è il sole di Dio.
A causa della tenerezza tu hai abbandonato i centomila splendori del
tuo trono.
In Gesù, tuo amato figlio, ti sei trovato adagiato in una mangiatoia,
avvolto in fasce, senza alcuna difesa, e attorniato da persone senza
importanza.
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IL PIÙ BEL CANTO DI NATALE
Nel piccolo paese di Obendorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre
Mohr, stava dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per
provare il canto da eseguire nella notte di Natale. Tra le navate silenziose
si spandeva l'eco di un vocio allegro e di piccole risatine.
“Buoni, silenzio! Incominciamo!”.
Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall'interno
dell'organo uscì uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora.
“Strano”, pensò il giovane prete. Aprì la porticina dietro l'organo e dieci,
venti topi schizzarono fuori inseguiti da un gatto.
Povero padre Mohr. Si voltò a guardare il mantice: completamente
rosicchiato e fuori uso.
“Pazienza”, pensò, “faremo a meno dell'organo”.
Ma anche i piccoli cantori all'apparire dei topi e del gatto si erano
scatenati in una furibonda caccia. Ed ora non c'era più nessuno. Con
l'organo in quelle condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto
di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr. Mentre, davanti
all'altare maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente
l'amico Franz Gruber il maestro elementare che, oltre ad essere un
discreto organista, se la cavava bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i
compiti degli scolari al debole chiarore di una lucerna.
“Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per la messa di mezzanotte, un
canto semplice che accompagnerai con la chitarra. Qui ho scritto le
parole: sta a te vestirle di musica... Ma in fretta mi raccomando!”
Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver
scorso il testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note
più semplici.
A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale
traboccava di fedeli. L'altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di
candele accese. Padre Mohr celebrava la S. Messa. Dopo aver proclamato
il vangelo di Luca che narra la nascita del Salvatore si avvicinò, con il
maestro Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono: “Stille
Nacht, Heilige Nacht (Notte silenziosa, Notte santa) ... ”. Dalle navate si
persero nel silenzio le ultime parole del canto.
Un attimo dopo l'intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la
schiera degli angeli del vangelo di Luca. E da allora non si è più smesso
di cantarlo, non solo ad Obendorf ma in tutto il mondo. È diventata una
delle musiche più care del Natale.
E di padre Mohr e di Franz Gruber che ne è stato? Nessuno dei due ha
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avuto il tempo di rendersi conto di quanto hanno donato al mondo senza
aver avuto in cambio nulla.
Per vivere diversamente
Il mondo senza la musica sarebbe un mondo senz'anima. I canti natalizi
sono una delle componenti più simpatiche e suggestive della festa. La
storia, vera, della nascita del canto “Stille Nacht” rivela che quando un
canto nasce da un cuore generoso diventa un mezzo formidabile per
comunicare bontà e gioia.
Provate a preparare un canto da eseguire nella festa di Natale, davanti al
presepio; semplice e che sia l'espressione più genuina dei vostri
sentimenti.
Se ne avete l'occasione, offrite a chi è nella sofferenza, malati e anziani,
un poco della vostra gioia con qualche canto natalizio.
Preghiera
Signore, sei diventato un uomo con le preoccupazioni e le gioie
dell'uomo.
Signore, Dio, grandissimo, tu hai preso un cuore e un viso come il
nostro, per questo una grande gioia si leva dal viso e dal cuore di tutti
gli uomini.
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ELIOGABALO E MATUSALEMME
Il piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due
ragazzi poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel
collegio dei ragazzi poveri.
“Sai che domani è Natale?” chiese Gabalo, un giorno che tutti e due
stavano spalando la neve dall'ingresso dell'istituto.
“Ah, davvero?” rispose Matusalemme. “Spero proprio che la signora
Pynchurn non se ne accorga. Diventa particolarmente antipatica nei
giorni di festa!”
L'antipatica signora Pynchum era la direttrice dell'istituto dei poveri, ed
era temuta da tutti.
Matusalemme proseguì: “Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci sia
davvero?”.
“Certo che c'è”.
“E allora perché non viene mai qui alla casa dei poveri?”.
“Beh”, rispose Gabalo, “noi stiamo in una strada tutte curve, lo sai no?
Forse Babbo Natale non riesce a trovarla”.
Gabalo cercava sempre di mostrare a Matusalemme il lato bello delle
cose, anche quando non c'era!
Proprio in quel momento un'automobile investì un povero cane che
cadde riverso sulla neve. Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che
aveva una zampa rotta. Fece una stecca e fasciò strettamente la zampa
del cane. Gabalo lesse sul collare che il cane apparteneva al dottor
Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese in braccio e si avviò
verso la casa del dottore.
Il dottore aveva una gran barba bianca e lo accolse con un sorriso e gli
chiese chi aveva immobilizzato e steccato così bene la zampa dei cane.
“Perbacco, io, signore”, rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri
animali ammalati che aveva guarito.
“Sei un ragazzo davvero in gamba!” gli disse alla fine il dottor Carruthers
guardandolo negli occhi. “Ti piacerebbe venire a vivere da me e studiare
per diventare dottore?”.
Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e
non essere più uno “della Casa dei Poveri”, diventare un dottore! “Oh, oh
s-s-sì, signore! Oh ... ”.
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava,
chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme?
“Io... io vi ringrazio, signore” disse, “ma non posso venire, signore! E
prima che il dottore scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa”.
Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all'istituto con le braccia
cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: “è
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arrivato Babbo Natale!”.
Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto
dai vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande.
Dopo un attimo, il dottor Carruthers disse: “Conosco un ospedale in città
dove potrebbero guarirti. Hai parenti o amici?”.
“Oh, sì”, rispose subito Matusalemme, “ho Gabalo!”.
Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. “È per lui che non hai
voluto venire a stare da me, figliuolo.”
“Beh, io... io sono tutto quello che lui possiede”, rispose Gabalo.
Il dottore, profondamente commosso, disse: “E se prendessi anche
Matusalemme con noi?”.
Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e
Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non
sapeva che sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un
chirurgo famoso. Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva
trovato la strada per la casa dei poveri e che lo portava via con Gabalo.
Per vivere diversamente
“Io sono tutto quello che lui possiede” dice Gabalo di se stesso pensando
al suo più caro amico. L'amicizia è un tesoro prezioso.
Celebrando la festa dell'amicizia tra Dio e gli uomini è giusto ricordarsi
dei propri amici.
Proposta di discussione: qual è il segreto per avere amicizie autentiche
ed arricchenti?
Che cosa apprezzi di più in un amico?
Preghiera
Si dice che Mosè non ti poteva guardare faccia a faccia e che si levò i
sandali per parlarti, e questo è vero. Che Isaia profeta si purificò le
labbra con un carbone acceso per pronunciare il tuo nome, e questo è
vero. Si dice che il tuo popolo ha curvato davanti a te la fronte nella
polvere, davanti a te Dio grandissimo per pregarti, e questo è vero. Ma
tu sei il Dio che ama e ti rifiuti di vedere l'uomo tremare davanti a te. E
per farti veramente conoscere, hai preso posto in mezzo agli uomini.
Tu sei venuto in Gesù Cristo, tuo amato Figlio, a mostrare il tuo vero
volto lucente di sudore, corrugato per le preoccupazioni, inquieto per la
fame, illuminato da mille soli per l'amicizia, spezzato dal dolore.
Io so che questo è vero.
Io non ho più paura perché Dio è con me.
Dio tra gli uomini, Dio così vicino. Dio. Uomo. Io so che questo è vero.
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Riferimenti
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