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Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVIII (2012), pp. 217-254
Naturalizzazione: vie e ostacoli1
Alberto Peruzzi
Can epistemology be naturalized? The question has more than one
sense. There are many forms of both the naturalistic stance and
its denial in relation to different topics and by means of different
strategies. Only some of them are instantiated in the existing
literature. After a taxonomy of the range of possible forms of
naturalism and anti-naturalism, the paper suggests an emergentist
view which shifts the issue from psychology to cosmology.
Keywords: naturalized epistemology, antinaturalism emergentism,
entwined naturalism.
1. Di nomi e verbi
Nel linguaggio comune, il sostantivo “naturalista” indica qualcuno
che, spesso a livello amatoriale, si dedica allo studio di piante animali rocce
minerali, così come si trovano nell’ambiente “naturale”, mentre il verbo
“naturalizzare” è comunemente usato in rapporto all’acquisizione della
cittadinanza di uno stato e la procedura relativa, di “naturalizzazione”,
è regolata da norme che variano da uno stato all’altro.
In filosofia, sostantivi, aggettivi e verbi che ho messo fra virgolette
sono associati a due orientamenti di pensiero contrapposti: “naturalismo”
1
Versione ampliata della lezione tenuta il 16 gennaio 2013 per il Dottorato di Ricerca
in Filosofia, Università di Firenze. La lezione seguiva la traccia delle diapositive, già da
tempo in rete, usate per una conferenza che avevo fatto il 17 febbraio 2004 per il Corso di
Epistemologia Generale e Applicata, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di
Firenze. Le diapositive, per il loro carattere ellittico, sono risultate enigmatiche a coloro
che le hanno “sfogliate” senza aver avuto l’opportunità di ascoltare l’esposizione cui erano
di supporto. Inoltre, i dottorandi presenti alla lezione del 16 gennaio 2013 hanno chiesto
chiarimenti che il poco tempo a disposizione impediva di fornire. Ciò mi ha indotto a rielaborare la serie di diapositive, giungendo ben presto al convincimento che fosse necessario
redigere in forma testuale la trattazione del tema così come l’avevo esposto, con l’aggiunta
dei chiarimenti, cioè in forma di esplorazione ricognitiva, finalizzata a una tassonomia di
possibili posizioni circa la naturalizzazione dell’epistemologia. Documentando questo
intento, il presente testo illustra anche alcuni caratteri fondamentali del lavoro filosofico.
http://www.fupress.com/adf
ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)
© 2013 Firenze University Press
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Alberto Peruzzi
e “antinaturalismo”, ciascuno dei quali si articola in più modi e si concreta in più posizioni teoriche, ciascuna con la sua storia, i suoi autori di
riferimento, le sue ragioni. L’alternativa non sembra riguardare la diversa
forma mentis di chi indaghi con appassionata discrezione l’ambiente
naturale o, rispettivamente, di chi a tale indagine preferisca quella in
laboratorio; né allude alla scelta tra una politica di liberalizzazione e,
rispettivamente, una politica restrittiva circa la concessione dei diritti di
cittadinanza a immigrati. Tuttavia, l’alternativa riguarda anche il valore
filosofico da dare all’attività dei naturalisti che un tempo raccoglievano,
nei loro taccuini, annotazioni e schizzi a matita di quanto incontravano
nei loro viaggi intorno al mondo; e in senso traslato riguarda i diritti di
cittadinanza – ... quella dei filosofi nello stato di natura.
Nel dibattito filosofico degli ultimi decenni i termini “naturalismo”,
“naturalizzazione” e “naturalizzare” sono stati usati prevalentemente in
riferimento all’epistemologia: coloro i quali sottoscrivono la Tesi secondo
cui le asserzioni epistemologiche, in linea di principio, esprimono conoscenze, alla stessa stregua di quelle che si trovano nelle scienze della natura,
sono “naturalisti”. Coloro che respingono quest’idea e sottoscrivono,
invece, l’Antitesi secondo cui la “naturalizzazione” dell’epistemologia
non è possibile perché ci sono proprietà concetti qualità, di pertinenza
dell’epistemologia, che non si possono “naturalizzare”, si dicono “antinaturalisti”. Si sono ormai formati due partiti. A quale dare il voto?
Esploreremo la questione naturalismo vs antinaturalismo senza far
riferimento alle auctoritates e alla letteratura relativa, preoccupandoci
esclusivamente di mettere a fuoco la gamma di forme che i due orientamenti possono assumere. Alcune di queste forme si trovano già esemplificate nella letteratura esistente, altre no. Si tratta di capire bene cosa
c’è da naturalizzare, come naturalizzarlo e, allo stesso tempo, quale sia il
significato di “naturalizzare”.
Il tipo di riflessione che oggi diciamo “epistemologica”, genericamente
intendendola come analisi o come dottrina, come critica (da krino) o come
vera e propria teoria della conoscenza, non è l’unica cosa che ci si è proposti di “naturalizzare” o ci si è proposti di negare che sia naturalizzabile. Il
problema, infatti, si pone anche per altre discipline, come l’etica, la logica o
l’estetica, e mediatamente per ciò che ne è oggetto. Da un lato, le proprietà
sulla cui naturalizzazione si discute con riferimento a queste diverse discipline sono abbastanza diverse; dall’altro, le rispettive aree tematiche s’intersecano. Quindi bisogna fare attenzione a non confondere e a non dividere
più di quanto sia opportuno. Sono due esigenze ugualmente importanti,
ma la seconda presuppone la prima. Come in ogni altro campo dello scibile
umano, anche in filosofia occorre innanzitutto preoccuparsi di non fare
confusione e conviene preoccuparsene subito, non dopo essersi schierati.
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Perciò l’esplorazione che faremo sarà guidata dalla preoccupazione
di distinguere i diversi sensi del naturalismo e dell’antinaturalismo. Solo
una volta fatte le distinzioni del caso, e non saranno poche, potrà entrare
in campo la preoccupazione inversa e così, nella parte conclusiva, saranno
accennati i motivi per adottare una cornice che permetta di restringere
progressivamente la gamma delle opzioni possibili, a testimonianza del
fatto che la pulizia delle lenti dei nostri occhiali resta prioritaria ma non
è esaustiva dell’attività filosofica.
2. Cominciando le pulizie
Non solo i termini “naturalizzazione” e “antinaturalizzazione”
interessano aree diverse della filosofia ma, anche se ne limitiamo l’analisi all’uso che ne viene fatto nel discorso epistemologico, alcune tra le
nozioni interessate non appartengono all’epistemologia in maniera esclusiva. Per esempio, le nozioni di verità, significato e intenzionalità sono
sicuramente usate e/o tematizzate nell’epistemologia ma riguardano, con
pieno diritto, anche logica, semantica, scienze cognitive e filosofia del
linguaggio. Anzi, proprio perché queste nozioni hanno attirato grande
attenzione da parte sia di sostenitori sia di detrattori del progetto di
naturalizzare l’epistemologia, tale pertinenza multipla è particolarmente
significativa. La natura trasversale di verità, significato e intenzionalità,
la loro problematicità e la loro non-univocità segnalano che un impegno
a sostenere o rifiutare un progetto di “naturalizzazione” esige prima di
tutto un chiarimento di questo termine, peraltro inteso in più modi già
all’interno dell’ambito epistemologico.
Anche se non potremo contentarci di aver distinto la gamma di accezioni del termine, dobbiamo averle distinte per operarne una selezione;
ed è bene rendersi conto fin d’ora che non si tratta di un compito lessicografico, bensì propriamente filosofico, perché ci troviamo di fronte a una
contrapposizione modale fra una Tesi e un’Antitesi: la Tesi afferma la possibilità di naturalizzare l’epistemologia, l’Antitesi nega questa possibilità.
L’epistemologia ha per oggetto la conoscenza e, siccome il principale (se non esclusivo) campione, esempio e modello, di conoscenza
che abbiamo a disposizione è la conoscenza della natura, Tesi e Antitesi
ammettono una declinazione fondamentale in base alla quale: la Tesi
(naturalismo) implica che, in linea di principio, la conoscenza della natura
fa parte della natura, mentre l’Antitesi (anti-naturalismo) implica che la
conoscenza della natura non fa parte della natura e, in simmetrica linea
di principio, nessun progresso conoscitivo potrà mai far sì che ne faccia
parte. Vi invito a notare che si tratta nuovamente di due asserzioni modali
– un punto su cui bisognerà tornare.
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Questa, beninteso, non è l’unica declinazione possibile di Tesi e
Antitesi. Per esempio, ce n’è anche una meno impegnativa, secondo
la quale chi accetti una tesi di naturalizzazione si limita a dire che c’è
qualche componente nella conoscenza umana che si lascia naturalizzare,
e rispettivamente chi neghi la tesi di naturalizzazione si limita a dire che
c’è qualche componente nella conoscenza, non necessariamente della
natura, che non può essere ricondotto a entità e processi naturali. Tra
poco vedremo come si possa dar forma più precisa a simili declinazioni.
Tuttavia, il vantaggio della declinazione fondamentale, e più impegnativa,
cioè quella relativa all’integrale naturalizzazione della conoscenza-dellanatura, è che permette ai contendenti di specificare in maniera precisa
gli argomenti pro o contro la naturalizzazione – o almeno più precisa
che in relazione a (eventuali) conoscenze d’altro genere. Com’è facile
immaginare, quest’ultima considerazione trova ben scarso seguito.
La questione di fondo – come ho anticipato – non è confinabile all’epistemologia. Dal momento che Tesi e Antitesi comportano un riferimento
alla verità, al significato e alle proprietà intenzionali che soggiacciono alla
capacità di riferirsi a qualcosa e di produrre/comprendere asserzioni su
stati di cose accessibili alle scienze della natura, Tesi e Antitesi interessano
anche la filosofia del linguaggio e la filosofia della mente. Se è immediato
rendersi conto che, coinvolgendo le nozioni di verità e di significato, Tesi
e Antitesi riguardano specificamente la semantica, è non meno immediato
rendersi conto che il rimando a proprietà delle strutture e degli atti mentali
correlati con le proprietà intenzionali fa sì che Tesi e Antitesi abbiano a
che fare con la natura dei processi cognitivi. Ovviamente, per chi sostiene
che la nozione di verità è spuria o che tale è la nozione di significato, o
che lo sono entrambe, l’impegno verso Tesi o Antitesi si trasferisce in un
impegno verso le nozioni che dovrebbero permettere di eliminare ogni
riferimento alla verità e/o al significato. Non meno ovviamente, per chi
sostiene che la semantica è una scienza cognitiva, non ci sono differenze
sostanziali tra lo status delle tre nozioni.
Per di più, Tesi e Antitesi hanno un raggio più vasto d’applicazione,
perché si possono formulare anche per l’etica e per l’estetica. La più generale tesi di naturalizzazione è quella che riconduce tutti i valori a fatti,
tutte le proprietà valutative/normative a proprietà naturali, tutti i principi
di valore a leggi di natura (più le condizioni al contorno pertinenti). Si
potrebbe quindi pensare che il giardino dei sentieri che si biforcano non
abbia fine. Invece, riconosciuti i diversi caratteri che la naturalizzazione
assume in ambiti diversi, è significativo che gli schemi argomentativi
adoperati nei vari ambiti si somiglino e talvolta non differiscano per nulla,
nella loro struttura generale, da quelli pertinenti all’epistemologia, senza
con ciò dimenticare che da un ambito all’altro i contenuti cambiano.
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La ricorrenza trasversale di nozioni e di schemi argomentativi consente di semplificare il confronto tra Tesi e Antitesi – il che è un indubbio
vantaggio – ma si presta facilmente a usi impropri, dai quali si può trarre
motivo per contestare tale ricorrenza oppure per giudicarla poco rilevante.
Chi voglia contestarla farà leva sulle differenze di contenuto e introdurrà
ipotesi ulteriori finalizzate a impedire che una nozione, o uno schema
argomentativo, concernente un ambito specifico sia trasferibile senza sostanziali modifiche a un altro ambito. Chi invece voglia non contestarla ma
ridurne la significatività insisterà sul carattere formale-astratto di nozioni
e schemi ricorrenti oppure introdurrà ipotesi ulteriori finalizzate a ridurre
le differenze di un ambito dall’altro. Qualunque sia l’opzione favorita,
le relative motivazioni sono non meno problematiche del quadro di idee
che dovrebbero servire a chiarire ed eventualmente correggere, pertanto
ne ometterò l’esame in questa ricognizione esplorativa.
3. Cautele anti-disastro
Prender posizione su questioni di fondo formulate in un lessico mal
definito è uno dei passatempi prediletti dei filosofi. Questo passatempo
produce danni a catena – anzi, disastri. Che prediletto sia anche da parte
di chi fa altre professioni, è di scarso conforto.
Non c’è di che stupirsi se, di fronte a una questione tanto importante
quanto controversa, molte persone che come professione fanno o insegnano filosofia preferiscono, prudentemente, collazionare pareri e chiosarli
piuttosto che prender posizione. Lo spirito di quanto ho detto fin qui, con
l’esplicito invito a evitare confusioni e l’enfasi sulla molteplicità di sensi
di uno stesso termine, dovrebbe suffragare una simile scelta prudenziale.
Purtroppo, una prudenza perpetuantesi abitua all’acrasia e anche così si
producono danni a catena – anzi, disastri. La paura di scegliere così come
l’ansia di “appartenere” convergono nella diseducazione a esplorare.
In filosofia, né le reazioni istintive né le esclamazioni hanno titolo.
Chi, ansioso di prender posizione, non si preoccupa di evitare vaghezza
e ambiguità nel caratterizzare l’oggetto del discorso, deve pur sempre
addurre delle ragioni. Queste, essendo viziate da vaghezza e ambiguità,
fanno sì che la presa di posizione da esse motivata sia inefficace, nel
senso che non porta a nulla che faccia progredire la disciplina chiamata
“filosofia”, perché in un altro senso l’efficacia è indubbia: la trascuratezza
cui alludo è costume diffuso e, per esempio, consente l’organizzazione di
un grande numero di convegni e la pubblicazione di un grande numero
di articoli o libri, che altrimenti non avrebbero ragion d’essere.
A difesa dei bassi standard comunitari, c’è chi replica adducendo
l’ineliminabile indeterminatezza e plurivocità di qualunque termine. Tale
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replica, curiosamente, suppone di essere né indeterminata né plurivoca:
almeno in questo caso coloro ai quali è rivolta avrebbero titolo a intendere
perfettamente i termini usati! Parimenti, i motivi dell’acrasia non ricadono sotto la stessa. La consapevolezza della risultante vacuità è abilmente
evitata sia da chi ha urgente bisogno di prender posizione sia da chi se ne
ritrae e, anche laddove – con rara testimonianza d’umiltà – faccia capolino,
non è valutata dagli stessi come sufficiente a interrompere il passatempo.
Venendo da queste alte nebulose al nostro caso: per poter essere
qualcosa di definito, Tesi e Antitesi presuppongono che siano state specificate numerose idee, a cominciare dalle quattro di seguito elencate:
α) un’idea della natura, β) un’idea dell’ambito delle scienze naturali, γ)
un’idea della metodologia delle scienze naturali, δ) un’idea di che cosa è
/ deve essere / può essere l’epistemologia (per comodità, si fa per dire,
limitatamente alla conoscenza-della-natura).
Pertanto, prima di andare avanti nel confronto tra argomenti pro e
argomenti contro la naturalizzazione dell’epistemologia, bisognerebbe
aver cura di specificare le idee α-δ – e, se ci tenete, altro ancora. Darò
invece per scontato che queste quattro idee siano già chiare e che al riguardo ci sia generale consenso. A scanso di equivoci: se ora non lo dessi
per scontato, la ricognizione appena iniziata dovrebbe essere molto più
lunga e sarebbe dedicata in gran parte al chiarimento preliminare di α-δ,
finendo per trattare altri temi, alcuni dei quali molto distanti da quello
dichiarato nel titolo, con tutti i relativi link tra tema e tema. Sareste così
indotti a pensare, come novelli zenoniani, che prima di raggiungere la
tartaruga, cioè entrare nel merito, vi sono ancora altri link da esplicitare,
sempre e di nuovo. Perfino se pensaste che tutto è linkato, linkabile e
linkando con tutto, come prevede lo spirito del tempo, non trarreste alcun
beneficio da una simile esperienza linkologica, in aggiunta a quella che la
vostra dose quotidiana di link già vi offre. Dunque, vi sto chiedendo di
condividere non poche e non banali assunzioni. Immagino che una simile
richiesta, giustamente, non vi piaccia, ma l’alternativa sarebbe quella di
rinunciare a un’analisi delle vie della naturalizzazione e dei loro ostacoli
e preferisco supporre che questo vi piaccia ancora di meno.
Qui terminano le avvertenze preliminari, che avevano come unico
scopo quello di ricordare che, per evitare discorsi a vuoto, i su indicati
presupposti devono essere esplicitati e specificati, anche se non è possibile
in quest’occasione dar seguito all’onere.2 Troppo spesso, infatti, si affronta
2 Poiché i maldisposti non mancano mai, anticipo una loro presumibile insinuazione ad personam: che l’invito sia retorico e basta, mancando il reale intento di colmare
in seguito la lacuna. Spiacente, ma in alcuni lavori ho già fornito un discreto numero di
chiarimenti relativamente ad α-δ.
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il problema della naturalizzazione senza curarsi di simili avvertenze. E
i risultati sono, come già anticipato, disastrosi. Piuttosto che offrirne
un campionario, con ampia bibliografia, è preferibile cominciare a far
chiarezza – tenendo a mente il debito non assolto circa α-δ.
4. Scienze naturali e scienze umane
La controversia degli ultimi decenni sulla naturalizzazione si presenta
come una grande novità. Si presenta così, ma è vero solo in parte. Primo:
mutatis mutandis, si potrebbero rintracciare sotto altre vesti lessicali i caratteri della controversia in discussioni che hanno avuto luogo fin dall’antichità. Secondo: per molti aspetti questa controversia ripercorre il sentiero
di una precedente e ne eredita il rischio di inconcludenza. Mi riferisco alla
quaestio circa la linea divisoria tra scienze umane e scienze naturali: quaestio
topica della filosofia a cavallo tra Ottocento e Novecento, poi rianimatasi,
sulla scorta del neoempirismo, a proposito della scientificità della storia.
Anche in questo caso, la quaestio si era definita, con toni non meno accesi,
già a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento. Non lo dico solo a
titolo d’informazione. Lo dico perché i disastri ai quali ho alluso si trovano
già esemplificati dalle risposte che molti filosofi hanno dato alla domanda
(U-N) Le scienze umane sono riducibili o no alle scienze naturali?
Anche per questa domanda si ripropone l’esigenza di precisare α-δ,
in modo da rendere espliciti i numerosi presupposti che sono in essa
impliciti, a cominciare da che cosa accomuni le “scienze umane” e che
cosa accomuni le “scienze naturali”. I presupposti sono davvero troppi
perché valga la pena di impegnarsi a rispondere prima di aver fatto un
bel po’ di lavoro, consistente nell’esplicitarli, distinguerli indicandone le
motivazioni e chiarirli uno per uno.
Di nuovo: siamo sicuri che, dopo questo lavoro, la domanda abbia
ancora un senso univoco? Se invece ne avesse due, sette, o venticinque?
In tal caso ci ritroviamo un altro ventaglio di domande. Molto probabilmente, ahimè, il ventaglio risulterà privo del fascino che la vaghezza
della domanda esercitava. Se vogliamo ridurre il ventaglio (privilegiando
un aspetto della domanda rispetto agli altri), siamo chiamati a produrre
argomenti che difficilmente consentono ai filosofi di restar a guardare la
ricerca scientifica dal di fuori. Cominciando a fare questo lavoro ci accorgiamo ben presto di due impossibilità, in qualunque modo s’intenda
rispondere alla domanda (U-N).
In primo luogo, è impossibile che la differenza tra scienze naturali
e scienze umane stia nell’oggetto di studio, perché chimica e biologia,
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Alberto Peruzzi
che sono scienze naturali, riguardano anche il funzionamento dell’oggetto di studio delle scienze umane. (Banale? Tanto meglio.) In secondo
luogo, è impossibile che il discrimine sia da collocare fra prevedibilità e
imprevedibilità, o fra linearità e complessità dei sistemi, perché questo
discrimine si manifesta già all’interno dell’ambito delle scienze naturali.
In terzo luogo, vi invito a non cadere vittime di un equivoco alquanto
diffuso, derivante dal credere che l’eventuale irriducibilità delle scienze
umane a quelle naturali sia dovuta al fatto che le scienze umane esigono
un autoriferimento (un’autoriflessività, un’autocoscienza) che le scienze
naturali non esigono. Finché siamo noi a valutare l’oggettività di qualunque asserzione che facciamo, così come la sua verità e la sua scientificità,
e finché una qualunque scienza non può prescindere da tale valutazione,
il carattere autoreferenziale risulta ubiquo: è presente in ogni scienza. Se
poi c’è chi non se n’è ancora accorto, non sarà certo la sua manchevolezza
a stabilire una divisione fra due tipi di conoscenze.
Per sublime simmetria, un simile invito complica la vita non solo a
chi voglia rispondere No a (U-N) ma anche a chi voglia rispondere Sì.
Perché, ammesso che le scienze umane si riducano a scienze naturali, se
poi l’epistemologia relativa, inclusiva degli aspetti autoreferenziali, non
è suscettibile d’essere naturalizzata, la riduzione proposta ha una valenza
ridotta rispetto alle attese. Dunque la risposta deve includere anche una
precisazione del concetto di “riduzione” e la precisazione deve fare al
caso. Perché queste due condizioni siano soddisfatte bisogna rispondere
a un’altra domanda: che cosa s’intende per riducibilità?
5. Tre ambiti del naturalismo
La Tesi è espressione basilare del naturalismo, inteso come atteggiamento di pensiero, prospettiva e infine programma di ricerca. Se qualcuno
di voi pensa che con questo ho detto ben poco – perché ogni asserzione
filosofica di fondo non può che essere così intesa a meno di scadere a
dogma –, non mi offendo. Innanzitutto, si tratta di vedere come la Tesi
prenda corpo in relazione ad ambiti d’indagine diversi. Se ne possono
infatti distinguere tre versioni, rispettivamente associate a tre grandi temi
della riflessione filosofica: mente (M), linguaggio (L) e scienza (S). Se del
mondo naturale che gli esseri umani cercano di comprendere fa parte la
sua stessa comprensione, questa comprensione riguarda tanto le capacità
mentali degli esseri umani quanto i prodotti di tali capacità, la razionalità
e la scienza, la competenza linguistica e la struttura delle proposizioni
in cui si esprime la conoscenza. In una formulazione orientativa, le tre
versioni corrispondono alle tesi seguenti.
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NatM. I fenomeni mentali si possono spiegare come entità facenti
parte dell’ordine naturale, le proprietà che li caratterizzano essendo
empiricamente e intersoggettivamente accessibili.
NatL. I significati sono entità d’interfaccia fra linguaggio e mondo
spiegabili in termini di sistemi e processi governati da leggi di natura (per
esempio, in termini di correlazioni causali). Se un pensiero è il significato
di una proposizione, l’analisi del pensiero umano è analisi del linguaggio
e della sua interfaccia naturale con il mondo.
NatS. Il pensiero scientifico, con acclusi i principi della scientificità,
è anch’esso oggetto delle scienze ed è spiegabile in queste.
Quanto a NatM, il requisito dell’intersoggettività esclude evidenze
idiosincratiche in prima persona. Quanto a NatL, qualora i significati
siano trattati come fenomeni mentali, si ritorna a NatM. Quanto a NatS,
chi sostiene questa tesi parte, di norma, dalla psicologia cognitiva, ma
i suoi argomenti non sono necessariamente tenuti a restare confinati a
essa, ovviamente intesa come scienza naturale; inoltre, quel che vale per
i principi del pensiero scientifico vale per i concetti usati nell’esprimere
i principi e per i criteri su cui si fa affidamento per definire il metodo
scientifico.
Dato che in natura si trovano corpi, ovvero oggetti materiali (come
atomi, stelle, pianeti, cellule, batteri e trichechi), ciascun tipo di naturalismo impegna verso una qualche ipotesi materialistica. Che in natura non
si trovino solo corpi, è lapalissiano, ma l’aggiunta di campi e forze non
cambia il quadro ai fini del ragionamento in corso. Più in particolare:
in vista della correlazione fra ciascuna delle quattro forze fondamentali
e un tipo di particella, la distinzione tra un impegno ontologico verso
oggetti e uno verso proprietà e relazioni non può essere mantenuta (ma
nel seguito non sfrutterò quest’osservazione).
Nel caso di NatM ci dev’essere uno stretto legame tra mente umana
e corpo umano; nel caso di NatL ciò che fa di un oggetto materiale X un
simbolo che sta per un altro oggetto Y deve essere compreso in termini
di oggetti, proprietà e relazioni, indagabili nelle scienze naturali; nel
caso di NatS, concetti, principi e criteri alla base di qualsiasi scienza sono
anch’essi indagabili da ciò che essi rendono possibile.
Dunque, anche la logica e ogni altra area di studi che trovi espressione nel linguaggio umano riguardano proprietà naturali degli esseri
umani (qualora entrassimo in contatto con intelligenze aliene, la loro
logica e il loro linguaggio dovrebbero essere studiati tenendo conto della
loro architettura cognitiva, legata a sua volta alla loro corporeità, comprensibile in rapporto all’ambiente in cui si è formata). In questo senso
la cognizione, anche se va oltre l’ambito della percezione, non schiude
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Alberto Peruzzi
le porte dell’Essere ad aspetti non-naturali degli esseri umani; e se nella
struttura della scienza, del linguaggio o della mente, sono presenti aspetti
legati alla cultura, il rispettivo tipo di naturalismo implica che anch’essi –
tra i quali rientrano aspetti di pertinenza dell’economia, della sociologia
e dell’antropologia – siano spiegabili in termini naturali. (Annotazione
lessicale: ogni aspetto che sia considerato reale ma non facente parte della
natura si dice solitamente “sovrannaturale”, ma se i fenomeni si radicano
in qualcosa che sta sotto sarebbe preferibile dire “sottonaturale”; volendo
unire il sopra e il sotto, potete anche usare il termine “metafisica” – in
accezione neutra, non offensiva o salvifica.)
Da un ambito all’altro, in un’impostazione naturalistica è all’opera un presupposto implicito a cascata: cioè, che tutto quel che esiste (o
meglio, tutto quel che possiamo legittimamente affermare che esiste) è
parte della natura, che tutto ciò che è parte della natura riguarda corpi
campi e forze nelle loro mutue relazioni, e che tutto ciò che riguarda
corpi ecc. è accessibile alla conoscenza umana – entro le le scienze che
si dicono naturali. Dunque, la naturalizzazione dell’epistemologia passa
per descrizioni e spiegazioni che in linea di principio sono fornite da
teorie fisiche, chimiche, biologiche; e di conseguenza l’epistemologia
non può far riferimento a oggetti e processi che trascendono l’ambito
delle scienze naturali.
Se poi si accetta una ulteriore tesi di riducibilità di ogni livello di
complessità della natura al livello corrispondente alle teorie fisiche, i tre
tipi di naturalismo convergono verso una qualche forma di fisicalismo.
Sul senso, nient’affatto univoco, da dare a questa convergenza vi invito
a riflettere, perché il campo d’indagine della fisica cambia con l’avanzare
delle teorie, con l’incremento delle tecniche sperimentali e con nuove
evidenze osservative. Quindi “fisicalismo” significa cose diverse a seconda
di che cosa fa parte, o non fa parte, della fisica.
Ora, le scienze della natura, e soprattutto la fisica, fanno ampio
uso della matematica. Se la matematica fosse riducibile a logica, come
i “logicisti” hanno teorizzato, quanto detto fin qui sarebbe sufficiente
sia al naturalista sia all’antinaturalista, in ciascuno dei tre ambiti, per
non porsi specifici problemi di naturalizzazione per quanto riguarda la
matematica: i problemi relativi allo status della matematica sarebbero
scaricati su problemi relativi alla logica. L’antinaturalista che ammette
il logicismo si vede ridurre la rosa delle possibili obiezioni circa il ruolo
della matematica in ciascun ambito, ma a titolo di compenso, gli basta argomentare che la differenza tra un ragionamento corretto e uno scorretto
(con quel che ne segue) non è naturalizzabile. Il naturalista che ammette
il logicismo non può più far leva su argomenti relativi alle motivazioni
naturali del contare e misurare, ma a titolo di compenso gli basta mostrare
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che i principi della logica sono naturalizzabili. Chi invece è convinto che
il logicismo sia erroneo, non può evitare problemi specifici riguardanti
specifici aspetti di nozioni e teorie matematiche.
Personalmente, sono convinto che la matematica offra conoscenze,
dunque non è solo un linguaggio (o una collezione di linguaggi), e che
queste conoscenze non rientrano nella logica. In passato ho fornito argomenti a sostegno di tale convinzione e, se stanno in piedi, allora chi si
pone il problema della naturalizzazione della matematica esclusivamente
in termini di analisi logica del linguaggio fornisce una soluzione insoddisfacente. Resta il fatto che la logica e la matematica si servono di, e si
riferiscono a, oggetti, procedure, strutture, costruzioni, che per il loro
carattere formale, schematico, astratto, non è per niente chiaro come
possano far parte della materia subiecta delle scienze naturali.
Se la conoscenza di oggetti procedure strutture costruzioni che
s’incontrano in matematica non è di tipo linguistico, allora il naturalista è tenuto ad affidarsi a un’analisi abbastanza diversa da quella che i
filosofi analitici hanno fornito della matematica e tale diversità è tutta
da articolare in merito a NatM e a NatL, perché potrebbe anche essere
sfruttata dall’antinaturalista. Per quanto riguarda NatS – dunque risalendo dal caso specifico della conoscenza matematica alla conoscenza in
generale della natura –, se ogni conoscenza della natura è controllabile
intersoggettivamente mediante osservazioni ed esperimenti, anche l’epistemologia, se esprime una qualche conoscenza, dev’essere elaborata in
una forma che sia intersoggettivamente accertabile, in conformità con il
metodo razionale-sperimentale seguendo il quale, all’interno del discorso
scientifico, le teorie sono organizzate deduttivamente, correlate a modelli
e i modelli testati sperimentalmente e a loro volta correlati a insiemi di
osservazioni, per giungere poi a selezionare gli asserti epistemologici in
funzione del loro maggiore o minore accordo con i dati e in funzione
del loro potere esplicativo. Senza escludere che, se gli asserti epistemologici non esprimono alcuna conoscenza, possa ugualmente avere senso
una naturalizzazione dell’epistemologia (in maniera analoga a come in
medicina si può pensare di dar conto dell’effetto placebo), farò l’ipotesi
che esistano conoscenze propriamente epistemologiche. È a proposito del
loro status che l’opposizione Tesi-Antitesi si fa avvincente.
6. E tre riduzioni
La biasimevole ma voluta genericità delle osservazioni precedenti
ha un vantaggio: quello di scansare la vertenza circa il rapporto fra
conoscenze teoriche e conoscenze osservative, così come quella circa i
tratti che dovrebbero caratterizzare il metodo scientifico (anche inteso
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Alberto Peruzzi
generosamente come unione di molti metodi diversi). Tuttavia, sarebbe
poco convincente chi si limitasse a dire che l’epistemologia è naturalizzabile senza specificare in quale modo ha intenzione di procedere per
naturalizzarla, o almeno – tanto per cominciare – almeno per naturalizzare qualche componente dell’epistemologia e, per inferenza, qualche
componente della conoscenza.3
Per simmetria con le formulazioni del naturalismo nelle tre aree
d’interesse su indicate – filosofia della mente, filosofia del linguaggio,
filosofia della scienza –, ci sono tre modi in conformità ai quali la specificazione richiesta è fornita:
NatM specifico: la psicologia si riduce alle neuroscienze.
NatL specifico: la teoria del significato si riduce a una teoria causale
del riferimento.
NatS specifico: l’epistemologia si riduce alla biologia evoluzionistica.
Sono tre ben distinte riduzioni che poi possono anche combinarsi
fra loro. Così come appena enunciate, vogliono dire poco finché gli
argomenti a loro sostegno sono taciuti. Ci troviamo in presenza di tre
dichiarazioni d’intenti e di tre linee di ricerca. Niente di più. Per uscire
dal vago, occorre indicare, rispettivamente, un modello del cervello in
termini del quale spiegare i fatti psichici, occorre indicare quali eventi
causano quali significati e occorre indicare quali processi evolutivi conducono a selezionare certe condizioni di razionalità (asseribilità garantita,
ecc.) piuttosto che altre.
Anche se combinate tra loro (impresa tutt’altro che facile e raramente
tentata), nessuna delle tre asserite riduzioni ha condotto a risultati tali
da poter dichiarare che l’epistemologia è stata naturalizzata o, quanto
meno, che, a parte dettagli secondari, è ormai assicurato il successo di
ciascuna riduzione. Di ciò sono consapevoli gli stessi naturalisti. Quelli
di loro che non lo sono, dovrebbero esserlo. Comunque, se i naturalisti
non possono cantar vittoria, gli anti-naturalisti che insistono sui difetti di
questo o quello specifico tentativo di naturalizzazione non hanno ancora
confutato la tesi che l’epistemologia è naturalizzabile. Ciò è, o dovrebbe
essere, di misera consolazione per i naturalisti: se i difetti indicati ci sono
e non si sa trovare un modo per rimediare, il progetto di naturalizzazione
resta una pia o perversa dichiarazione d’intenti.
Le tre specificazioni della Tesi, benché abbiano molti sostenitori,
non escludono altre possibili specificazioni, ambito per ambito. Si tratta
dunque di trovarne una che funzioni in ciascun ambito, avendo ben
3 Vedi oltre, § 8.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
229
chiaro – scusate se lo ripeto – che non ci si può limitare ad affermare
l’esistenza di una strategia di naturalizzazione, diversa da quelle difettose
finora elaborate, senza sapere come specificarla nei dettagli. Abituarsi a
disquisire dei massimi sistemi e a perdersi poi nell’alchimia delle varianti
è la peggior cosa che possa capitare a un giovane che voglia fare della
filosofia una professione. Perciò il lavoro classificatorio qui appena iniziato
dovrà pur avere un motivo che non lo rende fine a se stesso ...
7. Antinaturalismo e Quadrato degli Opposti
L’Antitesi impegna ad argomentare che l’epistemologia non è naturalizzabile. Benché anche l’antinaturalismo sia in primo luogo un
atteggiamento di pensiero piuttosto che una dottrina, ha ugualmente
bisogno di articolarsi. Di fatto, e direi anche in linea di principio, le vie
dell’antinaturalismo, in quanto reattivo, si definiscono in corrispondenza
alle vie del naturalismo.
Qualcuno di voi potrebbe pensare che anche il naturalismo è reattivo e non sbaglierebbe, perché chi si preoccupa di affermare la Tesi e
poi di svilupparla specificandola ambito per ambito, lo fa in contrasto
con credenze precedenti, siano esse ingenue o elaborate in una cornice
metafisica, come quella storicamente associata al dualismo mente-corpo
e alla credenza nell’immortalità dell’anima. C’è però una differenza
fra i due casi: lo sviluppo della Tesi può aver luogo anche senza questa
funzione reattiva, mentre non esiste un modo di argomentare l’Antitesi
che non si fondi sulla negazione di argomenti a sostegno della Tesi. La
cosiddetta “fallacia naturalistica” – sulla quale mi soffermerò più avanti – sembra smentire quanto ho appena affermato, ma sembra soltanto,
perché anch’essa fa riferimento a caratteri propri del tipo di verità che
le scienze naturali offrono. Piuttosto, per contestare la differenza che
ho indicato, bisognerebbe trovare una proprietà che esprimesse in positivo la non-naturalizzabilità. Non conosco nessuno che sia riuscito a
trovarla e dubito che questa proprietà ci sia. Però, potreste provarci voi.
Nell’attesa che qualcuno trovi questo modo, mi atterrò al senso reattivo
dell’Antitesi e dunque ai tre modi fondamentali di negare il naturalismo:
NO a NatM (generico o specifico), NO a NatL (generico o specifico), NO
a NatS (generico o specifico).
Onde evitare di credere che le categorie in cui incasellare gli argomenti a sostegno del naturalismo e quelli a sfavore siano fissate una volta
per tutte e onde non ricadere in uno dei consueti battibecchi in materia,
vi propongo un esercizio in quattro passi: 1) elencare il maggior numero
di motivi per negare la formulazione generica di NatM; 2) individuare una
formulazione specifica di NatL o NatS che sia al riparo da almeno uno di tali
230
Alberto Peruzzi
motivi; 3) trovare un nuovo motivo, specifico, contro tale formulazione;
4) ripetere questi tre passi sostituendo, in 1), NatM con NatL e poi con
NatS ovviamente facendo le sostituzioni opportune in 2).
Si tratta di un esercizio di ginnastica concettuale, utile non solo a
vincere i pre-giudizi in materia, perché prepara anche a comprendere
i rapporti tra due grandi forme di naturalismo, “locale” e “globale”, e
due corrispondenti forme di antinaturalismo. Questi rapporti si lasciano
riassumere in un nuovo Quadrato degli Opposti, in cui i quattro vertici
sono NatA, NatE, NatI e NatO.
NatA (naturalismo “globale”), che
afferma la congiunzione della tesi
in tutti e tre gli ambiti, cioè: NatM ∧
NatL ∧ NatS.
NatE (antinaturalismo “globale”),
che nega il naturalismo “locale”,
cioè: ¬ [NatM ∨ NatL ∨ NatS],
ovvero
NatM ∧ ¬NatL ∧ ¬NatS.
NatI (naturalismo “locale”), che
afferma la disgiunzione delle tre
tesi, cioè:
NatM ∨ NatL ∨ NatS.
NatO (antinaturalismo “locale”), che
nega il naturalismo “globale”,
cioè: ¬NatM ∨ ¬NatL ∨ ¬NatS.
Le relazioni logiche tra i vertici sono esattamente quelle del classico
Quadrato degli Opposti. A qualcuno di voi potrà non piacere che due
posizioni antinaturalistiche si indichino come NatE e NatO invece che
come Anti-NatA e Anti-NatI. Nulla impedisce di fare uso di questa seconda etichettatura, ma così facendo è meno palese la corrispondenza con
il Quadrato degli Opposti relativo alla sillogistica. Il quadrato ha senso
unicamente se riferito ai tratti caratterizzanti di ciascun ambito, essendo
ovvio che senza L non c’è S.
8. Naturalizzazione a due vie
Ora occorre fare un passo indietro perché c’è un’inferenza che la
Tesi di fondo, per così dire, “sottende”: è un’inferenza cruciale, che è già
stata menzionata ma non ancora discussa. Poiché, oltre a menzionarla,
l’ho implicitamente sfruttata, sono tenuto ad argomentarla. Mi riferisco al
tacito assunto secondo cui la naturalizzazione è a due vie: la via ML→LO
dal metalinguaggio al linguaggio oggetto e la via LO→ML dal linguaggio
al metalinguaggio. La prima impegna ad affermare che se l’epistemologia
è naturalizzabile allora lo è anche la conoscenza, la seconda impegna ad
affermare l’inverso. Il diagramma seguente illustra le due vie.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
231
(ML) L’EPISTEMOLOGIA è naturalizzabile
(LO) La CONOSCENZA è naturalizzabile
Anche se non è detto che ogni forma di naturalismo sia tenuta a
sottoscrivere entrambe le inferenze, è un dato di fatto che sia i naturalisti
sia gli antinaturalisti danno per buona l’equivalenza. A giustificazione
di questo fatto, quali argomenti si possono produrre? L’argomento che
segue ha il pregio della brevità.
Ad ML→LO
Se non valesse l’implicazione ML→LO e (per ipotesi) l’epistemologia fosse naturalizzabile, l’epistemologia conterrebbe asserti di carattere
analogo a quelli delle scienze naturali ma nei quali si parla di qualcosa
di non-naturale. Ciò obbligherebbe a dire che la conoscenza trascende
la natura, anche se i criteri in base ai quali la nozione di conoscenza è
definibile – e in base ai quali la conoscibilità della natura è giustificabile
– non trascendono la natura. Strano, ma di per sé non ancora assurdo.
Per escludere la possibilità che valga ML ma non LO, e garantire con
ciò la via dall’alto in basso, è sufficiente aggiungere due ipotesi, indicate
come h* e h**.
(h*) Almeno alcune delle asserzioni che vertono sulla conoscenza, e
che ci impegniamo a sottoscrivere, esprimono conoscenze.
Se non abbiamo conoscenze su ciò che trascende la natura, ci potranno anche essere conoscenze che non concernono direttamente qualcosa
di naturale, ma il loro significato è comprensibile solo grazie ad altre
conoscenze che, per quanto in maniera inconsapevole, concernono la
natura. A ciò si aggiunga che ciò che ci impegniamo a etichettare come
“conoscenze” – in quanto tali, degne di assenso – è espresso basilarmen-
232
Alberto Peruzzi
te da proposizioni che abbiamo motivo di considerare vere (o valide
o corrette o empiricamente suffragate ... – mettete pure l’aggettivo di
maggior conforto) e non da proposizioni cui è possibile attribuire verità
indipendentemente da ciò che crediamo e abbiamo giustificazioni per
credere. Da h*, congiunta con la Tesi, segue che almeno alcune conoscenze presenti nel discorso epistemologico hanno un fondamento naturale.
Per generalizzare, basta che
(h**) ogni asserzione che esprima una conoscenza è (deve poter essere)
epistemologicamente giustificata.
A sostegno di h** depone il fatto che siamo noi a giudicare delle nostre
pretese conoscitive e non un oracolo esterno (chiamato pure “Realtà”).
Qualora ci sia qualcuno tra voi che trova lacunoso il mio ragionamento,
è invitato ad accorgersi che quel che eventualmente manca è altrettanto
legittimo di h* e h**.
Ad LO→ML
Se non valesse l’implicazione LO→ML, cioè, se la conoscenza fosse
naturalizzabile ma non lo fosse l’epistemologia, allora ciò che i filosofi
affermano sulla conoscenza non sarebbe qualcosa che i filosofi possono
dire di sapere, dunque non avrebbe titolo a essere accettato come vero
(valido, giusto, corretto, legittimo, ecc.). Chi asserisca qualcosa che sa
non essere asseribile è un (auto-)imbroglione e chi asserisca qualcosa che
non accetta come vero (valido ecc.) sta mentendo: chi imbroglia o mente
viola una massima del dialogo fra animali razionali. Se per caso non si
rende conto di asserire qualcosa che per coerenza non può accettare, è
bene informarlo. Chi è incoerente viola comunque un’altra massima. Ora,
i filosofi – a meno che stiano recitando – pretendono che quanto dicono
con forza assertoria sia accettato come vero (valido ecc.) da coloro ai quali
lo dicono e, per equità, questi hanno il diritto di supporre che i filosofi non
imbroglino e non mentano. Ciò vale in particolare per l’asserita coerenza
dell’ipotesi che la conoscenza sia naturalizzabile ma non l’epistemologia:
tale asserzione, se esprime una conoscenza, deve (per ipotesi) poter essere
spiegata in termini naturalistici, ma essendo un’asserzione epistemologica
(sempre per ipotesi) non potrebbe essere così spiegata. La contraddizione
impone di optare per una delle premesse e respingere l’altra. La scelta
più ragionevole è quella espressa dal condizionale seguente:
(k*) se è asseribile che p è un fatto conoscitivo, anche l’asseribilità di
p è un fatto conoscitivo.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
233
Infatti, la validità di k* è garantita dalle ipotesi h* e h** discusse in
relazione a ML→LO, in base alle quali le asserzioni epistemologiche sono
espressione, diretta o indiretta, di una qualche conoscenza della natura.
E poiché le ipotesi h* e h** sono già state argomentate, la conclusione è
che chiunque s’impegni ad affermare NatA oppure NatI e poi proceda a
specificare, ambito per ambito, la via da seguire ai fini della naturalizzazione dell’epistemologia, è tenuto ad accettare entrambe le vie. Dunque
il suo discorso si presta a essere contraddetto già in merito a qualche
aspetto della conoscenza (della natura) e, se va incontro a un ostacolo,
quest’ostacolo si ripercuote sulla naturalizzazione della conoscenza.
9. Completamento della tassonomia
La tassonomia delle forme di naturalizzazione e, corrispondentemente, di antinaturalizzazione non è ancora conclusa. Dopo il Quadrato
degli Opposti relativo alla versione locale o globale di Tesi e Antitesi, c’è
una ulteriore tripartizione, dovuta al fatto che Tesi e Antitesi si prestano
a essere intese in tre sensi diversi: metodologico, ontologico, e semantico
(o semantico-epistemico). Ciascuno di essi si configura, di default, come
indipendente dagli altri. Dunque abbiamo tre versioni della Tesi:
Versione metodologica: è legittimo/indispensabile adottare i metodi
d’indagine delle scienze naturali nello studio della conoscenza.
Versione ontologica: le entità cui ci riferiamo per descrivere o giustificare o spiegare la conoscenza hanno lo stesso status ontologico delle entità
cui ci riferiamo per descrivere / giustificare / spiegare i fenomeni naturali.
Versione semantica: i concetti di cui ci serviamo nella descrizione /
giustificazione / spiegazione della conoscenza sono dello stesso tipo dei
concetti usati nelle teorie fisiche, chimiche ecc. Ovvero: l’accesso epistemico agli uni non differisce dall’accesso epistemico agli altri.
Se le proprietà delle entità sono assimilate a entità, la versione ontologica copre anche le proprietà. Altrimenti, la naturalizzazione delle
proprietà rimanda alla versione semantica. Simmetricamente, avremo
tre forme in cui l’Antitesi è a sua volta formulabile. Ci sarà un antinaturalismo metodologico, uno ontologico e uno semantico. Ciascuna delle
tre versioni, e specialmente la terza, al pari di ciascuna delle rispettive
negazioni, avrebbe bisogno di varie precisazioni, la cui assenza tuttavia
non pregiudica la tassonomia.
A tale proposito vi propongo due esercizi. Il primo consiste nel
chiedersi se faccia davvero una differenza, nella versione metodologica,
limitarsi alla “legittimità” dell’uso dei metodi delle scienze naturali o
234
Alberto Peruzzi
sostenerne la “indispensabilità”. Se la risposta è no, l’esercizio è finito.
Se è sì, continua chiedendosi se e come tale differenza agisca nei confronti delle versioni ontologica e semantica. Il secondo esercizio consiste
nell’immaginare qualcuno che produca argomenti per sottoscrivere una di
queste tre versioni e nello stesso tempo produca argomenti per rifiutarne
un’altra. La letteratura esistente offre esempi della relativa casistica.
Volendo mantenere la tassonomia sul piano più generale possibile,
come già nel caso del Quadrato degli Opposti, anche in merito alla versioni metodologica, ontologica e semantica si configurano due orientamenti
fondamentali: c’è un naturalismo forte, che s’impegna con tutte e tre le
versioni, e uno debole che s’impegna ad accettarne almeno una. Specularmente, avremo un antinaturalismo debole e un antinaturalismo forte.
Naturalismo forte: congiunzione delle 3 versioni.
Naturalismo debole: disgiunzione delle 3 versioni.
Antinaturalismo forte: negazione del naturalismo debole.
Antinaturalismo debole: negazione del naturalismo forte.
A questo punto possiamo combinare la distinzione tra forma locale
e globale, della tesi con la distinzione tra versione forte e debole. Ne
risultano quattro possibili tipi di posizione naturalistica:
Naturalismo globale forte
Naturalismo globale debole
Naturalismo locale forte
Naturalismo locale debole.
Specularmente, avremo quattro tipi di posizione anti-naturalistica. Si
tratta, in tutti e otto i casi, di tipi di posizione e non di specifiche posizioni, perché le posizioni effettivamente assunte pro o contro il naturalismo
riguardano le specifiche opzioni che si adottano in merito a problemi di
filosofia della mente, filosofia del linguaggio e filosofia della scienza, nonché
in merito alla particolare metodologia / ontologia / semantica, proposta o
respinta. Se non si specificano tali opzioni, se non le si motivano né ci si
impegna a chiarirne i dettagli, non si va da nessuna parte, ma… a questo
punto cominciate a capire il senso polemico della tassonomia: benché
non sufficiente, è necessaria. Purtroppo, gli esercizi che richiede di fare
non sono stati fatti dalla maggior parte dei filosofi che si sono premurati
di prendere posizione in merito al naturalismo. Non avendoli fatti, molti
ragionamenti, pro o contro, sono viziati. Chiunque si lamenti del fatto che,
anche se fossero stati fatti, l’esito sarebbe lacunoso, evidentemente non
capisce la differenza tra condizione necessaria e condizione sufficiente.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
235
Certo, nel caso in cui si riesca a mostrare, su un piano così generale,
che uno degli otto tipi di posizione confligge con principi che abbiamo
motivo di considerare indispensabili nell’architettura della conoscenza
umana, c’è un bonus: ci risparmiamo di dover entrare nel merito di questa
o quella dottrina epistemologica all’interno di uno stesso tipo. A ciò si
aggiunga che la gamma degli otto tipi di posizione si riduce sottoscrivendo ipotesi ulteriori, che rimuovono la reciproca indipendenza delle
tre versioni. Immagino che quest’idea sia la prima cosa che vi è venuta
in mente. Ma come darle seguito?
Per esempio, qualcuno potrebbe sostenere che l’impegno ontologico
si misura con quello semantico; e qualcun altro potrebbe sostenere che
l’impegno semantico sia strettamente collegato alla scelta di un particolare
orientamento metodologico. Infine, sempre restando su un piano così
generale, qualcuno potrebbe proporsi, come obiettivo, di escludere sette
tipi per restare con uno solo. Sarebbe una gran bella impresa!
Ma anche qualora uno di voi ci riuscisse, il successo nell’impresa non
basterebbe ancora a elaborare né una soddisfacente naturalizzazione (il
che è ormai chiaro) né una sua soddisfacente negazione (il che è meno
chiaro): nel primo caso occorrerebbe entrare nel merito delle specifiche
teorie sulle quali fare affidamento per dar corpo alla Tesi, nel secondo
occorrerebbe entrare nel merito delle specifiche ipotesi metateoriche sulle
quali fare affidamento per dare corpo all’Antitesi. Lo so che il lavoro
necessario a questo scopo è scomodo, perché comporta che il discorso
filosofico si misuri con problemi logici, matematici o scientifici che hanno bisogno di molto tempo solo per essere capiti; quindi potrà suscitare
una certa antipatia in chi non è abituato a fare filosofia entrando nel loro
merito, ma è semplicemente fallimentare lasciarvi credere che in filosofia
è possibile cavarsela con ciò che è comodo.
Anticipo subito un’obiezione: dopo tutte queste distinzioni, non vi
sto forse suggerendo che la tassonomia fin qui messa a punto è poca cosa?
No, non è poca cosa evitare le confusioni che ricorrono nella letteratura
circa la naturalizzazione dell’epistemologia. Se ci si fosse preoccupati di
evitarle, non ci sarebbe stato motivo di indugiare tanto su preliminari
che si ramificano in maniera perversa. Solo un novello Barone Rampante,
che dal piano metateorico non abbia alcuna intenzione di scendere sul
piano teorico, può ritenersi soddisfatto.
Dunque, capisco bene che il discorso fatto fin qui sembri cervellotico
e perfino controproducente ai fini di un diretto impegno sulle questioni
che oggi sono dibattute circa la natura della mente, del linguaggio o della scienza. La sua funzione è propedeutica, o meglio: profilattica. Qui,
la profilassi è quella che serve a evitare confusioni, ma non è fine a se
stessa: è guidata dall’esigenza di precisare le ipotesi su come sia possibile
236
Alberto Peruzzi
risolvere una serie di problemi inerenti alla naturalizzazione. È vero che
tale profilassi non riesce a selezionare un tipo di posizione fra le otto
possibili e poi una specifica posizione fra quelle del tipo selezionato; ciò
nonostante, data la frequenza con cui si confonde un tipo di naturalismo con un altro, e un tipo di antinaturalismo con un altro, i benefici
della profilassi non sono da sottovalutare: bloccano tutti gli argomenti
confusi e ne esigono la riformulazione, preparando così il terreno a una
discussione più proficua.
Non ho fatto un solo nome di coloro che sono intervenuti nella
controversia. La preoccupazione di fondo era quella di mostrare che non
esiste “il” naturalismo e che lo stesso vale per “la” sua negazione. Se la
mancanza di nomi è imperdonabile, fa anch’essa parte della profilassi: un
argomento filosofico non deve aver bisogno di un nome proprio per essere
“buono” e, inoltre, la mancanza di nomi è servita a prospettare forme di
naturalismo e antinaturalismo ancora da esplorare. Beninteso, nulla osta
all’esemplificazione dei diversi tipi di naturalismo e antinaturalismo con
riferimento alla letteratura. Diciamo che è un altro esercizio; e chi di voi
ci tenga tanto a farlo si renderà conto che l’etichettatura aggiunge poco.
Quel che manca è piuttosto un diretto impegno ad acquisire familiarità
con questioni teoriche relative a specifiche discipline come la logica, la
linguistica, l’intelligenza artificiale, la geometria, la fisica, la biologia
evoluzionistica, la neurofisiologia.
10. Strategie di riduzione
Nel momento in cui si entra nel merito di teorie concernenti gli specifici caratteri del linguaggio, della mente o della scienza, la questione di
fondo, per il sostenitore di una qualche forma di naturalismo, diventa:
mostrare che questi caratteri possono ridursi a caratteri che rientrano
nella materia subiecta delle scienze della natura. A tale scopo occorre
addurre una prova o, come minimo, mostrare che non ci sono ostacoli
in linea di principio, con ciò intendendo che gli ostacoli noti possono
essere superati. (NB: questo resta un minimo argomentativo, perché non
esclude la possibilità di altri ostacoli.)
Per l’anti-naturalista la questione di fondo si articola in maniera
simmetrica: mostrare che almeno uno dei suddetti caratteri non è riducibile (e, se l’antinaturalista è anche un olista, ne basta uno per escludere
la riducibilità anche degli altri). Da parte dell’anti-naturalista occorre
dunque mostrare che le prove addotte o adducibili non funzionano. Qui
il minimo consiste nell’argomentare che i tentativi di riduzione finora
messi in atto sono fallimentari. Qualora la sua replica vada oltre, cioè, si
estenda dalle addotte alle adducibili, la loro classe dev’essere a sua volta
Naturalizzazione: vie e ostacoli
237
governata, perché per affermare che “Non è possibile provare che p”,
bisogna passare in rassegna tutti i modi in cui una prova di p può essere
ottenuta e non solo i modi finora seguiti.
Da parte di entrambi occorre fare un elenco completo degli ostacoli
che si frappongono e descriverli con precisione. Il che vien fatto di rado.
La polemica verte piuttosto su due tipi di asserzioni manchevoli: quelle
con cui si afferma che X è riducibile a Y ma non si sa ancora come e quelle
con cui si afferma che X non si riduce a Y ma non si sa se possa ridursi a Z
(con Z ≠ Y). La manchevolezza è comprensibile: né l’uno né l’altro sono
infatti onniscienti. Ma allora farebbero bene a non promettere o a non
escludere in maniera così risoluta (non essendo capaci di governare la classe
delle prove, o delle controprove, possibili). A loro difesa si può osservare
che ogni discussione filosofica è sempre relativa a ciò che è conosciuto,
giudicato vero, dotato di significato, allo stato attuale delle conoscenze,
non sub specie aeternitatis. Giusto, ma la filosofia tende a fare sempre un
passo in più e, se non lo facesse, le asserzioni filosofiche sarebbero solo
un ibrido fra credenze proprie del senso comune e ipotesi scientifiche. In
ciò, la filosofia somiglia alla matematica più di quanto desideri.
Nel riconoscere la limitazione di prove e controprove a ciò che è
attualmente noto, non c’è alcun bisogno di invitare a cospargersi il capo
di cenere e far professione di scetticismo o di relativismo. L’antinaturalista
che insista sulla fragilità della conoscenza umana fa uso di un argomento
che gli si ritorce contro, rendendo non definitivi i suoi argomenti contro
la possibilità di naturalizzare l’epistemologia. D’altra parte, il naturalista
che insista sul progresso delle conoscenze scientifiche non può assicurare che in futuro non si scopra qualcosa di contrario alle sue asserzioni.
L’interesse della controversia deve dunque risiedere in altro.
Le tre versioni del naturalismo prefigurano strategie distinte, con le
quali ci si propone di conseguire una prova della Tesi o almeno di suffragarla nella maniera più ampia possibile alla luce della attuali conoscenze.
In tutti e tre i casi si tratta di una strategia riduttiva, che ora prende la
forma di una riduzione metodologica, ora di una riduzione ontologica,
ora di una riduzione semantica (o semantico-epistemica). Ciascuna può,
sì, essere pensata come autonoma dalle altre due, ma può anche – come
già accennato – collegarsi alle altre mediante ulteriori ipotesi.
In tutti e tre i casi l’idea intuitiva è che qualcosa che a prima vista
non sembra avere i caratteri di ciò che indagano le scienze della natura “si
riduce” a qualcosa che invece ha questi caratteri. Purtroppo, quest’idea
intuitiva non porta molto lontano. La nozione di “riduzione” ha bisogno
di essere precisata. Per cominciare, in tutti e tre i casi SI SUPPONE che,
parlando della riduzione di X a Y, X non trovi espressione in un asserto
isolato, o in un insieme di asserti l’uno staccato dall’altro, ma sia qualcosa
238
Alberto Peruzzi
cui corrisponde un insieme di asserti organizzati in base a rapporti di
dipendenza logica, dunque organizzati al meglio in una teoria, con i suoi
bravi principi, le sue brave definizioni e i suoi bravi argomenti, messi nero
su bianco. Lo stesso dicasi per Y.
E se questa SUPPOSIZIONE non vale? Bisogna fare un ulteriore
lavoro preparatorio prima di asserire che X si riduce, o non si riduce,
a Y. Che si tratti di due metodi a confronto, di due ontologie o di due
sistemi di condizioni semantico-epistemiche, l’uno e l’altro devono essere esprimibili in forma di un sistema di enunciati, da ricondursi a un
insieme finito di principi o assiomi. Direte che quasi mai nelle controversie filosofiche ci si rimbocca le maniche per fare questo lavoro, che
si chiama “assiomatizzazione”. E con ciò? Non vedo perché la scarsità
dei buoni esempi dovrebbe indurvi a seguire i cattivi. Forse i filosofi non
sono capaci di fare un lavoro del genere? Ma prove che ne siano capaci
sono offerte dalla stessa storia del pensiero filosofico. Dunque è legittimo
supporre che i filosofi interessati a prendere posizione nella controversia
naturalismo/anti-naturalismo siano capaci di fare il lavoro richiesto anche
se tendono a scansarlo.
E allora come si precisa il concetto di riduzione? L’analisi logica
ha portato a individuare un criterio, che considero canonico, anche se
è possibile sviluppare altri modi, più raffinati, di precisare il concetto.
Chi intenda avvalersi di un diverso criterio è dunque pregato di addurre
i vantaggi che offre rispetto al criterio che considero canonico. Se non è
in grado di addurli, è legittimo ignorare le sue lamentele. Le alternative
finora emerse vanno incontro a un difetto che già Aristotele aveva raccomandato di evitare ogniqualvolta si fornisce una definizione che voglia
essere conoscitivamente vantaggiosa, cioè, il difetto di definire obscura
per obscuriora.
Stabilito, dunque, che il concetto di riduzione si precisa nel confronto
fra due teorie T e T’ e SUPPOSTO che a questo scopo le teorie devono
entrambe essere assiomatizzate (e possibilmente espresse in un linguaggio
formalizzato), il criterio canonico di riduzione è il seguente:
T’ si riduce a T se e solo se sono soddisfatte due condizioni:
– ogni termine primitivo di T’ è definibile nel linguaggio di T;
– ogni teorema di T’ è dimostrabile in T.
Due esempi di riduzione: la termodinamica si riduce alla meccanica
statistica e l’aritmetica si riduce alla teoria degli insiemi. Due controesempi: la meccanica quantistica non si riduce alla meccanica classica, la
teoria delle categorie non si riduce alla teoria degli insiemi. Entrambe
queste coppie di esempi e controesempi sono di rilevanza storica. Come
Naturalizzazione: vie e ostacoli
239
potete immaginare, per fornire le quattro rispettive prove, il discorso si
farebbe molto lungo. Non entrerò nel loro merito. Mi limiterò ad alcuni
chiarimenti di portata generale, di seguito elencati come (a)-(e).
(a) Quando si esige che, prima di dire se una teoria T’ si riduce o no
a un’altra T, entrambe debbano essere assiomatizzate, si esige che siano
espresse in linguaggio matematico da cima a fondo? No, ma se sono
espresse in linguaggio matematico è più facile controllare se davvero T’
si riduce a T, o no. Obiezione: “La risposta non è definitiva, perché il
linguaggio matematico impiegato potrebbe non essere il più appropriato”.
Giusto. E allora? Se ne dovrebbe inferire che tutto è incerto e che ognuno
può tenersi le idee più strampalate? No, si profila piuttosto il compito
di specificare un ulteriore criterio, di adeguatezza, per la formalizzazione
di un certo corpus di conoscenze (in T’) e poi di un altro corpus (in T).
D’altronde, il criterio di riduzione non serve a nulla se non si è stati bravi
a formalizzare e a trovare gli assiomi giusti: un compito che non è per
niente un giochetto, non ci sono garanzie anticipate del suo successo né
si può prevedere, in generale, quali conseguenze abbia la scelta di un
insieme di assiomi invece che un altro ai fini del confronto fra T e T’.
(b) Il prerequisito di formalizzazione e assiomatizzazione per i due
sistemi di conoscenze a confronto non deriva da una fissazione maniacale
nei confronti della logica e della matematica ma è finalizzata allo scopo
di garantire che, quando si usa un qualsiasi dato termine, esso abbia un
significato univoco e, quando si fa un’asserzione, sia chiaro quali sono le
premesse di quanto si asserisce.
(c) Le clausole di definibilità e dimostrabilità (condizioni 1. e 2. del
criterio) sono interconnesse, nel senso che non sono indipendenti l’una
dall’altra: per definire un termine t del linguaggio di T’ mediante uno o
più termini del linguaggio di T può esserci bisogno di dimostrare qualcosa
in T; e per dimostrare che un enunciato p dedotto dagli assiomi di T’ è
deducibile dagli assiomi di T, può esserci bisogno di aver definito in T
certi termini presenti nell’enunciato p.
(d) Anche avendo prestato scrupolosa attenzione a tutto quanto
precede, non è escluso che sorgano problemi circa l’impiego che si fa di
un risultato di riduzione teorica o della prova che un tale risultato non è
possibile. Basti pensare al modo in cui il Teorema di Incompletezza per
l’aritmetica elementare è stato usato, o abusato, per sostenere l’irriducibilità della mente a un insieme di procedure meccaniche.
(e) I sostenitori di una qualsiasi forma di naturalizzazione sono spesso
descritti come fautori del “riduzionismo”. I loro oppositori sono descritti
(e per lo più, si descrivono) come “anti-riduzionisti”. Il che è fuorviante
e tendenzioso: fuorviante perché la riduzione può essere estremamente
complessa, comportando nozioni nuove che portano a modificare una
240
Alberto Peruzzi
precedente formulazione di T; tendenzioso perché il termine “riduzione”
sollecita una reazione di antipatia, come quando si esclama “L’uomo non
si riduce a un ammasso di cellule!” o “Si vergogni! Lei sta riducendo la
questione a una banalità”. Così, chi è a favore di una riduzione teorica
passa subito male e chi è a sfavore passa subito bene. L’artificio retorico
paga – non c’è dubbio –, ma efficacia persuasiva non implica correttezza
argomentativa.
11. Tra riduzione ed emergenza
Alla domanda “Che cosa c’è?” la risposta logica è “Tutto”. Ma tutto
cosa? Dipende non solo da ciò che ammettiamo come valore di una variabile, ma da quanti tipi di variabili ammettiamo, ognuno corrispondente
a un tipo di entità. E allora: quanti tipi di entità ci sono? Quante teorie
reciprocamente indipendenti dobbiamo ammettere? Una teoria potrebbe
supporre l’esistenza di una totalità limitata di enti tra i quali intercorrono
poche relazioni e ridursi a una teoria in cui si fa riferimento a totalità
molto più ampie e con molte più relazioni. Per un’altra teoria potrebbe
succedere l’inverso. C’è un famoso principio di economia ontologica,
il quale recita: entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Se lo
facciamo nostro in relazione a tutta la gamma di entità cui normalmente
ci riferiamo in un dato linguaggio, dobbiamo mettere in atto una politica
di eliminazione della maggior parte di esse, restando con un (il?) minimo
indispensabile di entità: quelle che permettono di dar conto di ogni altra
entità (oggetto, cosa) cui ci riferiamo, senza dover rinunciare a nessuna
delle verità al riguardo.
Tipicamente, se si tratta di un linguaggio scientifico relativo a un
particolare dominio empirico, l’eliminazione è più facile da gestire rispetto
al caso nel quale ciò cui ci riferiamo riguarda l’insieme di esperienze della
vita di tutti i giorni così come espresse nel linguaggio ordinario. Non meno
tipicamente, il principio-rasoio è usato, e simmetricamente contestato,
in malo modo: si ignora, o furbescamente si fa finta di ignorare, che non
sono solo gli enti che contano ma anche le loro relazioni, dunque anche
le modalità con cui si combinano, e i corrispondenti principi. C’è un solo
rimedio: indicare con chiarezza quali sono le relazioni che si suppone
intercorrano “orizzontalmente” tra gli enti che consideriamo eliminabili
e quali sono le relazioni “orizzontali” tra gli enti candidati a essere sufficienti. Fatto questo, bisogna indicare con altrettanta chiarezza le relazioni
sistematiche “verticali” fra i due piani e dunque anche tra i due sistemi
di relazioni “orizzontali”.
Quando i due piani sono ricchi di enti e di relazioni ma sono descritti
in linguaggi molto diversi, c’è un complicato lavoro di interpolazione
Naturalizzazione: vie e ostacoli
241
da fare, passando per linguaggi-ponte. Una parte cospicua dei lavori di
filosofia analitica saltano tutti i passaggi intermedi, ambito per ambito, e
si affrettano a discutere la riducibilità o irriducibilità dell’ontologia del
senso comune a un’ontologia regimentata, uniforme, soggiacente a tutti
gli ambiti.
A parte la difficoltà di compiere un simile salto senza rompersi la
testa, bisogna stare attenti a non fare confusione tra dire che quel che
non si lascia ridurre non esiste e dire che quel che si lascia ridurre esiste.
Chi afferma l’eliminabilità di qualcosa dal cosiddetto “arredamento del
mondo”, non intende dichiarare non-esistente quel che prima si credeva
che esistesse, bensì asserire che non c’è bisogno di postularne l’autonoma
esistenza, perché essa è riconducibile all’esistenza di altre entità (con le
loro relazioni e con i principi al riguardo). Per fare un esempio: dicendo
che non c’è bisogno di postulare l’esistenza di molecole come entità
primitive se le molecole sono insiemi di atomi, non s’intende dire che
le molecole non esistono; s’intende, piuttosto, che basta supporre che
esistano gli atomi e che si possano isolare i principi che individuano certi
insiemi di atomi, tra loro uniti da legami di un certo tipo, “molecolari”,
e che li distinguono da meri insiemi di atomi.
L’eliminativismo non è necessariamente naturalistico; inoltre, può
avere caratteri diversi da un ambito a un altro e, anche all’interno di
uno stesso ambito, si possono mettere in atto più strategie di riduzione
eliminativa. In semantica ne sono state esplorate parecchie, ma tutte incorporano l’idea seguente: circa le asserzioni che normalmente crediamo
di capire, possiamo renderci conto che, se hanno un senso scientificamente accettabile, ne hanno uno un po’ diverso da quello inteso, perché
ciò di cui normalmente parliamo è in realtà qualcosa che è definibile a
partire da altre entità, delle quali non parliamo nel linguaggio comune
(per esempio, non parliamo del “tensore metrico”). Il piccolo problema
dell’eliminativismo è che dovrebbe essere formulato evitando tutti quanti
i termini che per gli eliminativisti sono problematici, mentre non è facile
capire come riuscirvi saltando i passaggi intermedi fra l’ontologia del
senso comune e quella di una teoria chimico-fisica o logico-matematica.
Gli eliminativisti fanno tipicamente ricorso alla composizione degli
enti, ma in primo luogo non sono tenuti a ricorrervi e in secondo luogo,
se c’è corrispondenza tra composizionalità ontologica e semantica, tale
ricorso non è univoco. Sul piano semantico, il principio di composizionalità stabilisce che il significato /riferimento di un’espressione composta è
determinato da 1) il significato/riferimento delle espressioni componenti,
e 2) il modo della composizione. Una simile formulazione generica, però,
serve a poco. Bisogna specificare quale è il modo della composizione, anzi
i modi, dunque quali relazioni basilari, di rilevanza logica, intercorrono tra
242
Alberto Peruzzi
le espressioni. Se ci atteniamo alla forma più comune, anche se imprecisa,
del principio, il riduzionismo semantico implica l’esistenza di specifici
atomi di significato/riferimento. In genere, i critici della composizionalità
attaccano la condizione 1) e dimenticano che c’è anche la condizione 2).
In genere, gli anti-naturalisti contestano il principio, ma per generosità
suppongo che lo contestino non dimenticando la 2).
Mettendo da parte l’antipatia viscerale che il principio suscita in
molti, sarebbe comunque raccomandabile che l’argomento addotto
contro la composizionalità fosse corretto. Invece, è tipicamente viziato da
due errori: in primo luogo, si trascura il fatto che l’insieme dei cosiddetti
atomi semantici cui si riduce qualunque descrizione da noi comunemente
adoperata (per riferirci a qualcosa nel linguaggio comune) può essere
associato a una teoria di campo e, in secondo luogo, si trascura il fatto
che la composizionalità ammette più specificazioni, le quali possono
anche essere compatibili con l’idea espressa da “il tutto è maggiore della
somma delle parti”.4
Se dimentichiamo tutto questo, ci ritroviamo di fronte all’aut-aut
tra un riduzionismo volgare e un antiriduzionismo non meno volgare: il
primo illustrato da asserzioni come “Il cervello non è altro che un insieme di cellule”, il secondo dal facile trionfo su tali asserzioni conseguito
da chi si compiace di ricordarci che nel mondo convivono tipi di entità
radicalmente diversi, dotate di proprietà idiosincratiche e governate da
principi (quando presenti) che sono totalmente diversi da un tipo all’altro. Entrambe le forme di volgarità sono compatibili con l’adozione di
un principio di composizionalità, benché solitamente si dia per scontato
che l’antiriduzionismo, volgare o non volgare, lo escluda.
Non appena ci preoccupiamo di evitare i guai che derivano dall’autaut, la più generale alternativa tanto al riduzionismo quanto all’antiriduzionismo volgari consiste in una forma di naturalizzazione che prende
il nome di “emergentismo”. Anzi, non appena riduzionismo e antiriduzionismo escono dalla volgarità, si avvicinano da bande opposte a una
qualche versione di emergentismo.
Qualora non fosse chiaro, con questo termine non s’intende una
dottrina che teorizzi uno stato di incombente calamità; né l’emergere
in questione ha a che fare con iceberg o isole vulcaniche; tanto meno
si riferisce a paesi in rapida crescita o all’affermarsi di giovani talenti in
società. Chiarimento del tutto superfluo, direte. Bene, ma c’è uno schema
cognitivo soggiacente a tali usi non meno che a quello qui inteso, perché
ogni tipo di “emergenza” presuppone uno sfondo, o ambiente, a parti4 A quelli di voi che fossero interessati alla distinzione tra le forme di composizionalità segnalo “Compositionality up to parameters”, Protosociology, 21, 2005, pp. 41-66.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
243
re dal quale un oggetto, struttura o sistema, prende forma. Inoltre, da
una stessa serie di costituenti si possono ottenere, in funzione di vincoli
“ambientali” mutevoli, più strutture complesse, fra loro diversificate,
aventi caratteristiche “nuove” rispetto a quelle dei costituenti, senza che
ci sia nulla che cada dal cielo e senza che si debba supporre un disegno
teleologico, se non quello che le “emergenze” una dopo l’altra tracciano
da sé plasmando un paesaggio epigenetico.5
12. Linee di sviluppo dell’emergentismo
L’emergentismo si presenta solitamente come concezione naturalistica, anche se potrebbe anche essere proposto da chi nega il principio
della chiusura causale, che non meno solitamente è considerato parte
essenziale della concezione naturalistica. Non potendo entrare ora nel
merito della chiusura causale, basti osservare che, anche come concezione naturalistica, se ne possono dare versioni diverse, corrispondenti ai
quattro tipi fondamentali di naturalismo, e a ciascuna versione è associata
un’ipotesi circa l’emergere di sistemi complessi.
Agli occhi di molti, l’emergentismo appare come un compromesso:
se da un lato non richiede il coraggio dei riduzionisti, dall’altro perde
la comodità offerta da un generico antiriduzionismo. Questo è solo uno
dei diffusi fraintendimenti che circolano nei confronti della nozione di
emergenza. Perciò vi rivolgo tre inviti.
Il primo è a non pensare che l’emergentismo abbia necessariamente,
o esclusivamente, a che fare con le proprietà della mente.
Il secondo invito è a non pensare che il radicamento nello sfondo
di ciò che emerge dallo sfondo implichi una qualche forma di atomismo
semantico-epistemico, in aggiunta o in alternativa agli atomi materiali.
Questa presunta implicazione non vale neanche facendo proprio un principio di composizionalità inteso come affermazione che tutte le proprietà
di un intero siano definibili a partire dalle proprietà delle parti (proprie)
che lo compongono. L’implicazione vale solo se la composizionalità è
intesa in senso insiemistico classico, cioè, come estensionalità: due insiemi
sono uguali se hanno gli stessi elementi.
Il terzo invito riguarda la caratterizzazione dell’emergentismo come
una forma di naturalizzazione non riduzionistica: molti antinaturalisti
sfruttano l’assunto secondo cui, se ci fosse davvero emergenza, essa
comporterebbe il rifiuto di ogni composizionalità e che, se le strutture
emergenti fossero davvero descrivibili nei termini dello sfondo da cui
5 Circa le proprietà di un sistema “emergente”, si vedano le Precisazioni : http://
eprints.unifi.it/archive/00000822/.
244
Alberto Peruzzi
emergono, una simile naturalizzazione sarebbe, per forza, riduzionistica e, ut sic, atomistica. In filosofia della mente, quest’assunto si trova
esemplificato negli argomenti contro la sopravvenienza così come in
quelli a favore. L’assunto trascura il fatto che una teoria T cui un’altra
T’ si riduca può essere – come già detto – una teoria di campo, dunque
relazionista e trascura il fatto che fra le teorie T’ che non si riducono a T,
ci sono quelle che identificano una sottoclasse di modelli di T e dunque
non possono contraddire T.
Accogliendo questi tre inviti non avreste ancora garantito l’irriducibilità di qualcosa che è naturale ma complesso a qualcosa che è naturale
ma semplice (vedi le condizioni 1. e 2.), né avreste garantito una qualche
comprensione di ciò che è naturale e complesso; tanto meno avreste
segnato un punto a favore di un generico riduzionismo. Se in filosofia
del linguaggio e in filosofia della mente si vuol discutere utilmente di
composizionalità e di emergenza di una struttura da un’altra, non si può
scansare l’impegno a fornire una definizione di entrambe le nozioni e, a
seguire, l’impegno a specificare le modalità dell’emergenza di una struttura da un’altra. Con ciò si prospetta altro lavoro ancora per i filosofi.
Nel corso del Novecento l’emergentismo ha avuto varie formulazioni, per lo più slegate dalle querelles sull’ontologia che hanno coinvolto
i filosofi analitici. Nel quadro di un’ontologia stratificata su più piani,
corrispondenti a livelli stabili di organizzazione sistemica, è possibile
assiomatizzare una forma particolare di emergenza, il cui carattere dialettico è espresso in termini matematici, grazie a un concetto – quello
di aggiunzione – che è al centro della teoria delle categorie.6 Il modello
risultante si affianca ad altri modelli di naturalizzazione emergente, come
quelli che prendono il nome di:
– teoria dei sistemi dinamici (non-linearità, stabilità lontana dall’equilibrio, complessità);
– epistemologia genetica, estesa da sistemi naturali a sistemi artificiali
(con riferimento a pattern non prestabiliti di apprendimento);
– teoria dell’enazione, come visione dialettica dell’interazione
organismo-ambiente;
– grammatica cognitiva;
– fenomenologia naturalizzata.
I rapporti fra i rispettivi modelli di emergenza sono ancora da indagare. Per quanto riguarda il modello in termini categoriali, è di particolare
6 Si veda il fascicolo monografico di Axiomathes, 12/1, 2001; in particolare, pp.
227-260.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
245
interesse che si applichi direttamente alla semantica e dunque serva a
elaborare un modello dell’emergenza dei concetti: s’incentra infatti sul
processo “lifting topologico-categoriale” mediante il quale, a partire da
schemi primitivi di interazione corporea con l’ambiente, si costituisce il
significato di qualunque proposizione. Pur avendo con tutte e cinque le
prospettive su elencate una serie di punti in comune, quest’ultimo modello
se ne differenzia per le nozioni matematiche di cui si serve, le quali da un
lato offrono una cornice molto generale e dall’altro riescono a esprimere
come la spazialità naturale soggiacente alla costituzione dell’esperienza
ordinaria si trasferisca a ogni altro dominio semantico-cognitivo. Il che
può rappresentare un passo decisivo a favore della Tesi. Per equità, un
grande difetto del modello consiste nella mancanza di una descrizione e
spiegazione di come, sul piano biologico, gli schemi inerenti alla spazialità
emergano, ragion per cui il modello si vede costretto a ricorrere a schemi
di percezione-azione la cui genesi è semplicemente assunta come avente
la forma categoriale prevista dal modello stesso.
Le cinque prospettive su elencate, al pari del modello in questione,
nascono da problemi scientifici in ben determinati campi di ricerca e fanno
uso di strumenti formali anche molto diversi, ad esempio per quanto concerne le relazioni tra parte e tutto o tra stati stabili di un intero e processi
di trasformazione delle parti. In un caso possiamo trovarci di fronte a una
naturalizzazione di aspetti di pertinenza epistemologica che fa affidamento
sulla dinamica non lineare delle interazioni fra due sistemi (un sistema S1
conoscente-agente e un sistema-oggetto S2 che viene modificato da S1). In
un altro caso possiamo trovarci di fronte a uno sviluppo della concezione
darwiniana dell’evoluzione che, indagando la co-evoluzione e i suoi non
arbitrari equilibri, giunge a un modello della genesi di un sistema “conoscitivo”. In un altro caso ancora si affronta, in termini di dinamica topologica, la morfogenesi di strutture semantiche ed epistemiche. Nel caso
del modello emergentista incentrato sul “lifting topologico-categoriale”,
la teoria che fa da sfondo è la teoria delle categorie (e, per quelli di voi
che avessero una qualche familiarità con questa teoria, aggiungo che il
concetto chiave è quello di “costruzione universale”).
A parte le differenze tra una prospettiva e l’altra, la linea seguita
è naturalistica ma non è riduzionistica, anche se da un caso all’altro le
ragioni per cui non è tale cambiano. Negli ultimi decenni sono stati fatti
pochi sforzi per individuare punti di convergenza fra queste diverse linee
di ricerca e non si ancora pervenuti a un quadro teorico unitario. Se a
un dottorando in filosofia teoretica dovessi consigliare dei temi su cui
indirizzare la propria attenzione, fra essi ci sarebbe sicuramente quello
relativo alla possibilità (o no) di combinare queste diverse linee e all’individuazione degli ostacoli che impediscano di combinarle.
246
Alberto Peruzzi
Per quelli fra voi che hanno una formazione più legata alla tradizione
analitica, i vantaggi derivanti dai modelli di naturalizzazione emergente
possono esser colti esaminando specifiche questioni di semantica dei
linguaggi naturali e confrontando tali modelli con i più noti approcci
naturalistici alle nozioni di significato, riferimento e verità. Entrando
nel merito, è facile accorgersi che nella letteratura degli ultimi decenni
tali questioni sono semplicemente slittate dall’ambito della filosofia del
linguaggio a quello della filosofia della mente. Lo slittamento, invece di
colmare le eventuali lacune lasciate dalla semantica d’ispirazione analitica,
ha comportato guai ulteriori.
Per esempio, in filosofia della mente si è discusso molto di zombie,
intesi come esseri indiscernibili da noi quanto al comportamento, ma
privi di stati intenzionali (emotivi e cognitivi). Nei confronti dell’ipotesi
degli zombie, la replica che scaturisce dalla prospettiva emergentista, così
come essa si articola lungo le linee che ho appena descritto, è diversa dalla
replica che fa riferimento a proprietà causali “sopravvenienti”, perché
questa seconda replica è legata a un’idea di fisicalismo che gli sviluppi
della fisica dei sistemi dinamici complessi mettono in dubbio. Cioè, se
adottiamo un naturalismo emergentista è possibile ammettere proprietà
mentali non riducibili alla struttura fisica del cervello, senza doversi ritrovare una soggettività che miracolosamente accede a proprietà non-naturali.
13. La super-obiezione
Al di là delle obiezioni addotte contro questo o quel tipo di naturalizzazione in rapporto a un particolare ambito, c’è un ostacolo di fondo,
che è anzi il maggiore ostacolo per chiunque intenda l’epistemologia come
una specifica axiologia: ogni programma di naturalizzazione va incontro
a quella che è indicata appunto come fallacia naturalistica. Benché storicamente emersa in relazione all’etica, la fallacia si trasferisce ad ogni altro
ambito, passando dall’etica all’estetica, alla filosofia della matematica e
all’epistemologia. Dunque, la prova della fallacia è d’importanza decisiva.
Se a qualcuno di voi sta venendo in mente che, per evitare l’ostacolo,
basta trovare un modo per impedire il trasferimento, posso dirvi subito
che è inutile cercarlo, perché la fallacia si produce in ciascun ambito anche in maniera indipendente dal trasferimento: un fatto particolarmente
significativo che getta luce retrospettiva sulla distinzione delle forme di
naturalismo e antinaturalismo, perché la loro tassonomia non poteva
legittimare in alcun modo una frammentazione della riflessione filosofica.
Una volta evitate le confusioni, la tassonomia voleva infatti servire a una
migliore caratterizzazione di quella visione del mondo che, al netto delle
differenze di ambito disciplinare, ciascuno ritiene di poter sottoscrivere.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
247
Presumo che conosciate già la fallacia. Conviene comunque richiamarne brevemente le linee di fondo e la ragione per cui essa costituisce
un ostacolo per un’epistemologia naturalizzata.
In etica, la fallacia naturalistica è stata denunciata da molto tempo. Il problema da cui essa si genera era implicito già nei più antichi
dibattiti su come potessero convivere libero arbitrio e determinismo
dei rapporti causali in natura. I valori morali sono definibili in termini
di fatti naturali? I valori fondano norme e le norme selezionano alcune
linee d’azione rispetto ad altre, mentre i fatti sono quel che sono, che
si segua una norma o no. Se i fatti sono contingenti, i giudizi di valore
non lo sono (o almeno aspirano a non esserlo), ma anche se i fatti sono
necessari – e dunque le norme che si fondano sui valori risultano superflue – si tratta di due diversi tipi di necessità. Qualora le qualità morali
fossero definibili in termini di qualità naturali, pensieri e comportamenti
degli esseri umani sarebbero o inscindibili da una specifica situazione
e di conseguenza privi di quella portata generale che invece i principi
etici intendono avere, oppure sarebbero soggetti alle leggi naturali che
governano tutte le possibili situazioni, contro l’ipotesi che una qualsiasi
norma, poggiante su un valore, presuppone un libero volere e la libertà
di seguirla o no. Senza libertà non c’è, infatti, responsabilità. Il bene, il
giusto, il dovere, ... , sono valori, non proprietà naturali degli stati di cose,
ivi compresi gli stati mentali. Insomma, i valori non sono fatti (biologici,
sociali, antropologici) né sono deducibili da fatti e i principi etici hanno
una validità di tipo diverso da quella delle leggi di natura. Quindi non è
possibile naturalizzare l’etica.
In filosofia della matematica, la fallacia naturalistica ha assunto, da
più di un secolo, le sembianze dello psicologismo, secondo il quale le
leggi della logica e della matematica non farebbero altro che descrivere
il modo in cui è, di fatto, strutturata la mente umana. Lo psicologismo
è stato il bersaglio di varie critiche. La struttura-base di quelle critiche
si può riassumere partendo dal riconoscimento che le verità logiche e
matematiche sono necessarie (se la matematica si riduce a logica, basta
ovviamente parlare di verità logiche). Ebbene, se queste verità si fondassero sul modo in cui siamo fatti e, nello specifico, su com’è fatta la
nostra mente, esse – così procede l’argomento – discenderebbero da stati
contingenti della natura, perché tali sono i fatti psichici; ma niente che
sia necessario si può fondare su qualcosa che sia contingente.
Dunque, l’autonomia razionale delle verità logiche e matematiche,
cioè, la loro indipendenza dalla realtà effettiva composta di stati di cose i
quali sono contingenti, è in contrasto con la possibilità di naturalizzarle,
perché ciò comporterebbe la riduzione di verità di un tipo a verità di tipo
opposto. Anche se l’epistemologia non facesse alcun uso di principi etici
248
Alberto Peruzzi
e di principi matematici, non potrebbe fare a meno di servirsi di principi
logici. Ma anche nel caso che si riusca a rinunciare al loro carattere necessario, il discorso epistemologico comporta comunque delle valutazioni di
correttezza, verità, asseribilità, oggettività circa le proposizioni che affermiamo su fatti, stati di cose, e in particolare stati mentali, dati empirici,
situazioni, contesti o qualunque altra cosa su cui verta una proposizione
che riteniamo esprimere una conoscenza. La stessa distinzione tra credere
che e sapere che rimanda a una valutazione del genere, a parità di fatti
soggiacenti. Inoltre, ogni valutazione del genere contiene implicitamente
o esplicitamente un rimando a nozioni modali: si pensi, per esempio,
all’uso dei condizionai controfattuali per assicurare il carattere nomico
dei principi della fisica. Pertanto, non si tratta solo di descrivere fatti inerenti al modo in cui il rapporto soggetto-oggetto si realizza (è fisicamente
implementato). Poiché ciò che chiamiamo conoscenza e i caratteri che
le sono ascritti nell’epistemologia fanno riferimento a nozioni valutative
e modali, neppure l’epistemologia è naturalizzabile.
Mi sono forse dimenticato che ci sono aspetti essenzialmente soggettivi del conoscere: i qualia epistemici? In effetti, alla denuncia della
fallacia naturalistica si accompagna spesso (anche se non necessariamente)
la contestazione della riducibilità degli aspetti in prima persona degli stati
intenzionali e dei giudizi di valore. Indubbiamente, lo status peculiare
ascritto ai qualia pone una questione delicata, che ha suscitato varie reazioni, dall’asserire che gli aspetti in prima persona della conoscenza sono
dispensabili all’asserire che essi sono ineliminabili dalla descrizione del
mondo benché non trovino posto nella scienze della natura. Data l’estrema problematicità del tema e degli argomenti pro o contro l’eliminabilità
dei qualia (che cosa si prova a sapere che p invece che semplicemente a
credere che p?), ho preferito puntare sulle due forme classiche di denuncia della fallacia naturalistica che prendono forma in relazione all’etica e
alla filosofia della matematica, come punti di riferimento per la fallacia
in relazione all’epistemologia.
Senza escludere che si possano mettere a punto anche altre strategie
argomentative contro tutti i progetti di naturalizzare l’epistemologia, le
due che ho descritto bastano a far capire l’ostacolo che si frappone a tali
progetti. A ciò si aggiunga che se la fallacia naturalistica non riguarda
un qualche tipo di fatti naturali bensì tutti, allora blocca anche quelle
strategie che intendessero ridurre i valori a un insieme più ampio di
caratteristiche naturali – quelle proprie della natura umana più quelle
proprie, diciamo, dell’ambiente, dell’ecosistema terrestre o altre ancora.
Qualunque fenomenologo avesse voluto contestare lo psicologismo,
si sarebbe trovato a mal partito con il condizionale controfattuale
Naturalizzazione: vie e ostacoli
249
Se gli uomini non esistessero, continuerebbe a essere vero che se gli
uomini non esistessero non esisterebbe alcuna verità
perché il riconoscimento stesso tanto della verità quanto della falsità (o
inintelligibilità) di questo condizionale dipende, dopotutto, dalla natura
umana. In particolare, la verità (al pari della falsità) coinvolge le capacità
intenzionali della nostra mente. A meno che queste capacità siano sovrannaturali, il problema di fondo è semplicemente slittato, non risolto da chi
sottoscrive il condizionale precedente. Per accorgersene, basta fare una
piccola variazione sul tema. Considerate il condizionale controfattuale
Se fossimo diversi da come siamo, allora ...
e provate a completarlo nel modo che vi sembra giusto. Dopodiché,
chiedetevi quali argomenti potete addurre per legittimare la sensatezza, o
“intelligibilità”, del condizionale così come l’avete completato. Prima o poi
vi ritroverete di fronte una domanda: quanto contingente è la possibilità
che esistiamo? La conoscenza presuppone, infatti, che esista un soggetto
conoscente; e la conoscibilità presuppone la possibilità della sua esistenza.
14. Raccogliere la sfida
Le varie forme di naturalismo che abbiamo distinto non sono tra loro
equivalenti: hanno presupposti diversi e conseguenze diverse. Se optiamo
per una qualche forma di naturalizzazione, dobbiamo fornire argomenti
a sostegno della scelta e mostrare che le relative obiezioni, associate alla
corrispondente forma di anti-naturalismo, si possono parare. Se optiamo
per una soluzione inversa, dobbiamo fare l’analogo. È un esercizio di
ingegneria concettuale di tutto rispetto. Sarebbe sbagliato, però, inferirne che la filosofia non è altro che questo. La consistenza degli esercizi
argomentativi proposti si misura con quanto aiutano a evitare equivoci
dannosi ai fini di un ben altro scopo: quello di arrivare a un quadro coerente di idee che copra sia la conoscenza della natura sia la natura stessa.
E gli esercizi non sono finiti. Una volta elencati quattro grandi tipi
di naturalismo, è stata suggerita la fecondità di una prospettiva emergentista. In quale di questi quattro tipi giudicate più opportuno collocare
l’emergentismo? Questa domanda è un invito a pensare alla molteplicità
di modi in cui ciascuno dei quattro tipi può essere ulteriormente articolato in modo da selezionare un particolare pattern di emergenza. Si
tratta, al contempo, di valutare quale opzione emergentista consenta di
affrontare meglio la sfida della fallacia naturalistica. Allo stato attuale
delle conoscenze, ciascun approccio naturalistico presenta inconvenienti:
250
Alberto Peruzzi
innanzitutto, è lacunoso e, non appena si cerca colmarne le lacune, finisce
per confinarsi a un particolare ambito. Come rimediare?
Vent’anni fa è stata avanzata una proposta in merito, quella di un
“naturalismo intrecciato” (entwined naturalism), incentrata su un’idea che
combina alcuni caratteri dei diversi modelli di naturalizzazione emergente
su elencati e porta a collocare l’epistemologia all’interno della cosmologia,
integrando le classiche questioni inerenti alle “condizioni di possibilità”
della conoscenza con questioni relative alle “condizioni di possibilità”
dell’esistenza di un soggetto conoscente. Era e tuttora resta un’ipotesi di
lavoro, che necessita di numerose precisazioni e deve essere messa alla
prova, in relazione ai vari problemi filosofici che riguardano la mente, il
linguaggio e la scienza. Il primo e finora unico impiego di un simile tipo
di naturalismo ha riguardato le radici della competenza semantica. Pur
essendo un tema di chiara rilevanza per l’epistemologia, sarebbe prematuro
affermare che la soluzione prospettata si estende all’epistemologia in toto.
C’è dunque molto lavoro da fare e vale la pena impegnarsi in questo lavoro, perché le concezioni epistemologiche cui si contrappone
presentano maggiori inconvenienti. Se anche dovesse risultare erronea,
l’individuazione degli errori sarebbe sempre meglio dei sommessi annunci
che Hic sunt leones – ai quali va il plauso di molti –, così come sarebbe
meglio di inconcludenti promesse di riducibilità che i posteri, da noi non
interpellabili, si vedranno chiamati a mantenere.
Per aiutare a capire il senso del “naturalismo intrecciato”, la via
seguita nel saggio in cui questo termine è stato introdotto7 è una via per
contrapposizione, cioè passa per una serie di obiezioni ad alcuni dei
più comuni approcci antinaturalistici. Volendo darne una formulazione
compatta e in positivo, il senso del termine si può riassumere dicendo:
(U) L’universo alleva conoscitori di se stesso allevando conoscitori di se stessi.
E = Epistemologia; C = Conoscenza; U = Universo (la cui evoluzione, nel corso
del tempo, segue la forma della U nel senso indicato dalla freccia)
7 Si veda l’appendice agli Annali del Dipartimento di Filosofia - Università di Firenze,
IX, 1993, Olschki, Firenze 1994, pp. 225-334.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
251
È più che comprensibile l’impressione di eccessiva genericità, enigmaticità o banalità, che (U) produce. Perciò è doveroso aggiungere che
per mettere alla prova l’intreccio dialettico di mente e mondo così come
si esprime in (U) occorre entrare nei minimi dettagli del modo con cui la
fallacia naturalistica è stata presentata ed esplorare le conseguenze che (U)
ha in relazione alle questioni concernenti il realismo in epistemologia, alla
scelta tra fondazione intuitiva o razionale del bene morale, e allo status
della necessità matematica. È ovvio che per condurre quest’indagine non
ci si può limitare all’analisi del linguaggio (epistemologico, in primis).
Peccato che la maggior parte dei filosofi del linguaggio, della mente e
della conoscenza continuino a relegare la ricerca sul piano dell’analisi
metalinguistica, lungo sentieri già battuti da più di un secolo e ormai
richiusi su di sé.
A questo punto sento il bisogno di tornare su un equivoco. Essendo un equivoco molto diffuso, vorrei richiamare la vostra attenzione
sull‘importanza di evitarlo. Mi riferisco al fatto che una delle forme più
discusse di naturalizzazione è quella che corrisponde alla “epistemologia naturalizzata” nel senso in cui quest’espressione è stata introdotta:
cioè, molti pensano ancora che la naturalizzazione non possa fare altro
che prendere la forma di una riduzione dell’epistemologia a psicologia,
semmai intendendo la psicologia in un senso un po’ diverso da quello in
cui, prima del cognitivismo, la si è voluta presentare come scienza del
comportamento umano libera da ogni rimando a stati mentali che non
siano disposizioni al comportamento.
La proposta di ridurre l’epistemologia a psicologia è stata indubbiamente una tappa importante del dibattito filosofico, ma, come spero che
vi sia ormai chiaro, la naturalizzazione dell’epistemologia può prendere
altre strade, che non interessano solo la psicologia, senza contare che
la stessa psicologia cognitiva ha imboccato, dagli anni Sessanta in poi,
strade diverse da quella del comportamentismo. Tenendo conto di questi
sviluppi, ci vuol poco ad accorgersi che, se una “epistemologia naturalizzata” comporta l’adesione sia a una variante di comportamentismo sia
all’olismo delle credenze, allora una semantica adeguata degli enunciati
contenenti espressioni per modalità epistemiche è irraggiungibile, come
la tartaruga zenoniana.
A chi trovi eccessiva l’affermazione precedente segnalo che, di fatto, la
somma comportamentismo + olismo delle credenze non ha finora permesso
di sviluppare alcuna ragionevole naturalizzazione dell’epistemologia, e che
anche in linea di principio la somma è problematica, in virtù degli argomenti che la linguistica generativa ha messo in campo contro i modelli a
feedback e in virtù di argomenti contro l’olismo delle credenze, tra i quali
gli argomenti contro la permeabilità cognitiva delle percezioni. Special-
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Alberto Peruzzi
mente chi si dichiara un “empirista” non dovrebbe sottovalutare le prove
empiriche a sostegno del carattere modulare dei sistemi percettivi. Questi
argomenti non escludono che si possa elaborare un’epistemologia naturalizzata in altri modi, purché non si ignori lo sviluppo che nel frattempo le
scienze cognitive hanno avuto. La psicologia è una delle scienze cognitive
ed è ragionevole pensare che la naturalizzazione dell’epistemologia sia
riferita alle scienze cognitive nel loro insieme e non solo a una di esse.
Se poi, oltre che dell’architettura dei sistemi percettivi, si tiene conto
della corporeità, umana o non-umana, nell’architettura della competenza
semantica ed epistemica di un agente, naturale o artificiale, i modelli di
naturalizzazione emergente su elencati aiutano a capire il ruolo fondamentale che strutture non linguistiche hanno nella costituzione del significato. Interessa valorizzare questo ruolo? Allora l’idea che fare filosofia
equivalga a fare analisi del linguaggio si rivela un vicolo cieco tanto per
chiunque intenda sottoscrivere la Tesi quanto per i sostenitori dell’Antitesi. All’interno delle prospettive di ricerca riconducibili all’emergentismo
si collocano indagini che stanno già promuovendo un diverso modo di
fare filosofia. Tra esse sono di particolare interesse alcune aree d’indagine: dal progetto di una IA non rappresentazionale (nelle aree della
robotica e delle nanotecnologie) allo studio della funzione di certi neuroni
o “assemblee” di neuroni, come i neuroni-specchio, dall’emergere dei
concetti come attrattori di un sistema dinamico alla centralità cognitiva
del processo di metaforizzazione.
15. Ultime obiezioni e risposte
Vi sarà venuta in mente (spero) un’obiezione: anche se da un punto
di vista euristico l’orientamento naturalistico ha prodotto di più dell’orientamento anti-naturalistico, questo non prova che si debba sottoscrivere
una qualche forma di naturalismo.
Una seconda obiezione (già menzionata, peraltro) riguarda l’impostazione di tutto il discorso: a dispetto dello spazio dato alla tassonomia
di forme assunte o assumibili dal naturalismo e dall’antinaturalismo,
sembra che quella tassonomia non abbia il rilievo teoretico che ci si
poteva attendere, perché chi adotta il punto di vista naturalistico non
può limitarsi a sottoscriverlo in un ambito e non in un altro, o solo in
un senso e non anche negli altri sensi. (E lo stesso dicasi per chi adotta
il punto di vista anti-naturalistico.)
Una terza obiezione è che, anche se la tassonomia avesse rilievo, non
sembra essere indispensabile per quella particolare forma di naturalizzazione emergentista che è stata suggerita. Ovvero, gli argomenti a sostegno
di essa non hanno bisogno di tutte le distinzioni precedenti.
Naturalizzazione: vie e ostacoli
253
Risposta alla prima obiezione: è vero che non c’è un rapporto di
consequenzialità, ma ... attenzione a non esagerare nella difesa dei diritti
degli scolastici che si rifiutavano a guardare attraverso il cannocchiale. A
supporto dell’obiezione si potrebbe anche aggiungere che tesi di impossibilità (le quali, cioè, affermano che qualcosa con i tali e talaltri caratteri
non è possibile) si rivelano non meno feconde di tesi di possibilità: basti
pensare a quanti risultati sono seguiti alla dimostrazione del Teorema di
Incompletezza per l’aritmetica. Bene, e con ciò? Fermo restando che la
fecondità non è l’unico parametro da considerare per l’adozione o il rifiuto
di una filosofia, e fermo restando che gli argomenti anti-naturalistici e, in
primo luogo, la denuncia della “fallacia naturalistica”, sono stati un ottimo
stimolo a precisare le ipotesi e le strategie di naturalizzazione, non si può
trascurare che le acquisizioni stimolate dall’orientamento naturalistico,
implicito o esplicito, hanno permesso di capire e spiegare molti fatti che
prima non erano spiegati – e la cui mancanza di spiegazione sembra non
dare alcun fastidio ai sostenitori dell’Antitesi.
Risposta alla seconda e alla terza: queste obiezioni mettono semplicemente il carro davanti ai buoi. Cioè, danno per scontato che Tesi e
Antitesi abbiano, o possano avere, un significato indipendente da ogni
ambito, immune all’approccio che si sceglie – per esempio: metodologico
o ontologico? –, indifferente all’impegno teorico che ci si assume in senso
riduzionistico o antiriduzionistico.
Il percorso che ho proposto voleva aiutarvi a capire che un simile
assunto ha scarso sostegno e facilita una lunga serie di confusioni. Non
ci sono forse rischi opposti derivanti da tale percorso? Non ho alcuna
esitazione ad ammetterlo. Per chi è iscritto a un dottorato di filosofia è
d’immediata comprensione che mantenendosi all’interno del seminato
non si corrono rischi. (In particolare non si corre il rischio di dire qualcosa
...) Anzi, il percorso scelto ha un inconveniente aggiuntivo: ci sono molti
problemi in più. La compatibilità di una versione di naturalismo (o di
antinaturalismo) con un’altra versione non è garantita in alcun modo; e
garantirla è un problema tanto meno facile da risolvere quanto più consapevoli siamo della gamma di possibili varianti della Tesi e dell’Antitesi.
È vero, ma insieme agli esercizi che favoriscono questa consapevolezza c’è anche una proposta teorica in base alla quale i problemi in più
si possono risolvere. Per risolverli ci vuole un armamentario concettuale
diverso da quello della tradizione epistemologica? E cosa altro ci si
aspettava? Per progredire, oltre alla fiducia in sé, occorre misurarsi con
le frontiere dell’attuale ricerca, non con le frontiere della ricerca di un
secolo fa.
È improbabile che qualcuno vi abbia mai detto che un problema
filosofico è stato risolto. È invece probabile che qualcuno vi abbia fatto
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Alberto Peruzzi
credere che tutti i problemi filosofici sono irrisolvibili. Se anche in entrambi i casi fossi in errore (e ne sarei lieto), resterebbe il fatto che, per
dichiarare soluto, solubile, insoluto o insolubile un problema filosofico
non si può pensare che sia sufficiente servirsi di strumenti d’analisi a
portata di mano, quanto mai familiari, i meno avanzati invece dei più
avanzati. Se qualcuno vi ha indotti a credere che sono sufficienti, siete
ancora in tempo per liberarvi da questa comoda furbizia. D’altra parte,
il tempo delle elucubrazioni misteriosofiche è finito, come è finito quello
di un compiaciuto ritiro in un limbo lessicale. Non c’è ragione per cui
un giovane filosofo (maschio o femmina) sia dispensato dall’impegnarsi
nei confronti dei modelli esplicativi dei processi in cui il linguaggio, la
mente e la conoscenza si costituiscono, né – con riferimento al confronto
tra Tesi e Antitesi – c’è ragione per cui si senta autorizzato a considerare
concetti e conoscenze nel loro stato stazionario, limitando il proprio
lavoro all’analisi del linguaggio in cui gli enunciati epistemologici sono
espressi, alla ricostruzione storica della vertenza, o a una comparazione
meta-meta-epistemica come quella qui condotta. Le condizioni necessarie
non sono sufficienti per fare filosofia.
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