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Epistemologia e metodologia della cura nelle società multiculturali
Identità, cultura e fenomeni migratori.
Potenzialità e limiti dei luoghi istituzionali, costruzione e ricerca di altri luoghi
dell’osservazione e dell’intervento (accessibilità ai servizi).
IV seminario, Roma, 18 aprile 2007
Hotel dei Congressi, Roma
Scheda Introduttiva
Il paesaggio culturale e sociale dell’Occidente si trova ad essere sempre
più composito e complesso in conseguenza dei movimenti migratori di massa
che lo attraversano. Le istituzioni pubbliche sono sollecitate sempre più dagli
stalli, dalle sospensioni e dalle cadute o, all’opposto, dalle accelerazioni
marginalizzanti, devianti o recalcitranti, di simili movimenti. Tali sollecitazioni
si dispongono in particolare intorno alle interfacce dei servizi pubblici (sanitari,
sociali ed educativi), interrogando gli operatori relativamente a domande di cura
i cui contenuti – esplicitamente o, più spesso, implicitamente – pongono i
dilemmi dell’alterità culturale, ideologica e personologica.
Il quarto seminario intende promuovere un dibattito intorno ai temi della clinica
transculturale e della salute mentale delle popolazioni migranti, con l’obiettivo
di individuare le problematiche emergenti dal punto di vista organizzativo,
teorico e tecnico e di confrontarsi sulle strategie che localmente sono state
adottate per farvi fronte. Tale confronto appare, infatti, preliminare
all’individuazione di finalità generali, di programmi condivisi e di interventi
articolati secondo linee di indirizzo a livello nazionale. Occorre, infatti, tenere
presente che la presa in carico delle popolazioni migranti rappresenta un ambito
che richiede un’intensa sperimentazione – sia nel senso di un’attività di ricerca,
che nel senso del maturare un’esperienza da parte degli operatori – e ciò richiede
ancora una fase di moltiplicazione delle pratiche e di sviluppo di teorie.
È solamente da pochi anni ed in un periodo di tempo relativamente ristretto, che
i flussi migratori internazionali sono arrivati a definire un quadro demografico
consistente e tale da richiedere attenzione dal punto di vista della salute
pubblica. Tuttavia, prima ancora di costituirsi come paese di ricezione, l’Italia è
stato un paese di emigrazione, sia interna che verso l’estero. Tale storia non ha
tuttavia prodotto, all’interno delle discipline psicologico-psichiatriche, una
riflessione capace di strutturare un saper-fare transculturale. Un saper-fare, cioè,
in grado di rapportarsi alla molteplicità culturale interna e di ponderare il rischio
per la salute mentale di individui e masse in movimento. Un saper-fare, ancora,
che fosse in grado di inserirsi nel movimento politico e tecnico che ha portato
alla riforma psichiatrica, apportando un contributo sul piano degli interventi
clinici, sul piano della critica al connubio sapere-potere in psichiatria e in
psicologia e, infine, sul piano delle politiche sanitarie e culturali generali.
Gli interrogativi attuali, dunque, si addensano lungo due diverse dimensioni.
In primo luogo, è necessaria una riflessione sul ruolo assegnabile alla
dimensione culturale nel processo diagnostico e terapeutico. Da questo punto di
vista, le competenze ed i saperi clinici degli operatori sono chiamati a
confrontarsi con la molteplicità linguistica, personologica e ideologica (con
riferimento anche alla referenza ad un pluralità di risorse terapeutiche) che i
pazienti stranieri pongono. Si tratta dunque di valutare, da una parte, le
possibilità di interazione con le conoscenze ed i dilemmi che provengono da
discipline di confine, quali l’etnopsichiatria e la psichiatria transculturale e
l’antropologia medica e culturale e, dall’altra, di verificare le modifiche ai
setting clinici che si rendono necessarie ed opportune per adeguarsi ad una
simile molteplicità. Lungo questa linea di riflessione, è in particolare
l’inserimento della mediazione linguistico-cutlurale nei dispositivi di intervento
che interroga gli operatori. Che cosa si deve intendere per mediazione
linguistico-culturale in salute mentale? Quali sono le strategie e le tecniche che è
necessario implementare per far sì che l’idea di mediazione si attualizzi
nell’incontro clinico? In altre parole, come è opportuno costruire un sistema
clinico che funziona nella mediazione fra diverse lingue e culture? Quale
formazione deve possedere questa nuova figura – il mediatore – che fa la sua
comparsa nella scena clinica?
In secondo luogo, occorre interrogarsi sui risvolti organizzativi che simili
sviluppi comportano. I servizi sono infatti chiamati a pensare una strategia di
intervento a partire dalle problematiche strutturali emergenti e dagli sviluppi
tecnico-professionali ipotizzabili e percorribili. Non si tratta, cioè, di rispondere
ad una semplice contingenza, anche se si questa si manifesta sotto le sembianze
dell’emergenza. Ma di ri-pensare le proprie strategie e le proprie impostazioni di
fondo per garantire il diritto alla salute ad una popolazione sempre più
complessa dal punto di vista culturale e linguistico. Sul piano organizzativo,
dunque, gli interrogativi si addensano spesso intorno alla scelta fra servizi
universalistici e servizi dedicati. È una scelta che spesso si pone in modo
radicale e che si carica dal punto di vista ideologico. È infatti il tipo di filosofia
organizzativa – e dunque il tipo di risposta politica – che viene chiamata in
causa, in una situazione in cui i principali modelli di riferimento adottati in altri
paesi europei (assimilazionista, multiculturale, ecc.) hanno mostrato limiti e
difficoltà. Si tratta dunque di avviare una riflessione che parta più che dalle
impostazioni ideologiche, dalle problematiche emergenti e dalle risposte
disponibili o che promettono il maggior contributo possibile sul piano
dell’efficacia e dell’efficienza degli interventi e sul piano dello sviluppo
conoscitivo.
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