Elaborato finale CTSC - Corso di Teatro per lo Sviluppo di Comunità Sede: Torino Anno di fine corso: 2013 Danzare la scena: storie intrecciate di tre grandi passioni Allieva: Marta Oggero Relatore: Marco Finetti 1 Indice 1. Introduzione: un incontro speciale 2. Storie in scena: Flamenco, Playback Theatre e Tango Argentino 3. Elementi comuni e connessioni 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. Le storie, indiscusse protagoniste della tradizione orale Improvvisazione ed essenzialità Il rituale Tre, il numero perfetto più uno 4. Italia, Spagna, Argentina, India: un esperimento di oggi 5. Conclusioni 6. Bibliografia & Sitografia 2 1. Introduzione: un incontro speciale Oggi sono la persona che sono, forse anche grazie all’incontro di tre forme d’arte e di espressione corporea ed emotiva che mi hanno consentito di sperimentare, sotto la pelle, la bellezza, la profondità, talvolta il dolore e la solitudine dell’essere umana. Donna in crescita e alla scoperta, con una razionalità difensiva che fa da padrona, e che pian piano si affievolisce, rende i suoi duri angoli più morbidi, per lasciare spazio al libero circolare delle emozioni dentro di sé. Il Playback Theatre, in questo senso mi ha aiutato tanto. Mi è costato anche tanto, in termini di fatica personale, cercando di sfuggire spesso e volentieri agli incontri mensili, o arrivando tardi per impegni più inventati che reali. Eh si, non sono stata un’allieva modello, e ho odiato quel luogo in Via San Domenico non poche volte, chiedendomi il perché di un simile percorso su di me. Perché ricercavo quell’essenza? Perché volevo liberare il corpo? Perché ero così resistente e temevo le storie come se fossero un rogo medievale? Il fuoco sacro delle storie. Essere totalmente dentro, con la pancia gonfia di emozioni ricevute dal narratore, quella sensazione di voler scappare eppure quell’esigenza di farsi cullare dalle onde della storia stessa per finire non si sa dove. Quando poi ho imparato a lasciarmi andare, a fluire sul palco, così come nella vita (non ho imparato, sono ancora alla ricerca!) sono finalmente riuscita a vivere il palco più serenamente, quasi con piacere, vivendo i ruoli che assumevo (o che mi venivano attribuiti dagli altri performers) con profondità e sincerità, senza cercare di seguire copioni precostituiti, idee quadrate, ma saltando dentro la dimensione del gioco, senza timore né vergogna verso la Marta super-egoica sempre pronta a giudicare. La peggiore nemica durante tutto il percorso è stata proprio quella parte di me stessa che rideva di Marta se provava piacere nel giocare o fare il verso di un animale, che si commuoveva se la storia di qualche compagno era particolarmente forte, che voleva imparare di più, che credeva nel Playback come strumento di trasformazione personale e sociale, che si lasciava andare all’emozione, e che godeva profondamente nel vivere il palco con libertà. Ancora oggi, a distanza di quasi cinque anni dall’inizio del CTSC, ho la sensazione di aver vissuto quei momenti solo a metà e poco presente a me stessa. Ricordo ancora quel lontano 2011, quando mi persi un incontro con Jonathan Fox, solo per avere fatto festa in modo esagerato il giorno prima per il mio compleanno, e non essermi svegliata in tempo! Oggi farei i salti mortali per riuscire a fare una formazione con lui, e in ogni parte di mondo in cui arrivo, cerco un gruppo locale di Playback Theatre, da poter conoscere o con cui poter collaborare. E avrei voglia di iniziare nuovamente un training, perché ho ancora voglia di imparare, mettermi in gioco e fare esperienza, e quando ho scoperto che qui a Bangalore, in India, c’è un corso di formazione in Playback Theatre con docenti internazionali all’università mi sono emozionata moltissimo, e naturalmente ho tutte le intenzioni di partecipare! Non lo avrei mai detto. Il Playback è diventato davvero qualcosa di serio nella mia vita, qualcosa che c’è sempre, e se non c’è, che cerco di ricreare o di portare con me e diffondere. Ed è stato 3 così che, quasi inconsapevole, un po’ per gioco, un po’ ad occhi chiusi, nel 2013 ho fondato insieme ad altre sette donne e un music-uomo una Associazione e Compagnia di Playback Theatre, Intrecciastorie. Loro sono la mia storia degli ultimi due anni, un Playback Theatre quasi tutto al femminile, fatto di chiacchiere alla tavola, ottimi carciofi e torte al cioccolato, risate infinite, segreti e confidenze intime, litigate, gite fuori porta per andare a performare chissà dove…. Chi avrebbe mai detto che oggi, dopo quasi un anno un mezzo di “assenza” da Torino, loro sono l’unico pezzo che davvero mi manca per sentirmi completa, e sono la ragione per cui spesso avrei voglia di tornare a casa. Per fare del buon Playback, per crescere insieme, per averle vicine/o e realizzare sogni comuni. Oltre che strumento di crescita personale e di incontro con la magia fatata della stella guida (Alice), la determinazione congenita del Capitan Rolfo, l’adorato humour di Erika, la dolcezza delle onde del mare (Cristina), il fruscío del vento e i timori del leone riccio (Sara), l’essenzialità della terra che contiene e riceve (Rinella, nome di battaglia Ribella), la saggezza e l’equità di una grande dea (Filena, detta anche Filatena, o il Presidente) e la generosità tenera del mozzo di vascello (Walter), il Playback Theatre mi ha permesso di vivere più intensamente altre dimensioni della mia vita, la danza in particolare, sgomberando il campo da paure, da rigidità, vivendo appieno la trance che si genera nei visceri quando la chitarra flamenca suona e ti entra sotto le pelle, o quando un bandoneón (fisarmonica) malinconico suona in una piazza di Buenos Aires, e impari a muovere timidamente i tuoi primi passi di tango. La capacità di ascolto nel tango e nel flamenco è fondamentale, avrei impiegato probabilmente dieci anni a connettermi emotivamente con il partner e ballare un buon tango. Grazie al Playback Theatre tutto ciò è semplicemente accaduto; anche le mie relazioni umane hanno assunto un volto più autentico, e io mi sento più capace di vibrare all’unisono con la musica, cullata in un abbraccio o da una bella storia. Dedico questo lavoro alle Intrecciate e all’Intrecciato A un luogo speciale dove ho imparato ad indossare una gonna a balze e sentirmi donna (Academia de Baile Arte Y Flamenco) e alla mia maestra di flamenco, e di tanto altro… Monica Morra) Ai tangueros de Buenos Aires che sanno abbracciare una donna come pochi altri sanno fare! E un grazie speciale agli amici del tango indiani, cooperativi e gentilissimi nell’aiutarmi a realizzare il prodotto creativo finale. Per Marta, con una storia in quattro parti Guardiamo! 4 2. Storie in scena: Flamenco, Playback Theatre e Tango Argentino Si alza il primo attore, seduto sul cubo a sinistra, sorprende tutti noi con un’immobilità solenne. Solo le mani si muovono, creando dei cerchi nell’aria, sembrano farfalle con le ali di pizzo. Lo sguardo è rivolto al cielo, lievemente obliquo. Solenne, quasi cupo, sofferente. Mi ricorda lo sguardo di una donna indemoniata. Batte il primo piede sul suolo, il legno della pedana del palco vibra, il suono è chiaro e netto. Poi un secondo colpo, un terzo, un quarto… e inizia a crescere la rapidità e l’intensità dei passi. Il ballo avvolge il suo corpo totalmente, le vibrazioni della percussione dei piedi si propagano, ed entrano dentro il mio corpo. La gonna rossa svolazza creando cerchi e onde nell’aria, il vento soffia forte. Il corpo danza mano nella mano con il suono della chitarra, che incalza sempre più rapidamente in un crescendo di emozioni. La voce roca, profonda del cante porta il dolore vivo di un popolo migrante qui tra di noi, testimonianza di una lunga storia da raccontare. L’amore clandestino di una gitana e del suo amato diventa fuoco che corrode le due famiglie nemiche, diventa danza di passione, diventa espressione della vita e delle vicissitudini di ciascuno di noi. Dopo la tempesta di suoni e di passi sulla scena, di nuovo la quiete. L’attore si immobilizza sul palco, le farfalle alle mani battono ancora una volta le ali, lo sguardo rivolto verso l’orizzonte, nulla più si muove. Con voce sicura prende il centro della scena, inizia a parlare e racconta la sua storia. “Non so esattamente dove e da chi sono nato. Non ricordo quel momento e nessuno me lo mai raccontato. Un alone di mistero avvolge la mia nascita, e sebbene molti studiosi che, a loro dire, si chiamano flamencologi abbiano indagato, studiato e scritto libri, ripercorrendo le tracce del mio arrivo al mondo, nessuno in realtà ha mai trovato i miei genitori. Orfano di madre e di padre, così mi posso definire. Vorrei tanto sapere chi mi ha dato questo nome, che profuma di storia millenaria. Qualcuno mi ha spifferato che sono nato nelle Fiandre, e che il mio nome sia legato alla cultura fiamminga. Ma cosa hanno a che fare le Fiandre con la mia musica, che sa di Oriente, di spezie e di calore? Infatti non ci ho mai creduto. Altri sostengono che io sia nato in terre arabiche, e che sia un discendente dei moriscos, ma gli zingarologi (saranno cugini dei flamencologi?!?) dicono di no, assolutamente no. E allora, ormai stufo di ascoltare tutte queste campane, ho deciso per me stesso. Il mio luogo d’origine è una regione situata nell’attuale Pakistan, chiamata Sid: da lì io e i miei fratelli Gitani siamo stati esiliati in seguito a una serie di conflitti e invasioni, ultima delle quali probabilmente quella di Tamerian, discendente di Gengis Khan. Da qui iniziò la mia storia di nomadismo, attraverso l’Egitto, la Cechia e la Slovacchia e infine, durante il XV secolo, le nostre famiglie si dispersero e formarono tre gruppi più o meno stanziali nei Balcani-Italia, in Francia e in Spagna. Durante i secoli di migrazioni fino alla fine dell’Ottocento abbiamo vissuto di pastorizia e artigianato. Tra tutti, sono stato uno dei più fortunati, perché sono arrivato fino in Andalusia, regione con una secolare tradizione culturale multietnica, luogo accogliente come la culla per un bambino, ma il processo di integrazione non è stato indolore: le battaglie che abbiamo subito insieme agli Arabi e agli Ebrei, le feroci 5 persecuzioni cattoliche, il divieto di parlare la lingua che da poco avevo imparato. Proprio in questa fase della mia vita, incontrai altri amici, compagni di sventura, e la nostra musica divenne una sorta di veicolo per una ribellione nascosta. Noi cantori flamenchi venivamo (furtivamente) invitati alle corti degli aristocratici come “giullari” e denunciavamo le oppressioni nei nostri cantes in lingua Calò ai nostri stessi oppressori, ignari. Poi, man mano che ci concentrammo in alcune principali città e quartieri (Alcalà, Utrera, Jerez, il quartiere Triana a Siviglia) e le leggi furono meno repressive, i nostri “servizi musicali” venivano richiesti sempre di più e l’interesse per la nostra musica si diffuse anche tra i Payos (non-Gitani), e tra i musicisti “classici” che ne trassero ispirazione. Sono piaciuto ai ricchi, questa è stata la mia fortuna, e passo dopo passo, sono arrivato fino in teatro, grazie soprattutto al lavoro e all’impegno di un caro amico, Federico Garcìa Lorca. Oggi si parla di me ovunque, e la mia arte, ovvero la nostra arte, quel guazzabuglio musicale nato nelle calde piazze andaluse tanti secoli fa, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità. Ma solo una cosa vorrei dire a tutti voi, io non sono quella gonna svolazzante a pois che tutti avete in mente, non mi metto rose in bocca, né ballo sui tavoli, perdio! Io sono la storia di chitarre solitarie, uomini e donne migranti, malinconia, fierezza, allegria, celebrazione della vita, di ulivi che nascono, di polvere e balli fino a tarda notte con vino generoso, di famiglie unite e di omicidi d’onore… sono tanto altro, ma oggi mi limito a svelarvi il mio nome: Flamenco, “felag“(contadino) e “mengu” (errante, fuggitivo)”. 6 Il secondo attore si fa avanti. Occupa lo spazio scenico con sapienza e leggerezza, ma sembra perso. Non sa dove andare, non sa cosa fare. Guarda gli altri attori, chiude gli occhi e comincia la sua danza. Essenziale, emette solo alcuni suoni, sembra essere una persona di poche parole. Il suo movimento è fluido come la scia di una stella nel cielo, e mi arriva diretto al cuore. Poi si abbassa verso il suolo del palco, lo accarezza e dice: “Da solo non posso essere nulla, ho bisogno degli altri per diventare vita”. Tace il suo nome, e pensando di essere a casa sua, si mette comodo, sdraiandosi comodamente sulla moquette del palcoscenico, nemmeno fosse il morbido tappeto del suo salotto. (In effetti, capirò poi solo dopo che Lui è davvero a casa sua, che su quel palco ci sta proprio comodo perché ha imparato a viverlo senza paure, senza stereotipíe, lasciandosi trasformare proprio da ciò che accade su quella morbida moquette). Il terzo attore si alza dal penultimo cubo sulla destra, muove qualche passo come a disegnare un cerchio sul pavimento, poi con la voce simile a un cantore napoletano, recita una filastrocca accompagnando le sue parole con una fisarmonica sgangherata: Ya llegan los inmigrantes caen estrellas del cielo dos arlequines saludan y un bandoneón toca un viejo juega un nene a la pelota se baila un tango orillero esto es parte de La Boca el barrio que yo más quiero. 7 Il quarto ed ultimo attore, alzatosi dal suo cubo, guarda in volto ognuno degli attori già presenti sul palco, li abbraccia uno per uno in modo materno e complice. La sua azione è avvolgente, come a voler racchiudere in un contenitore i tre elementi presenti sulla scena. Sale in piedi su un cubo e dall’alto declama questa piccola frase: “Senza di me, voi tre vi sentireste molto soli!”. 3. Elementi comuni e connessioni Ciò che mi ha colpito nell’avvicinarmi a queste tre forme di espressione artistica è il loro significato, ciò che vogliono trasmettere e manifestare attraverso il loro esistere. Con il flamenco, è stato un incontro di petto, forte e diretto. Lo stesso non si può dire per il Playback Theatre che ci ha messo molto tempo a farsi voler bene, e a diventare parte di me. Per quanto riguarda il terzo attore, il tango argentino, esso è stata la diretta e inevitabile conseguenza di un anno di vita e lavoro a Buenos Aires. Ciascuno di essi è stato molto importante per me e la mia crescita, ma soprattutto è tuttora importante in relazione alla mia storia personale, e ai tre momenti storici a cui collego i tre incontri: un’esperienza di studio in Spagna, la mia vita a Torino, e l’Argentina. Sono diverse le assonanze che ho riscontrato tra questi “attori” presenti nella mia vita: lo scopo di questo elaborato è metterle in luce, rilevandone similitudini e differenze. 8 3.1. Le storie, indiscusse protagoniste della tradizione orale Il primo elemento che ho considerato è l’importanza delle storie, ovvero l’elemento narrato oralmente, che diventa prezioso per l’intera comunità che ascolta e che narra. Il flamenco e il tango argentino nascono come espressioni artistiche e popolari, e si sviluppano in un contesto storico e culturale che rende necessario il raccontare. Le storie dei gitani di Andalusia, e le storie dei migranti italiani di inizio Novecento vogliono una loro dignità, e la musica, in quanto veicolo culturale molto più antico della scrittura e più universale, rappresenta lo strumento ideale per tramandare queste storie attraverso i testi cantati. Come ha già esposto il “primo attore”, il flamenco è un’arte che nasce dall’intreccio delle tradizioni culturali e musicali che si sono stabiliti in Andalusia, con il ricco folclore autoctono, da sempre sensibile a influenze orientali. Il tango argentino, che si è presentato con una filastrocca che racconta nuovamente di migrazione e integrazione, nasce nella regione del Río de la Plata, tra Argentina e Uruguay. I nomi dei maggiori compositori (Aníbal Troilo, Juan D'Arienzo, Osvaldo Pugliese) a partire dai primi anni del Novecento fino all’età d’oro (anni '30 e '40) sono tutti figli di italiani immigranti, così come la maggior parte degli argentini, e l'urgenza di trovare una propria identità spinse il Tango alla sua comparsa non solo come semplice musica ma come un pensiero che si balla (“il tango è un pensiero triste che si balla”, Enrique Santos Discépolo). Lo stesso compositore e direttore d'orchestra Astor Piazzolla aveva i nonni italiani, pugliesi da parte di padre, toscani da parte di madre. In principio il tango si affermò come musica popolare nel rapido e tumultuoso sviluppo di Buenos Aires, che in breve passò da 48.000 abitanti a 2.000.000 ed ebbe ripercussione nelle vicine città di Montevideo e di Rosario, fino ad arrivare a fare il giro del mondo ed essere oggi ascoltato e ballato ovunque, raggiungendo culture anche completamente estranee a quella sudamericana, come quella indiana, cinese e giapponese. Il secondo attore, quello che io chiamo “uomo di poche parole”, si chiama Playback Theatre ed è l’ospite d’onore sul palco della mia vita. A differenza del flamenco, orfano e confuso, e del tango, ragazzo un po’ troppo seduttore e talvolta irriverente, il Playback Theatre ha avuto due genitori “sufficientemente buoni”, che si chiamano Jonathan Fox e Jo Salas. La nascita del Playback Theatre si identifica con il suo ideatore (J. Fox), psicodrammatista e uomo appassionato di teatro sperimentale, e risale a un periodo storico abbastanza recente, la metà degli anni settanta negli Stati Uniti. Il Playback Theatre è una particolare forma di improvvisazione teatrale che prende vita sulla scena grazie all’ interazione tra i performers: la sorgente e fonte di tanta vita sul palco sono proprio le storie personali. Infatti una persona tra il pubblico esprime un sentimento, un’emozione, un frammento della propria vita o narra una storia o un momento della propria vita personale o professionale, sceglie gli attori per rappresentare i differenti ruoli e poi guarda la sua storia ricreata e offerta al momento con forma e coerenza artistica. Il pubblico, dapprima indistinto, si trasforma in una comunità narrante e partecipante. Narrare la propria quotidianità è sempre stato un elemento essenziale e caro all’essere umano: il Playback Theatre crea l’ambiente e l’ecosistema adatto per poterlo fare. 9 Jonathan Fox era uno studente di teatro sperimentale d’improvvisazione e dello psicodramma di Jacob Levi Moreno, che si interessò alla ricerca sullo storytelling nelle società preletterarie e sulla tradizione orale nel teatro. Sia J. Fox sia la moglie Jo Salas, musicista e attivista, prestarono servizio volontario in paesi in via di sviluppo: Fox come volontario nei Peace Corps in Nepal, e Salas in Malaysia. La prima matrice esperienziale e valoriale si riconduce all’interesse di Fox per la tradizione delle culture preletterarie. Durante il periodo trascorso in Nepal, si dedicò ad approfondirne la cultura e i costumi, rilevando l’importanza della condivisione delle storie della comunità nello spazio collettivo, e scoprendo il valore dell’ascolto e del riconoscimento delle storie. La condivisione dei vissuti personali costituiva per le comunità preletterarie un patrimonio di tradizione culturale e di storia collettiva da tramandare come bagaglio storico ed etico del gruppo. Ciò consentiva il germogliare di un sentimento di appartenenza sociale e di interiorizzazione del bagaglio culturale della comunità intera. La possibilità di raccontarsi, attraverso parole, suoni o movimenti, diventa un evento raro nella moderna società tecnologica, ma le storie e narrazioni sono state condivise in ogni cultura come mezzo di intrattenimento, istruzione, conservazione culturale e trasmissione di valori morali. La musica e la danza rivestono in questo processo narrativo un ruolo fondamentale: la musica infatti è un veicolo culturale molto più antico della scrittura in quanto nasce probabilmente insieme alla parola o forse anche prima, e più universale, perché può anche prescindere dalla parola stessa. La musica (o almeno quella “etnica”) contiene le radici di un popolo e permette di capirne la cultura e la storia. In questo senso, il flamenco e il tango argentino sono probabilmente generi musicali emblematici di questa funzione di veicolo e memoria della cultura e della tradizione. Il Playback Theatre mira proprio a ripristinare un legame con la narrazione, in primo luogo attraverso la parola (quella di colui che racconta), ma poi riproponendo sul palco forme di espressione che non sono solo esclusivamente verbali (e che spesso cercano proprio di non esserlo!), ma che privilegiano il movimento, la musicalità del corpo, il suono, tutte manifestazioni preletterarie e universali, ovvero che non necessitano del linguaggio verbale per essere decodificate e apprezzate. IL Playback Theatre, così come il flamenco e il tango argentino, si presentano come elementi di comunicazione e narrazione a livello universale in quanto riescono a far sedere intorno a un fuoco la comunità, che racconta storie, si sente parte di esse, in esse si riconosce e attraverso di esse riflette sui valori del passato, del presente e del futuro. I contenuti delle storie narrate, durante una performance di Playback Theatre, o in un testo di una canzone flamenca o in un nostalgico tango, sono contenuti che spesso si riferiscono alla quotidianità, ai problemi di quella comunità, alle sfide o difficoltà a cui è andata incontro. Le storie che riceviamo durante una performance di Playback Theatre sono le storie di quella comunità in quel momento, nel suo qui ed ora, storie profondamente umane, perché raccontano di temi comuni a tutti noi, l’amore, il dolore, la separazione, la malattia, la morte, la migrazione, le cose possibili o le cose impossibili, la vita, la natura, la bellezza. Il flamenco e il 10 tango, a loro modo, e con diversi strumenti, celebrano le storie delle loro comunità, cantandole o danzandole, e dando loro memoria eterna. Non si tratta mai dunque di una qualsiasi comunità, ma del nostro paese e del nostro vicinato, della casa in cui noi viviamo. Gli attori e i protagonisti di queste forme d’arte non sono una qualsiasi gente, gente in abstracto, ma la nostra gente, i nostri padri e madri, fratelli e sorelle, amici e vicini. E i drammi di cui si narra in queste storie sono quelli che nascono nella vita di ogni giorno, nell’animo della gente semplice. La scoperta di questo magico tessuto che unisce storie lontane mi ha affascinata fin da subito, e il significato profondo del fare playback, del ballare un tango o essere nel mezzo di una fiesta flamenca, per me risiede in questo: dare dignità alle storie, riceverle, viverle e renderle eterne, permettendo loro di diventare memoria implicita e corporea. 3.2. Improvvisazione ed essenzialità Durante una performance di Playback Theatre si improvvisa, mentre si balla un tango si improvvisa, mentre si esegue una pataíta por bulería (sequenza tipica durante una festa popolare flamenca) si improvvisa! Oggi conosciamo il flamenco soprattutto grazie alla sua presenza nei teatri, dove spesso il ruolo del bailaor/a (ballerina/o) è in primo piano, e proprio in virtù di ciò si pensa spesso che l'essenza del flamenco sia la danza. In realtà l’anima primordiale del flamenco è il cante, ovvero il canto senza musica, la chitarra e la danza si aggiungono solo in seguito. Il teatro e le compagnie di flamenco ben educate e stilisticamente perfette, rappresentano il gradino ultimo dell’evoluzione del flamenco, che nacque invece come espressione popolare all’interno di un contesto molto simile alla festa di famiglia (juerga). Qui, il cantaor improvvisa (nel senso che talvolta inventa, talvolta attinge da un repertorio ma dando un’interpretazione propria) una sequenza di letras (testi) o coplas (strofe), che si possono susseguire a suo piacimento. Ogni letra è un mondo a parte per significato e melodia e la partecipazione del pubblico presente (jaleo) dimostra l'apprezzamento per l'intensità di esecuzione di una particolare letra famosa o ricercata. Quando il cantaor canta affinchè qualcuno possa ballare sulla sua musica, la scelta delle letras è più obbligata, ma anche qui una dose di improvvisazione è presente grazie all'interazione degli artisti sul palco. Per quanto riguarda la danza, essa ha una natura solistica (da sfatare l’immagine scolpita in molte menti del flamenco come ballo di coppia) ed è caratterizzata da una buona dose di improvvisazione in cui il ballerino è comunque coreografo della propria esibizione, dovendosi però muovere in sinergia con il cante e il toque (chitarra). Naturalmente più il contesto coinvolge un numero maggiore di persone, strumenti musicali e ballerini (come avviene in teatro) più si ha l’esigenza di coreografie condivise, facendo in modo che i momenti di improvvisazione siano ridotti. Il flamenco nella sua accezione più antica è dunque improvvisazione allo stato puro, solo successivamente si è “addomesticato”, diventando qualcosa di estremamente complesso dal punto di vista ritmico. Allo stesso modo, il tango argentino vede la nascita in primo luogo del canto, ovvero strofe e filastrocche inerenti le storie d’amore e solitudine degli immigrati italiani nel primo dopoguerra, 11 improvvisate sul momento e poi diventate repertorio. Nel cantare tango però si improvvisa sempre, in quanto ci si imbatte frequentemente in molte versioni di uno stesso brano a seconda del cantante o orchestra. La voce viene accompagnata dal ritmo del bandoneón (strumento a mantice simile alla fisarmonica) e da altri strumenti quali la chitarra, il violino e il contrabbasso, introdotti solo in recentemente. Il ritmo stesso e l’esigenza di creare “un pensiero che si balla” portano alla nascita del tango ballato, un ballo basato sull'improvvisazione, caratterizzato da eleganza e passionalità. Il passo base del tango è il passo in sé, dove per passo s'intende il normale passo di una camminata. La posizione di ballo è un abbraccio frontale più o meno asimmetrico, a seconda dello stile, in cui l'uomo con la destra cinge la schiena della propria ballerina e con la sinistra le tiene la mano. Poche regole semplici dettano i limiti dell'improvvisazione: l'uomo guida, la donna segue. Il sistema delle proposte valido sul palco del Playback Theatre, tale per cui un attore fa una proposta scenica/corporea/sonora e gli altri seguono secondo la logica del “dai sì dai” è più che mai vera nel tango, dove fondamentalmente è l'uomo che chiede con un linguaggio puramente corporeo alla propria ballerina di cambiare posizione. Sia nel flamenco sia nel tango argentino largo spazio è lasciato all’improvvisazione, così come nel Playback Theatre, intendendo per improvvisazione un qualcosa che avviene in modo spontaneo, seguendo la creatività incarnata in ognuno di noi, ma all’interno di un codice condiviso dagli attori della performance. Ad esempio durante una tipica juerga flamenca (festa popolare, in famiglia allargata) tutto avviene in forma improvvisata, il cantaor decide quando e cosa cantare, il chitarrista può intervenire o meno lasciando al cante spazio per un assolo, talvolta è solo la chitarra a fare da protagonista con un virtuosismo stilistico chiamato falseta, talvolta è solo il bailaor/a ad avere la prima parola imponendo un ritmo con il suono percussivo dei piedi (esegue un zapateado, ovvero una sequenza di suoni). Tale battito dei piedi serve per introdurre e omaggiare il cante (llamada) o per sottolineare la fine di un verso o di una letra (remate) oppure per eseguire dei veri e propri assoli ritmici (escobilla). L’avvicendamento di tutto questo schema operativo può essere molto rapido, o durare moltissimo, perché il cantaor decide di allungare i versi, o il bailaor/a di allungare la sua parte di assolo di piedi, o il chitarrista decide di fare un altro giro di chitarra. Questo, più o meno, potrebbe essere un tipico scenario da Playback Theatre, in cui ognuno ha un ruolo, che si prende o gli viene attribuito, e rimane all’interno di tale ruolo un tempo a volte troppo breve che non consente sviluppi, o un tempo troppo lungo, per cui poi è difficile “svestirsi” del ruolo. In ogni improvvisazione, il tempo fa da padrone, e il tempo percepito, o tempo interno, è spesso diverso dal tempo dell’azione scenica. Quando si riesce ad essere sincroni e a vivere il tempo sul palco in modo armonioso, ecco che l’improvvisazione diventa fluida, autentica, si nutre di quello che è presente sulla scena e non ha bisogno di artifici retorici. Quando ciò accade, gli attori visti dal di fuori sembrano quasi in trance, e il pubblico spesso utilizza la parola “magia” per definire ciò che ha visto, e si chiede come ciò sia possibile. Effettivamente ciò accade non solo oggi, ma così fu anche nel 1922, quando J.L. Moreno diede avvio a Vienna allo Stegreiftheater, il teatro della spontaneità. In questa attività teatrale gli attori mettevano in scena pièces improvvisate su temi suggeriti dal pubblico o scelti dagli stessi attori. L’impatto di queste rappresentazioni era così realistico che spesso il pubblico non credeva che fossero realmente improvvisate. Per quest’ultimo motivo Moreno ideò il 12 giornale vivente, che consisteva nella messa in scena delle ultime notizie tratte dai giornali, in modo che non si potesse dubitare della reale improvvisazione degli attori. Moreno definì impromtu theatre (teatro improvvisato) questa forma di teatro che, basandosi sulla spontaneità (sinonimo in questo caso di improvvisazione), metteva in scena in tempo reale i temi di attualità ed i contenuti proposti dal pubblico. L’essere umano è dotato di spontaneità, ovvero la caratteristica, il fatto di essere spontaneo e non calcolato o affettato; come tendenza abituale a comportarsi con naturale franchezza e immediatezza, senza finzioni e senza falsi ritegni (“la dote migliore di una persona è la spontaneità”, citano alcuni proverbi popolari). Questa dote, ben conosciuta e nota a tutti noi, è il terreno fertile che favorisce lo sviluppo della creatività, intesa come capacità di creare con l’intelletto e la fantasia, e di reagire in modo adeguato a una situazione imprevista. La spontaneità e la creatività prendono forma attraverso l’azione, interpretazione scenica improvvisata. L’azione è ciò che il pubblico percepisce: il livello di spontaneità può essere altissimo in ognuno di noi, ma deve poi concretizzarsi e manifestarsi attraverso un’azione scenica. Talvolta accade che il controllo, nemico della spontaneità, tiranneggia le nostre azioni, le blocca e le congela in una serie di comportamenti rigidi e stereotipati: in questi casi è difficile che ciò che accade sul palco venga percepito come fluido o magico. Quando però la creatività e il sentire di ognuno di noi incontrano quella del gruppo, all’interno di un tempo che è condiviso, e con una sufficiente dose di empatia, ecco che la magia avviene. Alla fine di una performance, o di un eccezionale tango ballato senza mai aprire gli occhi, ci si sente proprio nella dimensione del magico. Quando tra una coppia che balla o tra i performers sul palco la comunicazione non-verbale (intra e inter personale), il contatto fisico e oculare, la complicità ed il gioco, la prossimità, il contatto funzionano in armonia, si ha l’impressione che si tratti di un solo corpo che fluttua nell’aria, come spesso accade durante un coro o una scultura fluida. Un bel tango non è necessariamente caratterizzato da molte figure. Ridurre il tango a un susseguirsi di figure (o una performance di Playback Theatre a un susseguirsi di forme espressive) è un grave errore. Il tango e il Playback Theatre sono costruiti nel momento stesso del ballo (o della performance), attraverso l'improvvisazione e la comunicazione tra i ballerini/performers, nella gestione dello spazio e del tempo a disposizione. L’improvvisazione avviene, per definizione, nel qui ed ora. Fondamentali dunque, nel Playback Theatre, così come nel flamenco e nel tango argentino, il sentire personale che consente l’innescarsi del processo spontaneità-creatività; ma, allo stesso tempo, vi è l’esigenza di un “sentire con”, nel senso di essere con gli altri membri del gruppo, o con il partner, affinché i corpi e le corde delle nostre anime possano vibrare all’unisono. La bacchetta magica non esiste, si tratta di un lavoro di sintonizzazione affettiva ed emozionale, che richiede tempo e non poche risorse personali, dal momento che una spontaneità esplosiva non è pensabile né fattibile: questo perché il terzo elemento necessario, oltre alla spontaneità e creatività, è il rituale, quella cornice che racchiude e contiene, e permette la creazione di un contesto sicuro all’interno di cui il fattore S-C può manifestarsi. Il prossimo paragrafo è dedicato proprio al processo rituale. 13 3.3. Il rituale Prima di salire sul palco, gli attori di Playback Theatre si abbigliano allo stesso modo, forse gridano e potrebbero sembrare idioti a chi li guarda da fuori: stanno svolgendo il loro rituale. Quando il primo narratore tra il pubblico esprime e condivide qualcosa di sé, il conduttore pronuncia la frase rituale che dà il via alla scena: “Guardiamo”, “Let’s watch”. Prima di ballare con qualsiasi uomo che la inviti in milonga, una donna scruta i movimenti degli uomini in pista; prima di invitare una donna a ballare, un uomo fa la stessa cosa: osserva i volti delle donne che ballano e i loro piedi scivolare sulla pista: entrambi svolgono un rituale. Poi arriva il cenno dell’uomo, lo sguardo della donna, l’avvicinamento, l’invito “Balli?”, “Bailas?”, “Shall we dance?”: il compimento di un rituale atavico nel mondo del tango. Prima di una festa flamenca, ci si addobba di uno scialle con le frange, una scarpa adatta e possibilmente un fiore in testa (clabel), chi canterà fa in modo di bere un bicchiere di vino in più in modo da avere una voce roca: elementi rituali. Prima di entrare a ballare in mezzo al cerchio della juerga, ci si fa notare, manifestando chiaramente la propria intenzione di “bailar al cante”: atteggiamento rituale. In tutte le culture si riscontrano rituali, come quelli di passaggio, di iniziazione, propiziatori, ricorrenti, che avevano la funzione, soprattutto in passato, di regolare la quotidianità, e le situazioni al di là di essa e pertanto imprevedibili. Nella società moderna hanno perso in parte questa funzione, ma son pur sempre vivi all’interno della vita del singolo, di un gruppo come la famiglia, della comunità a cui si appartiene. Il rituale può essere considerato una cornice, un frame che consente al contenuto di svilupparsi in un contesto sicuro. Tra le principali caratteristiche del rituale nel Playback Theatre, vi è il fatto che una performance è principalmente un evento pubblico, dove le dimensioni dell’interazione sociale e della possibile esposizione personale sono presenti fin dall’inizio. Anche nel mondo del flamenco e del tango (quello fuori dai teatri) tali elementi sono in sinergia. Proprio la cornice rituale svolge inizialmente il compito di rispondere al bisogno di protezione dei partecipanti,ed è inoltre fondamentale per garantire l’ordine sociale e un’interazione rispettosa tra i presenti. Cosa succederebbe se in milonga le donne si mettessero a invitare gli uomini? O se durante una performance di Playback Theatre un narratore del pubblico particolarmente gagliardo prendesse le redini della serata spiazzando il conduttore, svestendolo del suo ruolo e manipolando il gruppo? Succederebbero cose che sconvolgerebbero il setting, che porterebbero il disordine e una sensazione spiacevole di qualcosa che è andato storto. Per questo “stare dentro” al rituale, vissuto non come costrizione ma come possibilità, è davvero importante, in quanto offre la direzione, il senso, facendoci sentire sicuri perché definisce la cornice. Un grande margine di sorpresa esiste sempre, e il pubblico lo sperimenta soprattutto all’inizio della performance, dopo essere stato accolto e reso spettatore attivo quasi immediatamente. Nel Playback Theatre esiste una ritualità che definirei “di setting” o spaziale, e una ritualità che definirei “di processo”. Per quanto riguarda il setting, si tratta della predisposizione dei cinque elementi necessari allo svolgimento di una performance: 14 Conduttore: dove si posiziona durante la performance per svolgere il suo ruolo (necessario mettere una sedia utile per il momento delle storie, su cui il conduttore si siederà a fianco del narratore) Attori: quattro o cinque cubi sul palco per far sedere gli attori Musicista: come posizionare il musicista affinché risulti visibile al pubblico ma che possa a sua volta interagire con gli attori (vedere e sentire ciò che accade sul palco) Narratore: la posizione della sedia per il narratore quando si alza per narrare una storia Pubblico: come situare il pubblico, in modo che sia comodo, partecipe ed emotivamente vicino alla scena (risulta talvolta difficile svolgere eventi di Playback Theatre in teatri molto grandi o spazi aperti). Qualora la compagnia usasse i medium (oggetti utili per lo sviluppo di azioni sceniche, come teli colorati o altri oggetti) è opportuno definire dove collocarli in prossimità del palco. La stessa ritualità “di setting” può essere individuata nel mondo degli eventi flamenchi o tangueri: posizionare le sedie per chi suonerà la chitarra o chi canterà, le luci adeguate per la milonga e favorire l’incontro tra i ballerini, la disposizione di tavoli, l’abbigliamento di cui ognuno si cura. Il setting è la conditio sine qua non il processo rituale non può iniziare. Ciò che mi ha affascinato moltissimo, e che ritengo essere un punto in comune tra questi tre grandi protagonisti della mia vita, è la circolarità come elemento di rituale: si parte da un punto, per raggiungerne un altro, poi un altro ancora, poi nuovamente il punto partenza. Ma solo la forma rimane uguale, il contenuto cambia sempre, e il secondo punto di partenza raggiunto non è mai uguale al primo. Quando dopo il primo narratore arriva il secondo, la formula sarà più o simile: il conduttore invita il narratore a parlare, chiede qualche informazione in più se ne ha bisogno, decide la forma espressiva che sente più appropriata e la lancia con il “guardiamo”. La cornice rituale si ripete, ma il contenuto delle narrazioni è un nuovo viaggio ogni volta. Un po’ allo stesso modo, quando si è finita la prima sequenza di tangos con un partner, vi sarà un nuovo cenno da parte dell’uomo (cabeceo), un nuovo sguardo (mirada), un nuovo invito, un nuovo ballo. Lo stesso rituale, ma un nuovo viaggio completamente diverso dal precedente! L’applauso spezza il ritmo tra un narratore e l’altro e ricrea quel clima caldo e confidenziale per il ripresentarsi di una nuova storia (nel Playback Theatre), la cortina (un brano musicale di genere diverso da quelli del tango) consente di sciogliere, senza creare situazioni imbarazzanti, la coppia che ha appena ballato la sequenza di tangos, chiamata tanda. Durante questo momento, la coppia si può brevemente presentare, poi però, essendo il linguaggio del corpo prerogativa del tango, durante la durata del ballo, la coppia non comunica con le parole, e riprende nuovamente a ballare in religioso silenzio, e così via fino alla fine della tanda stessa. Poche e semplici regole governano una milonga (si balla solo in senso antiorario, una sola persona nella coppia, tendenzialmente l’uomo, ha la funzione di leader), una juerga flamenca (dare un chiaro segnale quando si entra a ballare e quando si vuole uscire, chiedendo a chi canta di intonare una strofa per uscire dal cerchio e tornare al proprio posto), e una performance di Playback Theatre. Tali regole consentono l’instaurarsi un clima di fiducia, e la consapevolezza di chi ha il ruolo di condurre e di essere condotto. Nel tango argentino il leader 15 sa di dover condurre, il che non ha nulla di maschilista, dal momento che ci vuole tanta forza (e fiducia) nel condurre, quanta ce ne vuole nel lasciarsi condurre. L’uomo guida, ha la responsabilità di portare la dama in giro per la sala, facendola divertire, stare bene e, allo stesso tempo, di proteggerla e di controllare che ciò la circonda non le sia di ostacolo o di rischio. La dama segue, ascolta il corpo del compagno, non anticipa i suoi gesti, non lo rimprovera, né lo indirizza. Lei deve essere ricettiva, pronta, intensa, leggera ma non passiva…. L’uomo dipinge, lei è il capolavoro, oppure, come mi è stato insegnato a Buenos Aires, “lui dirige e lei è lo strumento”. Allo stesso modo gli attori si fidano del conduttore, del maestro di cerimonie, e si consegnano al suo buon sentire. Il pubblico fa altrettanto, e dopo aver rotto il ghiaccio attraverso il processo di accoglienza e di attivazione, spesso le narrazioni fluiscono una dopo l’altra. Anche nel Playback Theatre, ci si guarda, ci si “annusa”, ci si conosce come all’inizio di una milonga. Chiedere alle persone di alzarsi, di guardarsi, da dove vengono (sociometria) fa parte del processo rituale e serve proprio a generare il clima di fiducia necessario per proseguire insieme la performance. In questo momento, in cui il pubblico viene emotivamente “scaldato”, esso passa da essere spettatore passivo, a spettatore attivo che diventa partecipante e poi narratore in prima persona di un vissuto. Possono così essere raccolte le prime parole dal pubblico, e immediatamente riviste sulla scena attraverso le forme espressive. Ogni forma espressiva è essa stessa un piccolo rituale: gli attori si alzano, per un attimo si congelano nella postura in piedi, poi secondo regole condivise e dettate dal tipo di forma scelta, occupano la scena ed esprimono col corpo, suoni o parole ciò che sentono ed esperiscono in merito a quella narrazione. Il contenuto portato da ogni attore è sempre improvvisato e spontaneo, ma la forma è prestabilita ed è scelta dal conduttore. Conclusa l’azione scenica, il conduttore torna sempre al narratore, chiedendo un rimando di ciò che ha visto (riconoscimento) e proponendo l’applauso per ringraziare chi ha narrato di aver condiviso qualcosa di sé. Poi arrivano nuovi vissuti, fino al generarsi di un clima tale per cui è possibile fare un passo oltre e accogliere la prima storia, invitando il narratore ad alzarsi dal pubblico e occupare una nuova posizione nello spazio: la sedia del narratore. Il rituale consente di fare tutto ciò senza forzature, in quanto naturale evoluzione del processo. Il narratore godrà la messa in scena da vicino, potendo anche effettuare una scelta degli attori, ovvero chi interpreterà il suo ruolo sul palco. Il conduttore accompagna la narrazione con delicate domande, silenzi, spazi aperti e conclude con la frase rituale “Guardiamo”. Ancora una volta, il rituale: gli attori si alzano, preparano la scena, vivono la storia, concludono guardando il narratore in segno di riconoscimento, e il conduttore chiede al narratore una restituzione. Dopo l’applauso il narratore torna a sedersi e viene posta un’altra domanda rituale: “Chi ha un’altra storia?”. Viene lasciato ad altre storie, il cui numero dipende dal tempo, dal clima percepito e da altre variabili, e infine si conclude chiedendo al pubblico qualche parola che possa riassumere l’esperienza vissuta insieme. Una forma espressiva conclusiva offre un riepilogo corporeo e non-verbale del processo e del percorso fatto. Spesso vi è poi un “terzo tempo” in cui il pubblico si avvicina agli attori, ricercando un contatto fisico come una stretta di mano, o esprimendo un vissuto in merito a ciò che hanno visto sul palco. La musica ha un peso fondamentale, nel rendere tutto il processo semplicemente più bello, dialogando con gli attori, riempiendo i vuoti, aiutando i pieni ad essere ancora più pieni, 16 curando i momenti di empasse con saggi interventi musicali, sottolineando le emozioni, il crescendo, gli stop. 3.4. Tre, il numero perfetto più uno Vorrei introdurre in questo ultimo paragrafo dedicato agli elementi comuni da me riscontrati a quel quarto attore, colui che entrò in scena con una sola azione come a voler abbracciare ed avvolgere i tre elementi già presenti sulla scena: il Flamenco, il Playback Theatre e il Tango Argentino. Si tratta di qualcuno che rende possibile il processo e lo stare insieme: si tratta del pubblico, un pubblico che ha la funzione particolare di essere dentro al processo, perché ascolta, guarda, osserva ciò che accade, ma soprattutto è partecipe in modo attivo,e per questa ragione lo definirei insieme di spettatori-partecipanti più che pubblico, termine che rimanda al pubblico concepito nel teatro classico come elemento passivo. Nel flamenco, chi è coinvolto all’interno della juerga (festa popolare flamenca), anche se non sta ballando né cantando, emette continuamente suoni di approvazione di ciò che accade, scherza, sostiene gli artisti, è non assolutamente escluso dalla scena solo perché non è in scena. Tale forma di incitamento, chiamata jaleo, è antichissima nella storia del flamenco e fondamentale affinché una festa sia veramente viva. Oltre ai tre grandi protagonisti della scena flamenca (cantaor, bailaor, guitarrista), troviamo dunque un quarto attore, il pubblicopartecipante. Nel mondo del tango argentino, oltre ai due partner e al musicista dal vivo (o dj nelle versioni più moderne), troviamo di nuovo il quarto attore: coloro che sono in milonga, per essere spettatori, o per ballare e partecipare alle danze, costituendo un ambiente propizio e un clima di famigliarità per chi balla al centro della pista. Sia nel primo che nel secondo caso, le persone sono disposte a cerchio attorno a chi si esibisce, figura che racchiude e protegge. Anche nel Playback Theatre, oltre ai tre elementi in scena (conduttore, attori, musicista), vi è un quarto attore, senza il quale la performance e l’esistenza stessa del Playback Theatre sarebbero impossibili: il pubblico di spettatori-narratori, testimoni del processo, partecipi o direttamente attraverso le narrazioni personali, o indirettamente, come ascoltatori delle storie di altri. Come afferma Jonathan Fox, a differenza del teatro occidentale moderno, che è molto tecnico e ha bisogno di uno spazio adatto, nel teatro primitivo, come quello nepalese, ci si focalizza sul creare un’atmosfera, e ogni posto va bene. L’ambiente e le persone presenti interagiscono, e si genera quel momento magico all’interno del quale tutti insieme partecipano all’evento. “Qualsiasi luogo può essere adatto. L’importante è stare vicini come nel teatro primitivo” (Fox in Verri, 1996, pp. 172-173). La creazione di un environment adatto e propizio affinché il rituale potesse avere inizio è sempre stata una buona prassi per le feste di flamenco o tango che sorgevano spontaneamente nei cortili delle case delle famiglie, o nelle strade dei quartieri popolari. Lo stesso accade prima di una performance di Playback Theatre, in cui si cerca di predisporre un setting spaziale e un’atmosfera per facilitare il processo di avvicinamento tra pubblico e performers. L’importante, appunto, è stare vicini: per questa ragione il Playback Theatre ha senso in un contesto protetto, in cui l’interazione sia davvero possibile. Infatti esso si può realizzare in qualunque luogo, a condizione di creare un’atmosfera adeguata e magica. La comunità stessa che si crea attorno all’evento, prende vita, e attraverso la ritualità entra spontaneamente a far parte di esso: per questo al termine dell’evento, sempre si ringraziano i presenti per aver partecipato con le loro storie. 17 Flamenco Cante Tango Baile Argentino Fiesta flamenca (Juerga) Guitarra Playback Theatre Musica Orchestra milonguera Partner 1 Milonga Partner 2 Attori/ Performers Tre attori in scena, più uno Musicista Pubblico (testimone e narratore) Conduttore 18 4. Italia, Spagna, Argentina, India: un esperimento di oggi I tre grandi incontri della mia vita corrispondono a tre momenti molto importanti della mia vita: il flamenco, incontrato in Spagna durante un’esperienza di studio Erasmus presso la facoltà di Granada. Tornata in Italia, e vivendo un forte sentimento di perdita verso tutto ciò che avevo vissuto in terra andalusa, non avevo altra scelta: imparare a ballare era l’unico modo per tenere vivi quei ricordi e quelle emozioni. Con il Playback Theatre è avvenuta una sorta di magia, nel senso che ne sono stata davvero stregata. Arrivai al Playback Theatre attraverso un’esperienza altrettanto importante che stavo facendo in Psicologia delle Emergenze, prestando servizio volontario presso la Croce Verde, nel soccorso a persone coinvolte da eventi traumatici. Lì conobbi uno dei formatori della Scuola di Torino e fui invitata alla prima performance, dove i colori dei teli sul palco e l’autenticità di quello che accadeva mi lasciarono col nodo alla gola. E fu così che iniziai la scuola, tra “sabotaggi”, interruzioni e momenti di grande coinvolgimento. L’anno scorso realizzai il mio sogno: vivere e lavorare a Buenos Aires attraverso un’esperienza di servizio civile volontario, e così fu. Il tango arrivò semplicemente nella mia vita grazie a un uomo indiano incontrato durante il Festival Mondiale del Tango. Iniziai a ballare, senza scuole, né regole, ma semplicemente andando in milonga, e godendone al pari di una festa popolare con ballo a palchetto. Oggi tutti questi elementi fanno parte di me, e qui in India ho incontrato un gruppo di tangueros indiani davvero molto coinvolti e appassionati. Ho pensato dunque di realizzare con loro un workshop in cui, più che ballare tango, si fa play-tango, ovvero si gioca con il tango, ci si incontra e si improvvisa. Hanno partecipato 12 persone, di cui molti indiani provenienti dal mondo del tango, e altri due amici italiani digiuni di tango. Abbiamo iniziato con una presentazione dei nostri nomi con suono-movimento. Inizialmente il gelo: culturalmente gli indiani sono molto poco propensi ad abbracciare, ridere, esprimere i sentimenti ed essere corporei. La fatica è stata spiegare loro che potevano creare il loro personale nome con suono e movimento associati, e non copiare quello che avevo fatto io. La gerarchia nel mondo del lavoro, in famiglia, nei contesti di apprendimento è fondamentale e scrollarmi di dosso il ruolo di “insegnante di teatro”, e vestirmi di quello di facilitatore non è stato semplicissimo all’inizio del workshop. Dopo questo warming-up di conoscenza reciproca, ho proposto un lavoro di semplice camminata, durante la quale si fa un breve pezzo di viaggio insieme quando si incontra qualcun altro. Vi sono state diverse varianti, come ad esempio camminare con le schiene attaccate, dandosi la mano, uno ad occhi chiusi e l’altro guidando, connettendosi l’un con l’altro solo attraverso una parte del corpo da me indicata (hard job!). Poi ho proposto di riunirci in cerchio, chiudere gli occhi, trovare un’altra mano e formare delle coppie. Il lavoro in questo momento si è sviluppato in modo più profondo, molti erano perplessi, ma poi il mio occhio di osservatore-partecipante (mi sono spesso inclusa nelle attività perché sentivo che la mia presenza era richiesta in modo da facilitare il processo) li ha visti davvero divertirsi e liberarsi molto dal punto di vista del corpo. Ho proposto alcuni semplici lavoro in cui nella coppia uno conduce e l’altro segue, usando la tecnica dello specchio, della mano che come un magnete attrae e guida l’altro, e del 19 movimento generato solo dall’ombelico come unico centro che abbiamo per condurre l’altro. Dopo le prime indicazioni su chi fosse a condurre nella coppia, sono stati lasciati liberi di sperimentare il cambio del ruolo, con i loro tempi, senza decidere chi fosse il leader, invitandoli anche a sperimentare il cambio di velocità e intensità. Il lavoro a coppia si è poi trasformato in un gioco di specchio collettivo in cui ognuno nel gruppo poteva essere leader e guidare gli altri, che seguivano il suono movimento. Questi tre elementi (mirror – hand like a magnet – belly botton) sono stati mischiati al tango, arrivando alla fine del workshop a una danza che si componeva di tutto questo, in cui i partecipanti, improvvisando, passavano da un tipo di contatto all’altro. Sono stati introdotti alcuni concetti molto basici di Playback Theatre, mostrando loro la scultura fluida, e raccogliendo le emozioni che il tango suscita in noi quando balliamo, per poi vederla sulla scena. Passione, empatia, attrazione, sincronia, eleganza, pace…. ciò che è stato narrato. Alla fine del workshop abbiamo cercato di ripercorrere e filmare le tappe del lavoro fatto insieme: questo incontro di play-tango confluisce nel prodotto creativo finale, e cerca di mostrare l’incontro, totalmente improvvisato, tra il tango argentino e il Playback Theatre. 20 5. Conclusioni Ciò che ha ispirato questo elaborato è stata un’esigenza molto personale di mettere insieme i pezzi, trovare il mio personale filo rosso tra le molteplici esperienze vissute, in un momento in cui continuo ad essere “vagabonda” e sentivo una forte spinta a trovare la connessione tra la storia di quel primo attore (incontrato orami quasi dieci anni fa a Granada), la storia del secondo attore (incontrato in via San Domenico 16 a Torino, che compare e scompare nella mia vita, ma è sempre vivo nel cuore e nella voglia di tornare ad incontrarlo), la storia del terzo attore (incontrato a Buenos Aires in tempi recenti) e la storia del quarto attore (tutti coloro che ho incontrato grazie alle feste di flamenco, alla danza, alle milongas, al pubblico e alle collaborazioni che il Playback Theatre ha portato). Tutte queste esperienze hanno comportato gioia, entusiasmo e arricchimento ma anche dolore per la separazione e alcune di esse, pur lontanissime a livello cronologico, hanno lasciato forti segni dentro di me e mi hanno cambiata profondamente. Il Playback Theatre, tra tutti, ha avuto un grande potere trasformativo su di me, forse perché il terreno sottostante era fertile e pronto a ricevere. Il mio filo rosso oggi è l’amore. Un amore per la spontaneità, per l’essere come sono anche se ritenuta estremamente pazza e instabile da molti conoscenti, un amore per la ricerca dell’essenza umana e di cosa mi fa star bene. Un amore che non necessariamente deve essere quello tra uomo e donna, ma può essere l’amore che circola all’interno di un gruppo intrecciato, un amore che può durare pochi secondi ma che è infinito durante l’abbraccio di un tango, un amore che è ancora incompleto e chiede di più. Come dice Jonathan Fox stesso: “Per me, la cosa più importante è creare un teatro che non sia né sentimentale, né demoniaco, né ermetico né di confronto, ma in definitiva un teatro d’amore” (J. Fox, 1994, pag. 216). Il messaggio del Playback Theatre, per me, è proprio un messaggio di amore, di cura, di empatia e di ricostruzione di un’armonia corporea dentro di sé e con gli altri. Il tango, oltre che passionalità, attrazione e forte coinvolgimento, diffonde il messaggio dell'abbraccio come simbolo di pace. L’essenza di questo ballo infatti è l’abbraccio, e all’inizio viene insegnato a camminare insieme in sintonia e semplicemente ad abbracciarsi. Il flamenco è stato per me un tema di vita connesso alle radici e alla terra; radici e radicamento che bisogna aver nel ballo e radicamento che mi piacerebbe avere nella vita. Dando vita ai miei tre grandi “amori” attraverso questo elaborato, mettendoli in connessione e facendoli dialogare, mi è stato possibile attribuire ad essi la giusta importanza che rivestono nella mia vita, dando loro un ruolo di presenza e di fondamentali compagni di viaggio. 21 6. Bibliografia & Sitografia Candelori, N. & Fiandrotti Diaz, E. 1998. Il Flamenco. Xenia Tascabili. Dotti, G. 2006. Storie di vita in scena. Il teatro di improvvisazione al servizio del singolo, del gruppo, della comunità. Ananke. Fox, J. 1994. Acts of service – Spontaneity, Commitment, Tradition in the Nonscripted Theatre. Tusitala, New York Verri, L. 1996. Dallo psicodramma di J.L. Moreno al Playback Theatre di J. Fox. Tesi di laurea, Università degli Studi di Parma. www.coralarteflamenco.org www.psicolab.com/il tango dell’amore www.wikipedia.org www.playback-theatre.org 22