Una brutta avventura

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I GENERI: IL RACCONTO fantasy
Timothée de Fombelle
Una brutta avventura
Tobia è un bambino di sette anni e appartiene a un popolo di minuscoli
uomini che abitano su una quercia centenaria. La sua famiglia è perseguitata perché il padre – che è un valente scienziato – si è rifiutato di rivelare
alcune scoperte fatte: Tobia è sfuggito alla cattura ma ora è inseguito e, per
salvarsi, si nasconde tra le fessure della corteccia della quercia.
1 li: si riferisce agli insegnanti di Tobia.
Tobia era alto un millimetro e mezzo. Non molto per la sua età. Soltanto la punta dei piedi spuntava dal buco nella corteccia. Il ragazzo
era immobile. La notte lo copriva come un mantello. Tobia era rannicchiato in una fessura della corteccia, una gamba malconcia, entrambe le spalle ferite e tagliate, i capelli intrisi di sangue. Le mani gli
bruciavano per via delle spine e non sentiva più il resto del corpo,
intorpidito dal dolore e dalla fatica.
Fissava il cielo con la stessa forza con cui un bambino stringe la mano
dei genitori, alla festa dei fiori. E per non distrarsi si ripeteva: “Se
chiudo gli occhi, muoio.”
Ma i suoi occhi restavano spalancati in fondo a due laghi di lacrime
dense.
In quel momento esatto li1 sentì arrivare. E la paura ripiombò su di
lui, all’istante. Erano in quattro. Tre adulti e un bambino. Il bambino
teneva la torcia che rischiarava il cammino.
«Non è lontano, lo so che non è lontano.»
«Bisogna prenderlo. Deve pagare anche lui. Come i suoi genitori.»
Gli occhi del terzo uomo emettevano un bagliore giallo nella notte.
L’uomo sputò e disse:
«Lo prendiamo, stai tranquillo. Vedrai che gliela facciamo pagare.»
Tobia avrebbe tanto voluto svegliarsi e uscire da quell’orribile incubo,
correre verso il letto dei suoi genitori e piangere, piangere... Tobia
avrebbe voluto che uno di loro lo accompagnasse in pigiama nella
cucina illuminata, e che gli preparasse un bicchiere di acqua e miele
ben caldo, con qualche biscottino, e gli dicesse: “È tutto finito, Tobia,
è finito...”.
Invece era lì, in quel buco, che tremava come una foglia, che cercava
di ritrarre il più possibile le gambe troppo lunghe, per nasconderle.
Tobia, tredici anni, inseguito da un intero popolo... il suo popolo. “Ti
prenderemo! Ti prenderemo, Tobia!”
Le voci riecheggiavano di ramo in ramo. “Ti prenderemo, Tobia!”
Il gruppetto di inseguitori si avvicinava battendo la corteccia con bastoni appuntiti, che i quattro conficcavano in crepe e fessure. Stavano
cercando Tobia con lo stesso sistema della caccia alle termiti, che avveniva una volta all’anno, quando, in primavera, padri e figli partiva-
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no all’inseguimento dei pericolosi animali, spingendosi fino ai rami
più lontani.
«Lo tiro fuori io dal buco in cui si è cacciato.»
La voce che pronunciò quella frase era vicina, tanto che Tobia ebbe
l’impressione di sentire il tepore del fiato su di sé. Non si mosse più.
Non osò neppure chiudere gli occhi. I colpi di bastone calavano verso
di lui nell’oscurità resa meno tenebrosa dai riflessi del fuoco.
Il bastone acuminato si abbatté con violenza a un dito dalla faccia
del ragazzino. Il piccolo corpo di Tobia era irrigidito dal terrore, ma
lui teneva comunque gli occhi fissi, aggrappati a quel cielo che qua
e là riappariva tra le ombre dei cacciatori. Stavolta lo prendevano.
Era finita.
Di colpo la notte ripiombò su di lui e un grido incollerito squarciò il
silenzio:
«Ehi, Leo! Perché hai spento la torcia?»
«Mi è caduta. Scusate, mi è scappata di mano...»
«Imbecille!»
L’unica torcia disponibile si era spenta e le ricerche dovevano proseguire nel buio della notte nera.
«Be’, non sarà un piccolo contrattempo a farci rinunciare. Tanto lo
troviamo lo stesso!»
Un secondo uomo aveva raggiunto il primo e frugava con le mani
nelle fenditure della corteccia. Tobia sentiva l’aria smossa dal movimento di quelle mani così vicine. Il secondo uomo aveva sicuramente bevuto, perché puzzava di alcol e i suoi gesti erano violenti e disordinati.
«Lo prendo io, con queste mani. E poi lo faccio a pezzi.»
Il compagno rideva e diceva al terzo cacciatore:
«Quello non cambierà mai! Pensa che ha fatto fuori quaranta termiti,
in primavera!»
Già, consideravano Tobia peggio di una termite, e l’avrebbero di certo
ucciso con le lance e con il fuoco, quando l’avessero trovato.
Due ombre lo sovrastavano, ormai. Non c’era scampo, nulla più poteva salvarlo. Tobia rischiò per un attimo di distogliere lo sguardo da
quel cielo che gli dava forza. Vide il bastone scendere su di lui, scartò
di lato con uno scatto inatteso e il cacciatore sotto la punta non sentì altro che il legno dell’albero. Ma l’altro uomo aveva già affondato
il braccio nel buco.
Tobia aveva gli occhi pieni di lacrime. L’uomo gli mise addosso la
mano enorme, si fermò, poi la spostò un po’ più verso l’alto, verso il
viso.
Fu allora che, stranamente, il ragazzino sentì la paura che se ne andava. Un grande senso di pace risaliva lungo il corpo. E addirittura un
pallido sorriso gli illuminava le labbra quando sentì la terribile voce
dire in un sussurro compiaciuto:
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«Ce l’ho. L’ho preso.»
Tutt’intorno cadde il silenzio.
Gli altri cacciatori si avvicinarono.
Tobia aveva avuto l’impressione che gli venisse stracciato un indumento. Ma dopo un momento poche parole risuonarono in un silenzio di ghiaccio:
«Corteccia, è solo un pezzo di corteccia.»
Già, l’uomo tendeva ai compagni un brandello di corteccia.
«Ah, ah! Vi ho fregato! È ovvio che non è qui! Ormai starà galoppando verso i Rami Bassi. Lo prendiamo domani!»
Un mugugno di delusione sfuggì a tutti i componenti del gruppetto,
che rivolsero qualche insulto a quello che aveva finto di avere scovato il fuggiasco. Le ombre si allontanarono frettolosamente come una
nuvola triste e l’eco delle voci si spense.
Il silenzio ricadde intorno al ragazzino.
T. de Fombelle, Tobia. Un millimetro e mezzo di coraggio,
trad. di M. Bastanzetti, Edizioni San Paolo
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