PER IL DIALOGO VENT'ANNI DI CAMMINO FATTO INSIEME nel gruppo di dialogo «Ebrei e Cristiani» presso il Comitato centrale dei cattolici tedeschi * INTRODUZIONE Come studente di teologia nel Collegio Germanico ho vissu­ to molto da vicino il Concilio Vaticano II, il nuovo grande orien­ tamento della Chiesa cattolica in questo secolo. Ho visitato allora per la prima volta una sinagoga, ho sentito parlare di Elio Toaff, ho visto per la prima volta degli ebrei e li ho sentiti riflettere sulla loro storia. Ho seguito nel suo drammatico svolgimento la svolta fondamentale nel rapporto della Chiesa cattolica con i suoi «fra­ telli maggiori», come papa Giovanni XXIII chiamava gli ebrei. Il significato di questo rapporto però l'ho capito soltanto anni do­ po, o meglio, ho cominciato a coglierlo nel 1971. In quell' anno è stato fondato presso il massimo organismo dei laici della Chiesa cattolica in Germania, il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, il gruppo di dialogo «Ebrei e Cristiani». li nostro Comitato centrale, che è molto meno conosciuto dei comi­ tati centrali dei partiti comunisti, pur essendo di piu antica data, si presenta al pubblico soprattutto attraverso i suoi grandi con­ gressi nazionali, chiamati Katholikentage. Negli ultimi anni vi hanno partecipato piu di 100.000 cattolici ed evangelici, di cui la maggior parte sotto i 30 anni. Il dialogo ebreo-cristiano, che viene preparato dal gruppo di dialogo, è da 20 anni parte integrante di questi convegni ed è * Discorso tenuto all' Associazione Amicizia Ebraico·Cristiana di Roma, il 12.1.1992. 58 Vent'anni di cammino fatto insieme molto frequentato. Il gruppo di dialogo, di cui in questo momen­ to fanno parte 12 ebrei e 28 cattolici, e di cui sono il moderatore dal 1974, non avvia soltanto dei dialoghi al Katholikentag e a dei convegni accademici, ma è di per sé dialogo intenso. Malgrado tutte le forze che, proprio in Germania, richiede questo dialogo così precario, non conosco nessun campo d'incontro e di rifles­ sione che mi abbia sfidato cOSI fortemente nella fede e arricchito cOSI tanto come questo. Da quando ci sono degli ebrei fra i miei amici non posso piu pensare, credere e pregare come una volta, non posso piu muovermi senza averli nel cuore. Oggi vorrei co­ municarvi qualcosa di quest'esperienza. Un po' schematicamente - perché le singole fasi si sovrappon­ gono - si può descrivere il processo del nostro lavoro con sei titoli: Informazione, Dialogo, Identità, Impegno, Esistenza, Politica. INFORMAZIONE Nei primi anni prevaleva negli interlocutori ebrei di fronte ai cristiani naturalmente l'interesse di togliere dei malintesi e l'igno­ ranza riguardo 1'ebraismo. Il pericolo di una «nuova Auschwitz» non sembrava eliminato. La fase iniziale si presentava spesso come un esame teologico sulla Dichiarazione conciliare Nostra Aetate. Non si temeva un anti-ebraismo diretto da parte della popolazione cristiana nel Paese ed ancor meno da parte dei membri del grup­ po. L'«esame» riguardava piuttosto le forme non-volute e poco ap­ pariscenti dell'anti-ebraismo. Per esempio veniva chiesto: «Cosa pensate dei farisei del tempo di Gesu, sono ipocriti? Cosa dite del rimprovero dell' omicidio di Dio? Ritenete antiquato l'AnticO Te­ stamento? Come cristiani reclamate un'etica piu alta, un'umanità piu sviluppata, un modo di credere migliore rispetto al nostro? Cosa pensate della distinzione: il Dio della giustizia come Dio de­ gli ebrei, il Dio dell' amore come Dio dei cristiani?». Anche se avevo seguito da vicino il cambiamento radicale del Concilio, dovevo constatare: tali domande mi mettevano spesso in imbarazzo, avevo soltanto cominciato a capire le conseguenze del Vent'anni di cammino fatto insieme 59 decreto conciliare Nostra Aetate. Questo processo di apprendi­ mento era molto salutare, e noi cristiani dovevamo fare in diverse varianti 1'esperienza sorprendente di renderci conto che definiva­ mo largamente la nostra identità cristiana a spese degli ebrei, im­ putando loro inconsciamente una inferiorità teologica ed etica. Siccome alcuni ebrei ci esponevano la loro identità, noi cristiani dovevamo correggere e completare sotto vari aspetti la nostra comprensione tradizionale dell' ebraismo, ed in seguito modificare anche la nostra identità. La fase dell'informazione richiedeva dun­ que un cambiamento profondo di pensiero. Perché la nostra presa di coscienza sull' ebraismo potesse estendersi nell' ambiente cristiano attraverso convegni accademici, congressi nazionali (Katholikentage) e un insegnamento diverso di religione e di storia, il gruppo ha dato l'impulso ad un progetto di ricerca all'Università di Freiburg sotto la guida del docente di pe­ dagogia della religione Giinter Biemer e dell' esegeta Peter Fiedler, per dare agli insegnanti cattolici di religione delle indicazioni ap­ propriate per il loro insegnamento. TI risultato è un manuale in quattro volumi Lernprozeft Christen Juden (Processo di apprendi­ mento ebrei cristiani, 1980 ss.). Un' altra conseguenza della necessità di informazioni autenti­ che sull' ebraismo sono stati due viaggi di studio in Israele (1975 e 1981) della presidenza del Comitato centrale con dei membri del gruppo di dialogo. Li potevamo conoscere la varietà e la vitalità dell' ebraismo, ma anche le difficoltà immense di realizzare, dopo quasi 2.000 anni di esistenza nella diaspora, una cultura ebraica ed una politica democratica, e questo con la pretesa sia di mantenere la fedeltà alla propria tradizione, sia di tener conto del diritto di vi­ vere dei concittadini non-ebrei. Un frutto di questi viaggi è stato il piccolo manuale Reisen ins Heilige Land (Viaggi in Terra Santa, 1983), che aveva come prima intenzione di mostrare quanto in questo Paese è santo - pur in modi diversi - per ebrei, cristiani e musulmani. Sono seguiti altri viaggi nel 1986 a New York, dove esi­ ste la piu grande diaspora ebrea, e nel 1991 a Budapest, dove vivo­ no oggi circa 100.000 ebrei e dove il dialogo ebreo-cristiano è ap­ pena iniziato. Questi viaggi hanno creato molti durevoli contatti. 60 Vent'anni di cammino fatto insieme DIALOGO Dopo alcuni anni di collaborazione ormai era fuori discus­ sione che gli interlocutori cattolici avevano fatto proprio il cam­ biamento radicale nei rapporti ebreo-cristiani che il Concilio Va­ ticano II aveva segnato. Si riconosceva che il cristianesimo deve rimanere radicato nell'ebraismo - e non soltanto in quello di una volta - se non vuoI morire in se stesso. Secondo san Paolo (Rom 9 - Il) le radici portano l'albero, Israele porta la Chiesa. «Quale è l'importanza dei cristiani e della loro fede per gli ebrei e la loro fede?». Cosi la controdomanda dei cristiani. La ri­ sposta: «Niente. La vostra fede non ci riguarda» avrebbe soffoca­ to - malgrado l'asimmetria della relazione, perché gli ebrei po­ trebbero essere tali anche senza richiamo al cristianesimo - un dialogo reale, una vera contemporaneità. L'esame di questa domanda metteva continuamente in im­ barazzo entrambi gli interlocutori. Noi cattolici, per esempio, ci siamo accorti che facevamo agli ebrei gli stessi rimproveri che dall'inizio della Riforma da parte dei protestanti venivano fatti a noi, e contro i quali noi ci difendevamo. Nell'epoca dell'apologia i protestanti vedevano in noi cattolici un monumento visibile di quel passato in cui Roma reprimeva la grazia e la fede con la giu­ stizia delle opere e la osservanza della legge, finché non erano sta­ ti liberati da Martin Luther alla libertà dei figli di Dio. Non cerca­ vamo forse anche noi cattolici la nostra distinzione dagli ebrei con la stessa maniera apologetica e con le stesse matrici di ragio­ namento? Gli interlocutori ebrei capivano che anche loro bloccavano una vera contemporaneità limitandosi all'affermazione di poter sviluppare pienamente la loro identità ebraica anche senza Gesu di Nazaret e senza la Chiesa cristiana. Non dovremmo prendere conoscenza - si chiedevano - che il Dio di Israele opera anche nel cristianesimo e che la pretesa cristiana di essere figli di Abramo non può essere respinta come pura presunzione? Tali imbarazzi provocarono in noi la decisione di rivolgerci l'uno verso l'altro non soltanto per motivi politici, ma anche e prima di tutto per Dio e di lasciarci prendere a servizio da Lui Vent'anni di cammino fatto insieme 61 per il Suo regno in questo mondo. TI risultato della nostra rifles­ sione l'abbiamo pubblicato nel 1979 nello scritto Theologische Schwerpunkte des judisch-christlichen Gespriichs (Punti chiave teo­ logici del dialogo ebreo-cristiano), che spesso è stato apprezzato come una delle dichiarazioni piu avanzate sul rapporto fra ebrai­ smo e cristianesimo. IDENTITÀ Due anni piu tardi un membro ebraico del gruppo di dialogo ci sfidava con la domanda: «Ci capiamo, va bene. Ho però la sen­ sazione che non ci dite tutto; avete ancora un jolly in tasca. Vorrei sapere: In fondo, che cosa sperate per noi? Che cosa chiedete a Dio quando pensate a noi? Dovremo - almeno alla fine della sto­ ria -lasciarci la pelle? dovremo credere che Gesu è il Messia?». I:argomento problematico «missione verso gli ebrei», che portava alla questione dell'identità, veniva affrontato durante un convegno vicino a Bonn, le cui relazioni sono state pubblicate sotto il titolo Zeugnis und Rechenscha/t (Testimonianza e Resocon­ to,1982). In questo controverso scambio di opinioni gli interlocutori ebrei riconoscevano che la formula di Franz Rosenzweig spesso citata: «Se Gesu sia stato il Messia, si vedrà quando viene il Mes­ sia», da un lato facilita il dialogo ebreo-cristiano, dall' altro lato lo rende piu difficile. Eravamo d'accordo che non si potesse usare questa formula ambigua nel senso che ebrei e cristiani dovrebbe­ ro rimandare il dialogo sulla questione del Messia - che li separa - fino al «giorno del giudizio universale». Gli interlocutori hanno diritto di sentire la testimonianza di fede l'uno dell'altro e di ri­ fletterne davanti a Dio. Hanno viceversa il dovere di rendere con­ to l'un l'altro della propria speranza, perché questo sia testimo­ nianza disinteressata. Gli interlocutori cristiani ammettevano che la formula diffu­ sa: «Noi conosciamo già il Messia, voi invece no» rende altrettan­ 62 Vent'anni di cammino fatto insieme to difficile il dialogo tra le due religioni. Perché qui non si tratta del confronto fra sapere e ignoranza, ma fra fede e fede. Abbiamo compreso che il nostro compito era quello di dare l'un l'altro te­ stimonianza e resoconto della nostra speranza e di lasciare che sia Dio - come Lui vuole - a risolvere il contrasto o la competizione fra la fede ebraica e la fede cristiana. Proposte a Dio - anche se fatte con tutta la buona intenzione - su come una unificazione di Israele e Chiesa potrebbe essere delineata, ci sembravano piutto­ sto di disturbo e non di aiuto. IMPEGNO Se in seguito il gruppo di dialogo ha posto nel suo lavoro la maggior attenzione sul fondamento dell'etica, questo non signifi­ cava un fuggire dalle questioni di fede ad un campo di minore re­ sistenza o un semplice mirare all' attualità. Anzi, tanto per gli ebrei quanto per i cristiani fede significa che Dio ed il suo agire nella storia diventano l'unica forza decisiva della vita, una forza che deve affermarsi nel servizio a Dio e alla sua creazione. La questione del contributo ebreo-cristiano per una vita ed una so­ pravvivenza sensata degli uomini in una situazione mondiale cosi precaria, l'abbiamo affrontata in un primo momento con degli scienziati ebrei in un seminario di due giorni presso l'Istituto Van Leer a Gerusalemme durante il nostro secondo viaggio in Israele nel 1981, e poi in un colloquio internazionale di esperti a Simpel­ veld (Olanda) nel 1983. Il convegno di Simpelveld è stato docu­ mentato sotto il titolo Damit die Erde menschlih bleibt (Affinché la terra rimanga umana, 1985). L'aspetto stimolante di quest'argomento fu la comprensione che le difficoltà maggiori nelle grandi questioni che riguardano tutta l'umanità -la giustizia, la pace e la salvaguardia del cosmo ­ non sono lo scarseggiare dei beni o lo sviluppo insufficiente dei metodi scientifici o tecnici: l'ostacolo principale è l'uomo stesso, la mancanza di umanità. La grandezza dell'uomo, che è stato creato a immagine di Dio, e la capacità abissale degli uomini di Vent'anni di cammino fatto insieme 63 fare il male, di cui la Shoa è stata la dimostrazione in questo seco­ lo e in questa sfera culturale, non possono essere controbilancia­ te. Solo la fede biblica nel Dio della storia e l'impegno di osserva­ re i Dieci Comandamenti possono fondare - secondo il nostro parere - un' «etica dell'umanità». N.on dovrebbero sentirsi impe­ gnate alla diffusione di questa convinzione soprattutto le religioni bibliche, dialogando e collaborando con tutti gli uomini di buona volontà? ESISTENZA Nella riflessione su colpa, sofferenza e riconciliazione, il gruppo di dialogo ha vissuto senz' altro il momento piu delicato. La discussione pubblica sul gesto di riconciliazione fra il presiden­ te Reagan ed il cancelliere Kohl nel 1985 a proposito del cimitero di guerra a Bitburg coinvolgeva anche noi con forza: il «Noi» co­ mune di ebrei e cristiani sembrava messo in dubbio anche nel no­ stro gruppo. Qui non si trattava di identità religiosa o di impegno sociale, qui erano in gioco resistenza, la sofferenza e la morte di milioni di persone, la responsabilità verso i morti. Non soltanto per il nostro dialogo dovevamo affrontare questo argomento, ma anche per via della corresponsabilità riguardo al dibattito pubbli­ co che 50 anni dopo la famigerata Reichsprogromnacht era alle porte. TI risultato è stato la dichiarazione - fatta quasi all'unani­ mità - Nach 50 Jahren - wie reden von Schuld, Leid und Versoh­ nung? (Dopo 50 anni - come parlare di colpa, sofferenza e riconcilia­ zione?, 1989), della quale sono state richieste oltre 25.000 copie solo per la versione in lingua tedesca. Non sarà difficile immaginarsi che la questione della Shoa e il suo macabro preludio, la Reichsprogromnacht, sono stati per noi un momento cruciale. TI dimenticare non può essere una risposta: se dimenticassimo gli assassinati, sigilleremmo un'altra volta la lo­ ro morte, dichiarandola insignificante e insensata per poi tornare all'ordine del giorno; la parola del tratto conclusivo (Schluftstrich), nel senso di chiudere con il passato, è una parola infelice. Do­ 64 Vent'anni di cammino fatto insieme vremmo perdonare? Anche questa non può essere una strada, per­ ché perdonare possono soltanto le vittime - che non vivono pitI. La riconciliazione, stringendosi le mani malgrado tutto, è forse questa una via? Ma a quale prezzo può avvenire la riconciliazione, senza che diventi un tradimento dei morti? Il paragone fra un «regolamento penitenziale» ebraico del Medioevo con uno attuale della Chiesa cattolica ci è stato di gran­ de aiuto per comprendere cosa significhi riconciliazione e come possa avvenire la riconciliazione. Questo paragone rivelava che, come ebrei e cristiani, eravamo andati a scuola evidentemente dallo stesso Dio, e che eravamo stati introdotti da Lui nella via della conversione, penitenza e riconciliazione. Un aiuto ancora pitI grande di queste testimonianze delle nostre tradizioni è stata la testimonianza personale data nel nostro gruppo e quella di amici. Vorrei illustrare questo «miracolo della riconciliazione» con un episodio importante del nostro lavoro. Durante il nostro viaggio negli Stati Uniti nel 1986 il teologo ebreo Michael Wyschogrod ci ha guidato per il quartiere ebraico di New York, Lower East Side. È entrato con noi nella bottega di un rilegatore. Prima ancora che Wyschogrod potesse presentarci, il vecchio padrone della bottega ha cominciato a gridare: «Fuori, na­ zisti, assassini!». Ogni tentativo di avvicinamento andava a vuoto. Mezz' ora dopo eravamo attorno al vecchio rabbino Singer, che ci faceva vedere un bagno sacrale, sorridendo a causa della sua parlata yiddish. Quando poi abbiamo espresso la nostra com­ mozione per la sua sapienza ed umanità, il nostro amico diceva: «Volevo mostrarvi una volta un santo». Un'altra mezz'ora pitI tardi gli chiedevamo di fronte a que­ sti avvenimenti cosi contrastanti: «Lei, come si immagina la ri­ conciliazione?». E lui: «Vorrei rispondere personalmente a que­ sta domanda personale. Quando vi ho visti attorno al rabbino Singer, mi venivano davanti agli occhi - come se fosse stato ieri ­ le facce sogghignanti dei soldati tedeschi quella volta che a Var­ savia circondarono un piccolo rabbino, privo di aiuto, e lo spin­ sero con spavalderia. lo so che vi faccio un torto doloroso con Vent'anni di cammino fatto insieme 65 questo paragone. Finché però non posso liberarmi da questa as­ sociazione mentale, non sono riconciliato». Alla nostra doman­ da: «Cosa dobbiamo fare?», rispose: «Continuate cosi! E vi chie­ do di lasciarmi tempo!». Del resto Wyschogrod ha cercato poco dopo l'occasione di una conversazione chiarificatrice con il rile­ gatore. La nostra conclusione quella volta a New York: è lecito di fronte a questa non-contemporaneità di «non riconciliati - in via di riconciliazione - riconciliati» arrogarsi un giudizio sulla qualità morale degli interessati o perfino di controbilanciare il perdono cristiano con la inconciliabilità ebraica? Non dovremmo piuttosto sopportare la non-contemporaneità dei contemporanei e dare a ciascuno il tempo di cui ha bisogno per arrivare alla meta comune che è la riconciliazione? Non potremmo essere già adesso - men­ tre siamo ancora in cammino l'uno verso l'altro - dei testimoni e degli avvocati della riconciliazione nel nostro mondo lacerato? La presentazione della nostra dichiarazione Nach 50 Jahren ... e il discorso successivo durante la seduta plenaria del Comitato centrale dei cattolici tedeschi nella primavera del 1988, durante la quale prendevano la parola anche due membri ebrei del gruppo di dialogo, sono stati considerati da tutti un momento straordinario nella lunga storia del massimo organo dei laici in Germania. Pochi mesi dopo dovevamo affrontare di nuovo un aspetto della Shoa. La causa era l'acutizzazione del conflitto che era scop­ piato a causa del convento delle carmelitane accanto al campo di concentramento di Auschwitz e dell'erezione di una croce in me­ moria dell'uccisione di martiri polacchi. Soprattutto riguardo alla discussione pubblica in Germania abbiamo preso la parola nel 1990 con la dichiarazione Kloster und Kreuz in Auschwitz? (Con­ vento e croce ad Auschwitz?). Una chiarificazione soltanto diplo­ matica della situazione ci sembrava - nel caso migliore - che sa­ rebbe stata solo un coprire il conflitto per un certo periodo. «Qual è il motivo dello scandalo, se delle suore ad Ausch­ witz pregano per tutti i morti di Auschwitz e fanno penitenza per gli assassini?», chiedevamo noi cattolici ai nostri interlocutori 66 Vent'anni di cammino fatto insieme ebrei. Un po' alla volta si chiarificava - anche per gli stessi mem­ bri ebrei del nostro gruppo - il motivo piu profondo della incom­ prensione e della disapprovazione: i simboli sono piu incisivi, ma anche piu vulnerabili delle parole. «È meglio che il simbolo di Auschwitz non resti piu, piuttosto che ferire, danneggiare questo simbolo», dicevano i nostri interlocutori ebrei. «Il nome Auschwitz (assieme al campo di sterminio di Birkenau) come cimitero ebreo piu grande del mondo è per noi il simbolo reale della Shoa per eccellenza. Se degli uomini cercano in questo luogo di orrore incomprensibile, di assurdità inconcepi­ bile, un posto, in cui si può mangiare e bere, dormire e pregare, e se qualcuno con 1'erezione di una croce vuoI dar~ senso alla soffe­ renza indicibile - per noi questa risposta immediata è insopporta­ bile. Lasciate parlare da solo il vuoto di questo luogo nella sua nudità, senza interpretarlo pubblicamente con un altro simbolo, tanto piu con un simbolo cosi discutibile per noi, com' è la croce! Se poi un uomo viene in questo luogo e in quel momento riesce a pregare, che lo faccia. Per noi questo poter-pregare è ogni volta un miracolo inconcepibile - diverso da un convento nel quale la preghiera viene curata». Questa spiegazione ha fatto riflettere noi cristiani, non sol­ tanto nel senso di usare maggiore delicatezza verso i sentimenti dei fratelli e sorelle ebrei, ma anche ripensando a una certa prassi di fede che ci è cOSI naturale: non sarebbe qualche volta piu ade­ rente alla fede sopportare semplicemente delle domande abissali, anziché pensare subito alla «risposta cristiana»? POLITICA Già dall'inizio il gruppo di dialogo aveva dato alla presiden­ za del Comitato centrale il suggerimento di fare delle dichiarazio­ ni pubbliche o di prendere delle iniziative discrete: durante con­ flitti armati nel Medio Oriente, ultimamente durante la guerra del Golfo; di fronte a degli eccessi anti-ebraici; pubblicazioni, rap­ presentazioni, ecc. Vent'anni di cammino fatto insieme 67 Malgrado ripetuti gesti di solidarietà in determinate occasio­ ni, dopo 20 anni di comunione non si poteva piu escludere dal nostro lavoro la questione fondamentale del territorio di Israele, fino alla realtà politica dello Stato d'Israele e la sua richiesta del riconoscimento diplomatico da parte del Vaticano. La connessio­ ne teologica fra popolo, alleanza e territori, che è costitutiva per la autocoscienza dei nostri interlocutori ebrei, richiedeva anche l'interesse dell'interlocutore cristiano. Quando abbiamo comin­ ciato ad affrontare quest'argomento noi cattolici ci siamo ricorda­ ti dei nostri sentimenti nei primi anni del dialogo, quando !'inter­ locutore ebreo voleva quasi escludere la questione del Messia, la cristologia e l'insegnamento su Dio - tutti elementi determinanti invece per l'identità cristiana - partendo prima di tutto dall'inte­ resse suo proprio: la lotta contro 1'anti-ebraismo. TI superamento dell' antagonismo fra Est ed Ovest, che ha cambiato anche la situazione politica nel Medio Oriente e il fatto che il Vaticano nel frattempo ha stabilito relazioni diplomatiche con quasi tutti gli Stati con cui non aveva ancora scambiato degli ambasciatori, formano un quadro pieno di speranza per delle ri­ flessioni teologiche di fondo - il gruppo di dialogo si sente legitti­ mato soltanto a far questo - sullo Stato ed il Paese d'Israele. Siccome il lavoro non è ancora concluso, sarebbe prematuro se volessi dilungarmi in questo momento sul nostro ragionamento teologico con le sue conseguenze politiche. Posso però nominare alcuni punti generali, su cui siamo convenuti nel gruppo. A causa di una purificata comprensione della fede è fuori di­ scussione che i cristiani non possono far valere un diritto sul Pae­ se d'Israele che sia paragonabile a quello degli ebrei; per non par­ lare della teoria pseudo-teo1ogica della «diseredazione», con la quale nei secoli passati si voleva togliere agli ebrei il diritto al "paese della promessa". Ma sarebbe anche un abuso politico della fede, se si volesse­ ro definire le frontiere con la Bibbia in mano. Ma c'è anche un al­ tro pericolo, che ci sembra non meno grave: il rifiuto di trarre le conseguenze politiche della fede ritirandosi nella teologia e nella spiritualità. 68 Vent'anni di cammino fatto insieme CONCLUSIONE Ripercorrendo 20 anni d'incontro ebraico-cristiano posso af­ fermare: il dialogo fra ebrei e cristiani non è una prova d'intelligen­ za teologica, ma prima di tutto l'incontro di sorelle e fratelli, che sono felici di conoscersi e di aprirsi agli altri COS1 come realmente sono. Da questo nuovo modo di stare insieme mi aspetto alla lunga che sarà sanato il primo scisma della storia della Chiesa - la divisio­ ne fra cristiani ed ebrei - che ha comportato una perdita di sangue tragica per tutti. Come e quando non lo so, e non è necessario che io lo sappia. I primi passi però su questa strada comune mi hanno donato la speranza invincibile che Dio stesso ci accompagna e ci guida per questa strada. HANSPETER HEINZ