Il Diritto Internazionale Umanitario nell`epoca della globalizzazione

Diritto
14 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 4/2011
IL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO
NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE:
L’ACCEZIONE ISLAMICA
ARCANGELO MARUCCI
DIRITTO 15
toricamente il diritto internazionale trova le
sue origini nella dottrina tradizionale che ne
articolava il concetto in due distinti campi:
diritto internazionale di pace e diritto internazionale bellico. Il primo finalizzato alla disciplina delle
relazioni tra Stati in assenza di un conflitto armato. Il secondo essenzialmente finalizzato al momento bellico e pertanto applicato una volta che
il conflitto armato aveva avuto inizio, e per tutta
la durata delle ostilità al fine di disciplinare i rapporti sia tra i contendenti sia tra questi e gli Stati
terzi (in questo secondo caso la disciplina era una
parte separata del diritto internazionale bellico e
veniva denominata diritto della neutralità).
Più segnatamente, il diritto di ricorrere alla forza
armata (ius ad bellum), e pertanto applicabile nella
fase antecedente all’insorgere del conflitto stesso,
veniva considerato come parte del diritto internazionale di pace, mentre il diritto relativo alla disciplina delle ostilità tra belligeranti e delle
relazioni tra questi e terzi Stati (ius in bello) veniva
tradizionalmente ricondotto alle trattazioni del diritto internazionale bellico.
Solo in un momento successivo, e precisamente
con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni
Unite (lo Statuto delle Nazioni Unite è stato adottato a san Francisco il 26 giugno 1945), che ha
bandito la guerra nelle relazioni internazionali, ha
avuto inizio un’evoluzione finalizzata a ridurre
l’importanza del diritto bellico nelle trattazioni
dottrinali. Infatti l’incertezza circa l’esistenza di un
vero e proprio stato di guerra, una volta che fossero scoppiate le ostilità, ha indotto a trattare il
diritto bellico nel quadro del diritto internazionale
di pace e viepiù in una parte separata dedicata al
diritto dei conflitti armati.
Il diritto umanitario viene, di norma, ritenuto una
creazione della civiltà occidentale; gli Stati europei
hanno a lungo considerato i paesi al di fuori dell’Europa dei soggetti passivi delle loro norme di diritto internazionale, ritenendo le altre civiltà, come
quella islamica, incapaci addirittura di comprenderne l’utilità. In realtà, le norme basilari di diritto
umanitario sono esistite da sempre in qualsiasi ci-
S
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viltà; la guerra ha accompagnato, sin dai suoi albori, la storia dell’uomo, ed ha provocato la formazione di usi, costumi, consuetudini che sono
diventate vere e proprie norme, nel tentativo di regolamentare la più terribile espressione della violenza umana.
L’Islam, che è stato considerato a lungo dagli Stati
europei espressione di quel “barbarism” al quale
si contrapponeva la carità cristiana propria degli
europei, ha dalla sua nascita, elaborato numerose
norme che riguardano il diritto umanitario. Alcuni
studiosi sostengono addirittura che il diritto umanitario sia un prodotto della cultura islamica, arrivato in Europa per mezzo delle Crociate. Per
capire meglio occorre affrontare l’esegesi dell’atteggiamento dell’Islam nei confronti degli altri
paesi, ossia il suo concetto di diritto internazionale. Inoltre, per lo stretto legame esistente tra il
diritto umanitario ed il diritto bellico (inteso come
jus ad bellum), è opportuno riflettere sull’approccio
dell’Islam nei confronti della guerra; è importante,
cioè, cercare di comprendere il dibattito, ancora
irrisolto, sulla natura del jih d.
Il diritto internazionale è sviluppato in modo da
avere una portata universale, concepito per regolamentare le relazioni fra popolazioni differenti,
ognuna con la sua religione, la sua storia, la sua
cultura, la sua legislazione e la sua lingua. Richiamare l’attenzione sul diritto religioso può indebolire il carattere universale e laico del diritto
internazionale. Numerosi giuristi internazionali,
coscienti del fatto che i valori occidentali non sono
necessariamente condivisi da altre culture, non
sono affatto disposti a discutere di religione per
timore di escludere le persone le cui credenze possano essere molto differenti dalle loro. Essi stimano che un approccio scientifico del diritto
escluda la religione e che il diritto non possa essere
realmente “moderno” e “razionale” se non è totalmente separato dalle credenze religiose. Il diritto delle nazioni dei tempi antichi è stato
abbandonato perché è stato considerato religioso.
La religione interveniva incontestabilmente in tutti
gli aspetti delle relazioni internazionali. Nell’anti-
chità, il giuramento, il più religioso dei doveri vincolanti, contemplava l’intervento del dio o degli
dei protettori contro la parte che non rispettava il
suo impegno. Si temeva la punizione divina dell’Onnipotente o degli dei in collera. Le regole di
condotta dello Stato non erano mai interamente
religiose, ma condizionate dal pragmatismo e dalla
realizzabilità: sanzioni sociali e punizioni erano
praticate attraverso dei rituali e, nel quadro delle
istituzioni, era prevista una sanzione fondata sulla
ragione consistente nel presentare un’argomentazione e una retorica giuridica. La religione, le
abitudini e le argomentazioni giuridiche avevano
più o meno peso a seconda dei differenti periodi
della storia del diritto. L’importanza del diritto religioso, la sua predominanza sul diritto internazionale è specialmente sottolineata nella tradizione
musulmana e merita dunque un’attenzione tutta
particolare. Il diritto islamico è uno dei grandi sistemi giuridici del mondo; è stato ed è ancora uno
dei pilastri della civiltà musulmana, e la letteratura
giuridica musulmana è abbondante. Lo statuto del
diritto musulmano (chari’a) e della giurisprudenza
musulmana (fiqh) è al centro del dibattito tra gli
ideologi islamici ed i loro avversari. Come il diritto
regola tutti gli aspetti della vita di ogni musulmano e di ogni musulmana, ovunque siano, le
competenze personali prevalgono sulle competenze territoriali, sia all’interno sia all’esterno del
territorio musulmano. Sulla base dei versetti del
Corano e degli hadiths (tradizioni e parole venerate del profeta Maometto), basate su questo
punto, le regole che reggono la condotta delle
ostilità durante l’espansione dell’impero islamico
sono state formulate dai giuristi teologi fin dall’emigrazione del Profeta da La Mecca. Nelle raccolte delle differenti scuole dottrinali di diritto
islamico, queste regole si trovano sotto le voci
jihad e siyar. Questa ultima regge le relazioni degli
Stati musulmani con gli altri Stati, in particolare
in tempo di guerra, ed anche durante i conflitti armati che hanno luogo nel mondo musulmano.
Queste regole fanno parte della legislazione interna e sono obbligatorie per gli Stati islamici.
Su circa una cinquantina di Stati nel mondo che
hanno una popolazione di maggioranza musulmana, quindici hanno proclamato l’islam come religione di Stato e cinque sono specificamente
designate dal termine di “repubbliche islamiche”.
La cultura e la civiltà islamica superano le frontiere
geografiche e creano una potente eredità divisa
dai paesi musulmani, con la chari’a come comune
denominatore. Oggi, gli Stati del mondo musulmano hanno aderito agli attuali strumenti del diritto internazionale umanitario, ed il principio del
pacta sunt servanda è fermamente ancorato nel
diritto islamico. Tutti gli Stati musulmani insistono
sul loro impegno al riguardo del diritto islamico e
si riferiscono spesso ai “principi” ed ai “valori” dell’islam per sottolinearne la convergenza col diritto
internazionale umanitario. Per i movimenti islamici, siano essi moderati o radicali, la chari’a è un
insieme di regole indivisibili e coerenti; nessuna
influenza straniera deve alterare il carattere divino
del diritto islamico. Anche i moderati convengono
che sono ispirati solamente da altri sistemi giuridici, e questo, senza allontanarsi dal diritto e dalla
giurisprudenza islamica. Da un punto di vista ufficiale del fiqh, o giurisprudenza islamica, sull’islam
il diritto internazionale umanitario ha “1400 anni”
vi è testimonianza dell’importante contributo del
diritto musulmano al diritto internazionale umanitario attuale, una traccia sulla strada per il dialogo tra differenti civiltà.
Le regole che sono alla base delle relazioni tra Stati
sul piano della diplomazia, della pace e della
guerra figuravano in tutte le fonti delle differenti
religioni e civiltà mostrando che i valori enunciati
nel diritto internazionale umanitario contemporaneo sono comuni a tutte le religioni. Le idee centrali dell’ordine minimale del confucianesimo, per
esempio, comportano numerose “preferenze
umane” o valori e regole che si potrebbe qualificare oggi come regole di diritto umanitario. Per
quanto riguarda il cristianesimo, indicazioni molto
simili sono date nel sermone sulla montagna. Sia
la religione sia il diritto internazionale umanitario
fanno riferimento alla distinzione che occorre sta-
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In apertura: Insorti nella provincia di Badghis, in Afghanistan, hanno aderito al programma di pace e reintegrazione consegnando le armi
Sopra: scena di un povero villaggio afgano
bilire tra combattenti e civili, alla necessità di rispettare la proporzionalità e l’obbligo di aiutare le
vittime, e questo, sebbene i termini ed i modi operandi non siano identici. Tuttavia, esistono delle
differenze. In particolare, la separazione netta tra
le norme che regolano la legalità o la legittimità
della guerra e quelle che determinano la condotta
della guerra, cioè la distinzione tra jus ad bellum e
lo jus in bello, è assente nell’antico diritto religioso
o ispirato dalle religioni. Tuttavia, sebbene la religione abbia giocato un ruolo centrale nell’India
antica per le regole di comportamento personale,
occorre notare che queste regole, in quanto alla
loro applicazione, erano universali, indipendentemente dalla religione o della civiltà delle parti interessate, sia che si trattasse di credenti o sia di
non credenti, o che una guerra fosse considerata
giusta o ingiusta. Le conclusioni su ciò che è “giusto” o “ingiusto” sono funzione di valori che raramente è possibile provare scientificamente. Anche
il grado di sensibilità all’importanza delle differenti
religioni, nell’ambito delle scelte giuridiche, aiuterà
la comunità internazionale a conservare il suo
equilibrio sulla rigida corda tesa tra l’indifferenza
e la bigotteria. La religione rimane ampiamente
un tabù nell’azione umanitaria. Quest’ultima, sul
piano internazionale, consiste, in grande parte, in
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un lavoro interculturale, dove la dimensione religiosa è un fattore importante. La religione è una
potente forza socioculturale in termini di motivazione, di partecipazione e di durevolezza nel
campo umanitario. I popoli musulmani poi ritengono che i principi di diritto internazionale umanitario vigenti hanno un riscontro nei principi
fondamentali del sistema giuridico islamico enucleati nella Sacra Scrittura e ripresi nella Sunna:
giustizia, uguaglianza, consultazione democratica,
rispetto degli impegni, reciprocità; e che tali principi hanno conosciuto attraverso la Ijtihad (la deduzione ragionata dei giuristi) uno sviluppo,
specificazione e aggiornamento che tenesse conto
del mutato contesto storico, a partire dal VII secolo
(610-632), nei tredici secoli che hanno preceduto
le Convenzioni di Ginevra. Così, si afferma che il
diritto islamico contenga una propria antica formulazione della clausola generale Martens che richiama al rispetto in ogni caso delle leggi
dell’umanità e delle esigenze della coscienza pubblica. Tale formulazione sta sia nella Sacra Scrittura (seconda Sura, versetti 109 ss.), sia nelle
istruzioni del Profeta alle sue truppe: non è permesso al fedele di trasgredire o anche solo di eccedere i limiti della giustizia e della equità e di
cadere dunque nella tirannia e nell’oppressione. Il
diritto umanitario tradizionale islamico, quale
espresso anche dalla deduzione ragionata dei giuristi, afferma il diritto della persona alla propria
dignità e integrità, proibisce le mutilazioni, la tortura, i trattamenti disumani e degradanti: in proposito si è soliti ricordare il detto del Profeta
quando gli fu proposto di mutilare i catturati come
misura di reciprocità; Egli ordinò: “non mutilate
mai, neppure un cane”. Ugualmente il diritto islamico pone tradizionalmente limiti precisi quanto
ai metodi di combattimento e si potrebbe continuare a lungo.
Su questi principi e regole non c’è dubbio che per
molti secoli, dal VII secolo in poi, vi è stato un fitto
interscambio, se non una convergenza tra il
mondo musulmano e il mondo cristiano: le relazione fra i due mondi era sì anche conflittuale, ma
in grande misura anche di relazioni di coooperazione commerciale, scientifica, culturale: potrebbe
essere interessante studiare sotto questo profilo
di interscambio e convergenza, magari le storie
arabe e cristiane, riportate nei poemi storici dell’una e dell’altra parte. Ma è uno scambio che non
si è mai del tutto interrotto, neanche dopo il XV
secolo. Forse, bisognerebbe oggi ritornare sullo
studio del diritto internazionale umanitario anche
in una prospettiva storica, per svelarlo come frutto
di incontri e di percorsi convergenti: utilissimo
esercizio per far crescere la fiducia reciproca fra
mondi culturali, per riscoprire le radici comuni pur
nelle diversità. Il mondo islamico, è stato per molto
tempo al di fuori dello state-system europeo, ed è
stato da esso considerato, per lungo tempo, esclusivamente come un oggetto passivo al quale venivano applicate le norme di diritto internazionale.
Per quanto riguarda il diritto umanitario, la situazione è ancor più controversa. Il diritto umanitario,
inteso come diritto codificato dalla comunità internazionale, è nato, di fatto, grazie al movimento
della Croce Rossa, fondato nel 1864 dal filantropo
svizzero Henry Dunant. Egli, dopo aver assistito
alla battaglia di Solferino nel 1859, tra Francesi e
Piemontesi, rimase fortemente colpito dalla quantità di feriti abbandonati sul campo di battaglia a
causa dell’inadeguatezza del servizio sanitario fornito dagli eserciti coinvolti.
All’epoca il diritto umanitario era quindi considerato una semplice espressione dei valori cristiani
degli Stati europei, “an artefact of the law of nations of the respublica christiana” e, di conseguenza, qualcosa di totalmente estraneo a tutti
gli altri popoli. Questo è dimostrato dal fatto che,
quando la Croce Rossa Internazionale volle creare
un’analoga associazione in Turchia, Jägerschmidt,
il rappresentante francese a Costantinopoli, scrisse
che riteneva questa iniziativa uno sforzo inutile
che “ne fonctionnerait jamais” poiché i turchi, secondo lui, non ne avrebbero mai compreso l’utilità.
Questa era l’opinione degli Stati europei testimoniata dal fatto che, alla conferenza tenutasi a Ginevra nel 1863, con la quale venne istituito il
Comitato Internazionale della Croce Rossa, non
era presente nessun paese islamico; la Turchia ratificò il documento nel 1864, e la Persia nel 1874.
Nello stesso anno la Turchia partecipò alla Conferenza di Bruxelles, e prese parte ad entrambe le
conferenze per la revisione della Convenzione di
Ginevra del 1864, ma in tutte queste occasioni i
partecipanti musulmani ricoprirono ruoli del tutto
secondari.
Tuttavia, il primo passo per rendere il diritto umanitario un’ istituzione laica ed universale fu fatto
da Gustave Moynier, il quale prese il controllo del
movimento della Croce Rossa dopo che Dunant
andò in bancarotta. Egli, pur ammettendo che il
diritto internazionale umanitario fosse una creazione cristiana, insistette sul fatto che esso dovesse avere un’applicazione universale, andando
oltre i particolarismi di ogni religione. Inoltre Moynier si impegnò affinché gli appartenenti a religioni diverse dal cristianesimo potessero non solo
usufruire di queste leggi, ma anche occuparsi direttamente della loro applicazione; a questo scopo
fu fondata, nel 1868, la Società Ottomana della
Croce Rossa. In questo modo il diritto umanitario
abbandonava la sua connotazione cristiana per diventare un’istituzione laica ed internazionale.
Dopo il crollo dell’Impero Ottomano e la conse-
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guente formazione di numerosi Stati musulmani,
la comunità islamica subì un’ulteriore divisione,
che provocò, apparentemente, un incremento del
potere dei rappresentanti islamici nei confronti
della comunità internazionale. In realtà, l’integrazione dei nuovi Stati islamici nella comunità delle
nazioni consisteva in una sorta di “asservimento”,
di “europeizzazione” degli stessi, motivata dalla
costituzione della umma islamica in unità nazionali distinte.
Nel periodo tra le due guerre mondiali la partecipazione dei rappresentanti musulmani alle conferenze internazionali fu caratterizzata dalla
tendenza ad evidenziare la relazione tra il diritto
internazionale umanitario e la dottrina islamica.
Poiché la comunità islamica era ormai irrimediabilmente divisa in numerosi Stati indipendenti, gli
studiosi musulmani cercarono un modo per mantenere la loro collettiva identità islamica nell’ambito del diritto internazionale umanitario. Essi
trovarono la soluzione nell’articolo 9 dello Statuto
della Corte Permanente di Giustizia Internazionale,
il quale statuisce: “ At every election, the electors
shall bear in mind that not only should all the persons appointed as members of the Court posses the
qualifications required, but the whole body also
should represent the main forms of civilization and
the principal legal system of the world”.
Gli studiosi islamici arguirono che l’Islam costituiva precisamente una delle “principali forme di
civiltà” alle quali si riferiva lo Statuto, e che il diritto islamico poteva senza dubbio essere considerato uno dei “principali sistemi di leggi del
mondo”; l’Islam doveva essere considerata a tutti
gli effetti una delle fonti del diritto umanitario.
Questa tesi non si limitò ad essere discussa tra gli
studiosi, ma venne formalmente espressa alla Lega
delle Nazioni ed, in seguito, alla Conferenza degli
Stati che diede vita, nel 1945, alle Nazioni Unite.
In questo modo, il diritto umanitario diventa un
sistema universale in grado di raggiungere diverse
civiltà, e l’Islam viene posto, finalmente, allo stesso
livello della civiltà europea, sottolineando il proprio
carattere sovranazionale nell’ambito del diritto in-
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ternazionale. Apparentemente, quindi, viene abbandonato il pregiudizio, da parte dei paesi europei, che il sistema di diritto internazionale da loro
elaborato fosse inadeguato per gli Stati islamici a
causa della loro diversità politica, storica e culturale.
Nonostante il riconoscimento dell’Islam come civiltà alla pari con quella europea, la partecipazione
dei rappresentanti musulmani alle conferenze internazionali di quegli anni non fu caratterizzata,
come si potrebbe pensare, da uno spirito di “transnational Islamism” ma da un forte spirito nazionalistico. Questo atteggiamento fu comune a tutti
i rappresentanti dei paesi arabi nelle conferenze
internazionali che si svolsero tra il 1945 ed il 1977.
Le Convenzioni di Ginevra del 1949 furono elaborate in un momento in cui, all’indomani della seconda guerra mondiale, tutti i paesi erano
profondamente scossi da quanto era appena accaduto, ed erano per questo coscienti dell’inadeguatezza delle leggi che, fino ad allora, avrebbero
dovuto regolamentare la guerra. E’ grazie a questo
comune stato d’animo che le quattro Convenzioni
del 1949 hanno avuto un’adesione praticamente
universale. Tra il 1951 ed il 1975 tutti i paesi
arabo-islamici hanno ratificato le quattro Convenzioni pur con qualche riserva da parte di Quwait,
Yemen e Pakistan.
Gli anni tra il 1945 e il 1977 furono caratterizzati
dallo scoppio di numerosi conflitti che videro come
protagonisti alcuni paesi arabo-islamici; primo fra
tutti il conflitto Israliano-Palestinese che scoppiò
nel 1948; poi, la crisi di Suez del 1956 ed il conflitto Indo-Pakistano del 1965. Questi eventi portarono alla convocazione di una nuova conferenza
diplomatica per far fronte alle lacune presenti
nelle precedenti convenzioni. La novità principale
di questa conferenza, svoltasi a Ginevra nel 1974,
fu che, per la prima volta, vennero invitati a partecipare anche i rappresentanti dei movimenti di
liberazione nazionale, tra i quali era presente
anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). La presenza dei rappresentanti di
questi movimenti fu determinante per la formu-
immagini di donne afgane
lazione dell’articolo 1 del I Protocollo aggiuntivo
alle Convenzioni di Ginevra del 1949, il quale
estende la protezione del diritto umanitario anche
a coloro che lottano contro la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e regimi razzisti.
Questa enorme conquista del diritto umanitario fu
fatta grazie all’impegno ed alle pressioni esercitate
dai rappresentanti islamici, alcuni dei quali, come
quello dell’Egitto e del Pakistan, particolarmente
agguerriti; questi ultimi erano però animati da uno
spirito fortemente nazionalistico, e non agirono
insieme come rappresentanti della comune civiltà
che essi rappresentavano.
La maggior parte delle riserve, fatte dai paesi arabi
al momento della ratifica dei due Protocolli, riguardano il riconoscimento dello Stato d’Israele;
Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria e gli Emirati
Arabi ratificarono i due documenti con la riserva
che la suddetta ratifica non significava in alcun
modo il riconoscimento dello Stato d’Israele.
Tra il 1974 ed il 1977, nelle conferenze tenute per
l’elaborazione dei Protocolli aggiuntivi alla Convenzione del 1949, ci furono i primi segni di un
sostanziale cambiamento nella percezione del diritto internazionale umanitario da parte dei rappresentanti islamici; la rivoluzione iraniana
provocò il riaffermarsi dell’ideologia dell’Islam teocratico e politico, la quale cambiò profondamente
i rapporti dei paesi islamici con gli altri paesi della
comunità internazionale. Alcuni studiosi musulmani iniziarono a considerare il diritto islamico un
sistema alternativo al diritto umanitario internazionale, non più solamente una delle sue fonti essenziali. Si diffuse, così, una sorta di scetticismo
nei confronti del diritto umanitario, testimoniato
dai resoconti delle discussioni dei rappresentanti
dei vari paesi durante la stesura del II Protocollo
aggiuntivo, che regola i conflitti non-internazionali. L’Islam ed il diritto umanitario iniziano ad essere visti come due sistemi in competizione, ed i
paesi islamici si trovarono costretti a scegliere
quale dei due fosse giusto seguire nell’ambito dei
conflitti armati.
La guerra Iran-Iraq del 1980 rappresenta in modo
esauriente questa situazione; l’Iran, con la decisione di abbandonare il suo atteggiamento particolaristico adottando il simbolo della mezzaluna
rossa, si schiera a favore di un Islam radicale ed
universalistico. La leadership iraniana dichiarò che
la guerra contro l’Iraq rappresentava uno sforzo
finalizzato a proteggere l’Islam dall’ “Iraqi nonMuslim Ba’thist blasphemer” Saddam Hussein; la
leadership Irachena d’altro canto sosteneva che la
guerra era una misura necessaria per difendere la
sovranità dell’Iraq dall’aggressione iraniana. L’Iran
osservava le norme islamiche, mentre l’Iraq quelle
del diritto internazionale. Questi differenti approcci non sono solamente retorici, ma hanno influenzato profondamente la condotta di entrambe
le parti durante le ostilità; il governo iracheno dichiarò che le norme umanitarie non potevano essere rispettate in quella che era considerata una
“guerra di sopravvivenza” e giustificò le azioni
contro civili con la motivazione di ridurre il loro
supporto al proprio governo. I militari iraniani annunciarono che avrebbero fatto a meno dei metodi di guerra convenzionali a favore del
cosiddetto “Islamic warfare”. La guerra non era
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Guerrieri afgani
più, per gli iraniani, solo un mezzo per annientare
la forza militare nemica, ma veniva considerata
una vera e propria dimostrazione di fede.
Riportata così sul piano religioso, la guerra poteva
essere diretta esclusivamente contro la “eretica”
leadership irachena; i fedeli iracheni dovevano essere risparmiati e portati sotto la protezione del
governo Iraniano. Questo concetto sembrò, in un
primo momento, non essere in contraddizione con
le norme di diritto umanitario; in realtà, da esso
appare chiaro che in quel contesto la vita umana
non veniva considerata in quanto tale, ma come
espressione della sottomissione a Dio, e questo
non poteva in alcun modo essere in accordo con
il diritto umanitario.
L’obiettivo primario del diritto internazionale umanitario è quello di diventare universalmente accettato e rispettato da tutti i paesi del mondo. Per
raggiungere tale obiettivo, è necessario che esso
sia il risultato di un incontro tra civiltà diverse, e
che sia capace di andare incontro alle differenti
esigenze che esse inevitabilmente hanno.
Nel 1856, quando iniziarono i rapporti tra l’Islam
ed il diritto internazionale umanitario, tra i due sistemi di leggi esistevano numerose divergenze;
oggi queste divergenze hanno subito una notevole
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diminuzione, in parte grazie alla collaborazione tra
paesi europei e islamici ed, in parte, all’adattamento del diritto umanitario provocato da questo
dialogo tra civiltà.
Al giorno d’oggi, secondo l’opinione di molti studiosi, le norme del diritto internazionale umanitario e quelle del diritto islamico risultano
sostanzialmente congruenti. L’Islam ha portato,
con il concetto di jih d, numerose innovazioni rispetto alle pratiche comuni nell’Arabia preislamica; la guerra viene legittimata solo f sab l-illah,
“sulla via di Dio”, ed in questo modo entra a far
parte di una sfera etica ed ideologica assolutamente estranea alla concezione preislamica di
guerra (¥arb). Nella storia dell’Islam questa “spiritualizzazione del conflitto” ha costituito un’evoluzione verso un modello di guerra meno brutale,
ed anche gli studiosi che considerano il jih d una
guerra esclusivamente offensiva riconoscono che
lo sviluppo di questo concetto, in origine, è stato
un fenomeno positivo. I precetti umanitari che regolano la guerra sono precetti divini, come tutte
le norme del diritto islamico; il loro rispetto è un
dovere per ogni musulmano, un obbligo religioso
il cui mancato adempimento sarà punito, più che
nel mondo terreno, nella “vita dopo la morte.”
Nel diritto islamico le norme sul diritto umanitario
non sono state mai raccolte in un testo che se ne
occupasse in modo esclusivo; esse sono rintracciabili in alcuni versetti del Corano, nelle raccolte
di ¥ad th e nelle opere dei giuristi nella sezione che
riguarda il jih d. Le considerazioni umanitarie nascono e vengono sviluppate all’interno dei discorsi
sulla legittimità o meno della guerra; quest’ultima,
per essere ammessa dall’Islam, deve avere alcune
particolari caratteristiche, e deve sottostare alle
norme islamiche che regolano le relazioni umane.
Se il conflitto non rientra in questi standards, ed i
precetti umanitari vengono violati, il conflitto non
può più essere considerato lecito, poiché cessa di
essere “islamico”. L’Islam ha da subito manifestato
un impegno, piuttosto inusuale per quei tempi, nel
tentativo di limitare il più possibile la sofferenza
umana durante i conflitti armati; viene addirittura
sostenuto che il rispetto dei precetti umanitari
debba essere rappresentato come un “pilastro
dell’Islam” da aggiungere ai cinque originali.
Esistono delle norme generali che regolano la condotta dei combattenti musulmani che non sono
compendiate in nessuna opera, né sono deducibili
dalle fonti del sistema giuridico islamico; esse sono
il principio di giustizia, di equità, di consultazione,
di rispetto dell’impegno preso e di reciprocità. In
realtà, le norme basilari del diritto umanitario sono
state elencate, in modo chiaro e piuttosto completo, nei discorsi fatti, da Muhammad e dai primi
Califfi, alle truppe in partenza per la battaglia. Possono dunque essere individuati dei dettami fondamentali per il diritto umanitario che sono
Un anziano di un villaggio afgano posa per una foto del Combat
Camera Team
condivisi sia dal diritto internazionale, sia da quello
islamico, come il divieto di uccidere donne, bambini, uomini anziani, il dovere di prestare fede ai
patti, il divieto di mutilare i cadaveri, di tagliare o
bruciare gli alberi, di uccidere il bestiame. Queste
precetti possono farsi risalire a due principi fondamentali, comuni sia al diritto umanitario islamico che a quello internazionale: il rispetto della
dignità umana e l’impegno di evitare inutili sofferenze ed inutili distruzioni. In particolare il rispetto
della dignità umana, da quello che traspare dal
Corano e dagli ¥ad th del Profeta, è un aspetto
fondamentale della dottrina islamica e, di conseguenza, costituisce la base anche della teoria della
guerra.
Ma in questo contesto è sul concetto di jih d che
occorre, ciò nonostante, porre attenzione poiché
la sua applicazione potrebbe ingenerare dubbi
sulla bontà della sua teoria. Lo scopo del jih d, non
è né la vittoria né l’acquisizione delle proprietà del
nemico: è esclusivamente l’adempimento di un
dovere che consiste nel raggiungere la diffusione
universale dell’Islam; tutto ciò che non è finalizzato al raggiungimento di questo obiettivo non
può essere legittimato. La concezione islamica del
diritto umanitario, a differenza di quella del diritto
internazionale moderno, non considera una condizione fondamentale l’esistenza di una guerra nel
senso tradizionale del termine, cioè uno scontro
armato in seguito ad una dichiarazione di guerra
tra due o più paesi; l’Islam, inoltre, non fa alcuna
distinzione tra i conflitti armati internazionali e
non internazionali. Questo è imputabile, al fatto
che la stessa nozione di Stato è del tutto estranea
all’Islam delle origini, e non è stata sufficientemente definita neanche in seguito.
Nel diritto internazionale, solo con le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 le norme umanitarie
divennero applicabili a tutti i conflitti armatie, con
il protocollo aggiuntivo del 1977, alcune categorie
di guerre di liberazione nazionale vengono equiparate ai conflitti internazionali. Riguardo questo
punto il diritto islamico ha anticipato, di circa tre
secoli, il diritto internazionale umanitario. 
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