Genova e Milano, la grande via del Risorgimento

Genova e Milano,
la grande via del Risorgimento
di Mauro Bocci
Genova
-
Stazione Brignole
ai primi del Novecento
SPECIALE LOMBARDIA
Il legame tra Genova e Milano ha radici lontane,
determinate dalla geografia, non meno che dalla
storia e dall’economia: l’una è il più naturale
sbocco al mare dell’altra, che a sua volta delinea
l’ampio retroterra del grande scalo marittimo
e gli spalanca le porte dell’Europa...
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SPECIALE LOMBARDIA
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Genova, Civico Museo
del Risorgimento.
Episodio
dell’insurrezione
a Genova del 1746
in una tela del pittore
popolare Camotto.
SPECIALE LOMBARDIA
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uesta realtà si consolidò in modo peculiare nell’età moderna e soprattutto nella stagione fra Cinque e Seicento che vien ricordata come il secolo genovese. Strettamente interconnessa con i possedimenti spagnoli della Lombardia e capolinea, ancorché non esclusivo e “centrale”, dei traffici transatlantici, Genova svolgeva ruoli
molteplici all’interno del sistema spagnolo, in una stretta connessione “intermodale” con
Milano, sebbene non troppo agevolata da gravi problemi di comunicazione viaria, che sussisteranno peraltro fino ai tempi di Carlo Felice e Carlo Alberto.
Funzioni strategiche (da Genova transitavano gli eserciti imperiali inviati nella piazzaforte
milanese) e ragioni economiche rafforzavano quell’asse tra le due città; per la Superba, la
capitale lombarda rappresentava la prima e fondamentale stazione di quel “corridoio
valtellinese” che portava alle Fiandre imperiali e al collegamento con Anversa. Per il controllo di quella “rotta” marittima e continentale venne combattuta la guerra dei Trent’Anni
(1618-1648), che di là dalle motivazioni religiose appariva come «un affare di finanzieri
di Genova e di patrizi del Brabante» (Giorgio Spini, Storia dell’età moderna); delle tragiche ripercussioni del sanguinoso conflitto nel Milanese ha offerto incomparabile affresco
il Manzoni nel Promessi sposi.
La catastrofe dei fino allora invincibili tercios spagnoli a Rocroi (1643) e a Lens (1648) e
il riassetto continentale stabilito, a favore della Francia, dalla pace di Westfalia (1648) e
poi da quella dei Pirenei (1659) ridimensionarono il peso della potenza genovese e anche
il carattere strategico del “corridoio valtellinese”. Le periodiche bancarotte della Corona
spagnola resero più difficili le condizioni finanziarie della Superba: grandi debitori dei
Genovesi, los Reyes catolicos avevano avuto peraltro la funzione di grande volano dell’alta finanza della città-Stato ligure e la decadenza spagnola si accompagnò con quella della Repubblica dei Magnifici. La situazione, per Genova, era complicata dalla politica aggressiva dei Savoia nei suoi confronti, che risaliva addirittura al tardo Cinquecento e a
Emanuele Filiberto: il baricentro dell’azione savoina si era spostato allora in direzione cisalpina e italiana, soprattutto con la ricerca di uno sbocco al mare – alternativo a Genova
e ritagliato a suo danno – nel Ponente ligure.
La questione dei rapporti tra la Superba e il background padano e subalpino – del quale
Milano restava un punto chiave – si era già evidenziata nella disputa savoino-genovese sul
feudo del Finale, acquistato poi dagli Spagnoli nel 1598: anche Madrid – alleata di Genova, ma non abbastanza per fidarsi completamente dei Magnifici – meditava probabilmente
di creare un’alternativa logistica (alquanto improbabile) alla linea maestra Genova-Milano, attraverso una direttrice che avrebbe previsto la valorizzazione portuale di Varigotti e
un passaggio attraverso il Monferrato; l’intervento diretto spagnolo aveva inoltre lo scopo di contrare eventuali manovre francesi nella regione.
Per tutto il Seicento, del resto, la Francia avrebbe mantenuto una politica antigenovese (culminata nel bombardamento navale della città, ordinato da Luigi XIV nel 1684) e filosavoina, la cui posta in gioco era spezzare le relazioni tra Genova, Milano e gli insediamenti
imperiali nordeuropei. Già durante la guerra dei Trent’Anni, la guerra di Zuccarello (1625),
combattuta tra Genovesi e Savoini per il controllo di un minuscolo feudo dell’estremo
Ponente ligure, portò l’esercito di Carlo Emanuele I alle porte di Genova, che si salvò grazie alla resistenza dei contadini polceversaschi e al tempestivo arrivo di una squadra spa5
SPECIALE LOMBARDIA
Il porto di Genova
alla fine del XIX secolo.
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gnola nel golfo. I Savoia tentarono ancora di rovesciare il governo dei Magnifici con la fallita congiura di Giulio Cesare Vachero (1628), che indusse la Superba alla costruzione delle nuove imponenti mura difensive (1629-1632).
Dopo la guerra di successione spagnola, che apre il Settecento, con la pace di Utrecht (1713),
Genova riuscì a strappare ai Savoia il marchesato del Finale, estirpando una pericolosa concorrenza contrabbandiera e bloccando i disegni di una via alternativa ai traffici genovesi
verso la Padania. In quegli stessi anni, l’aspro contenzioso dei Magnifici con Cosimo III
de’ Medici per la Lunigiana era alimentato probabilmente anche dall’esigenza di meglio
dotarsi di un ulteriore percorso, certo più antieconomico, verso Milano, dove la Repubblica manteneva tra l’altro una delle sue sedi diplomatiche, che si affiancava a quelle di Parigi, Madrid, Roma, Londra e Vienna.
L’impennata della guerra di successione austriaca (1742-1748) – nella quale la Superba si
trovò naturalmente schierata con i nemici dei Savoia, cioè con la coalizione franco-spagnola – e l’orgogliosa insurrezione del 1746 contro l’occupazione austro-piemontese, che
lega il suo nome a Balilla, non allentarono la pressione savoina su Genova, che andava anzi accentuandosi, poiché una nascente potenza regionale, fortemente ostile, s’insinuava ora
nel vitale canale commerciale con Milano, adesso sotto amministrazione austriaca. Fin
dal 1735, i Savoia avevano raggiunto il Tortonese e Serravalle; con il trattato di Aquisgrana (1748) avevano acquisito Voghera e l’Oltrepò pavese, creando un ostacolo tra la nemica Genova e la capitale lombarda. La crisi irreversibile della Corsica (ceduta a Luigi XV nel
1768) e l’affacciarsi dei Savoia in Sardegna accentuarono i problemi per i Magnifici, sempre più simili a un “comitato d’affari” piuttosto che a uno Stato moderno. La cesura con
Tortona e Voghera, e quindi la maggior complessità dei rapporti con Milano e l’Europa,
contribuirono a peggiorare le condizioni della Repubblica, ormai anacronistica come istituzioni, struttura e mentalità. In quel passaggio finale della sua storia come entità statale
propria, i migliori spiriti genovesi guardarono tuttavia all’illuminismo francese e lombardo, portatore di esigenze di cambiamento. La circolazione delle opere del Verri e del Beccaria – o delle traduzioni di Montesquieu e Voltaire – accompagnava la percezione di una
crisi strutturale, che investiva il piccolo Stato di fronte al riassetto politico ed economico
europeo. Figura esemplare di questa nuova sensibilità, rivolta anche al riformismo austriaco
nel Milanese, fu Agostino Lomellini – doge fra il 1760 e il 1762 – traduttore già nel 1753
del manifesto degli Enciclopedisti. La Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche
in Italia e in Liguria contribuirono, con la refrattarietà di molti esponenti della classe diri-
Frontespizio
di una pubblicazione
dedicata ad Agostino
Lomellino, doge
a Genova dal 1760
al 1762 e traduttore
del manifesto degli
Enciclopedisti.
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gente genovese, al mancato compimento di un processo di rinnovamento, che poteva passare in quella fase attraverso il modello del buon governo austriaco di Milano; e precipitarono la città-Stato in un’epoca di drammatici contrasti.
La caduta della Repubblica di Genova seguì quella dell’antica rivale, Venezia, e venne
programmata quasi a tavolino da Bonaparte, che il 15 maggio 1797 dalla sua residenza
milanese a Mombello scriveva a Guillôme Charles Faypault, ambasciatore francese a Genova: «La piena caduta del governo dogale di Venezia deve tirarsi dietro quella dell’aristocrazia di Genova; ma conviene aspettare quindici giorni finché le faccende di Venezia
siano state ultimate». Orchestrata dalle truppe francesi in coordinamento con i giacobini
locali, l’insurrezione scoppiò a Genova il 22 maggio 1797 e incontrò l’opposizione armata di quei “popolani” che avevano bloccato i Savoini nel 1625 e gli Austriaci nel 1746.
Tuttavia, l’ultimatum di Napoleone alla città – fermissimo nel tono, ma meno duro nella
sostanza – costrinse i Genovesi ad accettare la fine della Repubblica dei Magnifici e l’avvento della Repubblica democratica ligure. In otto anni di esistenza, prima della definitiva annessione francese, questa Repubblica avrebbe vissuto momenti travagliati e luttuosi, culminati nell’assedio austro-inglese del 1800, che non hanno forse pari per intensità
nella storia di Genova, almeno fino alla seconda guerra mondiale. La convenzione di Mombello – che ridisegnava gli equilibri italiani in vista di Campoformio (17 ottobre 1797) –
venne approvata a Genova il 9 giugno 1797. I rapporti della nuova entità statale genovese con la Repubblica cisalpina – formata da Napoleone unendo la Lombardia alla Repubblica cispadana – restituirono per breve momento impulso all’asse tra Genova e Milano.
In condizione di pace, la Superba avrebbe potuto trarre giovamento da un dominio marittimo francese del Mediterraneo e ritrovare pienamente la via per Milano e per l’Europa. La terribile sconfitta subìta da Napoleone ad Abukir (1° agosto 1798) limitava tuttavia le ambizioni francesi, prima ancora che quelle dello Stato satellite ligure. Alla fine del 1798, una vasta coalizione (Russia, Gran
Bretagna, Austria, Portogallo, Impero ottomano e inizialmente Regno di Napoli) scese in campo contro Bonaparte e
l’Italia settentrionale venne invasa: l’esercito austro-russo, fra
la primavera e l’estate 1799, inanellò una serie di vittorie,
prendendo Milano e Torino. Fu la fine della Repubblica cisalpina. Soltanto il generale André Masséna riuscì a dare respiro all’Armée, sconfiggendo i russi a Zurigo e asserragliandosi a Genova. Fu la strenua resistenza della capitale ligure (aprile-giugno 1800), isolato caposaldo, a impedire un’invasione da sud-ovest del territorio francese e a consentire a
Napoleone di riaffacciarsi in Italia e di riprendere Milano (2
giugno 1800), costringendo gli austriaci a riposizionarsi su
Alessandria, nelle cui vicinanze avrebbero subito la sconfitta di Marengo (14 giugno 1800). Dopo Marengo, però, l’Italia settentrionale “pacificata” perdeva per il Primo Console il valore geopolitico: sarebbe divenuta terra di razzìa, in
qualche caso, non certo un laboratorio politico, come si poteva pensare prima di Campoformio. I ragionamenti dei repubblicani del Nord-Ovest, in quell’albeggiare del secolo XIX,
immaginavano piccoli Stati italiani confederati (il Piemonte, la Repubblica ligure e la Cisalpina), nella amplificata riproposta dell’asse Genova-Milano; ma Napoleone, ormai imperatore, li gelò annettendo il Piemonte (11 settembre 1802).
Tuttavia, in quel 1802, Bonaparte – oltre a Loano, Oneglia e
Carrosio – attribuì alla Repubblica ligure Serravalle, punto
logistico importante verso Milano.
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Scontro navale davanti
al porto di Genova
durante l’assedio
del 1800. Acquatinta
di anonimo degli inizi
del XIX secolo.
“Guida per il viaggio
in Italia in posta”.
Yves Gravier, Genova
1786. (Collezione della
Galleria San Lorenzo
al Ducale).
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Ma ormai la stessa Repubblica ligure era ben poca cosa: nel maggio 1805 vennero liquidate le ultime autonomie genovesi: la città e i suoi territori entravano a far parte direttamente
dell’impero francese. Quello che avrebbe potuto essere un elemento di crescita per l’economia genovese, mettendole a disposizione un più vasto bacino commerciale, divenne una
catastrofe con l’inasprirsi delle guerre napoleoniche: l’incrociarsi del blocco navale inglese e del blocco continentale francese (che faceva ricorso a meccanismi autarchici in tutti i
territori occupati, nella convinzione di poter creare seri problemi ai traffici europei di Londra) ebbe effetto nefasto per l’antica Superba. Paradossalmente, il blocco continentale
aveva valorizzato gli scali mediterranei del contrabbando di merci inglesi, Gibilterra e Malta, dai quali quei prodotti giungevano senza troppe difficoltà nel cuore dell’Impero napoleonico, attraverso un sistema delle “triangolazioni” con paesi neutrali. Nella sua soggezione a Parigi, Genova era al contrario esclusa da questo remunerativo gioco di intermediazioni – ben sperimentato attraverso i secoli dalla sua antica classe dirigente – e impos-
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sibilitata a svolgere il suo ruolo tradizionale di grande porto dell’Europa meridionale, aperto sull’entroterra europeo.
Le “rotte” continentali vennero sconvolte e l’asse GenovaMilano venne fortemente compromesso. L’analisi di Georges Lefebvre appare convincente: «Tra il Mediterraneo e i
mari settentrionali, la guerra marittima accrebbe l’importanza del collegamento continentale. Assicurato sino allora, in gran parte, attraverso la Francia, l’Italia, la Svizzera e
l’Olanda, fu compromesso dalla chiusura della via renana.
[…] Una parte del traffico si orientò, per Emden, verso
Francoforte, per alimentare il contrabbando o raggiungere la Svizzera. Quest’ultima, d’altra parte, si vide separata
da Genova. La trasversale europea rinculò, di conseguenza,
verso est, come al tempo di Luigi XIV: essa passò, da allora
in poi, per Amburgo e Lipsia verso Venezia e, soprattutto,
verso Trieste». Ci sarebbero voluti decenni perché Genova
si riprendesse da una crisi tanto grave, che comprometteva i suoi tradizionali sbocchi continentali.
Genova venne separata ancor più drasticamente da Milano con il Congresso di Vienna (1814-1815), che consegnava
le terre liguri ai Savoia. Non è un caso se, subito dopo l’annessione al Piemonte – accanto a sentimenti repubblicani
e giacobini, municipalistici e filosavoini – sorgesse una corrente che riteneva più vantaggiosa per i traffici genovesi
una unione con l’Austria: non pochi mercanti genovesi apprezzavano la buona amministrazione imperiale e guardavano a Milano come “stella fissa” del loro commercio. Sebbene fosse uscita stremata dal periodo delle guerre napoleoniche, la città restava ricca, con
un tessuto sociale discretamente articolato e la relativa “ripresa”, sotto l’occupazione inglese del 1814, lasciava sperare. Ma l’Anschluss al Piemonte, paese agricolo e arretrato anche quanto a cultura d’impresa, risultava una fusione innaturale; vincolati a Milano, gli
interessi genovesi dovevano invece volgersi verso Torino, nel momento in cui la monarchia sabauda affrontava una congiuntura pesante: «In Piemonte gravarono sul bilancio
le spese per la frettolosa riorganizzazione dell’esercito in occasione dei Cento Giorni (nel
marzo del ’15 fu emesso un prestito forzoso di 4 milioni di lire) e per il mantenimento degli inglesi a Genova e degli austriaci in Piemonte, rimasti fino al dicembre del ’16. Erano
tali le ristrettezze che non fu possibile eliminare la barriera doganale tra Liguria e Piemonte» (Alfonso Scirocco). Nel sistema sabaudo del 1815, Genova e la sua borghesia non
potevano che risultare imbrigliate. Neppure la tariffa doganale introdotta nel 1818, a condizioni che tenevano parzialmente conto delle esigenze genovesi (per esempio con la diminuzione dei dazi sui rottami di ferro, lavorati nelle primissime ferriere locali) era capace di offrire nuovo impulso alla città.
I sentimenti repubblicani, in città, alimentavano il risentimento antisabaudo; nel tempo
stesso, Genova guardava con non minore preoccupazione al giro di vite austriaco nel Lombardo-Veneto, che rischiava di condizionare i fruttuosi rapporti con Milano. Ormai – specie dopo i moti costituzionali del 1821, ai quali la città prese parte, in modo relativamente anomalo – anche quei rapporti cominciavano a essere visti in una prospettiva nuova,
quella dell’unità d’Italia.
Non è forse un caso se la Giovine Italia, fondata a Marsiglia nel luglio 1831 dal genovese Giuseppe Mazzini, avesse già a metà del decennio tremila aderenti proprio a Milano. Nell’aprile
di quel 1831 si era spento Carlo Felice, accompagnato da una fama di tiranno, soltanto in
parte giustificata. Era stato amico di Genova – mentre detestava Torino – e insieme al suo
ammiraglio Des Geneys aveva contribuito allo sviluppo della flotta; ma, per quanto au-
Napoleone
in un’incisione degli
inizi del XIX secolo.
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SPECIALE LOMBARDIA
18 marzo 1846
Carlo Alberto “firma”
la nascita della Cassa
di Risparmio di Genova.
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striacante (e anche questo è in parte un pregiudizio storico) non si era troppo preoccupato
di sviluppare i collegamenti tra Genova e Milano, se si eccettua la carrabile dei Giovi, realizzata nel 1822. I disegni economici della monarchia sabauda, rurali e protezionistici, restavano incompatibili con quelli genovesi.
Ma lo stesso protezionismo, nell’età della Restaurazione, poteva significare qualcosa di assai diverso da quel che aveva rappresentato il blocco continentale nell’età napoleonica. Con
grande lucidità, il milanese Carlo Cattaneo guarda a questi temi in un saggio del 1836, Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Milano a Venezia, nel quale si parla anche diffusamente del nodo genovese. La riflessione sulle differenze fra gli equilibri economici
dell’epoca napoleonica e quelli della Restaurazione è significativa per comprendere il ruolo che Genova di lì a breve andrà a svolgere. «Durante il sistema continentale prevalsero adunque le vie terrestri. Il contrabbando terrestre
era assai maggiore del marittimo, si faceva attraverso il centro dell’Europa, e si depositava a Francoforte e nella Svizzera. La Francia poi riceveva da terra per Costainizza e Trieste i cotoni, le lane, le pelli, la vallonea e le altre merci levantine. […] Alcuni che guardano solo alla corteccia delle
cose diranno che il sistema continentale demolito nel 1814
rivive nel sistema protettivo adottato poi da quasi tutti gli
Stati europei. La somiglianza non si può negare; ma gli effetti sul transito sono precisamente opposti. L’effetto del sistema continentale napoleonico era quello di far preferire
le vie di terra; perché si trattava di far senza il mare, e dalle
rive del continente europeo si dovevano affamare tutte le
isole e le altre quattro parti del mondo. […] Al contrario
l’effetto del sistema protettivo è quello di far preferire le vie
di mare, rendendo intricate, lente e costose le vie di terra»».
Carlo Felice e Des Geneys avevano già compreso l’importanza strategica di Genova, se avesse potuto esprimere un’economia forte (che non poteva che essere in stretta connessione con Milano), e ne avvertivano probabilmente le
potenzialità, insieme alternative e complementari al sistema
sabaudo. Ma non era stato sufficiente. Alle lacune d’impostazione della monarchia, corrispondeva fin verso la metà
degli anni Quaranta l’intrinseca incertezza degli imprenditori genovesi, pur in un costante clima di ripresa. Ancora per
molto tempo, sotto Carlo Alberto, l’industria locale avrebbe dato segni di arretratezza, mentre tutto il quadro economico subiva abbastanza supinamente, anche per mediocrità, le limitazioni doganali piemontesi, prospettiva che Cavour ribalterà radicalmente.
I mercanti genovesi, intanto, guardavano con discreta rassegnazione a realtà lontane piuttosto che a quelle di un entroterra non adeguatamente servito da spedite vie di comunicazione. Ma qui stava uno dei problemi centrali di una riaffermazione genovese. Fino a metà anni Quaranta, sull’economia cittadina gravava infatti un peccato originale: la separatezza rispetto a Milano era un limite gravissimo, che toglieva molto di quel che l’integrazione con
Torino non sarebbe riuscita a restituire. Il rapporto fra Genova e Milano aveva connesso a
lungo Mediterraneo ed Europa. Sull’asse Genova-Milano la Superba ritrovava quelle vastità
continentali che l’orografia le aveva negato. Ma quella relazione tanto stretta era adesso soffocata dalle restrizioni doganali imposte da entità statali – il regno sardo, l’impero asburgico
– che tenevano soltanto in relativa considerazione le esigenze delle due città, entrambe inquiete, tendendo per ragioni politiche ad allontanarle piuttosto che a riavvicinarle.
Lo spostamento verso est, su Venezia e Trieste, dell’asse dei commerci negli ultimi anni del-
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le guerre napoleoniche, non aveva del resto limitato, se non
temporaneamente, il peso di quella che restava una delle
vie maestre dei traffici del Vecchio Mondo; fondamentale
per l’Italia settentrionale, ma assai importante anche in un
sistema di comunicazioni globali progressivamente integrato, il perno Genova-Milano si allargava del resto in raggi più ampi Genova-Milano-Europa e non meno EuropaMilano-Genova-America o ancora Europa-Milano-Genova-Istanbul-Odessa-Oriente. Nel suo saggio del ’36, Carlo
Cattaneo offriva ancora una analisi molto precisa dei potenziali movimenti di merci e transiti di persone interconnessi in una sorta di organismo unico continentale, che superasse nel libero scambio le frontiere e le ostilità fra gli Stati, e attraverso il quale raccordare navi e ferrovie, terra e mare: «[…] sulla carta geografica d’Europa si diramino da Milano tre linee, l’una verso Genova, l’altra verso Lione e la
terza verso il Reno. Parimente tre linee simili si diramino
da Venezia o da Trieste, l’una verso Vienna, l’altra verso Belgrado e Odessa, l’altra verso la bocca del Golfo Adriatico.
[…] si abbia la pazienza di osservare un istante, che continuando per mare da Venezia a Trieste, e superate quindi le
Alpi Giulie che sono le più facili di tutte e sembrano già prese di mira dai progettatori di strade ferrate, si giunge per le
valli quasi rettilinee della Culpa e della Sava appunto a Belgrado o Semlino, ciò che è tutt’uno. Quivi da poco tempo hanno cominciato a scorrere le navi a vapore che giù pel Basso Danubio, continuando quasi sempre la stessa direzione giungono al Mar Nero nel Golfo di Odessa. Se supponiamo fatta la strada ferrata da Milano a Venezia, […] alternando
due corse di terra e due d’acqua si perverrebbe da Milano a Odessa in tre o quattro giorni.
Ora il commercio dei Genovesi con Odessa e tutte quelle marine è antichissimo e vivacissimo. Ma pel giro immenso che vuolsi fare dalle loro navi intorno alla Turchia, alla Grecia
ed all’Italia, e per la tempestosa natura dei mari, è lungo, pericoloso e in molti mesi dell’anno affatto impossibile. I Genovesi potrebbero dunque trar partito a certi rami di traffico, massime in caso di perversa stagione o di guerra marittima che ostruisse gli accessi del
Mar Nero […]. Questo può dirsi frutto maturo e vi si può
fare qualche assegnamento, ma le corse da Trabizunda, da
Odessa o anche solo da Vienna, a Genova, a Lione, a Bordò o a Gibilterra saranno discorso di fiori finché la costruzione di altre strade ferrate non congiunga per Genova i
due mari d’Italia ».
Il fitto reticolo di collegamenti immaginato da Carlo Cattaneo si scontrava con i complessi equilibri politico-militari del primo Ottocento europeo; ma l’intuizione della necessità di un’evoluzione intermodale dei traffici attraverso
Genova, Milano e Venezia è modernissima: ci vorranno quasi vent’anni, dal suo scritto, prima che la ferrovia giunga nel
capoluogo ligure, ma per ancorarlo a Torino, su un asse di
commerci non certo determinante per il congiungimento
dei due mari d’Italia. Fra le ragioni che faranno della Superba e di Milano due capitali del Risorgimento – almeno
nella sua accezione più avanzata, anche se in definitiva perdente – non va trascurata la costante ricerca di ricostituzione dell’antico, naturale e vitale background comune.
Genova, Civico Museo
del Risorgimento.
Giuseppe Mazzini
in un dipinto
di Emilie Ashurst
Venturi.
Miniatura
riproducente il ritratto
di Vittorio Emanuele II.
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SPECIALE LOMBARDIA
Chiave da Ciambellano
di Ferdinando I,
1835/1848, in bronzo
dorato con punzone
di garanzia di Vienna.
(Genova, Palazzo
Ducale. Fulvio Miglia,
“Antichità Militaria”).
Molto di quel che avvenne a Genova fra le celebrazioni del centenario di Balilla nel 1846 e
la rivoluzione del 1849 va tenuto presente anche come un capitolo della battaglia per riallacciare con Milano un legame non sottoposto a vincoli sovradeterminati ed esterni; ma le
condizioni oggettive per porsi in una tale prospettiva matureranno soltanto a partire dal
decennio cavouriano. Il momento di ripresa di Genova andò tuttavia di pari passo con il
deciso affermarsi di una politica antiaustriaca da parte del sovrano, a partire soprattutto
da quella guerra del sale e del grano (1843-1846) che vide – forse per la prima volta – una
convergenza fra la monarchia e la città repubblicana. Una convenzione del 1751, confermata dal Congresso di Vienna, consentiva ai Savoia di far transitare per la Lombardia austriaca il sale veneziano destinato al regno sardo, contro la rinuncia a favore di Milano del
commercio di sale con i Cantoni svizzeri. Ma proprio l’annessione di Genova aveva fatto
cadere in disuso la convenzione, poiché il Piemonte non aveva più necessità di rifornirsi
di sale a Venezia, divenuta frattanto provincia imperiale. Nel 1843, i Ticinesi, che l’Austria
non riforniva adeguatamente di sale veneziano, si rivolsero a Marsiglia e stipularono una
convenzione con il governo piemontese per consentire il transito del sale in territorio sabaudo. Vienna cercò invano di far annullare da Torino l’accordo sardo-ticinese e dopo tre
anni di inutili negoziati fece scattare la rappresaglia economica, aumentando del 130 per
cento i dazi austriaci sui vini piemontesi, fonte primaria delle esportazioni sabaude. Nelle
relazioni economiche, l’atteggiamento austriaco era stato d’altro canto assai discutibile, fino ad allora, nei confronti del porto di Genova. Per una scelta rigidamente protezionistica – che per i suoi costi risultava particolarmente insensata alle imprese e ai mercanti del
Milanese – fino al 1840 l’Impero aveva preferito dirottare i traffici sui porti asburgici di Venezia e Trieste. Il 20 maggio 1846, Carlo Alberto affidava alla Gazzetta piemontese una durissima protesta dinanzi alla ritorsione austriaca sui vini: era forse il primo segnale del
malumore del sovrano verso Vienna.
Intanto, il risveglio dell’economia genovese passava attraverso la riflessione sull’affinamento
delle infrastrutture e la nascita di importanti istituti bancari, la Banca di Genova (1844) e
Tocco da Magistrato
con custodia in cartone
e carta marmorizzata
appartenuto a tal
Gio. Bianchi, 1840/1850.
(Genova, Palazzo
Ducale. Fulvio Miglia,
“Antichità Militaria”).
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Feluca da funzionario
sabaudo con rango
prefettizio, 1840 ca.,
modificata con la
sostituzione della
coccarda tricolore
durante la prima guerra
di indipendenza.
SPECIALE LOMBARDIA
la Cassa di Risparmio (1846). Nuove idee segnarono quella stagione, in cui settori economici e sociali cittadini, quand’anche in forte contrasto politico fra loro, cercarono con uguale determinazione di riguadagnare la strada per Milano. Esclusa per il momento la possibilità di una ferrovia “diretta”, si discusse allora di una tratta tra Genova e il Lago Maggiore; Michele Erede (1806-1878), brillante economista genovese, fu tra i propugnatori di quella linea ferrata, sebbene si trattasse di un ripiego.
Sia l’VIII Congresso degli scienziati (settembre 1846) sia, e ancor più, le celebrazioni per il
centenario di Balilla, nel dicembre di quell’anno, evidenziarono le pressioni genovesi per
una politica antiaustriaca della monarchia; dopo quelle giornate, Carlo Alberto dovette avviare il dialogo con i liberali
piemontesi (Gioberti e Balbo, D’Azeglio e Cavour), con i
patrizi genovesi (Pareto e Ricci) e con i moderati milanesi
del conte Gabrio Casati. Genova visse in quei giorni un’esperienza esaltante e fondamentale fu la pressione delle manifestazioni popolari genovesi del dicembre 1847 e del gennaio 1848 per arrivare alla concessione dello Statuto albertino (8 febbraio 1848). Carlo Alberto temeva del resto
un’insurrezione, se non un tentativo di secessione a Genova, che Londra, in quella fase della sua politica mediterranea – condizionata dalla presenza francese in Algeria – avrebbe forse appoggiato; ma i Genovesi si muovevano esplicitamente contro Vienna e guardando a Milano, in una prospettiva radicale, ma legalitaria.
Frutto di una grande crisi economica europea, il Quarantotto italiano fu anche il risultato di comuni energie genovesi e milanesi. Il 22 febbraio il popolo di Parigi insorgeva
contro Luigi Filippo: cominciava quella che sarebbe stata
chiamata la primavera dei popoli – e Genova e Milano ne
avevano percepito in anticipo le inquietudini e i fermenti.
Il 13 marzo Vienna si ribellò all’onnipotente principe Klemens von Metternich, reazionario arbitro delle sorti d’Europa; il 18, a Milano, vennero erette le prime barricate: seppure gonfiata dall’agiografia risorgimentale, l’epopea delle Cinque Giornate si sarebbe conclusa con la ritirata dei 13
mila soldati del vecchio generale Radetzky: di certo, di fronte ai tumulti, quest’ultimo – un vecchio militare indebitatissimo, che conviveva da molto tempo con una amica milanese, amava la città ed era golosissimo di gnocchi di patate – non intervenne con pugno di ferro.
Nell’insurrezione ebbe ruolo centrale Carlo Cattaneo, repubblicano e federalista, che si mantenne assai critico nei
confronti della politica di Carlo Alberto. Il governo provvisorio presieduto dal conte Gabrio Casati, espressione dei moderati filosabaudi, chiese invece aiuto ai piemontesi e invitò il re sardo ad annettersi la Lombardia, trovando la vigorosa opposizione di Cattaneo e
dei suoi, che lo definirono un ciambellano. L’esercito sabaudo passò il Ticino il 28 marzo.
La deliberazione con la quale il sovrano dichiarava guerra all’Austria era un capolavoro
d’ambiguità, nell’agitare lo spauracchio repubblicano, certo ben presente, e nell’agitare prerogative e diritti dinastici. Il Savoia-Carignano aveva ben presente – grazie ai suoi sgherri,
peraltro non meno efficienti di quelli austriaci – il pericolo di certe posizioni repubblicane e addirittura socialiste che andavano emergendo tra Genova e Milano.
La replica del Cattaneo a questo manifesto fu durissima: Carlo Alberto viene definito tra
l’altro «l’usurpatore di Genova». Mazzini, giunto a Milano l’8 aprile 1848, aveva invece ma-
Spalline da Cavaliere
dell’Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro,
ordine dinastico della
Casa Savoia, 1840 ca.
(Genova, Palazzo
Ducale. Fulvio Miglia,
“Antichità Militaria”).
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SPECIALE LOMBARDIA
Barricate contro
gli Austriaci a Milano,
Porta Tosa, 1848.
(Milano, Museo
del Risorgimento).
nifestato un “basso profilo”, a tal punto da offrire discretamente al re il sostegno suo e dei
repubblicani, purché vi fosse una svolta della monarchia in senso democratico. Non se ne
fece nulla e il patriota genovese incassò anche questa sconfitta politica; fu inoltre bollato
da Cattaneo come un venduto. In quei giorni, Genova era la porta attraverso la quale affluivano i volontari destinati a combattere nella pianura del Po. Sbarcarono sotto la Lanterna siciliani e napoletani, comprese le truppe regolari; alla fine di aprile arrivarono oltre
cento volontari dell’Associazione nazionale italiana, fondata da Mazzini, unendosi poi ai
tanti che avevano preso parte alle giornate milanesi. Passarono volontari polacchi e ungheresi: questi ultimi adottarono qui il loro tricolore a bande orizzontali. A Milano per il
tramite di Genova, era presente in quella fase – come ricorda Raimondo Luraghi nella sua
monumentale Storia della guerra civile americana – il leggendario capitano antischiavista
John Brown, affascinato dal radicalismo delle due città “italiane” e anche dagli scritti polemiologici, sulla guerra per bande, del conte rivoluzionario Carlo Bianco di Saint-Jorioz,
cospiratore nel 1821 con Santorre di Santarosa.
Le prime vittorie dell’esercito sabaudo e dei volontari – Goito, Curtatone e Montanara – e
i plebisciti filopiemontesi in Emilia (maggio 1848) galvanizzarono Carlo Alberto, rendendo più sospettosi i suoi alleati – il papa “liberale” Pio IX, il granduca di Toscana e il sovrano duosiciliano – che si defilarono in fretta. La controffensiva austriaca colse il 25 luglio a
Custoza una vittoria decisiva, causata in buona misura dalla mediocrità di manovra dei
Piemontesi e dalla scarsa organizzazione delle linee di rifornimento e di infermeria. Si rivelò tra l’altro errore gravissimo non aver accettato in aprile le proposte di pace di Vienna,
disposta, allora, a sgombrare fino al Mincio. Perfino il moderatissimo Casati assunse una
posizione critica nei confronti della campagna di Carlo Alberto.
Mentre ancora le sorti della guerra sembravano volgere a favore di Torino, il conte di Cavour, appena un mese prima di diventare deputato al Parlamento pedemontano, pubblicava sul proprio giornale, Il Risorgimento (4 maggio 1848), un significativo articolo di
“filosofia” ferroviaria, che riproponeva il tema dei rapporti Genova-Milano. Il “pezzo” di
Cavour risentiva di un clima particolare ed esprimeva auspici che non si realizzeranno in
breve. Ma coglieva con esattezza la priorità dell’asse fra Genova e Milano, e il carattere
strumentale di quella linea da Genova a Novara al Lago Maggiore, che rivelerà peraltro la
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Giuseppe Dellepiane
(Genova 1832-1884).
Combattimento di due
lancieri (olio su tela).
Genova, Museo
dell’Accademia Ligustica
di Belle Arti).
SPECIALE LOMBARDIA
propria utilità strategica nella seconda guerra d’Indipendenza e che, intanto, veniva a costituire una spina nel fianco per le dogane austriache. «Considerando gl’interessi generali della gran valle del Po, di cui Genova è il porto principale, fatta astrazione alla strada di
Torino, le cui condizioni non sono alterate, la strada più importante è quella da Genova
a Milano. Queste due città debbono essere riunite nel modo più breve e più celere. La linea del Lago non può servire a tale scopo; non è possibile il costringere i viaggiatori e le
merci, che dal mare sono avviate alla capitale della Lombardia, a passare da Alessandria,
Valenza, Mortara e Vigevano. Con tale giro vizioso si aumenterebbe di molti chilometri
lo spazio a percorrersi per giungere da Genova a Milano mediante una strada, che, diramandosi dalla strada di Torino fra Serravalle e Novi, corresse direttamente verso Milano
passando per Tortona, Voghera e Pavia. Né si opponga, che trattandosi di strade ferrate
sulle quali così rapido è il moto, l’aumento di 30 a 40 chilometri (che a tanto calcoliamo
la differenza fra le due linee), cioè un’ora di più in viaggio, sia poca cosa. Quest’obbiezione avrebbe qualche peso se si dovessero paragonare fra di loro le attuali comunicazioni;
cade a terra, se si considera ciò che dovrà risultare dalla non dubbia estensione delle strade ferrate a tutti i principali punti delle nazioni civili. Fintantoché s’impiegano dalle vetture pubbliche venti ore per andare da Genova a Milano, l’economia di un’ora è cosa di
poco momento; è un risparmio del ventesimo del tempo consumato in viaggio; ma quando questo richiederà solo quattro o cinque ore, la perdita di un’ora si farà gravemente sentire, e sarà un aumento di tempo del quarto o del quinto, ciò che verrà considerato come
un insopportabile inconveniente».
Le basi della grande strategia “infrastrutturali” del Cavour già si avvertono in questo scritto del 1848; Genova e Milano ne sono i cardini indispensabili. Nel giro di poche settima-
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SPECIALE LOMBARDIA
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ne, le sorti del conflitto mutarono, e con esse tramontò la possibilità di una linea GenovaMilano; ma il fatto stesso che perfino l’uomo più acuto – e di lì a non molto più potente –
del Piemonte se ne occupasse proprio nei giorni in cui la nazione sabauda era presa da ben
altre emergenze attesta il carattere prioritario di una intuizione che permeerà di sé per un
decennio la volontà risorgimentale.
Quasi in conclusione della sua Storia di Genova, Teofilo Ossian De Negri, dopo aver rilevato che alla base del Risorgimento c’è l’opposizione a quell’Austria «che tende a separare ciò
che è inseparabile, Milano e Genova, pianura lombarda e mar ligure», dedica al tema della
ferrovia una pagina significativa. «La politica ferroviaria piemontese si è resa pieno conto
delle necessità dell’emporio ligure e le favorisce, non solo aprendo nel 1854 la linea principe Torino-Genova, che, a pochi anni dalla rivolta del 1849 soffocata dal La Marmora, è anche un simbolo di un clima nuovo d’incontro e di cordialità tra le due capitali, di terra e di
mare; ma pure sviluppando una rete da Genova a Novara e verso i valichi alpini che procede parallela al confine lombardo. Il che, come è risaputo, avrà importanza decisiva anche dal
punto di vista strategico nelle operazioni del ’59. Ma sul piano economico tale orientamento
è in parte falso, e farà sentire più vivo il bisogno di forzare la barriera del Po e del Ticino e
di far proseguire verso i più facili valichi delle Alpi lombarde, attraverso Milano, le linee radianti da Genova e da Alessandria. È stato già messo in rilievo come nella politica ferroviaria si siano espressi in modo stridente i contrastanti interessi del Piemonte e dell’Austria, e
si sia determinato quasi il dissidio. Certo è che la politica sabauda e il commercialismo genovese, in questo campo perfettamente all’unisono, quasi vengono a trovarsi tra mano uno
strumento, le ferrovie mozze, o flesse fuori dal loro naturale allineamento, che è come un richiamo, o un trampolino di lancio, per correr l’avventura del varco del Ticino».
Nell’estate 1848, i Piemontesi furono intanto costretti ad abbandonare la Lombardia e a
chiedere l’armistizio: rientravano nei loro confini e veniva concesso ai patrioti lombardi
di prendere la via dell’esilio. E questa via portava inevitabilmente i più compromessi –
quindi soprattutto i più rivoluzionari – verso Genova, tanto nell’eventualità di prendere
il mare quanto in quella di preparare nuove azioni in un ambiente che si era dimostrato
fervidamente partecipe.
A quell’incerta, febbrile estate, seguì un autunno che sembrò rimettere in moto le sorti della rivoluzione italiana, a Roma, a Firenze, a Venezia. Nel febbraio 1849, il re sardo si trovò
così al bivio: o la pace con l’Austria, a condizioni dure se non vergognose, o riprendere un
conflitto dalle sorti incertissime. La guerra, probabilmente, era a quel punto il danno minore, almeno per la dinastia; ma Carlo Alberto era isolato, e se si muoveva era soltanto per
il timore di un’offensiva repubblicana. Il 20 marzo 1849 i Piemontesi varcarono ancora il
Ticino. I vertici militari erano stati frettolosamente riorganizzati e sicuramente erano
peggiori rispetto al 1848. La Legione lombarda (i volontari repubblicani, socialisti, anarchici) era guidata dal genovese Gerolamo Ramorino, sorta di “rivoluzionario di professione”, che Mazzini aveva ingaggiato con scarso successo e con ingente spesa nei primi anni
Trenta, per la fallita insurrezione repubblicana in Savoia. Remorino che tenne di riserva la
Legione, preservandola dal massacro – che era forse nei disegni del re, che mal avrebbe sopportato di dover fare i conti con un esercito di repubblicani, specie in caso di sconfitta – fu
l’unico a pagare, con la fucilazione, per una catastrofe annunciata: sia Luigi Napoleone sia
l’inglese Palmerston avevano sconsigliato il Savoia-Carignano dal riprendere le ostilità.
La rotta di Mortara e la disfatta di Novara confermarono le loro previsioni negative: alle
18 del 23 marzo 1849 la prima guerra d’Indipendenza era finita. Radetzky dettò condizioni pesantissime: occupazione della Valsesia, consegna del forte di Alessandria, congedo dei
volontari, Vittorio Emanuele, primogenito del re, ostaggio degli austriaci. Quando quest’ultimo raggiunse Novara, Carlo Alberto abdicava in suo favore e s’incamminava verso
l’esilio: sarebbe morto a Porto, nel luglio 1849, appena cinquantenne.
In una cascina di Vignale, Vittorio Emanuele II, il ventottenne nuovo re, incontrò Radetzky,
già suo testimone di nozze. Il vecchio generale avrebbe poi comunicato a Vienna che il so-
SPECIALE LOMBARDIA
vrano «dichiarò fermamente di avere la più solida intenzione di mettere a terra il partito
repubblicano al quale suo padre, negli ultimi tempi, aveva dato tanta mano libera da farne un pericolo per sé e per il trono».
La rivoluzione genovese dell’aprile 1849 si collocava subito dopo l’armistizio austro-piemontese ed era stata alimentata da dicerie che, fin dal 27 marzo, volevano le truppe imperiali in marcia su Pontedecimo. Il clima di sospetto che seguì i giorni della fatal Novara –
mentre la strategica cittadella di Alessandria veniva effettivamente lasciata agli Austriaci –
fu la ragione scatenante di quella che lo storico francese Charles de Mazada definì una piccola Comune. La componente antipiemontese, municipalistica e indipendentistica, vi ebbe certo un ruolo inferiore rispetto alla volontà democratica di difendere lo Statuto, anzi
di superarlo in senso repubblicano, e a quella patriottica e antiaustriaca, che presupponeva la difesa di Milano. E a queste motivazioni si aggiunsero ragioni sociali. Inoltre, il nuovo governo di Vittorio Emanuele II – che in quei giorni non perdeva occasione per tuonare contro i demagoghi e i politicanti – aveva tutte le caratteristiche per mettere in allerta gli
spiriti democratici. La convinzione che gli spazi di libertà che Genova si era guadagnata in
quegli anni fossero in gioco (e che addirittura potessero aver fatto parte di un mercato segreto fra il re e Radetzky) era piuttosto fondata. Il barone Antonio Profumo, primo sindaco della città, lanciava appelli al Parlamento di Torino e al re perché la lotta antiaustriaca continuasse e si concentrasse a Genova; ma le suppliche non sortirono effetti.
Il 31 marzo, si insediava un Comitato di pubblica sicurezza e difesa, che ricalcava un poco
i triumvirati veneziano, toscano e romano. Il 1° aprile Genova insorgeva.
Il responsabile sabaudo della piazza, Giacomo De Asarta si arrendeva il 2 aprile, impegnandosi a lasciare subito la città con tutte le sue truppe e ritirarsi oltre Appennino. E così fece, promettendo anche di intercedere per evitare un attacco piemontese alla città. Do-
Trionfale ritorno
della Brigata Salerno
in piazza De Ferrari
a Genova. Opera
di Giuseppe Mazzei
conservata presso
il Museo del
Risorgimento.
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Il treno di prova
nella grande galleria
di Ronco. Da un disegno
dal vero di A. Amato.
(Collezione della
Galleria San Lorenzo
al Ducale).
po l’allontanamento delle truppe piemontesi, primo atto del governo provvisorio – insediatosi in vece del precedente comitato, ma con la stessa guida – fu quello di coinvolgere
nel moto la Legione lombarda, i cui volontari, dopo Novara, stavano vagando per la Val
Trebbia, per sfuggire all’avanzata austriaca su Alessandria e riorganizzarsi o cercare scampo e un eventuale imbarco a Chiavari: Genova e Milano si trovavano ancora solidali.
A raggiungere Genova, Lamarmora, con l’incarico di commissario straordinario, fu tuttavia più rapido della Legione lombarda, che arrivò stremata a Chiavari soltanto a partire dal
7 aprile. Genova venne bombardata – senza risparmiare l’ospedale di Pammatone – e croatata dai bersaglieri di Lamarmora: il rapporto dei funzionari genovesi di polizia registrava
in modo molto preciso stupri e saccheggi degni del peggiore esercito di occupazione. La
tragedia genovese si consumava negli stessi giorni in cui il nuovo sovrano concludeva a Milano, il 6 aprile, la pace con l’Austria. Sul trono degli Asburgo sedeva ora il diciannovenne
Francesco Giuseppe; a Vienna, travolto Metternich, la controrivoluzione aveva imposto il
dinamico Felix von Schwarzenberg, che tingeva di venature liberali un governo sempre autocratico, ma più preoccupato dagli sviluppi delle politiche intertedesche che di un Lombardo-Veneto riconquistato e tenuto sotto il tallone della dittatura militare.
Il quadro politico sarebbe tuttavia cambiato in tempi relativamente rapidi. Nel novembre
1852, il conte di Cavour diveniva primo ministro piemontese e avrebbe confermato il suo
interesse prioritario nella creazione di una robusta linea ferroviaria interna. Anche se la coscienza di un rapporto privilegiato, e indispensabile, tra Genova e i paesi di oltre Alpi era
già chiara: la via per Milano avrebbe rappresentato piuttosto un risparmio di tempo in un
tracciato ideale verso la Svizzera e la Germania, costituendo insieme un importante investimento per i commerci interni al regno.
All’inizio del 1853, intanto, si chiudeva con il fallimento uno degli ultimi moti mazziniani: il cospiratore genovese – preoccupato per la definitiva restaurazione di Napoleone III e
per il risveglio della politica piemontese, che faceva oscillare molti suoi vecchi compagni
verso la monarchia – diede la propria approvazione a un tentativo insurrezionale a Milano. Come la rivoluzione genovese del 1849, della quale riprendeva in parte i motivi, anche
la rivolta dei barabba (operai, artigiani e popolo minuto) è episodio risorgimentale taciu18
Sotto e alla pagina
seguente
Immagini d’epoca
della città di Milano.
SPECIALE LOMBARDIA
to dall’oleografia ufficiale. I barabba non avevano seguìto la svolta filosabauda dell’aristocrazia e della borghesia milanese e la loro rivolta, che fallì sul nascere, ebbe tuttavia manifestazioni cruente, come il linciaggio di alcune guardie, e provocò una durissima reazione
austriaca, con numerose condanne a morte ed esecuzioni. Negli ambienti repubblicani si
disse che ad avvertire gli austriaci della cospirazione fosse stato lo stesso Cavour, alla cui
politica avrebbe molto nuociuto una rivoluzione dal basso a Milano. Il Risorgimento si sarebbe compiuto per vie più istituzionali. Fu probabilmente l’ultimo tentativo di imprimere una svolta non monarchica al Risorgimento.
A Genova, dopo i tragici eventi del 1849, l’apertura della ferrovia Torino-Genova nel novembre 1853 fu invece il primo passaggio di un relativo ravvicinamento fra la città repubblicana e Vittorio Emanuele II, che sarebbe venuto a inaugurare la linea nel febbraio 1854,
con dovizia di celebrazioni. Nel 1856 venne poi inaugurata la Genova-Voltri. Le istanze di
integrazione di Genova nel sistema sabaudo vennero rafforzate e incoraggiate dalla ferrovia, non meno di quelle, ormai organiche al disegno cavouriano, di un ampliamento del
regno piemontese anzitutto verso la Lombardia. Attorno a Cavour si era venuta a creare a
Genova una sorta di solida rete economico-politica, formata da imprenditori e finanzieri
liberali – i Bombrini, i Rubattino, i Balduino, gli Ansaldo – già consapevoli della complessità di un processo unitario che doveva passare per lo sviluppo economico. La riconquista
dell’asse Genova-Milano, che era stato uno dei motivi forti del pensiero risorgimentale dalla Restaurazione al biennio 1848-1849 e anzi ne aveva in qualche modo fissato la radicalità, divenne uno degli elementi portanti del decennio di preparazione che avrebbe portato
nel 1859 alla Seconda guerra d’Indipendenza, e il rapporto privilegiato di Cavour con gli
industriali genovesi rappresentò un importante elemento di raccordo per il compimento
di quella impresa. Si ponevano intanto le prime basi di quel triangolo industriale che avrebbe caratterizzato per oltre un secolo la storia d’Italia.
I rapporti tra Genova e Milano – nel sistema del regno d’Italia dopo il 1859 – poterono crescere a tutti i livelli. Le due città si trovarono ancora in prima linea, accomunate sul versante della radicalità, e ora del socialismo, nel secolo morente; ma esiti ben diversi ebbero la
rivolta milanese del 1898, sanguinosamente stroncata dal feroce, monarchico, Bava (il ge-
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nerale Fiorenzo Bava Beccaris), e lo sciopero generale del porto di Genova del dicembre
1900, pietra miliare delle lotte sindacali in Italia. Tra l’altro, all’istituzione del Consorzio
autonomo del porto di Genova (febbraio 1903), che anche di quella lotta democratica fu
un risultato, la Camera di Commercio milanese ebbe un proprio rappresentante (come
quelle di Torino e Alessandria) nel nuovo organismo.
Drammaticamente allineate tanto nel poderoso sforzo di produzione bellica per la Grande
Guerra, e considerate zone di guerra dall’ottobre 1917, insieme con Torino, Genova e Milano furono poi due dei centri nei quali più forte fu l’opposizione operaia al fascismo squadristico. L’antico spirito libertario e democratico del Risorgimento rifiorì in quella fase.
Pure, fu il regime mussoliniano – nella sua aspirazione di crescita industriale – a riavvicinarle
ancor più. La considerevole crescita del traffico commerciale su gomma rispetto a quello su
rotaia stimolò la realizzazione di un’autostrada che rendesse più veloci gli spostamenti con
mezzi pesanti fra la Superba e il suo entroterra. Nacque dunque, in appena tre anni di lavori (venne ultimata nel settembre 1935), la Strada camionale Genova-Serravalle, poi prolungata fino al capoluogo lombardo. una struttura che ancor oggi “regge” con fatica, come corsia sud della A7 Genova-Milano, all’impatto di una motorizzazione ben diversa da quella
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SPECIALE LOMBARDIA
degli anni Trenta. I cantieri della Camionale si aprirono del resto nell’anno in cui per le strade cominciava a circolare la Fiat Balilla, un’auto dal piccolo chassis, antenata delle utilitarie
e rivolta a un pubblico non esclusivo.
Con la guerra adolfa – come la chiamò il grande scrittore milanese Carlo Emilio Gadda –
e con i bombardamenti, il triangolo industriale venne duramente colpito. E fu con l’insurrezione modello di Genova che, come avrebbe ricordato Paolo Emilio Taviani (che di quelle giornate fu uno dei principali attori), «due corpi d’armata germanici (che già avevano
ricevuto l’ordine da von Vietinghoff, che era succeduto a Kesserling, di ritirarsi ordinatamente e organizzare una linea di difesa sul Po), quello di stanza nel Genovesato e quello
schierato sul lembo occidentale della linea gotica (Sarzana-La Spezia), furono completamente dissolti. Un altro corpo d’armata dislocato in Piemonte, che avrebbe dovuto coprire il fianco occidentale della linea Kesserling sul Po, rimase isolato. Le forze partigiane piemontesi poterono valorosamente sconfiggerlo […]. I nazisti furono dunque costretti a rinunciare a quella ormai famosa ultima linea di resistenza sul Po per la quale Kesserling
aveva predisposto da oltre un anno piani meticolosi e nella quale fino all’ultimo aveva
sperato. Dovettero evacuare Milano e la guerra terminò in
Italia con due settimane d’anticipo».
Il dopoguerra portò a un consolidamento del triangolo industriale, ma anche a un suo allargamento a est, verso Porto Marghera e Ravenna, che rendeva meno decisivo il peso
di Genova, dove la crisi occupazionale cominciava in parte
ad avvertirsi; gli anni del boom economico (1958-1963) segnarono anche l’avvio di una piccola ma interessante “migrazione pendolare” dal capoluogo ligure a quello lombardo, nel quale maggiori erano le occasioni, specie per il lavoro intellettuale e le sue specializzazioni. Il fenomeno si sarebbe fatto ancor più consistente con gli anni Settanta e
Ottanta, in un periodo critico per Genova, al quale corrispondeva per contro il clima di prosperità, talvolta un poco “dopata” di quella che sarebbe stata definita, con eccessivo sarcasmo, la Milano da bere. La riformista Milano e la “ribelle” Genova erano state anche le prime due città a darsi
una giunta di centrosinistra, nel 1961, facendo da apripista
a una svolta assai importante per la politica italiana. Gli
anni di piombo le videro ancora in trincea, colpite dai terrorismi, ma ugualmente capaci di reagire democraticamente.
Il legame Milano-Genova non è fatto però soltanto di storia
comune e di esigenze economiche condivise, a delineare un plurisecolare sistema d’interdipendenza; altre liaisons, “di costume”, avvicinano queste due “capitali” del Nord: la loro vicinanza non risulterebbe così stretta se non si rievocasse il dato, non trascurabile, che il Genovesato (e più diffusamente la Liguria) è la villeggiatura, oggi più o meno stanziale (o di “seconda casa”) di molti milanesi. Tra gli antecedenti illustri di questo altro tipo di flusso, si
può annoverare Alessandro Manzoni, che scendeva sul Mar Ligure nell’estate genovese, con
la numerosissima famiglia, ospite della bella villetta del marchese Gian Carlo di Negro, dove
avrebbe in parte atteso alla stesura della versione quarantana del suo capolavoro. Un altro
Gran Lombardo, Carlo Emilio Gadda, fu invece spesso animatore della villa di Arenzano dei
Rodocanachi, divenuta cenacolo letterario entre deux guerres. Un altro milanese, stavolta
d’adozione, il cigno di Busseto Giuseppe Verdi era stato per oltre quarant’anni villeggiante estivo a Genova, ma non concesse mai al teatro Carlo Felice l’onore della “prima assoluta” di
una sua opera. L’altra faccia della medaglia è peraltro il premio Nobel Eugenio Montale, genovese tanto sensibile alle radici della propria terra, ma trapiantato a Milano, in via Bigli, e
per decenni “grande firma” del prestigioso e milanesissimo Corriere della Sera.
Il marchese Gian Carlo
Di Negro in un ritratto
di Bianca Milesi Mojon,
inizi XIX sec. (Milano,
Collezione privata).
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