Insegnamento di
Macroeconomia
Lezione XXI
“Ciclo economico”
Prof. Mattia Lettieri
Macroeconomia
lezione XXI
Indice
1.
Crescita economica .................................................................................................................................... 3
2.
Le ragioni della crescita economica .......................................................................................................... 6
2.1
Le politiche per la crescita ............................................................................................................... 10
3.
Il ciclo economico .................................................................................................................................. 11
4.
Le politiche di stabilizzazione ................................................................................................................. 15
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1. Crescita economica
Fino ad ora abbiamo visto che ogni azione esercitata su una certa grandezza economica o in un
determinato mercato produce degli effetti, più o meno desiderati, anche su altre grandezze o in altri
mercati.
Inoltre, se gli obiettivi macroeconomici, crescita della produzione, occupazione e stabilità dei
prezzi, e gli strumenti macroeconomici, politica fiscale e politica monetaria, sono comuni a tutte le
teorie economiche, i modi suggeriti per utilizzare questi strumenti al fine di realizzare gli obiettivi
sono diversi a seconda delle teorie.
I tre principali obiettivi macroeconomici sono:

Crescita economica;

Occupazione;

Stabilità dei prezzi.
Ora, esamineremo come si presentano nella realtà, come cambiano nel tempo, come si misurano
queste tre grandezze e quale significato hanno.
Uno dei principali indicatori economici è il PIL o prodotto interno lordo.
Il PIL è una stima del valore di mercato di tutti i beni e servizi realizzati in un paese nel corso di un
anno.
Se questo indicatore cresce, vi sono maggiori mezzi e risorse a disposizione della società e dei
singoli, le prospettive economiche sono più favorevoli, si possono creare nuove opportunità di
lavoro, la disoccupazione può diminuire e il tenore di vita dei cittadini migliora.
Quando si parla di tasso di crescita dell’economia si intende l’incremento percentuale che il
prodotto interno lordo registra in un dato periodo di tempo.
Può trattarsi di un trimestre, di un anno ma anche di un periodo di tempo molto più lungo, 10 o 20
ed oltre.
Le informazioni, però, che si possono ricavare osservando l’andamento del PIL sono molte diverse
a seconda dell’intervallo di tempo considerato.
Quando gli economisti parlano di sviluppo e di crescita economica si riferiscono alla dinamica del
PIL durante un lungo intervallo di tempo.
Infatti, è soltanto quando il ritmo dell’economia è piuttosto sostenuto e protratto nel tempo che il
tenore di vita e il livello di benessere della popolazione possono davvero aumentare.
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La teoria della crescita studia quali sono i fattori che possono favorire la crescita economica di un
paese e indica le strade per lo sviluppo che i paesi più arretrati dovrebbero percorrere.
La crescita del PIL non è però costante ed uniforme anno dopo anno.
Se si osserva la dinamica della produzione, in qualunque sistema economico, si può vedere che si
alternano periodi in cui il PIL aumenta, anche in misura consistente, con altri in cui resta stazionario
o può addirittura diminuire.
Questa successione di periodi di espansione alternati a periodi di calo dell’attività economica viene
definita con il termine di ciclo economico.
Figura n.79
La linea tracciata nella figura n. 79 definisce il trend, ovvero il sentiero di crescita tendenziale che
una economia può registrare nel corso di un intervallo di tempo piuttosto lungo.
Il trend del PIL descrive il processo di sviluppo di un paese compiuto nel lungo periodo, l’aumento
del suo prodotto potenziale e quindi della capacità produttiva nel corso del tempo.
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La curva tracciata, nella figura 79, invece, descrive le perturbazioni che intervengono all’interno del
sistema economico e che fanno sì che, da un anno o da un trimestre all’altro, la produzione effettiva
oscilli attorno al suo valore tendenziale, alternando periodi di espansione, durante il quale il PIL
cresce fino a raggiungere un suo punto di massimo, con periodi di recessione, in cui il PIL si riduce
fino a raggiungere un punto di minimo.
La durata e l’ampiezza dei cicli, così come il tasso di crescita dell’economia, in genere non sono né
costanti né regolari ed è quindi piuttosto difficile prevederli ed intervenire per favorirli o
correggerli.
Tutto ciò che possiamo fare, è cercare di capire i fattori che li determinano e le conseguenze che
possono produrre dal punto di vista economico e sociale.
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2. Le ragioni della crescita economica
La crescita economica di un paese viene valutata in base alla dinamica del PIL durante un intervallo
di tempo abbastanza lungo, durante il quale è possibile osservare la tendenza a lungo termine ed
escludere l’effetto di oscillazioni che si registrano in intervalli di tempo più brevi.
Nel lungo periodo, quando la produzione è al suo livello potenziale e tutti i fattori produttivi sono
completamente utilizzati, una ulteriore crescita del prodotto si può determinare a seguito di una
maggiore disponibilità di fattori produttivi, risorse umane, risorse naturali e capitale, o di una
migliore capacità di utilizzo dei fattori stessi che determina un incremento dello loro produttività,
innovazione tecnologica e progresso tecnico.
L’idea di fondo è che se un paese può disporre di quantità maggiori di fattori produttivi, più lavoro,
più capitale, più materie prime, o se dispone di tecniche di produzione più nuove e più efficienti, è
in grado di produrre di più.
I fattori che spiegano la crescita economica di un paese nel suo complesso non sono diversi da
quelli della funzione di produzione della singola impresa.
Infatti, così come una singola impresa può aumentare il proprio output, un intero sistema economico
può incrementare il proprio tasso di crescita grazie a:

Una maggiore disponibilità di fattori produttivi;

Migliori tecniche produttive.
Molti economisti ritengono che le risorse umane, o capitale umano, vale a dire il patrimonio di
abilità e conoscenze di cui dispone la popolazione lavorativa, siano oggi tra i fattori più importanti
per favorire la crescita di un paese.
Questo perché, almeno in linea teorica, tutti gli altri fattori produttivi, come i capitali o le materie
prime, possono essere presi in prestito o acquistati da altri paesi ma per poterli usare in modo
efficiente è necessario che vi siano lavoratori preparati e specializzati a farlo.
I finanziamenti concessi attraverso il Piano Marshall ai paesi dell’Europa Occidentale nel secondo
dopoguerra per la ricostruzione del capitale fisico, ovvero di aziende, infrastrutture ecc., distrutto o
seriamente danneggiato dalla guerra, permisero alla maggior parte di questi paesi, tra i quali l’Italia,
di utilizzare al meglio il capitale umano disponibile dando l’avvio ad un processo di crescita
economica molto sostenuto.
Nel caso del capitale umano, ciò che conta, non è solo la quantità disponibile quanto piuttosto la
qualità di questa risorsa.
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Un miglior livello di istruzione, le esperienze acquisite sul lavoro, definite con il termine di learning
by doing, una continua formazione anche per chi è già inserito nel mondo del lavoro favoriscono la
crescita del capitale umano nel tempo e con esso anche la produttività e la quantità
complessivamente disponibile di beni e servizi.
Non a caso, i paesi che hanno avuto di recente una crescita economica molto rapida, soprattutto in
Asia orientale, hanno tassi di scolarizzazione molto elevati e i loro governi hanno investito molto
sull’istruzione della popolazione per favorire questo processo di crescita.
Anche le risorse naturali hanno un ruolo molto importante nel favorire la crescita economica di un
paese, ma forse non sono così essenziali come accade per il capitale umano.
È vero che molti paesi arabi sono riusciti a raggiungere valori elevati del PIL grazie alle loro riserve
di petrolio, ma vi sono nello stesso tempo altri paesi, come il Giappone, che sono tra i più
industrializzati al mondo anche se la loro disponibilità di risorse naturali è estremamente scarsa.
La maggior parte delle risorse naturali, come il petrolio o il rame o il carbone, è improbabile che
esse possano essere disponibili in quantità maggiore nel corso del tempo, a meno che vengano
scoperti nuovi e importanti giacimenti, di conseguenza, il loro impiego riduce la quantità
disponibile per il futuro.
In passato, in modo particolare negli anni Settanta, c’era una certa preoccupazione che la
disponibilità limitata di risorse naturali potesse costituire un limite alla crescita delle economie.
Questo timore è stato in gran parte smentito dai fatti.
Infatti, in alcune circostanze il rialzo del prezzo di alcune materie prime favorì un uso più oculato
delle risorse naturali e incentivò la ricerca di nuove fonti energetiche e di nuove tecniche di
produzione.
L’attuale dibattito si è spostato prevalentemente sul problema delle relazioni tra crescita e ambiente.
Oggi si temono i danni ambientali e i rischi che possono derivare da un eccessivo sfruttamento delle
risorse e ci si interroga su quale sia il costo dello sviluppo in termini di ambiente.
Un altro dei fattori principali di successo e di crescita di un paese è la disponibilità di capitali.
Nella disponibilità di capitali sono compresi non solo l’insieme di impianti e macchinari, di
stabilimenti disponibili, ma anche quelle infrastrutture pubbliche, come le strade o i collegamenti
ferroviari o aeroportuali, gli acquedotti o la fornitura dell’energia elettrica, essenziali per lo
svolgimento dell’attività economica delle imprese.
La produttività dei lavoratori è maggiore dove è maggiore anche la disponibilità del fattore capitale.
I paesi che hanno una crescita economica forte e rapida investono, generalmente, molto in beni
capitali.
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Per accumulare capitale è necessario che un paese risparmi al suo interno, oppure che sia in grado di
ottenere denaro in prestito da altri sistemi economici o aiuti finanziari da parte di apposite
istituzioni, o che altri paesi vengano ad investire nel suo territorio.
L’ultimo fattore essenziale per ogni processo di crescita è rappresentato dal progresso tecnico.
Quando si parla di progresso tecnico o di innovazione tecnologica ci si riferisce ai miglioramenti
nelle conoscenze e nelle tecniche di produzione che permettono di rendere più efficienti i processi
produttivi e l’organizzazione delle imprese.
Può riguardare grandi invenzioni che trasformano profondamente le tecniche di produzione, come
quelle avvenute nel settore dell’elettronica, così come piccole innovazioni che contribuiscono a
determinare la crescita di un paese.
La maggior parte dei paesi industrializzati dell’Europa Occidentale, del Nord America, del Sud Est
Asiatico ha raggiunto l’attuale livello di sviluppo non solo per l’accresciuta disponibilità di fattori
produttivi, quanto per la capacità di organizzarli nel migliore modo possibile.
Gli economisti che si occupano di teoria della crescita cercano di spiegare il ruolo di ciascuno di
questi fattori nel determinare la crescita economica di un paese e le ragioni per cui esistono
differenze di reddito così ampie tra i diversi paesi.
Una delle teorie più importanti elaborate in questo campo di studi è la teoria neoclassica della
crescita.
Il primo e più importante esponente di questa teoria è stato l’americano Robert Solow, vincitore del
premio Nobel nel 1987.
Utilizzando lo strumento della funzione di produzione, aggregata, ovvero riferita all’intero sistema
economico e non ad una singola impresa, Solow dimostra che il progresso tecnico gioca un ruolo
determinante nella crescita del prodotto di un paese.
Esamineremo inizialmente l’effetto determinato da un processo di accumulazione del capitale,
senza che vi siano innovazioni o modificazioni tecnologiche.
Aumentando l’impiego di capitale per lavoratore, ovvero spostandoci lungo la funzione di
produzione, anche la produttività marginale dei lavoratori aumenta, e con essa, anche i salari.
Ad esempio, pensiamo ai macchinari introdotti in agricoltura.
La maggiore disponibilità di impianti e attrezzature a disposizione dei lavoratori, la crescita del
rapporto capitale/lavoro, permette agli stessi di essere più produttivi, ovvero di produrre quantità
maggiori di prodotto.
Inoltre, sappiamo che, secondo la teoria neoclassica, i fattori produttivi vengono remunerati in
relazione alla loro produttività marginale, quindi, se cresce la produttività crescono anche i salari.
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Poiché il capitale presenta rendimenti decrescenti, aumentando la quantità di capitale impiegata per
ciascun lavoratore il prodotto aumenta ma ad un tasso decrescente.
Il risultato finale è che, oltre un certo livello, l’accumulazione di capitale da sola non è più in grado
di generare un’ulteriore crescita del prodotto.
Il processo di accumulazione di capitale, in assenza di progresso tecnico, determina movimenti
lungo la funzione di produzione fino ad arrivare al suo punto massimo, oltre il quale non è possibile
andare.
I miglioramenti tecnologici determinano, invece, uno spostamento dell’intera funzione di
produzione verso l’alto. Dalla stessa quantità di fattori produttivi, lavoro e capitale, è possibile
ottenere quantità maggiori di beni e servizi. Si è determinata, così, una crescita del prodotto
potenziale.
Non è facile calcolare esattamente quanto il progresso tecnico abbia contribuito alla crescita
economica registrata in un determinato periodo.
Un approccio empirico consiste nell’assegnare al progresso tecnico quella parte di crescita che non
può essere attribuita direttamente all’aumentato impiego di fattori produttivi.
Solow stimò, ad esempio, che la crescita economica registrata dagli Stati Uniti nel periodo 19091949 si poteva attribuire l’80% al progresso tecnico.
Altri studi, condotti sempre con riferimento agli Stati Uniti, invece, hanno assegnato un contributo
del 57% alla crescita dell’impiego dei fattori produttivi, mentre il restante 43% della crescita
economica sarebbe dovuta al progresso tecnico e all’incremento delle conoscenze,in modo
particolare all’istruzione.
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2.1Le politiche per la crescita
Non tutti gli economisti sono d’accordo sull’entità e sulle forme di intervento che possono favorire
la crescita economica di un paese nel lungo periodo.
Un punto su cui tutti, però, sembrano essere d’accordo è la necessità di investimenti pubblici nel
campo delle infrastrutture, come strade, ferrovie, telecomunicazioni, del capitale umano, ovvero
istruzione e formazione professionale, e della ricerca pura o di base, svolta dalle Università e dagli
istituti pubblici, e le esternalità positive, cioè i vantaggi di cui tutta la società può godere
dall’innalzamento del livello di istruzione, dalla disponibilità di sistemi di comunicazione e
infrastrutture efficienti, dai progressi dalla ricerca scientifica, che ad essi sono associate, spiegano la
necessità dell’intervento da parte dei governi in questi settori per cercare di favorire la crescita di
lungo periodo.
Lo Stato ha un ruolo di primo piano nel cercare di favorire e di stimolare gli investimenti di imprese
nazionali e di investitori esteri, come ad esempio, attraverso la concessione di incentivi fiscali e di
agevolazioni creditizie, accesso più facile ai prestiti e tassi di interesse più bassi, a chi investe.
Non tutti concordano sul fatto che lo Stato intervenga direttamente, con proprie politiche di
investimento. Infatti, molti pensano che lo Stato dovrebbe limitarsi a cercare di favorire gli
investimenti privati, cercando di incrementare il tasso di risparmio delle famiglie e riducendo il
disavanzo pubblico che assorbe parte di questo risparmio sottraendolo all’iniziativa privata.
Quelli che non sono favorevoli all’intervento pubblico in campo economico affermano che il
progresso tecnico può svilupparsi meglio se vi sono condizioni di libero mercato dei fattori
produttivi, dei beni e dei servizi e delle idee.
Il ruolo dello Stato è quindi quello di ridurre la regolamentazione al fine di rendere più flessibili i
mercati e di aumentare la concorrenza.
L’idea di fondo è che la deregolamentazione favorisce la competitività fra imprese, a livello
nazionale e fra paesi, a livello internazionale, sostenendo l’innovazione e promuovendo il progresso
tecnico.
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3. Il ciclo economico
Se la crescita è un fenomeno di lungo periodo, il ciclo economico fa riferimento ad un orizzonte
temporale più breve e si caratterizza per l’alternarsi di fasi di espansione in cui la produzione,
l’occupazione, il reddito e il consumo di un paese aumentano, ad altre in cui queste grandezze
risultano stazionarie o diminuiscono.
Questi scostamenti della produzione effettiva dalla produzione potenziale vengono definiti anche
con il termine di produzione o gap del PIL.
Le varie fasi che caratterizzano un ciclo economico sono:

La recessione;

La ripresa;

L’espansione;

La crisi.
La recessione è caratterizzata dalla fase decrescente della curva che descrive il ciclo.
In questa fase i consumi diminuiscono e aumentano le scorte delle imprese le quali reagiscono
riducendo la produzione.
Il PIL diminuisce scendendo al di sotto del suo livello potenziale.
La minore produzione da parte delle imprese determina un calo della domanda di fattori produttivi,
questo fa sì che vi siano risorse inutilizzate e che vi sia disoccupazione.
I prezzi delle materie prime diminuiscono e l’inflazione si riduce.
Se questa fase non dura troppo a lungo, è improbabile che i salari scendano rapidamente a riportare
in equilibrio il mercato del lavoro. Quello che è certo è che, aumenta la sfiducia da parte degli
investitori e quindi anche in Borsa si riducono gli scambi e si abbassano i prezzi delle azioni.
Questa situazione perdura fino a quando, raggiunto un punto di minimo, chiamato punto di svolta,
inizia la ripresa che dà l’avvio ad una nuova fase di espansione durante la quale il comportamento
degli operatori economici e l’andamento delle principali grandezze economiche, PIL, occupazione e
inflazione, è esattamente opposto a quanto accade nelle fasi di recessione.
I tassi di interesse, che si sono abbassati durante la fase di recessione, incentivano gli investimenti
da parte delle imprese.
L’azione del moltiplicatore determina una crescita più che proporzionale nel reddito, riprendono i
consumi e con essi la produzione.
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Cresce la domanda di fattori produttivi e quindi si riduce la disoccupazione, inoltre il prodotto
effettivo raggiunge il suo livello potenziale e può addirittura superarlo.
La crescita della domanda e della produzione oltre il suo livello potenziale determina
sovraoccupazione e un rialzo dei prezzi fino a quando, una volta raggiunto il punto massimo di
svolta, si determina nuovamente una inversione di tendenza, crisi, ed inizia una nuova fase del ciclo
economico.
I cicli economici non hanno un comportamento così semplice nella realtà. Non esiste alcuna legge
che permetta di prevedere con esattezza l’inizio e la durata delle singole fasi e in genere nessun
ciclo si presenta uguale ad un altro.
La durata media dei cicli in Italia è stata di circa 4 anni.
Dal punto di vista della teoria economica, sono state date diverse spiegazioni sul perché i sistemi
economici seguano un andamento ciclico.
Alcuni economisti attribuiscono la causa delle fluttuazioni a fattori esterni al sistema economico e le
loro teorie vanno sotto il nome di teorie esogene del ciclo.
Può trattarsi di guerre o accadimenti politici che provocano drastiche riduzioni della produzione
nazionale, oppure di condizioni meteorologiche particolari, di improvvise variazioni nei prezzi di
importanti materie prime.
La recessione economica conseguente allo shock petrolifero che interessò i paesi occidentali agli
inizi degli anni Settanta, e quella più recente che ha colpito gli Stati Uniti nel 1990-1991 sono state
spiegate da molti analisti come la conseguenza di fattori esogeni: il rialzo del prezzo del petrolio,
l’invasione in Kuwait da parte dell’Irak nel secondo caso.
Un secondo gruppo di teorie definite endogene, ricerca le spiegazioni del ciclo all’interno del
sistema economico, ritenendolo quasi un meccanismo di autoregolazione del sistema.
L’espansione economica genera essa stessa una recessione e ad ogni contrazione fa seguito un
periodo di ripresa, quindi di nuova espansione.
Vi sono, poi, molte altre teorie, più recenti, che ritengono che i cicli siano determinati da fattori sia
esterni sia interni al sistema. Alcune individuano le ragioni principali nelle variazioni della
domanda aggregata mentre altre si concentrano sul lato dell’offerta.
Tra le tante spiegazioni vi sono:

Le teorie monetarie;

Le teorie reali;

Le teorie politiche.
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Secondo le teorie monetarie le cause dei cicli economici andrebbero ricercate principalmente nella
cattiva gestione della politica monetaria.
La riduzione dell’offerta di moneta e il rialzo dei tassi di interesse sarebbero all’origine di molte
recessioni e tra queste, anche della Grande Depressione del 1929.
Secondo questa teoria, la riduzione dello stock di moneta e l’incapacità da parte della banca centrale
americana di contenere i fallimenti e le chiusure delle banche furono tra le principali cause della
gravissima crisi che iniziò negli Stati Uniti e si propagò in quasi tutto il mondo.
Le teorie reali, invece, si concentrano sull’economia reale anziché sugli aspetti monetari.
Uno dei modelli più importanti è quello formulato da Samuelson, basato sull’interazione tra il
moltiplicatore e l’acceleratore.
Fino ad ora abbiamo supposto che gli investimenti I dipendono dal tasso di interesse i. Studi
statistici hanno dimostrato, però che gli investimenti possono aumentare anche a seguito di un
aumento stabile dei consumi.
La spiegazione economica di questo fenomeno consiste nel fatto che, di fronte ad aumenti duraturi
del reddito e dei consumi, le imprese ritengono che in futuro potranno vendere più facilmente i beni
prodotti e aumentano gli investimenti.
Questa variazione v più che proporzionale degli investimenti a seguito di variazioni del reddito è
definita principio dell’acceleratore.
Samuelson basandosi sull’interazione fra moltiplicatore ed acceleratore, spiega l’andamento del
ciclo. Sappiamo che una crescita esogena della domanda aggregata determina, per effetto del
moltiplicatore, un aumento più che proporzionale del prodotto e del reddito nazionale. Anche i
consumi, di conseguenza, aumentano ma una volta raggiunto il pieno impiego, l’unico modo per
espandere ulteriormente la produzione è quello di incrementare la capacità produttiva del sistema
economico e ciò avviene attraverso un incremento degli investimenti da parte delle imprese.
Questa sequenza di eventi caratterizza la fase espansiva del ciclo che, però, non può perdurare.
Infatti, raggiunto un certo livello, si genera la sequenza opposta che, per effetto congiunto dei
meccanismi moltiplicatore-acceleratore, determina l’avvio di una fase recessiva.
Le teorie politiche ricollegano l’andamento ciclico dell’economia alle vicende elettorali.
I politici utilizzerebbero la politica fiscale e monetaria a loro vantaggio per farsi rieleggere e questo
fa sì che nelle fasi pre-elettorali prevalgano le politiche economiche di tipo espansivo, allo scopo di
favorire l’occupazione, quindi il consenso degli elettori.
Le politiche restrittive sarebbero più frequenti all’inizio del mandato e rappresentano, per chi ha
vinto le elezioni, l’inevitabile conseguenza delle scelte politiche pre-elettorali.
In questo modo si creerebbero dei cicli corrispondenti alla durata della legislatura.
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Studi e verifiche empiriche sulla teoria del ciclo politico sono stati condotti prevalentemente negli
Stati Uniti. Infatti, nel caso di alcune elezioni presidenziali sembra esserci una relazione tra
fluttuazioni economiche ed elezioni, ma non vi è una definitiva conferma di questa teoria.
Fra le molte interpretazioni e spiegazioni del ciclo economico, è difficile dire quale sia la più
corretta anche perché possono essere molti i fattori, di natura strettamente economica, ma anche
politica o psicologica, che possono determinare o favorire l’alternarsi di espansioni e contrazioni
dell’economia.
Ciascuna delle teorie spiega una parete delle ragioni delle fluttuazioni economiche o può essere più
adatta a spiegare alcune situazioni specifiche ma non oltre.
Non esiste un’unica spiegazione teorica per ogni situazione.
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4. Le politiche di stabilizzazione
Le politiche di stabilizzazione di breve periodo consistono nell’uso degli strumenti di bilancio,
fiscali e monetari per contrastare l’andamento ciclico dell’economia.
Supponiamo che il sistema economico si trovi in una fase di recessione, in cui la domanda e la
produzione sono in calo, le risorse sono inutilizzate e la disoccupazione è elevata e persistente.
Per cercare di favorire la ripresa economica ed attenuare gli effetti negativi associati alle fasi del
ciclo, lo Stato potrebbe decidere di mettere in atto adeguate politiche di spesa oppure intervenire in
campo monetario, o, ancora, intervenire in materia fiscale.
Lo Stato potrebbe far ricorso agli strumenti di politica economica di cui dispone per cercare di
contrastare il rischio di inflazione che si presenta nelle fasi espansive del ciclo economico.
Dal modello AD-AS le politiche di stabilizzazione si ricollegano ad una visione Keynesiana
dell’economia.
Secondo la teoria classica l’economia attraversa solo fasi brevi e temporanee durante le quali la
produzione non è al suo livello potenziale e può esservi disoccupazione, mentre non possono
verificarsi lunghe recessioni perché le forze di mercato riportano rapidamente il sistema in
equilibrio di piena occupazione.
Il ciclo economico rappresenterebbe una specie di meccanismo autoregolatore dell’economia,
ovvero quando vi sono disturbi dal lato della produzione o della domanda il sistema economico
reagisce in modo efficiente.
Per questa ragione, gli economisti che si ispirano ad una visione classica sono sfavorevoli
all’intervento pubblico di stabilizzazione dei cicli economici e ritengono che le politiche
anticicliche di sostegno alla domanda non determino alcun effetto sulla produzione e
sull’occupazione ma creino solamente spinte inflazionistiche.
Gli economisti Keynesiani sostengono, al contrario, che a causa della vischiosità dei prezzi e dei
salari, l’economia può trovarsi per lunghi periodi al di fuori del livello desiderato di produzione e
occupazione e l’intervento pubblico è quindi necessario per stabilizzare il sistema economico.
Anche per chi crede alla necessità di politiche anticicliche si pone il problema di stabilire il giusto
mix di interventi di natura fiscale o monetaria in relazione al grado di efficacia di questi strumenti,
ai limiti e ai costi ad essi associati.
Nello schema IS-LM o AD-AS, il ricorso a politiche fiscali o monetarie espansive nei periodi di
stagnazione dell’economia, ovvero quando domanda, produzione e occupazione sono basse, e
l’attuazione di politiche economiche restrittive durante le fasi di espansione, quando i prezzi
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salgono troppo e vi è sovraoccupazione, erano apparsi strumenti adeguati e sufficienti a raggiungere
gli obiettivi desiderati.
Occorre, però considerare i seguenti problemi:

La difficoltà di affrontare contemporaneamente il problema dell’inflazione e della
disoccupazione;

I costi degli interventi di politica economica;

I ritardi con cui a volte operano le politiche economiche;

Il ruolo giocato dai cosiddetti stabilizzatori automatici.
Riguardo al 1° punto vi sono relazioni tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione tali per cui
questi due obiettivi macroeconomici sono difficili da ravvisare contemporaneamente.
Inoltre, gli interventi di politica economica possono permettere di raggiungere i risultati desiderati,
ma comportano anche dei costi.
Ad esempio, gli economisti Keynesiani hanno, per lungo tempo, riposto fiducia nella politica
fiscale, in modo particolare nell’utilizzo della spesa pubblica a sostegno della domanda aggregata.
Negli anni più recenti questa fiducia è diminuita anche a causa dei consistenti disavanzi pubblici
che molte economie hanno accumulato nel corso del tempo.
È chiaro che la spesa pubblica dovrà essere finanziata attraverso l’indebitamento oppure attraverso
un aumento delle imposte, poiché è più facile sul piano del consenso politico ridurre le imposte che
aumentarle il risultato è un progressivo aumento del debito pubblico.
Coloro che sono favorevoli all’intervento pubblico in economia sostengono, tuttavia, che la spesa
pubblica in investimenti spiazza la spesa privata, con il risultato che la domanda aggregata non
aumenta ma si modifica soltanto la sua composizione.
Il risultato è che in molti paesi, in Italia come negli Stati Uniti, si è oggi molto più cauti nell’usare la
leva della politica fiscale per contrastare le fasi sfavorevoli del ciclo, anche quando la
disoccupazione è elevata come è accaduto negli anni precedenti.
Il terzo problema riguarda i ritardi con cui operano le politiche economiche.
Occorre del tempo prima che gli economisti individuino e segnalino alle autorità politiche l’arrivo
di un punto di svolta che segni l’inizio della ripresa o della crisi.
Ai responsabili di politica economica è necessario ulteriore tempo per mettere in atto le decisioni
prese, ritardo di decisione. Molti interventi di politica fiscale richiedono tempi lunghi perché
necessitano dell’approvazione da parte degli organi legislativi.
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Infine, è richiesto altro tempo prima che le scelte di politica economica producano i loro effetti in
termini di aumento dell’occupazione o di riduzione dell’inflazione.
L’ultimo punto riguarda il problema se il ricorso alla politica fiscale e monetaria per contrastare le
fluttuazioni cicliche debba rappresentare la regola oppure l’eccezione.
I sistemi fiscali moderni, per la maggior parte dei casi, sono strutturati in modo tale da contenere al
loro interno meccanismi in grado di stabilizzare automaticamente l’economia, senza la necessità di
intraprendere alcuna decisione di politica economica.
Uno dei principali stabilizzatori automatici è rappresentato dall’imposta sui redditi.
L’imposta sul reddito riduce il valore del moltiplicatore, quindi, essa ha automaticamente un effetto
anticiclico, ovvero:

Nei periodi di espansione l’aumento del PIL, quindi del reddito, determina in modo
automatico un aumento della pressione fiscale, limitando la crescita dei consumi ed
evitando il rischio di un rialzo eccessivo dei prezzi;

Nei periodi di recessione, invece, la diminuzione del reddito comporta un minor gettito
fiscale ed una minore pressione sui redditi e sui consumi.
Altri stabilizzatori sono i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione guadagni. Quando il
sistema economico entra in fase di recessione e la disoccupazione aumenta, queste forme di
sostegno del reddito delle famiglie intervengono direttamente e hanno lo stesso effetto di una
politica fiscale espansiva.
Gli stabilizzatori automatici possono ridurre parzialmente i movimenti ciclici ma di solito non sono
sufficienti a contrastarli completamente.
Sugli interventi attivi di politica economica vi è un acceso dibattito fra gli economisti riguardo alla
necessità di stabilire norme fisse oppure di lasciare la massima discrezionalità ai responsabili della
politica economica.
I più “conservatori” ritengono che le autorità monetarie e di governo dovrebbero seguire norme
fisse nella conduzione della politica economica, perché spesso è l’eccessivo uso degli strumenti
fiscali e monetari la causa di destabilizzazione dell’economia.
Secondo i monetaristi, l’autorità monetaria e quella fiscale dovrebbero agire solo in circostanze
specifiche e in base a regole fisse di comportamento.
Invece, altri, sostengono la necessità di politiche economiche attive, che facciano fronte alla
previsioni economiche, poiché le economie sono instabili, i responsabili politici devono intervenire.
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Tra i sostenitori delle politiche attive vi sono delle differenze: alcuni ritengono che gli interventi
discrezionali siano giustificati solo in presenza di grandi perturbazioni mentre altri sostengono la
necessità di intervenire e di correggere anche i più piccoli squilibri.
Ogni qual volta si presentano piccoli scostamenti nei valori desiderati delle principali grandezze
economiche, occorrerebbe intervenire per riportare l’economia sul strada prevista.
A favore di quest’ultima tesi, definita di fine tuning, le argomentazioni sono controverse: il rischio
maggiore è che vi possa essere un eccessivo utilizzo di strumenti di politica economica e che si
finisca per no distinguere tra i disturbi temporanei e le perturbazioni durature, che potrebbero
rendere opportuno l’intervento da parte dei responsabili di politica economica.
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