Charles Guignebert, Gesù, pp. 13-25 e 71-74, Einaudi, Torino, 1950.
Introduzione
A) Il problema delle origini cristiane: ieri e oggi. (pp. 13-25)
Il problema al cui studio il presente lavoro reca il proprio contributo è quello della nascita della
religione cristiana e della sua installazione del mondo antico.
Il trionfo del cristianesimo, la sua durata, la sua stessa fecondità si collegano, per larga parte, a cause che
non dipendono dalle sue origini; e, al pari d'ogni istituzione umana, esso visse, nel corso delle successive
età, della trasformazione e dell'adattamento. Pure, bisogna rifarsi alle sue origini per discernere le
caratteristiche fondamentali e, quindi, per intendere il significato e lo spirito della sua evoluzione.
Immaginare che il cristianesimo sia nato e vissuto in altra guisa dalle varie religioni, che, prima e dopo
di esso, si divisero il cuore degli uomini; credere che sia sfuggito alle leggi che tutte le reggono e alle
fatalità che le dominano; affermare che costituisce da solo una specie singolare ed esclusiva, è una
posizione di fede, rispettabile sul terreno del sentimento e che conserva anche oggi un interesse pratico
(o pragmatico), ma è anche un errore storiografico. Da quando ricercatori indifferenti alle conclusioni
confessionali applicarono il loro sforzo allo studio del problema cristiano, nessuno ha variato su
questa constatazione fondamentale: la spiegazione tradizionale, la raffigurazione ortodossa delle origini
cristiane non reggono all'esame critico. Quale contropartita di questa conclusione negativa, vennero
proposti molti differenti sistemi, per sostituire quello ripudiato; e, alla prova, nessuno s'è ancora
definitivamente imposto tutt'intero.
Non c'è da stupirsene e, tanto meno, da trarne argomento a favore della tradizione. La scienza è,
per sua intrinseca natura, cangiamento, perché è perfezionamento e, via via che impara di più e
comprende meglio, ha sempre maggior bisogno di spostare le sue visuali, di rappresentarsi in altra
maniera la relazione delle componenti isolate dalla sua analisi, di trasporre i piani che ha creduto
di riconoscere nello svolgimento dei fatti e secondo cui li ha organizzati. In altri termini, essa deve
demolire e ricostruire il sistema delle sue spiegazioni, il quale è perciò sempre provvisorio. Non ne
consegue affatto che di ciascuno dei suoi successivi saggi di sintesi nulla rimanga, né, soprattutto, che
i fatti da essa assodati, le constatazioni materiali da essa fissate, perdano alcunché della loro certezza.
Ad esempio, dal fatto che gli esegeti, al termine delle loro ricerche, abbiano proposto spiegazioni
diverse della formazione della « fede di Pasqua » non consegue che le contraddizioni e le impossibilità
da essi riconosciute nei racconti evangelici attinenti alla resurrezione del Cristo si armonizzino e
assumano l'aspetto di verisimiglianze. Oppure, dal fatto che un erudito ha proposto una teoria che
un'informazione più completa fa respingere da un altro, o ha formulato un'ipotesi riconosciuta, in
seguito, troppo ambiziosa o fragile, si avrebbe torto a concludere che tali tentativi, tali esperienze
insufficienti, tali saggi incompleti, condannino la storia del cristianesimo antico a un'irrimediabile
incertezza. Senza dubbio, essa non saprà mai tutto quel che desidererebbe, ma i suoi sforzi perseveranti,
quelli stessi di cui l'apparenza accusa l'inutilità e le delusive divergenze, fanno emergere e organizzano,
lentamente ma sicuramente, gli elementi solidi di una spiegazione complessiva soddisfacente.
In verità, una tale spiegazione non si prepara tutt'intera nel divenire: se ne è già costituita sin da
ora una parte notevole, che possiamo considerare come sostanzialmente incrollabile. Intendo dire
che il numero dei punti importanti e delle idee generali su cui gli studiosi indipendenti sembrano
definitivamente d'accordo merita già considerazione e può ispirare fiducia. I fatti che si tratta di studiare
e di comprendere sono complessi e confusi; i nostri mezzi di attingerli e chiarirli sono rischiosi e di
difficile uso; ce ne rendiamo conto sempre di più, e questa conoscenza costituisce una seria garanzia di
progresso.
Nulla dirò dello schema delle origini cristiane cui gli ortodossi restano fedeli: esso è noto a tutti. Non
tenterò neppure di catalogare le opinioni successive a cui gli storici moderni si sono più o meno a lungo
arrestati: vi perderei certamente molto tempo, con mediocre profitto. Qui cercherò soltanto di fissare a
grandi linee le differenze tra la rappresentazione storica che prevaleva verso la fine del secolo XIX e
quella che, a quanto sembra, tende a formarsi oggi. Naturalmente, in un primo tempo i critici si erano
consacrati all'esame dei testi evangelici e della persona di Gesù, appena la loro scienza aveva acquistato
coscienza di sé, verso la fine del secolo XVIII. Ancora troppo dominati dalle affermazioni della
tradizione per non esser proclivi a credere che intendere il cristianesimo significava, essenzialmente,
conoscere il Cristo, e, d'altronde, troppo incerti del loro metodo, troppo male informati della vita
religiosa dell'Oriente per collocare il fatto cristiano nella sua giusta prospettiva storica, essi lo avevano
ristretto alle sue apparenze, ossia ai limiti di un'iniziativa giudaica successivamente estesasi al mondo
greco-romano. Questa maniera di vedere prevalse generalmente nel corso del secolo XIX. I ricercatori
si accanirono a restaurare il Cristo vero; essi compirono gli sforzi più meritori per scoprire in Israele
tutto il segreto del movimento cristiano e per ritrovare nell'evoluzione del pensiero greco-romano le
idee e le tendenze che gli prepararono le vie attraverso il mondo pagano, per comprendere l'origine e la
natura delle resistenze che la nuova fede ciononostante incontrò. Verso l'epoca che ho detto, ossia
verso il 1900, si continuava ad attribuire, di solito, all'iniziativa di Gesù, al suo genio, considerato come
affatto speciale e originalissimo, un'importanza capitale, essenziale, non soltanto nell'opera
propriamente evangelica delle origini - il che era, ed è, ben naturale - ma nella costituzione, se non della
dottrina, per lo meno dello spirito del cristianesimo e nella sua « messa in moto », se posso dire così. Si
ammetteva, del resto, in generale, che Gesù era un Ebreo e che, se aveva allargato l'orizzonte religioso
del suo popolo, non lo aveva probabilmente superato. Formatosi nell'ambiente palestinese, non aveva
pensato, qualunque fosse il suo ardire individuale, che nell'ambito delle categorie determinate dalla vita
giudaica. Così il suo insegnamento, come lo fanno intravvedere gli Evangeli sinottici, si mostra sotto il
suo aspetto giudaico: la veste delle parabole, che in gran parte lo ricopre, fu tessuta in Palestina e le
strutture caratteristiche della lingua aramaica, della lingua parlata agl'inizi della nostra era dai Galilei e
dai Giudei, traspaiono ancora sotto il greco faticoso dei primi due evangelisti. Conforme alla
convinzione che il cristianesimo fosse, nel suo seme e nelle sue radici, una pianta ebraica autoctona, ci
si adoprò a esplorarne in tutti i sensi il suolo natale, ad analizzarne gli elementi, a fissare la formula che
valesse a mostrarli nel loro equilibrio vero.
Simile preoccupazione era naturale e logica; ispirò opere rimaste fondamentali la sua fecondità
non appare dunque contestabile. Tuttavia, non aveva potuto ancora sbarazzarsi di alcune opinioni
tradizionali molto simili a pregiudizi. Si prendevano sempre le mosse dalla rappresentazione d'Israele
che sembrava imposta e giustificata dalla Bibbia: un mondo chiuso in se stesso, rigidamente rinserrato
dall'insuperabile barriera del suo legalismo, un'eccezione unica nell'Oriente semitico, in completo
contrasto con l'Asia ellenistica. Certo, ci si rendeva conto che la vita della Palestina, anche quella
religiosa, non era più, nel secolo I a. C, un mero riflesso del Pentateuco e, per penetrare sino alla sua
realtà, si ricorreva all'aiuto di Giuseppe Flavio e di Filone, dei libri entrati per ultimi nel canone biblico,
detti da noi deuterocanonici, o di quelli rimasti ai suoi margini, e che sono gli apocrifi dell'Antico
Testamento. Soprattutto, si concedeva un'attenzione singolarmente benevola alle impressioni che
sembrano risultare dal Nuovo Testamento riguardo a quell'ambiente ebraico, senz'accorgersi che
dar loro credito in tal materia, considerarli come fonti di allegazioni veridiche sul mondo ebraico
palestinese, equivaleva quasi a rispondere al problema con il problema, giacché si trattava precisamente
di chiarirle e d'intenderle. Per vero, si domandavano alcuni chiarimenti e soprattutto certe conferme alla
letteratura talmudica, senza dubitare forse abbastanza delle pericolose incertezze della sua cronologia.
Si credeva di sapere, altresì, che il cristianesimo, uscito allo stato di rinnovazione religiosa ebraica dalla
volontà di Gesù e presentato da lui come la dottrina tradizionale, purificata e adattata ai tempi
messianici imminenti, aveva conservato nella propaganda dei suoi Apostoli questo carattere. Predicato
da essi nel loro paese natale, non aveva potuto far nulla di meglio che vegetarvi, tra l'ostilità e
l'indifferenza dei Giudei, sino al giorno in cui un caso lo aveva trasportato nelle sinagoghe da gran
tempo sorte in terra greca, e meglio disposte di quelle palestinesi a prenderlo in considerazione. Quel
giorno, o quasi, esso aveva incontrato san Paolo: altro genio originale e possente, ebraico anch'esso, ma
intinto di ellenismo, spirito reso più largo dal senso profondo della vita pratica e ben a conoscenza degli
ambienti giudaizzanti dell'Asia greca. Per opera sua, per il duplice effetto combinato del suo pensiero e
della sua azione, la fede primitiva si era modificata, adattandosi ai bisogni dei Greco-Romani: era
cominciata la sua fortuna. Ci si soffermava perciò sulla persona dell'Apostolo dei Gentili quasi
altrettanto che su quella di Gesù. Tale insistenza diede anzi origine, nei primi anni del nostro secolo, a
una controversia abbastanza rumorosa perché gli echi ne siano risonati nel gran pubblico, di solito
indifferente alle dispute degli eruditi. Si discuteva se il vero fondatore del cristianesimo non sia stato
Paolo piuttosto che Gesù. Senza giungere, generalmente, a tale conclusione, si considerava il
paolinismo come la seconda grande fase della nuova fede. Fase che fu, per quest'ultima, d'importanza
capitale, perché, durante la sosta che vi fece, essa cominciò a organizzarsi in una dogmatica e — col
contrapporsi al giudaismo, il quale, da parte sua, la respingeva — a configurarsi come una religione
indipendente. Tuttavia, fondandosi sulla testimonianza degli Atti degli Apostoli e di alcune delle
vigorose affermazioni delle Epistole, ci si rappresentava Paolo il Tarsiota come un Ebreo puro, un
fariseo, un rabbino formatosi «ai piedi di Gamaliele»: vale a dire, educato in una delle grandi scuole
religiose di Gerusalemme, sotto gli occhi d'un maestro illustre, e solo tardivamente trasformatosi, per
effetto d'un'improvvisa illuminazione, in araldo della Chiesa universalistica. A dir vero, non sembrava
molto facile intendere attraverso quali vie un uomo così ben plasmato dal legalismo chiuso della
Palestina, un uomo di scuola, indubbiamente orgoglioso del suo sapere, fosse giunto a condividere le
convinzioni di Galilei ignoranti e, più ancora, a realizzare, in qualche modo, intorno al nome, al culto e
al mito del Signore Gesù, aspirazioni comunemente diffuse negli ambienti giudaici della Diaspora. Si
cercava di trarsi d'impaccio arguendo disposizioni singolari e misteriose di un temperamento religioso
d'eccezione.
La terza fase, quella destinata a condurre a un avvenire sicuro, la si vedeva svilupparsi sul piano del
pensiero ellenico. Nasceva dall'incontro, per noi oscuro, ma, evidentemente, avvenuto sin dalla prima
metà del secolo II, tra i «didascali» cristiani e gli intellettuali greci. La nuova religione, dottrinalmente
ancora elementare o dai contorni mal definiti, si mostrava accogliente verso la speculazione filosofica,
che, pur senz'abbandonare la linea dei suoi principi, dogmatizzava, approfondiva, arricchiva con le sue
glosse le affermazioni della fede e preparava loro uno sviluppo indefinito. La gracile pianticella giudaica,
trapiantata su quel fecondo terreno ellenistico, vi diveniva ben presto un folto albero robusto. Nel
momento in cui si vedevano iniziarsi le prime controversie teologiche, si poteva chiudere il periodo
delle origini.
Movendo dalle linee direttive dello schizzo or ora tracciato, numerosi lavoratori hanno esplorato in tutti
i sensi e con zelo ammirevole il campo della prima storia cristiana, entro i limiti che le avevano fissati.
Sarebbe ingiusto, anzi assurdo, contestare che i loro sforzi abbiano condotto a risultati seri e durevoli.
Pure, di questi risultati, quello certamente più utile al progresso delle nostre conoscenze fu di far capire,
quasi senza volerlo, ma sempre più chiaramente che il vasto problema era stato posto su d'una base
troppo ristretta.
Del resto, a torto o a ragione, più di un erudito cominciava allora a credere che si fossero svuotati del
loro contenuto i testi noti, esauriti i problemi già posti e che occorresse cercare qualcosa di nuovo:
stimolare e render sistematica la caccia ai documenti inediti, ampliare l'inchiesta, guardare al di là delle
vecchie controversie dell'erudizione. Ora, appena ci si mise a lavorare seriamente con tale spirito,
parecchie constatazioni s'imposero, che determinarono, per l'essenziale, le posizioni sulle quali si
organizzano i pionieri di oggi.
Ecco, a mio avviso, le principali:
1) Via via che si sono più completamente affrancati dai vincoli sottili e tenaci della tradizione, gli
esegeti hanno letto con altri occhi i testi evangelici. Hanno perduto per la maggior parte la fiducia
loro concessa sotto l'aspetto storico; hanno denunziato, con precisione crescente le inesattezze e le
lacune del loro contenuto nei riguardi della biografia e dell'insegnamento di Gesù; hanno riconosciuto
che l'una e l'altro ci son giunti talmente alterati che bisogna rinunziare a coglierli globalmente. Per
una conseguenza naturale e inevitabile, essi sono stati condotti a pensare che l'importanza personale
di Gesù nella fondazione del cristianesimo, pur essendo indubbia, sfugga alla nostra valutazione
assoluta; che, in ogni caso, a tale azione originale se ne congiunsero parecchie altre e che essa non
fu così abnorme, eccezionale, unica, come si era creduto per molto tempo. Il termine estremo di
questa rappresentazione nuova del Cristo doveva essere la negazione della sua esistenza: opinione
vecchia già di più di cent'anni, ma che si cercò di ringiovanire prestandole l'aspetto di una inevitabile
conclusione della ricerca erudita. I critici ragionevoli si sono rifiutati di spingersi sin là, e io spiegherò
perché han fatto bene; ma, almeno, si sono sempre più fermamente attaccati all'opinione che Gesù s'era
conformato al suo ambiente più di quanto non se ne fosse distinto.
D'altra parte, tale ambiente, scrutato con maggior rigore, a un tempo in larghezza e in profondità, si
è palesato molto meno omogeneo di quanto s'era immaginato o sembrassero attestare la tradizione
evangelica, Paolo e gli Atti. Contemporaneamente, i testi del Nuovo Testamento, che sono i più antichi
testimoni della primitiva storia cristiana da noi posseduti, hanno perduto molto del loro giudaismo
fondamentale, perché una migliore conoscenza della lingua ellenistica, rivelata da uno studio a fondo
delle iscrizioni asiatiche e dei papiri egiziani, ha ricondotto a semplici ellenicismi un gran numero dei loro
presunti aramaicismi. E, dacché le parole non sono che i veicoli delle idee, certe correnti d'idee molto
estranee al giudaismo biblico, al giudaismo di Gesù, si sono palesate nella tradizione che quei vecchi
scritti esprimevano; e, di colpo, la sua complessità è apparsa singolarmente più grande di quanto non si
fosse sino allora sospettato.
2) L'immagine che ci si faceva del giudaismo, si è, d'altra parte, modificata nello stesso senso. La bella
unità attribuita a Israele si è sgretolata, la famosa barriera ben chiusa ha rivelato delle brecce, di modo
che si è potuto legittimamente qualificare come «sincretistico» quel mondo palestinese dove Gesù
nacque e visse, al pari dei suoi Apostoli, e dove si costituì la prima comunità cristiana.
Non soltanto l'insieme delle rappresentazioni religiose, che i testi canonici ci presentano come
l'ortodossia giudaica, si è rivelata singolarmente più complessa e, soprattutto, più commista di elementi
stranieri di quanto non si avesse a lungo creduto; ma, ai suoi confini, si son potuti scorgere realizzazioni
originali del giudaismo, sette pur sempre giudaiche d'intenzione e, senza dubbio, di spirito, ma anche
impregnate di idee suscitate da speculazioni molto lontane, per le loro origini e la loro natura essenziale,
dall'autentica Legge mosaica.
Ci si è potuto anzi chiedere senza paradosso se Gesù non sia uscito da qualcuna di quelle sètte.
Fuori del campo palestinese, si è proiettata sulle colonie ebraiche disperse nel vasto mondo grecoromano, sulle comunità della Diaspora, la luce di questa preziosa nozione di «sincretismo». Essa ci ha
rivelato un singolare sforzo di adattamento reciproco dei due mondi a contatto, il giudaico e il greco,
e, quindi, la preparazione, inconsapevole ma attiva, della soteriologia cristiana. I Greco-Romani, pur
continuando a rispettare i vecchi culti della città, ne distaccavano a poco a poco il cuore e la loro fede: li
trovavano troppo aridi, troppo esclusivamente ritualistici, troppo angusti. E si volgevano verso pratiche
cultuali e credenze più emozionanti, più ricche di sentimento, in cui l'individuo teneva personalmente
un posto più grande che nelle antiche religioni poliadi, e dove altresì gli individui, qualunque fosse la
loro origine e la loro condizione sociale, trovavano più facile accesso che nei sacra così chiusi, celebrati per
gli antenati gentilizi o per la Città. E le loro aspirazioni religiose tendevano a organizzarsi intorno a
una rappresentazione metafisica tutt'altro che nuova: l'idea orfica della salvezza dell'anima umana,
ossia della sua sopravvivenza senza fine in un avvenire di beatitudine. Ma, disperando di trovare nelle
sole forze della loro umanità i mezzi di assicurare il loro avvenire d'immortalità, si attaccavano, con
speranza sempre più ferma, alla speranza di un'intercessione divina, d'un soccorso benefico, col quale
un Salvatore (σωτήρ) avrebbe confortato la loro debolezza. Credevano alla sovrana efficacia delle
iniziazioni a misteri in cui era contenuta la rivelazione degli autentici metodi di salvezza.
3) Si credette di vedere che il cristianesimo, trapiantato allo stato embrionale su tale terreno inquieto e
fecondo, vi aveva messo radici e poi vi si era sviluppato meno semplicemente di quanto non fosse per
lungo tempo sembrato. Intendo dire che le azioni che lo favorirono e lo orientarono verso l'avvenire
appaiono oggi più numerose, più complesse, più diffuse che in passato. L'influsso dei fattori individuali
ed eccezionali scompare o, quanto meno, diminuisce davanti a quello dei gruppi: così san Paolo perde
parte della sua originalità e cede il passo al paolinismo, che eccede la sua persona, e che appare come
una mescolanza d'elementi diversissimi, un sincretismo, in cui si fiancheggiano rappresentazioni
propriamente giudaiche, combinazioni metafisiche costituite sul terreno della Diaspora e affermazioni
provenienti da un mistero d'immortalità.
4) Si è constatato che non per mezzo del pensiero, della riflessione e della speculazione, sia filosofica
che propriamente teologica, l'azione dell'ellenismo si fece primieramente sentire sulla fede cristiana,
bensì per mezzo dei suoi sentimenti religiosi, delle sue pratiche e delle sue aspirazioni soteriologiche,
dello spirito dei suoi misteri.
5) Da questa diminuzione - generalmente accettata dagli storici indipendenti - dell'importanza direttiva
e determinante delle persone nella fondazione del cristianesimo e, per converso, dall'accrescimento
di quella delle collettività e degli ambienti, risulta che ai nostri occhi il cristianesimo si socializza sempre
più. Intendo dire che ci appare come la creazione, altrettanto che l'espressione, dei bisogni di una
società, o quanto meno di un ambiente sociale. Ma, appena si tratta di analizzare un ambiente sociale e,
nella fattispecie, ambienti sociali successivi, il problema si complica; le sue soluzioni esigono riserve e
sfumature; la bella semplicità delle spiegazioni tradizionali scompare. La base dello studio fondamentale
si allarga smisuratamente, giacché, dal solo giudaismo, si estende all'intero Oriente ellenistico.
In breve, a produrre il mutamento di visuale che cerco di definire fu un triplice progresso
dell'erudizione. Anzitutto, il progresso filologico, che, rendendoci meglio padroni della lingua ellenistica, ha
precisato, per noi, il pensiero di coloro che la parlavano e, contemporaneamente, ha fissato, con più
esatta precisione, i rapporti del Nuovo Testamento con l'ambiente profano che ne circondava la culla.
Poi, il progresso propriamente storico, che ci ha fatto penetrare più innanzi nel mondo oscuro e fecondo
nel quale il sincretismo associa le emozioni e le speranze dei misteri alle costruzioni trascendenti della
cosmologia gnostica; noi abbiamo acquistato così dei termini di paragone che ci hanno permesso di
scoprire aspetti ignorati del Libro cristiano. Infine, il progresso del metodo comparativo: che consiste nello
studiare raccostandole le opinioni, le credenze, le pratiche che si somigliano da un ambiente all'altro
e a trarre dalla loro comparazione proficui insegnamenti sulla loro origine, il loro significato e la loro
evoluzione. Metodo altrettanto pericoloso che seducente; ma i gravi errori che esso ha talvolta prodotti
non debbono farci disprezzare i servizi che ci sa rendere quando viene usato con circospezione,
conforme al vero spirito della storia e sotto il suo controllo.
Considerato così, nella realtà della vita, il cristianesimo non appare menomamente, come a lungo si
credette, come una rottura del fronte religioso antico; prende, al contrario, e in maniera affatto naturale, il suo
posto in tale fronte; resta per intero nella logica dell'evoluzione religiosa dell'Oriente greco. Nonché
sorgere come un fenomeno inatteso, singolare, eccezionale, miracoloso, che avrebbe cambiato da
cima a fondo il corso spirituale dell'umanità, appare come l'espressione, la realizzazione positiva di
antecedenti e di azioni storiche che si possono determinare e analizzare, che recano in sé la spiegazione
della sua genesi.
Non che l'analisi sia sempre facile e la spiegazione semplice. L'una e l'altra appariranno forse un giorno
tali, ma saranno ancora necessari molti pazienti sforzi e un gran numero di ricercatori prima che
spunti l'aurora di quel fausto giorno. In attesa che giungano a compimento le inchieste che ci daranno
una conoscenza conveniente di tutti gli aspetti del problema o ci scoraggeranno dallo sperarne una,
dobbiamo adattarci a lasciar delle lacune nella nostra interpretazione della nascita e dell'installazione del
cristianesimo.
Così, via via che sappiamo meglio, ci rendiamo sempre più conto delle condizioni cui dovrà soddisfare la
spiegazione cercata. Essa non dovrà certamente essere troppo rigida né troppo assoluta; non escluderà
né le esitazioni né i dubbi. Tuttavia, sfuggirà ai sistemi troppo completi e forse alle rappresentazioni
complessive troppo chiare, via via che si riveleranno più numerose, più complesse, più sottili, più
difficili da cogliere e da dosare gli influssi e, per così dire, le sostanze che formarono la religione del
Cristo Gesù.
Questo libro non si presenta come una Vita di Gesù. Vuol solo offrire al lettore di buona volontà uno
studio critico dei problemi presentati alla nostra curiosità dalle ricerche storiche condotte a proposito
dell'esistenza, dell'azione e dell'insegnamento del Nazareno. Sui punti importanti scende a particolari
che certuni giudicheranno eccessivi. Io credo che abbiano torto: perché in un campo come questo,
non si vede chiaro se non si guardan le cose da vicino. Ho cercato di tenermi a eguale distanza dalla
cosiddetta volgarizzazione scientifica e dall'erudizione. Ho caricato le pagine di abbastanza numerose
citazioni per permettere, a chi s'interessi all'argomento, di spingerne lo studio più lontano di quanto
abbia potuto far io, nei limiti che mi erano fissati. […]
Conclusione. (pp. 71-74)
Così, per rispondere alla duplice domanda: «Chi era Gesù e che cosa insegnava?», noi disponiamo solo
delle tradizioni e dei ricordi più o meno esatti raccolti dall'Urmarcus e da Q. E, per giunta, li attingiamo
solo attraverso i nostri Sinottici, dove non è sicuro che si ritrovino tutti, e dove, in ogni caso, sono
arbitrariamente disposti, inquadrati e concatenati. Al primo esame appare manifesto che i fondi
peculiari di Mt. e di Mc. non ci arrecano, a parte - forse - alcuni particolari, nessun utile complemento
d'informazione, dato che son costituiti, essenzialmente, dalle storie meravigliose della Natività e della
Resurrezione. Del resto, se possedessimo l'Urmarcus e Q nella loro forma originaria, non ci troveremmo,
io penso, in una condizione molto migliore, giacché già l'Urmarcus solo era un coacervo di tradizioni di
diseguale valore e Q una collezione di sentenze e di parabole, astratte dal tempo e dallo spazio. Ora come osserva giustamente il Wernle, - delle tradizioni su Gesù non sono Gesù; dei λόγία di Gesù, anche
autentici, non sono l'insegnamento di Gesù; e noi, rischiando di organizzare in un tutto quei frammenti
incoerenti, rischiamo di ottenere un'opera affatto artificiale, sull'esempio degli autori sinottici. Quanto
più ci convinciamo che non bisogna accordare nessuna fiducia all'accomodamento imposto dai nostri
Evangelisti alla materia tratta dalle loro fonti, tanto più siamo certi che la vita di Gesù ci sfugge. Forse
possediamo ancora qualche pietra dell'edificio (Bausteine); la sua struttura (Bauplan) ci rimane ignota.
Scoprire queste pietre nelle costruzioni posteriori in cui vennero utilizzate, isolare, studiarle con cura, è
al presente la sola ambizione che ci sia permessa; e rimane pur sempre esposta a delusioni. Tra la realtà
e noi si leverà sempre la fede delle generazioni che ci tramandarono gli Evangeli; e su tutti i punti in cui
tale fede è vissuta, durante i quarant'anni circa che separano la stabilizzazione dei nostri testi sinottici
dalla morte di Gesù, noi ci troviamo alle prese con le più inquietanti complicazioni. Sulla persona del
Maestro, sul dramma escatologico che avrebbe annunziato, sui miracoli che avrebbe compiuti, sulla
posizione che avrebbe assunta nei confronti degli Ebrei e della loro Legge, noi sappiamo, se si vuole,
quel che i suoi fedeli del tempo di cui ho parlato credettero che egli avesse pensato: quel che pensava
lui siamo ridotti a indovinarlo. La prospettiva di tutta la sua vita moveva per quegli uomini dal suo
supplizio e dalla sua resurrezione e metteva capo alla sua esaltazione gloriosa: c'è bisogno di dire che il
suo punto di vista dev'esser stato affatto differente e che la realtà della sua carriera non può aver avuto
i caratteri attribuitile dalla fede di Pasqua? Ancora di recente l'illustre erudito tedesco Eduard Meyer
ha tentato di sottrarsi alle conclusioni da me formulate, sforzandosi di convincerci che i discepoli, che
nel racconto evangelico costituiscono la compagnia ordinaria di Gesù e vi appaiono come i custodi
della tradizione, lasciarono dietro a sé un complesso di ricordi precisi (die Jünger Quelle), al pari dei
Dodici (die Zwölferquelle). Queste due fonti, messe per iscritto, sarebbero state conosciute dagli autori
sinottici e utilizzate da loro: di modo che la nostra conoscenza della storia di Gesù non riposerebbe
esclusivamente su rappresentazioni della seconda generazione post-apostolica, ma potrebbe risalire a
un'età più antica, sino ai ricordi della prima generazione evangelica: quella che vide e conobbe Gesù.
Malauguratamente, simili ipotesi rassicuranti, immaginate da un uomo che s'è improvvisato esegeta, non
hanno convinto nessuno tra i critici la cui adesione avrebbe potuto dar loro credito.
Non abbiamo la scelta del metodo, se siamo davvero decisi a non inventare quel che ignoriamo:
bisogna esaminare in sé ogni episodio, ogni parabola, ogni λόγίου, e cercare, con un minuzioso esame
comparativo delle circostanze in cui i vari racconti [si] danno e dei termini con i quali li presentano,
di eliminare gli elementi parassitari e di ritrovare l'aspetto della fonte. Al termine di questa rischiosa
operazione, non ci resta che abbandonarci alla critica di verosimiglianza, fondata sullo studio
dell'ambiente in cui visse Gesù, vietando, a noi stessi, con energia costante, di cedere alle nostre
impressioni personali. Lavoro ingrato, condotto nell'inquietudine e il cui risultato resta sempre
soggetto a cauzione. È ben facile denunziarne le debolezze; se tuttavia possiamo assicurarci in alcune
verisimiglianze, lo dobbiamo a esso. Il merito di averlo condotto sino a questo punto spetta alla
pazienza e alla tenacia dell'esegesi liberale.
Di recente è sorta in Germania una scuola che pretende di rinnovare i metodi e di completare - e
talvolta di riformare - le conclusioni della inchiesta scientifica condotta da più di un secolo sopra i
nostri testi. G. Bertram, E. Bultmann, Dibelius, K. L. Schmidt, ne sono i principali rappresentanti.
Essa studia minuziosamente la forma di ogni pericope, - donde il suo nome di Formgeschichtliche Methode
- e cerca di scoprire sotto il testo attuale la natura della tradizione che essa dovrebbe esprimere. Essa
si sforza dunque, per mezzo dell'analisi del testo attuale, di risalire sino al periodo anteriore alla messa
per iscritto della tradizione, sino alla preistoria della tradizione. Ciascun tipo di racconto, stabilito per
via di comparazione con modelli noti e derivati dalla letteratura rabbinica, dalla narrativa greca, dalle
leggende popolari, ecc., è suscettibile di subire le medesime riduzioni e deve subirle, lasciando scorgere
gli artifici della sua redazione e spesso - più spesso - il niente del suo fondo. In questa maniera di
procedere non tutto è così nuovo come sembrano immaginarlo gli uomini ingegnosi che lo adoperano.
Tutte le conclusioni a cui essi pervengono non sono egualmente evidenti. Pure, il loro sforzo non sarà
stato vano ed essi avranno reso all'esegesi il grande servigio di sistematizzare procedimenti che, dopo
J. Weiss e il Loisy, non ignoravamo, ma che non è male vengano applicati con maggior costanza e
rigore. La Formgeschichtliche Methode non è, a ben guardare, che un'applicazione speciale, e anche un po'
esclusiva, del metodo storico. Essa non ha effettuato nessuna rivoluzione, ha completato quel che già si
possedeva. In definitiva, il metodo storico resta la nostra unica speranza, dopo che la critica testuale e
filologica abbia detto l'ultima parola.