Capitolo 18 DATI OSSERVATIVI 18.1 Il paradosso di Olbers La più semplice e antica osservazione di carattere cosmologico è che il cielo di notte è buio. Questo fatto fu per la prima volta puntualizzato da Keplero nel 1610 che ne derivò la conclusione che l’Universo dovesse essere finito: se fosse infinito e le stelle fossero distribuite in modo omogeneo, in qualunque direzione guardassimo dovremmo incontrare una stella, più o meno lontana, e il cielo dovrebbe essere uniformemente luminoso. Ma dal XVII secolo iniziarono a crescere le evidenze in favore di un Universo sempre più vasto, possibilmente infinito. Newton in particolare si convinse che l’Universo dovesse essere infinito e uniformemente popolato di stelle, altrimenti la gravità verso l’interno ne avrebbe causato il collasso. Heinrich Olbers nel 1823 definì più precisamente la questione. Se l’Universo è popolato da una distribuzione infinita e uniforme di stelle, in un qualunque angolo solido di osservazione cade un numero di stelle la cui luminosità decresce coll’inverso del quadrato della distanza, ma il cui numero cresce con il quadrato della distanza. Pertanto ogni angolo solido dovrebbe presentare la stessa luminosità globale, il che contraddice con l’osservazione del cielo buio punteggiato di stelle distribuite in modo discreto. Questo argomento è conosciuto come paradosso di Olbers. Per la sua soluzione Olbers propose che lo spazio non fosse trasparente e quindi solo una frazione delle stelle ci potesse far pervenire la luce. In realtà la termodinamica, non ancora sviluppata ai tempi di Olbers, dimostra che in condizioni di equilibrio il mezzo oscurante le stelle si porterebbe alla stessa temperatura delle stelle e quindi contribuirebbe alla luce del cielo alla stregua delle stelle. La soluzione del problema, come discusso da Boltzmann basandosi sui principi della termodinamica statistica, può solo venire dal rinunciare all’idea che l’Universo sia un sistema in equilibrio, ma che vi abbiano luogo processi locali irreversibili di non-equilibrio, come ad esempio l’evoluzione delle stelle. Poiché le stelle hanno una vita finita, e la velocità della luce è finita, le sorgenti lontane 463 464 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI non ci possono ancora aver fatto giungere la loro luce; parimenti va tenuto conto del fatto, come discuteremo più avanti, che l’Universo si espande e quindi esiste un orizzonte al di là del quale non possiamo "vedere". Il paradosso di Olbers è risolto quindi non dal fatto che l’Universo sia finito, ma che evolve nel tempo e noi ne possiamo osservare solo una parte. Edwin Hubble dimostrò osservativamente nel 1922 al telescopio di Mount Wilson che la galassia di Andromeda M 31 è separata e distinta dalla Via Lattea. Da allora la scoperta di galassie sempre più lontane danno l’immagine di un Universo molto esteso, con aggregazioni di galassie in sistemi lontani dall’equilibrio termico, falsificando il paradosso di Olbers a scale maggiori. Anche al di fuori della Via Lattea l’Universo nel suo insieme non può essere in equilibrio, deve evolvere, deve avere una vita finita. Nelle parole di Lord Kelvin: l’Universo è troppo giovane per essersi riempito della luce delle stelle (e delle galassie). 18.2 La distribuzione delle galassie Le galassie non sono distribuite uniformemente nello spazio, bensì aggregate gravitazionalmente in vari tipi di sistemi, che vanno dai gruppi con pochi oggetti agli ammassi con centinaia di oggetti, ai superammassi che comprendono decine di gruppi e ammassi. La densità di materia nelle aggregazioni è tipicamente il doppio di quella media in gruppi e ammassi, mentre è solo un 10% superiore a livello dei superammassi. Nelle aggregazioni sono inoltre frequenti l’impronta di interazioni gravitazionali fra gli oggetti, quali ponti, antenne e code, secondo quanto discusso nel paragrafo 16.7. La distribuzione delle galassie è un dato fondamentale per gli studi di cosmologia in quanto i modelli sull’origine dell’Universo debbono riprodurre lo "scheletro osservativo" delle strutture cosmiche. 18.2.1 Gruppi Fig. 18.1: Illustrazione del Gruppo Locale di galassie 18.2. LA DISTRIBUZIONE DELLE GALASSIE 465 Il più comune tipo di aggregazione di galassie sono piccoli gruppi irergolari di poche decine di galassie. La Via Lattea appartiene al Gruppo Locale, e ne rappresenta insieme alla spirale Sb M31, la galassia di Andromeda, la componente di maggiori dimensioni; le rimanenti componenti sono una spirale Sc M33 e circa 30 galassie nane, ellittiche o irregolari (Fig. 18.1). Le dimensioni del Gruppo Locale sono dell’ordine di 1.5 Mpc. 18.2.2 Ammassi Si usa il nome di ammasso per un’aggregazione di galassie che contenga almeno 50 galassie di alta luminosità. Il problema è la definizione dell’appartenenza delle galassie all’aggregazione. In genere si considera che la distribuzione delle galassie in un ammasso segua una legge del tipo de Vaucouleurs (16.2); in tal modo si ottiene che il raggio tipico di un ammasso è dell’ordine dei 2 ÷ 5 Mpc. Il numero die membri degli ammassi dipende da questo raggio e dalla magnitudine limite osservativa. Un ammasso grande comprende parecchie centinaia di membri che sono entro due magnitudini dalla galassia più brillante. Gli ammassi sono ordinati in una sequenza a partire da quelli più estesi, di bassa densità e irregolari fino a quelli più densi e compatti con distribuzione regolare . Il tipo di galassie prevalente cambia lungo questa sequenza: negli ammassi irregolari prevalgono le spirali, mentre in quelli regolari e densi si trovano essenzialmente galassie ellittiche e S0. Fig. 18.2: L’ammasso irregolare della Vergine L’ammasso di galassie più prossimo è l’ammasso della Vergine (Fig. 18.2), distante circa 15 Mpc. Si tratta di un sistema abbastanza irregolare con una regione centrale che contiene ellittiche e lenticolari circondata da una distribuzione estesa di spirali. L’ammasso regolare più vicino è l’ammasso della Chioma (Fig. 18.3), distante circa 90 Mpc: al centro vi si osservano un paio di ellittiche giganti circondato da un alone appiattito di ellittiche e lenticolari. 466 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI Gli ammassi sono intense sorgenti termiche di raggi X prodotti dal gas intergalattico caldo. La morfologia dell’emissione X riproduce la sequenza morfologica: il gas negli ammassi irregolari ha temperature intorno ai 107 K e l’emissione è concentrata intorno alle singole galassie; negli ammassi regolari il gas è più caldo, fino ai 108 K, e l’emissione è più diffusa su tutta l’estenzione dell’ammasso (Fig. 18.4 - 18.5). In sostanza l’emissione X riproduce la distribuzione del gas intergalattico in equilibrio idrostatico nel campo gravitazionale dell’aggregazione di galassie e quindi permette una stima della sua massa, che risulta avere un valore tipicamente pari a quelle della massa delle galassie. Lo spettro dell’emissione X contiene righe del ferro più volte ionizzato e si valuta che l’abbondanza dei metalli sia di tipo solare, cioè evoluta; per cui si conclude che il gas intergalattico è stato espulso dalle galassie. 18.2.3 Superammassi Gruppi e ammassi si collegano per formare aggregazioni di categoria superiore, detti superammassi ; ad esempio il Gruppo Locale fa parte del Superammasso Locale, di cui fa parte pure l’ammasso della Vergine, che anzi se no trova al centro, insieme ad altri gruppi di minori dimensioni. Parimenti l’ammasso della Chioma fa parte di un altro superammasso. I diametri dei superammassi sono dell’ordine dei 10 ÷ 20 Mpc. In effetti a queste scale non è più chiaro se i superammassi siano veramente aggregazioni distinte, oppure facciano invece parte di una rete o ragnatela continua; sono infatti spesso presenti filamenti che collegano diversi superammassi. Un altro elemento importante è la presenza di vuoti all’interno della rete, ampie regioni apparentemente vuote di materia luminosa (Fig. 18.6). 18.2.4 Lo spazio extragalattico Il volume di spazio oggi scandagliato osservativamente corrisponde a un raggio di qualche migliaio di Mpc, quindi notevolmente più grande delle aggregazioni sopra descritte. Sulle scale oltre i 100 Mpc la distribuzione delle galassie appare omogenea. Ciò può essere valutato per mezzo dei conteggi di galassie calcolando in particolare il numero di oggetti più luminosi di una data magnitudine apparente m. Si supponga che le galassie abbiano tutte magnitudine assoluta M , siano distribuite uniformemente nello spazio e non vi sia effetto di estinzione; le galassie con magnitudine apparente maggiore di m si trovano entro una sfera di raggio (in parsec, (4.28)): r = 10 × 100.2(m−M) . (18.1) Se la densità è uniforme il numero di galassie con magnitudine apparente maggiore di m è proporzionale al volume, per cui: N (m) ∝ r3 ∝ 100.6m . (18.2) 18.2. LA DISTRIBUZIONE DELLE GALASSIE Fig. 18.3: L’ammasso regolare della Chioma Fig. 18.4: L’emissione X dall’ammasso della Chioma 467 468 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI Fig. 18.5: L’emissione X dalla galassia NGC 1275 nel centro dell’ammasso del Perseo Fig. 18.6: Struttura dell’Universo a grande scala dalla survey di Harvard, che rappresenta la distribuzione degli ammassi; sono evidenti le strutture filamentari che sollegano i superammassi e i vuoti 18.2. LA DISTRIBUZIONE DELLE GALASSIE 469 Pertanto il risultato non dipende dallo specifico valore di M , e quindi vale anche nel caso le magnitudini assolute non siano tutte eguali, purchè la funzione di luminosità non vari con la distanza. I dati già raccolti di Hubble nel 1934 su 4400 oggetti e oggi estesi sono consistenti con questa relazione, confermando quindi l’omogeneità (indipendenza dalla distanza) e isotropia (indipendenza dalla direzione) dell’Universo alle grandi scale. Conteggi simili sono stati effettuati nella banda radio sulle radiogalassie, ricavando un’indicazione che alle grandi distanze, cioè nelle epoche lontane, le radiogalassie erano molto più luminose o molto più numerose che in epoche vicine. Questo dato rappresenta un’importante indicazione che l’Universo evolve. Un dato cosmologico importante è la densità media dell’Universo; assumendo di distribuire uniformemente la massa visibile delle galassie si ottiene una densità media: ρvis ∼ 10−31 g cm−3 (18.3) circa un protone per metro cubo. Gas interstellare e intergalattico, fotoni, neutrini, onde gravitazionali, come vedremo, non possono contribuire sostanzialmente a questa densità. A questa misura fotometrica si contrappone quella dinamica discussa nel Capitolo 5. Il risultato è che la dinamica delle galassie che appare in equilibrio su lunghi tempi scala richiede una gravità molto più elevata di quella prodotta dalla sola materia visibile. Per le cosiddette galassie a spirale, per le quali si misura la curva della velocità di rotazione, la massa viene ricavata dalla condizione di equilibrio tra forza gravitazionale, che trattiene le stelle in orbita circolare, e la forza centrifuga: 2 GM vrot (R) ∼ R2 R (18.4) Per le galassie ellittiche, che non sono dotate di una velocità angolare ordinata elevata, si ricorre invece alla dispersione di velocità misurabile dall’allargamento delle righe spettrali. Se le galassie sono sistemi in equilibrio, si può applicare il teorema del viriale che comporta un legame tra energia cinetica disordinata, misurata appunto dalla dispersione v̄, e l’energia potenziale di autogravitazione: GM 2 1 M v̄ 2 ∼ ε 2 R (18.5) (ε fattore geometrico dell’ordine dell’unità). Si può valutare che il rapporto M/L, che è dell’ordine dell’unità per il Sole, oggetto in cui misura dinamica e radiativa coincidono, per le galassie a spirale può raggiungere fino a valori dell’ordine di 10 e nelle galassie ellittiche fino a 20-30. Quindi esiste una componente dominante gravitazionalmente, ma senza interazione elettromagnetica perché altrimenti si rivelerebbe in effetti di assorbimento, come il gas interstellare. A questa componente viene dato il nome di materia oscura. In termini densità media la componente oscura corrisponde ad un valore ρosc ∼ 10−29 g cm−3 (18.6) 470 18.3 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI La legge di Hubble Nel 1929 in un lavoro alla National Academy of Sciences a Washington Hubble presentò l’evidenza osservativa basata (i) sulle misure di distanza ottenute con il metodo delle Cefeidi e (ii) sulle misure di spostamento Doppler delle righe spettrali che le galassie mostrano uno spostamento delle righe spettrali verso il rosso (redshift z) correlato alla loro distanza d secondo la relazione: zc = λ − λ0 c = H0 d λ0 (18.7) nota appunto da allora come legge di Hubble (Figs. 18.7-18.8). La costante H0 è detta costante di Hubble ed è usualmente misurata in km s−1 Mpc−1 . Assumendo che valesse dovunque, questa relazione rappresentava dunque un potente mezzo per misurare le distanze delle galassie con lo studio delle righe spettrali. Fig. 18.7: Esempi di spettri di oggetti a distanze cosmologiche Il primo lavoro di Hubble si basava su 18 galassie; con l’aiuto del suo assistente Milton Humason, fu in grado di estendere le osservazioni a 32 galassie entro il 1934. Hubble si rese conto dell’importanza cosmologica delle sue osservazioni che suggerivano un processo di espansione dell’Universo, non potendo essere 18.3. LA LEGGE DI HUBBLE 471 l’osservatore terrestre in alcun modo privilegiato. Nello stesso periodo l’idea di un Universo in espansione era stata sviluppata dal punto di vista teorico: Willem De Sitter nel 1917 aveva ricavato un modello di Universo in espansione dalle equazioni della Relatività Generale di Einstein. Hubble citò questo modello nel suo lavoro del 1929. Einstein stesso fu inizialmente contrario all’idea di un Universo in espansione e introdusse nelle sue equazioni il termine cosmologico per giustificare un Universo statico. Nel 1930 però l’evidenza osservativa costrinse tutti i cosmologi ad accettare l’idea che l’Universo evolvesse espandendosi. Va dunque tenuto presente che l’effetto di redshift non è dovuto ad un moto peculiare delle galassie, bensì ad una velocità di recessione globale dovuta all’espansione dell’Universo, il cosiddetto Hubble flow. Infatti la forma della legge di Hubble è invariante rispetto allo spazio, cioè comporta un’espansione che conserva i rapporti delle distanze relative; l’Universo rimane eguale a se stesso, cambia soltanto la scala delle sue dimensioni. In Fig. 18.9 è riportato il classico esempio dell’espansione omologa di una superficie bidimensionale; si noti però che nel caso dell’Universo ci si riferisce ad un’espansione di uno spazio tridimensionale, osservabile solo da una quarta dimensione. Torneremo su questo argomento nel capitolo sui modelli cosmologici. Spesso, come anche mostrato nella Fig. 18.8, la legge di Hubble è rappresentata in termini di velocità di recessione utilizzando la formula classica dell’effetto Doppler che nel caso non relativistico è z = v/c: v = H0 d (18.8) Per una sequenza di "candele standard", cioè galassie la cui magnitudine assoluta sia intorno ad un valor medio M0 , la legge di Hubble corrisponde ad una relazione lineare tra magnitudine apparente e redshift: µ ¶ cz m = M0 + 5 log = 5 log z + C (18.9) H0 10pc dove la costante C dipende da H0 e M0 . Tipiche candele standard sono le galassie più brillanti di un ammasso, le spirali Sc di una data classe di luminosità e i quasar ad alto z (Fig. 18.10). La legge di Hubble in questa forma è stata confermata fino a circa z = 1. A piccoli redshift la legge è influenzata dalle velocità peculiari delle galassie, a grandi redshift diventa incerta la definizione delle candele standard. Nell’ipotesi che l’Universo si espanda omologamente con lo stesso ritmo, l’inverso della costante di Hubble rappresenta il tempo intercorso per raggiungere l’attuale configurazione da una configurazione iniziale in cui tutte le galassie siano state riunite in un punto, cioè rappresenta l’età dell’Universo: Tuniv = H0−1 . (18.10) Fino a tempi recenti si è considerato che questa espansione debba rallentare per effetto dell’autogravitazione della materia universale. In tal senso l’inverso della 472 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI Fig. 18.8: Il diagramma originale di Hubble sulla relazione tra velocità di recessione e distanza delle galassie basato su 32 oggetti Fig. 18.9: Espansione omologa di una superficie bidimensionale che mantiene il rapporto di distanze; nell’inserto piccolo si mostra anche come la lunghezza d’onda di una radiazione venga aumentata durante l’espansione dell’Universo 18.4. IL FONDO DI RADIAZIONE PRIMORDIALE 473 costante di Hubble sarebbe un limite superiore all’età effettiva. La misura della costante di Hubble è quindi un campo di ricerca estremamente importante, ma complicato da vari aspetti osservativi; già abbiamo più volte indicato come la misura di distanze in astronomia sia molto difficile, ed in genere dipenda da modelli o ipotesi; inoltre anche le misure spettroscopiche possono essere affette da incertezze legate ai moti peculiari. Le prime misure di Hubble stesso davano valori di H0 ≈ 500 km s−1 Mpc−1 . Per lungo tempo il valore si è poi ristretto tra 50 e 100 km s−1 Mpc−1 . Le recenti misure basate sui dati raccolti col metodo delle Cefeidi dallo Hubble Space Telescope danno H0 = 71 ± 4 km s−1 Mpc−1 cui corrisponde un’età dell’Universo Tuniv = 13.7 ± 0.2 miliardi di anni. Più avanti discuteremo il valore di questo risultato, anche tenendo conto delle recenti osservazioni che appaiono indicare che l’espansione dell’Universo oggi stia accelerando. Va notato che l’età dell’Universo così stimata si accorda come limite superiore all’età degli oggetti cosmici la cui età è misurabile indipendentemente. Ad esempio l’età della Terra è misurata dal livello di radioattività delle rocce, l’età del Sole è ricavata dai modelli teorici, l’età degli ammassi stellari deriva dallo studio dell’evoluzione stellare, e così via. Queste età si accumulano verso l’età dell’Universo secondo Hubble, mostrando che la maggior parte degli oggetti cosmici si formano nelle fasi iniziali di vita dell’Universo 18.4 Il fondo di radiazione primordiale Il più importante dato cosmologico dopo la scoperta della recessione delle galassie fu ottenuto nel 1965 da Aarno Penzias e Robert Wilson con la scoperta del fondo cosmico di microonde (cosmic microwave background, CMB ). Essi rivelarono per primi la presenza di una radiazione universale con spettro di corpo nero alla temperatura di circa 3 K, con picco di emissione nella banda delle microonde. Lo spettro completo della radiazione è stato ottenuto dagli strumenti della missione spaziale COBE (COsmic Background Explorer) che ha ricavato una perfetta curva planckiana alla temperatura in 2.73 ± 0.6 K (Fig. 18.11). L’esistenza di tale fondo era stata prevista negli anni 1940 da George Gamow e Hans Bethe che puntualizzarono come l’espansione dell’Universo, derivata da Hubble, dovesse essere iniziata da una fase molto compatta e calda; utilizzando considerazioni di termodinamica statistica stimarono che in quella fase l’Universo fosse una bolla di plasma composto da particelle elementari e fotoni in equilibrio statistico. L’espansione determinò il raffreddamento del plasma secondo un processo adiabatico, essendo l’Universo un sistema isolato; alla temperatura in cui elettroni e barioni si combinarono in atomi, fotoni e materia rimasero disaccoppiati e continuarono a raffreddarsi, ma come fasi separate secondo adiabatiche di differente indice. Applicando le leggi della termodinamica, Bethe e Gamow determinarono che quella radiazione primordiale avrebbe dovuto al tempo presente (con la stima dell’età dell’Universo ottenuta dall’inverso della costante di Hubble) essersi degradata ad uno spettro termico di pochi gradi Kelvin. 474 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI Fig. 18.10: Il diagramma magnitudini-redshift per galassie e quasar Fig. 18.11: Lo spettro del fondo cosmico di radiazione misurato da COBE 18.5. ISOTROPIA DI MATERIA E RADIAZIONE 475 Fig. 18.12: Anistropia di dipolo della radiazione di fondo dovuta al moto del Gruppo Locale La CMB rivelata da Penzias e Wilson confermò tale ipotesi; essa è essenzialmente isotropa, ma porta i segni del moto del Gruppo Locale di galassie verso il superammasso dell’Idra-Centauro come una differenza di temperatura di alcuni milliKelvin in diverse direzioni: temperatura più alta nella direzione del moto, più bassa nella direzione opposta (Fig. 18.12). COBE ha anche misurato variazioni irregolari di temperatura del fondo cosmico con percentuali dell’ordine di 6×10−6 , cioè di poche decine di microKelvin, e questo risultato è stato ulteriormente raffinato dalla missione WMAP (Fig. 18.13). Vedremo più avanti l’importanza di questo dato che permette di determinare le scale delle aggregazioni gravitazionali al momento del disaccoppiamento tra materia e radiazione e di ottenere dirette informazioni sulle caratteristiche dell’evoluzione dell’Universo. 18.5 Isotropia di materia e radiazione Il fondo cosmico di microonde è isotropo, a parte le anisotropie ora discusse. Altri dati, già discussi, come la distribuzione delle radiosorgenti e delle galassie oltre i 1000 Mpc, il fondo di raggi X, la legge di Hubble, confermano tutti l’isotropia dell’Universo. Ciò tra l’altro comporta che l’Universo debba essere omogeneo, altrimenti le disomogeneità si rivelerebbero in anisotropie. 18.6 L’abbondanza dell’elio Le abbondanze degli elementi chimici e l’assenza di antimateria sono questioni di significato cosmologico. L’evoluzione primordiale dell’Universo dev’essere in grado di riprodurre le abbondanze elementari osservate, in particolare di quegli elementi e di quelle abbondanze che non possono essere giustificati dalla nucleosintesi stellare. Allo stesso tempo ciò permette di fissare i valori di alcuni parametri cosmologici. 476 CAPITOLO 18. DATI OSSERVATIVI Fig. 18.13: Anisotropia del fondo cosmico di microonde misurato con differente risoluzione angolare da COBE e WMAP 18.7. L’ACCELERAZIONE DELL’UNIVERSO 477 Le osservazioni mostrano che anche nelle stelle più antiche l’abbondanza di elio in massa è del 25%; una tale abbondanza non può essere spiegata dalla nucleosintesi prodotta dai processi termonucleari durante la vita delle stelle accettando le tipiche stime dell’età delle galassie. Altri elementi le cui abbondanze sono tipicamente diverse da quelle interpretabili con i processi termonucleari stellari sono il litio e il deuterio. Le condizioni di alta densità e temperatura delle fasi iniziali (la fase calda) dell’espansione dell’Universo sono adatte ad un’efficiente reazione di trasformazione di idrogeno in elio, includendo anche la produzione di elementi intermedi che non sono distrutti da successive catene termonucleari che vengono impedite dall’espansione che interrompe la fase calda. Naturalmente la produzione di elio a livello cosmologico dipende dalla densità e dalla temperatura nelle prime fasi di espansione dell’Universo. Vedremo come questi dati permettano di vincolare la teoria del big-bang che discuteremo nell’ultimo Capitolo. 18.7 L’accelerazione dell’Universo Alla fine degli anni ’90, lo studio della legge di Hubble alle grandi distanze utilizzando osservazioni di supernovae di Tipo Ia in galassie lontane dette il risultato inaspettato che l’espansione dell’Universo appare essere in accelerazione. Queste osservazioni sono state ripetute e confermate. Questo significa che la velocità a cui una galassia si allontana aumenta nel tempo. Poiché l’energia che causa questa accelerazione è del tutto ignota e non può essere osservata direttamente, è stata chiamata energia oscura.