l`ethos della topologia - Casa editrice Le Lettere

Vincenzo Vitiello
L’ETHOS DELLA TOPOLOGIA
Un itinerario di pensiero
Le Lettere
II
Genealogia del tempo e immagini della storia
ˆ estin1
Érchetai hóra kaì nyn
I. Ermeneutica e Genealogia
1. Sono molti e diversi i modi di intendere e praticare la filosofia;
tanti, quante le filosofie. Il che non toglie che vi siano affinità più o
meno marcate, dovute spesso, anche se non sempre, all’appartenenza ad un medesimo mondo storico-culturale. Vi sono, infatti, affinità
e differenze, che attraversano il tempo storico, senza dipenderne. E
nessuna ermeneutica può pretendere di esaurire l’analisi anche di
una sola filosofia, perché le filosofie non sono monoliti; per coerenti
che possano essere, sono pur sempre pensieri viventi, aperti, pertanto, ai molti influssi e alle diverse suggestioni del mondo, che non è
una superficie piatta ma una costruzione a strati. Ed anche il tempo
non ha un’unica dimensione, ma molte, e nel profondo le connessioni tra mondi storici sono altre da quelle che si rilevano in superficie.
Questa premessa sui diversi modi di praticare la filosofia ha il
compito di introdurre la questione sul modo di trattare filosoficamente il problema “tempo”. Ma sin da subito la questione “tempo”
si è imposta prepotentemente: abbiamo già appreso che il tempo è
una struttura stratificata – prim’ancora di chiederci cosa sia e come
ne facciamo esperienza. In certa misura la cosa è inevitabile, essendo il tempo una determinazione costitutiva della nostra esperienza;
1
«Viene l’ora ed è adesso» (Giovanni, 5.25)
48
LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
ma proprio per questo motivo dobbiamo opporre resistenza ad ogni
tentativo di “saltare” la domanda sul modo o i modi in cui facciamo
esperienza del tempo, e altresì sul modo o i modi di quella particolare esperienza che consiste nel portare a linguaggio e a riflessione
la nostra esperienza del tempo. In ciò consiste la filosofia del tempo.
Il modo di riflettere sull’esperienza in generale, e quindi anche
sul tempo, che nell’ultimo quarto del secolo XX si è imposto in
filosofia, è stato quello della cosiddetta “ontologia dell’attualità”,
come l’ermeneutica filosofica ha voluto definirsi2. Ponendosi come
punto d’incontro delle più diverse correnti filosofiche – dal nichilismo di Nietzsche alla me-ontologia di Heidegger, dallo “storicismo” di Dilthey e Weber alla psicologia del profondo di Freud in
particolare3, ma non solo4; dall’analisi logica del linguaggio e linguistica della logica (Wittgenstein) all’epistemologia di scuola popperiana (in particolare nel suo esito “anarchico”5) – ed espandendosi ben oltre i suoi ambiti tradizionali – la letteratura e la storia, la
giurisprudenza e la teologia –, l’ermeneutica dell’attualità ha portato nel territorio delle scienze, un tempo dominio dell’esattezza
fisico-matematica, la duttilità della saggezza pratica (l’aristotelica
phrónesis) e la libertà del dialogo che mira non alla verità ma all’opinione condivisa. Facendo valere l’aspetto positivo della relatività
e storicità dell’esperienza del mondo6, la filosofia ermeneutica ha
ribaltato il giudizio negativo sul tempo presente come età di crisi
dei fondamenti della scienza e dei valori della morale e della poli-
2
Cfr. G. Vattimo, Ontologia dell’attualità, in Filosofia ’87, Laterza, Roma-Bari
1988, pp. 201-223. Ma la locuzione “ontologia dell’attualità” è di Michel Foucault in
Che cos’è l’illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?, trad. it. di G. Marramao, «Il Centauro», 1984, nn. 11-12.
3
Cfr. P. Ricœur, De l’interprétation. Essai sur Freud, trad. it. di E. Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, il Saggiatore, Milano 1966. Su Ricœur e Freud, riguardo
al “passaggio” dall’ermeneutica alla topologia, rinvio a V. Vitiello, Elogio dello spazio.
Ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano 1994, p. I e II.
4
Basti ricordare l’influenza di Lacan sul pensiero postmoderno.
5
Cfr. in particolare P. K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic
Theory of Knowledge, New Left Books, London 1975; trad. it. di L. Sossio, Contro
il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979.
6
Cfr. in particolare H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer
philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebek), Tübingen 19865; trad. it. di
G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 19832. Per un’approfondita analisi del
pensiero gadameriano cfr. D. Di Cesare, Gadamer, il Mulino, Bologna 2006.
GENEALOGIA DEL TEMPO E IMMAGINI DELLA STORIA
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tica. Questa “positiva” apertura a tutte le forme della vita storica è
all’origine della fortuna dell’ermeneutica che è giunta a presentarsi
come la koiné filosofica del nostro tempo.
Da questa “interpretazione” della filosofia è derivata una “pratica” filosofica tutta piegata sul “presente”, sull’“attualità”. Ora,
sarà pur vero che compito della filosofia è «comprendere il suo
tempo in pensieri»7, ma se non ci si chiede sin dove s’estende il
“tempo” della filosofia, e lo si identifica con l’immediato presente, la pratica filosofica non si distingue più dal giornalismo – come
Nietzsche lucidamente denunciava già alla fine del secolo decimonono8, e come oggi, purtroppo, sempre più spesso avviene.
2. L’ermeneutica come disciplina filosofica non è nata con Dilthey
e Gadamer, e neppure con Schleiermacher. L’ermeneutica è nata
con la filosofia stessa. E di essa non può neppure ripetersi quello
che Vico diceva di filosofia e filologia, e cioè che sono geminae
ortae9. Perché l’ermeneutica non è la gemella della filosofia – è la filosofia. Così dicendo, intendo contrastare la tesi di August Boeckh,
uno dei padri fondatori della filologia moderna, per il quale solo
i popoli colti possono philologheîn, laddove il philosopheîn è esercizio anche di incolti10. Invero stupisce l’insistenza di Boeckh nel
contrapporre al ghignóskein, al “conoscere originario” della filosofia, l’anaghignóskein, il “ri-conoscere”, o “conoscere di nuovo”
della filologia. La filosofia non è uno sguardo innocente, ingenuo,
una visione aurorale del mondo. La filosofia è un sapere ‘secondo’,
osserva il mondo non direttamente, ma attraverso le lenti che la
tradizione le ha fornito. D’altronde Boeckh stesso ricorda – e proprio nella medesima pagina – «la profonda intuizione di Platone»,
secondo cui «ogni conoscenza, ogni gnôsis, è sempre un’anágnosis
ad un più alto livello speculativo»11. Solo che questa ammissione
G. W. F. Hegel, GPhR, p. 16; it. 16.
Cfr. Ueber die Zukunft unserer Bildungsanstalten, KSA, I, pp. 641-752; trad. it.
di G. Colli, OFN, III/2, 19802, 79-206.
9
Cfr. G. Vico, Notae al De constantia iurisprudentis, OG, pp. 771, n. 33.
10
A. Boeckh, Encyclopädie und Methodenlehre der philologischen Wissenschaften, a cura di E. Bratuschek, Leipzig 1886, trad. it. di R. Masullo, col titolo: La filologia
come scienza storica, Guida, Napoli 1987, p. 45.
11
Ivi, p. 50.
7
8
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non “riduce” – come afferma – l’antitesi tra philosopheîn e philologheîn, bensì l’annulla. Il vero problema riguarda il senso dell’“ana” di anágnosis. Il “passato” che la filosofia ri-pensa non è solo
la tradizione che ha alle spalle, è anche, è soprattutto l’arché, il
principio. E nessuno meglio di Platone ha definito il rapporto che
la filosofia ha con questo principio.
Rammento la scena, tra le più note della letteratura filosofica: la
nave consacrata ad Apollo, di ritorno dall’isola di Delo, era già in
vista del porto di Atene; il periodo di sospensione delle condanne a
morte stava dunque per terminare12. Critone sollecita Socrate a fuggire per sottrarsi all’ingiusta condanna, rammentandogli gli obblighi che aveva non solo nei confronti di se stesso, ma dei figli, della
famiglia e degli amici. Socrate né accoglie né respinge la proposta.
Anche nella situazione estrema in cui si trovava – risponde – avrebbe seguito, come sempre nella sua vita, quella ragione (lógos) che a
lui ragionante (loghizoméno) sarebbe apparsa la migliore (béltistos
phaínetai)13. Fermiamoci su questa risposta. Socrate rivendica a sé
il giudizio ultimo non sulla cosa da fare, ma sulla ragione della cosa
da fare; e questo giudizio l’avrebbe dato in quanto loghizómenos. In
quanto capace di ragione. Capace perché la ragione gli appartiene,
o non, piuttosto, perché è lui che appartiene alla ragione? Socrate
sì è forse dato da sé la ragione? E come? Con la ragione o senza? Se
senza, allora la scelta della ragione è irrazionale, giusto il contrario
di quanto Socrate rivendica a sé. Se con, e cioè se Socrate ha scelto
la ragione sul fondamento della ragione, allora non la ragione appartiene a Socrate, bensì Socrate alla ragione.
Ma, se Socrate appartiene alla ragione, e non la ragione a Socrate, nel flettersi su di sé, nello sdoppiarsi, la ragione rimane pur
sempre la stessa. Non certo come una vana ripetizione di sé, un’inutile tautologia, perché nel “ripetersi” la ragione cresce su se stessa, si perfeziona: diviene “migliore”. Vale a dire: il circolo della
riflessione, il ritorno su di sé della ragione, non è tautologico, ma
tauto-etero-logico14. Resta, tuttavia, questa ragione che cresce su se
stessa, chiusa nella sua auto-identità.
12
13
14
Cfr. Platone, Critone, 43d; Fedone, 58a.
Cfr. Platone, Critone, 46b.
Cfr. G. F. W. Hegel, WL, II, pp. 548-573: Die absolute Idee; it. II, 935-957.
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3. In questo ragionamento è “saltato” un passaggio essenziale: Socrate. La ragione che ragionando si mostra la migliore, ha infatti
come primo e ineludibile compito quello di dimostrare d’essere la
ragione di Socrate, ovvero: il lógos presente in quel loghizómenos
chiamato Socrate. Infatti non soltanto Socrate può avanzare la pretesa di ‘appartenere’ alla ragione; anche altri possono farlo: tutti
gli interlocutori di Socrate. Il fatto che molti di essi attribuiscano
a se stessi la ragione, ribaltando il rapporto platonico, non esclude
il fatto che anch’essi appartengano alla ragione. Compito primario
e ineludibile della ragione – e di Socrate in quanto “appartiene”
alla ragione – è allora di-mostrare con la ragione chi, pur appartenendo alla ragione, non la segue. A tale scopo non basta il criterio
elenchistico della verità che prova se stessa e il suo contrario uno
actu. Ché non si tratta di dar ragione della necessità dell’errore per
la verità, ma della possibilità dell’errore. Della possibilità del ‘fatto’
dell’errore, e cioè: che erra Trasimaco – e perché – e non Socrate.
Chiaro che l’errore non può essere della ragione – non è ragione
quella che talora segue se stessa e talaltra devia da sé –; dev’essere
pertanto conseguenza d’altro. Di che? Della non-identità di lógos
e loghizómenos. Ragione e appartenenza alla ragione non sono il
medesimo. Nella differenza tra le due v’è la “possibilità” – possibilità, non necessità – dell’errore. Nel circolo della ragione non solo
inizio e fine non coincidono, ma nel movimento dall’inizio alla fine
v’è un passaggio da nulla garantito. Il passaggio attraverso lo spazio
proprio del loghizómenos, di colui che, appartenendo alla ragione,
la esercita – che è lo spazio della libertà e insieme dell’errore. In
questo spazio si muove la scelta dell’“interprete”, altro nome del
loghizómenos, di colui che appartenendo alla ragione, l’interpreta,
ovvero: mostra quale sia la migliore ragione da seguire in quella determinata situazione. La ragione “scelta” come la “migliore” è, dunque, scelta dal loghizómenos, dall’interprete, certo sul fondamento
della ragione a cui appartiene, ma non direttamente dalla ragione.
Qui la grande responsabilità dell’interprete, del loghizómenos. E la
sua dignità. Il filosofo segue, non esegue, la ragione. E per seguirla
deve interpretarla. In che modo l’interpreta?
Due le possibilità fondamentali: o fermandosi alle forme storiche in cui la ragione si è manifestata nelle precedenti interpretazioni, o, all’opposto, penetrando in queste manifestazioni, attraversandole, alla ricerca della “ragione” che sta a fondamento
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LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
di tutte le manifestazioni. Con una metafora “spaziale” utile per
semplificare il tutto, e a riportarci a quanto accennato all’inizio:
l’interprete, il loghizómenos, può sia arrestarsi alla superficie della
storia, sia tentare il fondo.
E questo vale anche per l’indagine sul tempo: ci si può interrogare sulle differenze, ad esempio, tra tempo mondano, secolarizzato e tempo religioso, tempo circolare o lineare, tempo pagano,
tempo ebraico e tempo cristiano, tempo messianico, apocalittico,
escatologico – e così via; ovvero: su cosa sia il tempo che in queste
varietà di manifestazioni resta uno, e se resta uno; su come avviene, e perché avviene, la partizione del tempo in passato, presente,
futuro; sul rapporto tra sensibilità e tempo, e tra pensiero e tempo,
immaginazione e tempo; sulla possibilità di “dire il tempo”, quindi sul rapporto tra tempo e linguaggio, sul modo in cui il tempo
“cambia” attraverso il linguaggio – e così via. Sono due modalità
profondamente diverse di interrogare il “tempo”, e prim’ancora
d’intendere l’ermeneutica – la filosofia stessa. Seguiremo questa
seconda via, cominciando con l’interrogarci su come, perché, e
“quando” avviene la partizione caratteristica del tempo, la successione passato-presente-futuro.
Ma ha senso interrogarsi su “quando accade” il tempo? La domanda sul “tempo” del tempo è un palese circolo vizioso.
Al livello analitico, in cui siamo, l’obiezione è legittima. Sarà
possibile superarla solo quando – ancora il tempo! – avremo raggiunto il livello adeguato; ma per non restare bloccati dall’obiezione,
ci limitiamo a porre questa domanda di controbalzo: il “quando”
dell’accadere del tempo è lo stesso “quando” che accade nel tempo?
L’accenno iniziale alla struttura stratificata del tempo può già essere
un indizio sulla direzione dove cercare la possibile risposta.
II. Della “doppia” genesi dell’esperienza del tempo
4. Cominciamo la nostra analisi, “commentando” un testo classico, la Fisica di Aristotele, a cui tutte le ricerche sul tempo in un
modo o in un altro, e cioè esplicitamente o implicitamente, quando
non, addirittura, inconsapevolmente, si rifanno. Perché le analisi
di Aristotele, in particolare quelle sull’etica e sulla natura (physis),
hanno la concretezza della fenomenologia che “fa parlare” diretta-
GENEALOGIA DEL TEMPO E IMMAGINI DELLA STORIA
53
mente l’esperienza, non seguendo altro ordine che quello dettato
dal “fenomeno” volta a volta indagato. Questo “metodo” dà ragione del fatto che l’analisi del movimento e/o del cambiamento
(kínesis e/o metabolé) precede sia quella dello spazio, o più precisamente del “luogo” (tópos), che quella del tempo. Le prime determinazioni di luogo, infatti, quali la vicinanza e la lontananza, non
si spiegano se non a partire dall’ente-che-si-muove, per il quale
vicino è ciò che può essere raggiunto prima di ciò che è lontano:
il frutto sull’albero per cibarsene, l’acqua del fiume per dissetarsi,
l’animale del branco per accoppiarsi… In seguito queste determinazioni proprie dell’esperienza del movimento vengono estese a
caratterizzare rapporti tra enti che non si muovono, o addirittura
che non possono esser-mossi. Anche di un sasso diciamo che è vicino o lontano dal prato, e così di una montagna rispetto al lago
che giace ai suoi piedi. E non credo di peccare di “idealismo”,
sostenendo che la vicinanza del sasso al prato, e della montagna al
lago, è relazione estrinseca ad entrambi, in quanto non entra nella
loro costituzione (Hegel direbbe: cade in un “terzo”), laddove la
vicinanza del leone alla gazzella è relazione intrinseca ad essi, determinando il leone ad inseguire e la gazzella a fuggire.
L’analisi del “luogo”, che pur prosegue l’indagine sul movimento, comporta una profonda trasformazione di prospettiva, un
vero e proprio “salto” di grado, da un livello ad altro dell’esperienza fenomenologica. Questa, infatti, iniziando da ciò che per
primo viene incontro (il próteron pròs hemâs) – nel nostro caso
il movimento –, mira a ciò che è primo per natura (próteron tê
physei), il luogo in cui avviene il movimento, da cui ha iniziato.
Rileva Aristotele: «si deve tener presente che non si sarebbe potuta
fare un’indagine sul luogo, se non vi fosse un movimento secondo
il luogo»15. Il passaggio dal movimento al luogo è propriamente
una retrocessione al fondamento, che caratterizza, ancor prima
della indagine fenomenologica, l’esperienza da questa descritta16.
Cfr. Phys, IV, 4, 211a.
Principio ripreso da Hegel: cfr. WL, I, in particolare p. 70 (it. I, 56) sul rapporto “primo-ultimo”, “inizio-fondamento”, e II, p. 246 (it. II, p. 652) sul concetto
di “divenire”; e da Heidegger: cfr. SZ, Einleitung, cap. I e II: sul rapporto “primo
ontico-primo ontologico”. Ma dei due filosofi il più vicino ad Aristotele fu certamente
15
16
54
LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
Cosa accade in questa retrocessione dall’esperienza del movimento
all’esperienza del luogo? La rivelazione del carattere essenziale del
movimento. Vediamo come: il luogo, s’è detto, è ciò in cui accade il movimento: è il contenitore (periéchon) del movimento. Da
esso il movimento si può separare, anzi di fatto sempre si separa,
il movimento consistendo appunto nell’abbandonare un luogo per
raggiungerne un altro. Ma questo passare da un luogo ad un altro
non altrove accade che nel luogo. Oltre i luoghi da cui volta a volta
il movimento si separa, v’è il luogo da cui il movimento mai può
separarsi. Il luogo in cui ogni movimento accade. Il luogo che, in
quanto tale, caratterizza l’essenza del movimento. Cosa muta nel
passaggio dall’esperienza del movimento all’esperienza del luogo?
Lo sguardo fenomenologico. E in ciò sta il “salto” dell’esperienza da un livello ad altro. Lo sguardo – non quello dell’indagine
sull’esperienza, ma quello che è proprio dell’esperienza diretta – si
ferma ora su ciò che è stabile del movimento: il luogo. Il luogo che,
per quanto17 separabile dal movimento, appartiene all’essenza del
movimento. È un punto, questo, su cui, ancor più che opportuno,
è necessario soffermarsi.
Aristotele afferma che il luogo è “altro” dal movimento, in
quanto non è né materia né forma dell’ente18 che volta a volta accoglie in sé. Tra il luogo e ciò che esso ospita v’è discontinuità. Per
Hegel, se si guarda all’esito della sua filosofia (cfr. infra, § 11), nonostante la critica del
principio di non contraddizione che risale al 1801: la prima Abilitationsthese recita:
«Contradictio est regula veri, non contradictio falsi» (Jenaer Schriften 1801-1807, W,
2, pp. 533). Heidegger, per contro, è stato ben più radicale critico di Aristotele: la
proposizione fondamentale di SZ – «Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit»
(p. 38; it. 54) – ribalta il phanerón aristotelico: próteron enérgheia dynámeos (Metaph,
IX, 8, 1049b 5; e XII, 6, 1071b 12 - 1072a 18); tesi ribadita ed estesa al concetto di
“movimento (anche se pensato come metabolé)” nei BPh: § 157 Die Zerklüftung und
die “Modalitàten”, pp. 279-281; it. 280-281). Quanto detto non è in contrasto col fatto
che Heidegger ha sempre considerato Aristotele il riferimento essenziale del suo pensiero – e basti qui ricordare il Natorp-Bericht del 1922 e Vom Wesen und Begriff der
Physis. Aristoteles, Physik B, 1, scritto nel 1939 ma apparso, su «Il Pensiero», solo nel
1958, ora in Wm, pp. 237-299; it. 193-255) –; e non lo è, perché la Destruktion della
metafisica tradizionale, progettata già in SZ (cfr. § 6), non poteva che muovere dal suo
punto più alto (in merito cfr. V. Vitiello, Seyn als Wesung: Heidegger e il nichilismo,
«aut aut», 1992, nn. 248-249, pp. 75-92).
17
Meglio: in quanto, come presto si vedrà.
18
Cfr. Phys, IV, 4.
GENEALOGIA DEL TEMPO E IMMAGINI DELLA STORIA
55
questa discontinuità la relazione spaziale contenente-contenuto si
differenzia dalla relazione tutto/parte, che implica medesimezza di
forma e materia. Posta questa “discontinuità” tra luogo e movimento, ben più profonda della separazione per abbandono del luogo da
parte del movimento, com’è possibile affermare che il luogo appartiene all’essenza del movimento – come poc’anzi s’è detto?
Anche a questa domanda si risponde con una controdomanda: e se non fosse proprio la “discontinuità” ad indicare il senso
del rapporto dell’essenza con l’essere dell’ente? La discontinuità,
ovvero l’“alterità”? L’essenza (e qui si dice non soltanto dell’essenza del movimento, ma dell’essenza di ogni e qualsiasi cosa,
dell’essenza qua talis) è essenza proprio perché è altra dall’essere,
proprio perché non è l’essere di cui è l’essenza19. Pertanto l’essenza del movimento non-è movimento: è la stabilità del movimento.
Quella stabilità che è resa manifesta dal rapporto necessario che
il movimento ha col luogo. Letto in questa prospettiva, l’esempio
aristotelico del fiume che come “intero è immobile” (akínetos ho
pâs) caratterizza insieme il contenente e il contenuto, il luogo e il
movimento. Il luogo in quanto appartiene all’essenza del movimento.
Il próteron tê phýsei essenza del próteron pròs hemâs. Si comincia a intravvedere il senso del “quando” di cui alla fine della precedente paragrafo. Si tratta di un “quando” non storico, ma naturale,
genetico.
5. All’analisi dello spazio (tópos) Aristotele fa seguire quella del
tempo, anche questa strettamente connessa alla problematica del
movimento. Vediamo dapprima la connessione tematica tra le
due analisi dello spazio e del tempo. I quattro tipi di “movimento” – traslazione, accrescimento o diminuzione, mutamento qualitativo, nascita e corruzione – non sono eguali. Che i primi due abbiano a che fare con il luogo è evidente: la traslazione è passaggio
da un luogo ad altro, l’accrescimento o la diminuzione di un corpo
occupa maggiore o minore spazio, ma l’impallidire d’un volto qua-
19
Quanto al senso secondo il quale l’essenza non è l’essere di cui è la “verità”,
imprescindibile il riferimento alla hegeliana Wesenslehre: WL, II, pp. 13-16 e ss.; it.
II, 433-436 ss.
56
LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
le relazione ha con il luogo che occupa? Né lo lascia per occuparne
un altro, né lo riempie o lo svuota. La relazione con lo spazio riguarda il corpo in movimento non il movimento del corpo. Invero
il movimento qualitativo (o mutamento) – ripeto: il mutamento
del corpo, non il corpo che muta – è esperienza non spaziale, ma
temporale. Non lo si percepisce nello spazio, che resta eguale, ma
nel tempo. È la diversità dei tempi che consente la percezione del
movimento qualitativo, o mutamento. L’esperienza del movimento
qualitativo è “altra” esperienza del movimento: è l’esperienza che
si fa del movimento secondo il “prima” e il “dopo”. Ora come lo
spazio presuppone il movimento cui è connesso ma da cui differisce, così il tempo. Il tempo presuppone il movimento, ed è ad
esso indissolubilmente connesso – non c’è tempo senza movimento –, ma non è movimento. È la «misura del movimento e dell’esser
mosso» (métron kinéseos kaì toû kineîsthai)20 secondo il “prima”
e il “dopo”. Aristotele insiste sulla connessione del tempo con lo
spazio, sino ad affermare che “prima” e “dopo” sono determinazioni che ineriscono anzitutto al “luogo” (próteron kaì hýsteron en
tópo prôtón estin): sono il “donde” e il “dove” dell’esperienza spaziale21. Che il tempo presupponga lo spazio – così come presuppone il movimento – s’intende da sé; ma, come dall’esperienza del
movimento si è giunti a quella del “luogo” con un “salto” da un
livello ad un altro dell’esperienza fenomenologica, così dall’esperienza del “donde” e del “dove” a quella del “prima” e del “dopo”.
Cosa differenzia il “donde e il dove”, ed il movimento dall’uno
all’altro, dal “prima” e “dopo”? Nel movimento locale il “donde”
abbandonato resta dove lo si è lasciato: è ancora lì, presente; non
così il “prima” dell’esperienza del tempo, che nell’“adesso” non
c’è, è assente, e solo per la sua assenza è l’“adesso”. Assente, il
“prima”, ma non scomparso, perché se fosse scomparso, neppure potrei avere esperienza dell’“adesso”, e quindi del passare del
tempo. Se il rossore del tuo volto, acceso poc’anzi dallo sdegno per
un’ingiustizia subita, fosse fuori dell’orizzonte della mia esperienza
presente, come potrei “vedere” nel tuo pallore attuale il placarsi
dello sdegno nella malinconia della rassegnazione? Nell’esperienza
20
21
Cfr. Phys, 220b-221.
Cfr. Phys, 219a 15-20.
GENEALOGIA DEL TEMPO E IMMAGINI DELLA STORIA
57
del tempo l’assenza torna presente, l’abbandono è ripresa, secondo
un ritmo che ricorda il ritmo del respiro. Nelle Confessioni – lo si
ricordava nel precedente capitolo – Agostino per spiegare il tempo
citava un verso e la sua scansione in sillabe, lunghe e brevi: era naturale per lui il rapporto tra tempo e voce. E non si articola la voce
sul ritmo e la misura del respiro? Ritmo, misura non “mentali”:
sensibili. Ritmo e misura vitali. E forse (la dubitativa è d’obbligo in
queste analisi che si spingono al limite estremo dell’indagine fenomenologica, se addirittura non lo sorpassano), e forse senza questa esperienza vitale non sarebbe sorta quell’esperienza sensibile e
intellettuale insieme, naturale, animale, corporea e mentale, culturale, che Aristotele definì con meravigliosa concisione: aritmós
kinéseos katà tò próteron kaì hysteron – «il numero del movimento
secondo il prima e il dopo» (e “numero” nel duplice significato di
“numerato” e “numerante”22).
6. Movimento e luogo sono propri anche del vegetale, dell’albero
che cresce, delle radici che affondano nel terreno, del fiore che si
apre alla luce del mattino, o segue il cammino del sole. Non così il
tempo, che – sembra – non poter appartenere ad ogni vivente, ma
solo all’animale che respira.
Invero questa esperienza minimale del respiro se è condizione necessaria, non è però sufficiente. Perché sorga qualcosa come
l’esperienza del tempo, è necessario che accada dell’altro. Cosa?
Lo dico con un’immagine di Vico, che mostra “come”, “dove” e
“quando” questo “altro necessario” accade: «alzarono gli occhi,
ed avvertirono il Cielo»23. Di chi sta parlando Vico? Dei gegeneîs,
dei giganti, i figli della terra, fiere vaganti nella gran selva della
natura dopo il diluvio, i quali all’accadere del fulmine che squarcia
la notte e illumina il tutto, avvertono… Cosa? Gli occhi che sino
allora avevano visto l’albero e la tana, l’acqua che bagna e disseta,
l’animale che accende l’istinto di lotta, di sesso o di cibo, questi
occhi d’improvviso avvertono Terra e Cielo. Non vedono, avvertono con animo perturbato e commosso. Perché l’istante in cui il
Tutto – Cielo e Terra, Terra e Cielo – si palesa, è l’istante medesimo
22
23
Cfr. Phys, 219a 35 -219b 10.
SN44, p. 918.
58
LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
in cui la Terra trema e i Terrae filii fanno esperienza dell’instabilità
del più stabile, dell’insicurezza del più sicuro. Questa esperienza
è timore e tremore. La rivelazione del Tutto è insieme rivelazione
della morte, del venir meno del Tutto. E solo con l’esperienza del
Tutto “sorge” l’esperienza del tempo. Perché a questa esperienza
non basta il ritmo del respiro, è necessario un orizzonte che comprenda in sé il “prima” e il “dopo”, ogni “prima” e ogni “dopo”.
Non c’è tempo senza determinazione dei “luoghi” dell’orizzonte
del tempo. E qui il nesso del tempo con lo spazio mostra come l’esperienza “successiva” completi la precedente, dacché l’orizzonte
temporale si ri-flette sull’orizzonte spaziale. Come attesta il sorgere
del “sentimento-di-vuoto” che caratterizza l’esperienza della lontananza, del limite dello sguardo, della differenza tra la Hörwelt,
il mondo dell’udire, e la Schauwelt, il mondo del vedere24 – e si
potrebbe, e dovrebbe continuare. Sentimento-di-vuoto, ho detto, e
non “concetto”, perché questa fenomenologia della sensibilità, che
andiamo, per sommi capi e non senza grandi difficoltà anche di linguaggio, descrivendo, non riguarda i sensi nostri, quel che noi, uomini storici, vediamo e tocchiamo, giacché da tempo non vediamo
più con occhi e mani “sensibili”, ma attraverso l’“iconologia della
mente”, che rispetto all’esperienza che stiamo indagando è molto
più tardiva. Ed è proprio per restare sul terreno dell’esperienza
originaria, che è ancora tutta da scoprire, prim’ancora che da analizzare, dobbiamo anzitutto sottolineare questo: all’origine dell’esperienza del tempo è un fatto che col linguaggio “nostro” – di
uomini, non più Terrae filii – definiamo naturale. Ma l’esperienza
del tempo che sorge col fulmine e col tuono, con l’aprirsi del Cielo
nella nera Notte ed il tremare della Terra, non in tutti i viventi
dotati di respiro è sorta – bensì solo per alcuni. Il gatto e il leone,
il topo e la gazzella – non hanno tempo, non il tempo ordinabile
nell’orizzonte del “prima” e del “poi”, non il tempo pre-vedibile (i
cui “eventi”, cioè, si vedono prima che siano), non il tempo unidirezionale, che va da nascita a morte – non il tempo della coscienza.
Il gatto e il topo, il leone e la gazzella sentono – non avvertono.
Perché questo? A tale domanda non c’è risposta.
24
Cfr. F. Nietzsche, Richard Wagner in Bayreuth, KSA, I, p. 456 e passim; trad. it.
di S. Giametta, OFN, IV/I, 1967, 29 e passim.
GENEALOGIA DEL TEMPO E IMMAGINI DELLA STORIA
59
La connessione tempo-coscienza è chiaramente vista da Aristotele. Se il tempo – afferma – è il numero del movimento senza ciò
che numera non può esservi tempo, e ciò che numera è l’anima, e
dell’anima l’intelletto25. L’anima che – come scrive Aristotele nel Perì
psychês – «è in qualche modo tutte le cose»26. In qual modo, nel caso
di cui qui si ragiona? Al modo in cui un grado, o strato, dell’esperienza s’estende ai precedenti. Appoggiamo questa “interpretazione” su quel che Aristotele aggiunge dopo aver affermato che non c’è
tempo senz’anima: a meno che non s’intenda che il tempo è già da
sempre essente27, ovvero: a meno che non s’identifichi tempo e movimento, negando le diverse stratificazioni dell’esperienza sensibile.
Il necessario riferimento del tempo all’anima consente di mostrare
altro rapporto essenziale alla comprensione della connessione tempo-anima, o tempo-coscienza: il rapporto tra tempo e linguaggio.
7. All’istantaneità della luce che squarcia la tenebra e rivela il Tutto – e Cielo e Terra – oltre le cose singole, corrisponde il grido del
Terrae filius, già non più fiera ma non ancora uomo. Grido non
animale, perché non sorge da un impulso insoddisfatto, o da una
sensazione di benessere, non è urlo di dolore o di piacere; è il grido di terrore per lo spegnersi della luce e il tremare della Terra. Il
tuono è da quei bestioni, ora “empiamente pii”, “avvertito” come
la voce di Giove – di Giove tonante, che così inviava i suoi messaggi. All’istante del grido segue, nel ritmo del respiro, l’articolazione
vocale del “prima” e del “poi”, insieme eco dell’origine e sua negazione nell’orizzonte della coscienza. La radice della scrittura è in
questa articolazione della voce secondo il ritmo del respiro. E qui,
nel nesso voce-scrittura (nessuna priorità della voce sulla scrittura,
o della scrittura sulla voce28, le due sono geminae ortae, ché prima
Cfr. Phys, 223a 26.
«he psychè tà ónta pós esti pánta»: De Anima, III, 8, 431b 22.
27
Phys, 223a 27-28.
28
Cfr. J. Derrida, La voix et le phénomène, PUF, Paris 19763, trad. it. di F. Dalmasso, Introduzione di C. Sini, Jaca Book, Milano 1987. In ambito “vichiano” cfr. J.
Trabant La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, trad. it. di D. Di
Cesare, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 156; e V. Vitiello, Vico. Storia, linguaggio, natura,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, cap. III: «… quell’innata proprietà della
mente umana di dilettarsi dell’uniforme…», pp. 55-74.
25
26
60
LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
della voce-scrittura è solo il grido, l’inizio stesso della voce-scrittura) si conferma l’inscindibile legame, pur nella differenza dei gradi
d’esperienza, di tempo e spazio, spazio e tempo.
III. Tempo e rappresentazione. Gli strati del tempo
8. Dallo Zauberberg di Thomas Mann29:
È possibile narrare il tempo, il tempo stesso, come tale, in sé e per sé?
No davvero, sarebbe un’impresa folle! Un racconto che andasse avanti
sempre così: “Il tempo passò, trascorse, il tempo fluiva” – nessuno dotato di buon senso potrebbe chiamarlo racconto. Sarebbe come prolungare per un’ora intera, in modo forsennato, la medesima nota o il
medesimo accordo – e voler poi far passare questo per musica. Perché
il racconto somiglia alla musica in quanto “riempie” il tempo, lo “colma convenientemente”, lo “ripartisce”, e così “fa sorgere” qualcosa,
“libera, es-pone qualcosa” […]. Il tempo è l’elemento (das Element)
del racconto, come della vita – congiunta ad esso indissolubilmente,
come ai corpi nello spazio. Il tempo è anche l’elemento della musica,
la quale misura ed articola il tempo, e lo rende dilettevole e prezioso,
affine in questo, come si è detto, al racconto, che pur esso può attuarsi
solo come successione, come svolgimento, dacché, anche qualora tentasse d’esser tutto in ogni attimo, ha bisogno del tempo per mostrarsi
(diversamente in ciò dall’opera d’arte figurativa che ad un tratto è luminosamente presente ed è legata al tempo solo nell’esser corpo).
Tutto ciò è immediatamente evidente. Vi è però una differenza non
meno evidente. L’elemento temporale della musica è uno solo: una
sezione dell’umano tempo terreno, in cui essa si riversa, per nobilitarlo in modo ineffabile ed elevarlo. Il racconto ha invece due specie di
tempo: il proprio, anzitutto, il tempo musicale-reale (die musikalischreale Zeit), che condiziona il suo svolgimento ed il suo apparire; e in
secondo luogo il tempo del suo contenuto, che è prospettico, ed in tal
misura diverso, che il tempo immaginario del racconto come può quasi o anche completamente coincidere con il suo tempo musicale, così
può esserne sideralmente lontano. Un pezzo di musica intitolato “Valzer di cinque minuti” dura cinque minuti – in questo e in nient’altro
29
Fischer Verlag, Frankfurt/M. 1996 (I ed. 1924), pp. 741-743; trad. it. di E.
Pocar, Mondadori, Milano 1965, pp. 907-909.
Indice generale
Premessa .......................................................................................... p.
5
Sigle .................................................................................................. »
7
Fabula I: Il Castello ......................................................................... »
11
SEZIONE I: LA VITA, IL TEMPO, LA STORIA
1. Dal vivente all’uomo.................................................................... »
2. Genealogia del tempo e immagini della storia ........................... »
17
47
INTERMEZZO: Dalla Critica del sapere all’etica ................................ »
75
SEZIONE II: NEL VUOTO DELLA LIBERTÀ: TU NON UCCIDERAI
1. Della Libertà. Perché l’imperativo morale parla in seconda
persona......................................................................................... » 97
2. Lo tir’zach. La sacralità della vita nel mondo contemporaneo ..... » 113
Fabula II: Difficile felicità ............................................................... » 129
Indice degli Autori .......................................................................... » 141