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LEO CHANJEN CHEN*
Il cinema, il sogno, la vita
(I film di Hou Hsiao-Hsien)
(maggio-giugno 2006)
Considerato da molti il più grande regista asiatico vivente,
autore di numerosi film – una ventina fino a oggi – Hou
Hsiao-Hsien rimane uno dei personaggi più incompresi del
cinema internazionale. Le sue pellicole, pur essendo state più
volte premiate nei festival cinematografici – Nantes, Berlino,
Venezia e Cannes –, non hanno attirato subito l’attenzione
del pubblico e, a Taiwan, dove vive, sono stati accolti piuttosto freddamente e da critiche di vario tenore. I film che lo
hanno reso famoso sono più complessi ed ermetici di quelli
del suo coetaneo e non meno geniale Edward Yang. Eppure,
al contrario di Yang, o forse di qualsiasi altro regista di pari
fama, Hou ha prodotto per una decina d’anni film commerciali di basso livello, il che tuttavia non ha creato discontinuità nella sua carriera. I lunghi periodi trascorsi lontano da
casa hanno fatto di lui un autore più taiwanese di Yang – per
non parlare dell’hollywoodiano Ang Lee, regista buono per
* Assistente presso la cattedra di sociologia e letteratura comparata all’Università del Minnesota, si occupa di estetica, arti visive e cinema.
Al di fuori dell’attività accademica è autore di svariati film e del documentario Good Enough To Eat. Ha partecipato anche alla produzione
di alcuni lungometraggi, tra i quali A One and A Two.
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qualsiasi genere – e le sue opere possono essere apprezzate
solo se collocate nel loro contesto, cioè la società di Taiwan
dalla seconda guerra mondiale in poi.
Hou è nato nell’aprile del 1947 in una comunità hakka di
Guangdong, nella Cina continentale. Il padre, insegnante, si
trasferì a Taiwan in quell’anno, prima che iniziasse l’esodo di
milioni di persone in seguito alla sconfitta dell’esercito di
Chiang Kai-shek nella guerra civile. La famiglia si stabilì a
Sud nella cittadina di Fengshan, dove in breve tempo si inserì nella comunità più numerosa, originaria delle isole Fiji,
che parlava la lingua minnan. Ma la cultura di origine sarebbe rimasta una componente fondamentale nell’educazione di
Hou. Gli hakka sono un gruppo nomade che nei secoli è
emigrato dal nord del Fiume Giallo alle foci del Pearl a sud.
Il nome hakka significa «famiglia ospite», un termine che
ben riflette la condizione e l’orgoglio di questi perenni migranti, famosi per la tenacia e il fiero senso di indipendenza,
oltre che per la capacità di sopravvivere a ogni calamità e accettare ciò che la vita offre – tutte qualità che avrebbero esercitato una forte influenza su Hou. Cresciuto in abitazioni
provvisorie, arredate con mobili di fortuna, e fra i disperati
tentativi di sua nonna di tornare a piedi sulla terraferma nel
villaggio natale, Hou sapeva bene che la sua famiglia a
Taiwan era semplicemente «ospite». Ciò nonostante fosse
riuscito, durante l’adolescenza, a inserirsi nella cultura ibrida
che negli anni Cinquanta si era diffusa nell’isola.
Studente poco diligente, Hou ben presto scoprì nel cinema una irresistibile via di fuga dal soffocante provincialismo
della cittadina. Dopo aver trascorso molte ore nelle sale cinematografiche nei rari giorni liberi durante il servizio militare – continuazione obbligatoria della scuola superiore du198
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rante la dittatura di Ciang Kai-shek –, decise di tentare la carriera del cinema e frequentò per tre anni (1969-72) il National College of Arts, l’unica scuola di cinematografia di
Taiwan. Dopo un breve periodo come venditore di calcolatrici, trovò lavoro nell’industria cinematografica e cominciò
a salirne i gradini come tuttofare negli studi. Specializzatosi
in varie mansioni, alla fine approdò alla regia, economicamente più redditizia. La critica di solito trascura quel periodo della sua vita (1972-82), e Hou stesso ne ha parlato come
se non fosse stata quella di un lavoratore addetto alla produzione di film commerciali. Tuttavia si è trattato di un’esperienza di grande importanza per lo sviluppo di alcuni dei
tratti più personali della sua arte.
Sotto il governo di Ciang Kai-shek, si potevano fare solo
tre tipi di film: quelli di propaganda che esaltavano le tradizionali virtù morali; le epopee militari che evocavano la speranza di «riconquistare la patria», direttamente finanziate dal
regime; e i film di evasione, prodotti da società private, che
in genere avevano per soggetto le arti marziali o raccontavano storie romantiche, nelle quali gli eroi afflitti dalla pene
d’amore erano interpretati da attori molto popolari e la scenografia era molto semplice. A quell’epoca l’industria cinematografica locale cominciò a esportare in tutta l’Asia sudorientale i suoi prodotti, nonostante fossero di qualità scadente. Nel periodo di massima produzione si arrivò a circa
trecento pellicole all’anno. Il formato «Tre Sale», così chiamato perché in tutte le commedie l’azione si svolgeva in soggiorno, sala da pranzo e camera da letto, contribuì a far fiorire l’industria cinematografica, che raggiunse il culmine all’inizio degli anni Settanta. Ma le sue basi erano sempre state molto fragili, perché la censura del governo di Taiwan e
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l’incertezza politica – il regime continuava a dichiarare che
stava per tornare sulla terraferma – scoraggiavano gli investimenti a lungo termine del settore privato, lasciando il campo
libero a speculatori attratti dai facili guadagni, che finirono
col ridurre la produzione ai minimi termini. Quando il pubblico reagì abbandonando le sale, i produttori più indipendenti investirono nell’industria di Hong Kong, mentre le società locali cercarono di ridurre sempre di più le spese. Dopo il crollo della produzione interna e la conquista di una
grossa fetta del mercato da parte dei film girati in America e
a Hong Kong – e in seguito anche dei serial televisivi coreani –, nel 1989 lo Stato iniziò a concedere sovvenzioni, nel
tentativo di porre rimedio alla crisi interna. Ma ormai era
troppo tardi. Negli anni Novanta l’intera industria cinematografica praticamente non esisteva più, eccezion fatta per
qualche raro titolo. Gli unici film prodotti oggi a Taiwan sono quelli che possono contare sul denaro facile delle sovvenzioni oppure su finanziamenti esteri concessi a qualche privilegiato.
I primi tre film di Hou (1980-82), tutti proiettati durante
le vacanze di Capodanno, sono stati girati all’epoca in cui i
parametri sui quali si basava la produzione cinematografica
erano due: la presenza di una star e la diffusione di canzoni
popolari. Alcuni pregevoli tratti del suo stile più maturo hanno origine proprio da quella forma di cinema commerciale.
La recitazione del tutto insoddisfacente dei divi e degli attori, poco preparati e incapaci di recitare con naturalezza, hanno indotto il regista a prestare attenzione ai particolari quotidiani e agli elementi secondari dell’azione. La cinepresa si
allontanava così dal centro della scena per cercare altrove degli elementi che risvegliassero un interesse emotivo. Per le
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stesse ragioni, durante le riprese Hou ha preso l’abitudine di
improvvisare, a volte ignorando del tutto la sceneggiatura e
le prove. Prima di girare, si limitava a dare agli attori sommarie indicazioni sulla situazione o sullo stato d’animo e lasciava che si muovessero spontaneamente, come se la cinepresa fosse invisibile. Ignorando il paradosso di Diderot, se
la trama lo richiedeva gli attori di Hou dovevano spesso
ubriacarsi sul serio. I campi lunghi e le riprese da lontano,
che sarebbero diventati la caratteristica dei suoi film, nascono anche dai problemi che incontrò nel periodo della produzione commerciale. Per evitare di mettere a disagio gli attori poco esperti e impacciati davanti alla cinepresa, Hou la
sistemava lontano tenendola in funzione finché gli attori non
erano «entrati nel personaggio» – un metodo in contrasto
con quello usato nei film di allora durante i quali le riprese
venivano continuamente interrotte con il risultato che la recitazione finiva con l’essere spezzettata e appiattita.
A quel tempo, Taiwan era teatro di profonde trasformazioni culturali. Negli anni Settanta nacque l’influente scuola
letteraria Terra Natia, che proponeva di usare il dialetto locale minnan anziché il mandarino della Cina continentale
imposto dal regime di Chiang Kai-shek. I suoi seguaci ritraevano nelle loro opere gente comune che viveva in ristrettezze ai margini di una società dominata dalla cultura ufficiale.
Le opere degli scrittori della Terra Natia influenzarono i sentimenti di un’intera generazione ed ebbero un effetto politico duraturo risvegliando nei taiwanesi il rispetto per la loro
cultura e incoraggiandoli a rifiutare l’ideologia del regime
che propugnava il «ricongiungimento con la patria». Nonostante le tante difficoltà – gli argomenti e la scelta dei personaggi alla fine si erano rivelati un limite –, il movimento con201
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tribuì in modo rilevante alla nascita della democrazia a
Taiwan. Hou ne ha raccolto il messaggio con un pizzico di
sale: un film comico di cui fu aiuto regista, Battle Between the
Sexes (1978), prende in giro gli scrittori esageratamente «indigeni» che – essendo incapaci di trovare gli ideogrammi per
riprodurre il suono corretto delle espressioni colloquiali
taiwanesi – si inventavano improbabili parole onomatopeiche con effetti spesso divertenti. Senza tener conto di questi
antefatti, non è possibile capire perché nel 1983 Hou abbia
fatto una diversa scelta culturale.
In quel periodo anche le istituzioni ufficiali stavano adattandosi alla nuova realtà. Il riconoscimento americano della
Repubblica popolare cinese nel 1979 minacciava di isolare
sul piano internazionale il regime di Taiwan che per allontanare la minaccia prese, fra le altre misure, quella di liberalizzare la sua politica cinematografica. Nel 1980 fu nominato
capo della Central Motion Picture Corporation gestita dallo
Stato Ming Ji, uomo di notevoli capacità, che decise di scritturare nuovi talenti. Uno di questi fu Wu Nien-jen, un giovane scrittore appartenente alla scuola letteraria Terra Natia,
che iniziò subito a collaborare con Yang e Hou. A lanciare il
nuovo cinema taiwanese furono soprattutto i loro contributi
a un paio di film a episodi prodotti dalla CMPC, quello girato da Yang per In Our Times (1982) e quello di Hou per The
Sandwichman (1983), ciascuno dei quali doveva qualcosa al
naturalismo letterario locale. Dopo un lungo periodo di ibernazione sotto il terrore bianco del regime di Chiang Kaishek, l’ambiente culturale di Taiwan assomigliava a un giardino in procinto di fiorire, di svegliarsi e rianimarsi accogliendo ogni genere di idee e influenze, molte delle quali provenienti dall’estero. E fu proprio dalla fecondazione incro202
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ciata di questi elementi che all’improvviso sbocciò il Nuovo
Cinema taiwanese. Chi aveva frequentato le scuole di cinematografia negli Stati Uniti tornava in patria, desideroso di
far parlare di sé. Le nuove riviste di teatro e cinema, come la
«Ju Chang» (Teatro) e la «Ying Xiang» (Influenza) pubblicarono una valanga di articoli teorici tradotti. L’arrivo dei sistemi di videoregistrazione VHS e Betamax diede la possibilità di vedere film d’arte giapponesi ed europei e di produttori indipendenti. La prospettiva di creare un nuovo tipo di
cinema diffuse tra i novelli Truffaut e Godard un sentimento
di eccitazione e cameratismo. In questo gruppo di giovani
entusiasti ma inesperti, Hou era un’anomalia. Aveva sentito a
malapena parlare dei registi francesi, e la sua conoscenza dei
film stranieri si limitava ai classici americani e ad alcune produzioni giapponesi. D’altra parte, al contrario dei suoi nuovi
amici che non avevano mai girato alcun film, lui era un veterano con tre pellicole di successo e un decennio di esperienza nell’industria cinematografica. All’inizio non era affatto sicuro che la strada del film d’arte fosse adatta a lui.
Gli scritti di Chu
A quel punto, però, Hou conobbe la scrittrice Chu Tienwen, appartenente all’ala opposta della scuola Terra Natia,
che ebbe un ruolo determinante nel fargli trovare la forma
espressiva congeniale. Il padre di Chu Tien-wen era ufficiale
dell’esercito di Chiang Kai-shek, autore di romanzi e originario della Cina continentale, mentre la madre, anche lei
scrittrice e traduttrice, apparteneva a un’importante famiglia
hakka locale.1 Figlia precoce di una famiglia di letterati, Chu
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trascorse i suoi primi quattordici anni in un «villaggio di veterani» (juan cun) creato dal regime per il personale militare,
e fu proprio durante l’adolescenza che rimase affascinata dalla scrittrice Zhang Ailing (Eileen Chang), il fenomeno letterario di Shangai degli anni Quaranta. Il suo stile magico e delicato e gli audaci paradossi avrebbero suscitato ammirazione, imitazione e discussioni superiori a qualsiasi altro scrittore cinese della sua epoca. Non meno formativo per Chu fu
l’incontro casuale col primo marito di Zhang, probabilmente l’unico uomo da lei veramente amato. Ricercato dal regime per aver collaborato con i giapponesi a Shangai, Hu era
fuggito a Tokyo alla fine della guerra. Negli anni Settanta,
dopo un lungo periodo trascorso in Giappone, ritornò a
Taiwan, dove tenne un ciclo di conferenze in cui esaltava la
cultura Zhong Yuan – una costruzione immaginaria basata
sulla cultura tradizionale Han originaria delle pianure della
Cina centrale, idealizzata e diffusa dai sedicenti intellettuali e
da Chiang Kai-shek.
Affascinata dagli insegnamenti di Hu, Chu Tien-wen divenne per una stagione una fervente neonazionalista, che auspicava il ritorno a elevati principi morali e il rafforzamento
delle regole Zhong Yuan. Insieme alla sorella più giovane e
ad altri amici fondò la rivista «Sansan», con l’intento di salvare la cultura cinese, in uno spirito sia di nuovo sia di vecchio confucianesimo.2 L’impresa non poteva sopravvivere solo con gli slogan, e ben presto il gruppo cedette alle esigenze
di un’esistenza più mondana. Ma quell’esperienza lasciò un
segno duraturo sull’evoluzione letteraria di Chu. In seguito,
ricordando il «Maestro Lan» (Hu) con affetto, Chu avrebbe
considerato il periodo della rivista «Sansan» come un punto
fermo per la sua collaborazione con Hou. Infatti ciò che l’in204
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contro con Zhang e Hu, così diversi fra loro, le aveva dato
era una combinazione insolita: da una parte una narrativa
grandiosa colma di storia e dall’altra la delicata sensibilità
delle emozioni quotidiane.
Il contributo di Chu ai film di Hou consistette soprattutto
nell’aggiungere un «tocco» femminile alla scrittura che controbilanciava la cultura maschilista del regista. Ma vi contribuì
anche con qualcos’altro, che aveva appreso da Zhang Ailing:
un particolare sentimento quasi sempre presente senza diventare mai predominante. L’espressione cang liang, che in cinese può significare verde pallido, grigio, aspro, invecchiato,
freddo, effimero, sbiadito, è una parola chiave nel linguaggio
di Zhang e di solito viene tradotta come «triste». Negli scritti
di Chu, dove passato e presente sono spesso collocati in un
vuoto comune, la tristezza si trasforma spesso nel sentimento
di un tempo estraniato che sottrae ai personaggi ogni ancora
di salvezza. Nei film di Hou questo sentimento si inserisce peraltro in un contesto storico. La loro collaborazione fu molto
stretta. In genere l’idea iniziale del film partiva da Hou, che ne
discuteva a lungo con Chu finché non trovavano un punto fermo. Dopo alcune riunioni durante le quali elaboravano l’idea
di massima, Chu non scriveva una sceneggiatura completa, ma
solo una serie di scene sufficienti a fornire, soprattutto ai tecnici e gli attori, indicazioni generali sugli stati d’animo. Scrittrice esperta, amava scherzare sul suo lavoro di segretaria e
scrivana di Hou. In realtà il loro fu un rapporto alla pari, dai
quali entrambi trassero giovamento. Dopo aver lavorato con
Hou, i romanzi di Chu assunsero una connotazione più cinematografica, mentre dopo aver lavorato con Chu, i film di
Hou ne assunsero una più narrativa.
Fu proprio Chu che segnalò a Hou un testo che nel turbi205
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ne di idee e proposte del Nuovo Cinema fu considerato in seguito una pietra miliare, e si rivelò di vitale importanza per la
scoperta della sua forma artistica. Leggendo l’Autobiografia
di Shen Congwen scritta negli anni Trenta, Hou scoprì la strategia che gli serviva per i suoi film.3 «Via via che imparavo tutti quei fatti e quelle nuove teorie sul cinema, ho dovuto dimenticare tutto ciò che avevo appreso girando film commerciali. Non sapevo cosa fare di tutte quelle informazioni – non
riuscivo a integrarle.»4 Hou però riuscì a prendere dal mucchio ciò che gli serviva. Prima di girare il suo primo film importante, aveva osservato come Godard riprendeva le scene
in Fino all’ultimo respiro. Tuttavia la vera rivelazione non gli
venne da un film europeo, ma da uno cinese. «Ciò che mi ha
colpito», diceva Hou a proposito dell’opera di Shen, «è la distanza che ha posto tra gli avvenimenti, analizzati con estrema
attenzione, e la sua prospettiva, così partecipe, così ampia e al
contempo così distaccata.» Hou fu assalito dal ricordo della
sua adolescenza, quando stava appollaiato sulle cime degli alberi. «Così ho adottato quel punto di vista e cerco di mantenere le distanze, di stare lontano, di essere più distaccato.»5
Le radici del suo stile come regista sono in quella scelta di
«distacco appassionato»: osservare i personaggi con occhio
critico nutrendo per loro la più profonda comprensione.
Il primo ciclo
Nel 1983 Hou fondò una sua società di produzione e girò
Boys from Fengkei, il film che definì il suo stile personale e segnò la sua nascita come autore cosciente del proprio valore.
A quel punto, diede addio al cinema commerciale e, grazie ai
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profitti che la sua società otteneva producendo commedie
leggere, si assicurò l’indipendenza necessaria per i suoi esperimenti artistici. Oggi Hou è l’unico proprietario della 3H
Film, la società da lui creata successivamente per produrre lavori di buona qualità. Dopo un decollo alquanto incerto Hou
girò, con un budget limitato, Boys from Fengkei che ebbe un
grande successo a Taiwan e vinse il premio come miglior film
straniero al festival di Nantes. Frutto di un equilibrio quasi
miracoloso fra creatività conscia e inconscia, il film che lo ha
reso famoso è rimasto fino a oggi la sua opera preferita.
Hou aveva anche trovato la forma stilistica che gli consentì di realizzare una trilogia che rasenta la perfezione: A
Summer at Grandpa’s (1984), A Time to Live and a Time to
Die (1985) e Dust in the Wind (1986). Il tema di tutti e tre i
film è il passaggio dall’infanzia all’età adulta e, pur essendo
ciascuno un’opera a sé, è preferibile analizzarli insieme.6 Fra
gli elementi che li accomunano ci sono un giovane che lo
spettatore non vede mai crescere, il tema del servizio militare che cade come una ghigliottina sui protagonisti, interrompendo il racconto della loro evoluzione, e un’atmosfera di
entusiasmo, cameratismo, senso dell’avventura, innocenza e
goffaggine rappresentata con grande intensità. Se le opere di
Hou si differenziano dalle altre dello stesso genere, ciò è dovuto al modo in cui egli descrive i rapporti fra i sessi e le generazioni. I giovani protagonisti dei suoi film desiderano
profondamente le loro ragazze, ma anche quando l’attrazione è reciproca, il contatto fisico è del tutto assente – neppure un solo timido abbraccio –, così come è assente l’appagamento sentimentale. Nei suoi film, austeri e discreti, ma mai
melodrammatici, Hou delinea sempre una situazione di frustrazione e delusione.
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Un aspetto ancor più singolare è l’influenza dei vecchi
sulla vita dei giovani. La porta che conduce alla morte è costantemente socchiusa, e il destino dei genitori scandisce la
vita dei figli. In Boys from Fengkei il padre del protagonista
è un invalido cerebroleso, il cui stato tormenta il figlio – che
compare nell’atto di scrivere una lettera dove annuncia la sua
morte. In Summer at Grandpa’s una madre affetta da una pericolosa malattia costringe i figli ad allontanarsi e ad andare
in campagna. Il punto importante sotto il profilo strutturale
ed emotivo di A Time to Live and a Time to Die è la morte
del padre, della madre e – nel finale amaro e pervaso di sensi di colpa – della nonna. In Dust in the Wind il figlio perde
i sensi quando ricorda l’incidente di cui il padre è stato vittima in miniera. Nei suoi film, Hou non dimentica mai di palesare il suo rispetto per gli anziani, di cui sottolinea più volte la generosità morale in contrasto con l’egoismo e l’egocentrismo dei giovani. Al centro del suo mondo fantastico ci
sono i giovani con le loro delusioni e insicurezze alle quali il
regista affianca la condizione più tragica dei vecchi. La tensione tra giovani e vecchi raggiunge l’apice in A Time to Live and a Time to Die, nel quale Hou descrive la propria infanzia, contrapponendo la pura vitalità fisica dei giovani, pur
disorientata o violenta – giocare, correre, lottare, desiderare
– ai movimenti rallentati, alla decadenza e infine all’agonia
dei vecchi, che muoiono di malattia o per l’eccessivo carico
di anni.
I film sono ambientati in piccole centri di campagna e fra
le modeste mura domestiche di insegnanti, funzionari statali
e operai. Quando la scena si sposta in una grande città, la cinepresa non riprende un ufficio moderno o un grattacielo,
bensì le bancarelle nelle strade, i piccoli laboratori o al mas208
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simo una fabbrica. Intorno alla metà degli anni Ottanta a
Taiwan esistevano già dei complessi industriali moderni, una
classe media benestante e una vivace vita metropolitana, tutte realtà quasi completamente ignorate nella provincia ancora arretrata. Nel suo primo film, Hou racconta le avventure
di personaggi che non vivono a Taiwan, ma provengono dalle isole Pescadores, a un’ottantina di chilometri dalla costa,
nello stretto di Formosa. Il viaggio di quei personaggi che
raggiungono il porto di Kaohsiung da un luogo tanto lontano costituisce la trama di The Boys from Fengkei. Protagonista del film è un gruppo di ragazzi che sprecano il tempo in
liti banali o in inutili avances verso l’altro sesso finché non
decidono di partire per la città, dove abiteranno in casa di un
amico. I ragazzi vengono imbrogliati da un giovane vagabondo, lavorano come venditori ambulanti o in fabbrica,
mentre il protagonista, prima di essere richiamato alle armi,
si innamora senza speranza della ragazza di un vicino. Il film
è l’esatto contrario di un Bildungsroman. Non c’è nessun rito di passaggio, non viene insegnata o appresa nessuna lezione di vita. Il flusso irregolare e in continuo movimento dei
fatti e delle scene ricorda piuttosto un racconto picaresco.
Stili
In Fengkei molti tratti caratteristici dello stile di Hou sono già
evidenti: campi lunghi, sfumati cambi di scena, paesaggi improvvisi e immobili. Su tutto spiccano due sequenze straordinarie, totalmente opposte. Sulle spiagge dell’isola dove sorge
la casa, quattro ragazzi sono inquadrati in campo medio mentre giocano alla morra cinese. Poi, la cinepresa si avvicina e si
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concentra su due di loro che si azzuffano sulla riva mentre
un’onda sta per travolgerli. Quindi si allontana di nuovo e riprende i quattro ragazzi che ballano pavoneggiandosi contro
lo sfondo dell’oceano. Nell’inquadratura successiva il quartetto è ripreso in campo lungo, in primo piano ci sono due
porte: evidentemente ora la macchina da presa si trova all’interno di una cucina. Fino a questo momento il regista non ha
dato nessuna indicazione sul perché quei giovani scamiciati
saltellino così allegramente. Una nuova inquadratura ci fornisce la risposta, mostrandoci una ragazza che da un interno
guarda la scena senza parlare, eccitata e divertita. Non appena il pubblico capisce lo scopo di quell’esibizione del corpo
maschile – un interessante capovolgimento dell’esibizione del
corpo femminile –, la sequenza si chiude con un campo lungo preso in diagonale, quasi da un punto sull’oceano. La ragazza scompare di nuovo mentre i ragazzi, ripresi di profilo,
continuano a saltellare e mettersi in mostra davanti alla casa,
e il rimpicciolimento delle loro figure conferisce all’esibizione
una sfumatura di pathos. Il registro cambia con una scena
straordinaria nella quale i tre buontemponi vengono turlupinati e convinti a comprare i biglietti per un «film europeo a
colori su grande schermo». Sicuri di vedere un film pornografico, salgono gli undici piani di un edificio ancora in costruzione solo per ritrovarsi su uno squallido pavimento di cemento a fissare fra le pareti nude il panorama mozzafiato della città sottostante. Mentre guardano ammirati e delusi, lo
sconforto si trasforma nel suo opposto – lo scherzo è così incredibilmente verosimile da diventare una specie di epifania
surreale, edificante anziché avvilente.
Il successivo A Summer at Grandpa’s si distacca un po’ dai
primi lavori di Hou. Basato sui ricordi d’infanzia di Chu Tien
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piuttosto che su quelli del regista, racconta la vacanza che
due bambini di città, fratello e sorella, trascorrono con i nonni in una piccola comunità hakka di campagna.7 La famiglia,
su cui domina il padre medico, è piuttosto numerosa e vive
in una bella casa d’epoca in stile giapponese. I personaggi sono uno zio scapestrato, invischiato con una ragazza del posto, i suoi amici teppisti, alcuni contadini vagabondi e la pazza del villaggio. I fatti sono visti attraverso gli occhi dei bambini, e sebbene il ragazzo sia la voce narrante, è la sorella più
giovane – che la pazza salva per finire poi quasi uccisa da lei
– ad avere l’ultima affettuosa parola. L’atmosfera rispetto alle
altre opere di Hou è più leggera e divertente, e a volte ricorda quella dei primi quadri di Renoir. A Summer at Grandpa’s
è anche il suo film più lirico, quello in cui ha cominciato a
sviluppare con maggiore libertà il suo caratteristico stile cinematografico, fatto di improvvise vedute del cielo o della
terra, di tetti o campi di riso ripresi in fermo immagine e staccati dall’azione. In altre sequenze, quando l’azione si fa più
rapida, ha usato una cinepresa più mobile rispetto ai film
successivi, con panoramiche oblique e inquadrature dall’alto
di alberi o balconi. Quella che è rimasta intatta è la tranquilla bellezza delle sue riprese prive di movimento.
Ricordi
Se Fengkei è un racconto picaresco e Summer un idillio, A Time to Live and a Time to Die è un’opera complessivamente
più cupa.8 All’inizio si sente la voce fuori campo di Hou che
dice di aver fatto un film autobiografico e si vede il padre seduto davanti a uno scrittoio vicino a una porta aperta. La vo211
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ce fuori campo continua spiegando che l’uomo è arrivato a
Taiwan da Guangdong nel 1947 ed è stato poi raggiunto dalla famiglia, con la quale è rimasto bloccato sull’isola dopo la
vittoria dei comunisti sulla terraferma. La narrazione fin dalle prime inquadrature viene cosi immersa nella storia. Non
molto dopo compaiono dei soldati a cavallo, e la radio a tutto volume annuncia la notizia di combattimenti aerei sopra
gli Stretti. La lettera di alcuni parenti descrive le sofferenze
di un figlio lasciato sulla terraferma, con gran dolore della
madre di Hou. L’inquadratura successiva mostra i bambini
che, dopo aver bagnato dei francobolli, li staccano da una
busta e li attaccano al vetro di una finestra: l’acqua che cola
sul vetro è il simbolo della tragedia familiare e i francobolli,
emanando un’ignota tristezza sullo sfondo di vetro opaco,
sembrano spargere lacrime irrefrenabili.
Suddiviso in due parti, il film descrive nella prima l’infanzia di Hou fino alla morte del padre, il cui apparente distacco dai figli – come molto più tardi spiegherà la madre –
è dovuto al timore di contagiarli con la tubercolosi di cui soffre e che ha tenuto nascosta. La seconda parte racconta la
storia di un adolescente disadattato afflitto dalle pene della
crescita, mentre la sorella è costretta a rinunciare alla carriera, la madre è colpita da una malattia incurabile e la nonna –
cui il ragazzo è molto legato – muore in completo abbandono poco dopo. La storia è essenzialmente una biografia familiare. Raramente Hou spinge la cinepresa fuori della casa
o della scuola, o si allontana dai vialetti esterni. Non ci sono
panorami naturali o inquadrature di ambienti più vasti. L’attenzione è tutta concentrata sull’evoluzione di Hou stesso,
senza quasi nessuna traccia di compiacimento o narcisismo,
e la sceneggiatura scritta a quattro mani garantisce l’equili212
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brio fra la voce maschile e quella femminile. Quando Hou
viene ammesso alla scuola superiore locale, si sente la voce
della sorella che, parlando a se stessa, si lamenta di non poter continuare gli studi, nonostante abbia superato il selettivo esame d’ammissione alla migliore scuola femminile di
Taiwan. Quando il padre muore, la madre è distrutta dal dolore. In seguito, riflettendo sul passato, la donna parla alla figlia delle difficoltà che ha dovuto affrontare nella vita matrimoniale, e le rivela di non aver potuto sposare l’uomo che
amava e di aver scoperto troppo tardi la malattia del marito.
«La salute è l’unica cosa importante», dice tristemente, ignorando che la perderà molto presto. Questo episodio costituisce il passaggio alla fase successiva dell’adolescenza ribelle di
Hou, ormai colmo di testosterone.
La seconda parte del film si apre con Hou adolescente appollaiato su un albero, che sputa la polpa della canna da zucchero e guarda gli altri in un piccolo spiazzo davanti a un
tempio. Ben presto capiamo che Hou è diventato un liumang
– un piccolo teppista – abituato a fare il prepotente con i
compagni di classe e i ragazzi del paese. A Time to Live ci mostra il processo di formazione di un liumang mentre Hou, stupidamente, si scaglia contro l’autorità. In una scena girata
nella sala da biliardo (il suo luogo preferito durante la giovinezza), Hou provoca i veterani lanciando le palle sul biliardo
e continuando a giocare mentre la radio trasmette la notizia
della morte del vicepresidente del partito di Chiang Kai-shek.
Come altri adolescenti, trascorre la pubertà fra momenti di
imbarazzo (si lava le mutande dopo un’eiaculazione involontaria), riti di passaggio (perde la verginità con una prostituta), e sfogando l’eccesso di energia in operazioni pericolosi
(affila un machete per prepararsi alle innumerevoli zuffe tra
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bande). Vagabondare e comportarsi come un semidelinquente sono cose normali per un adolescente in quelle circostanze. L’esperienza di Hou non è presentata sotto una luce
romantica, ma è punteggiata da tre sguardi indimenticabili,
scolpiti nella sua memoria: lo sguardo incredulo della madre
malata di cancro alla notizia che il figlio ha perso al gioco i
soldi della drogheria di famiglia, l’occhiata stupita del fratello maggiore quando Hou crolla al funerale della madre, e lo
sguardo accusatorio dell’impresario di pompe funebri quando scopre il cadavere in decomposizione della nonna. Il film
termina con la mancata ammissione all’università e con un
rumore sordo che annuncia il servizio militare.
Meno c’è, meglio è
Un anno dopo, Hou gira Dust in the Wind, un film ancora
diverso, simile a un’elegia. Più pacato e malinconico dei precedenti, privo delle loro esplosioni di esuberanza, è basato su
un episodio della giovinezza dell’attore Wu Nien-jen, ed è il
primo film quasi interamente ambientato nel Nord dell’isola,
con alcuni episodi che si svolgono a Taipei. La storia è semplice. Ah-wan e Ah-yun, due giovani che si amano dall’infanzia, lasciano il villaggio minerario dove sono nati. Il ragazzo, Ah-wan, ha deciso infatti di non iscriversi all’università e di cercare lavoro a Taipei – contro il parere del padre,
un minatore rimasto vittima di un incidente, che con tono
duro lo mette in guardia: «Una mucca troverà sempre un carro da tirare». Nella capitale Ah-wan trova lavoro come fattorino, ma quando gli rubano lo scooter preso in prestito e rimane senza soldi torna a casa, lasciando Ah-yun al suo lavo214
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ro di sarta. Ah-wan viene richiamato per fare il servizio militare ed è mandato a Quemoy.9 Dopo due anni in quel desolato avamposto, viene a sapere che la ragazza ha sposato un
postino. Congedato, senza futuro né speranza, ritorna a casa,
dove trova la madre addormentata e il nonno che parla da
solo in giardino.
In Dust in the Wind l’eroe è sostanzialmente passivo, quasi apatico; la sua ragazza sottomessa e riservata. Entrambi
sembrano incapaci di imprimere un indirizzo alla loro vita,
proprio come già il titolo lascia intendere. Ma il consueto racconto di anime innocenti provenienti dalla campagna che si
perdono nella grande città viene smontato con grande sottigliezza. Infatti in città la coppia trova un rifugio accogliente
nello studio di un pittore, ed entrambi i datori di lavoro trattano il ragazzo con benevolenza invitandolo a tornare se non
trova un altro posto. È nel villaggio che imperversano brutalità e sfruttamento, e i proprietari della miniera puniscono gli
scioperanti. Il vento che separa i due innamorati è la tempesta che sconvolge il mondo: è la prigione del servizio militare
obbligatorio nella più assurda guarnigione della guerra fredda, un puntino desolato al largo della regione di Fujian. Il film
comunica tutto questo con una straordinaria economia di
mezzi. Hou definiva il suo metodo narrativo una «corda inzuppata di olio» che trasmette emozioni e sviluppa la storia fino alla sua saturazione, in modo che qualche brandello sparso qua e là sia sufficiente per dare un’idea del tutto.
L’episodio dell’abbandono offre un perfetto esempio di
questa tecnica. Raramente il principio secondo cui «meno c’è
meglio è», ovvero il principio della forza dell’eliminazione, è
stato utilizzato in modo tanto efficace. La sequenza inizia
con una voce fuori campo che legge una lettera con la quale
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il fratello minore informa Ah-wan del matrimonio della ragazza. Ah-wan rimane sdraiato sulla branda nella camerata
senza lasciar trasparire nessuna emozione. Lo sfasamento tra
messaggio e immagine prosegue, mentre la voce racconta
che, in occasione della sua prima visita dopo l’inatteso matrimonio, la madre ha donato ad Ah-yun l’anello che conservava da anni per la futura nuora, e che la ragazza è scoppiata in un pianto dirotto. A questo punto il racconto s’interrompe, e la cinepresa si sposta verso il tetto della casa che si
staglia sullo sfondo del cielo azzurro. Per un momento il silenzio è assoluto e lo spettatore vede tre riprese statiche: la
prima, un campo medio del nonno e della famiglia sui gradini di casa, che assistono imbarazzati all’arrivo di Ah-yun; poi
un campo americano di entrambe le madri, ancora arrabbiate e incredule, infine un terzo campo medio, della sposa e del
marito, in una paralisi di imbarazzo apologetico.
Hou usa solo queste quattro inquadrature statiche – in
una delle quali non è presente nessuna figura umana – per
descrivere la reazione traumatica a un matrimonio che non si
sarebbe dovuto fare. I sentimenti repressi e il mutismo conseguente allo shock sottolineano l’atto di generosità e di fede, atto solo narrato, della madre di Ah-wan che dona l’anello ad Ah-yun per rispettare una tacita promessa, che ora
può essere mantenuta solo unilateralmente. La sofferenza,
l’incredulità, il rimpianto e la riluttanza dipinti sui volti delle persone coinvolte – la ragazza, il marito e le due madri –
sono strazianti. Tornato alla sua branda, Ah-wan alla fine
perde il controllo e si mette a piangere. La sequenza termina
con una lunga panoramica (un minuto e mezzo) della desolata boscaglia di Quemoy all’imbrunire, al ritmo ipnotico di
una chitarra.10 Le 1096 buste affrancate che Ah-yun ha pre216
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parato nei tre anni che Ah-wan ha passato nell’esercito finiscono sul suo banco da lavoro. Le emozioni, secondo Hou,
si esprimono meglio in modo indiretto, tenendo lo sguardo
lontano da ciò che le provoca, come accade nel vuoto intenzionale (liu bai) della pittura cinese.
Secondo questa estetica, al mutismo dei personaggi di Dust corrisponde un ruolo più importante del paesaggio. A fungere da «correlativo oggettivo» del futuro viaggio della vita è
la famosa sequenza iniziale, presa da un trenino che nella
completa oscurità si dirige verso la minuscola apertura verde
alla fine della galleria e sbocca in una valle lussureggiante alla luce accecante del sole per poi ripiombare nel buio, mentre l’unico rumore che si sente è quello delle ruote sui binari.
In tutto il film compaiono ponti, segnali ferroviari e colline
che formano una serie di quadri luminosi e inquietanti. Alla
fine, quando Ah-wan si rannicchia a terra senza parlare, mentre il nonno gli dice che in quell’anno molti tifoni hanno danneggiato le coltivazioni delle patate dolci sulle colline – «il
raccolto non sarà buono» –, la cinepresa fa un giro di centottanta gradi in direzione del mare sotto di loro. Nell’ultima immagine si vedono le verdi pendici delle montagne, l’acqua del
mare di un blu intenso, una striscia di cielo azzurro e poi, a
comprimere l’intera inquadratura, una nuvola densa e plumbea, immobile nell’aria, che incombe sulla scena.
Gente alla deriva
Dust in the Wind conclude il primo ciclo del cinema di Hou.
L’anno successivo il regista sceglie come ambientazione del
suo nuovo film la grande città, mettendo per la prima volta al
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centro della storia un personaggio femminile e descrivendo la
condizione dei figli dei soldati veterani che provengono dalla
terraferma.11 In Daughter of the Nile (1987), dove ritrae una famiglia juan cun disastrata – padre assente, fratello criminale,
eroina sognatrice che cerca l’evasione nel modo fantastico dei
fumetti e dell’antico Egitto –, Hou voleva descrivere le difficoltà, i piaceri e la mancanza di ideali della gioventù urbana,
ma non c’è riuscito. Opera ampollosa e incoerente, più letteraria che cinematografica, non contiene nessun accenno a
quello che sarebbe accaduto: nello stesso anno Chiang Chingkuo – dittatore dell’isola dal 1973 – revocò la legge marziale in
vigore dal 1947. Grazie all’atmosfera più libera, anche se la
censura rimaneva vigile, e in un primo momento non era affatto chiaro quali fossero i limiti invalicabili, era ormai possibile trattare argomenti in precedenza tabù.
Storicamente, il soggetto proibito per eccellenza era il crimine che aveva consentito a Chiang Kai-shek di prendere il
potere a Taiwan e di imporre la legge marziale nel 1947: e
cioè il massacro commesso dall’esercito cinese dopo che in
tutta l’isola si era diffusa, contro quel regime di politicanti,
un’insurrezione scatenata dal brutale trattamento inferto il
28 febbraio 1947 a una vecchia venditrice di sigarette – sempre citato come l’incidente del 28/2. Data la nuova situazione Hou, che lavorava a stretto contatto con Chu e Wu, decise di fare un film su quei fatti taciuti.
Prima di prendere quell’importante decisione, Hou aveva cominciato a lavorare su un altro soggetto che gli stava a
cuore da molto tempo, la saga di una famiglia mafiosa. Alla
fine degli anni Novanta, rivisitando i luoghi dove Olivier Assayas aveva girato il documentario HHH, Hou si era ricordato della strada pericolosa che aveva rischiato di prendere.
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Davanti a un tempio dove da giovane teppista aveva bruciato alcuni anni della sua vita, si era domandato quale sarebbe
stato il suo futuro se, invece di scegliere il cinema o di esserne scelto, avesse continuato la sua carriera di teppistello locale. Ciò nonostante sentiva di avere ancora dei legami con il
mondo dei liumang. Per capirne la ragione, è utile analizzare
l’etimologia della parola. Mentre liu significa semplicemente
«galleggiante», il suffisso mang allude a un popolo senza nome e collocazione, privo di rango o di senso di appartenenza
alla società, che compare già nelle Odi (III secolo a.C.). Il significato attuale di liumang, d’altra parte, evoca una mafia
segreta che estorce denaro alla comunità locale in nome di
un ipocrita moralismo. Caratteristica di questa sottocultura,
che si è sviluppata proprio nei periodi di debolezza del governo centrale o di cambio di potere, è l’arrogante dichiarazione che il padrino mafioso ha rilasciato alla polizia nel film
che in seguito Hou avrebbe girato:
Sì, io e mio figlio siamo entrambi liumang. Perché siamo diventati liumang? Per il bene dell’intero quartiere. I giapponesi dicevano che ero un liumang? Io, un liumang? Cercavo solo di
aiutare il quartiere, rendendo piccoli i grandi problemi, e poi risolvendoli. Non ho mai preso niente da nessuno. Nemmeno un
filo d’erba. Ecco perché tutte le bande locali mi appoggiavano.
Il 28 Febbraio
Circa nello stesso periodo, Hou accarezzò l’idea di girare un
film sull’arrivo a Taiwan, dopo la guerra, di un giornalista di
Hong Kong. Da quei due progetti è nato il capolavoro rea219
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lizzato in seguito. Una volta presa la decisione di fare un film
politico sul 28 febbraio, un momento cruciale nella storia recente di Taiwan, Hou e i suoi collaboratori iniziarono a fare
ricerche – nel suo caso si trattò di un vero e proprio lavoro
da autodidatta – immergendosi nello studio di documenti, ricordi e interviste su quel periodo. Il risultato è un film diverso da tutti gli altri, passati e futuri. Città dolente (1989) ha
una trama molto più complicata degli altri lavori, nella quale si muovono numerosi personaggi. Hou avrebbe detto in
seguito che il film è «troppo diretto e ovvio», ma di primo acchito gli spettatori rimasero sconcertati dai lati oscuri dei
personaggi, dalla rapidità improvvisa con cui si passa da una
scena all’altra, e dall’ambiguità dei rapporti fra gli avvenimenti pubblici e privati.
Il film comincia con il giorno della resa del Giappone alla fine della seconda guerra mondiale – la voce dell’imperatore Hirohito che annuncia la resa per radio è la prima cosa
che il pubblico sente – e continua descrivendo le sorti di una
famiglia mafiosa, il clan Lin, in una piccola città portuale, e
di un fratello e una sorella (i cui i nomi giapponesi sono Hiroe e Hiromi) che appartengono a un ambiente colto e vivono in una città mineraria vicina. Il legame fra i due gruppi è
il figlio più giovane della famiglia Lin, Wen-ching, un fotografo sordomuto, amico di Hiroe e innamorato dell’infermiera Hiromi. Dopo la partenza dei giapponesi dall’isola,
bande di criminali attirati dalle possibilità offerte dal contrabbando e da altre attività illecite arrivano a Taiwan dalla
terraferma e invadono il territorio dei Lin. Negli scontri che
ne seguono, alcuni gangster di Shangai torturano uno dei
giovani fratelli Lin e alla fine uccidono il più anziano, il capo
della banda. Wen-ching, il cui destino si incrocia con il loro,
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viene catturato durante la repressione della rivolta scoppiata
contro il regime di Chiang Kai-shek dopo l’incidente del 28
febbraio, ma fortunosamente riesce a evitare di essere giustiziato. Non potendo raggiungere l’amico che si è unito ai
guerriglieri sulle colline, ne sposa la sorella dalla quale ha un
figlio. Ma la guerriglia viene stroncata e Wen-ching è arrestato. Alla fine del film tutti i fratelli Lin muoiono. Gli unici
sopravvissuti sono il vecchio padrino, le donne e i bambini.
Nell’ultima inquadratura si vede la sala da pranzo con i pannelli di vetro colorato, dove si è svolta tanta parte della storia, ormai vuota. Il film si chiude con l’immagine netta di alcuni ideogrammi bianchi su fondo nero che annunciano la
vittoria del Partito comunista cinese sulla terraferma e il trasferimento della capitale di Chiang Kai-shek a Taipei nel dicembre 1949.
La trama, estremamente sofisticata e fitta di particolari
storici, è formata da strati sovrapposti e collegati. La tragedia
dei quattro fratelli della famiglia Lin, ognuno morto in modo diverso, si sviluppa attraverso la storia d’amore apparentemente semplice tra l’infermiera e il sordomuto. Sulle loro
interazioni incombono le lotte tra i vari clan e gruppi d’interesse locali, che a loro volta vengono inghiottiti dai disordini
politici del 28 febbraio e dalla sanguinosa repressione che ne
seguì. L’intrecciarsi di questi drammi è descritto in una babele di lingue e dialetti diversi: il regista alterna il giapponese, il minnan, il dialetto di Shangai, il mandarino e il cantonese. Questa confusione di lingue è sovrastata dal contrasto
fra le voci maschili e femminili. Alle minacciose voci maschili dagli accenti incomprensibili degli annunci pubblici – la
voce aspra e gracchiante di Chen Yi, il governatore militare
di Taiwan, trasmessa dalla radio – si contrappongono le voci
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gentili delle donne che, fuori campo, leggono le lettere e il
diario di Hiromi, rifugio di riflessioni e sentimenti private.
Mentre, nel centro immobile del film, Wen-ching può comunicare solo per iscritto. Città dolente è stato il primo film
taiwanese a essere sincronizzato anziché doppiato. Poiché
l’attore Tony Leung non parlava minnun, Hou con una trovata geniale ha fatto del suo personaggio un sordomuto. I segni grafici hanno un ruolo fondamentale: il corteggiamento
fra i due innamorati avviene quasi tutto attraverso la scrittura, e i titoli e i sottotitoli, usati come punteggiatura ritmica
della narrazione, diventano un altro elemento della sintassi
narrativa, integrandosi al suo ritmo perfetto insieme ad alcuni straordinari paesaggi ripresi in diverse stagioni.
Sotto il profilo dell’immagine, Città dolente è il risultato
artistico degli anni che Hou ha trascorso affinando la sua conoscenza della fotografia alla ricerca di una profondità di
campo che consenta di presentare l’azione su diversi piani. A
questo proposito è sufficiente citare un solo esempio. Nel
corso del film, la cinepresa continua a riprendere con inquadrature leggermente diverse, su un asse perpendicolare, la
sala da pranzo e il soggiorno vicino. L’inquadratura in primo
piano si restringe e compaiono ai lati due porte aperte, dietro alle quali si intuisce la presenza di una cucina il cui interno sarà mostrato una volta sola. Sullo sfondo, separata da
una porta di vetro multicolore, si trova la sala da pranzo con
l’altare di famiglia, un luogo sacro dove si tengono le cerimonie. Nello spazio mediano c’è un grande tavolo rotondo
attorno al quale i componenti della famiglia si radunano per
i pasti. I personaggi entrano ed escono dalla sala da pranzo,
per preparare o servire il cibo, nel continuo flusso vitale che
avvolge tutti mentre eseguono le loro attività quotidiane. Per
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contrasto, sullo sfondo, lo spazio cerimoniale dell’altare di
famiglia, solitamente vuoto, si riempie solo in occasioni eccezionali – accogliere l’invalido ferito (il terzo figlio) oppure
organizzare in fretta il matrimonio (dopo l’improvviso omicidio del primogenito, dato che l’usanza richiede che sia celebrato entro quarantacinque giorni dalla morte di un familiare). Lo spazio dedicato agli antenati, simbolo della continuità della stirpe – ma anche di numerose e tragiche interruzioni della vita –, è collegato visivamente con quello della sala da pranzo multifunzionale, dove gli alti e bassi del clan sono di solito indicati dal numero delle persone sedute a tavola nell’unica zona dove la famiglia Lin si riunisce stabilmente. La ripresa continua di questo spazio – che compare dodici volte nel film – produce una straordinaria interazione di
informazioni visive, sviluppo narrativo e significati simbolici.
Un altro elemento ancora più pregnante sono le fotografie prese da Wen-ching. Ce ne sono quattro: una della famiglia Lin al completo per ricordare l’apertura di un nuovo locale chiamato con scelta infausta Piccola Shangai; la seconda
di una scena all’aperto che fissa l’unico momento veramente
felice del film, il primo appuntamento tra Wen-ching e Hiromi; la terza di una cerimonia di laurea; mentre l’ultima è
una foto commovente che Wen-ching fa a se stesso, a Hiromi e al figlio appena nato, poco prima di essere portato via.
Consapevole che quello potrebbe essere l’unico ricordo che
egli lascia della loro breve vita felice insieme, si spazzola accuratamente i capelli per apparire nella forma migliore e prepararsi al tempo stesso a quel momento che svanirà presto.
Nella foto il terzetto appare come bloccato nella sua tristezza. L’incapacità di Wen-ching di parlare rappresenta l’isola
stessa e il suo destino è il segno di ciò che ha sopportato in
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silenzio. Il fratello maggiore, il capo liumang dall’aspetto di
un toro, è il simbolo della profonda infelicità di una Taiwan
colonizzata che Wen-ching non sa descrivere a parole: «Come siamo disgraziati noi abitanti dell’isola, prima i giapponesi e poi i cinesi. Tutti ci hanno sfruttati e oppressi, e nessuno ha avuto pietà di noi».
Le polemiche
Evitando la censura del regime, Hou riuscì a mandare la copia finale di Città dolente direttamente al festival cinematografico di Venezia, dove vinse il Leone d’Oro – primo riconoscimento internazionale importante per un film in lingua
cinese. Dopo una turbolenta prima a Venezia, in patria Città
dolente incassò la straordinaria cifra di due milioni di dollari. Il che vuol dire che circa il 50% della popolazione di
Taiwan è accorsa a vedere un film artistico di successo che
sfidava le categorie tradizionali e le previsioni del mercato.12
Il riconoscimento internazionale e il successo di cassetta però
non furono accompagnati da un consenso unanime a
Taiwan, dove il film fu contestato e ricevette una raffica di
critiche da parte di giornalisti e accademici che lo accusavano di essere un lavoro di evasione, confezionato a puri fini
commerciali. Secondo i critici, la colpa imperdonabile di
Hou era quella di non aver presentato nessun episodio importante della rivolta del 28 febbraio. «Ogni qual volta sta
per emergere un problema politico», scrisse indignato uno
studioso, «la macchina da presa si sposta dal terreno della
violenza e della repressione per rifugiarsi nella bellezza delle
colline, dell’oceano e delle barche da pesca, delle montagne
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o dei paesaggi».13 Hou fu oggetto di dure critiche sia per non
aver denunciato senza mezzi termini un crimine tanto atroce
e non averlo rappresentato fedelmente sia per aver girato il
documentario Everything for Tomorrow, commissionatogli
due anni prima dal ministero della Difesa. Le critiche contro
di lui furono raccolte in un libro ideologicamente poco equilibrato intitolato La fine del nuovo cinema.
L’accusa dei critici era che Hou, con il suo solito stile narrativo, non era andato direttamente al cuore di quegli eventi
traumatici. Ma il regista aveva sempre evitato la narrazione diretta e che rende le cose troppo chiare: «Non c’è niente di
peggio che presentare qualcosa solo per il piacere di spiegare».14 Di solito Hou usa il metodo dell’eliminazione. La sceneggiatura di Città dolente, pubblicata prima della distribuzione del film, conteneva novantuno scene, ma nel film ne sono rimaste solo sessantasei. Perseguendo con coerenza una
poetica basata sull’ubiquità, Hou tagliò le scene troppo ovvie
o forzate. Leggendo la sceneggiatura originale si capisce perché il terzo fratello Lin impazzisce due volte, mentre il film è
lacunoso e non si preoccupa della difficoltà che lo spettatore
può incontrare nel seguire la vicenda. Alcune parti, come
quella in cui un soldato va dal secondo fratello per esprimergli la sua gratitudine, sono state eliminate perché ritenute moralistiche. I film di Hou con il loro linguaggio sineddotico
non mirano a soddisfare un vasto pubblico, secondo i cliché
di Hollywood. La trasparenza e la causalità sono in fondo all’elenco delle sue priorità estetiche. Le riprese lunghe precedono spesso, in successione logica, quelle più brevi e numerose. Ne risulta che le persone possono apparire e scomparire senza alcuna spiegazione, mentre vengono deliberatamente omessi indizi importanti per la comprensione della storia.
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Eliminando la scena principale, nella quale i soldati picchiano la vecchia venditrice di sigarette – la scintilla che ha
appiccato il grande incendio del 28 febbraio – e lasciando
che lo sconvolgimento dei fatti appaia solo per rifrazione,
Hou è rimasto fedele ai suoi principi stilistici. Ma in Città dolente il loro effetto è accresciuto da due aspetti del film che
lo distinguono da quelli precedenti. Il primo è costituito dalle ambizioni e dalla complessità dell’intreccio, con ardue e
interessanti ellissi narrative. Il secondo è la centralità della
violenza nella storia. La rappresentazione della violenza è di
per sé efficace, come ogni appassionato di film d’azione sa
bene, perché – per catturare l’attenzione e «rapire» gli spettatori – provoca una frattura con gli eventi normali della
quotidianità. Il suo impatto sullo schermo è proprio ciò che
l’arte di Hou vuole evitare. Per questo motivo egli ha cercato, fin dall’inizio, di attenuarlo con un particolare uso della
cinepresa. Con moderazione in Fengkei, ma in modo molto
più estremo e memorabile in Summer at Grandpa’s, Hou ha
filmato gli scontri fisici da lontano – in Summer at Grandpa’s
una brutale bastonatura in un grande campo illuminato dal
sole è ripresa da una tale distanza che i personaggi e i bastoni sembrano così minuscoli da essere inghiottiti nella vastità
dello sfondo; la violenza diventa silenziosa e quasi astratta,
come se si svolgesse in un altro mondo – più piccolo, ma per
questo più sconvolgente.
Città dolente utilizza altri accorgimenti per inviare un messaggio indiretto: il pubblico non vede uccisioni o cadaveri, ma
barelle portate di corsa all’ospedale; non plotoni di esecuzione, ma la faccia del sordomuto che sa cosa sta accadendo, anche se non può sentire. Tuttavia nessuna scena è più potente
dei quella dell’esplosione improvvisa di una lotta tra bande,
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resa attraverso il bagliore dei coltelli e il tonfo dei corpi che
cadono, in un inseguimento lungo un corridoio e in un interno chiuso – un’esplosione di violenza tanto più terrificante
perché ripresa da grande distanza, con calma e quasi con indifferenza, come se non fosse altro che una parte dell’arredamento, in primo piano nell’inquadratura, rispetto agli uomini
che lottano disperatamente nel punto più lontano.
L’understatement, ovvero l’omissione di qualsiasi dichiarazione politica diretta, è ciò che rende Città dolente uno dei
più grandi film politici – forse il più grande – mai prodotti.
Questo è il risultato dell’arte di Hou, ed è indipendente dalle sue opinioni personali di allora o successive. Una delle ragioni per cui il film fu attaccato è che – in una scena dove
Wen-ching sta per essere picchiato a causa del suo mutismo
che viene scambiato per un rifiuto a parlare il dialetto minnan che, in quanto originario della Cina continentale, egli
avrebbe dovuto conoscere – Hou sembrava presentare i fatti come una reazione puramente indigena all’oppressione del
regime di Chiang, contrapposta agli ideali socialisti ai quali si
ispiravano i guerriglieri sulle colline. Ma gli effetti politici di
Città dolente furono certamente quelli di affrettare il crollo
del sistema di menzogne eretto dall’autorità contro cui i suoi
critici si erano ribellati, e quindi di contribuire all’avvento
della democrazia a Taiwan.15
Il dramma, il sogno, la vita
Ormai all’apice della maturazione espressiva, Hou andò ancor più a ritroso nel tempo con il film successivo, che racconta la prima parte della vita del burattinaio Li Tien-lu, una
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figura molto rispettata negli ambienti culturali tradizionali
dell’isola. Come opera d’arte Il maestro burattinaio compete
con Città dolente, ma la sua forma è completamente diversa.
Abbandonando il ritmo sostenuto di Città dolente, Hou si libera dalle costrizioni narrative e ricorre a uno stile evocativo
che fa pensare alle «nuvole fluttuanti». Il film dura 142 minuti, ma è formato solo da cento riprese della durata media
di 85 secondi ciascuna. Sebbene la trama possa sembrare il
semplice racconto cronologico della vita di Li dal 1910 al
1945, un arco di tempo che corrisponde grosso modo al mezzo secolo di colonizzazione giapponese a Taiwan, il film riesce a sconcertare anche i cinefili più esperti. Pur avendo ricevuto a Cannes il premio speciale della giuria per insistenza
di Abbas Kiarostami, Città dolente è l’opera di Hou meno
comprensibile per il pubblico internazionale. Come un misterioso dipinto anamorfico, esso incanta e al tempo stesso
confonde gli spettatori. Quest’opera, nella quale Hou mescola le oniriche atmosfere del folclore con episodi storici
nettamente scolpiti, non ha uguali nella storia del cinema
mondiale.
Il maestro burattinaio è basato sulle memorie di Li Tienlu che lo scrittore Tseng Yu-wen raccolse in un’intervista durata centinaia di ore e pubblicata nel 1991.16 In origine Hou
avrebbe voluto farne un documentario. Poi, per l’abbondanza di materiale a disposizione, lo trasformò in lungometraggio. La scelta degli esterni era stata problematica. Sotto i
giapponesi, la società taiwanese era ancora quasi totalmente
rurale. Negli anni Novanta, dopo la grande industrializzazione, sull’isola era difficile trovare ancora dei paesaggi incontaminati, perciò Hou decise di girare il film a Fujian. Era la
prima volta che un regista di Taiwan girava un film in Cina,
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e la collaborazione non fu sempre facile. Iniziato il lavoro,
Hou si rifiutò di esaminare le riprese giorno per giorno prima di aver terminato il film, che cominciò a montare a
Taiwan (forse anche per evitare problemi in Cina). Negandosi la possibilità di revisionarlo, cosa che rappresentava
un’audace innovazione rispetto alle procedure normali, Hou
correva però un grave rischio. Ma il film, che avrebbe potuto risultare frammentario, è invece sublime.
Mentre scorrono i titoli di testa una nota storica informa
il pubblico che la Cina cedette Taiwan al Giappone nel 1895
dopo essere stata sconfitta nella guerra cino-giapponese. Poi,
sullo schermo appare un tavolo rotondo attorno al quale sono sedute alcune persone venute a festeggiare il primo compleanno di Li Tien-lu, mentre nell’ombra il nonno orgoglioso mostra il bambino agli ospiti. La voce fuori campo di Li
Tien-lu si unisce al coro e spiega perché invece di portare il
cognome del padre (Hsu) gli è stato dato quello della madre
(Li): la famiglia materna più ricca e potente aveva imposto il
proprio cognome grazie a un accordo prematrimoniale. Le
sue riflessioni sul significato della nascita e dei nomi si concludono con una scena nella quale la madre viene confortata
nel suo boudoir. Subito dopo, con un’inquadratura dal basso verso l’alto, Hou riprende in primo piano un palcoscenico tutto decorato con tre burattini che simboleggiano la dea
della Fortuna, della Ricchezza e della Longevità, e si inchinano tre volte verso lo spettatore. Senza indicare nessun collegamento fra personaggi e nessun motivo narrativo, la sequenza si chiude con l’ascensione delle tre divinità, che completa il cerimoniale. A questo punto compare sullo schermo
il titolo del film: Xi Meng Rensheng. Non «burattinaio», ma
Il dramma, il sogno, la vita.
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Prologo e titolo introducono i tre elementi che si snoderanno nell’arco di tutto il film: la storia della vita di Li che Li
Tien-lu racconta fedelmente, descrivendo punto per punto
quello che gli è accaduto; la ricostruzione delle memorie di
Li come Hou le immagina, presentate in forma narrativa; e
alcuni episodi tratti da spettacoli dei burattini e dal melodramma. Il titolo indica questo rapporto di contrappunto fra
il dramma (Xi) – l’arte di Li –, il sogno (Meng) – il modo di
Hou di dirigere la scena del compleanno – e la vita (Rensheng) – la testimonianza di Li e Hou su una vita in svolgimento. Il risultato è un arazzo nel quale tutti i fili sono chiaramente distinti ma inseparabili. L’autobiografia di Li viene
così raccontata secondo la prospettiva onniscente del narratore e quella soggettiva del personaggio stesso. Facendo in
modo che entrambi gli autori si vedano e si sentano, Hou ha
creato un originale modello di comunicazione facendo in
modo che il burattinaio e il regista si rivolgano allo spettatore ognuno a suo modo: il primo come narratore avvincente e
superbo esecutore, il secondo come artista dell’immagine,
capace di trasmettere emozioni.
A un terzo del film, con un colpo di genio che ricorda la
scelta di un sordomuto come protagonista di Città dolente,
ma per ottenere il risultato opposto, Hou cattura l’attenzione dello spettatore facendo comparire all’improvviso l’ottantaduenne Li Tien-lu curvo su se stesso, che parla direttamente alla cinepresa, mentre sullo sfondo lo si vede quindicenne intento ad ampliare il tetto della casa in montagna, dove porterà la sfortunata nonna. Rompendo gli schemi come
fa Omero nell’Iliade nell’episodio dello scudo di Achille, il
narratore deittico valica il confine tra finzione e realtà, sconvolgendo l’orizzonte d’attesa dello spettatore. Quando Li
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compare, la sua voce fuori campo ha già commentato tre volte la storia della sua vita, collegando sequenze non spiegate,
perciò il fatto che una voce in precedenza anonima prenda
corpo sembra stranamente naturale. In seguito Li compare
in altre cinque scene, nelle quali racconta gli avvenimenti
passati con la sua voce stridula e con un eloquio e una gestualità inimitabile. Ogni qual volta appare sullo schermo, Li
incanta lo spettatore.
Come in molte altre biografie, Hou sceglie dalle voluminose memorie di Li gli episodi più significativi: la morte precoce della madre, i maltrattamenti che gli ha inflitto la matrigna, la morte del nonno, l’apprendistato in mezzo a un
gruppo di burattinai girovaghi, infine il matrimonio e la decisione di diventare attore, quando i giapponesi vietano gli
spettacoli di burattini all’aperto. Il pubblico vede passare
sullo schermo anche la poetica storia d’amore fra Li e la giovane tenutaria di un bordello di provincia; alcuni spettacoli
di burattini organizzati per l’esercito giapponese e per motivi di propaganda bellica; la contrazione della malaria e il ritorno del protagonista a Taipei alla fine della guerra. Nella
trama del suo film, in cui muoiono nove membri della famiglia, il regista inserisce otto spettacoli teatrali e numerosi episodi brevi storicamente fondati, fra cui il taglio e la bruciatura delle code dei maiali all’inizio del film (una atto brutale
con il quale i giapponesi obbligavano la popolazione cinese a
rinnegare un simbolo della propria identità, atto che veniva
imposto anche all’epoca del dominio manciù), e la demolizione di un aereo giapponese (messa in atto dalla popolazione cinese di Taiwan per riaffermare la propria identità).
In questo straordinario flusso narrativo risaltano due
elementi. Il primo è il calore romantico con cui Hou rap231
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presentata la storia d’amore fra Li e Lietzu. Le scene in cui
i due innamorati si scambiano gesti affettuosi e sensuali e
scherzano fra loro, mentre la radio a basso volume dà notizia dei successi riportati dai giapponesi negli anni Trenta,
sono uniche nell’opera di Hou. L’interludio si chiude con
Li che racconta di aver guarito l’amante da una pericolosa
cisti sul labbro applicandovi sopra delle rane sventrate e lasciandovele per tutta la notte. Quindi dice: «I nostri sentimenti reciproci sono diventati più profondi». Poi in una sola rapida inquadratura in campo medio si vede la coppia
che cammina lungo il sentiero di un bosco battuto dal vento, ed è questa l’ultima scena insieme. Con un brusco salto,
la sequenza successiva mostra in campo lungo un ponte
bianco e stretto sopra una profonda gola, ricoperto di uno
strato di foglie verde brillante, mentre alcune minuscole figure avanzano lentamente da destra e altre piccole figure
bianche avanzano in colonna da sinistra, accompagnate da
una musica marziale in sordina. La cinepresa si sposta su
una cerimonia funeraria che si svolge in una valle circondata da alte montagne. Anche in questo caso il regista riprende la scena da notevole distanza e la fa iniziare con il discorso di un ufficiale giapponese – di cui sentiamo solo la
voce – che rende onore a un soldato taiwanese caduto al
servizio dell’imperatore. Un altro brusco salto ed ecco
quello che forse è lo spettacolo di burattini più straordinario di tutto il film: la messa in scena della morte dell’eroe
che, con estremo sprezzo del pericolo, compie un attentato
contro le linee di comunicazione americane in Nuova Guinea, e della vendetta dei suoi compagni ai danni dei soldati che lo hanno ucciso. Cala la notte – la cinepresa è ora
molto lontana –, e la cerimonia si conclude. Sullo schermo
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restano solo una piccola macchia di luce nella pianura buia
e le bandiere imperiali che sventolano contro il profilo delle colline color indaco.
La dignità e la bellezza di questa scena testimoniano l’obiettività storica con cui Hou descrive il ruolo dei giapponesi nella vita di Li e in quella dell’isola. Subito dopo, egli introduce un poliziotto giapponese che, dando prova di notevole tatto e umanità, protegge il figlioletto di Li evitando che
sia punito per aver infranto senza saperlo le leggi di guerra
sulla pesca. Con questa scena Hou non intende difendere il
dominio coloniale e, per prevenire eventuali critiche, inserisce subito dopo l’immagine di un plotone di esecuzione. A
guerra terminata, Li salva dal linciaggio alcuni soldati giapponesi accusati ingiustamente di aver distrutto delle scorte di
riso da distribuire in tempo di carestia – mentre gli abitanti del
villaggio, per raccogliere i soldi necessari a pagare la troupe
che avevano incaricato di fare uno spettacolo con cui esprimere la propria gratitudine verso gli dei che li hanno aiutati
a riconquistare la madrepatria, vendono per strada i pezzi di
alluminio presi dagli aerei abbandonati dai giapponesi. Nell’ultima memorabile scena si vedono delle persone che vanno all’assalto di un aereo, in un campo illuminato dai raggi
dorati del sole al tramonto, e ne distruggono la fusoliera a
colpi di picconi e bastoni.
Discordanza
Il terzo film della trilogia sulla storia di Taiwan, Good Men,
Good Women (1995), si è rivelato una delusione. Concepito
in una certa misura come seguito di Città dolente, il film ha
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per argomento il Terrore Bianco instaurato nel 1949 da
Chiang Kai-shek per annientare ogni opposizione interna. Il
film si basa sul libro di un giornalista, Lan Po-chou, Song of
the Chariots, pubblicato in un primo tempo a puntate su una
rivista della scuola letteraria Terra Natia. Il libro, che è una
testimonianza significativa della «letteratura delle ferite» di
Taiwan, paragonabile a quella della Cina nei primi anni Ottanta,17 ha per argomento la tragedia di una coppia vittima
del Terrore Bianco: un preside di scuola superiore e un’infermiera (che è sopravvissuta e ha contribuito alla narrazione), entrambi membri del Partito comunista allora clandestino. Invece di collocare l’azione in un preciso passato storico,
Hou ha optato per una struttura a due livelli, focalizzando
l’attenzione su un’attrice dei nostri giorni che fa le prove per
un film su quel periodo ed è al contempo ossessionata dai ricordi della sua vita, dalla morte dell’innamorato mafioso, e
dai fax di uno sconosciuto mittente che contengono le pagine del diario che le era stato rubato. Questo metaracconto
contorto e policromo è un completo fallimento. Il legame tra
gli anni Cinquanta e gli anni Novanta appare gratuito: le incongruenze fra il personaggio di una convinta rivoluzionaria
e quello di una donna smarrita sono troppo vistose, e si riflettono nella confusa recitazione dell’attrice che ha interpretato entrambe le parti.
Confessando la propria insoddisfazione per il risultato,
Hou ha detto che se potesse rifare il film, presenterebbe direttamente la storia dei perseguitati politici, eliminando
tutte le sottigliezze. Infatti Good Men, Good Women è interessante per l’argomento scelto, non per il modo in cui è
trattato. A metà degli anni Novanta non era frequente vedere un film che presenta i rivoluzionari marxisti sotto una
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luce favorevole – li si vede discutere su quale sia la strategia
di classe più idonea a rovesciare il regime di Ciang Kaishek. La scelta di Hou era frutto di un impegno politico?
Dai suoi primi film appare evidente che Hou non era molto interessato alla politica. Questo disinteresse e la sua ingenuità non erano molto diversi da quelli di Zhang Ailing.
Col passare del tempo, lavorando con altre persone e interessandosi sempre più alla storia recente, ha mutato atteggiamento. Ma la sua filosofia, basata sull’accettazione della
vita in tutti i suoi aspetti – «Filmerò qualsiasi cosa sotto il
sole e in natura» –, non è cambiata molto. La visione taoista di Lin Tien-lu, con il suo fatalismo cosmico, aveva qualcosa in comune con la sua, il che ha creato fra loro un legame ideale. In Hou accettazione della vita vuol dire assenza
di pregiudizi, e ciò gli permette di osservare, con un imparzialità e al tempo con simpatia, i soldati juan cun e i boss
criminali, le autorità giapponesi e i rivoluzionari comunisti.
L’altro tema di Good Men, Good Women – l’analisi della
gioventù moderna – sarà ripreso nel film successivo e diventerà una presenza costante nell’opera di Hou. Goodbye
South, Goodbye (1996) è apparentemente un «road movie»
sull’odissea di un luimang di piccolo calibro che rimane coinvolto nelle questioni familiari di un amico intimo e spreca la
vita nell’adempimento di obblighi assurdi senza riuscire a
trovare una propria direzione. Anche il film non va da nessuna parte, e dopo parecchi tentativi per migliorarlo, Hou ha
adottato una conclusione repentina: l’eroe ormai privo di
forze porta la sua auto in un campo di riso e, senza nessuna
spiegazione, mette fine alla sua vita nonché al viaggio aberrante del regista.
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Il trapezio
Dopo questi due insuccessi, come se volesse reagire alla loro
incoerenza e disperazione, Hou creò la sua opera più intensa. Durante le ricerche per un film su Coxinga, l’eroe – o pirata – della resistenza Ming, commissionatogli dalla NHK
giapponese, Hou cominciò a interessarsi alla cultura erotica
della Cina feudale, di cui il giovane Coxinga era stato un
adepto.18 Per aiutare Hou a prendere confidenza con l’argomento, Chu Tien-wen gli consigliò di leggere Storie dei fiori
di Shangai (1884-85) di Han Bangqing, un romanzo del tardo periodo Qing in dialetto suzhon riscoperto da Zhang Ailing, che in seguito lo avrebbe tradotto in mandarino e in inglese.19 Durante la lettura Hou rimase affascinato dalla ricchezza del materiale e, lasciando perdere Coxinga, trasformò
il romanzo in un film che descrive la vita quotidiana di una
casa di tolleranza di alto livello nella Shangai del XIX secolo.
I romanzi di Han hanno la forma di una lunga e complessa rete di rapporti e interazioni fra più di cento personaggi –
Chu ha confessato di non esserne mai venuta a capo e di essersi limitata ad attingere a quel magma gli avvenimenti descritti in tre delle numerose «alcove» del Chang San.20 In una
delle alcove, Crimson suscita la gelosia di un burocrate, che
vorrebbe prenderla come concubina, ma teme che gli sia infedele; in un’altra, Pearl si allea con un mercante per trasformare un duplice suicidio fallito in un accordo vantaggioso; nella
terza, Emerald compra la sua libertà con l’aiuto di un altro
cliente della casa. Gli ossimori «pretendere fedeltà e incoraggiare la prostituzione», «amore e mercanteggiamento», e «indipendenza della donna e protezione dell’uomo» definiscono
lo strano universo in cui entriamo. In Flowers of Shangai ci so236
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no diciannove scene, girate tutte in piano sequenza fino a dissolversi nello schermo nero, suggerendo la divisione in atti delle opere teatrali. L’unica eccezione, aggiunta per amor di chiarezza, è il furtivo dettaglio dei piedi del cliente con cui Crimson tradisce il suo ammiratore.
La scena iniziale del banchetto, che dura nove minuti, definisce lo stile unico del film dal punto di vista dell’immagine.
La cinepresa, posta poco più in alto del tavolo vicino al bordo,
fa una panoramica muovendosi da destra a sinistra, modificando sempre l’inquadratura, con soste sufficientemente lunghe per cogliere le espressioni degli invitati o i loro scherzi da
ubriachi. A volte l’obiettivo scivola lentamente su chi parla, altre volte indugia sulle persone, i gesti e i piatti. Contrariamente all’impressione che molti spettatori ne ricavano, la cinepresa non compie un ampio movimento orizzontale e neppure si
ferma a lungo, ma esegue un tragitto trapezoidale che ricorda
la forma di un ventaglio cinese. Il ritmo della cinepresa è scandito da quello del ventaglio che il proprietario del locale seduto in basso a sinistra dello schermo agita delicatamente all’inizio della scena. Il movimento della cinepresa, simile a un commento musicale, è esplicitato dalle parole che si intravedono
sul ventaglio aperto: hui fenf he chang – «soffiando come uno
zefiro che diffonde armonia e dolcezza».
Altri due elementi rendono Flowers un esempio unico
nell’opera di Hou. Tutte le scene del film sono illuminate o
dalla luce naturale o da quella emessa dalle lampade a olio e
dalle candele (solo occasionalmente la ripresa gioca sul controluce creato da altre fonti). La fedeltà al passato che si
esprime nelle luci sommesse è un tema presente anche in
Barry Lyndon (1975) di Stanley Kubrick che, per girare le
scene in penombra, ha usato l’apertura manuale dell’obietti237
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vo, mentre Hou ha semplicemente avvicinato la cinepresa,
come fosse un obiettivo «endoscopico», ai personaggi illuminati solo dalla tenue luce delle lampade a cherosene e delle candele. Hou stesso ha spiegato il motivo per cui ha rinunciato alle riprese da lontano, usate così spesso in precedenza, e la sua chiosa aiuta a capire l’atmosfera del film: «Mi
sono accorto che, mostrando i personaggi in lontananza,
posso mantenere da loro un distacco psicologico, anche
quando sono fisicamente vicinissimi». Seguendo questa tecnica, Hou ha girato tutto il film all’interno del Chang San –
senza mostrare mai il mondo esterno. La sola luce proveniente da fuori è il pallido barlume di un cortile, un altro spazio chiuso, che si intravede dietro una finestra decorata. Il
contrasto con gli spazi aperti del film su di Li Tien-lu non potrebbe essere più evidente. La completa assenza di esterni in
Flowers of Shangai crea un labirinto claustrofobico nel quale
si confondono tutte le alcove, la cui funzione è rinchiudere e
delimitare, non aprire e procreare.
La vita all’interno delle alcove è regolata dalle ripetizioni e
dalla routine: i pasti e i debiti, i servizi da tè e le pipe da oppio, le liti e le rappacificazioni. Quando Chu domandò a Hou
cosa avesse trovato nel romanzo di Han che a lei invece era
completamente sfuggito, lui rispose di averci trovato la quotidianità: un concetto che Chu avrebbe parafrasato con il termine sartoriale di zi, proprio del linguaggio di Zhang Ailing:
una parola che si riferisce alla fodera di un abito – e quindi per
estensione alla tattilità o allo sfondo di una scena. Diffidando
dello «splendore» cui era spesso erroneamente collegata,
Zhang, che tendeva invece a sottolineare l’importanza della
banale quotidianità, aveva una volta dichiarato: «I limiti di
un’estetica basata sull’“arte per l’arte” (wei mei) stanno nel
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fatto che in essa non c’è nessuna fodera o sfondo che ne faccia
risaltare bellezza».21 In Flowers of Shangai la fodera sembra risaltare in primo piano, grazie all’attenzione continua che la cinepresa dedica alla complessa stratificazione e ai particolari
più minuti degli oggetti e dei gesti di un’esistenza ripetitiva.
Nell’azione infatti il sentimento e il desiderio sono quasi
sempre assenti. Nelle scene del bordello mancano del tutto i
rapporti sessuali e quelli amorosi, in totale contrasto con
quanto accade nell’episodio di Li Lietzu in cui il corteggiamento e l’amore hanno un ruolo importante. Flowers of
Shangai è una specie di caleidoscopio che mostra un ecosistema deformato, dove restare umani è un sogno irrealizzabile sia per chi vende sia per chi compra, e il significato della vita è ridotto a una tale economia di prestazioni che il tradimento stesso può indifferentemente rappresentare o porre
rimedio ad affetti che non riescono a consolidarsi. L’unico
elemento stabile è lo scambio, e alla fine tutti si perdono riproducendolo all’infinito. Una vita degradata basata solo sulla logica della domanda e dell’offerta non ha movimento.
Flowers of Shangai termina senza una vera conclusione. Il burocrate si trasferisce a Canton, e nell’ultima scena si vede un
nuovo cliente sdraiato in un muto silenzio sul divano davanti a Crisom, sfinito e deluso come lei.
Hokkaido: Tokyo
Dopo questo tour de force, Hou girò il suo terzo film sulle
esperienze della gioventù contemporanea. Millennium Mambo (2001) ha per argomento i ripetuti tentativi che un’ex entraîneuse compie per porre fine alla tormentata relazione con
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un fidanzato possessivo, nonché l’aiuto che riceve da un generoso boss liumang, e la sua fuga verso l’isola di Hokkaido
isolata dalla neve. Cercando di catturare lo spirito della città,
Hou apre il film con la protagonista che si pavoneggia e saltella su un ponte velato dalla foschia. Hou la segue – fatto per
lui del tutto nuovo – con la cinepresa in spalla. Una voce fuori campo ricorda la dolorosa storia d’amore aggiungendo:
«Tutte quelle cose sono accadute dieci anni fa, nel 2001».
Nella scena successiva si ritorna alla vita passata della donna,
fatta di bevute, sigarette, amoreggiamenti, sesso, droghe e
violenza domestica. Dal punto di vista formale, la novità di
Millennium Mambo consiste nel fatto che i primi piani, rispetto a quelli di Flowers of Shangai, sono molto meno fissi e
i movimenti della cinepresa più rapidi. Presentando gli eventi attuali come se risalissero al passato e ricorrendo costantemente al flashback, Hou conferisce alla vita l’aspetto di un
fuggevole caos. Sotto il profilo temporale, i monologhi interiori sono intenzionalmente confusi: a volte riferiscono i fatti
come se fossero già avvenuti, a volte come se anticipassero ciò
che non è ancora accaduto, secondo modalità proprie di un
postmodernismo che Chu interpreta a suo modo. Forse Hou,
dopo aver rappresentato la distanza fisica (le lotte tra bande
in Città dolente) e la distanza psicologica (il corpo asessuato
rivestito di seta in Flowers of Shangai), pensava di poter raggiungere più o meno gli stessi risultati con la distanza temporale. Tuttavia l’esito è poco soddisfacente e, benché come ritratto della gioventù moderna sia leggermente migliore di
quelli precedenti, il film si perde nel manierismo delle luci fioche e delle immagini sfocate.
L’anno successivo Hou ricevette da un gruppo giapponese l’incarico di produrre un film commemorativo per il cen240
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tenario della nascita di Yasujiro Ozu. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il compito non era facile, in parte perché le affinità stilistiche con Ozu erano così evidenti
nelle sue opere da obbligarlo a negare ripetutamente di non
averne subito l’influenza negli anni in cui studiava regia.22
Consapevole delle differenze esistenti, Hou dovette affrontare il difficile compito di esprimere la sua ammirazione per lui
senza però imitarlo. Café Lumière (2003) è ambientato a
Tokyo e riprende i temi, sempre presenti in Ozu, del rapporto tra figlie e genitori, dell’incomunicabilità verbale e dell’invasione della cultura moderna nello stile di vita tradizionale. La trama è molto elementare: una giovane donna, messa incinta da un ragazzo taiwanese che lavora in Cina, decide
di allevare il figlio da sola. Mentre fa ricerche su un compositore che aveva rappresentato il Giappone alle Olimpiadi di
Berlino del 1936, decide di fidanzarsi con il proprietario di
un negozio di libri usati e comunica la sua decisione ai genitori adottivi. Hou, che non conosceva il giapponese, lasciò
che fossero gli attori a improvvisare facendo ricorso all’immaginazione e inserì nel film gli atteggiamenti e gli abiti che
avevano nella vita reale. Sotto il profilo della fotografia, il
film, a differenza di tutti gli altri suoi lavori, è scandito da un
unico tema ricorrente: i treni della metropolitana o suburbani – idilliaci se paragonati a quelli di Londra o New York –
che scorrono di continuo sullo schermo.
Attenuazione
In Café Lumière sono presenti la tranquillità e la modestia tipiche dello stile di Ozu, ma è anche evidente la differenza di
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vedute e di epoca fra i due registi. Nei suoi film, Ozu si concentra essenzialmente sulla vita quotidiana del suo tempo e,
quando si volge indietro, si rattrista per il passare delle stagioni all’interno dell’ordine cosmologico. L’ultima opera di
Hou ha una struttura quasi opposta: c’è una ricerca continua
del presente, partendo da una profonda analisi della storia
passata. Tutti e quattro i suoi primi film d’arte hanno come
argomento fatti realmente accaduti fra l’inizio degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, ossia quindici o
trent’anni prima che i film apparissero sullo schermo. I film
storici, ambientati nell’arco di tempo che va grosso modo dal
1880 al 1950, sono con una sola eccezione i suoi capolavori.
Quando Hou volge lo sguardo alla vita contemporanea, girando film ambientati ai giorni nostri, la produzione artistica
ne risente. Le ragioni di questo fenomeno sono individuabili proprio nei suoi primi lavori dove egli racconta le storie di
giovani della Taiwan premoderna fatta di piccole città e villaggi, e di forti legami familiari. Nel girare i film sui giovani
moderni o postmoderni delle grandi città, Hou si trova a
esplorare un mondo in cui non ha radici, e i risultati sono più
modesti e meno convincenti di quelli precedenti.
Le differenze più salienti di questi ultimi film sono la
scomparsa della famiglia in quanto elemento di coesione e il
ruolo marginale dei genitori. In Daughter of the Nile la famiglia pur non avendo un valore positivo esiste ancora, mentre
in Good Men, Good Women e in Millennium Mambo i giovani sono soli. Che questo fenomeno non sia dovuto soltanto ai
rapidi cambiamenti avvenuti nella società taiwanese lo si può
capire da Brighter Summer Day (1991) di Edward Yang, un
film sulla gioventù bruciata – un fenomeno di proporzioni
gigantesche – che può essere paragonato ai più pregevoli la242
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vori giovanili di Hou. Nel 2001 Yang ha girato Yi Yi – e
uno… e due, nel quale la complessità dei rapporti fra generazioni è resa con una maestria assente nel coevo Millennium
Mambo.23 Cresciuto in un ambiente benestante di alto livello
culturale, Yang ha saputo cogliere meglio il nuovo mondo
urbano dei professionisti, degli imprenditori borghesi e dei
loro figli. La sua appartenenza a una classe sociale che sarebbe diventata il modello della società futura, gli ha consentito di descriverla con un’abilità che Hou, per la sua esperienza personale, non poteva raggiungere.
Café Lumière, dove ricompare la generazione più vecchia,
pone rimedio a molte debolezze degli ultimi lavori di Hou
sui giovani, un risultato che il regista raggiunge prendendo le
distanze da Ozu. In Café Lumière il rapporto tra le figlie e i
genitori, che pure costituisce il tema centrale, è molto più attenuato. Padre e madre non riescono a esprimere la loro
preoccupazione per il rifiuto della figlia di sposarsi; il padre
non apre bocca: la sua faccia e il suo atteggiamento parlano
per lui. Lo stesso mutismo e la stessa incapacità di comunicare dei personaggi si ritrovano nei film di Ozu, dove però
acquistano maggiore significato grazie alla rappresentazione
di una serie di interazioni osservate nei dettagli – e spesso
commentate –, assenti nel racconto minimalista di Hou. In
questa versione di una «Tokyo-story», i rapporti familiari sono più rarefatti, a causa della minor compattezza delle famiglie giapponesi di oggi rispetto a quelle dei tempi di Ozu. Ma
ciò che in realtà il film vuole mettere in risalto sono le conseguenze generali di quei legami allentati: la solitudine nelle
metropoli, la cancellazione del passato e forse – il compositore scomparso, il fidanzato assente – i problemi di soggettività transnazionale. Le immagini dei treni che scorrono con
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tanta frequenza sullo schermo e delle macchine più grandi
degli esseri umani indicano che le distanze fra le persone sono aumentate. Il risultato è un film il cui linguaggio in un certo qual modo ricorda più Antonioni che Ozu, nonostante
l’atmosfera sia meno desolata di quella che caratterizza le
opere del primo e quasi completamente priva dei toni intimi
tipici del secondo.
I diseredati
L’ultimo film di Hou, Three Times, può essere ritenuto un
compendio delle sue varie opere.24 Three Times è diviso in tre
episodi, girati in gran fretta, mentre il titolo è preso dai versi
di una canzone popolare degli anni Trenta già inserita nella
colonna sonora di Il maestro burattinaio.25 Il primo episodio,
ambientato nel 1966 nelle sale da biliardo di una piccola
città, tratta di un amore che potrebbe nascere ma che viene
messo in pericolo dalla partenza del giovane amante per il
servizio militare. Il secondo racconta la storia di una prostituta, che l’innamorato abbandona per seguire il richiamo
della rivoluzione del 1911 e andare in Cina. Il terzo si svolge
nel 2005 e ritrae una giovane donna che ha pochi mesi di vita e cerca di vivere il tempo che le rimane sfruttandolo al
massimo, sotto il profilo sessuale e non solo. Gli episodi si
ispirano rispettivamente a Boys from Fengkei, Flowers of
Shangai e Millennium Mambo e il loro finale non è migliore
di quello degli originali. Il primo episodio, inevitabilmente
meno corposo del modello, è più romantico e cromaticamente ricco, con alcuni interni fra i più suntuosi che Hou abbia mai ripreso. Il secondo, che costituisce la parte centrale
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del film, si svolge in un silenzio totale rotto solo dalla musica. Soltanto i sottotitoli consentono di capire quello che dicono i personaggi. Inoltre commentano la triste sorte degli
innamorati e danno notizia dell’incontro fra il cinese Liang
Qichao e il taiwanese Lin Xien-tang alla vigilia del rovesciamento del governo Qing da parte di Sun Yat-sen.
L’episodio, sebbene nello stile ricordi Flowers of Shangai,
sul piano emotivo è ben diverso. Con grande sensibilità, Hou
mette in scena il dolore dei due amanti costretti a separarsi e
dilaniati dal conflitto fra l’ideale politico e la felicità individuale: un giovane aristocratico che deve scegliere fra l’aspirazione alla libertà del popolo cinese e quella della donna
amata, una cortigiana condannata alla schiavitù finché il bordello in cui è imprigionata non deciderà di fare a meno di lei.
Questo film in miniatura, delicato e forte al tempo stesso,
è una delle migliori opere di Hou. Ed è anche una delle più
politiche. Il perno del racconto è la Rivoluzione cinese del
1911, e oggetto della trama è la connessione fra l’isola e la
terraferma, attraverso il richiamo magnetico esercitato sulla
gioventù radicale di Taiwan da Liang Qichao, l’intellettuale
cinese promotore delle più importanti riforme nel suo Paese
– la storia si basa sul personaggio realmente esistito di
Chiang Wei-shui, che aveva progettato di assassinare Yuan
Shikai a Pechino e l’imperatore Meiji a Tokyo. L’episodio «Il
tempo della libertà», allude a una nuova fase della carriera di
Hou. Nel 2004 il regista ha accettato la presidenza dell’Alliance for Ethinc Equality, un’associazione nata per impedire
la polarizzazione della politica taiwanese fra i Verdi e gli Azzurri, ossia fra il DPP, il partito dei minnan, e il KMT, il partito della popolazione cinese di Taiwan, sui quali ha girato un
documentario; si è inoltre attivato in difesa degli operai vitti245
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me di incidenti sul lavoro e degli immigrati dal Vietnam o
dalle Filippine che vivono in condizioni di estrema povertà.26
Nel film che Assayas ha girato circa dieci anni fa sulla sua vita, Hou smentendo di avere delle preferenze politiche dice a
un certo punto: «Il potere non mi interessa». Il che è senza
dubbio vero. Ma il destino di quelli che non hanno potere lo
interessa da sempre – ora più che mai. Il recente impegno
pubblico quali ripercussioni avrà sui suoi film?
Un’intervista rilasciata di recente può fornire qualche indicazione.27 Hou gode attualmente di una tranquillità finanziaria che gli permette una quasi totale libertà creativa. Ma,
come fa notare, il suo pubblico è tuttora poco numeroso ed
è composto soprattutto da intellettuali e spettatori di una
certa età. Questo spiega perché abbia abbandonato le forme
filmiche tradizionali, sulle quali aveva fantasticato da ragazzo, per un tipo di cinema più sperimentale. Infatti, è solo
rompendo con la tradizione che si possono creare film sperimentali, destinati a diventare a loro volta dei classici. Il cinema commerciale ha toni melodrammatici, toni che Hou ha
cercato di evitare ispirandosi all’estetica dei film cinesi, più
classici e più lirici, nei quali l’atmosfera è privilegiata rispetto alla teatralità. È possibile che decida di reinventare qualche forma di melodramma? Senza dubbio in questo modo
riuscirebbe ad allargare il suo pubblico elettivo. Ma per raggiungere lo stesso risultato esiste anche un altro sistema, che
dà maggiori garanzie: ed è quello di far confluire nel lavoro
cinematografico la sua recente esperienza in ambito sociale.
Hou ha dichiarato di avere in progetto una serie di film storici su vari aspetti del passato di Taiwan, che i dominatori
hanno cancellato dalla memoria collettiva. L’obiettivo non è
quello di mettere in scena i drammatici eventi politici dei no246
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stri giorni – ha rifiutato di fare un film sull’attentato al candidato presidenziale Chen Shiu-bian, il fatto più sensazionale delle elezioni del 2004, sia perché a suo parere se si vuole
ricostruire la storia recente occorre farla passare attraverso il
filtro degli anni, sia perché temeva di essere strumentalizzato. Il suo vero obiettivo è il recupero della storia. Nella trilogia su Taiwan, come lui stesso ha dichiarato, si è concentrato
sugli individui, la storia ha fornito solo l’ambiente in cui si
muovono. Ora vorrebbe partire dalla storia e andare avanti.
1. La trascrizione segue il sistema Wades-Giles, che ha adattato i caratteri cinesi a quelli latini, elaborato per primo da Thomas Wade nel
1859 e poi modificato da Herbert Giles nel 1912 – per i nomi e i titoli taiwanesi, e il sistema Piyin, approvato nel 1958 e adottato dalla
Repubblica popolare cinese nel 1978.
2. Sansan: letteralmente «tre-tre» con riferimento, tra le altre cose, ai
Tre Principi del Popolo di Sun Yat-sen.
3. Shen Congwen (1902-1988), abile scrittore e saggista dell’Hunan occidentale, vicino al confine con Guizhou, ha pubblicato Congwen
Zirhuan a Shangai nel 1934; un’edizione riveduta è uscita nel 1943.
4. Vedi l’intervista di Hou rilasciata a Emmanuel Burdeau nei «Cahiers
du Cinéma» volume Hou Hsiao Hsien, Parigi 1999, p. 66.
5. Nel film di Oliver Assayas HHH – Ritratto di Hou Hsiao Hsien
(1997).
6. Growing up era infatti il titolo del primo film in cui ha lavorato insieme a Chu, senza dirigerlo, distribuito anch’esso nel 1983.
7. La prefettura di Miao Li, abitata soprattutto da popolazione hakka,
si trova nella zona nord-occidentale di Taiwan.
8. Il titolo cinese è Tongnian Wangshi (Ricordi d’infanzia). Il titolo inglese può essere confuso con quello molto simile del film di Douglas
Sirk A Time to Love and a Time to Die (1958), basato sul romanzo di
Erich Maria Remarque Tempo di vivere, tempo di morire (1954).
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9. Quemoy (Jinmen) era un avamposto militare del KMT in un arcipelago davanti alla costa di Fujian, duecentocinquanta chilometri a
ovest di Taiwan. Per molti anni fu sottoposta a continui bombardamenti da parte della Cina, e nell’agosto 1958 divenne il centro di una
crisi internazionale tra la Cina comunista e gli Stati Uniti che portò
allo spiegamento della Settima Flotta americana negli Stretti. A partire dal gennaio 2001 la Cina ha autorizzato gli scambi commerciali
e i viaggi diretti anche se limitati.
10. La colonna sonora di Dust in the Wind, primo lavoro del compositore Chen Ming-chan, scritta su una chitarra da venti dollari, ha vinto un premio al festival di Nantes. L’adattamento fatto da Chen di
una popolare canzone degli anni Trenta, Farewell Harbour, sarebbe
poi diventato il tema musicale di Il maestro burattinaio.
11. Questa seconda generazione – juan cun zidi – è stata a volte ingiustamente descritta con lo stereotipo della gioventù criminale.
12. Il film era prodotto da ERA, una società fondata dal produttore indipendente Chiu Fusheng, che ha fatto fortuna con il noleggio dei
video all’inizio degli anni Ottanta. Nato anche lui in un villaggio di
veterani, Chu è stato di grande aiuto nel promuovere la cooperazione attraverso gli Stretti producendo film come Lanterne rosse (1991)
di Zhang Yimou – al quale Hou ha lavorato come consulente per i
costumi – e altri film d’arte.
13. Liao Ping-hui, «L’abbandono della storia – riconsiderando City of
Sadness», in Mi Zou e Liang Xinghua, Xin Dianying Zhi Si (La morte
del cinema), Taipei 1991. Vedi anche Liao, Rewriting Taiwanese
National History: the February 28 Incident as Spectacle, in «Public
Culture», vol. 5, n. 2 (1993), pp. 281-96.
14. Intervista con Emmanuel Burdeau, Hou Hsiao Hsien, p. 80.
15. Lee Teng-hui è succeduto a Chiang Ching-kuo come capo di Stato
nel 1988 e ha introdotto la democrazia a Taiwan, diventando nel
1996 il primo presidente eletto dal popolo nella società cinese. Nei
primi anni della sua carica ha dato impulso alle arti, al cinema e al
teatro dei burattini, suscitando la stima di Hou. In seguito, quando
Lee ha creato la Taiwan Solidarity League di ispirazione radicale,
l’atteggiamento di Hou verso di lui si è raffreddato.
16. Xi Meng Rensheng, raccontato da Li Tien-lu e trascritto da Tseng
Yu-wen, Taipei 1991.
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17. Huang Ma Che Zhi Ge, pubblicato per la prima volta in Ren Jian nel
1998. In un articolo Hou ha elogiato Lan come una persona che non
ha avuto paura di lottare contro il nemico e l’ha appoggiato quando
si è presentato alle elezioni parlamentari dieci anni dopo. Il titolo del
libro e del film si riferisce a una canzone giapponese di addio degli
anni Venti, che il perseguitato politico Chung Hao-tung ha cantato
prima della sua esecuzione nel 1950, e che è stata registrata da Hou
e dalla famiglia Chu per essere utilizzata in Città dolente.
18. Coxinga (1624-62) – Mori o Fukumatsu in giapponese – era figlio
di un pirata cinese e di una giapponese, Tagawa Matsu. Il nome cinese Zheng Cheng-gong gli fu dato dall’ultimo imperatore della dinastia Ming. Avendo ereditato dal padre un esercito di pirati, lottò
contro i Mancia a Fujan e nel 1642 cacciò gli olandesi da Taiwan,
stabilendovi il suo breve ma cruciale regime, per lo sviluppo dell’isola nel XVII secolo. Oggi è celebrato sotto vari aspetti, come antesignano dell’indipendenza di Taiwan, come eroe nazionale della
lotta contro l’imperialismo occidentale, e come prova del legame di
lunga data fra il Giappone e la sua ex colonia. In origine Hou ebbe l’incarico di girare un lungometraggio a Hirato, la città natale di
Coxinga.
19. Hang Bangqing (1856-94), soprannominato Ziyum, pubblicò nel
1884-85 Hai Shang Hua Lie Zhuan (Storie dei fiori di Shangai). Alla fine degli anni Sessanta, Zhang mentre era a Berkeley in esilio
volontario ha tradotto il romanzo sia in mandarino contemporaneo
sia in inglese corredandolo di apparato critico. La traduzione in
mandarino sarebbe stata pubblicata a Taiwan in due volumi nel
1981. Quella in inglese, ritenuta perduta fino a poco tempo fa, è
stata pubblicata a New York nel 2005 con il titolo di Sing Song
Girls of Shangai.
20. Il termine è preso dal gioco d’azzardo e si riferisce alle prostitute
molto costose, che facevano pagare due dollari per la compagnia e
due dollari per il sesso.
21. Vedi il saggio di Chu Tien-wen sulle riprese di Flowers of Shangai, in
Liu Shaoming, Liang Bingjun, Xu Zidong, eds, Zai Du Zhang Ailing,
Jinan 2004.
22. Hou ha visto Sono nato, ma… per la prima volta solo nel 1985, dopo aver finito A Time to Live and a Time to Die.
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23. Vedi la mia analisi dell’opera di Yang, The Frustated Architect, «NLR
II», settembre-ottobre 2001, pp. 115-28, e l’intervista che la segue,
Taiwan Stories, pp. 129-37.
24. Il titolo cinese del film è Zui Hao de Shiguang o «Il tempo migliore».
Hou sottolinea che l’espressione non deve essere interpretata nostalgicamente, ma come riferimento a un passato che non può tornare.
25. «Un sogno d’amore», «Un sogno di libertà», «Un sogno di gioventù», da Farewell Harbour. I sottotitoli sostituiscono «sogno» con
«tempo».
26. Per l’alliance, vedi la tavola rotonda con Hou Hsiao Hsien, Chu
Tien-hsin, Tang Nuo e Hsia Chu-Joe, Tensions in Taiwan, «NLR»
28, luglio-agosto 2004, pp. 19-42.
27. Vedi Fagtan Hou Hsiao Hsien 2004 de Zhengzhi Canyu, nel primo
numero di «Sixiang» (Riflessione), marzo 2006, p. 260-80.
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