Scarica gli abstract delle lezioni del secondo anno di corso

Le Regge italiane dal Rinascimento al Novecento
Ottobre 2009 – maggio 2010
7 ottobre 2009
Il Vaticano di Giulio II e Leone X
Barbara Agosti
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Martedì 12 gennaio 2010
Il Castello di Masino
Lucetta Levi e Marco Magnifico
FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano
14 ottobre 2009
La corte di Ferrara al tempo di Alfonso I d’Este
Vincenzo Farinella
Università di Pisa
13 gennaio 2010
Le corti italiane fra Restaurazione e Risorgimento: Borbone e Savoia
Andrea Merlotti
Reggia di Venaria
21 ottobre 2009
Il Castello del Buonconsiglio al tempo del principe vescovo
Bernardo Clesio
Andrea Bacchi
Università degli Studi di Trento
20 gennaio 2010
Il cerimoniale pontificio
Marina Caffiero
Università degli Studi di Roma
28 ottobre 2009
La corte di Andrea Doria a Genova
Piero Boccardo
Direttore dei Musei di Strada Nuova, Genova
4 novembre 2009
Attraverso le dimore di Paolo III Farnese e dei suoi nipoti
Vittoria Romani
Università degli Studi di Padova
27 gennaio 2010
La Reggia di Caserta e le cacce dei Borboni
Marco Carminati
Storico dell’arte e giornalista
3 febbraio 2010
Il sistema delle regge vesuviane
Ippolita Di Majo
Università della Calabria
Università degli Studi di Udine
10 febbraio 2010
I Palazzi ducali di Parma e di Colorno da Luisa Elisabetta di Francia a
Maria Luisa
Giovanni Godi
Storico dell’arte
18 novembre 2009
Il Quirinale al principio del Seicento
Silvia Ginzburg
Università degli Studi di Roma Tre
17 febbraio 2010
Il Palazzo reale di Milano e la Villa reale di Monza
Fernando Mazzocca
Università degli Studi di Milano
25 novembre 2009
Il Palazzo Reale di Torino
Sandra Pinto
Soprintendente ai beni artistici e storici
24 febbraio 2010
Poggio imperiale a Firenze e Palazzo Pitti ai tempi dei Lorena
Enrico Colle
Università degli Studi di Bologna
2 dicembre 2009
Palazzo Pitti al tempo di Ferdinando II
Alessandro Cecchi
Direttore della Galleria Palatina e del Giardino dei Boboli
3 marzo 2010
Il Quirinale di Napoleone
Matteo Lafranconi
Galleria Nazionale di Arte Moderna – Roma
16 dicembre 2009
Venaria, Villa della regina, Stupinigi: spazi e immagini spettacolari per le
residenze extraurbane dei Savoia
Giuseppe Dardanello
Università degli Studi di Torino
10 marzo 2010
Il palazzo ducale di Lucca e le corti di Elisa Baciocchi e Maria Luisa di
Borbone
Enrico Colle
Università degli Studi di Bologna
11 novembre 2009
Il Palazzo dei dogi a Venezia
Stefania Mason
17 marzo 2010
Il Palazzo reale di Torino da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II
Francesco Leone
Università degli Studi di Chieti - Pescara
14 aprile 2010
I Castelli di Racconigi e Pollenzo: nostalgia del medioevo nell’età di Carlo
Alberto
Enrica Pagella
Direttore Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica –
Torino
21 aprile 2010
Massimiliano a Miramare, un sogno asburgico sull'Adriatico
Enrico Lucchese
Università degli Studi di Trieste
28 aprile 2010
Palazzo Pitti al tempo dei Savoia
Carlo Sisi
Università degli Studi di Siena
5 maggio 2010
Il Quirinale della Regina Margherita
Barbara Cinelli
Università degli Studi di Roma 3
12 maggio 2010
Mussolini tra Palazzo Venezia e Villa Torlonia
Paolo Rusconi
Università degli Studi di Milano
Mercoledì 7 ottobre 2009
Il Vaticano di Giulio II e Leone X
Barbara Agosti
La lezione considera le maggiori imprese artistiche che presero corpo nel palazzo apostolico sotto i pontificati di
Giulio II (1503 - 1513) e di Leone X (1513 - 1521), in una stagione in cui le vicende storiche della basilica e
l’allestimento degli ambienti della residenza papale sono indistricabilmente intrecciati agli sviluppi dei grandi fatti
figurativi della maniera moderna: il progetto di Michelangelo per la tomba di papa Della Rovere, la demolizione
dell’antico San Pietro, e la nuova decorazione della volta della Cappella Sistina; il cantiere delle Stanze di
Raffaello, le finalità dei programmi decorativi, il mecenatismo di Leone X; il ciclo dei cartoni per gli arazzi della
Cappella Sistina; l’appartamento del cardinal Bibbiena; le Logge; la Trasfigurazione di Raffaello, la ‘gara’ con
Sebastiano del Piombo, la Sala di Costantino.
Sono argomenti che coinvolgono opere e maestri specialmente illustri, su cui è impossibile tentare un conciso
bilancio bibliografico, e che verranno guardati qui soprattutto sotto il profilo dei rapporti tra committenti e
artisti, per come è possibile ricostruirli sulla base delle principali testimonianze documentarie e storiografiche, e
tenendo conto dello stato della ricerca.
(Per la storia della basilica in questo arco cronologico si può fare riferimento al volume La Basilica di San Pietro in
Vaticano, a cura di A. Pinelli, Modena 2000).
Nell’impianto della lezione largo spazio è lasciato alle fonti della letteratura artistica e ad altre voci della
storiografia cinquecentesca utili a ricostruire le origini e il significato delle opere prese in esame e il clima di
cultura in cui vennero progettate ed eseguite, come per esempio la guida alle meraviglie di Roma di Francesco
Albertini del 1510, il Principe di Machiavelli, il diario del cerimoniere pontificio Paride de Grassis, gli epistolari di
Pietro Bembo e di Bernardo Dovizi da Bibbiena, gli scritti in prosa e in versi di Baldassarre Castiglione, la
biografia di Leone X scritta da Paolo Giovio e uscita nel 1548, le Vite del Vasari nell’edizione del 1550 e del
1568, le lettere e i ricordi di Michelangelo e la Vita dell’artista pubblicata da Ascanio Condivi nel 1553, la
documentazione relativa all’attività di Raffaello e della sua bottega in Vaticano, o ancora la celebre descrizione
delle Stanze pubblicata nel 1695 da Giovan Pietro Bellori.
Per accostarsi a questi temi resta ancora oggi insostituibile, anche per quanto attiene la committenza dei due
pontefici in campo artistico, la Storia dei papi di Ludwig von Pastor, in particolare i volumi III per Giulio II, e IV,
1, per Leone X, usciti in traduzione italiana a Roma rispettivamente nel 1942 e 1943.
Bibliografia essenziale
- L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, voll. III, Roma 1942, e IV, 1, Roma 1943; per il vol. III è
importante la recensione di V. Cian, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, XXIX, 1897, pp. 403-453.
- Francesco Albertini, Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis Romae, [Roma 1510], in Codice topografico della
città di Roma, a cura di R.Valentini e G. Zucchetti, IV, Roma 1953, pp.457-546
- Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, La Calandria, [c.1513], a cura di P. Fossati, Torino 1967.
- Epistolario di Bernardo Dovizi da Bibbiena umanista e diplomatico (1470-1513), a cura di G. L. Moncallero,
Firenze 1955***
- P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, vol. I (1492-1507), Bologna 1987; vol. II (1508-1528), Bologna 1990
Prossima lezione: mercoledì 14 ottobre 2009
La corte di Ferrara al tempo di Alfonso I d’Este – Vincenzo Farinella
Mercoledì 14 ottobre 2009
La corte di Ferrara al tempo di Alfonso I d’Este
Vincenzo Farinella
La corte di Ferrara, nei tempi del terzo duca estense, Alfonso I d'Este (1505-1534), ha raggiunto il momento più
alto del suo sviluppo secolare: in questi anni, per merito di un committente d'eccezione, particolarmente versato
nel campo delle arti meccaniche, la città padana è diventata una vera e propria capitale della cultura italiana. Basti
ricordare la presenza di umanisti e poeti di fama europea (come Ludovico Ariosto) e l'attività di alcuni dei più
grandi pittori e scultori di questi anni (sia locali, come Ercole de' Roberti e Dosso Dossi, i "pittori di corte", sia
forestieri, come Antonio Lombardo, Giovanni Bellini, Tiziano, Fra Bartolomeo, Sodoma, Savoldo, Cristoforo
Solari, Michelangelo, solo per ricordare i nomi maggiori).
Purtroppo le più importanti imprese monumentali di Alfonso I (l'appartamento privato sulla via Coperta, la
delizia del Belvedere), distrutte per motivi politici o radicalmente trasformate dopo la devoluzione di Ferrara alla
Chiesa e l'esilio degli Este a Modena, oggi non esistono più: esistono però ancora, pur frammentarie e disperse, le
opere commissionate dal duca, capaci di rivelare un gusto figurativo aggiornatissimo, una sincera passione per le
arti e, al tempo stesso, una chiara coscienza del valore ideologico delle immagini, come mezzi per diffondere gli
ideali estensi. Sarà quindi proprio su queste "opere di Alfonso" che si concentrerà questa lezione, per recuperare
da una serie di capolavori travolgenti il senso di un'epoca di splendore culturale e per cogliere il peso di un
illuminato mecenatismo, nell'orientare gli sviluppi della nostra storia figurativa.
Prossima lezione: mercoledì 21 ottobre 2009
Il Castello del Buonconsiglio al tempo del principe vescovo Bernardo Clesio
Andrea Bacchi
Mercoledì 21 ottobre 2009
Il Castello del Buonconsiglio
al tempo del principe vescovo Bernardo Clesio
Andrea Bacchi
Fondato intorno alla metà del Duecento, il Castello del Buonconsiglio fu oggetto di importanti interventi edilizi
con Giorgio I di Liechtenstein (1390-1416), committente del celebre ciclo ad affresco dei Mesi in Torre Aquila e
soprattutto con Giovanni IV Hinderbach (1465-1486), cui si deve la ricostruzione in stile rinascimentale
dell’intero edificio originario, oggi noto come Castelvecchio. Sarebbe però stato Bernardo Clesio, vescovo dal
1514 al 1539, a mutare radicalmente l’aspetto dell’edificio grazie alla costruzione del Magno Palazzo: questo,
collocato a una distanza di circa 15 metri dal castello si sviluppa a meridione per altri 85 metri verso Torre
Aquila. Iniziati nel 1528, i lavori al Palazzo si sarebbero susseguiti incalzanti per circa dieci anni, seguiti
attentamente da Clesio che, a causa dei suoi importanti incarichi politici (fu cancelliere di Ferdinando I
d’Asburgo), soggiornava molto raramente a Trento viaggiando incessantemente fra Vienna, Praga, Ratisbona,
Augusta, Innsbruck e Linz. Non a caso egli è stato definito “mecenate per corrispondenza” poiché nelle
centinaia di lettere da lui inviate ai soprastanti della fabbrica è possibile capire come egli seguisse incessantemente
fin nei minimi dettagli lo svolgersi dei lavori. Fu intorno al 1530 che Clesio decise di convocare a Trento vari
artisti forestieri, italiani e tedeschi, per decorare gli ambienti appena costruiti del palazzo. Non a caso nel 1531
Giulio Romano lamentava “esser Mantova vota di pictori e doratori, perché molti ne sono andati a Trento”. E
così nel 1531-1532 il ferrarese Dosso Dossi, il friulano Marcello Fogolino, il bresciano Girolamo Romanino, il
veronese Alessio Longhi, il volterrano Zaccaria Zacchi, i vicentini Girolamo e Vincenzo Grandi si trovarono a
lavorare fianco a fianco nelle stanze del Palazzo. Prendeva così vita un complesso decorativo assolutamente
originale dove i rimandi ai modelli romani, ferraresi e mantovani venivano declinati in modi del tutto nuovi
grazie alla vicinanza con il mondo tedesco. Inaugurato ufficialmente in occasione della solenne visita trentina di
Ferdinando re dei Romani e della consorte, Anna d’Ungheria, il 12 settembre 1536, tre anni più tardi, nel 1539, il
palazzo fu oggetto del poema Il Magno Palazzo del cardinale di Trento scritto dal medico personale del cardinale, il
senese Pier Andrea Mattioli. Si tratta di uno degli esempi più precoci di descrizione a stampa di un ciclo
decorativo e ancora oggi uno degli strumenti più preziosi, insieme alle lettere di Clesio, per ricostruire idealmente
l’aspetto originario del Palazzo, forse la più straordinaria residenza principesca alpina costruita nel Cinquecento.
Bibliografia
- C.Ausserer, G.Gerola, I documenti clesiani del Buonconsiglio, Venezia 1934
- Il Castello del Buonconsiglio, a cura di E.Castelnuovo, vol.I, Percorso nel Magno Palazzo,Trento, 1995
- Il Castello del Buonconsiglio, a cura di E.Castelnuovo, vol. II, Dimora dei principi vescovi di Trento, Trento 1996
- Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, catalogo della mostra di Trento, Cinisello Balsamo 2006
- L.Gabrielli, Il Magno Palazzo del cardinale Bernardo Cles. Architettura ed arti decorative nei documenti di un cantiere
rinascimentale (1527-1536), Trento 2006
Prossima lezione: mercoledì 28 ottobre 2009
La corte di Andrea Doria a Genova
Piero Boccardo
Mercoledì 28 ottobre 2009
La corte di Andrea Doria a Genova
Piero Boccardo
Vissuto tra 1466 e 1560, Andrea Doria ha avuto la ventura di attraversare per intero il Rinascimento con un
ruolo fondamentale non solo per la storia d’Italia, ma anche – e questo è meno noto – per le arti. La sua esistenza
si divide in due periodi che, pur interconnessi, sono abbastanza diversi.
Figlio cadetto e quindi, data l’epoca, quasi di necessità avviato alla carriera di “soldato di ventura”, fin verso i
cinquant’anni operò più per terra che per mare e pur potendosene seguire le peripezie , non si riesce a saper
molto su esperienze culturali, contatti, idee… Quello che comunque spicca è la sua presenza in centri importanti
come Roma e Urbino in anni fatidici per le vicende dell’arte italiana. Tra i “nodi” ancora da chiarire va poi
annoverato un pellegrinaggio – inconsueto e relativamente pericoloso a quella data – a Gerusalemme.
Superati i cinquant’anni la sua vita ebbe una svolta: dal comando di terra passò definitivamente a quello di mare,
con una flotta sua, al servizio prima di Francesco I di Francia, poi di papa Clemente VII, nuovamente di
Francesco I e, infine, dall’estate 1528, a quello di Carlo V d’Asburgo. Il suo passaggio al soldo dell’Impero, e
della Spagna, contribuì non poco alla conclusione delle guerre d’Italia con la sconfitta della Francia, ma in questo
nuovo corso rientrò anche la rifondazione della Repubblica di Genova, da lui patrocinata, avendone per altro lui
stesso rifiutata la signoria.
A queste novità in ambito pubblico, altre se ne annoverano in quello privato: il matrimonio con una delle dame
di maggior lignaggio in Liguria, come Andrea già avanti negli anni, e la costruzione della sua residenza a Genova,
la dimora un tempo suburbana che tuttora porta l’emblematico nome di “Palazzo del Principe”.
E’ in questo edificio, che non ha precedenti nella tradizione genovese per dimensioni e fasto, che si vedono da
un lato recuperate le esperienze culturali che il Doria aveva maturato tra Urbino e Roma, e dall’altro espresse le
più aggiornate tendenze artistiche del tempo.
Come Federico Gonzaga si era da poco affidato a Giulio Romano, Andrea Doria si indirizzò verso l’altro
“talentoso” allievo di Raffaello, Perin del Vaga, cui attribuì la direzione dei lavori consistiti nella sistemazione
architettonica del palazzo – soprattutto il piano nobile, strutturato secondo i criteri del tempo in due
appartamenti simmetrici ciascuno destinato a uno dei due novelli sposi – e in quella dei giardini; nella
realizzazione degli elementi scultorei (portali, camini…); nella decorazione a fresco e a stucco delle volte secondo
un elaborato programma iconografico che deve aver visto coinvolto anche qualche erudito; nella predisposizione
degli elementi di arredo, in particolare gli arazzi concepiti in stretto rapporto con la decorazione.
Accanto a Perin del Vaga, oltre a una schiera di artefici e collaboratori tra i quali meritano di essere menzionati lo
scultore Silvio Cosini, lo stuccatore Luzio Romano e il pittore Prospero Fontana, furono attivi all’interno di
singoli episodi di committenza doriana, altri due campioni del Cinquecento italiano: Domenico Beccafumi e
Giovanni Antonio de Sacchis detto il Pordenone.
Poiché Andrea Doria era un personaggio pubblico più di fatto che di diritto, i documenti che restano sulla
cerchia di intellettuali e di artisti che dovettero costituire quella che nel caso dei sovrani si chiama corte, non sono
atti ufficiali di stato, cioè prodotti all’interno dell’organizzazione del potere, ma solo le carte sopravvissute
all’interno di un archivio familiare – quello Doria Pamphilj di Roma – il cui fondamento organizzativo, come
nella maggior parte di questi casi, era la gestione del patrimonio, ovvero era poco attento agli aspetti culturali di
una stagione di mecenatismo straordinaria, già allora assai celebrata e propedeutica alla fioritura artistica di
Genova nei decenni a seguire.
Prossima lezione: mercoledì 4 novembre 2009
Attraverso le residenze di Paolo III Farnese e dei suoi nipoti
Vittoria Romani
Mercoledì 4 novembre 2009
Attraverso le residenze di Paolo III Farnese e dei suoi nipoti
Vittoria Romani
Prendendo le mosse dallo splendido ritratto eseguito da Tiziano per Paolo III e per i suoi nipoti, il cardinale
Alessandro e Ottavio Farnese, oggi a Capodimonte, la lezione affronta il tema del rilancio della Roma antica e
moderna promosso dal papato farnesiano dopo i terribili anni che seguono il sacco di Roma. Animato da un
autentico fervore di ricostruzione il papa, dopo aver riavviato il cantiere di San Pietro, fermo da molto tempo, e
intrapreso la riqualificazione del colle del Campidoglio, concentra le proprie energie sulla fabbrica del palazzo di
famiglia in Campo dei Fiori, affidato a Antonio da Sangallo, quindi a Michelangelo che concepisce un grandioso
progetto per il cortile e l’ala verso il Tevere, mai interamente realizzato. Negli stessi anni, con la collaborazione
del castellano Tiberio Crispo, Paolo III fa allestire per sè un appartamento in Castel Sant’Angelo la cui
decorazione, commissionata per la parte più prestigiosa a Perino del Vaga, allievo di Raffaello, segna l’avvio di
una stagione decorativa di gusto fortemente antichizzante, caratterizzata da una grande originalità di schemi e di
invenzioni e da una pittura elegante, raffinata, colta e preziosa che aspira a ricreare il clima felice della Roma di
Leone X.
Negli stessi anni il cardinale Alessandro patrocina la decorazione della Sala dei Cento Giorni nel Palazzo della
Cancelleria, sua residenza in quanto vice-cancelliere, affidandola a Giorgio Vasari che con la consulenza dello
storico comasco Paolo Giovio dipinge il primo ciclo celebrativo dedicato alle imprese del pontificato Farnese.
Questo è seguito a breve distanza da una nuova saga familiare, diversa negli intenti e nel programma, dispiegata
nelle pareti del Salotto di Palazzo Farnese per volontà del cardinale Ranuccio Farnese, fratello minore di
Alessandro. Qui entra in scena un altro pittore toscano, amico e sodale di Vasari, Francesco Salviati, artista di
grande qualità e squisita intelligenza decorativa.
Morto il papa (1549), è il cardinale Alessandro, con le sue notevoli doti di politico e la sua entratura nelle corti
europee, a guidare le sorti del casato e a sostenere il fratello Ottavio nell’impresa di riconquistare i ducati di
Parma e Piacenza che Paolo III aveva sottratto ai beni della Chiesa per assicurare al proprio casato uno stato
territoriale prestigioso. A partire dalla fine degli anni cinquanta Alessandro promuove l’ambizioso cantiere della
villa Farnese di Caprarola, nei pressi del lago di Vico, una villa in forma di fortezza costruita dal Vignola e molto
celebrata dai contemporanei, resa amena da vasti cicli pittorici e scenografici giardini con catene d’acqua.
Negli stessi anni a Parma il duca Ottavio fa allestire una residenza di piacere al di là del torrente omonimo, il
Palazzo del Giardino, ricco un tempo di affreschi che le ristrutturazioni hanno gravemente diminuito.
Sopravvive però la decorazione della Stanza detta del Bacio, dove si mette in scena con grande originalità
l’episodio della fonte del Riso tratto dall’Orlando innamorato del Boiardo, ispirandosi a una tradizione pittorica
settentrionale che ha i suoi precedenti in Parmigianino, in Pellegrino Tibaldi e Nicolò dell’Abate.
Bibliografia essenziale
- Barbara Agosti, Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del Cinquecento, Firenze, 2008.
- Antonio Pinelli, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, 1993.
- Giovann Sapori, Dal programma al dipinto: Annibal Caro, Taddeo Zuccari, Giorgio Vasari, in Storia della lingua e storia
dell’arte in Italia. Dissimmetrie e intersezioni, atti del covegno a cura di V. Casale e P. d’Achille, Firenze, 2004, pp. 199220.
- Paola Barocchi, Vasari pittore, Milano, 1964.
- Italo Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, prefazione di Mario Praz, Torino, 1981.
- Gli affreschi di Paolo III a Castel Sant’Angelo 1543-1548. Progetto ed esecuzione, catalogo della mostra a cura di Eraldo
Gaudioso e Filippa Aliberti Gaudioso, 2 voll., Roma, 1981.
- Le Palais Farnèse, 3 vol., Roma, 1981.
- Elena Parma Armani, Perino del Vaga. L’anello mancante, Genova, 1986.
- Diane de Grazia, Bertoia, Mirola and the Farnese Court, Bologna, 1991.
- Luisa Mortari, Francesco Salviati, Roma, 1992.
- Clare Robertson, ‘Il gran cardinale’. Alessandro Farnese Patron of the Arts, New Haven and London, 1992.
- Julian Kliemann, Gesta dipinte. La grande decorazione nelle dimore italiane dal Quattrocento al Seicento, Cinisello Balsamo
(Milano), 1993.
Prossima lezione: mercoledì 11 novembre 2009
Il Palazzo dei dogi a Venezia
Stefania Mason
Mercoledì 11 novembre 2009
Il Palazzo dei dogi a Venezia
Stefania Mason
Nel secondo decennio del IX secolo, quando la sede del ducato veneziano si trasferisce da Malamocco alle isole
di Rivoalto, l’insediamento del doge nell’antico castellum fortificato all’ingresso del Canal Grande appare la più
naturale. Su quest’area nei secoli successivi si doveva sviluppare e completare quel complesso urbanistico
monumentale che divenne presto il centro politico, religioso e sociale della città.
La Serenissima nei vari secoli profuse somme ingenti affinché l’aspetto esterno ed interno di Palazzo Ducale
fossero espressione concreta di una concezione ideale, qual è quella dello stato politico, dove trovarono spazio i
suoi diversi organismi, e tra questi il Maggior Consiglio che andò assumendo funzioni sempre più importanti,
limitando gradualmente il potere del doge, carica elettiva, che pur mantenne interamente il suo valore simbolico.
La continuità della millenaria Repubblica di Venezia viene così illustrata dal suo maggior monumento artistico:
non soltanto splendida reggia della più alta magistratura ed espressione della grandezza di una struttura politica,
ma anche sede privilegiata di una politica tradotta in forme visibili attraverso la rappresentazione degli artisti, da
Guariento a Gentile e Giovanni Bellini, a Tintoretto e Veronese, che nei secoli contribuirono alla decorazione
delle sue sale.
I documenti storici ci permettono di ricostruire una storia delle pitture di Palazzo Ducale, secondo una linea di
sviluppo che passa attraverso i momenti epici della storia dello stato, spesso tormentata da eventi tragici e
calamità, primi tra tutti i disastrosi incendi che vi portarono almeno tre volte grande rovina, ma al tempo stesso
rilevanti novità, in un rigoroso programma di esaltazione che va sotto il nome di “mito di Venezia”.
Prossima lezione: mercoledì 18 novembre 2009
L’ITALIA NEL XVI SECOLO
Il Quirinale al principio del Seicento
Silvia Ginzburg
L’ITALIA NEL XVI SECOLO
Mercoledì 18 novembre 2009
Il Quirinale al principio del Seicento
Silvia Ginzburg
Sulla collina di Montecavallo, dove nei mesi caldi il clima più salubre offriva riparo alla “mal’aria” che opprimeva
il Vaticano, nel sito dove alla metà del Cinquecento sorgeva la vigna di Ippolito d’Este, celebrata per i magnifici
giardini da Tasso e da Montaigne, il papa Gregorio XIII Boncompagni aveva commissionato all’architetto
bolognese Ottaviano Mascarino l’edificazione di una palazzina, eretta tra il 1583 e il 1585 e ampliata di lì a poco
da Domenico Fontana per ordine di Sisto V in quanto “incapace alla corte di un tanto Principe”.
Concepita ancora soprattutto come rifugio estivo alla fine del secolo XVI, all’inizio del successivo la residenza
del Quirinale divenne per volontà di Paolo V un vero e proprio palazzo pontificio, in grado di funzionare come
sede alternativa al Vaticano e di costituire un polo d’attrazione della corte verso una diversa zona della città, nella
quale la basilica di riferimento invece di San Pietro, la quale pure nel contempo veniva fatta oggetto della
massiccia ondata di rinnovamento architettonico che fece paragonare il pontificato Borghese a quello di Sisto V,
diventava Santa Maria Maggiore, dove il papa faceva edificare e decorare la propria cappella.
Per rispondere al ruolo ufficiale che Paolo V volle affidare al palazzo di Montecavallo, i nuovi spazi, nella
concezione dei quali traspare il riferimento costante al modello vaticano, vengono fatti oggetto in un giro
brevissimo di anni di una campagna decorativa di grande rilievo, nella quale la scelta degli artisti coinvolti rivela
l’influenza del gusto moderno del nipote del pontefice, il cardinale Scipione Borghese. La cappella privata del
Papa e la grande sala delle udienze vengono decorate da due cicli di affreschi che contano tra i principali esempi
romani del tempo: al primo, dedicato alla celebrazione della Vergine Annunciata e del dogma dell’Immacolata
concezione, lavorò nel 1610 il bolognese Guido Reni con la collaborazione di Francesco Albani, Giovanni
Lanfranco, Antonio Carracci; nel secondo, che si sviluppa nella parte alta delle pareti della Sala Regia, oggi detta
dei Corazzieri, operarono congiuntamente tra 1616 e 1617 Giovanni Lanfranco, Carlo Saraceni e Agostino Tassi,
con la partecipazione dei veronesi Alessandro Turchi e Marcantonio Bassetti e di Giovanni Antonio Galli detto
lo Spadarino.
Eseguite a breve distanza di tempo ma in realtà in due momenti molto differenti, ponendosi al di qua e al di là
del conflitto tra Guido Reni e i Borghese che nel 1614 determinerà quella partenza definitiva del pittore da Roma
da cui deriveranno molte conseguenze sul panorama artistico romano che proprio la storia delle commissioni per
Montecavallo permette di riconsiderare da vicino, le decorazioni della Cappella dell’Annunciata e della Sala Regia,
compiute rispettivamente da pittori emiliani usciti dalla scuola dei Carracci e da artisti precocemente investiti dal
modello caravaggesco, documentano la natura delle forze in campo, ma anche la complessità dei presunti
schieramenti, all’immediata vigilia della piena affermazione del nuovo stile che si chiamerà barocco.
Nella Roma del primo Seicento, il passaggio dal predominio degli artisti emiliani nella decorazione sacra e
profana del primo decennio del secolo all’imporsi di un nuovo panorama in cui sempre più anche ai pittori
caravaggeschi vengono commissionati cicli d’affreschi e pale d’altare è esemplificato da queste due imprese per il
Quirinale, che documentano una tappa che prepara l’affermazione del linguaggio barocco, emerso proprio dal
bisogno di interpretare quelle istanze di illusionismo naturalistico che la fortuna del modello caravaggesco
portava con sé e che da un lato con le ricerche di Reni, dall’altro con l’opera degli artisti che avevano sostituito
nelle committenze il vuoto da lui lasciato, si erano ormai imposte nel pontificato Borghese.
Prossima lezione: mercoledì 25 novembre 2009
Il Palazzo Reale di Torino
Sandra Pinto
Mercoledì 25 novembre 2009
Il Palazzo Reale di Torino
Sandra Pinto
Il leit motiv della conferenza è il ruolo tra virgolette museologico che riveste, senza ovviamente ufficializzarlo,
Margherita regina d’Italia nel fissare l’immagine del Palazzo reale di Torino nella fisionomia con cui si presenta al
pubblico dall’inizio del secolo ventesimo, vale a dire, come tutte le altre residenze già di Stato, non più come
rappresentativo del potere reale, ma come testimonianza d’arte e di storia in funzione didattica.
La prima parte dell’intervento riguarda il gusto della modernità belle epoque della regina quale si manifesta in altre
residenze dove ha abitato, a Firenze, Monza, Roma, nel momento in cui trionfa la moda eclettica, dannunziana,
di un “design” che predilige l’antiquariato, l’estremo oriente, il moresco, e si mescola col gusto parigino del
secondo impero come con quello dei buyers milionari americani in Italia.
La seconda parte è intesa a interpretare le ragioni del suo intervento in Palazzo Reale, in specie al primo piano
nobile, più doverosamente storicizzabile: un intervento, ai fini di un percorso di visita, molto intelligente, benché
reso molto meno chiaro dalle non numerose ma significative modifiche apportate senza criteri univoci nel secolo
scorso, sul quale varrebbe ancora la pena di riflettere prima di adottare soluzioni più arbitrarie.
Prossima lezione: mercoledì 2 dicembre 2009
Palazzo Pitti al tempo di Ferdinando II
Alessandro Cecchi
L’ITALIA NEL XVII SECOLO
Mercoledì 2 dicembre 2009
Palazzo Pitti al tempo di Ferdinando II
Alessandro Cecchi
Il Palazzo Pitti, oggi sede di un complesso museale statale senza eguali, è stato dalla fine del Cinquecento in poi
una reggia che ha ospitato generazioni di sovrani delle dinastie Medici, Lorena e Savoia. Ha subito perciò una
progressiva trasformazione sia all’esterno che all’interno, passando dal nucleo originario quattrocentesco, di sole
sette finestre, fino all’attuale facciata che si estende anche sui lati, nei due rondò settecenteschi. Succeduto al
padre Cosimo II, scomparso prematuramente a soli trentun’anni nel 1621, dopo aver profuso denari ed energie
nel Giardino di Boboli, nell’ampliamento del palazzo, nell’arricchimento della sua decorazione e nell’incremento
delle collezioni, Ferdinando II de’Medici (Firenze, 1610 – 1670), al governo del granducato dal 1628 per
quarantadue anni, fece raggiungere al palazzo la sua maggiore estensione, entro gli anni quaranta del Seicento,
come si vede nell’incisione dello Zocchi del 1744 e, dopo il suo matrimonio con la cugina Maria Vittoria della
Rovere nel 1634, diede inizio ad una serie di commissioni ai maggiori artisti del tempo per la decorazione di
quella che doveva divenire la reggia più fastosa d’Europa, con interni sontuosi celati dalla ruvida scorza dello
scabro e possente bugnato, di matrice ancora brunelleschiana, che riveste la sua facciata.
Al suo illuminato mecenatismo si deve infatti la Grotta di Mosè del Cortile dell’Ammannati e la maggior parte degli
affreschi dei saloni della residenza, ad iniziare dal Quartiere d’Estate, a piano terreno, con il Salone di Giovanni
da San Giovanni (1635-1642) e le sale attigue dell’odierno Museo degli Argenti, decorate dai ‘quadraturisti’
bolognesi Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli (1637-1641). Contemporaneamente, Pietro da Cortona
aveva fornito un saggio della sua abilità nelle Età dell’Oro e dell’Argento affrescate nella Sala della Stufa, per poi far
ritorno a Firenze nel 1641 e cimentarsi in quella che è universalmente ritenuta il suo capolavoro, la decorazione
delle cinque Sale dei Pianeti, sulla facciata (1641 – 1665), sale di rappresentanza e di ricevimento del sovrano,
dedicate a Venere, Apollo, Marte, Giove e Saturno e affrescate con una partitura sovente di stucchi
monumentali, con l’ausilio dell’allievo e collaboratore Ciro Ferri, nelle volte delle sale di Apollo e di Saturno.
Il palazzo non era soltanto la residenza di Ferdinando II, della sua famiglia e della sua corte, ma, negli anni
sessanta del Seicento, a quanto risulta dagli inventari e dalle piante del guardaroba Marmi, vi abitavano, con i loro
seguiti, i fratelli del sovrano, il cardinale Giovan Carlo (1611-1663), il principe Mattias (1613-1667), il principe
Leopoldo, dal 1663 elevato alla porpora cardinalizia in luogo del fratello defunto, e l’erede al trono, il Gran
Principe Cosimo, futuro Cosimo III (1642 – 1723), con la consorte francese, cugina del Re Sole, Marguerite
Louise d’Orleans (1645 – 1721).
Diversi di loro furono appassionati collezionisti, protettori delle arti, delle lettere e delle scienze e contribuirono
in misura determinante all’arricchimento delle collezioni di famiglia con opere, in parte ancor oggi nella Galleria
Palatina. Fra di loro si distinse il principe-cardinale Leopoldo, acquirente di pezzi famosi come il Concerto di
Tiziano, allora ritenuto di Giorgione, iniziatore della collezione degli autoritratti di artisti, oggi ospitati agli Uffizi,
e della raccolta di disegni antichi, oggi ricchissima, nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.
Anche Ferdinando si aggiudicò capolavori come l’Assunta Passerini di Andrea del Sarto o il Ritratto del cardinal
Bentivoglio di Anton Van Dick e si spense, il 24 maggio del 1670 in quel palazzo che più di ogni altro aveva
ingrandito e abbellito, come può ancor oggi constatare chi visiti la Galleria Palatina o il Museo degli Argenti e
trovi le opere, incastonate come gemme preziose, in ambienti di uno splendore e una ricchezza inusitati.
L’ITALIA NEL XVII SECOLO
Prossima lezione: mercoledì 16 dicembre 2009
Venaria, Villa della Regina, Stupinigi:
spazi e immagini spettacolari per le residenze extraurbane dei Savoia
Giuseppe Dardanello
Mercoledì 16 dicembre 2009
Venaria, Villa della Regina, Stupinigi:
spazi e immagini spettacolari per le residenze extraurbane dei Savoia
Giuseppe Dardanello
Venaria, Villa della Regina e Stupinigi: sono alcune tra le residenze extraurbane dei Savoia che con l’arrivo di
Filippo Juvarra a Torino nell’ottobre del 1714 furono sostanzialmente rinnovate, le prime due, o progettate e
costruite interamente ex novo, nel caso di Stupinigi, per il primo re dello Stato sabaudo, Vittorio Amedeo II. Nel
1713, infatti, con il Trattato di Utrecht, al ducato di Savoia era stata riconosciuta la dignità di regno e la chiamata
dell’architetto messinese era funzionale a ridisegnare una immagine della dinastia e del suo sovrano confacente al
nuovo status.
L’architettura era già stata per i Savoia uno strumento formidabile di affermazione e di riconoscibilità sul piano
internazionale: per tutto il Seicento i duchi avevano investito sull’immagine della città uniforme, regolare,
scandita dalla ripetizione senza fine di facciate tutte uguali. Una immagine fissata come segno del buon governo
dello Stato e della dinastia regnante e propagandata con lo strumento editoriale del Theatrum Sabaudiae: un atlante
figurato delle città del Piemonte e della Savoia, tutte rivestite dal medesimo segno uniformante della regolarità
condizionante nell’apparenza delle facciate.
Investito del compito di assicurare al sovrano un confacente terreno di rappresentazione pubblica, Juvarra gioca
la sua partita su di un piano diverso e quasi in antagonismo con quella precedente immagine, intervenendo per
accenti mirati sulla dignità dei singoli edifici, portati ciascuno ad esprimere il proprio ruolo in una precisa scala
gerarchica: una operazione condotta servendosi degli strumenti espressivi del linguaggio architettonico, in primo
luogo il disegno degli ordini architettonici e l’ornato.
Ma Juvarra non progetta soltanto fabbriche per soddisfare le contingenze della domanda di Vittorio Amedeo II:
tutti i suoi interventi sono una riflessione sui prototipi delle diverse parti che devono venire a comporre il
‘palazzo reale’ di un sovrano assoluto dell’Europa moderna.
Così Palazzo Madama è il pretesto per studiare lo ‘scalone’; Rivoli, Villa della regina e Stupinigi offrono
l’occasione di elaborare l’ambiente del ‘salone magnifico; alla Venaria Reale e a Palazzo Reale ha modo di
sperimentare due tipi di ‘galleria’, l’una destinata alle collezioni di scultura, l’altra alle collezioni di pittura; Venaria
e Superga diventano i luoghi di concertazione del modello della ‘cappella di corte’; mentre gli edifici di servizio
per la caccia per i giardini sono messi a punto nei progetti per Stupinigi e per la Venaria Reale.
All’interno dei più vasti interventi di rinnovamento della Venaria Reale e di Villa della regina e nel progetto per la
Palazzina di caccia di Stupinigi, il breve percorso che si presenta illustra il lavoro condotto da Juvarra nel
configurare i prototipi della galleria, dell’orangerie, della cappella regia e del salone. Se ne esamineranno alcuni
aspetti dell’iter progettuale, con particolare attenzione agli strumenti di sensibilità spaziale e per la luce utilizzati
l’architetto, e alla sua peculiare capacità di attingere a un ampio repertorio di conoscenze della storia
dell’architettura per ricondurlo alle specifiche necessità cerimoniali, di immagine e di ornamentazione richieste
dal luogo e dall’occasione.
Prossima lezione: martedì 12 gennaio 2010
Il Castello di Masino
Lucetta Levi e Marco Magnifico
Martedì 12 gennaio 2010
Il Castello di Masino
Lucetta Levi e Marco Magnifico
Il Castello di Masino, grazie alla sua posizione strategica, che permetteva il controllo su un ampio territorio tra
Ivrea, Vercelli, la Valle d’Aosta e la pianura verso Torino, ebbe origini molto antiche. In origine infatti si trattava
di una semplice fortificazione a pianta quadrata con torri angolari.
Il Castello, che venne presumibilmente demolito alla metà del XVI secolo e ricostruito nel corso del Seicento, fu
sempre appartenuto alla famiglia Valperga, che lo abitò fino al 1987, anno della morte della Marchesa Vittoria
Leumann, moglie di Cesare Valperga di Masino. I conti di Masino avevano sempre rivendicato origini molto
antiche anche se non storicamente documentate, fino al tentativo di risalire ad Arduino, re d’Italia dal 1002. I
Masino parteciparono nei secoli alla vita politica di molte corti europee, ma soprattutto di quella sabauda, come
consiglieri e alti funzionari dei duchi Ludovico di Savoia ed Emanuele Filiberto, dei sovrani come Vittorio
Amedeo II e Vittorio Amedeo III. Alla morte della marchesa Vittoria, nel 1987, il Castello, dichiarato nel 1988 di
alto interesse storico artistico dal Ministero per i Beni Culturali, venne acquisito dal FAI - Fondo Ambiente
Italiano. Il monumento raccoglie dunque mille anni di storia della famiglia e rappresenta un importante
documento della storia dell’arte decorativa italiana e del gusto dell’abitare: mobili, tessuti, affreschi e oggetti d’arte
contribuiscono nel loro insieme a restituire al pubblico la ricchezza di una piccola reggia piemontese.
Il vasto parco era originariamente impostato su un disegno “all’italiana”, come dimostra il profilo regolare delle
aiuole del Giardino dei Cipressi e di quello sui fronti est e sud dell’edificio. A metà Ottocento i conti di Masino,
nella persona di Eufrasia Solaro di Villanova Solaro, moglie del conte Carlo Francesco III, progettarono una
profonda trasformazione del parco sui modelli inglesi come dimostrano i percorsi più tortuosi, ricchi di sorprese
tra le quali spicca un tempietto neogotico disegnato negli anni Venti dell’Ottocento. Questa trasformazione
coinvolse anche la disposizione delle case del borgo, che si allinearono sull’asse attuale che unisce la piccola
Chiesetta di San Rocco, all’inizio del paese, con la chiesa parrocchiale ai piedi del Castello.
Prossima lezione: mercoledì 13 gennaio 2010
Le corti italiane fra Restaurazione e Risorgimento: Borbone e Savoia
Andrea Merlotti
Mercoledì 13 gennaio 2010
Le corti italiane fra Restaurazione e Risorgimento: Borbone e Savoia
Andrea Merlotti
L'Ottocento segnò la conclusione della lunga storia delle corti italiane. Per secoli le città della Penisola erano
state sede di sistemi curiali, a lungo modello per la società dei principi di tutta Europa. L'estinzione, durante il
Settecento, di alcune fra le principali dinastie italiane (Gonzaga, Medici, Este) e l'assegnazione dei loro troni a
rami degli Asburgo e dei Borbone causò profondi cambiamenti: portò, innanzitutto, a una maggiore uniformità
delle corti della Penisola, che persero quelle specificità che nei secoli precedenti avevano caratterizzato ciascuna
di esse. Nello stesso tempo i nuovi sovrani non sempre diedero alle loro corti il ruolo che esse avevano avuto in
precedenza. Esemplare, in questo senso, il caso toscano: Francesco Stefano di Lorena, nuovo granduca dal 1737,
tenne di fatto chiusa la corte per un trentennio e il figlio Pietro Leopoldo la riaprì fra 1765 e 1766, dandole
strutture e funzioni ben diverse da quelle che aveva avuto nei secoli dei Medici. Un quadro che si completa con
la crisi della corte papale, che perse ormai del tutto l'importanza di modello ordinatore che aveva mantenuto sino
alla metà del Seicento.
Nella seconda metà del Settecento il sistema curiale italiano era organizzato, così, attorno a due centri: Torino e
Napoli. Grazie alla sua antichità e al successo politico della sua dinastia, la corte dei Savoia era considerata la più
importante della Penisola. L'Accademia Reale e la Scuola dei paggi erano diventate il principale centro di
formazione delle èlites aristocratiche europee, soprattutto inglesi, tedesche e russe. Dall'altro capo della Penisola,
la corte di Napoli, grazie anche al rapporto dinastico con la corte di Madrid, mantenne un forte carattere
internazionale, in primis all'interno del sistema degli onori borbonico, ed ebbe un ruolo centrale nei processi con
cui Carlo III prima e Ferdinando I (IV) poi cercarono di dare al Regno le strutture di uno Stato moderno.
Entrambe le corti vissero una fase di crisi durante l'età napoleonica. La corte di Torino fu chiusa e i sovrani
sabaudi dovettero ritirarsi in Sardegna. La corte di Napoli subì un analogo destino, trovando in Palermo e nella
Sicilia una sede peraltro più consona alla prosecuzione della vita curiale. I ceti dirigenti di entrambi i regni per
alcuni anni si inserirono nelle corti napoleoniche. La nobiltà napoletana costituì il nerbo della corte di
Gioacchino Murat; quella piemontese si ricollocò progressivamente o direttamente nelle corti di Napoleone e in
quella che l'imperatore costituì a Torino attorno al principe Camillo Borghese e a sua moglie Paolina Bonaparte.
Alla Restaurazione le corti di Torino e Napoli ripresero il ruolo che avevano avuto nel secolo precedente, ma con
esiti assai diversi. Se, infatti, durante i regni della prima Restaurazione (1814-1830) esse presentavano caratteri
simili, a partire dai regni di Carlo Alberto in Piemonte (1831-1849) e di Ferdinando II a Napoli (1830-1859)
presero strade via via divergenti. La corte napoletana si rivelò incapace di rinnovarsi e, pur mantenendo un peso
politico rilevantissimo nella vita del regno, rimase sino alla sua chiusura nel 1860 una corte d'antico regime.
Carlo Alberto, invece, fra 1848 e 1849, affidò a Vincenzo Gioberti (che era stato cappellano di corte per diversi
anni prima d'esser costretto all'esilio per le sue opinioni liberali) il compito di trasformare la corte sabauda nella
corte di una monarchia costituzionale. Gioberti prese a modello, anche se non unico, la corte di Luigi Filippo, il
re di Francia che dopo la rivoluzione del 1830 aveva rinnovato profondamente la monarchia dei Borboni (un
modello a lui ben noto, avendo vissuto a lungo a Parigi, durante l'esilio). Nacque così una corte assai agile, di
carattere prevalentemente militare, priva di tutte quelle cariche che segnavano tradizionalmente le corti d'antico
regime (dal ciambellano al gran maestro, dai maggiordomi ai gentiluomini), che ben si sposava con la struttura di
una monarchia costituzionale. La caduta della monarchia di Luigi Filippo e l'ascesa al trono di Napoleone III
modificò fortemente la struttura della corte francese, che riprese ruolo e funzioni dei tempi di Napoleone, il
quale aveva voluto, sin dai tempi in cui era primo console, una corte molto simile a quelle di antico regime. La
corte di Vittorio Emanuele II si trovò, quindi, a esser una sorta di unicum fra quelle delle grandi monarchie
europee. Il sovrano ne mantenne inalterata la struttura anche dopo la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861,
limitandosi a riportare in vita alcune grandi cariche di corte (come il gran scudiere o il gran cacciatore). La corte
sabauda, passata senza grandi cambiamenti dal Regno di Sardegna al Regno d'Italia, fu quindi nel secondo
Ottocento una delle più moderne e "borghesi" d'Europa. Una caratteristica frutto della riforma voluta da Carlo
Alberto e Gioberti, e che ben spiega il ruolo propulsivo e aggregatore avuto durante gli anni del regno di
Umberto I e Margherita, quando rappresentò, anzi, uno dei principali terreni di aggregazione dei ceti dirigenti
della Penisola e quando la corona ne seppe fare uno straordinario strumento di organizzazione del consenso.
Prossima lezione: mercoledì 20 gennaio 2010
Il cerimoniale pontificio
Marina Caffiero
Mercoledì 20 gennaio 2010
Il cerimoniale pontificio
Marina Caffiero
Da qualche decennio, la diffusione degli studi di "teologia politica" ha moltiplicato le ricerche storiche sulla
liturgia del potere degli Stati di età moderna tra Cinquecento e Settecento. Tali ricerche hanno ricevuto
particolare slancio dalla "scoperta" recente dell'opera di Ernst Kantorowicz sulla duplicità del corpo del re - il
corpo naturale e quello politico - e di quelle del suo allievo Ralph E. Giesey sulle cerimonie come "linguaggi" del
potere sovrano da decodificare nei loro significati politici, in quanto strumenti efficaci dell'affermazione del
potere . La cerimonia fa, costruisce, lo Stato moderno e lo "dice" attraverso il linguaggio rituale. Sul piano
metodologico, importante è stato anche l'apporto degli studi antropologici, che si sono occupati tanto delle
rappresentazioni e della sacralità del potere espressi dalle cerimonie ufficiali quanto della dimensione
sublimatoria, di ricomposizione dell’unità di una comunità e di reintegrazione di crisi e conflitti sociali costituiti
dalle rappresentazioni rituali .
I rituali pubblici rappresentavano in età moderna – ma anche successivamente – una dimensione in cui sfera del
sacro e sfera del politico si intersecavano, all’interno di processi di sacralizzazione del potere che ne
accrescevano prestigio, autorevolezza e legittimità (M. Bloch). Il sacro occupa dunque un posto capitale nella
essenza e nelle manifestazioni del potere politico e il linguaggio rituale è anche un linguaggio politico. Rituali e
cerimoniali inoltre, poiché sono atti pubblici e collettivi producono identità e spirito di comunità, nelle città
interessate, sanciscono simbolicamente l’appartenenza ad essa, costruiscono un tessuto di rapporti sociali teso al
mantenimento della pace e della concordia e a configurare una società unita, disciplinata, regolata , facile da
controllare da parte delle autorità religiose e secolari. La stessa sacralizzazione del potere politico che avviene
attraverso i cerimoniali si riverbera sui giorni e sui luoghi protagonisti degli eventi attivando periodicamente un
tempo e uno spazio sacro cittadini. Ovviamente questo rapporto tra sacralità e politica si rivela estremamente
articolato e forte nel caso del cerimoniale dei papi, vale a dire di quei sovrani particolari che concentravano in sé
due poteri, spirituale e temporale. I cerimoniali, i riti, le liturgie romani rispecchiavano sempre questa
complessità e ambivalenza del potere pontificio per cui diventava assai difficile distinguere tra rituali religiosi e
rituali politici. Come vedremo, il cerimoniale che regolava sia le feste religiose annuali rispondenti al calendario
liturgico, sia gli eventi straordinari e non annuali, come i giubilei o le canonizzazioni di santi, sia infine le fasi della
vita del pontefice – elezione, possesso, funerali - , operava anche relativamente ad avvenimenti più politici , come
il ricevimento degli ambasciatori, le visite regali, il conferimento di onorificenze, il festeggiamento di nascite e
matrimoni dei sovrani europei. D’altra parte, la fama dei cerimonieri romani , dei liturgisti e dei trattatisti in
materia, a partire dal Cinquecento fino al tutto Seicento, era diffusa in tutta Europa. La loro produzione
ritualista configurò un modello cerimoniale imitato anche altrove, così che è possibile sostenere che la
cerimonialità pontificia sia stata per molti versi non solo anticipatrice ma alla origine stessa di numerose forme
rituali celebrative del potere monarchico laico. Inoltre il sistema cerimoniale romano delinea e riflette un
rapporto tra il pontefice e la città del tutto peculiare che giunge fino alla identificazione. Il papa è Roma, le due
immagini sono speculari: l’immagine del papa che il cerimoniale vuole costruire e trasmettere è strettamente
associata all’immagine di Roma, la città del papa, all’interno della battaglia per l’affermazione del ruolo universale
del papato, specie nell’età della Controriforma e in funzione della lotta antiprotestante.
Tale rapporto tra il pontefice e la sua città risulta ben visibile dai punti su cui intendo soffermarmi: la scelta delle
residenze pontificie (le regge), le cerimonie di insediamento del pontefice appena eletto ( il possesso), i riti
straordinari dei giubilei e degli anni santi, le canonizzazioni dei santi. Sono tutti eventi che si svolgono nel tessuto
urbano, nello spazio cittadino, che lo percorrono e lo segnano simbolicamente, ne fanno uno spazio anche esso
santo come il potere che lo percorre e coinvolgono la folla che assiste trasformandola da plebaglia in popolo di
sudditi partecipanti attivamente, come attori, alla scena. Ma, - con andamento di reciprocità - questi stessi eventi
rituali traggono a loro volta ulteriore senso dallo spazio, dai monumenti toccati, dalle strade percorse, dalle tappe
dei cortei, dalle architetture fisse o effimere, dalle decorazioni e dalle opere d’arte esposte che, tutte, esprimono
un significato proprio : l’antichità classica, ad esempio, nel Colosseo o nell’Arco di Tito, è utilizzata per
esprimere la continuità tra il potere universale dei papi e quello degli antichi imperatori di cui essi si
consideravano i successori. Infine, oltre alle cerimonie, agli spazi e ai luoghi della città, un terzo elemento
interveniva a articolare il linguaggio del cerimoniale come linguaggio del potere: le pitture, le sculture, le incisioni
che raccontavano questi momenti rituali e li trasmettevano al largo pubblico rientravano pienamente anch’esse –
come strumenti di comunicazione - all’interno del messaggio politico che si voleva far giungere.
Poiché questa conferenza si inserisce nel ciclo intitolato “Regge italiane” comincerò il mio discorso sul
cerimoniale pontificio dal tema delle residenze papali. Passerò poi ad alcuni specifici eventi cerimoniali – il
possesso, i giubilei, le canonizzazioni -, per poi trattare del cerimoniale papale al femminile. Il tutto sarò
accompagnato dalla proiezione di immagini dell’epoca sui singoli temi.
Bibliografia
- La “profezia di Lepanto”. Storia e uso politico della santità di Pio V, in I Turchi il Mediterraneo e l’Europa, a cura di G.
Motta, Milano, F. Angeli, 1998, pp. 103-121.
- L’anno santo come risorsa politica. Il giubileo del 1675 tra polemica antiprotestante e apologia del papato, in La città del perdono.
Pellegrinaggi e anni santi a Roma in età moderna. 1550-1750, a cura di S. Nanni e M.A. Visceglia, in “Roma moderna e
contemporanea”, 1997, 2/3, pp. 475-499.
- La maestà del papa. Trasformazioni dei rituali del potere a Roma tra XVIII e XIX secolo, in Cérémonial et rituel à Rome
(XVIe-XIXe siècle), a cura di M.A. Visceglia et C. Brice, Roma, Ecole française de Rome, 1997, pp. 281-316.
- Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000.
- Istituzioni, forme e usi del sacro, in G. Ciucci (a cura di), Roma moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002,(Storia di Roma
dall'antichità a oggi), pp.143-180.
- La Repubblica nella città del papa. Rom 1798, Roma, Donzelli, 2005
- Sovrane nella Roma dei papi. Cerimoniali femminili, ruoli politici e modelli religiosi, in I linguaggi del potere
nell’età barocca. 2. Donne e sfera pubblica, a cura di F. Cantù, Roma , Viella, 2009, pp. 97-123
- L’antico mistero della Rosa d’oro: usi, significati e trasformazioni di un rituale della Corte di Roma tra medioevo e età
contemporanea, in Le destin des rituels, a cura di G. Bertrand e I. Taddei, Rome, Ecole Française de Rome, 2008, pp.
41-72;
- 1655: l’ingressso di Cristina di Svezia a Roma, in corso di stampa.
Prossima lezione: mercoledì 27 gennaio 2010
La Reggia di Caserta e le cacce dei Borboni
Marco Carminati
Mercoledì 27 gennaio 2010
La Reggia di Caserta e le cacce dei Borboni
Marco Carminati
Confesso che mi sarebbe piaciuto assistere alla posa della prima pietra della reggia di Caserta. Le cronache
raccontano che si trattò di un evento spettacolare. Era il 1752. Il giorno prescelto fu il 20 gennaio, un giovedì, in
coincidenza con il 36º compleanno del re, Carlo III di Borbone. Un gran numero di soldati in alta uniforme si
dispose su quattro file in modo da disegnare esattamente la pianta del futuro palazzo, lungo 250 metri e largo
210. Al centro dell'immane quadrilatero, il sovrano e la consorte Amalia di Sassonia posarono il primo sasso della
fabbrica. Sopra di esso, l'architetto progettista, il celebre Luigi Vanvitelli, sovrappose un cubo lapideo con una
scritta bene augurante: «Si conservi questo Palazzo e la progenie dei Borbone finché questa pietra non sarà
tornata in cielo con le proprie forze». Nelle fondamenta vennero gettate medaglie d'argento, fuse su disegno dello
stesso Vanvitelli e riproducenti i profili dei sovrani e la veduta a volo d'uccello della Reggia. Da quel giorno
memorabile, e per ventun'anni consecutivi, Vanvitelli si gettò a capofitto nella direzione del cantiere, utilizzando
legioni di operai, manovali, carpentieri e mettendo al lavoro persino donne, galeotti, schiavi e animali esotici.
Non si fermò mai, a eccezione di una forzata pausa nel 1764, quando un nugolo di diseredati occupò per protesta
il cantiere. Luigi Vanvitelli morì nel 1773, letteralmente sul campo, in una casupola accanto al palazzo. La carica
di «Primo Architetto Regio» venne ereditata dal figlio Carlo, che continuò per altri vent'anni a lavorare a Caserta
guidato da disegni, incisioni e bellissimi modelli lignei lasciati dal padre. Completò gli appartamenti di
rappresentanza e le fontane nei giardini sotto il regno di Ferdinando IV, figlio di Carlo. Nel 1799 Napoli cadde
sotto l’influenza napoleonica. Giuseppe Bonaparte prima e Giocachino Murat dopo fecero proseguire i lavori di
decorazione degli appartamenti di rappresentanza, completati al ritorno dei Borboni a Napoli. Che la Real
Fabbrica avesse come punto di riferimento la grandeur di Versailles risulta piuttosto evidente. Ma perché questa
novella Versailles sorse proprio a Caserta? Per almeno due ragioni: la bellezza e la sicurezza del luogo. Il palazzo,
infatti, sarebbe sorto in un angolo fertilissimo e verdeggiante della Campania Felix teatralmente chiuso sullo
sfondo dai Monti Tifatini. In aggiunta, si sarebbe venuto a trovare in una posizione molto strategica in termini di
sicurezza, alla giusta distanza da Napoli e dalla plebaglia che la sovrappopolava, alla giusta distanza dal mare in
caso di assalti marittimi, alla giusta distanza dal Vesuvio nell'eventualità di improvvise eruzioni. Nel concepire il
progetto del palazzo e del parco Vanvitelli fece le cose in grande, comportandosi più da scenografo (quale
realmente era) che da architetto. Concepì un palazzo enorme, scenograficamente inserito in un ambiente
circostante vastissimo.
Il cannocchiale prospettico doveva cominciare dalla strada di Napoli, un lungo rettifilo solcato da un canale e
puntato verso il mare (da qui, nelle belle giornate, si vedono Ischia e Capri). Il rettifilo avrebbe poi attraversato
senza barriere tutto il pian terreno del palazzo per sbucare nei giardini retrostanti, i quali, sempre in linea retta, si
sarebbero inerpicati sulle colline per quasi 5 chilometri, animati da cinque salti di cascate, da peschiere, da
fontane popolate di statue. E l'acqua, che sgorgava copiosa da una finta grotta sul monte, sarebbe stata condotta
fin qui a forza mediante un imponente acquedotto costruito sempre da Vanvitelli.
Bibliografia
Per approfondire la storia dei Borboni, in relazione con la dimora di Caserta, restano insuperati i due ricchissimi
volumi di HAROLD ACTON, “I Borboni di Napoli 1734-1735” e “Gli Ultimi Borboni di Napoli, 1835-1859”, editi
da Giunti.
Sulla reggia di Caserta esiste una monografia storica di GINO CHIERICI “La Reggia di Caserta” (Poligrafico dello
Stato. 1984) e una più recente di CESARE DE SETA, “Il Real Palazzo di Caserta” (Guida editore 1991).
Assai utili sono anche la monografia che lo stesso CESARE DE SETA ha dedicato a ”Luigi Vanvitelli” (Electa
Napoli, 1998) e il catalogo della mostra “Alla corte di Vanvitelli. I Borbone e la arte alla reggia di Caserta” (Electa
2009)
Prossima lezione: mercoledì 3 febbraio 2010
Il sistema delle regge vesuviane
Ippolita Di Majo
Mercoledì 3 febbraio 2010
Il sistema delle regge vesuviane
Ippolita Di Majo
Il Vesuvio ci restava sempre a man
sinistra, fumando, fortemente…
(J.W. Goethe)
Un viaggio attraverso le grandi residenze dei Borbone e le incantevoli architetture del Settecento e del primo
Ottocento ci porta sulle tracce di Carlo III di Borbone, insediatosi in città nel 1734, di suo figlio Ferdinando IV,
succedutogli al trono nel 1759, e delle loro consorti, Maria Amalia di Sassonia e Maria Carolina d’Asburgo
Lorena. In anni in cui la temperie culturale diffusa tra le grandi aristocrazie europee del secolo dei Lumi si era
pienamente affermata a Napoli, i due sovrani si impegnano fortemente nel campo della promozione delle arti,
commissionando interventi architettonici e urbanistici di rilievo sul modello delle maggiori corti europee, da
Parigi a Madrid, a Dresda. Sul versante della conservazione delle antichità si segnano traguardi fondamentali con
gli scavi di Pompei e di Ercolano, i cui risultati vengono modernamente valorizzati, tutelati e in parte destinati ad
essere esposti in un museo appositamente allestito; sono scoperte di enorme importanza storica che
eserciteranno una decisiva influenza sulle trasformazioni del gusto. E’ in questo quadro che si collocano la
ristrutturazione del Palazzo Reale di Napoli, l’edificazione della grandiosa Reggia di Caserta, dei Palazzi Reali di
Portici e di Capodimonte, e di una fitta costellazione di residenze minori destinate agli svaghi e alla caccia come
quelle di Venafro Carditello, San Leucio, ma anche di sontuose ville private come la Favorita e la Floridiana. Un
vero e proprio sistema di regge che non ha eguali, se non nel Piemonte sabaudo, e per il quale vengono
impiegati alcuni tra i più importanti artisti, decoratori e artigiani del tempo. Sono luoghi di incomparabile bellezza
paesaggistica, mete imprescindibili per letterati e artisti del Gran Tour, dal Marchese de Sade a Goethe, da Philipp
Hackert ad Angelica Kauffmann, a Elisabeth Vigée Le Brun.
Bibliografia:
- J. W. Goethe, Lettere da Napoli. Nella traduzione di Giustino Fortunato, introduzione a cura di Manlio Rossi Doria,
Napoli 1987
- Civiltà del ‘700 a Napoli. 1734-1799, catalogo della mostra, Napoli 1979-1980, Napoli 1979, 2 voll.
- A. Gonzalez Palacios, The Furnishing of the Villa Favorita in
Resina, in "Burlington Magazine", aprile 1979
- F. Mazzocca, Le corti e la promozione delle arti: il Regno di Napoli. La corte, in Il Neoclassicismo. Da Tiepolo a Canova,
catalogo della mostra, Milano 2002, pp. 241-246.
Prossima lezione: mercoledì 10 febbraio 2010
Il Palazzo ducale di Parma e la Reggia di Colorno
da Luisa Elisabetta di Francia a Maria Luisa
Giovanni Godi
Mercoledì 10 febbraio 2010
Il Palazzo ducale di Parma e la Reggia di Colorno
da Luisa Elisabetta di Francia a Maria Luisa
Giovanni Godi
Con la morte del duca Antonio Farnese avvenuta nel 1731, cessa la ducea che per più di due secoli aveva governato
Parma e Piacenza. Erede legittima ne diviene Elisabetta Farnese figlia di Odoardo e Dorotea Sofìa di Neoburgo,
sposa di Filippo V di Spagna. e madre di Carlo e Filippo., figli di secondo letto del re.
Il Ducato passerà ufficialmente a Filippo soltanto nel 1748 col trattato di Aquisgrana, quando il fratello
primogenito già sedeva sul trono di Napoli. Carlo, primo beneficiario del ducato, ebbe nel frattempo l'opportunità,
su suggerimento e insistenza della madre, di appropriarsi dell'immenso patrimonio ducale portando con se a
Napoli le collezioni d'arte che oggi possiamo ammirare a Capodimonte7 gli archivi e la proprietà del prestigioso
Palazzo Farnese di Roma, orgoglio della famiglia, da cui prelevò i gruppi marmorei antichi più importanti anch'essi
esulati a Napoli.
Al suo arrivo Don Filippo, sposo di Luisa Elisabetta di Francia, figlia del re Luigi XV. trovò le regge spoglie,
ornate da ricche decorazioni barocche dovute in gran parte ai Bibiena ma non più alla moda. Inizierà così, grazie
alla volontà dei sovrani e alla saggezza del primo ministro Guglielmo Du Tillot., quel rinnovo di tipo illuminista
che caratterizzò la cultura del ducato e che gli valse P appellativo di "Atene d'Italia". Giungerà a Parma l'architetto
Ennemonde Alexandre Petitot che redigerà il nuovo piano regolatore della città a trasformerà i palazzi ducali in
regge moderne ideandone decori e arredi studiati nei minimi dettagli, mentre Giovan Battista Bodoni, principe
dei tipografi, fonderà la Stamperia Ducale editando i voluti» che lo renderanno celebre nel mondo. Nascerà
anche l'Accademia di Belle Arti che da subito, coi suoi concorsi di pittura., architettura, scultura e disegno, vedrà
presenti artisti della levatura di Pompeo Botoni e Goja. Aprirà al pubblico la Biblioteca Palatina (1769),
straordinario contenitore progettato dal Petitot e fornito dal nulla di importantissime collezioni dì libri e
manoscritti, selezionati dal bibliotecario ducale padre Paciaudi. In pratica tutte le istituzioni, compresa l'Università,
videro un importante rinnovo. Grazie ai rapporti famigliari con la Francia arrivarono a Parma arredi e suppellettili
che nessun altro stato italiano allora poteva vantare; i mobili forniti dagli ebanisti di Luigi XV quali Michel
Cresson, Nicolas Quinibert Foliot, Pierre n Migeon, Jean Pierre Latz, Brenard von RisenBurgh, Tilliard. Jacques
Dubois, Roger van der Cruse, Jean Avisse, Jean Boucault, Carel; giunsero pure gli argenti, gli arazzi e le tappezzerie
di seta (oggi al Palazzo del Quirinale, Palazzo Pitti e Palazzo Reale dì Torino e Stupinigi). Alla morte di Don Filippo
salirà al trono ducale il giovane Don Ferdinando che nel 1769 sposerà Maria Amalia d'Austria, figlia di Maria
Teresa e sorella di Maria Antonietta, in un momento dì difficoltà economiche e politiche per lo stato. Venne
sollevato dall'incarico il ministro Du Tillot e si interruppero molti dei progetti intrapresi come la costruzione del
nuovo Palazzo Ducale. Nonostante ciò il nuovo Duca dai gusti semplici, ma dotato di una solida e raffinata
educazione (suoi maestri furono il Condiltac ed il Keralio). continuerà con tninor enfasi a promuovere, grazie ad
artisti ed intellettuali locali, l'opera dì rinnovo voluta dai genitori.
Con l'inizio del nuovo secolo il vento della rivoluzione francese porterà nel Ducato Napoleone (Ferdinando
morirà avvelenato a Fontevivo nel 1802) che annetterà alla Francia il pìccolo stato come Dipartimento del Taro.
Triste momento per le attività culturali ed artistìche del Ducato, si assisterà alla sistematica spogliazione in favore
di Parigi dei capolavori del Correggio e di. altri importanti artisti, alla soppressione dell'Accademia di Belle Arti e
delle istituzioni religiose, trasformate in caserme o opifici. Soltanto con l'arrivo di Maria Luigia d'Austria ., ex moglie di
Napoleone e Imperatrice dei Francesi che il Congresso di Vienna (1815) destinò a Parma vita natural durante, la
città rinascerà.
Con l'aiuto di Paolo Toschi, grande incisore e vero e proprio manager culturale, la nuova Duchessa riformerà
l'Accademia di Belle Arti, torneranno da Parigi le opere d'arte trafugate da Napoleone, sorgeranno il Teatro
Ducale, la Pinacoteca e il Museo d'Antichità con la collocazione dei reperti scavati, già in epoca borbonica, nella città
romana di Velleia nel piacentino, il Conservatorio di Musica, senza dimenticare Università ed istituzioni
benefiche. Grande vantaggio ebbero gli artisti, incoraggiati dalla Sovrana anch'essa pittrice, amante della musica e
grande lettrice. Con la costruzione del nuovo Palazzo Ducale, opera dell'architetto Nicola Bettoli, partirà il rinnovo
decorativo di tutte le residenze dello stato secondo il nuovo stile "Impero", come testimoniano gli acquerelli del
Naudin al Museo Lombardi. Viaggiatrice inesausta, Maria Luigia avrà modo di documentarsi sulle nuove mode che
serpeggiano in Europa, arrivando precocemente ad amare il "Romanticismo"., comprando manufatti in
porcellana, argento, bronzo dorato, acquerelli e dipinti.
Non mancarono i contatti con Milano quando, ospite dello zio, Arciduca Ranieri, andava in visita nell'atelier di
Molteni e di Pompeo Marchesi, ordinava mobili e bronzi dorati al Manfredìni, Nel 1847 morirà Maria Luigia a soli
cinquantasette anni e il ducato come previsto dal Congresso di Vienna tornerà ai Borbone che nel frattempo erano
stati mandati a Lucca come duchi e col titolo altisonante di Re d'Etruria, Carlo Lodovico, nipote del duca Ferdinando,
abdicherà in favore del figlio che assumerà il titolo con il nome di Carlo UI. Sposerà Luisa Maria di Francia, nipote
di Carlo X e sortila del Conte di Chambord. che, dopo l'assassinio del marito, sarà reggente del fìglioletto
Roberto I sino al 1860, quando lascerà volontariamente lo stato ai Savoia.
Grande interesse per la storia del costume e dell'arredo furono le scelte dei Duchi che portarono in città arredi di
grande prestigio come il tavolo eseguito da Odiot - Thomire - Roguier nel 1810 (oggi Museo Correr a Venezia), lo
straordinario trionfo da tavola approntato dallo scultore portoghese Damià Campeny (Pinacoteca Nazionale di
Parma) o i mobili neogotici ed eclettici (Palazzo Pitti a Firenze).
Carlo, curioso ed attento alle nuove tendenze della moda, promuoverà l'esecuzione da parte dell'architetto
Paolo Gazzola (incaricato per gli arredi di corte) di mobili neo antichi, comprando dagli antiquari ciò che ancora
circolava degli avanzi delle soppressioni napoleoniche, come nel caso documentato di Venezia, dove spesso si
recava con la moglie ospite della suocera, la Duchessa di Berry. Trattasi del reimpiego di una formella di coro,
proveniente dalla chiesa di Santo Stefano a Venezia, opera di Marco da Vjcenza (1488), utilizzata dal Gazzola come
schienale per un sedile da collocare nella "camera con alcova da parata" per l'appartamento della Duchessa. Se
l'unità d'Italia per gli stati della penisola fu un vantaggio, non lo fu certamente per Parma, che vide una seconda e
in molti casi, barbarica spogliazione da parte dei nuovi re. Partirono dalle regge di Parma e Piacenza circa
ventiquattromila opere: dipinti, arredi, argenti, arazzi, tappezzerie, spediti, anche a caso, nelle nuove residenza,
prima a Torino e Genova, poi a Firenze, ed infine, ad unità completata, il meglio di ogni cosa al Palazzo del
Quirinale ove tuttora in parte si conservano. All'appello mancano i famosissimi pezzi d'argenteria settecenteschi
provenienti da Parigi, vanto delle tavole ducali. Oggi, grazie al lavoro di una vita dedicata alla ricerca sulle
spogliazioni savoiarde da Glauco Lombardi, e al lavoro altrettanto paziente di vari studiosi, è stato possibile
ritrovare e studiare questo immenso patrimonio, anche per merito dell'inventariazione fatta eseguire dal Duca Carlo
DI verso 1850/53, che ordinò di apporre ad ogni singolo pezzo timbri a fuoco o a punzone con un C. R. coronato,
il numero di inventario e le sigle C per Colomo, S per Sala Baganza, P per Piacenza.
Bibliografia essenziale:
- Chiara Briganti "Curioso itinerario delle collezioni ducali parmensi", Panna 1969
- G. Cirillo - G. Godi "II mobile a Parma fra barocco e romanticismo 1600-1860", Parma, Albertelli Editore, 1983
- E. Colle "I mobili di Palazzo Pitti, II primo periodo Lorenese”, 1737-1799, Firenze 1992
Prossima lezione: mercoledì 17 febbraio 2010
Il Palazzo Reale di Milano e la Villa Reale di Monza
Fernando Mazzocca
Mercoledì 17 febbraio 2010
Il Palazzo Reale di Milano e la Villa Reale di Monza
Fernando Mazzocca
Il consolidamento del dominio dell’Impero Asburgico in Lombardia e la straordinaria politica di riforme attuata
da Maria Teresa e dal figlio Giuseppe II determinarono l’esigenza di realizzare un nuovo Palazzo per la corte,
rappresentata a Milano da un altro figlio, l’arciduca Ferdinando, e dalla moglie Maria Beatrice d’Este. Dopo aver
consultato Luigi Vanvitelli, il grande architetto della Reggia di Caserta che propose un grandioso edificio da
erigersi nella vasta area verde che sarà poi occupata dai Giardini Pubblici (gli attuali Giardini di via Palestro), la
scelta ricadde, anche per motivi economici, su un suo allievo Giuseppe Piermarini. Invece di fabbricare ex-novo,
si preferì ristrutturare la vecchia reggia, già appartenuta ai Visconti e agli Sforza e poi utilizzata dai governanti
spagnoli ed austriaci, collocata a lato del Duomo.
In realtà Piermarini, destinato a cambiare con altri suoi progetti (come il Teatro alla Scala e Palazzo Belgiojoso) il
volto di Milano, rifece completamente il vecchio edificio. Tra il 1773 e il 1778 venne così realizzato il nuovo
Palazzo di Corte che, se non venne apprezzato per la sua architettura, suscitò invece molta ammirazione per lo
splendore e l’eleganza degli interni, contraddistinti dalle straordinarie decorazioni a stucco da progettate da
Giocondo Albertolli e dalle volte affrescate da due seguaci di Mengs, il toscano Giuliano Traballesi e il tirolese
Martin Knoller, che seguirono nel rappresentare soggetti mitologici caratterizzati da precisi significati allegorici e
morali le precise indicazioni del poeta Giuseppe Parini. Ma l’ ambiente più apprezzato per la sua originalità e la
sua suggestione sarà la monumentale Sala delle Cariatidi, dove il ballatoio in cui si affollava il popolo per
assistere alle cerimonie della corte era sostenuto dalle bellissime cariatidi in stucco modellate dall’artista parmense
Gaetano Callani.
In età napoleonica, quando fu prima denominato Palazzo Nazionale e, con il Regno d’Italia, Palazzo Reale,
Andrea Appiani eseguì i famosi Fasti di Napoleone collocati sul parapetto della Sala delle Cariatidi e una serie di
magnifici affreschi che celebravano il potere e le imprese del Bonaparte divenuto Imperatore dei Francesi e Re
d’Italia.
Altri interventi si susseguirono negli anni della Restaurazione, quando venne finalmente terminata la decorazione
della Sala delle Cariatidi, dove il protagonista del Romanticismo Francesco Hayez realizzò un grande affresco
sulla volta rappresentante l’ Allegoria dell’ordine politico di Ferdinando I d’Austria, in occasione della discesa a Milano
dell’imperatore che si fece incoronare in Duomo, come aveva già fatto Napoleone, con la Corona Ferrea di Re
d’Italia. Utilizzato dai Savoia per occasioni speciali, come un fastoso ballo offerto nel 1875 da Vittorio Emanuele
II all’imperatore Guglielmo I di Germania, il Palazzo dopo la prima guerra mondiale venne aperto al pubblico
come un museo. I tremendi bombardamenti subiti nel 1943, hanno inferto gravissimi danni, con la perdita della
maggior parte delle decorazioni e degli affreschi.
Bibliografia
- G.C. Bascapé, Il “Regio Ducal Palazzo” di Milano dai Visconti ad oggi, Milano 1970
- F. Mazzocca, A. Morandotti e E. Colle, Milano neoclassica, Milano, Longanesi, 2001
- AA.VV., Il Palazzo Reale di Milano, a cura di E. Colle e F. Mazzocca, Milano, Skira, 2001
Mercoledì 24 febbraio 2010
Poggio imperiale a Firenze e Palazzo Pitti ai tempi dei Lorena
Enrico Colle
Nelle direttive impartite dalla Guardaroba il 26 giugno 1765, a soli quattro mesi dall’arrivo del nuovo granduca e
della sua consorte che avverrà nell’ottobre di quell’anno, è possibile recuperare il clima di alacre impegno che
dovette accompagnare l’insediamento a Firenze di Pietro Leopoldo e Maria Luisa di Borbone. I lavori di
ammodernamento di alcuni ambienti al piano nobile di palazzo Pitti, intrapresi nel 1763 al fine di creare nell’ex
Quartiere del Gran Principe Ferdinando de’ Medici due appartamenti di rappresentanza, ricevettero infatti nuovo
impulso grazie all’impegno dell’architetto di corte Giuseppe Ruggieri (1708 - 1772), subentrato nel 1755 a Jean
Nicolas Jadot (1710 - 1761), l’architetto di fiducia di Francesco Stefano di Lorena che, dopo aver lavorato a
Firenze, nel 1745 si trasferì a Vienna. In questi anni, accanto a Ruggieri, lavorò a Pitti anche l’architetto
‘dilettante’ Ignazio Pellegrini (1715 -1790).
Se il principale responsabile degli ornati delle sale degli appartamenti dei granduchi fu proprio Ignazio Pellegrini,
per quelle dell’Appartamento di Pietro da Cortona fu incaricato Ruggieri che di lì a poco, nel febbraio del 1769,
per la mancanza di “fedeltà” con cui aveva esercitato il suo impiego, veniva privato dal sovrano del prestigioso
incarico. Al suo posto subentrò Niccolò Gaspero Maria Paoletti (1727 - 1813), già collaboratore di Ruggieri nel
1763, e poi assunto dallo Scrittoio delle Fabbriche Lorenesi nel 1766 con la qualifica di “architetto aggiunto”. In
tale veste iniziò i lavori di ampliamento della villa del Poggio Imperiale e diresse i lavori di decorazione della
reggia fiorentina. Fin dal giugno del 1770 nella villa del Poggio Imperiale, da poco ampliata nelle sue strutture e
rinnovata nelle decorazioni degli interni su progetti di Niccolò Paoletti, stavano lavorando un gruppo di
stuccatori capeggiati dai fratelli Giocondo e Grato Albertolli (1742 - 1839) impegnati, insieme ai pittori
Tommaso Gherardini e Giuliano Traballesi (1727 – 1812), nella creazione di un proprio e originale modo
d’ornare dove gli ornati rococò erano stati progressivamente sostituiti da un meditato recupero delle decorazioni
dell’antichità classica, spesso filtrate attraverso la conoscenza delle opere dei maestri del Cinquecento e declinate
secondo le più aggiornate soluzioni di gusto proposte dalle corti di Napoli, Roma e Parma.
Il gusto neoclassico sarà adottato anche dal figlio di Pietro Leopoldo, Ferdinando III, dopo la sua nomina a
Granduca di Toscana nel 1790. Ne è testimonianza infatti la commissione data dal sovrano a Gaspero Maria
Paoletti e a Giuseppe Terreni (1739-1811) di allestire un nuovo quartiere all’ultimo piano di Palazzo Pitti - voluto
dal Granduca come “soggiorno ordinario” durante la stagione invernale e per questo chiamato “Quartiere
d’Inverno” - secondo i nuovi criteri del gusto neoclassico che d’ora in avanti si orienteranno sempre più verso lo
stile inglese.
Contemporaneamente ai lavori del Quartiere d’Inverno, Ferdinando III commissionò a Luigi Ademollo (1764 1849) la decorazione della Cappella Palatina, realizzata nel 1766 per volontà di Pietro Leopoldo, trasformando
uno dei seicenteschi saloni al piano terra della reggia fiorentina grazie all’intervento degli architetti Ignazio
Ruggeri e Gaspero Maria Paoletti e del pittore Vincenzo Meucci.
Durante il Regno d’Etruria il gusto della corte fiorentina si manteneva ancora orientato verso una tarda
declinazione dello stile neoclassico di matrice settecentesca che prevedeva, nella costruzione della mobilia,
l’inserimento di preziosi ornati ad intarsio o in legno intagliato e dorato come si può notare nella cetra dipinte da
Benvenuti in primo piano nel quadro raffigurante Apollo Pitio, esposto a Firenze nel 1806, e nella successiva
grande tela con Ettore che rimprovera a Paride la sua mollezza, realizzata nel 1808.
Con la fine del Regno d’Etruria, nel dicembre del 1807, Firenze divenne il capoluogo del Dipartimento dell’Arno
e gli ex palazzi granducali furono inseriti tra le residenze imperiali. Per questo motivo Elisa Baciocchi, divenuta
Granduchessa di Toscana il 3 marzo 1809, ordinò all’architetto di corte Giuseppe Cacialli di trasformare una
parte della reggia fiorentina, e più precisamente i quartieri di Pietro da Cortona e del Volterrano, in sontuosi
appartamenti destinati ad accogliere Napoleone e la futura consorte Maria Luisa d’Asburgo.
Proprio per far fronte alle pressanti richieste della sovrana circa l’allestimento dei nuovi ambienti, Cacialli
elaborò, entro il 14 giugno 1811, un primo progetto della distribuzione delle sale degli appartamenti imperiali
così suddivisi: dopo il grande scalone si sarebbe attraversato un vestibolo e la sala delle guardie per entrare nella
sala delle Nicchie. Il progetto di Cacialli fu approvato e i lavori, iniziati nel maggio del 1812, alla fine dell’anno
dovevano essere giunti a buon punto. Rimanevano in attesa di definizione gli interventi decorativi, ma gli
avvenimenti politici, seguiti alla disfatta delle truppe francesi a Lipsia, non consentirono di avviare il ciclo
pittorico né tantomeno di procedere alla commissione delle decorazioni e del mobilio necessario per arredare i
nuovi ambienti.
All’interno dell’ampio panorama di lavori intrapresi da Ferdinando III al fine di aggiornare le sale delle sua reggia
al gusto tardo Impero allora dominante bisogna citare anche il cantiere decorativo avviato all’ultimo piano di
Palazzo Pitti, in quello che da allora in avanti sarà chiamato il Quartiere Borbonico. A questo scopo il granduca
incaricò Poccianti di creare un grandioso scalone, terminato solo diversi anni dopo nel 1847.
La linea di stile tenuta da Ferdinando III e poi dal figlio Leopoldo II, granduca dal 1824, per l'arredamento delle
residenze di corte durante i primi dieci anni del suo regno, corrispose dunque ad una tarda declinazione dello stile
Impero, talvolta variato in chiave rinascimentale ma più spesso fuso con elementi strutturali e ornamentali, come
le gambe piramidali o gli intagli a grottesca adottati per la mobilia, tipici del Neoclassicismo.
Si veniva così ad instaurare un collegamento, in ideale continuità dinastica, tra i fastosi ambienti medicei,
fortunosamente risparmiati dalle trasformazioni del periodo francese, e quelli più recenti voluti dai granduchi.
Negli interni realizzati seguendo le indicazioni di Pasquale Poccianti è evidente una particolare declinazione del
neoclassicismo settecentesco, non esente da citazioni ricavate dall'architettura michelangiolesca e buontalentiana,
come documentano, con la loro monumentale solennità, ambienti quali il nuovo Vestibolo (1823-1836) e il citato
Scalone di Palazzo Pitti; mentre nelle decorazioni progettate per gli interni destinati alla vita di corte il purismo
neoquattrocentesco delle superfici in pietra serena cede il posto agli ornati a stucco o in legno intagliato e in parte
dorato, la cui trama geometrica non escludeva l'inserimento di fregi a rilievo e di pannelli dipinti
Prossima lezione: mercoledì 3 marzo 2010
Il quirinale di Napoleone
Matteo Lanfranconi
Mercoledì 3 marzo 2010
Il Quirinale di Napoleone
Matteo Lafranconi
Ubicato sulla sommità del più alto tra i sette colli di Roma, nel sito di più forte valenza simbolica della Città
Eterna, il Palazzo del Quirinale – o Palazzo di Montecavallo – fu edificato nella seconda metà del Cinquecento
da Gregorio XIII Boncompagni per servire alle funzioni di residenza del papa, e pressoché incessantemente
trasformato, ingrandito e decorato sotto i pontificati successivi: da Sisto V Peretti (1585-1590) a Clemente VIII
(1592-1605); da Paolo V Borghese (1605-1621) a Urbano VIII Barberini (1623-1644); da Alessandro VII Chigi
(1655-1657) via via lungo lo svolgersi del XVII e XVIII secolo, fino a Pio VII Chiaramonti (1800-1823), il papa
che il 2 dicembre del 1804, nella cattedrale parigina di Notre-Dame, incoronò imperatore Napoleone Bonaparte.
La storia dell’edificio come residenza papale, fatta di continue riforme inserite in un processo di assoluta
continuità dal punto di vista dei valori istituzionali e simbolici del luogo, si snoda in un periodo di due secoli e
mezzo, per subire una traumatica svolta solo nel 1809, quando le truppe dell’esercito napoleonico occupano
Roma, catturano il papa (che viene deportato in Francia) ed entrano nel Palazzo di Montecavallo scelto come
residenza dell’Imperatore in previsione di un suo fatidico approdo sulle rive del Tevere, che in realtà non avverrà
mai. Viene così dato avvio ad un processo di radicale adeguamento dell’edificio non tanto (e non solo) al fine di
aggiornarlo alla moda del gusto neoclassico, come fu per molte altre residenze imperiali, ma piuttosto nell’intento
di individuare un luogo dove condensare i valori simbolici universali della capitale della classicità irradiandoli sulla
figura di Napoleone, giunto all’apogeo della sua potenza.
Tra il 1810 e il 1811, infatti, sulla scia di un interesse diretto dell’imperatore alla città di Roma, si assiste ad
un’evidente amplificazione strategica della ‘questione romana’ che condizionerà forme e contenuti dei progetti
dedicati alla città. Benché predisposta ad un ripudio sprezzante del principio di uno Stato ecclesiastico, l’Idea di
Roma di Napoleone era infatti magnifica, fondata su antiche memorie storiche e desideri di gloria, su una
comunità di lingua e di cultura, e su quell’aspirazione all’immortalità che Roma e i suoi imperatori avevano un
tempo incarnato. Questo modo di guardare a Roma, al suo retaggio storico e al suo avvenire, come a una sorta
di cantiere ideologico teso a ripristinare l’ideale purezza classica di un’antichità rinnovata dall’impero
napoleonico, troverà un’applicazione effettiva e prioritaria nel tema della residenza di Montecavallo. Assorbendo
gran parte delle ingenti risorse finanziarie destinate alla città, il Palazzo del Quirinale diventerà catalizzatore di
energie progettuali e decorative più di qualsiasi altra impresa cittadina e, soprattutto, come nessun’altra delle
residenze imperiali.
Per realizzare rapidamente le modifiche necessarie l’architetto Raffaele Stern, responsabile dei lavori, coordinò
una vasta équipe di artisti (pittori, scultori, decoratori) scelta tra gli esponenti della società artistica romana,
internazionale e cosmopolita, tra le più preparate e versatili d’Europa. Ingenti somme vennero impiegate per
sostenere il programma decorativo e per consentire all’architetto di completare la decorazione del Palazzo nei
tempi stretti imposti dal febbrile evolversi della parabola storica napoleonica. Insieme agli interventi sulla parte
architettonica e sulla decorazione secondaria, venne predisposto alla fine del 1811 un vasto e dettagliato
programma di definizione iconografica per le opere di scultura, pittura e rilievo. A questo fine venne formata una
commissione comprendente Antonio Canova, Martial Daru (Sovrintendente ai Beni della corona), l’architetto del
palazzo Stern, Vivant Denon (direttore del Musée Napoleon a Parigi), i pittori di storia italiani Camuccini e
Landi, il direttore dell’Accademia di Francia a Roma Lethière, tutti animati dal proposito di dare lavoro alla
comunità internazionale degli artisti attiva a Roma, tra cui spiccano i nomi del francese Ingres, del danese
Thorvaldsen, dello spagnolo José de Madrazo, degli italiani Giani e Palagi.
Il disastro della campagna di Russia e il rovesciamento repentino delle alleanze europee portarono però al brusco
precipitare dell’avventura napoleonica e nel gennaio 1914 Roma vide entrare le truppe occupanti di Gioacchino
Murat, prodromo del ritorno imminente di Pio VII che infatti, il 24 maggio di quello stesso anno, varcò di nuovo
-fra ali di folla festante- la soglia di Palazzo di Montecavallo, dando avvio immediatamente ad un programma di
risacralizzazione della città che andò progressivamente cancellando -fino a farle scomparire quasi del tutto- le
tracce del magniloquente progetto di trasformazione napoleonica.
Bibliografia:
- Natoli M., Scarpati M.A. (a cura di), Il Palazzo del Quirinale. Il mondo artistico a Roma nel periodo napoleonico, 2 voll.,
Roma (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) 1989
- Arizzoli-Clémentel P., Gastinel-Coural C., Il progetto d’arredo del Quirinale nell’età napoleonica, “Bollettino d’arte”,
supplemento al n. 70, 1995
- Lafranconi M., Il programma cesareo del Quirinale, in Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della
mostra (Scuderie del Quirinale e Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 7 marzo-29 giugno 2003), Milano (Electa)
2003, pp. 151-166
Prossima lezione: mercoledì 10 marzo 2010
Il Palazzo ducale di Lucca e le corti di Elisa Baciocchi e Maria Luisa di Borbone
Enrico Colle
Mercoledì 10 marzo 2010
Il Palazzo ducale di Lucca
e le corti di Elisa Baciocchi e Maria Luisa di Borbone
Enrico Colle
Come negli altri Stati italiani lo stile neoclassico si diffuse ben presto anche a Lucca dove le locali maestranze di
decoratori, a partire dalla metà degli anni settanta del Settecento, iniziarono ad adottare per l’abbellimento degli
interni motivi anticheggianti per lo più ricavati dai repertori di ornato inglesi e francesi, mentre per la
realizzazione del mobilio, oltre ad impegnare le locali maestranze di artigiani, si sarebbero rivolti anche alle
botteghe livornesi e fiorentine. Un’usanza questa che si protrasse durante i primi decenni dell’Ottocento, con
l’avvento prima di Elisa Baciocchi e poi di Maria Luisa di Borbone.
Entrambe le sovrane infatti sovrintesero direttamente alla trasformazione dell’antico palazzo pubblico in una
moderna reggia in grado di accoglierle col fasto dovuto al loro rango e fu quindi proprio per questa ragione che
Lucca divenne fin dagli inizi del nuovo secolo uno dei primi Stati italiani dove lo stile Luigi XVI, allora in auge
presso tutte le corti europee, prese le forme del più moderno stile Impero.
Tommaso Trenta, nella Guida del forestiere edita nel 1820, descrivendo il Palazzo Ducale di Lucca, da poco
rinnovato nelle decorazioni e negli arredi, rilevava infatti come con il cambiamento del "sistema politico di
questo stato nei primi anni del secolo corrente, dové pur cambiare il destino di questo Palazzo, e se prima serviva
ai rappresentanti temporanei di una Repubblica, fu mestiere dargli internamente una distribuzione diversa, allora
che divenne residenza dei Governi Monarchici. Subì infatti molte variazioni ne' suoi appartamenti sotto il
reggimento della famiglia Baciocchi dall'anno 1805 al 1814; ma nulla si fece da que' Principi a fronte di quanto si
è operato nei due anni ora decorsi per ordine di S. M. la Regina Maria Luisa a fine di ampliarlo, decorarlo e
renderlo per ogni parte più comodo". In effetti Elisa Baciocchi, che a Lucca si trovò nelle condizioni di "creare
ex novo uno stile e un'immagine di corte da sovrapporre al passato repubblicano del piccolo stato" (5), rivolse in
primo luogo le sue attenzioni alla ristrutturazione della residenza estiva di Marlia.
Venduta dagli Orsetti nel 1806, la villa fu rimodernata entro il 1813, anno in cui l'architetto di Napoleone, Louis
Martin Berthault, la visitò annotando che il restauro dell'edificio era stato condotto in modo tale da ottenere tutti
i vantaggi ricavabili da una fabbrica già impostata secondo gli ormai superati criteri architettonici barocchi.
Le sale, distribuite secondo una ordinata sequenza in linea con la rigorosa sobrietà delle facciate, furono decorate
dai pittori Stefano Tofanelli e Luigi Catani e quindi rifornite di nuovi mobili in parte provenienti da Parigi e in
parte fatti fare a Lucca su probabili disegni dell’architetto stesso.
Se dunque per la villa di Marlia i lavori di ristrutturazione e di arredamento procedettero speditamente, quelli
relativi alla sistemazione dell’ex Palazzo Pubblico avrebbero incontrato, a causa della loro maggiore entità, diversi
ostacoli e quindi il loro andamento subì dei rallentamenti tali da non permetterne l’ultimazione entro il periodo
del governo francese: infatti se le opere murarie dovevano essere a buon punto al momento della caduta
dell’Impero nel 1814, le sale di rappresentanza mancavano di tutta la decorazione pittorica e il loro arredamento
si presentava come una sorta di compromesso stilistico tra i preesistenti mobili settecenteschi e quelli più alla
moda inviati dalla Francia.
Il primo dicembre del 1805 Elisa Baciocchi celebrò la sua solenne entrata a Lucca con una festa nel palazzo fino
ad allora utilizzato dai rappresentanti della Repubblica e adesso giudicato inadeguato ad assolvere alle nuove
esigenze determinate dal cerimoniale della corte dei Baciocchi: fu dunque subito deciso di dar corso alle opere di
restauro e anche qui nei lavori di adattamento degli ambienti settecenteschi vennero coinvolti gli architetti
Giovanni Lazzarini e Théodore Bienaimé, allora impegnati a fornire i progetti per il nuovo accesso alla città da
levante, con l’edificazione di Porta Elisa e della vasta piazza dedicata a Napoleone antistante alla facciata
principale del palazzo. All’interno dell’edificio dunque per tutto il periodo dell’occupazione francese si lavorò per
ripristinare le sale di parata dotandole di nuovi intonaci, controsoffitti a volta, pavimenti, infissi, scale e di tutti
quei servizi occorrenti ad una corte internazionale e amante del lusso come quella dei Baciocchi.
Nel dicembre del 1817 con l’arrivo a Lucca di Maria Luisa di Borbone, reduce dal suo esilio romano, i lavori di
trasformazione del Palazzo Ducale avviati dai Baciocchi furono ripresi con grande alacrità dalla nuova sovrana.
Responsabile dei progetti fu l'architetto Lorenzo Nottolini che, sull'impronta dei palazzi reali settecenteschi,
divise la reggia in tre appartamenti: il Gran Quartiere di Parata, quello della Regina e quello del Re. La scelta della
sovrana di nominare come architetto di corte il Nottolini, da lei conosciuto nel 1812 a Roma, sottolinea la
volontà di Maria Luisa di utilizzare l’esperienza di un artista aggiornato alle nuove mode e quindi in grado di
connotare in modo fastoso e moderno gli ambienti di rappresentanza del palazzo.
La Guida di Tommaso Trenta e l'inventario dei mobili del Palazzo, redatto a partire dal 1820, ma completato solo
nel luglio del 1822, registrano tale ricchezza e varietà decorativa - alla cui realizzazione concorsero l'ornatista
Gaspero Bargioni e i pittori Luigi Ademollo, Luigi Catani, Antonio Fedi, Gaspero Martellini e Giuseppe
Colignon - e nel medesimo tempo mettono in evidenza la preziosità delle suppellettili, in parte fatte fare anche a
Firenze o acquistate a Parigi, Vienna, Tournai e Livorno.
Tutto il programma iconografico e il conseguente arredo delle sale di rappresentanza del “Gran Quartiere di
Parata” verteva sull’esaltazione – attraverso la riscoperta dei fasti dell’imperatore Traiano e della saggezza del dio
Apollo - del nuovo governo borbonico uscito trionfante dal confronto con il precedente regime napoleonico,
mentre quello degli ambienti destinati alla sovrana – cui si accedeva sempre dalla Sala degli Staffieri – si basò sulla
celebrazione di Giunone, Minerva e Venere, nelle gesta delle quali Maria Luisa di Borbone riconosceva una sorta
di continuità con il suo operato politico ed artistico, tutto teso a riportare nella inquieta Lucca l’armonia di una
nuova età dell’oro.
L’insieme della mobilia superstite del Palazzo Ducale e della villa di Marlia ben rappresenta dunque quella
particolare declinazione lucchese dello stile Impero dove, accanto agli intagli dipinti ad imitazione dei bronzi
antichi, trovavano posto pure le precoci citazioni tratte dal recupero degli stili storici; documenta al contempo
l'evoluzione di un gusto che, pur nella sua breve durata, riuscì a competere con quanto si andava facendo
nell'ambito dell’arredamento negli altri Stati italiani.
Prossima lezione: mercoledì 17 marzo 2010
Il Palazzo Reale di Torino da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II
Francesco Leone
Mercoledì 17 marzo 2010
Il Palazzo Reale di Torino da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II
Francesco Leone
I decenni che vanno dall’investitura reale di Carlo Alberto di Savoia (1831-1849) all’Unità d’Italia con re Vittorio
Emanuele II rappresentano per Torino un periodo di grande fervore culturale.
A giovarsi di questo generale clima di rinnovamento furono in primo luogo le arti visive che, dopo un lungo
periodo di stagnazione il cui apice si era toccato nei primi venti anni dell’Ottocento sotto il regno di Carlo Felice,
poterono finalmente aggiornarsi grazie al confronto con la ribalta nazionale (soprattutto con Milano) e con la
cultura figurativa francese.
In questa prospettiva storica gli ammodernamenti e i cicli decorativi all’interno di Palazzo Reale, come quelli del
castello di Racconigi e della residenza di Pollenzo, tutti diretti dal grande Pelagio Palagi a partire dal 1832,
coincidono con una diversa temperie culturale che intende creare in Piemonte una scuola pittorica nazionale, in
grado di risarcire il ritardo che lo stato sabaudo aveva maturato in materia di belle arti e, su un versante più
squisitamente di rappresentanza politica, di gettare le fondamenta ideologico-culturali per l’unità politica del
paese sotto le insegne sabaude.
Il re Carlo Alberto, che fu l’indiscusso regista di questa vicenda di autopromozione, inserì l’incremento delle arti
e della cultura in un più vasto progetto “nazionale”, portato avanti con strategie politiche e diplomatiche ma
anche con più capillari iniziative di impulso della storia e della cultura sabaude come la fondazione
dell’Accademia Albertina di Belle Arti, dell’Armeria Reale o della Deputazione di Storia Patria.
Nell’ambito di questo doppio disegno di rappresentanza ed esaltazione del passato sabaudo e di proposizione
della corona come possibile garante dell’unità, il sovrano, figura colta e cosmopolita, giovane intemperante e
burrascoso educato nella Francia di Napoleone, chiamò a lavorare all’interno del palazzo, oltre ad una serie di
pittori locali cui affidò l’esecuzione di cicli pittorici e di ritratti commemorativi di apologia dinastica, artisti tra i
più celebri allora attivi in Italia. Pittori del calibro di Francesco Podesti, Carlo Arienti o Francesco Hayez, ai quali
affidò, tra gli anni trenta e quaranta, l’incarico di dipingere delle opere a soggetto storico di grande formato senza
limite tematico, di tempi di consegna e di prezzo. Un atto emblematico, di grande munificenza, che innescò,
come un volano in azione, un proficuo aggiornamento in tutto l’ambiente artistico torinese.
Mentre ad altri pittori di levatura “nazionale”, come il toscano Giuseppe Bezzuoli, il lombardo Giuseppe Molteni
o il torinese Pietro Ayres, furono affidati i più impegnativi – quelli cioè da collocarsi nella Sala del Consiglio – tra
i ritratti dinastici che, a decine, tappezzarono le pareti della Galleria del Daniele, della Sala del Caffè e, appunto,
della Sala del Consiglio.
Con Vittorio Emanuele II, divenuto re nel 1849 dopo il fallimento della Prima Guerra d’Indipendenza,
l’abdicazione e il volontario esilio ad Oporto del padre, quel generale clima di entusiasmo e di promozione
artistica verrà pian piano a diradarsi. Il nuovo re, dedito agli amori e alla caccia, certamente meno colto e
appassionato di Carlo Alberto, si dedicò con maggiore pertinacia e dietro la guida attenta del conte di Cavour al
cosiddetto decennio di preparazione all’Unità.
I lavori a palazzo comunque continuarono: fu progettato ed ultimato negli anni sessanta il monumentale scalone
d’onore, con sculture e dipinti celebrativi di casa Savoia; ulteriori cicli dinastici furono affidati a Francesco
Gonin, cavallo di razza della scuderia torinese, e ad altri artisti di minor levatura.
In una congiuntura celebrativa ormai attardata – a Firenze imperversano i Macchiaioli, a Parigi il realismo di
Gustave Courbet, a Torino, fuori dalla reggia, lavorano Antonio Fontanesi e Vittorio Avondo – saranno le grandi
vedute risorgimentali di Ippolito Caffi, Carlo Bossoli e Peter Tetar van Elven, relative alle contemporanee
campagne militari del trionfante re d’Italia, a rappresentare gli ultimi arrivi di grande livello a corte. Mentre con
l’Unità d’Italia il palazzo perderà definitivamente il ruolo secolare di scrigno di rappresentanza di casa Savoia.
Prossima lezione: mercoledì
14 aprile 2010
I Castelli di Racconigi e Pollenzo: la nostalgia del medioevo nell’età di Carlo Alberto
Enrica Pagella
Mercoledì 14 aprile 2010
I Castelli di Racconigi e Pollenzo:
nostalgia del medioevo nell’età di Carlo Alberto
Enrica Pagella
La committenza sabauda della prima metà del XIX secolo è caratterizzata da fenomeni di Revival medievale che
culminano in alcune grandi imprese architettoniche: i restauri dell’abbazia di Hautecombe, iniziati nel 1824 per
impulso di Carlo Felice, e quelli dei castelli di Racconigi e Pollenzo, voluti da Carlo Alberto dopo la sua salita al
trono nel 1831. Dal 1832 i progetti e la gestione dei cantieri sono affidati a Pelagio Palagi, responsabile anche
l’ideazione delle campagne decorative e degli arredi destinati agli ambienti interni.
Il medioevo reinventato per i Savoia in questi anni è legato soprattutto alla riproposizione dello stile gotico e alla
dimensione delle residenze private, con un carattere di natura politica e dinastica. Si tratta, da un lato, di
riaffermare i valori di legittimità delle grandi aristocrazie dopo la parentesi rivoluzionaria, ritrovandone le radici
cristiane e feudali, e dall’altro, di salvaguardarne la memoria trasponendola sul piano del nuovo gusto romantico.
Sotto il profilo della cultura figurativa, il neogotico piemontese si riallaccia, per bizzarria ed estro inventivo, alle
fonti del Settecento inglese, documentate dalla celebre dimora di Horace Walpole a Strawberry Hill , edificata tra
il 1750 e il 1790, ed è parallela a esperienze di area tedesca come il castello di Laxenburg (Vienna), ricostruito in
foggia di maniero medievale da Maria Teresa d’Austria nei primi decenni dell’Ottocento. Un gusto, che
dall’architettura si estende a tutte le grandi imprese artistiche volute da Carlo Alberto, dalle gallerie degli antenati,
alle feste pubbliche, fino a nuovi musei come l’Armeria Reale, inaugurata nel 1837.
Prossima lezione: mercoledì 21 aprile 2010
Massimiliano a Miramare, un sogno asburgico sull’Adriatico
Enrico Lucchese
Mercoledì 21 aprile 2010
Massimiliano a Miramare, un sogno asburgico sull’Adriatico
Enrico Lucchese
La storia del Castello di Miramare s’intreccia con la vita di Ferdinando Massimiliano d’Asburgo (1832 – 1867),
fratello cadetto dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.
Dopo essere stato governatore del Lombardo-Veneto, Massimiliano con l’amata moglie Carlotta del Belgio
(1840-1927) si trasferì a Trieste, porto-franco dell’Impero, scelta per la sua splendida posizione. La coppia, allora
ancora arciducale, commissionò nella seconda metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento all’architetto viennese
Carl Junker l’edificazione di una fastosa residenza, dapprima immaginata come una villa e poi concepita come un
bianco castello di stile eclettico affacciato direttamente sul mare Adriatico: Miramar fu il nome prescelto.
La vicenda dei progetti e dei lavori è uno specchio rivelatore della cultura e della sensibilità di Massimiliano
d’Asburgo: ritiratosi dagli affanni politici, l’Arciduca d’Austria si dedicò, anima e corpo, alla creazione di un luogo
dei ricordi, degli affetti ma anche dei sogni - di un uomo del Nord - legati alla grandezza del passato. Le sale del
castello di Miramare furono progettate e arredate in ogni particolare, così come grande attenzione fu prestata
all’assetto del parco, un giardino botanico monumentale originato dagli studi scientifici dello stesso Massimiliano,
emulato in scala minore da altri mecenati triestini contemporanei, come Nicolò Bottacin e Pasquale Revoltella.
L’offerta della corona imperiale del Messico fu l’occasione di trasformare la residenza in reggia: Miramare fu
decorata con emblemi araldici connessi con il ruolo che l’Asburgo aveva, seppur con iniziale riluttanza, accettato,
un compito che porterà presto a un epilogo tragico, la fucilazione a Querétaro.
Con il ritorno del corpo del fratello dell’imperatore per le vie di Trieste listate a lutto, sembra quasi iniziare la fine
della dinastia degli Asburgo: Carlotta rientra in Belgio prostrata psichicamente e il castello di Miramare ospita
saltuariamente alcuni membri della famiglia imperiale. Dopo la Prima Guerra Mondiale, vi abiterà negli anni
Trenta, lasciando un appartamento arredato nel gusto dell’epoca, un altro sfortunato aristocratico: il duca
Amedeo di Savoia-Aosta (1898-1942).
Bibliografia
- Trieste e il suo territorio: il castello di Miramare, il Carso e il litorale, Toring Club Italiano, Milano 2009.
- Il museo storico del castello di Miramare, a cura di Rossella Fabiani, Terraferma, Vicenza 2005.
- Miramare: il parco ed il castello di Massimiliano, testi di Rossella Fabiani, fotografie di Gabriele Crozzoli, schede degli
alberi di Michele Zanetti, Vianello, Ponzano 2004.
Prossima lezione: mercoledì 28 aprile 2010
Palazzo Pitti al tempo dei Savoia
Carlo Sisi
Mercoledì 28 aprile 2010
Palazzo Pitti al tempo dei Savoia
Carlo Sisi
Quando Vittorio Emanuele II giungeva a Firenze, il 3 febbraio 1865, trasferendovi la corte piemontese, trovò le
sale di Palazzo Pitti sontuosamente arredate dai guardarobieri dell’appena esiliata dinastia lorenese e in grado così
di dimostrare, come scrisse l’articolista del ‘Giornale Illustrato’, il genio di una nazione e tanto più allora che essa
diveniva ricetto del “migliore de’ re” e, insieme, museo di storia, cenacolo dell’arte e dei più qualificati prodotti
del gusto italiano”.
Si sa intanto che il re galantuomo non predilesse le sale monumentali della sua nuova reggia toscana e che queste
vennero per lo più destinate ai pranzi diplomatici, ai balli di carnevale e ad altre circostanze ufficiali: le aspirazioni
sostanzialmente domestiche del sovrano erano invece soddisfatte dalla sistemazione agiata del quartiere della
Meridiana, direttamente affacciato sul giardino di Boboli, dove la vita poteva svolgersi secondo cadenze regolari,
tra pratiche quotidiane ed impegni politici. Gli ambienti della palazzina, affrescati con allegorie di casa Savoia e
con temi ricavati dalla storia antica di Firenze (Annibale Gatti, Cesare Mussini, Antonio Marini, Antonio
Puccinelli), erano stati allestiti con la mobilia e gli arredi acquistati prevalentemente all’Esposizione fiorentina del
1861, avvalendosi inoltre degli interventi degli ebanisti Vannini e Colzi e, nelle stanze private affacciate sulla città,
di una scelta di mobili verniciati al naturale, di carte da parati fatte venire da Torino, dei trofei di caccia prediletti
dal re e che richiamavano l’arredamento del castello della Mandria.
D’altra parte, le sale di Pitti che compongono, al piano nobile, il cosiddetto appartamento “delle Stoffe” (Sala
verde, Salotto celeste) non subirono rilevanti modifiche rispetto all’ultimo assetto lorenese, se si eccettua la Sala
rossa o del Trono allestita con arredi provenienti da Parma fra i quali spiccavano il trono già appartenuto a Maria
Luigia, il candelabro a colonna di porcellana e bronzi, i reggivasi neorococò cui era stata aggregata la
monumentale console del Bosi intagliata nel 1868 nello stile barocco molto gradito alla corte sabauda e in linea,
fra l’altro, con la grande tradizione degli ultimi Medici. Un modo di coniugare fra loro stili e abilità artigiane
peculiare della cultura toscana, incline a colti eclettismi e soprattutto affezionata ai recuperi rinascimentali in
architettura, nella scultura, nelle arti applicate (si veda l’imponente cassone intagliato e dipinto da Ponziani e
Ungarelli).
Anche nei riguardi della pittura il sovrano avrebbe dimostrato interessi molteplici, ora apprezzando i soggetti
patriottici e di storia antica, ora i quadri di paesaggio e le scene di genere, per cui favorì l’acquisto di opere di
Raffaello Sorbi, Giuseppe Ciaranfi, Pietro Saltini, Francesco Vinea, ma anche di Antonio Fontanesi, Saverio
Altamura e, con attenzione alle contemporanee sperimentazioni della ‘macchia’, di Vincenzo Cabianca.
Anche dopo la partenza per Roma di Vittorio Emanuele II, nel 1871, Palazzo Pitti ricevette l’attenzione dei
sovrani sabaudi, che già nel luglio dello stesso anno avevano fatto allestire un piccolo appartamento, annesso al
Quartiere d’Inverno, per ospitarvi il primogenito di Umberto e Margherita. Con l’avvento al trono di Umberto I,
nel 1878, si avvia per Pitti una fortunata stagione di recuperi e innovazioni, in parallelo a quanto avveniva a
Firenze a seguito dell’apertura di nuovi quartieri, dei boulevards e delle strade previsti dal piano urbanistico di
Giuseppe Poggi. Come si può dedurre dagli inventari di palazzo, i Savoia riutilizzarono mobili e arredi già
presenti in grande quantità a Pitti aggregandoli secondo il gusto eclettico del tempo; ne ordinarono di nuovi da
destinarsi all’uso quotidiano; allestirono infine una vera e propria quadreria riunendo ai dipinti della collezione
palatina (da Botticelli ai quadri di Caravaggio e di Nattier) le opere dei ‘contemporanei’ acquistate alle Esposizioni
da Vittorio Emanuele II. L’appartamento delle Stoffe diviene allora abitazione dei sovrani e per questo la suite di
sale, pur mantenendo l’aspetto sontuoso attribuitogli dai Medici e quindi dai Lorena, assume caratteri più
accostanti per l’introduzione di mobili ora funzionali (si vedano le poltrone dei Levera nell’appartamento del re)
ora eccentrici, come la scrivania all’etrusca o quella impiallacciata di malachite collocate nell’appartamento della
regina.
I Savoia e gli Aosta frequenteranno o abiteranno Palazzo Pitti sino al 1946: si erano riservati infatti - quando il
complesso monumentale si avviava a diventare per buona parte museo - il quartiere della Meridiana, abitato dal
conte di Torino, e il Quartiere d’Inverno, dove la duchessa Anna Elena di Francia, moglie di Amedeo d’Aosta,
chiuderà la vicenda dinastica degli abitatori di Pitti lasciando il palazzo nell’anno stesso che segnava, in Italia, la
fine della monarchia.
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Prossima lezione: mercoledì 5 maggio 2010
Il Quirinale della Regina Margherita
Barbara Cinelli
Mercoledì 5 maggio 2010
Il Quirinale della Regina Margherita
Barbara Cinelli
Margherita di Savoia entrò al Quirinale come principessa di Piemonte, giovane sposa del principe ereditario
Umberto, nel 1870, quando Roma divenne la capitale del Regno d’Italia, e l’antico Palazzo dei papi, che
dominava la città eterna dalla spianata di Montecavallo, sostituì il rustico bugnato toscano della reggia fiorentina.
Nei pochi anni che precedettero la morte di Vittorio Emanuele II, avvenuta nel 1878, Margherita ebbe
probabilmente un ruolo defilato ma non secondario, nell’iniziare la trasformazione di quel severo palazzo
pontificio in residenza di corte finalmente stabile dopo l’interregno fiorentino, ed è possibile individuare negli
arazzi, nelle suppellettili, e nelle opere di pittura ancora presenti al Quirinale alcuni oggetti di altissima qualità,
che giungevano a Roma dalle collezioni piemontesi, fiorentine, o delle corti preunitarie ora patrimonio sabaudo
(Parma e Napoli), per conferire alle sale della nuova reggia una fisionomia che rispecchiasse la finalmente
raggiunta unità nazionale.
Poi nel 1878 Margherita fu davvero Regina nel palazzo romano, ma solo fino al 1900, quando la mano
dell’anarchico Bresci interruppe anzitempo il suo gentile dominio nelle sale del potere, cedute alla giovane
principessa montenegrina, per ritirarsi nel Palazzo che da lei prese il nome e dove si sarebbe spenta nel 1926.
Non molti anni dunque, quelli che ebbe a disposizione Margherita per segnare la sua presenza al Quirinale, in un
contesto già pesantemente connotato dalla storia e che dopo di lei la storia avrebbe stravolto. Nel 1939 le sue
stanze saranno oggetto di pesanti ristrutturazioni: l’obiettivo era quello di creare nuovi appartamenti adeguati al
fasto di un Impero del quale non si voleva vedere l’inconsistenza, e le memorie di Margherita saranno cancellate
inutilmente. Dopo, nel 1946, la giovane Repubblica italiana non poteva che guardare con occhio estraneo i segni
di una monarchia infausta, e se è vero che i peccati dei padri ricadono sui figli, quella volta accadde il contrario: i
peccati del figlio ricaddero sui padri, anzi sulla madre, visto che Umberto godeva del fascino del martire. Alle
ragioni della storia si sommarono le ragioni del gusto: nulla di più incomprensibile e irrecuperabile, per le
generazioni che si sono succedute dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, del fasto neo-rococò portato da
Margherita nella sua reggia. Né, d’altro canto, i due decenni che concludono il XIX secolo sono esenti, per
l’Italia, sia nelle arti figurative che nelle arti applicate, da episodi di provincialismo e faticoso aggiornamento sulla
situazione europea, soprattutto, e dispiace dirlo, se si guarda alla promozione da parte delle istituzioni pubbliche
e regie.
Resta, nel Quirinale della prima regina d’Italia, la straordinaria biblioteca del Piffetti, trasferita per intero dalla
reggia di Torino; restano alcune sale che sappiamo essere state abitate o utilizzate come ambienti di alta
rappresentanza, ma che si manifestano ora come gusci vuoti, dove restano gli involucri delle boiserie dorate
interrotte dagli specchi neosettecenteschi, o dove aggraziate e malinconiche figure femminili guardano dall’alto
dei soffitti; restano numerosi dipinti ottocenteschi, segno della benevolenza sovrana verso gli artisti del tempo, o
tangibili testimonianze del loro gusto e del desiderio di una collezione privata; ma per il Quirinale non è stato
possibile compiere un paziente recupero dello status quo al momento in cui il palazzo fungeva da reggia dei
Savoia; in cambio, l’agiografia ottocentesca su Margherita ci aiuta a collocare in stanze che non vedremo più, ma
delle quali i contemporanei hanno lasciato descrizioni a volte minuziose, lo scorrere delle sue giornate, fra libri,
musica e artisti.
Bibliografia.
- Pompeo MOLMENTI, Carpaccio, in “La vita Italiana. Rivista illustrata”, n. s., vol. II, agosto-novembre 1896,
Roma
- Onorato ROUX, La prima regina d’Italia nella vita privata – nella vita del paese, nelle lettere e nelle arti, Carlo Aliprandi
Editore 1901
- Giuseppe GALLAVRESI- Luigi BROGGI, Margherita di Savoia, Comitato Italiano di Propaganda all’Estero,
1928
- Carlo CASALEGNO, La regina Margherita, Torino 1956
- Il Palazzo del Quirinale, a cura di Franco Borsi, Roma 1991
- La quadreria e le sculture: opere dall’Ottocento al Novecento, a cura di Anna Maria Damigella, Bruno Mantura e Mario
Quesada, Milano/Roma 1995
- Il catalogo delle opere d’arte del Quirinale, Roma 1998
- Il Quirinale: l’immagine del Palazzo dal ‘500 all’800, catalogo della mostra, Roma 2002
Prossima lezione: mercoledì 12 maggio 2010
Mussolini tra Palazzo Venezia e Villa Torlonia
Paolo Rusconi
Mercoledì 12 maggio 2010
Mussolini tra Palazzo Venezia e Villa Torlonia
Paolo Rusconi
Negli anni Trenta le guide turistiche a stampa della capitale raccomandavano, come iniziale ed esemplare
itinerario cittadino, la visita di Piazza Venezia e dei suoi monumenti. Ritenuta il centro della città - da questo
luogo, infatti, si diramavano le principali arterie della Roma di Mussolini e i nuovi importanti interventi viari
realizzati dal regime – la piazza conteneva “la severa costruzione, merlata […] dall’aspetto massiccio” del Palazzo
di Venezia, sede del Capo del Governo e simbolico scenario dei “più memorabili discorsi agli italiani”.
Mussolini vi si era trasferito nel 1929, facendolo diventare la sua “reggia”; un luogo divenuto familiare alla
maggioranza degli italiani, grazie alla serie di fotografie diffuse dall’Istituto Luce. In particolare la sala del
Mappamondo, dove “il Duce, con romana magnificenza, lavora e riceve”, era stata ripresa più volte nella sua
severa nudità, in cui risaltava solo la tavola di lavoro del dittatore su cui spiccavano i pochi oggetti: il calamaio di
bronzo con i leoni al fianco, un portamatite di porcellana a fiori, un tagliacarte d’argento e un abat-jour di seta
gialla. Non era di pubblico dominio, invece, l’opera di sfratto compiuta dal governo per le varie istituzioni
presenti nel Palazzo e soprattutto l’uso strumentale di un progetto di restauro delle sale nato nel 1916 con ben
altri obiettivi. Il Palazzo di Venezia, infatti, fu strappato all’Austria con un chiaro progetto per renderlo sede di
un Museo storico nazionale, che contenesse opere dal Medioevo al Risorgimento. Il restauro stilistico a cui
furono sottoposte le stanze dell’edificio tra il 1916 e il 1930, tuttavia, entrarono appieno nella strategia di
Mussolini di appropriarsi di uno dei luoghi simbolo dell’Italia unita.
Villa Torlonia rappresentava invece il versante privato delle residenze di Mussolini; gli fu offerta dal principe
Torlonia nel 1925 e il Duce vi restò con la famiglia sino al 1943. Non fu modificato l’assetto e l’arredamento di
una villa che aveva mantenuto un ricco apparato decorativo e diversi oggetti di valore. Fu tuttavia il parco che
concentrò l‘aspetto pubblico della vita del Duce a Villa Torlonia: dalle nozze di Edda con Galeazzo Ciano alle
partite di tennis, dalle battute di scherma all’equitazione, dalle proiezioni cinematografiche agli “orti di guerra”,
l’immagine di Mussolini fu ampiamente registrata, ribadendo il carattere propagandistico e autocelebrativo della
stessa residenza privata.
Bibliografia
- Quinto Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini, Milano, Longanesi, (1946).
- Federico Hermanin, Il Palazzo di Venezia, Roma, La libreria dello stato, 1948.
- Paola Nicita, Il museo negato. Palazzo Venezia 1916-1930, in “Bollettino d’arte”, 114, ottobre-dicembre 2000, pp.
29-72.
- Villa Torlonia. Guida, a cura di Alberta Campitelli, Milano, Electa, 2006.