L’AUTOREGOLAZIONE DEL SE’: LA POSSIBILE
INTEGRAZIONE TRA LE NEUROSCIENZE E LA
PSICOTERAPIA AUTOGENA.
Roberto Baruzzo
Parole chiave: personalità antisociale, sviluppo cerebrale, equilibrio
affettivo, disturbi affettivi e comportamentali, psicoterapia autogena.
L’osservazione dei fatti di attualità porta ad ipotizzare un
incremento di personalità antisociali. Le notizie di cronaca riportano
episodi di violenza diffusa, di comportamenti aggressivi, di mancanza di
rispetto per gli altri e per le regole sociali. In molti di questi casi si
riscontra una assenza di responsabilità sociale, di senso di colpa, di ansia
e di rimorso.
Sembrano numerose le persone che manifestano anomalie nelle
reazioni emotive, con conseguenze spesso dannose per sé e per gli altri,
rivelando una carente capacità di autoregolazione.
L’autoregolazione del Sé e le patologie connesse.
L’autoregolazione si riferisce sia ai comportamenti sia alle sottili
risposte cognitive e fisiologiche e descrive la modulazione delle reazioni
fisiche e psicologiche di fronte ad eventi stimolanti.
Per un quadro descrittivo e per i criteri diagnostici, che aiutano a
meglio definire i tipi di personalità che possiedono in misura diversa tali
caratteristiche, si può fare riferimento al DSM-IV-TR.
Nel passato venivano utilizzati termini quali psicopatia, sociopatia
e personalità dissociale; la descrizione includeva capacità di affascinare,
inaffidabilità, scarse capacità di giudizio, assenza di responsabilità
sociale, di senso di colpa e rimorso. Nel corso degli anni i criteri
diagnostici hanno visto una alternata accentuazione degli aspetti sociali
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o degli aspetti psicodinamici, fino ad includere entrambi. Vengono
comunque citati alcuni tratti caratteristici di un comportamento
antisociale: “la mancanza di empatia, un’autostima ipertrofica e una
superficiale capacità di affascinare” (A.P.A., 2000).
Lo
stile
comportamentale
della
personalità
antisociale
è
caratterizzato da impulsività, irritabilità e aggressività, incapacità di
rispettare gli impegni lavorativi e gli obblighi sociali; sono frequenti le
esplosioni di rabbia impulsiva, la disonestà e la furbizia.
Lo stile interpersonale è caratterizzato da antagonismo e
noncuranza dei bisogni e della sicurezza altrui; le relazioni sono
superficiali e scarsamente coinvolgenti sul piano emotivo; si nota la
tendenza a essere insensibili al dolore e alla sofferenza altrui.
Lo stile cognitivo è impulsivo e cognitivamente rigido, poco
tendente all’introspezione; si manifesta disprezzo per l’autorità, le regole
e le norme sociali, trovando facili giustificazioni ai comportamenti
trasgressivi.
Lo stile emotivo si caratterizza come frivolo e superficiale:
vengono evitate le emozioni calde, considerate segno di debolezza,
raramente è sperimentato il senso di colpa; si evidenzia una incapacità a
tollerare la noia e le frustrazioni.
Lo stile di attaccamento è ansioso-ambivalente, con una visione
degli altri negativa e una considerazione di sé in bilico tra il negativo e il
positivo. Esiste la consapevolezza del bisogno degli altri, i quali però
sono considerati potenzialmente in grado di ferire. Conseguentemente le
altre persone sono utilizzate per soddisfare i propri bisogni, pur
rimanendo distaccati e diffidenti nei loro confronti (Sperry, 2004).
La letteratura relativa all’autoregolazione del Sé, all’autocontrollo
e all’impulsività è assai ampia e ha messo in luce la molteplicità dei
fattori coinvolti: lo sviluppo istintuale, le influenze dell’ambiente, le
relazioni affettive, la regolazione sociale e le strategie di controllo
emotivo.
La visione psicodinamica mette in rilievo la mancanza di una base
sicura e la fissazione alla fase del processo di separazioneindividuazione, che, unitamente all’assenza di un oggetto materno di
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amore, non hanno permesso la formazione della costanza dell’oggetto.
Da ciò, l’incapacità di sviluppare il senso di colpa e le ansie depressive
per il dolore che le loro azioni causano agli altri.
Un numero di cognizioni disfunzionali invece sono considerate
determinanti dalla concettualizzazione cognitivo-comportamentale: la
credenza che il volere o il non volere una cosa giustifichi le azioni di una
persona, la credenza che una persona sia nel giusto perché si sente di
essere nel giusto; la credenza che il punto di vista altrui sia irrilevante
nella presa di decisioni; la credenza che non si verificheranno
conseguenza spiacevoli o che non coinvolgeranno la persona.
Altri punti di vista sottolineano il ruolo dei genitori duri e
negligenti, dell’ambiente familiare permeato di critiche e modalità di
controllo inadeguate e violente, del carattere da “bambino difficile”.
Anche
se
può
sembrare
sottovalutata
l’importanza
delle
caratteristiche neuropsicologiche del soggetto, già da alcuni anni sono
stati messi in primo piano i fattori biologici nello sviluppo della
personalità antisociale. Si è visto come l’equilibrio tra processi inibitori
ed eccitatori, responsabile della stabilità del Sé, abbia una relazione con
lo sviluppo istintuale e la successiva mediazione delle esperienze reali.
La regolazione affettiva delle interazioni e la valenza emotiva di episodi
particolarmente significativi hanno un ruolo centrale nello sviluppo della
capacità di autocontrollo.
Figure primarie e sviluppo neuronale.
Negli ultimi anni la ricerca che più di altre ha cercato di coniugare
gli aspetti relazionali con le caratteristiche neurologiche è stata quella
condotta da Allan Schore (Schore, 1994 e 1996).
Lo psiconeurobiologo ha messo in luce il ruolo cruciale della
qualità delle interazioni affettive tra madre e bambino nello sviluppo
cerebrale del neonato. Nei primi due anni di vita si definisce il sistema di
influenza reciproca tra figure parentali e bambino. Successivamente al
parto sono queste interazioni a dare l’avvio ai processi biochimici e
neurobiologici responsabili della maturazione delle strutture corticali e
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subcorticali del neonato. Queste a loro volta sono alla base delle capacità
di autoregolazione del Sé, indispensabile per lo sviluppo sociale,
cognitivo ed affettivo, nonché per l’identità del Sé.
Schore ha elaborato un modello a due fasi del progresso cerebrale
maggiore, collegate all’influenza reciproca della diade madre-bambino.
Durante la prima fase tra i 3 e i 12 mesi l’interazione positiva
bambino/figure parentali consente la produzione delle sostanze
neurochimiche responsabili di una precoce capacità di regolazione degli
affetti.
Nella seconda fase intorno ai 18 mesi, il successivo progresso
neuronale maggiore è preceduto da un drastico cambiamento del pattern
di interazione: con l’aumento della curiosità e della sperimentazione, il
genitore comincia a imporre regole e vincoli che provocano nel bambino
uno stato di stress psicologico e fisiologico, con uno stravolgimento
dell’immagine che il bambino aveva del proprio genitore e di sé;
vengono sperimentate la vergogna e l’umiliazione.
Mediante
una
psiconeurobiologica,
approfondita
Schore
dimostra
analisi
che
della
“queste
ricerca
esperienze
condizionano la produzione di specifici ormoni e neurotrasmettitori,
determinando delle alterazioni della biochimica cerebrale, che agiscono
sulla maturazione della corteccia orbitofrontale” (Schore, 1996, citato in
McFarland Solomon, 2003).
L’autorganizzazione del sistema nervoso centrale infantile si
realizza nel contesto di relazione con un altro Sé. In questo modo il
legame di attaccamento è all’origine della maturazione delle connessioni
strutturali tra aree corticali e aree limbiche subcorticali, deputate alla
mediazione delle funzioni socioaffettive. Tale modello di sviluppo
psicologico, secondo la prospettiva intersoggettiva, postula una
corrispondenza diretta tra sistemi cerebrali del genitore e del bambino, e
nello specifico tra i due emisferi destri.
La qualità della sintonia tra figure primarie svolge un ruolo
cruciale nello sviluppo neuronale infantile, nonché nello sviluppo
psicologico. La relazione materna, in modo particolare la qualità delle
relazioni con il figlio, “non si limita a modulare gli stati affettivi del
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bambino, ma contribuisce alla regolazione della produzione degli
ormoni e neurormoni che influenzano l’attivazione dei sistemi, a base
genetica, responsabili della programmazione dello sviluppo strutturale di
alcune regioni cerebrali (in particolare, la corteccia orbitale pre-frontale
dell’emisfero destro e il sistema limbico) essenziali per il futuro
sviluppo sociale ed emotivo del bambino (ibidem).
Se nel corso dei primi due anni di vita non si verificano gli scambi
socioaffettivi positivi che garantiscono uno sviluppo neuronale ottimale,
ne risulteranno gravi deficit funzionali e conseguenti patologie
dell’attaccamento e del Sé, che si manifesteranno con fallimenti
dell’autoregolazione e/o della regolazione interazionale.
Tali affermazioni sono in sintonia con tutti gli studi che collegano
la deprivazione affettiva ed il maltrattamento nell’infanzia con un
elevato rischio di comportamento antisociale e violento.
Le ricerche delle Neuroscienze e i disturbi affettivi.
Il collegamento tra emozioni e corpo, tra sistema nervoso centrale
e comportamento emotivo, ha visto contributi importanti negli ultimi
anni: Gardener (2000), Goleman (2002), Le Doux (2003), Moffitt
(2003).
Joseph LeDoux della New York University ha dedicato le sue
ricerche al rapporto tra emozione e sistema neuronale. Interessanti sono
le sue ricerche sul ruolo dell’amigdala nella reazione ad uno stimolo
percepito come pericoloso e alla conseguente risposta fisiologica, che
rappresenta l’emozione della paura (LeDoux, 2000).
Secondo LeDoux, i sistemi neuronali nella loro plasticità possono
essere potenziati nelle funzioni specifiche dall’esperienza, ma è anche
questa che può modificare i sistemi e le funzioni originarie. Insomma i
nostri geni “possono condizionare la maniera in cui ci comportiamo, ma
i sistemi di gran lunga responsabili di ciò che facciamo e di come lo
facciamo sono plasmati dall’apprendimento” (LeDoux, 2003).
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Terrie E. Moffit, dell’Institute of Psychiatry del King’s College di
Londra, ha seguito per oltre un ventennio un migliaio di ragazzi
maltrattati durante la loro infanzia, ed ha scoperto che se i soggetti
maltrattati presentavano anche, nel loro corredo cromosomico, la
versione corta del gene MaoA, avevano elevate probabilità di diventare
adulti delinquenti o criminali: l’85% dei maschi che avevano sia il “gene
cattivo” sia il “cattivo ambiente familiare e sociale” avevano sviluppato
comportamenti antisociali prima dei 26 anni di età (Moffitt-Caspi et A.,
Science, 2002).
Il neurologo Antonio Damasio dell’Università di Iowa City ritiene
che lo studio del rapporto tra cervello ed emozione sia stato a lungo
trascurato per il perpetuarsi del famoso “errore di Cartesio”, il filosofo
francese che riteneva situate nel cervello solo le funzioni superiori, e
invece provenienti dal basso del corpo, quindi meno degne, le emozioni
e gli istinti.
Nei suoi studi Damasio ha dimostrato che se la corteccia
prefrontale viene danneggiata in giovane età, il cervello non sa più
controllare gli impulsi in base alle regole sociali. Egli ci riporta il caso di
pazienti con danni nella regione prefrontale che sembravano aver
perduto le capacità di provare alcune delle più comuni emozioni
connesse al vivere sociale. Negli stessi pazienti, pur rimanendo integre
le altre facoltà cognitive superiori (attenzione, memoria, intelligenza),
l'assenza di emozioni si accompagna quasi di regola all'incapacità di
decidere in situazioni che riguardano i propri interessi o quelli degli altri
(Damasio, 1995).
Camillo Padoa-Schioppa, ricercatore in neurobiologia alla Harvard
Medical School di Boston, ha scoperto che nella corteccia orbitofrontale
ci sono dei neuroni deputati a guidarci nelle scelte (Padoa-Schioppa,
2006). Il gruppo di ricercatori guidato da Padoa-Schioppa ha osservato il
cervello delle scimmie durante le diverse scelte. Ed ha evidenziato che
diversi gruppi di neuroni si accendono sempre in associazione a un certo
tipo di scelta, come se ciascun gruppo fosse in qualche modo allenato a
valutare la posta in gioco da diversi punti di vista. Nel suo insieme, la
popolazione di neuroni identificata nella corteccia orbitofrontale
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permette di assegnare certi valori su una scala di valutazione comune, e
quindi di confrontare tra loro anche scelte che naturalmente potrebbero
non avere una base comune di paragone.
I neurologi dell’Università del Michigan (aprile 2006) hanno
scoperto l’area del cervello che si accende quando capiamo di aver
commesso un errore. Si chiama “corteccia rostrale cingolata anteriore”
ed è collegata alle emozioni. Se non è debitamente sviluppata, sorgono
delle patologie rispetto al recriminare sui propri sbagli (es.: disturbo
ossessivo compulsivo) o alla corretta valutazione del proprio
comportamento (www.navigabile.it/News/cervello-errori.htm ).
Neuroscienze e psicoterapia autogena.
I risultati delle ricerche delle neuroscienze permettono di
interpretare i disturbi affettivi e comportamentali degli adulti come il
risultato di un precoce fallimento della regolazione interattiva.
Nel contesto terapeutico gli affetti che non si sono evoluti né
hanno avuto una regolazione interattiva, richiedono un appropriato
setting analitico per potersi sviluppare, con un adeguamento della
risposta del terapeuta per favorire l’attivazione affettiva del paziente. Si
tratta cioè di offrire una “esperienza affettiva correttiva”, ovvero una
correzione delle aspettative del transfert.
Una proposta interessante può essere quella che deriva dal “brainbrain model”, modello di interazione tra i due sistemi cerebrali della
madre e del figlio, sopra esposto. Schore infatti propone una modalità
alternativa per interpretare gli eventi negativi che si verificano nello
studio di psicoterapia, tradizionalmente interpretati come degli attacchi
inconsci all’analisi stessa, dunque espressione di una resistenza
inconscia o di un rifiuto. L’analisi verte piuttosto sull’identificazione dei
deficit strutturali e sul tentativo di garantire le condizioni ottimali per
una correzione neurobiologica e neurochimica, mediante appropriate
“sintonizzazioni” della relazione analitica, fornendo al paziente un forma
di “empatico accadimento”.
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Secondo questo modello i “disturbi empatici” che si prestano al
trattamento analitico comprendono la depressione, gli stati fobici, il
disturbo post-traumatico da stress, la tossicodipendenza, i disturbi di
personalità borderline e antisociale.
Il
contributo
della
prospettiva
neurobiologica
è
evidente
nell’importanza attribuita all’adeguamento delle risposte empatiche
fornite dal terapeuta.
La postulata interazione tra i due emisferi destri implica un ruolo
dei processi di sintonizzazione psicobiologica non verbale e della
capacità di rispecchiare qualsiasi risposta somatica transferale e
controtransferale. Il collegamento che si stabilisce tra i due emisferi
cerebrali favorisce il ricordo di momenti ed episodi particolarmente
importanti, favorendo quegli aggiustamenti che consentono una
modificazione ed una crescita sul piano emotivo e sul piano
comportamentale.
È fondamentale che il terapeuta conduca il paziente a collegare le
azioni agli stati interni, affrontando costantemente le difese che si
possono esprimere con la negazione e la minimizzazione del
comportamento messo in atto.
Uno studio su individui con gravi disturbi di personalità, compresi
quelli con Disturbo Antisociale di Personalità, ha dimostrato che
l’utilizzo di tecniche di rilassamento ha favorito una ridotta resistenza e
un incremento della compliance terapeutica e del funzionamento
quotidiano (Sperry, 2004, p. 57).
La validità applicativa della psicoterapia autogena è stata
documentata da molti autori anche in riferimento alla carenza di
autoregolazione del Sé.
Hoffmann sostiene che in alcuni dei disturbi psicopatici è possibile
applicare il T.A.: nelle deviazioni dell’umore e della sfera emotiva
mediante lo smorzamento delle risonanze affettive; nei disturbi del
comportamento mediante l’attivazione autogena graduale; nei disturbi
dell’atteggiamento verso il mondo esterno mediante gli esercizi
anticipatori (Hoffmann, 1980, p. 341).
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L’utilizzo dei proponimenti viene suggerito da Lindemann (2003)
non solo per ridurre l’aggressività ma anche per mobilitare quelle
capacità che il paziente non sfrutta a sufficienza, a causa di una “perdita
dell’Io”. Si tratta di uno stato di eccitazione emotiva collegata a
comportamenti finalizzati a ferire o a danneggiare in qualche modo
qualcuno. Le formule intenzionali della modificazione autogena possono
favorire una maggiore capacità di tolleranza della frustrazione, un
incremento del proprio valore personale e un positivo atteggiamento
verso gli altri.
La Psicoterapia Autogena favorisce la rievocazione di momenti ed
episodi particolarmente significativi, gli aggiustamenti e la maturazione
di nuovi criteri interpretativi, che consentono una interiorizzazione di
nuovi pattern comportamentali, in sostituzione di quelli patologici e
difensivi.
Nella Psicoterapia Autogena avviene un “empatico accudimento”
che, agendo sull’unità somatopsichica, contribuisce a moderare gli stati
di attivazione eccessivi, favorire la sintonizzazione psicobiologica non
verbale, favorire il riequilibrio del sistema neurologico e psicologico,
favorire una mobilitazione ed un sostegno delle potenzialità biologiche
delle funzioni autocurative del cervello.
È importante sottolineare anche la natura preventiva della
Psicoterapia Autogena: l’allenamento autogeno ha la possibilità di
prevenire i disadattamenti, potenziare le difese contro le situazioni
stressanti, diminuire il pericolo di sviluppi psicopatici (Peresson, 1990,
pp.216-218).
La Psicoterapia Autogena offre la possibilità di adeguare le
risposte empatiche del terapeuta, indirettamente nell’offrire uno
strumento di riequilibrio interno, direttamente nel lavoro analitico sui
materiali che emergono dall’applicazione delle tecniche autogene.
L’allenamento autogeno si dimostra un valido strumento per
riequilibrare o migliorare personalità disarmoniche, in modo particolare
con l’inserimento dei metodi di neutralizzazione autogena. Tali metodi
facilitano una catarsi di natura neurofisiologica, permettendo la
liberazione di aree cerebrali sovraccariche.
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L’applicazione della neutralizzazione autogena in alcuni casi
clinici di disturbo dell’autoregolazione del Sé ha consentito la
rievocazione degli stati affettivi profondi collegati ad esperienze
infantili, che non solo avevano generato reazioni emotive e
comportamentali
aggressive,
ma avevano
anche
contribuito
al
consolidamento nel tempo di risposte oppositive, violente e di rifiuto
verso gli altri. Successivamente l’elaborazione dei materiali emersi ha
permesso una consapevolezza dei processi evolutivi compromessi e la
ricerca di modalità alternative sia sul piano affettivo, emotivo, sia sul
piano comportamentale, verso un migliore equilibrio interno e
relazionale.
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altri recenti studi sul rapporto tra sviluppo cerebrale e comportamento
sono pubblicati in pdf dalla “European Dana Alliance for the Brain”,
www.dana.org ; si veda anche www.lescienze.it
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www.biomedcentral.com/bmcneurosci
www.psicolab.net
www.mbtherapy.it
www.researchmatters.harvard.edu
www.navigabile.it
www.psycomedia.it
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