Margherita Hack CON STENO FERLUGA IL CIELO INTORNO A NOI Viaggio dalla Terra ai confini dell’ignoto per capire il nostro posto nell’Universo Dalai editore 01_capitolo.indd 3 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 SOMMARIO Presentazione 3 1. IL CIELO IN CUI VIVIAMO 9 Per conoscere la volta celeste Cielo azzurro, salmone e nero Cosmologia del giorno e della notte Dalla costellazione di Orione e del Cane… a quella del Gatto 14 19 21 2. IL VILLAGGIO PLANETARIO 35 Come nacque (forse) il Sistema solare Incominciamo da Gaia: la Terra La Luna e le lune, Mercurio, Venere e Marte Gli asteroidi e le avventurose comete I pianeti di ghiaccio: i quattro grandi Plutone: si credeva grande e invece è piccino 40 48 52 68 77 87 3. LA GALASSIA E LE SUE POPOLAZIONI 93 La megalopoli stellare in cui viviamo Gli abitanti della Galassia Un po’ di storia Il nostro posto nella Galassia Una finestra spalancata sulla Galassia Il centro galattico Come nacque la Galassia Un grande mistero: la materia oscura 4 01_capitolo.indd 4 24 96 99 102 104 107 109 112 114 CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 4. LE STELLE 117 Dimmi che spettro hai e ti dirò chi sei Alcuni tipi di stelle Popolazioni stellari e stelle giovani e vecchie Le stelle son belle perché varie Evoluzione e morte delle stelle Novae, supernovae, pulsar e buchi neri Messer lo Frate Sole Pianeti extrasolari 121 126 134 140 143 149 152 156 5. L’ORIGINE DELL’UNIVERSO: TEORIE E FATTI 159 Antiche e nuove intuizioni L’Universo in espansione La radiazione fossile Tre solidi pilastri L’età dell’Universo Le forze dell’Universo Tutto discende da un casuale eccesso di particelle 161 167 170 172 174 177 6. MISTERI INSOLUTI 187 La distribuzione degli ammassi di galassie La materia e l’energia oscura Materia e antimateria La disuniformità dell’Universo 189 191 193 193 180 APPENDICE. TELESCOPI E SONDE 197 Telescopi 199 Sonde interplanetarie 2085 Il cielo in cui viviamo 01_capitolo.indd 5 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 VIVIAMO NELL’ERA DELLA SCIENZA. SONO LONTANI I SECOLI IN CUI CREDEVAMO DI ESSERE AL CENTRO DELL’UNIVERSO. ORMAI GIÀ A SCUOLA I BAMBINI APPRENDONO CHE LA TERRA NON È UN PIANETA PRIVILEGIATO, COLLOCATO NELLO SPAZIO IN POSIZIONE PREFERENZIALE, BENSÌ UN OGGETTO CELESTE COME TUTTI GLI ALTRI: UN PICCOLO PIANETA IN ROTAZIONE INTORNO A UNA DEI MILIARDI DI STELLE DELLA NOSTRA GALASSIA: ANCH’ESSA NULL’ALTRO CHE UN MICROCOSMO IN UN UNIVERSO POPOLATO DA MILIARDI DI GALASSIE SIMILI. LE IMPRESE SPAZIALI – DI ENORME IMPORTANZA PER NOI CHE LE VIVIAMO E NE CONOSCIAMO LE DIFFICOLTÀ, MA RAPPORTATE ALL’UNIVERSO ASSAI PIÙ INSIGNIFICANTI DEL SALTO DI UNA PULCE SU UN ELEFANTE – CI HANNO PERMESSO DI CURIOSARE UN POCO FUORI DAL NOSTRO PIANETA, MENTRE GLI STRUMENTI, SEMPRE PIÙ PERFEZIONATI, CI CONSENTONO DI CONOSCERE DEL COSMO QUEL TANTO CHE CI SPRONA A PERSEVERARE NELLA RICERCA, PONENDOCI SEMPRE NUOVI INTERROGATIVI. EPPURE, MALGRADO LE CONOSCENZE DIFFUSE, I VANTAGGI DI VEDERE IMMAGINI SU INTERNET, NON MUTA IL FASCINO 6 01_capitolo.indd 6 CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 CHE L’UNIVERSO ESERCITA SU CIASCUNO DI NOI, CON GLI INSONDABILI MISTERI CHE CONSERVA ANCHE ALLA LUCE DEI PIÙ MODERNI RISULTATI SCIENTIFICI, E LA CURIOSITÀ DI CONOSCERE ALMENO IL CONOSCIBILE DELLO SPAZIO INFINITO CHE CI CIRCONDA. IL CHE GIUSTIFICA LA PUBBLICAZIONE DI QUESTA SORTA DI ATLANTE ILLUSTRATO DELL’UNIVERSO. ATTRAVERSO QUESTE PAGINE SI SONO VOLUTE DARE, IN MODO SEMPLICE E IL PIÙ POSSIBILE CHIARO, TUTTE LE MAGGIORI INFORMAZIONI IN NOSTRO POSSESSO CIRCA I CORPI CELESTI, CON PARTICOLARI RIFERIMENTI ALLA TERRA E AI COMPONENTI DEL SISTEMA SOLARE, CORREDANDOLE DI UN MATERIALE ICONOGRAFICO TANTO PERTINENTE E CHIARIFICATORE QUANTO SPETTACOLARE. A COMPIMENTO DELL’OPERA SI È AGGIUNTA UNA PICCOLA APPENDICE CHE AIUTA A CAPIRE VELOCEMENTE COME SI SONO EVOLUTI I PRINCIPALI STRUMENTI MODERNI DI INDAGINE DEL CIELO, OVVERO LE SONDE E I TELESCOPI. STRUMENTI SENZA I QUALI, NEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI DI STORIA DELL’ASTRONOMIA NON AVREMMO POTUTO COMPIERE I PICCOLI GRANDI PASSI CHE ABBIAMO COMPIUTO. Il cielo in cui viviamo 01_capitolo.indd 7 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 7 16/04/12 08:50 01_capitolo.indd 8 16/04/12 08:50 CAPITOLO 1 IL CIELO IN CUI VIVIAMO 01_capitolo.indd 9 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 01_capitolo.indd 10 16/04/12 08:50 A lmeno qualche volta nella vita sarà capitato a tutti di osservare con curiosità il cielo, di porsi delle domande sulle stelle, di provare meraviglia per la loro piccolezza, il loro splendore e il numero nell’immensità dello spazio: e poi concludere sgomenti: «Ma a che serve tutto questo?» Fin dai tempi più antichi molti hanno risposto che il Sole, la Luna e le stelle esistevano per dimostrare la gloria e l’onnipotenza di Dio, oppure che quelle stelle erano esse stesse degli dèi; mentre altri, forse un po’ meno riverenti, cercarono anche risposte diverse. Comunque, non si scoraggiarono mai completamente davanti a un mistero che sembrava impenetrabile, e poco per volta incominciarono a scoprire e a imparare qualcosa, a decifrare qualche «geroglifico» in quel gran libro di stelle. Così, per esempio, notarono delle regolarità, oppure delle differenze di colore e comportamento; e soltanto per questo riuscirono anche ad acquistare una certa autorità sui loro simili. Sicché, si potrebbe incominciare col dire che non è proprio vero che le stelle non servano a niente. Infatti, si imparò presto che molte di esse aiutano a orientarsi; il loro sorgere e tramontare contrassegna il trascorrere delle stagioni, i ritmi del Sole e della Luna stabiliscono il calendario. Inoltre, come abbiamo accennato, l’osservazione dei pianeti e delle costellazioni fu una delle principali fonti dell’autorità dei sacerdoti sumeri, babilonesi e caldei, che erano astronomi, astrologi e anche banchieri. Per avere maggior potere tenevano segreta la loro scienza, e perciò erano molto più simili a Rosacroce o Massoni che a scienziati moderni. Non per nulla gli antichi pensavano che la loro autorità fosse d’origine divina e venisse dal cielo. I libri sacri sono ricchi di riferimenti astronomici. Nella Bibbia si legge come e in che ordine Dio creò il mondo, ma anche le domande di Dio al misero Giobbe: «Conosci tu le dimensioni della Terra e la dimora della luce e delle tenebre? Conosci tu forse l’ordine del cielo e chi determini la sua influenza sulla Terra?» Dal Corano apprendiamo che Abramo contemplava le stelle, e Filone di Alessandria, che visse all’incirca dal 30 a.C. al 50 d.C., ci ha tramandato che il 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 11 01_capitolo.indd 11 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 «caldeo Abramo era un astronomo nato. Nella sua patria si dedicò all’osservazione dei corpi celesti, calcolò il loro corso e si meravigliò della loro armonia…» Un concetto, quello dell’armonia, che dopo Pitagora acquistò grande popolarità non solo in astronomia, ma nella scienza in genere. Negli ultimi secoli l’astronomia ha compiuto straordinari progressi, ormai gli astronomi non sono più sacerdoti e nemmeno astrologi, sebbene rimangano sempre più o meno legati al potere politico per i costosi mezzi e strumenti di cui abbisognano. Specialmente oggi che siamo entrati nell’era dei viaggi spaziali e delle astronavi, e si comincia a penetrare in quelle «dimore celesti» di cui Dio parlava a Giobbe come gli fossero escluse per sempre, almeno in vita. Tuttavia, proprio per l’oggetto stesso di una ricerca che non finisce di apparire temeraria, ossia quest’Universo dispiegato davanti ai nostri occhi con i suoi inesauribili enigmi, nell’astronomia persiste una specie di alone mistico, un qualcosa di religioso, un anelito a leggere il cielo, che ci colpisce fin da bambini. Infatti, è in generale da bambini, quando l’ingenuità è una virtù e le avventure tutte meravigliose, che viene la vocazione astronomica. 12 01_capitolo.indd 12 ••1 La Stazione Spaziale Internazionale. Si tratta di una grande base scientifica orbitante a 390 km di quota, abitata in modo continuo sin dall’anno 2000. I moduli abitati e i laboratori si trovano sull’asse centrale, che nella foto è orientato in senso verticale (mentre l’asse orizzontale regge i pannelli solari). L’equipaggio è composto da 2 a 6 astronauti che si avvicendano in orbita, provenienti da 15 nazioni diverse in un decennio. La Stazione Spaziale è stata costruita per stadi successivi realizzando una struttura modulare, con inizio nel 1998 e completamento nel 2012. (NASA) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 È quanto è accaduto al noto astronomo Fred Hoyle. Molti lo conosceranno, se non per le sue discusse teorie astrofisiche e cosmologiche, per i libri di fantascienza come la Nuvola Nera, A come Andromeda, Nello spazio profondo, Quinto pianeta, Inferno, e tanti altri romanzi. Nel volumetto in parte autobiografico intitolato Incontro col futuro, Hoyle ci racconta che scoprì il richiamo delle stelle mentre giocava con un compagno per i campi del suo paese natale, Bingley, nell’Inghilterra settentrionale. Aveva otto o nove anni, era buio fondo e, dall’alto di un muretto dove si era arrampicato, gli sembrò di sentirsi all’improvviso come staccato dalla Terra, mentre il cielo punteggiato di migliaia di stelle gli appariva mostruosamente grande. «Così – egli dice – diventai consapevole e quasi intimorito dalle stelle. Quando, poi, mi decisi di scendere dal muretto avevo maturato un proponimento. Ricordo che stavo in piedi, ancora con gli occhi rivolti in alto, e fu allora che stabilii che cosa avrei fatto da grande: avrei cercato di sapere cosa fossero quelle luci lassù, e credo di aver mantenuto questa promessa per tutta la mia vita». Infatti, ha contribuito a scoprire come evolvono le stelle, e quale sia l’origine degli elementi più pesanti dell’elio. Ma è il futuro dell’astronomia che si prospetta sbalorditivo. Innanzi tutto perché, con l’avvento dell’astronautica, con i progressi nelle sonde e telescopi, è come se tutta l’umanità fosse uscita dall’infanzia e, apprestandosi a conquistare lo spazio, stesse diventando adulta. Tutto è iniziato con l’esplorazione della Luna negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Nei decenni seguenti grandi risultati nell’esplorazione degli altri pianeti e satelliti del Sistema solare sono stati raggiunti da nuove generazioni di sonde e rover (come vedremo in Appendice). In questi ultimi anni, il grande progetto internazionale della Stazione spaziale, piattaforma-laboratorio orbitante dove gli astronomi stanno a turno per lunghi periodi, abituandosi a vivere nello spazio, verso cui hanno fatto la spola per anni le navette americane Space shuttle e ora le russe Soyuz, assicurando trasporto e rifornimenti agli astronauti. Tutti questi progressi si possono in effetti considerare come la nuova scuola, laboratorio e dimora dell’uomo spaziale. In realtà, non soltanto ci si propone ormai di abitare sui pianeti o in colonie spaziali, ma anche servirsi di asteroidi, comete, pianeti e perfino stelle come fossero materiali da costruzione. Infatti, si pensa che un giorno saremo capaci di trasformare il Sistema solare come fanno architetti e ingegneri quando costruiscono o riadattano una casa alle nostre esigenze. C’è chi pone il raggiungimento di questi obiettivi di ingegneria planetaria e stellare in un futuro abbastanza prossimo; ma anche se occorressero molti altri secoli, è probabile che ci arriveremo. ••1 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 13 01_capitolo.indd 13 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 PER CONOSCERE LA VOLTA CELESTE Oggi abbiamo le macchine fotografiche, le fotocellule, le camere televisive, i telescopi spaziali, a raggi X, gamma e neutrini; si perfezionano quelli per la registrazione di eventuali «onde gravitazionali» (predette dalla teoria della Relatività Generale, ma non ancora scoperte), per cui si può affermare che, come i medici hanno perso l’abitudine di esaminare un paziente «auscultandolo e palpandolo», così gli astronomi di professione non guardano quasi mai le stelle a occhio nudo. L’occhio nudo serve all’astronomo molto meno di quanto non serva ancora l’«occhio clinico» al medico, perché i segreti più profondi della natura sono nascosti sia alla vista che ai cinque sensi in generale. Perciò, l’uomo ha inventato e trovato una quantità di nuovi sensi artificiali: un segno anche questo che l’umanità non è nata per vivere soltanto sulla «pellicola» del nostro pianeta, come se fosse – direbbe Arthur Eddington – una specie di muffa. Tuttavia, è altrettanto chiaro che una prima conoscenza del cielo non possiamo farla che a occhio nudo. Ed è sicuramente più facile se ci viene in aiuto qualcuno che l’astronomia la conosce di già, almeno un poco; e, per così dire, ce la presenta, sebbene non sia affatto disdicevole essere presuntuosi e fare da soli. Alcuni si aiutano con quella sorta di «biglietti da visita» della volta celeste, che sono i planisferi. Prendiamone uno. È di cartone o di plastica, ed è formato da due dischi girevoli l’uno sull’altro. Quello più grande porta disegnate le stelle del nostro emisfero con al bordo la scala dei giorni e dei mesi; mentre il disco minore riproduce l’orizzonte e ha sul bordo la scala delle ore. Serve tutto l’anno e conviene studiarselo a tavolino prima di confrontarlo col cielo. In ogni caso è sempre bene individuare prima il Nord e cercare la stellina all’estremità del Carro dell’Orsa Minore, ossia la Polare; poi, passare alle più luminose stelle dell’Orsa Maggiore, al W di Cassiopea, e così via. ••2 Avvertiamo che l’amore per l’astronomia e specialmente l’osservazione sistematica del cielo a occhio nudo necessitano di un minimo di preparazione degli occhi. Pur usando il telescopio, nell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli si preparava stando per quasi un’ora in una stanza buia a occhi chiusi, affinché la retina acquistasse la maggiore sensibilità possibile, che può aumentare di 10.000 volte. Quindi si metteva all’oculare del telescopio, raggiungendo risultati tali che molti astronomi sembravano ciechi in paragone a lui. Altro famosissimo «occhio di falco» era l’astronomo americano Edward Emerson Barnard. Ma, a proposito di acuità visiva e visibilità delle stelle, quante se ne possono vedere a occhio nudo? Innanzitutto dobbiamo dire che le stelle sono più colorate di 14 01_capitolo.indd 14 ••2 Le due Orse e la Stella Polare. L’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore si possono ammirare ogni notte serena, guardando verso Nord. La fotografia mostra come queste costellazioni si vedono nelle serate autunnali. Poiché la volta celeste ruota, la stessa visione appare capovolta nelle sere di primavera. L’Orsa Maggiore si riconosce facilmente, perché è composta di stelle luminose; la stella centrale della coda è Mizar, che a occhio nudo si vede accompagnata dalla vicinissima e quasi indistinguibile Alcor. Per trovare la Stella Polare, basta prolungare la linea immaginaria (trattini) che congiunge le due stelle anteriori dell’Orsa Maggiore; la Polare, chiamata così per la sua vicinanza al Polo Nord Celeste, è a sua volta la stella di coda dell’Orsa Minore. Quest’ultima costellazione è meno facile da individuare, essendo costituita principalmente da stelle deboli. (DA SPACETELESCOPE.ORG HEIC0401G) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 quanto sembri di primo acchito; poi spiegheremo perché il cielo di giorno ci appare blu, mentre gli astronomi sanno che è nero come l’inchiostro. Riguardo al cielo notturno accenneremo anche al cosiddetto «paradosso di Olbers», entrando così nel vivo dei problemi cosmologici ancora prima di conoscere le stelle. Generalmente noi riusciamo, nelle migliori condizioni dei nostri occhi, a vedere stelle piuttosto deboli, come quelle di 6a magnitudine ed eccezionalmente di 7a, tenuto conto che lo splendore di una stella diminuisce di circa 2,5 volte da una magnitudine a quella successiva. Ma che significa magnitudine di una stella? È facile intuire che lo splendore delle stelle dipende sia dalle loro dimensioni e temperature che dalla loro distanza. Però, anche la stima dello splendore delle stelle ha una storia che merita di essere raccontata. La storia incomincia con Ipparco e la costellazione del- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 15 01_capitolo.indd 15 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 lo Scorpione. Osservando un planisfero si nota subito che lo Scorpione è una di quelle costellazioni che si vedono bene d’estate, e la sua stella più brillante è Antares, un nome che significa «rivale di Marte». Infatti, Antares e Marte hanno quasi lo stesso colore, e se non ci fosse la scintillazione che distingue le stelle dai pianeti, quando Marte si trova più vicino alla Terra, entro la costellazione dello Scorpione, si potrebbero confondere. Nel 136 a.C., nell’osservare una cometa apparsa nella costellazione dello Scorpione, Ipparco, di cui Tolomeo diceva che «amava lavorare sodo come amava la verità», si accorse che le stelle in mezzo alle quali la cometa si trovava non erano state censite e catalogate come avrebbero dovuto essere. Così, per localizzare e seguire meglio il cammino di future comete, Ipparco prese a notare il numero, la luminosità relativa e la posizione di tutte le stelle più luminose del cielo. Ne risultò un catalogo di 1080 stelle, che completò nel 129 a.C. Egli aveva suddiviso queste stelle in 6 classi di grandezze o magnitudini, partendo da Sirio e Vega che apparivano più grosse e si «accendevano» per prime nel cielo della sera. Perciò, queste vennero definite di 1a magnitudine, mentre chiamò di 6a quelle che apparivano per ultime. Per inciso, val la pena di notare che questo «misurare» sia i corpi celesti, allora considerati divinità, come tutta la natura in genere, se da un lato è il principio della scienza, dall’altro ha fatto sempre rabbrividire i maghi antichi e moderni, del resto smentiti dalla Bibbia stessa che racconta come Dio aveva creato il mondo «sopra il numero, il peso e la misura». E quindi, il misurare si potrebbe considerare un modo di riscoprire Dio, attraverso l’opera sua. Così, infatti, l’intendevano scienziati credenti come Copernico, Keplero, Galileo e Newton, considerati i fondatori della scienza moderna. Riprendendo il nostro discorso, nel 1856 l’astronomo inglese Norman Robert Pogson trovò il modo di trasformare in numeri le stime di Ipparco ancora troppo opinabili e qualitative, mostrando che una stella di 1a magnitudine era circa 100 volte più luminosa di una di 6a. In genere, a una differenza di cinque magnitudini, corrisponde un rapporto di intensità 100; e fra una magnitudine e la successiva vi è una differenza di intensità di 2,512, in quanto (2,512)5=100. Inoltre, la scala delle magnitudini è stata estesa ai numeri negativi per le stelle più brillanti, cosicché Antares risulta di magnitudine +0,9, ma Sirio diventa di magnitudine -1,6; Venere, al suo massimo di splendore, è di magnitudine -4,08; Marte -1,24 (sempre al suo massimo); la Luna Piena -12,5 e il Sole -26,6. I maggiori telescopi ci permettono di osservare visualmente stelle fino alla magnitudine di +19 o 20, mentre fotograficamente si arriva alla magnitudine +22, 23 e anche 24, mentre con il telescopio 16 01_capitolo.indd 16 CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 ••3 Luminosità e distanza. Aumentando la distanza da una stella, la stessa quantità di luce si disperde sopra superfici sempre più ampie, sicché nell’occhio dell’osservatore entra sempre meno luce. Dalla figura si vede come, alla distanza 3, la superficie risulta 9 (ovvero d²) volte più ampia, sicché viene osservata una luminosità apparente pari a 1/9 (ovvero 1/d²). Questa è la legge dell’inverso del quadrato. Ad esempio, se la distanza aumenta 10 volte, la luminosità si riduce a 1/100, per cui la magnitudine apparente (come spiegato nel testo) cresce di 5 unità. spaziale Hubble (HST) e con i telescopi Keck da 10 metri è stata raggiunta la magnitudine 30. Così risulta che fra il Sole e una stella di magnitudine +22 esiste una differenza di 48,6 magnitudini, per cui il Sole ci appare circa 28 miliardi di miliardi di volte più luminoso di una stellina di magnitudine +22, perché (2,512)48,6= 27,6 miliardi di miliardi. Dato che fra la Luna Piena e il Sole c’è una differenza di 14,1 magnitudini, avremo che il Sole è (2,512)14,1= 436.516 volte più luminoso della Luna Piena. Le magnitudini di cui abbiamo appena parlato si dicono «magnitudini apparenti» perché si basano sulla luminosità che ci arriva. È evidente, però, che lo splendore di una lampada, come quello di una stella, dipende tanto dalla sua luminosità quanto dalla distanza. Per ottenere una «magnitudine assoluta» o intrinseca, che tenga conto anche della distanza, gli astronomi calcolano quale sarebbe lo splendore di una stella qualsiasi, se si trovasse a una distanza standard di 10 parsec, uguale a circa 33 anni luce. Queste ultime sono unità di misura astronomiche venute in uso soltanto alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, quando ci si rese conto delle enormi distanze in gioco e delle vere dimensioni della nostra Galassia. ••3 Detto questo, ci accorgiamo subito che il Sole, in realtà, non è una stella molto luminosa, in quanto da una «magnitudine apparente» di -26,6, trasportato a una distanza di 33 anni luce, avrebbe una magnitudine assoluta di +4,8: inferiore a quella di numerose stelle che si trovano intorno a noi, e che ci appaiono più deboli unicamente perché più lontane. Stelle come Antares, Sirio, Betelgeuse, Procione, Aldebaran, Spica, Regolo sono molto più luminose del Sole. Ma la stella che ha una magnitudine assoluta più grande di tutte quelle conosciute non appartiene alla Via Lattea, ma alla Grande Nube di Magellano. Si chiama S Doradus (dalla costellazione in cui si trova: Dorado) e raggiunge una magnitudine assoluta di -9,5. Sirio è la più luminosa, anche come magnitudine assoluta nel raggio di 12 anni luce, irradiando 30 volte più del Sole. Tuttavia, se Rigel fosse alla medesima distanza di Sirio, si vedrebbe anche di giorno. Se poi a questa distanza avessimo S Doradus, la sua luce sarebbe paragonabile a quella della Luna Piena. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 17 01_capitolo.indd 17 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle visibili a occhio nudo in tutto il cielo, compreso l’emisfero australe, sono circa 7000 (altri sostengono 6000 o 9000) e perciò 3500 quelle osservabili in ogni momento sopra l’orizzonte. Però, di queste 3500, quasi un’altra metà ci viene nascosta dalla foschia e opacità dell’aria, specie tutto intorno all’orizzonte, tanto che, in conclusione, le stelle visibili a occhio nudo si ridurrebbero a 2000, in una notte senza luna. Con un normale binocolo si arriva a osservarne 10.000, con un piccolo telescopio da 7 cm 300.000, e coi più grandi telescopi e lunghe esposizioni fotografiche se ne potrebbero registrare da 2 a 3 miliardi per ogni emisfero. La maggior parte di queste appartiene alla nostra Galassia, la quale ne contiene (come si deduce da altre considerazioni) 100 o 200 miliardi, e probabilmente migliaia di miliardi di pianeti, poiché le osservazioni sia da Terra ma soprattutto dai satelliti Co18 01_capitolo.indd 18 ••4 La luce zodiacale e la Via Lattea nell’emisfero celeste meridionale. La luce zodiacale appare come un’ampia area luminosa triangolare, elevata sull’orizzonte dopo il crepuscolo o prima dell’alba, che si nota qui al centro dell’immagine. Essa è provocata dalla riflessione della luce solare da parte della polvere meteoritica, addensata sul piano dell’eclittica. Per la sua evanescenza, la luce zodiacale si può vedere soltanto con cielo limpidissimo, ad esempio in alta quota sulle Alpi. Questa splendida panoramica mostra la volta celeste meridionale – non visibile dall’Italia – con la Via Lattea che si estende come un enorme arco nel cielo, insieme alle due Nubi di Magellano, basse sull’orizzonte a destra. La foto è stata scattata dalla spianata del VLT (Very Large Telescope), in Cile sulle Ande. (ESO/H.H. HEYER) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 rot, francese, e Kepler, americano, scoprono sempre nuovi pianeti extrasolari e si ritiene probabile che la gran maggioranza delle stelle, forse tutte, abbia un sistema planetario. Si può credere che nello spazio dove non c’è opacità né turbolenza atmosferica un astronauta debba vedere più stelle di noi, ma ciò non avviene che in minima parte. Si spiega col fatto che l’occhio non è sensibile all’ultravioletto, ma ha un massimo di sensibilità alle radiazioni giallo-verdi, le quali sono poco assorbite dall’atmosfera terrestre quando è limpida. Anzi, nello spazio, data la mancanza di scintillazione, le stelle sembrano più piccole e meno luminose. Insomma, si vedono quasi come da una montagna di 2 o 3000 m. Riguardo alla maggiore o minore visibilità a occhio nudo dei corpi del Sistema solare, noteremo che dopo il Sole e la Luna, sono facilmente visibili Venere, Marte, Giove, Saturno e le meteore. Senza troppa difficoltà, ma soltanto in occasioni favorevoli, si possono scorgere Mercurio, alcune comete, il falcetto della Luna dopo un giorno dalla Luna Nuova, la Luce zodiacale. Osservatori molto abili e dagli «occhi di falco» riescono a vedere Urano, l’asteroide Vesta, le macchie solari più grandi (diametro circa un primo, pari a circa 1/30 del diametro solare) e la cosiddetta Luce dell’Opposizione (o Gegenschein) che si può vedere talora nella posizione esattamente opposta al Sole. Alcuni affermano di avere osservato perfino le fasi di Venere. ••4 Naturalmente tutto ciò che abbiamo detto riguardo alla visibilità dei corpi celesti vale in assenza di inquinamento luminoso, dovuto al dilagare dell’illuminazione artificiale. In Europa si può dire non esista un luogo sufficientemente buio dove piazzare i grandi telescopi moderni, che infatti si trovano tutti in luoghi lontani da regioni popolate. I grandi telescopi da 8 metri di diametro dell’Osservatorio Europeo per l’emisfero australe (ESO) si trovano sulle Ande cilene, nel deserto di Atacama, i due telescopi Keck da 10 metri di diametro degli Stati Uniti si trovano sul vulcano spento Mauna Kea alle Hawaii a quasi 5000 metri di altitudine, mentre il 5 metri di Monte Palomar è fortemente disturbato dalle luci di San Diego. CIELO AZZURRO, SALMONE E NERO Perché il nostro cielo è così bello e azzurro? A questa domanda, John Tyndall, un fisico inglese dell’Ottocento, rispose: «Perché viviamo nel cielo, e non sotto il cielo». Tuttavia, questo colore non è una radiazione emessa dall’atmosfera medesima, altrimenti risplenderebbe anche di notte, ma dal Sole e dalle molecole e dal 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 19 01_capitolo.indd 19 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 pulviscolo dell’aria che ne diffondono selettivamente la luce: diffondono, cioè, maggiormente la parte della luce solare a lunghezza d’onda breve che non quella a lunghezza d’onda più lunga. In altre parole, il cielo ci appare blu perché i gas atmosferici riflettono il blu della luce solare in tutte le direzioni con assai maggiore efficacia degli altri colori. Via via che ci si innalza nell’atmosfera, la densità delle molecole diminuisce e il cielo diventa gradualmente più nero. Sulla Luna, dalle astronavi e sui pianeti privi di atmosfera, o con un’atmosfera molto più debole, il cielo ci apparirebbe nero. Invece, su Marte, che ha un’atmosfera ricca di finissime polveri in sospensione, il cielo – come hanno accertato i Viking 1 e 2 – ha un pallido color salmone, e anche il terreno, composto di rocce ricoperte da una patina di ossido di ferro, ha un aspetto di rugginoso deserto. C’è da immaginare che i futuri abitanti dello spazio e dei pianeti, se provenienti dalla Terra, per abituarsi a questi mondi tanto diversi dovranno sottoporsi a un lungo e penoso tirocinio. Dunque, il nostro cielo è blu e la Terra piena di colori per il tipo della nostra atmosfera che filtra e diffonde la luce solare. Certo, se il Sole, invece che giallo avesse un colore differente, tutto cambierebbe proprio in rapporto a questo mutamento di colore. Se il Sole, per esempio, diventasse appena un po’ meno giallo per un aumento della sua temperatura superficiale, c’è il pericolo che sul nostro pianeta non soltanto cambierebbero i colori, ma scompariremmo anche noi e tutta la vita animale e vegetale; gli oceani bollirebbero ed evaporerebbero, e anche l’atmosfera si disperderebbe nello spazio, lasciando la Terra riarsa e calcinata. Questo vuol dire che la vita dipende anche dal «colore» delle stelle. In realtà, nello spazio nero dell’Universo, quei minuscoli puntini di stelle non sono tutti dello stesso colore rossiccio, azzurrino o biancastro come appaiono a un’occhiata superficiale, ma dispiegano una grande varietà di colori e sfumature. Abbiamo già accennato alla rossa Antares nella costellazione dello Scorpione. In Orione spicca il contrasto fra la luce rossastra di Betelgeuse e quella bianco-azzurra di Rigel. Sirio, nel Cane Maggiore, è bianca, mentre Procione, nel Cane Minore, è gialla. E il loro colore non è costante, ma in continuo e più o meno lento o rapido cambiamento, a seconda della loro evoluzione e della loro età, che si conta in milioni e miliardi d’anni. Eppure, per l’effimera brevità della nostra vita, una volta le stelle si credevano e si chiamavano fisse e immutabili, invece anche loro nascono e muoiono viaggiando nello spazio. ••5 Gli antichi astrologi pensavano che le stelle e i pianeti (l’abbiamo già detto) fossero divinità, e si spiegavano queste differenze con le differenze di temperamento e carattere di questi dèi. Oggi, invece, 20 01_capitolo.indd 20 ••5 Paragone tra gli oggetti celesti visibili a occhio nudo e con posa fotografica. Una data regione del cielo – qui la costellazione di Orione – vista a occhio nudo ci mostra in generale soltanto alcune decine di stelle scintillanti (a sinistra), raramente si può scorgere una nebulosa o un ammasso come una macchiolina sfocata. Si può anche vedere che la stella in alto a sinistra, Betelgeuse, ha colore aranciato, mentre quella in basso a desta, Rigel, è azzurrina. La stessa regione, osservata con una fotocamera dotata di moderni sensori elettronici, dopo una lunga posa fotografica e successiva elaborazione dell’immagine, ci mostra l’aspetto «profondo» (a destra) che vedremmo se fossimo dotati di occhi enormemente più sensibili alla luce. Si nota come lo spazio interstellare è pervaso da materia diffusa. L’unica nebulosa visibile anche a occhio nudo è M42, che si trova al centro in basso (R.B. ANDREO, DEEPSKYCOLORS.COM) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 sappiamo che la varietà di colore indica una diversa temperatura della superficie delle stelle. Come il ferro portato all’incandescenza passa dal rosso cupo al bianco azzurro via via che la temperatura aumenta, così le stelle vanno da temperature superficiali di 3 o 4000 gradi Kelvin (K) delle rosse Betelgeuse o Aldebaran, ai 6 o 7000 K di stelle come il Sole, Procione e a Centauri, ai 10.000 K della bianca Sirio e ai 20 o 30.000 K di stelle bianco-azzurre come Rigel. Inoltre, si conoscono stelle così fredde da essere visibili solo con strumenti sensibili all’infrarosso; e, viceversa, stelle tanto calde da superare temperature superficiali di 100.000 K. COSMOLOGIA DEL GIORNO E DELLA NOTTE Spesso le cose che sembrano più ovvie nascondono profondi problemi. Agli antichi occorse molto tempo per capire che cosa fossero il giorno e la notte. Non si pensava al Sole, perché il Sole non c’era quando c’era il crepuscolo, seguitava a far giorno anche quando il tempo era nuvoloso, e non si spiegavano fenomeni quali le aurore boreali e la Luce zodiacale. Si argomentò dunque che il giorno fosse una specie di vapore luminoso e la notte (come dice Paul Couderc) un vapore nero che montava a sera dalle viscere della Terra. Questo pensiero fu conservato sino alla fine del V secolo a.C. in Grecia e altrove; ma ancora nel IV secolo d.C. un uomo colto e celebre quale Sant’Ambrogio scriveva: «Dobbiamo rammentarci che la luce 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 21 01_capitolo.indd 21 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 del giorno è una cosa e un’altra la luce del Sole, della Luna e delle stelle, il Sole coi suoi raggi dando semplicemente lustro alla luce diurna. Infatti, prima del sorgere del Sole, il giorno rischiara, ma non nel suo pieno fulgore perché il Sole deve ancora contribuire col suo splendore». Il fatto sorprendente è che il problema della notte e del giorno è un problema risolto solo in parte. La visione del cielo buio disseminato dei puntini luminosi delle stelle pone addirittura la questione dei limiti o dell’infinità dell’Universo, della sua struttura e natura, e anche della vita. In particolare bisogna esporre un’interessante ipotesi che gli astronomi chiamano «paradosso di Olbers» dal nome di Heinrich W. M. Olbers, detto «la gloria di Brema», la città dove nacque e passò la maggior parte della sua vita a cavallo fra Sette e Ottocento. Era un medico che studiò matematica e astronomia per conto proprio, e il suo maggior interesse fu per le comete, tanto che per studiarle si costruì un osservatorio, usando due ampi balconi al secondo piano della sua casa. Oltre a quattro comete scoprì anche due asteroidi: Pallade e Vesta. Anzi, notando che le orbite di questi due pianetini avevano un’origine comune, suggerì che potevano essere nati dall’esplosione di un pianeta più grosso. ••6 Il «paradosso» che oggi porta il nome di Olbers era già stato messo in rilievo da Edmund Halley (quello della famosa cometa) nel 1720, e poi ripreso e discusso dall’astronomo svizzero Jean-Philippe Poys de Chéseaux nel 1744, scopritore in quel medesimo anno della celebre cometa a 6 code. Olbers scrisse di questo problema il 7 maggio 1823 nella rivista «Astronomisches Jahrbuch». Se noi accettiamo che l’Universo sia infinito, come allora quasi tutti credevano, trasparente e uniforme, in qualsiasi direzione si guardi si dovrebbe vedere una stella, e l’intero 22 01_capitolo.indd 22 ••6 Il paradosso di Olbers, ovvero il mistero del buio notturno. Per comprendere il problema, paragoniamo l’Universo a una foresta di stelle e galassie, chiedendoci quanto sia vasta. Se ci trovassimo entro una selva reale, basterebbe guardarsi intorno. Infatti, in un bosco limitato si vedono gli alberi sullo sfondo dello spazio esterno, mentre in una foresta sconfinata si osserva ovunque una sovrapposizione di piante. Il cielo intorno a noi è fatto di stelle su uno sfondo buio (sopra), proprio come accade in un «bosco» limitato. È dunque impossibile che la «foresta» di stelle sia infinita, poiché esse coprirebbero l’intero cielo (sotto). Oggi sappiamo che l’Universo osservabile ha un limite preciso, detto «orizzonte cosmologico». (WWW.FERLUGA.NET) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 cielo dovrebbe risplendere giorno e notte come la superficie di un unico e immenso Sole, 50.000 volte più luminoso del nostro, mentre sulla Terra la temperatura sorpasserebbe i 5000 °C. Olbers e altri hanno spiegato il «paradosso» assumendo che lo spazio non fosse trasparente, e che la materia interstellare dovesse perciò assorbire una percentuale di luce, così da farci vedere le stelle come puntini brillanti sullo sfondo scuro del cielo. Altri astronomi, come Abbe, Proctor, Von Seeliger e Newcomb erano invece dell’opinione che l’Universo non fosse infinito, ma finito. È di un certo interesse conoscere i commenti di Olbers al fatto che non tutte le stelle del cielo sono visibili. «Che peccato», egli dice, «se non esistesse la notte! È vero che Iddio onnipotente avrebbe potuto adattare l’organismo umano a sopportare le conseguenze di un cielo sempre radioso come un unico Sole ed equivalente alla temperatura media e luce del Sole vero, ma non avremmo conosciuto niente delle stelle fisse; avremmo individuato il nostro proprio Sole unicamente attraverso le sue macchie e non senza penose difficoltà; e noi avremmo dovuto riconoscere la Luna e i pianeti soltanto come dischi neri sullo sfondo brillante del cielo. I pianeti illuminati da questo cielo solare sarebbero apparsi più scuri del resto del cielo in proporzione alle loro maggiori o minori proprietà riflettenti». Ormai da quasi un secolo sappiamo che le stelle sono raccolte in galassie e in ammassi di galassie, ma questo non diminuisce la validità del «paradosso di Olbers», perché si crede che anche gli ammassi galattici siano sparsi in modo uniforme nell’Universo. Piuttosto, non si ritiene valida la spiegazione di Olbers che a produrre il cielo buio sia l’assorbimento prodotto dai gas interstellari o intergalattici. Infatti, come ha notato Hermann Bondi, la radiazione delle stelle riscalderebbe la materia interstellare fino a farle raggiungere una temperatura alla quale dovrebbe riemettere tutta la radiazione ricevuta, col risultato che il cielo sarebbe ugualmente brillante. Bisogna concludere che la risposta deve essere un’altra. In realtà, se ne sono trovate diverse, e cioè che l’Universo non è euclideo (piano), ma curvo; che ha dimensioni finite; che non è uniforme e 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 23 01_capitolo.indd 23 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ha una struttura gerarchica; che è giovane; che è in espansione. Quest’ultima è l’opinione più diffusa: la luce che riceviamo dalle galassie lontane è minore di quanto sarebbe se esse non fossero in fuga. Ovvero, la luminosità apparente di una galassia diminuisce più rapidamente del quadrato della sua distanza a causa della velocità di recessione. La luminosità di una galassia distante circa due miliardi d’anni luce è appena due terzi di quanto sarebbe se l’Universo non fosse in espansione. Se una galassia recedesse alla velocità della luce, non si potrebbe più vedere perché la sua luminosità sarebbe zero. Tuttavia, c’è chi non accetta neppure questa soluzione, ritenendo che l’espansione giochi un ruolo relativamente poco importante. In questo senso il fisico e astronomo Edward R. Harrison sostiene che il cielo è nero durante la notte perché la radiazione luminosa delle stelle e delle galassie non ci perviene da uno spazio infinito, ma soltanto da una sfera limitata intorno a noi (sfera di Hubble) avente un raggio di 13,7 miliardi di anni luce. Infatti da distanze superiori a questo limite, detto orizzonte cosmologico, la luce non ci può raggiungere poiché il suo viaggio durerebbe più dell’età dell’Universo, che è pari appunto a 13,7 miliardi di anni. DALLA COSTELLAZIONE DI ORIONE E DEL CANE… A QUELLA DEL GATTO La storia delle costellazioni può far pensare che a volte l’astronomia sia anche un ramo della letteratura fantastica. È, infatti, indubbio il contributo della fantasia, ma è ancora più vero che l’«invenzione» delle costellazioni servì a scopi pratici come l’osservazione del Sole e della Luna, per regolare il calendario e prevedere le eclissi. Si riconosce questa utilità delle costellazioni dall’enorme rilievo e significato che esse assunsero per differenti popoli, culture ed economie. I popoli cacciatori diedero tutti grande importanza a Orione, costituita dalle stelle z, e e d Orionis, conosciute anche coi nomi arabi di Alnitak, Alnilam e Mintaka, in cui vedevano una schiera di cacciatori, mentre per i Patagoni sono le Tre Bola Bola, o tre pietre tonde con le quali i cacciatori uccidono gli animali. Per un popolo agricolo quale quello degli Ewe dell’Africa, invece, Orione indica un periodo di piogge, e annuncia precisamente sette giorni di pioggia in relazione al numero di stelle più brillanti che compongono la costellazione. Alle culture dei cacciatori appartengono pure l’Orsa Maggiore e Minore. Nell’Orsa Maggiore alcuni popoli vedono un orso circondato da sette cacciatori, e la piccola stella Alcor, che un occhio acuto può distinguere dalla vicina e più luminosa Mizar, è la pentola nella quale i cacciatori intendono cuocerlo. Per i Samoiedi di Turuhansk 24 01_capitolo.indd 24 ••7 Il moto apparente della volta celeste. Per effetto della rotazione terrestre, i corpi celesti descrivono un cerchio completo in 24 ore attorno all’asse polare. La Stella Polare, che si trova in posizione quasi coincidente col Polo Nord celeste, resta praticamente immobile. Le stelle che sono abbastanza vicine al Polo descrivono cerchi sufficientemente piccoli per mantenersi sempre sopra l’orizzonte, pertanto si chiamano stelle circumpolari. La fotografia mostra il cielo sopra il vulcano spento Mauna Kea alle isole Hawaii. Sulla sua sommità, a ben 4200 metri di quota, sono concentrati alcuni fra i più grandi osservatori astronomici del mondo. Per realizzare l’immagine sono stati combinati più di 150 singoli scatti fotografici, ottenuti durante una singola notte, con la presenza fuori campo della luna che illumina debolmente il panorama. (P. MICHAUD, GEMINI OBSERVATORY) CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 la Stella Polare è un cacciatore che tenta di abbattere il Cervo (l’Orsa Maggiore). Nella tradizione induistica, le stelle dell’Orsa Maggiore non raffigurano più un animale coi suoi cacciatori, ma sette saggi assunti al cielo. Tuttavia, i Kirghisi chiamano le stelle I Sette Ladri e li accusano d’aver rubato due delle Pleiadi. Naturalmente, grande importanza ha la Stella Polare che, quando non appare in miti di origine venatoria, assume la funzione di cardine o centro del mondo. Per i Sioux è il centro di tutte le stelle, l’Ombelico del Cielo; come del resto lo stesso valore di centro del cielo, nell’emisfero australe, ha la Croce del Sud, sebbene il Polo Celeste si trovi nei pressi della stella s Octantis, che ha una magnitudine +5,5 e quindi non poteva essere utile per gli antichi navigatori, i quali preferivano orientarsi sulla Piccola e Grande Nube di Magellano. Per gli astronauti e le sonde spaziali si usa invece a Carinae, cioè Canopo, che ha una magnitudine di -0,86. Infatti, per la navigazione spaziale sono necessari tre punti di riferimento ben distinti e separati. Il Sole e l’emisfero illuminato della Terra sono i primi due e definiscono una linea nel piano dell’eclittica, mentre Canopo è il terzo punto perché è la stella luminosa più vicina al Polo dell’eclittica, e la più luminosa dopo Sirio, la quale trovandosi ad appena 40° dal piano dell’eclittica non permette la stessa precisione. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 25 01_capitolo.indd 25 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Sempre in tema di Stelle Polari, la nostra a Ursae Minoris (detta anche con voce greca Cinosura, ossia «Coda del Cane») non si trova esattamente al Polo Nord Celeste, ma a circa un grado da esso. Sicché vi gira intorno in 24 ore, descrivendo un cerchio di due gradi di diametro, pari a quasi 4 volte il diametro apparente della Luna, che misura poco più di mezzo grado, anche se per la sua luminosità sembra molto più grande. All’interno di questo cerchio descritto dalla Polare vi sono molte stelle invisibili a occhio nudo, fra cui la Polarissima, così detta perché, specialmente verso il 1930, si trovava molto più vicina al Polo Nord. Per individuare questo centro, 3000 anni fa i Cinesi usavano un disco di giada forato nel mezzo. Lo puntavano verso il cielo settentrionale in modo che i suoi bordi combaciassero con un certo numero di stelle ben conosciute, e così il Polo appariva attraverso il foro centrale del disco. A quell’epoca, cioè quasi al principio della nostra era cristiana, non c’era alcuna stella brillante che potesse fungere da Polare, come invece è stato sia prima che dopo, a causa della Precessione degli Equinozi. Un esperimento molto facile è quello di fotografare la Polare per mettere in risalto il moto delle circumpolari. Occorre una esposizione di almeno due o tre ore con la camera immobile su un solido treppiede. Sviluppata la pellicola, si noteranno gli archi di cerchio luminosi, descritti dalle stelle intorno al Polo, tanto più ampi quanto più lunga sarà stata l’esposizione. Una fotografia analoga fatta a 25 o 50 anni di distanza mostrerà lo spostamento della stessa Polare rispetto al vero Polo Celeste. ••7 Prima di ritornare su questo argomento della Polare, apriamo una breve parentesi per spiegare cosa sia la Precessione degli Equinozi. Con tale espressione si intende quel fenomeno per cui l’asse della Terra si comporta come quello di una trottola, e descrive un cerchio di 47° di diametro intorno al Polo dell’eclittica, in un periodo di 25.780 anni. Il nome di precessione venne introdotto nel 125 a.C. da Ipparco, che notò come i punti degli equinozi, cioè i due punti posti sulla sfera celeste in cui l’eclittica taglia l’equatore celeste, «precedono» lentamente, ovvero avanzano incontro al Sole. Vediamo di spiegare un po’ meglio. Partiamo dall’eclittica. Essa è il cerchio massimo che il Sole, nel suo moto apparente, descrive in un anno sulla sfera celeste, oppure anche il cerchio d’intersezione del piano dell’orbita terrestre con la sfera celeste. Rispetto al piano dell’equatore celeste – che è il cerchio massimo lungo cui l’equatore terrestre taglia la volta celeste ed è perpendicolare rispetto all’asse di rotazione della Terra – l’eclittica e il suo piano sono inclinate di un angolo di 23° 27’; i poli dell’eclittica si collocano a nord in direzione della costellazione del Dragone e a sud in direzione di Dorado. ••8 26 01_capitolo.indd 26 CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 ••8 La sfera celeste. L’eclittica (in blu) è inclinata di 23°,5 rispetto all’equatore celeste (in rosso). Sono anche segnate le posizioni del Sole sull’eclittica nel corso dell’anno (in giallo). Per effetto della precessione, il Polo Nord celeste si muove attorno al Polo Nord dell’eclittica, descrivendo in circa 26.000 anni un cerchio di raggio pari a 23°,5. A causa del cerchio descritto dall’asse terrestre, la Polare, dunque, non è sempre la medesima. Circa 4300 anni a.C. era la stella i del Dragone; nel 2600 era a del Dragone ed è stata descritta da astronomi cinesi ed egiziani. Questi ultimi costruivano dei corridoi nelle piramidi, come quella di Giza, che avevano un’inclinazione di 27° proprio per osservare questa stella durante il suo passaggio al meridiano in culminazione inferiore (ossia quando raggiunge il suo punto più basso sull’orizzonte). Nel 1000 a.C. il Polo Nord Celeste passò fra la stella b dell’Orsa Minore e c del Dragone. Erano i tempi della spedizione degli Argonauti, e della sfera celeste di Chirone, la più antica rappresentazione del cielo conosciuta. Chirone era il mitologico Centauro, al quale San Clemente di Alessandria, seguito da molti altri, compreso Newton, attribuiva l’invenzione delle costellazioni. Non c’è bisogno di aggiungere che la costellazione del Centauro si riferisce proprio a lui. Nell’802 d.C. la stella 32 H della Giraffa (Camelopardalis) si trovava a 0,5° dal Polo Nord Celeste, e sappiamo che serviva ai Vichinghi come Stella Polare. Per finire il discorso sulla Polare, diremo che la stella a dell’Orsa Minore, la quale, come abbiamo accennato, dista di quasi un grado 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 27 01_capitolo.indd 27 16/04/12 08:50 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ••9 La precessione dalla vera posizione del Polo, si va accostando progressivamente ad esso, tanto che nel 2100 d.C. ne disterà appena 28 minuti. Le rimarrà il titolo di Stella Polare fin verso il 3500 d.C., quando lo trasmetterà alla meno brillante g di Cefeo. Per riavere una Polare luminosa più di quella attuale bisognerà aspettare fino all’anno 7400, quando la stella più vicina al Polo sarà a del Cigno, di magnitudine +1; oppure al 13.600, quando i nostri nipoti ammireranno come Polare Vega della Lira, candida e di magnitudine 0. ••9 Nonostante che la costellazione del Cane Maggiore non si possa definire una costellazione «agricola» in contrapposizione a quelle di carattere venatorio, tuttavia la sua stella più brillante e anzi la più brillante di tutto il cielo, Sirio, era certamente seguita con attenzione dagli agricoltori. Gli Egiziani credevano addirittura che il mondo fosse stato creato quando la dea Sothis, che essi identificavano con Sirio, si levò col Sole. Allorché, verso la metà di luglio riappariva a Oriente poco prima del sorgere del Sole (questo significa l’espressione «levare eliaco» di una stella) era il segnale che cominciavano le piene del Nilo. Inoltre, da Sirio e Sothis deriva il cosiddetto «Periodo sotico». Esso indica il lasso temporale di 1460 anni allo scadere del quale, il levare eliaco di Sirio coincide nuovamente con lo stesso giorno dell’anno. Avendo gli Egiziani adottato 28 01_capitolo.indd 28 dell’asse terrestre. Il Polo Nord celeste descrive sulla volta stellata un percorso circolare, impiegando circa 26.000 anni (in giallo). Nell’anno 14.000 d.C., per esempio, il Polo Nord celeste si troverà vicino alla stella Vega. La mappa mostra una parte del cielo visibile nelle notti estive, ed è centrata sul Polo Nord dell’eclittica (in rosso). La precessione dell’asse di rotazione è un effetto che si può osservare anche nelle trottole, ed è causato da una forza che agisce sul corpo rotante. Per il nostro Pianeta, la forza che causa la precessione è l’attrazione gravitazionale del Sole, mentre per la trottola questa forza è semplicemente il suo peso. CAPITOLO 1 16/04/12 08:50 ••10 L’ammasso delle Pleiadi. Si tratta di un ammasso stellare aperto (M45), ben visibile a occhio nudo e già conosciuto dagli Antichi, che vi scorgevano 7 stelle componenti e vi attribuivano significati mitologici. Oggi sappiamo che le Pleiadi sono un gruppo di stelle giovani e calde, dal caratteristico colore azzurro, ancora immerse nella materia diffusa da cui si sono formate. La materia interstellare si dispone secondo linee arcuate, denotando la presenza di campi magnetici, con un aspetto simile alla limatura di ferro nei pressi di una calamita. (ESO/DSS, D. LACRUE) un anno solare di 365 giorni precisi invece di circa 365 giorni e 1/4, il levare eliaco di Sirio si osservava ogni anno con quasi 6 ore di ritardo, che, dopo 1460 anni, davano un totale di 365 giorni. Un’altra costellazione agricola-venatoria è quella del Toro, dove le Pleiadi, a seconda delle varie culture e popoli e delle latitudini in cui abitavano, assumono un diverso valore. Nelle Hawaii l’anno incominciava con la levata delle Pleiadi, mentre nell’antico Messico la loro culminazione di mezzanotte segnava il termine di un periodo di 52 anni, che comportava il rischio di crollo e fine dell’Universo, con l’inizio di un nuovo periodo. In tale occasione, si spegnevano tutti i fuochi e l’avanzata delle Pleiadi era osservata da un’altura detta la «Collina delle stelle». Quando le Pleiadi superavano il meridiano, si accendeva un nuovo fuoco sulla sommità della collina, che dava il segnale per l’accensione degli altri fuochi pubblici e privati. Per gli Jacuti della Siberia settentrionale, il loro sorgere annunzia l’inverno, mentre il tramonto corrisponde all’inizio della stagione calda; ma la cosa più curiosa e interessante è la credenza degli Jacuti che una volta l’inverno fosse più lungo e freddo, finché uno sciamano riuscì a rompere il legame che univa le Pleiadi. Esse poterono, così, correre più rapidamente e l’inverno diventò più breve. Un’altra diffusa credenza nord-siberiana e altai- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 29 01_capitolo.indd 29 16/04/12 08:51 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ca è che la zona dove sono le Pleiadi corrisponda a un foro nella volta rocciosa del cielo. Per molti popoli primitivi dell’America, le Pleiadi annunciavano invece la stagione dell’abbondanza e delle messi. ••10 Finora abbiamo parlato delle costellazioni più nel loro aspetto mitologico che astronomico. A dire il vero, agli astronomi non interessano un gran che, in quanto il fatto che le stelle di una costellazione formino un riconoscibile e caratteristico raggruppamento nel cielo, non significa che abbiano una qualche relazione spaziale o fisica. Al contrario, si trovano di norma molto distanti l’una dall’altra, e la loro vicinanza, oltre a essere per lo più un effetto di prospettiva, a lungo andare, come vedremo in seguito, è anche soggetta a variazioni. Nonostante gli astronomi non si interessino delle costellazioni, hanno tuttavia dovuto riconoscerne la funzione svolta e i bei nomi con cui il cielo intero è stato battezzato e arricchito di significati, per cui si sono limitati a riordinarle come meglio potevano. In realtà, c’era una gran confusione: non soltanto nel numero, ma anche nelle delimitazioni. Non avevano confini ben stabiliti, e anche nelle costellazioni si rifletteva – direbbe il grande storico della scienza Alexandre Koyré – la concezione «pressappochistica» che gli antichi avevano del Mondo, rispetto all’Universo «preciso» dei moderni. Il «riordinamento» è stato approvato nel 1928 dall’Unione Astronomica Internazionale, la quale ha riconosciuto ufficialmente e definitivamente 88 costellazioni. Di queste, 48 vennero elencate da Claudio Tolomeo, verso il 140 d.C.; ben presto però diventarono 50, quando la Nave di Argo, che era la costellazione più grande di tutte, venne suddivisa in tre parti coi nomi di Carena, Poppa e Vela. Le costellazioni post-tolemaiche sono 38. Almeno una, la Chioma di Berenice, era molto antica, ma non era stata riconosciuta come indipendente da Tolomeo che l’aveva inclusa in quella del Leone. Altre, come l’Uccello del Paradiso, facevano riferimento alle costellazioni cinesi di cui ebbero conoscenza i navigatori del XV secolo. Quasi tutte le costellazioni dell’emisfero australe furono individuate dal XVI al XVIII secolo dagli astronomi e matematici Johann Bayer, Johannes Hevelius e Nicolas-Louis de La Caille, come si può indovinare anche dai nomi con cui furono battezzate: Ottante, Reticolo, Squadra e Regolo, Macchina Pneumatica. Nomi piuttosto brutti, diciamo la verità, nonostante si sia appena finito di elogiare la concezione «precisa» dell’Universo moderno; indubbiamente però essi rispecchiano fedelmente e un po’ ingenuamente la filosofia illuministica dell’epoca. Tuttavia, si è fatto anche di peggio. Per affibbiare dei nomi al cielo e alle costellazioni, si sono perfino combattute delle battaglie ideologiche. Una delle più curiose, simpatiche e sfortunate iniziative fu quella di Joseph Jérôme de Lalande, 30 01_capitolo.indd 30 CAPITOLO 1 16/04/12 08:51 ••11 Animali nel cielo. Nelle notti invernali, guardando verso Sud, è visibile un piccolo «zoo» celeste. Possiamo individuare in alto a sinistra il rinoceronte (Monoceros), più sotto il cane (Canis Major) con la stella Sirio, al centro la lepre (Lepus) e bassissima sull’orizzonte la colomba (Columba). Sulla scena domina dall’alto il cacciatore (Orione), mentre a destra vicino al bordo c’è anche un toro (Taurus, fuori campo). un uomo straordinario per molti aspetti, anche fuori del campo astronomico. Nemico di Napoleone, libero pensatore e ateo, amava i gatti che hanno fama di essere amati dalle streghe. Forse proprio per questo, nessuno aveva mai pensato di metterli in cielo, dove, tuttavia, vi sono ben 43 costellazioni che portano nomi di animali, compresi i mitologici Pegaso, Fenice, Liocorno. Si trova il Cane, il Cagnolino, i Cani da caccia, il Lupo e la Volpetta; e c’è pure la Lince, ma il Gatto non c’è. ••11 Lalande scrisse: «Amo molto i gatti. Ne disegnerò la figura sulla carta celeste. Il cielo stellato mi ha fin troppo preoccupato nella mia vita; perciò, mi si permetterà di scherzare un po’ con esso». La costellazione del Gatto si ritrova nella XIX tavola di Johann Ehlert Bode pubblicata nel 1799, con il nome di Katze, ed è formata da 20 stelle. Ma, a eccezione di Padre Angelo Secchi, che la incluse nel suo planisfero del 1878, i cataloghi e le carte stellari non la 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 31 01_capitolo.indd 31 16/04/12 08:51 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 menzionano più. Essa comunque era formata con alcune stelle della Macchina Pneumatica e dell’Idra, nel cielo australe, stelle che in seguito sono state restituite alle loro costellazioni d’origine. Parlando delle costellazioni e del moto della Polare intorno al Polo Celeste e alla cosiddetta Polarissima, abbiamo accennato a qualcosa di facilmente constatabile anche di giorno, osservando il cammino del Sole, il suo sorgere e tramontare. Nonostante che nell’antichità i filosofi e gli scienziati la sapessero lunga non meno di noi sul problema dell’apparenza e della realtà, e sull’esperienza spesso ingannevole dei sensi, per millenni si è creduto che questo moto del Sole e delle stelle da Est a Ovest fosse reale, e che la Terra si trovasse immobile proprio al centro dell’Universo. La cosmologia tolemaica era basata su questa convinzione, come del resto la scienza in generale, ma anche e soprattutto la teologia, la quale aveva affidato molta della credibilità della religione a un Universo dove Dio e i Beati abitavano un mondo superiore fatto di sfere cristalline e incorruttibili, mentre al di sotto della sfera lunare si precipitava verso una Terra immobile e peccaminosa, che nelle sue profondità albergava l’Inferno, i diavoli e Satana. Occorre riconoscere che questa visione aveva i suoi grandi vantaggi estetici, razionali e spirituali, in quanto ci presentava un mondo ben ordinato, nel quale l’uomo sapeva dove si trovava, perché vi si trovava, e dove sarebbe andato una volta conclusa la sua avventura di pellegrino sulla Terra. Dopo Copernico e la dimostrazione (che avvenne molto più tardi) che non erano i cieli a ruotare, ma il nostro pianeta, la domanda che spesso si pone: «Qual è il posto dell’Uomo nell’Universo?» riflette chiaramente l’angoscia di un’umanità non ancora abituata all’idea «degli infiniti mondi» di cui parlava Giordano Bruno, senza più sfere cristalline, armonie pitagoriche e il brusio degli angeli che sospingevano i pianeti. Dopo questa breve digressione storica sulle costellazioni, torniamo alla Terra e le stelle. Se la rotazione intorno al proprio asse fosse il solo moto della Terra, allora ogni notte alla stessa ora si vedrebbero le stesse stelle e costellazioni nella medesima direzione del cielo. Ma tutti sanno che le stelle visibili nelle sere d’inverno sono differenti da quelle delle sere d’estate. La ragione è che la Terra ha un altro moto in aggiunta alla rotazione, ed è quello detto di rivoluzione: ossia, la Terra gira intorno al Sole, come affermò Copernico, e Aristarco aveva intuito diciotto secoli prima. È per questo moto intorno al Sole, che ci sembra che il Sole si sposti fra le stelle di circa 1° ogni giorno. Certo, di giorno, a causa della luce solare diffusa dall’atmosfera, le stelle non le possiamo vedere, ma se guardiamo le stelle che a mezzanotte si trovano proprio nella direzione opposta al Sole, constatiamo gli effetti della rivoluzione terrestre. Una stella situata al Meridiano Celeste (la linea Nord-Sud 32 01_capitolo.indd 32 ••12 Il cielo stellato e le stagioni. Mentre la Terra ruota lungo la sua orbita noi vediamo il Sole, proiettato sulla volta celeste, che si muove lungo la linea dell’eclittica (in rosso) nel corso dei mesi. Il cielo stellato che osserviamo di notte, ovvero la porzione di sfera celeste opposta al Sole, cambia dunque con le stagioni. Nel bagliore del giorno le stelle non si vedono a causa della luce solare diffusa dall’aria, ma fuori dall’atmosfera (o anche durante un’eclisse totale) le stelle sono visibili anche in direzioni vicine al Sole. (WIKIMEDIA COMMONS) CAPITOLO 1 16/04/12 08:51 direttamente sopra la nostra testa) alla mezzanotte di domani si troverà di circa 1° più a Ovest del Meridiano. Un grado è una quantità notevole: equivale allo spazio che due Lune Piene, l’una vicina all’altra, occuperebbero sulla volta celeste. È così che le stelle delle notti d’estate, come quelle dello Scorpione, vengono sostituite a poco a poco da quelle autunnali, finché, col sopraggiungere dell’inverno, appariranno sulla scena le splendide stelle di Orione. Poi, quando un anno sarà trascorso e la Terra avrà compiuto un giro completo intorno al Sole, soltanto allora possiamo rivedere nella medesima direzione del cielo le stelle osservate 365 giorni prima. ••12 Oggi queste cose sembrano ovvie, ma all’inizio (se così si può chiamare un periodo che va dalla morte di Copernico e dalla pubblicazione della sua opera principale, il De revolutionibus orbium coelestium, nel 1543, alla fine del XVII secolo) la teoria copernicana non venne combattuta soltanto dalla Chiesa e dai filosofi, ma anche dagli scienziati. Questi obiettavano che se davvero la Terra girava intorno al Sole, doveva occupare, a sei mesi d’intervallo, delle posizioni molto distanti fra loro e uguali al doppio della distanza media della Terra dal Sole. Invece, tale cambiamento nella prospettiva delle stelle non si riscontrava. Il motivo è che anche le stelle più vicine sono a distanze di molte migliaia di miliardi di km, e perciò presentano spostamenti angolari piccolissimi, inferiori a un secondo d’arco: come a dire, l’angolo sotto cui si vedrebbe 1 cm alla distanza di 2 chilometri. Quindi, occorrono misure accuratissime e strumenti adatti. Finalmente ottenne risultati positivi l’astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel nel 1838, quando misurò la posizione della stella 61 Cygni rispetto a un’altra angolarmente vicina (ma in realtà molto più lontana da noi di 61 Cygni ) e trovò che la loro distanza apparente variava di 0”,30 in un anno. Un’altra dimostrazione diretta della rivoluzione della Terra era stata data già dall’inglese James Bradley nel 1725, con la scoperta dell’aberrazione della luce: un fenomeno illustrato dalla classica analogia dell’uomo che, per ripararsi dalla pioggia, deve inclinare l’ombrello in avanti tanto più quanto più svelto cammina. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il cielo in cui viviamo 33 01_capitolo.indd 33 16/04/12 08:51 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Oggi sappiamo che la stella più vicina a noi, Proxima Centauri, si trova a poco più di 4 anni luce, dove l’anno luce è l’unità di misura che corrisponde alla distanza percorsa dalla luce in un anno. Poiché la velocità della luce nel vuoto è di 300.000 km/sec, e in un anno sono contenuti circa 31 milioni di secondi, si calcola facilmente che un anno luce equivale a quasi 10.000 miliardi di km. Per confronto, il Sole si trova a circa 8 minuti luce. Passando al fenomeno della rotazione terrestre, una delle diverse prove che la dimostrano è l’esperimento effettuato a Parigi nel 1851 da Jean-Bernard-Léon Foucault. Un pendolo sospeso a un sostegno in modo da ridurre al minimo ogni attrito oscilla in un piano fisso in posizione invariabile nello spazio. Il pendolo di Foucault, costituito da una palla di cannone sospesa a un filo di acciaio lungo 67 metri attaccato alla cupola del Panthéon di Parigi, arrivava a pochi centimetri dal suolo. Non appena Foucault mise la palla in moto, una punta saldata alla palla prese a tracciare le sue oscillazioni su uno strato di sabbia. Così si constatò che il pendolo, come era previsto, tracciava dei solchi che via via si spostavano da Est verso Ovest. Non era il pendolo che cambiava il suo piano di oscillazione, ma la Terra che gli girava sotto. Fenomeno analogo avviene per un satellite che ruota in un’orbita di qualche centinaio di chilometri. A ogni passaggio su un dato luogo, sembra che si sposti verso Ovest, mentre è la Terra che gli gira sotto, in senso antiorario, da Ovest a Est. È stato detto da molti che se il nostro mondo fosse perennemente coperto di nuvole come quello di Venere, ma naturalmente senza le tremende pressioni e temperature che regnano su quel pianeta, gli uomini non avrebbero potuto sviluppare la scienza dell’astronomia, però avrebbero potuto scoprire almeno la rotazione della Terra: appunto con il pendolo di Foucault. Ma se anche la Terra ruotasse tanto lentamente come Venere, dove un giorno venusiano equivale a 243 giorni terrestri, è probabile non sarebbe bastato nemmeno un Foucault, e avremmo creduto davvero a una Terra immobile oltre che senza cielo, chissà per quanti secoli ancora. A questo punto, ci si potrebbe chiedere: «Tutto questo va bene. L’uomo è capace anche di mettere dei satelliti in orbita intorno alla Terra. Ma chi è, oppure che cosa è stato che ha spinto la Terra a girare su se stessa e intorno al Sole?» Una volta si rispondeva «Dio e gli angeli». Lo stesso Newton credeva a un misterioso «primo impulso» divino e a ulteriori interventi regolatori e provvidenziali affinché i pianeti e i loro satelliti seguitassero a girare in perpetuo nelle loro orbite ellittiche… Oggi la risposta è del tutto diversa e senza necessità di impulsi né iniziali né susseguenti, come spiegheremo nel prossimo capitolo. 34 01_capitolo.indd 34 CAPITOLO 1 16/04/12 08:51 CAPITOLO 2 IL VILLAGGIO PLANETARIO 02_capitolo.indd 35 16/04/12 08:52 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 02_capitolo.indd 36 16/04/12 08:53 J ohn A. Wheeler, il noto fisico americano, ha detto una volta che «noi siamo i discendenti della palla di fuoco che diede origine al presente stadio dell’Universo». Almeno, questa è l’opinione più diffusa in una cosmologia ancora alquanto mitologica. Sembra però fuor di dubbio che la nascita delle stelle e dei pianeti sia stata (e seguiti a essere) un evento drammatico come la nascita degli animali e dell’uomo. I medici sanno che quando si nasce il nostro corpo subisce tremende sollecitazioni meccaniche e traumi ambientali. Negli interventi ostetrici si può esercitare col forcipe una trazione equivalente a 50 kg, pari a 15 volte il peso del bambino. Nessun adulto potrebbe resistere a una corrispondente trazione sulla testa di una tonnellata. Inoltre, per il brusco mutamento di ambiente, le funzioni organiche del bambino si trasformano. Pare sia molto più facile abituarsi a una vita da astronauta che nascere. E nascere a fatica, in mezzo a mille tormenti e pericoli, si direbbe una regola universale tanto per gli esseri viventi che per le cose inanimate. L’esempio più notevole, quasi a portata di mano, è la nostra Luna con la sua superficie butterata di crateri e di «mari» ben visibili a occhio nudo. Anche tutti gli altri pianeti rocciosi e simili alla Terra, come Mercurio, Venere e Marte, hanno subito nascendo le medesime traversie e portano anch’essi i segni dei crateri scavati dalla caduta di meteoriti. Se sulla Terra queste martellate originali non si vedono più, è perché sono state cancellate dall’erosione esercitata per centinaia di milioni d’anni dall’acqua e dai venti. Tuttavia, si sono scoperte molte tracce di crateri più recenti detti «astroblemi», cioè ferite stellari (dal greco astér, astro; e blema, che significa colpo di freccia o ferita). Sono crateri dalla struttura circolare e molto erosi, alcuni dei quali vennero prodotti 200 o 300 milioni d’anni fa, dalla caduta di grossi meteoriti. Esempi sono il Manicouagan Lake e il Clearwater Lake nel Canada, che all’inizio dovevano misurare un diametro di 65 e 32 km rispettivamente. Ancora fresco e molto ben conservato è il famosissimo Meteor Crater dell’Arizona, il quale ha un diametro di circa 1300 metri. Si 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 37 02_capitolo.indd 37 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 stima abbia un’età inferiore ai 100.000 anni, e venne scavato da un meteorite che, secondo Ernst J. Opik, doveva avere una massa di 2,6 milioni di tonnellate. Meteoriti così grossi cadono una volta ogni 10.000 o 100.000 anni (che è appunto l’età del Meteor Crater), mentre quelli via via più piccoli cadono molto più di frequente: si possono citare il bolide che il 10 agosto 1972 sfiorò da poco più di 50 km di altezza alcune regioni degli Stati Uniti e del Canada, e venne fotografato e ripreso con videocamere amatoriali da centinaia di persone, e il meteorite roccioso che, frammentandosi prima della caduta, ha prodotto numerosi piccoli crateri l’8 marzo del 1976 nella provincia orientale cinese di Kirin. Lincoln La Paz ha calcolato che un meteorite potrebbe colpire un uomo una volta ogni 300 anni, ma le cronache registrano soltanto 5 o 6 casi di «morte da meteorite» in tutta la storia. Negli ultimi anni si sono avuti in media 4 casi comprovati di cadute di meteoriti piccole o medie ogni anno, con ritrovamento del campione e successivo studio e conservazione in collezioni private o musei. ••1-2 Non c’è dubbio che, sebbene oggi lo spazio interplanetario sia molto meno polveroso di quando i pianeti si formarono dalla nebulosa primitiva, esso sia ancora abbastanza ricco di detriti più o meno antichi di ogni dimensione: da quelli asteroidali a polveri più fini della cipria. I residui più vecchi sono stati quasi tutti spazzati via dai pianeti nel corso di miliardi d’anni, mentre le collisioni fra gli asteroidi, e le comete quando si avvicinano al Sole, immettono nello spazio sempre nuovo materiale. La Terra nella sua orbita ne 38 02_capitolo.indd 38 ••1 A sinistra, il Meteor Crater in Arizona. Questo cratere è uno dei meglio conservati sul nostro Pianeta, ha un diametro di 1,3 km e una profondità di 175 metri. È stato prodotto da un meteorite grande appena una trentina di metri, caduto circa 35.000 anni fa. (NASA, M.WADHWA) ••2 A destra, frammento di meteorite. I meteoriti sono generalmente residui del Sistema solare primitivo. Qui vediamo un frammento del meteorite Tenham, caduto in Australia nel 1879 frammentandosi entro un’area di chilometri, che viene classificato come condrite. Per ragioni espositive e di studio, spesso i meteoriti vengono tagliati in sottili sezioni in modo da poter studiare la struttura interna, come in questo caso. (J. TAYLOR, WIKIMEDIA COMMONS) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••3 Crateri meteoritici sulla Luna. Il cratere presso il bordo lunare è intitolato a Guglielmo Marconi (sopra l’antenna), mentre i due crateri maggiori sono Chaplygin (al centro) e Schliemann (in basso). Questa impressionante veduta è stata ripresa dal finestrino del LEM, il modulo di discesa in cui gli astronauti dell’Apollo 13 si erano rifugiati, mentre sorvolavano la faccia nascosta della Luna. In tale drammatica missione, infatti, il modulo principale dell’astronave era esploso prima di raggiungere la Luna, per cui gli astronauti rinunciarono allo sbarco lunare e riutilizzarono invece il LEM come «scialuppa di salvataggio» per ritornare sul nostro pianeta. (NASA ALSJ) raccoglie qualcosa come 43 o 44 tonnellate al giorno, pari a circa 16.000 tonnellate ogni anno, compresi i residui di comete. Le dimensioni di un cratere dipendono dalla massa, dalle dimensioni, e dalla velocità del meteorite. Più esattamente, siccome l’attrazione gravitazionale dei corpi celesti varia a seconda della loro massa, e dato che un meteorite può arrivare da qualsiasi direzione, lo stesso meteorite può avere differenti velocità di impatto sui vari pianeti, formando crateri di dimensioni diverse. Quando il meteorite penetra nel suolo crea una formidabile pressione, deformandolo come un fluido. Gli strati del suolo, che prima erano piatti, vengono sospinti in alto e in fuori come i petali di un fiore che si apra. Non appena formato, il cratere, oltre a un bordo che si innalza ripido, mostra segni di rocce percosse e frantumate, e pieghe che altro non sono se non deformazioni plastiche di masse rocciose stratificate, che prima erano disposte orizzontalmente. Sulla Luna, o su un pianeta senza atmosfera o quasi come Mercurio, simili catastrofi e collisioni avvengono (almeno nel caso dell’impatto di grossi meteoriti) come esplosioni luminose, ma nel più assoluto silenzio. ••3 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 39 02_capitolo.indd 39 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 I sismografi piazzati sulla Luna, e in seguito pure quelli depositati dai Viking su Marte, registrarono gli impatti anche di piccoli meteoriti, come quelli piovuti sulla Luna dal primo gennaio 1973 al 13 luglio 1975. In quell’intervallo di 924 giorni si sono contati 815 impatti. In certi periodi i meteoriti sono piovuti più numerosi, come nel giugno del 1975, quando, in una decina di giorni, si sono contati 29 impatti. In questo caso, si pensa che la Luna abbia incontrato nella sua orbita una «nube» di meteoriti avente un diametro di circa 0,1 U.A. (U.A. è l’abbreviazione di Unità Astronomica, con la quale si intende la distanza Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km. Viene usata come unità di distanza nel Sistema solare). Precisiamo che una «nube» di meteoriti, non significa un qualcosa di molto consistente, ma piuttosto una specie di sciame di moscerini, separati l’uno dall’altro anche da centinaia di chilometri. I 29 meteoriti appartenenti a questa nube caduti sulla Luna si stima pesassero in totale 320 kg, con una massa media di circa 11 kg. A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa succederebbe se una nave spaziale con una sezione traversale di 1 km2 attraversasse una tale nube meteoritica, con una velocità rispetto a questa di 20 km/s. Anche se la maggioranza dei meteoriti hanno una densità di appena 3 volte quella dell’acqua, è certo che sarebbe pericoloso incontrare sassi di questa specie. Viaggiando dentro la nube, però, ci sarebbe una probabilità di collisione solo una volta ogni 9000 anni, e perciò non sembra necessario preoccuparsi di questo problema. COME NACQUE (FORSE) IL SISTEMA SOLARE Come abbiamo accennato, questi proiettili cosmici sono in maggioranza di origine recente e prodotti da collisioni di asteroidi situati specialmente fra Marte e Giove, oppure dalla disgregazione delle comete. Quando i pianeti si formarono erano assai più numerosi… e tutto ebbe inizio da una nebulosa ruotante costituita di gas e polveri, simile a quella che si vede anche con un piccolo telescopio nella costellazione di Orione. A causa della rotazione, i gas e le polveri della nube si dispersero su un disco, con al centro una massa che poi sarebbe diventata il Sole. Intanto, i granelli di polvere si aggregavano via via in corpi sempre più grandi. Dapprima questi aggregati erano simili a fiocchi di neve, ogni granellino essendo avvolto di ghiacci e altri composti volatili; in seguito, o si dispersero evaporando, o riuscirono a condensarsi in corpi grossi come i meteoriti, gli asteroidi e infine i pianeti. Ma perché tutti questi corpi sono diversi sia per dimensioni che per aspetto e composizione? 40 02_capitolo.indd 40 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••4 L’origine del Sistema solare. I modelli teorici che descrivono la formazione del Sole e dei pianeti ipotizzano la condensazione di una nube di polveri e gas, dotata di moto rotatorio, in uno sciame di corpi che, in seguito a continui processi di aggregazione, incrementano via via la loro massa dando origine ai pianeti. La condensazione centrale, essendo molto più massiccia, è destinata a produrre nel suo interno temperature di milioni di gradi tali da innescare reazioni nucleari, generando così il nostro Sole. Questo disegno rappresenta uno scenario evolutivo che è oggi confermato dall’osservazione telescopica. Infatti, in alcune regioni della Via Lattea ricche di formazione stellare, sono stati scoperti numerosi dischi protoplanetari (detti anche proplìdi), al centro dei quali è anche visibile la protostella in formazione. (NASA IMAGES 113035) Infatti, Mercurio, Venere, la Terra, Marte e gli asteroidi sono di tipo «roccioso», mentre i pianeti detti «giganti», quali Giove, Saturno, Urano e Nettuno, sono in prevalenza gassosi. Il fatto è che, vicino alla massa centrale della nebulosa dove il Sole si andava formando, la temperatura permetteva l’aggregazione di oggetti costituiti da elementi con altissimo punto di ebollizione come i metalli. Invece, più lontano e alla periferia della nebulosa, dove, alla distanza di Plutone, la temperatura si abbassava fin oltre i -200 °C, intorno ai nuclei rocciosi di tipo terrestre si potevano aggregare allo stato solido gli altri elementi volatili come l’acqua, l’ammoniaca, il metano. ••4 Questi corpi diventarono tanto grossi da attrarre anche grandi quantità di elementi volatili e leggeri come l’elio e l’idrogeno, che finirono anzi per comporre la maggior parte della loro massa. Quella di Giove equivale a ben 317,9 masse terrestri, quella di Saturno a 95, Urano a 14 e Nettuno a 17. Frattanto, la massa centrale di gas caldi collassava sotto il proprio enorme peso, dando origine al Sole, che a quel tempo era simile a una di quelle stelle dette T Tauri, immerse in vaste nubi di polveri e gas, in gran parte espulsi dalle stelle medesime, ancora in formazione e alla ricerca di un equilibrio fra pressione interna e massa gravitante. Cerchiamo di descrivere la nascita della Luna e della Terra. Le indagini più recenti ci dicono che la composizione chimica dei due corpi è più simile di quanto si pensasse, il che forse favorisce l’ipotesi che la Luna sia nata accanto alla Terra, e non nella parte 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 41 02_capitolo.indd 41 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 del Sistema solare più vicina al Sole, per essere poi catturata dal nostro pianeta. Quest’ultima era l’opinione di coloro che si basavano, appunto, su una composizione chimica della Luna più ricca di elementi quali l’alluminio, il calcio, l’uranio della Terra e sulle dimensioni medesime del nostro satellite. Infatti, il diametro della Luna è circa la metà di quello della Terra, non per nulla si dice che la Terra e la Luna formano piuttosto un pianeta doppio. Solo Plutone ha anch’esso un satellite, Caronte, il cui diametro è circa la metà del diametro del pianeta. Ecco la sequenza di eventi che si suppone si sia verificata. All’attuale distanza della Terra dal Sole, e all’interno della grande nube originaria del sistema planetario, esisteva una piccola nube in rapida rotazione, simile ad altre nubi secondarie poste nei punti dove sarebbero nati gli altri pianeti. La nube del sistema TerraLuna, nel raccogliersi in un globo più denso, aveva lasciato indietro un inviluppo di elementi più leggeri, di polveri, meteoriti e gas, i quali finirono per aggregarsi in un anello. Il tutto era avvolto da una spessa atmosfera di idrogeno ed elio con piccole quantità di acqua, metano e altri gas. In questo periodo, circa 4,5 miliardi di 42 02_capitolo.indd 42 ••5 Ricerche geologiche sulla Luna. La missione Apollo 17 è stata l’ultima delle esplorazioni umane sul nostro satellite, con il più complesso programma scientifico. Qui vediamo il geologo Schmitt, accanto al lunar rover, sull’orlo del cratere Shorty. Poco a sinistra del rover, alla base di una montagnola, si nota una zona dove il terreno ha colore rossiccio. Alcuni campioni sono stati riportati sulla Terra e al microscopio si è visto che il colore rossastro è dovuto a microsferule di sabbia vetrificata. Questo indica la presenza di attività vulcanica, successiva alla formazione dei primi crateri meteoritici. (NASA APOLLO IMAGE GALLERY) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 anni fa, la Terra, o meglio, la proto-Terra, assomigliava a Saturno, ma naturalmente non c’era nessuno che la potesse osservare: il sistema planetario era come un’officina sovraccarica di fumi, polveri e detriti, e il Sole era ancora invisibile. La complessa avventura della «gestazione» si sarebbe svolta in un buio totale, se fra gas e polveri nebulari e tutto intorno alla Terra non ci fosse stato un quasi ininterrotto lampeggiare di scariche elettriche. Inoltre, un’infinità di proiettili piccoli e grandi squassava la Terra, mentre dalla giovane crosta ribollente si levavano fontane di lava. Intanto, il disco che circondava il nostro pianeta non era più come un anello, ma si era raggruppato in numerose lune più o meno grandi: qualcosa di simile alle numerose lune di Giove e di Saturno. Considerate tutte insieme queste lune dovevano avere una massa assommante allo 0,01% della massa della Terra, in confronto a meno dello 0,001 per mille, dei satelliti dei pianeti giganti. La conseguenza fu che le forze d’attrazione mareale esercitate dai primitivi satelliti della Terra erano molto più forti. Ammettiamo dunque che a un certo stadio dello sviluppo esistessero diverse lune terrestri. La più grossa fra esse, avrebbe «inghiottito» la maggior parte degli altri satelliti. Quelli sopravvissuti e lasciati indietro sarebbero stati gradualmente eliminati dalle perturbazioni gravitazionali prodotte dalla luna maggiore. Questo è il risultato che si ottiene dalla soluzione del problema più complesso della meccanica celeste, il cosiddetto «problema a molti corpi», problema che si può risolvere numericamente grazie ai moderni calcolatori elettronici. Oggi è possibile ricostruire al computer anche un altro possibile scenario di formazione della Luna, che sta riscuotendo un crescente consenso dagli esperti. La Terra primordiale appena formata, inizialmente isolata, sarebbe stata colpita da un colossale asteroide. Tale asteroide avrebbe squarciato la Terra senza distruggerla, disintegrandosi e proiettando un’enorme quantità di materiale (di origine anche terrestre) in orbita attorno al nostro Pianeta. Da questa grande massa di detriti si sarebbe poi rapidamente condensata la Luna. ••5 Le collisioni, le aggregazioni di materiale piccolo e grande che aveva formato i pianeti come la Terra e un satellite come la Luna, caratterizzarono anche il periodo immediatamente successivo alla nascita. Ai bombardamenti di meteoriti che avevano fuso la superficie della Terra e della Luna fino a una profondità di alcune centinaia di chilometri, qualcosa come 4 miliardi d’anni fa, ne seguirono altri che sconvolsero di nuovo una crosta appena consolidata. Fu la tempesta che butterò la Luna quasi come la vediamo oggi, e ne rifuse le rocce più superficiali. Enormi crateri si riempirono di lave e crearono quei mari, visibili anche a occhio nudo, quale il Mare 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 43 02_capitolo.indd 43 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Nectaris, Humorum e Crisium, che quindi avrebbero un’età di circa 4 miliardi d’anni. Analoga sorte toccò pure alla Terra, ma mentre questa cancellò presto ogni traccia per l’azione erosiva della sua atmosfera e specialmente per la sua plasticità derivata dal forte calore interno, il nostro satellite, più piccolo, più freddo, più rigido e senza atmosfera, ne ha fedelmente conservata tutta l’evidenza. Circa 4 miliardi di anni fa avvenne dunque il secondo e ultimo grande bombardamento che colpì indiscriminatamente tutti i pianeti più interni del Sistema solare con proiettili di cui non sappiamo esattamente né il luogo di provenienza, né le perturbazioni che li spinsero verso il Sole, né la catastrofe che li produsse. Tuttavia, sappiamo che Giove e Saturno, ma soprattutto Giove, a motivo della loro massa, sono quelli che dirigono il «traffico» del sistema planetario, e, a seconda della direzione di marcia e della velocità dei corpi che si avventurano nelle loro vicinanze, possono scagliarli verso i pianeti più interni o addirittura al di fuori del Sistema solare. Quindi, è probabile che gli avvenimenti che coinvolsero o addirittura scolpirono i pianeti «terrestri» e la Luna siano stati determinati da Giove. A questo punto si potrebbe concludere il già lungo paragrafo dando per certo che il Sistema solare si sviluppò proprio come si è accennato. Invece, dobbiamo sottolineare quel (forse) messo fra parentesi nel titolo, perché la scienza persegue la verità fra mille dubbi e correggendosi di continuo. In realtà, sono state avanzate due critiche piuttosto serie all’ipotesi nebulare. La prima concerne il modo in cui il sistema planetario venne «ripulito» da polveri, detriti e gas non raccolti dai pianeti. Finora si pensava che la «scopa» adatta fosse stata la materia espulsa energicamente dal Sole sotto forma di «vento solare» all’inizio di quel suo stadio evolutivo detto T Tauri. Gli astronomi inglesi M. J. Handbury e I. P. Williams hanno tuttavia calcolato che, pure ammettendo che il Sole, in quel periodo, emettesse 10.000 miliardi di tonnellate di materia al secondo, come effettivamente fanno certe stelle T Tauri, è difficile che sia stato in grado di «spazzare» il Sistema solare e, quindi, è necessario che i teorici scoprano un meccanismo diverso. La seconda critica è stata avanzata dagli americani David C. Black e Peter Bodenheimer. In un articolo apparso sull’«Astrophysical Journal» (la più famosa rivista specializzata in astrofisica) essi sostengono che dal collasso di una nube interstellare non si può formare una nebulosa solare, cioè un disco appiattito da cui poi dovrebbero nascere i pianeti, conservando una massa principale che darebbe origine al Sole. Infatti, a causa della rapida rotazione, la nebulosa si trasformerebbe in una specie di ciambella quasi vuota nel mezzo, senza nessuna possibilità che vi si possa formare 44 02_capitolo.indd 44 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 una stella come il Sole. Però queste previsioni sono contraddette da osservazioni che mostrano l’esistenza di stelle ancora circondate da una nebulosa a forma di disco, molto più estesa della stella e molto più fredda. La prima nebulosa proto planetaria è stata scoperta attorno a una stella simile al Sole, Beta Pictoris, ed è stata osservata col telescopio da 3,6 metri dell’osservatorio europeo dell’emisfero australe, occultando con uno schermo la luce della stella. Il disco si estende fino a circa 400 volte la distanza TerraSole, circa 10 volte la distanza di Plutone dal Sole. Poi numerose altre nebulose proto planetarie sono state osservate attorno a giovani stelle immerse nella grande nube di Orione, che è una vera e propria fabbrica di stelle neonate. Queste ultime sono state osservate col telescopio spaziale Hubble in orbita attorno alla Terra. ••6 ••6 Dischi protoplanetari nella nebulosa di Orione. Chiamati anche proplidi, sono sistemi planetari in formazione, grandi circa come il nostro Sistema solare. Si nota la condensazione centrale, destinata a generare una stella come nel disco più a destra. L’immagine è del Telescopio Spaziale. (O’DELL, RICE UNIVERSITY, NASA, ESA) Sembra dunque molto probabile che i sistemi planetari si formino insieme alla loro stella in una nebulosa proto planetaria simile a quella ipotizzata da Kant e da Laplace. Si può dire che nel Sistema solare tutti i personaggi siano importanti, dai pianeti alle polveri interplanetarie. E oggi che lo spazio è diventato la nuova frontiera dell’umanità, è come se lo stesso sistema planetario acquistasse una nuova vita, inaugurasse un nuovo teatro. È difficile enumerare tutti i personaggi del Sistema solare. Gli antichi ne conoscevano solo sette, ma sono molti di più. Infatti, oltre ai 9 pianeti (o meglio 8, come ora vedremo), ci sono molti pianetini, alcuni grandi come Plutone. Mentre all’interno del Sistema solare si trovano i piccoli pianeti rocciosi (Mercurio, Venere, Terra e Marte, le cui densità medie vanno da 5,5 volte a 3,94 volte la densità dell’acqua), dopo la fascia degli asteroidi incontriamo i pianeti giganti (Giove poco più denso dell’acqua, 1,314, Saturno addirittura meno denso dell’acqua, 0,71,Urano e Nettuno con densità rispettivamente 1,3 e 1,64). 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 45 02_capitolo.indd 45 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Infine ecco Plutone. Il suo diametro è circa la metà di Mercurio, ha densità 1,75, ma un’orbita fortemente inclinata sull’eclittica e anche marcatamente ellittica, tanto che interseca l’orbita di Nettuno e fra il 1970 e il 1999 era più vicino al Sole di Nettuno e tornerà a esserlo nel 2231. Per queste sue stranezze si pensava che Plutone potesse essere stato un satellite di Nettuno strappato al suo pianeta dalle perturbazioni planetarie. Ma dopo la scoperta dell’esistenza di un’altra fascia di pianetini oltre l’orbita di Plutone fra cui qualcuno anche più grande di Plutone, si è ritenuto più corretto declassarlo ad asteroide, capostipite di questa famiglia di trans plutoniani, detti «plutini». Fino a oggi si sono scoperti 120 satelliti, ma è certo che ne esistono ancora tanti, attorno a Giove e agli altri pianeti più esterni: non si vedono perché troppo piccoli, e occorrerà andarli a cercare con le sonde spaziali. Poi vengono gli asteroidi, detti anche pianetini, che fra grandi, piccoli e piccolissimi formano una popolazione di parecchi milioni. Se ne conoscono tre famiglie. La prima è quella della fascia situata fa Marte e Giove, di cui l’asteroide più grande è Cerere, con un diametro di 933 km. ••7 Altre due fasce sono state scoperte grazie alle sonde spaziali: una è quella dei «plutini», ai confini del Sistema solare, accennata poco sopra, e un’altra è detta dei NEO, – Near Earth Objects – oggetti vicini alla Terra, perché orbitano attorno al Sole circa alla stessa distanza a cui orbita il nostro pianeta. Ancora più numerosi i meteoriti, le comete, senza dire delle polveri che riempiono lo spazio interplanetario e che di continuo finiscono nel Sole (e anche sulla Terra come «stelle filanti») e di continuo vengono sostituite da altre polveri perdute dalle comete o da polveri provenienti dallo spazio interstellare. Inoltre, il Sistema 46 02_capitolo.indd 46 ••7 Le dimensioni dei pianeti. Il Sole è rappresentato in proporzione e risulta così grande che soltanto una sua parte limitatissima è visibile sulla sinistra, mentre le enormi distanze interplanetarie non si possono riportate in scala. I quattro pianeti vicini al Sole sono piccoli e rocciosi, i quattro successivi sono grandi e gassosi; tra i due gruppi si trova la fascia degli asteroidi, che contiene il pianetino Cerere. Un’altra fascia di asteroidi si trova oltre Nettuno. Secondo le definizioni approvate dall’Unione Astronomica Internazionale nel 2006, i pianeti propriamente detti sono 8, poiché Plutone è stato declassato al ruolo di pianetino o «pianeta nano» (in inglese: dwarf planet). Recentemente sono stati individuati 3 nuovi pianetini oltre Plutone, che sono riportati nel disegno. In futuro è possibile che nuove scoperte costringano a rivedere ulteriormente il quadro complessivo del Sistema solare, secondo le definizioni degli organismi internazionali. (ADATTATO DA IAU - INTERNATIONAL ASTRONOMICAL UNION) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 solare è permeato di tenuissimi gas, di raggi cosmici che potremmo chiamare «nostrani» perché di origine solare e planetaria, e raggi cosmici di origine galattica. Abbiamo campi magnetici planetari, interplanetari e solari, nonché dei venti solari e stellari: ossia, un continuo flusso di particelle di origine solare e stellare che spazza tutto il sistema planetario, a volte a raffiche, come quando il Sole è perturbato da qualche tempesta. Sono tutti personaggi principali, attivi e importanti, simili e diversissimi l’uno dall’altro. Sono attivi per la loro influenza gravitazionale anche pianeti e satelliti, come Mercurio e la Luna, considerati «morti» perché, specialmente in conseguenza della loro massa più che della loro composizione chimica, hanno avuto una «vita geologica» più breve di quella della Terra, e non perché siano nati prima degli altri pianeti e poi siano morti di «vecchiaia». Oggi si sa che il Sole e i pianeti sono nati all’incirca contemporaneamente, ma una volta si riteneva che i pianeti si fossero formati in epoche diverse, e che fossero abitati da creature evolute più o meno di noi terrestri, in accordo con l’evoluzione fisica dei loro rispettivi pianeti. La diversa età dei pianeti era un’ipotesi fondata sulle idee di Laplace, il famoso astronomo, fisico e matematico francese, circa l’origine del Sistema solare. Laplace suggeriva che, siccome i pianeti girano intorno al Sole nella medesima direzione e quasi nello stesso piano, Sole e pianeti nacquero da un’estesa nube di gas caldo in rotazione. Come il gas si contraeva, la velocità di rotazione aumentava, producendo per forza centrifuga il distacco del bordo più esterno: un anello che, spezzandosi, finiva per condensarsi in un pianeta, oppure originava una moltitudine di asteroidi simili a quelli presenti fra le attuali orbite di Marte e Giove. Dato che all’epoca di Laplace non si conoscevano Nettuno e Plutone, il pianeta 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 47 02_capitolo.indd 47 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 più lontano era Urano, che perciò doveva essere pure il più vecchio. Poi il distacco di un altro anello aveva creato Saturno e così via fino a Mercurio, l’ultimogenito. INCOMINCIAMO DA GAIA: LA TERRA È ormai molto tempo che gli scienziati non hanno più bisogno di chiamare in causa il soprannaturale per spiegare certi fenomeni, come l’origine della rotazione terrestre e dello stesso Sistema solare. Se Newton aveva pensato che a mettere in moto la macchina del Sistema solare fosse stato il dito di Dio e così pure a regolarne di tanto in tanto il meccanismo, in seguito la conoscenza delle nebulose e ipotesi come quelle di Laplace esclusero ogni spinta iniziale e altri interventi posteriori. Bisogna riconoscere che questa indipendenza dal soprannaturale è stata una specie di rivoluzione o evoluzione intellettuale che iniziò con Copernico e Galileo, e ha fatto grandi passi in tutti i campi; tra cui i più importanti, dopo quello astronomico e fisico, sono stati compiuti da Charles Lyell nella geologia, e dal suo amico Charles Darwin nella biologia. Il primo, pubblicando nel 1830 i Principi della geologia, dimostrò che la storia della Terra è una storia naturale, regolata da comuni leggi fisiche e da processi, che, oggi come ieri, sono i medesimi: basta comprenderli per ricostruire la storia geologica del passato. E così fece anche Darwin, che avendo escluso il soprannaturale dalla storia della Terra, dimostrò che tutti gli organismi, compresa la specie umana, debbono la loro esistenza a processi naturali e non a interventi divini. Nel 1774, l’astronomo inglese Nevil Maskelyne notò che un pendolo vicino alla parete di una grossa montagna non cadeva perpendicolarmente, ma subiva una lieve deviazione. Ciò indicava che l’attrazione della massa della montagna, per quanto minima rispetto a quella della Terra, non era trascurabile. Siccome la massa della montagna si poteva stimare in base alle sue dimensioni e composizione, misurando la deviazione del pendolo, Maskelyne ne dedusse la massa relativa della Terra. Poco tempo dopo, Henry Cavendish, anch’egli inglese, la misurò con un altro metodo, ottenendo, dopo ripetuti esperimenti, che la Terra ha una massa di 5,98 per 1027 grammi. Si sarà notato che abbiamo parlato di massa e non di peso. Il peso infatti è il prodotto della massa per l’accelerazione di gravità, e quindi se sulla superficie della Terra si può parlare indifferentemente di massa o di peso perché tutti i corpi sono soggetti alla medesima accelerazione di gravità terrestre, nello spazio invece occorre parlare di massa. In altre parole, il peso 48 02_capitolo.indd 48 ••8 La Terra fotografata dalla navicella Apollo 8 durante il suo viaggio di ritorno dalla Luna. Fu in occasione della missione Apollo 8, nel dicembre 1968, che per la prima volta gli occhi umani videro la Terra rimpicciolire in lontananza nello spazio. Fino ad allora – e come tuttora avviene con la Stazione Spaziale – gli astronauti si erano limitati a orbitare a poche centinaia di chilometri d’altezza, vedendo scorrere sotto di sé i mari e le montagne, un po’ come dai finestrini di un aereo. La traiettoria dell’Apollo 8 tracciò invece un’inedita rotta interplanetaria intorno alla Luna, portando per la prima volta tre uomini nei pressi di un altro corpo celeste. (NASA/JSC) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 è relativo al corpo di cui si subisce l’accelerazione gravitazionale. Così, se noi sulla Terra pesiamo 70 kg, sulla Luna, che ha gravità 6 volte minore, peseremmo circa 12 kg, su Marte 27, su Giove 177, nello spazio interplanetario quasi niente. ••8 Le più recenti notizie ci danno un’immagine della Terra alquanto diversa da quanto impariamo a scuola. L’inglese Desmond KingHele e altri, analizzando il moto dei satelliti artificiali, hanno trovato che la Terra ha una leggera forma «a pera», accentuata dal fatto che il Polo Nord presenta una specie di protuberanza alta 44,7 metri rispetto al Polo Sud e 18,9 metri rispetto allo sferoide medio, mentre la depressione al Polo Sud risulta in questo caso di 25,8 metri. Tuttavia, se fosse possibile tagliare la Terra trasversalmente 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 49 02_capitolo.indd 49 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 lungo l’equatore, ci si accorgerebbe che ha la sezione simile a quella di una patata. Totalmente cambiato, anzi capovolto, è oggi il vecchio concetto di una Terra statica con continenti e bacini oceanici permanenti da miliardi d’anni. La nuova tettonica globale (cioè, il ramo della geologia che studia l’evoluzione e la trasformazione della superficie terrestre) parla di continenti in movimento e di bacini oceanici che si aprono o si chiudono. Circa l’interno della Terra, tutti i nuovi strumenti sismici hanno rivelato dettagli, prima inosservabili, sulla natura del nucleo. Ora sembra si possa affermare che al centro del globo esista un nucleo solido con densità 13,5 volte maggiore di quella dell’acqua, e un raggio di 1216 chilometri. Esso sarebbe circondato da una zona di transizione di 500 chilometri di spessore, a sua volta circondato da un nucleo esterno liquido con uno spessore di 1700 chilometri. Attorno al nucleo liquido esterno, abbiamo il mantello, spesso 2900 chilometri e formato di rocce solide. Arriva fino a 40 chilometri sotto i continenti e 10 sotto gli oceani. Quest’ultimo strato sottile è quello che costituisce la crosta terrestre, e si distingue in litosfera e idrosfera, la quale, fra mari e oceani, copre i tre quarti della superficie del globo. Poi vengono vari strati atmosferici, che rarefacendosi via via si estendono nello spazio per oltre 2000 chilometri, con una massa complessiva stimata a 5,6 milioni di miliardi di tonnellate, dei quali circa il 75% si trova nella troposfera che giunge fino ai quindici chilometri di quota. Al di sopra di tutto, e tutto avvolgente, c’è la magnetosfera. Che la Terra si comporti come un magnete lo sappiamo fin dal 1600, per merito del medico e fisico inglese William Gilbert. Attualmente, il Polo Nord Magnetico si trova a 100° di longitudine Ovest e circa 70° 50 02_capitolo.indd 50 ••9 La magnetosfera in laboratorio. Le fasce di Van Allen sono state riprodotte in laboratorio per mezzo di un propulsore al plasma, entro una camera stagna al centro di ricerca Lewis di Cleveland. Si vede anche un tecnico che osserva il fenomeno dall’esterno attraverso un oblò. (NASA ELECTRIC PROPULSION LAB) ••10 A destra: un’aurora vista dall’orbita. Le luci colorate sono emesse dagli atomi di ossigeno, colpiti dalle particelle energetiche provenienti da una tempesta solare. Sul bordo sinistro dell’immagine si nota lo Space Shuttle. (NASA) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 di latitudine Nord, all’estremità settentrionale del Canada; e il Polo Sud Magnetico non lontano dalla costa dell’Antartide. Tra i due Poli si incurvano le linee di forza del campo magnetico. Nel 1957, un fisico dilettante, il greco Nicolas Christofilos, fece l’ipotesi che le particelle cariche, come gli atomi ionizzati (cioè privi di uno o più elettroni) e gli elettroni presenti nello spazio e provenienti specialmente dal Sole, venivano intrappolate dal campo magnetico terrestre disponendosi a spirale lungo le sue linee di forza. Sarebbero queste particelle che, incontrandosi con quelle dell’alta atmosfera in prossimità dei Poli, danno origine al fenomeno delle aurore boreali. ••9-10 L’ipotesi di Christofilos venne confermata dalla scoperta nel 1958 delle fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense James A. Van Allen. In seguito, si è visto che queste fasce sono regioni magnetosferiche dove la concentrazione delle particelle è massima. La prima si trova a una distanza di 4830 km dalla superficie della Terra, a 18.000 la seconda, con una fascia intermedia più sottile a circa 13.000 chilometri. La magnetosfera dunque, creata dal magnetismo terrestre, che a sua volta si pensa sia un prodotto di moti turbolenti instaurati dalla rotazione della Terra nel suo nucleo liquido, è come una trappola per le particelle cariche espulse dal Sole e per i raggi cosmici. Questa trappola magnetica non ha sempre le stesse dimensioni. Per esempio, si restringe e si allunga sotto il «soffio» del vento solare. Inoltre, mentre dal lato diurno forma una semisfera di raggio pari a 60.000 km, dalla parte notturna si estende a grandissima distanza come la coda di una cometa. Analoghe trappole magnetiche sono state scoperte anche intorno a Mercurio e a Giove, il quale ha un campo magnetico 10 volte più forte del nostro, che è di soli 0,3 gauss, capace di emettere radioonde di grande intensità e perfino raggi cosmici. Ma è una radiosorgente anche la Terra. L’hanno scoperto i satelliti artificiali IMP 6 (Interplanetary Monitoring Platform) e il RAE 2 (Radio Astronomy Explorer) rilevando le onde prodotte dagli elettroni della magnetosfera e riflesse nello spazio interplanetario dalla sottostante ionosfera. Prima di lasciare la Terra mi sembra importante sottolineare quello che è il suo aspetto principale: il suo dinamismo quasi vitale dalle profondità del nucleo ai limiti della magnetosfera, dove il vento solare, incontrandola, forma come una risacca. E che dire di questo suolo dove poggiamo i piedi, e degli oceani e dell’atmosfera? Se la Terra ha grandi bacini d’acqua e grandi masse d’aria, mentre mancano su altri corpi come Mercurio e la Luna, ciò è dipeso dalla massa e dalla temperatura del nostro pianeta. Una massa minore e una temperatura più elevata avrebbero provocato l’evaporazione degli oceani e assottigliato l’atmosfera, favorendo la fuga nello spazio dei gas che la compongono. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 51 02_capitolo.indd 51 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Ma bisogna aggiungere che alla formazione del suolo, del mare e dell’atmosfera quali noi oggi li possiamo conoscere ha contribuito in misura rilevante anche l’evoluzione della vita, specie quella vegetale e quella dei microorganismi. Per questo, non pochi ecologi pensano che la materia vivente, l’aria, gli oceani, il suolo formino quasi un solo organismo: quello di Gaia, come i Greci chiamavano la madre Terra divinizzandola e umanizzandola così da eliminare la barriera tra vivente e non vivente. LA LUNA E LE LUNE, MERCURIO, VENERE E MARTE Che cosa abbiamo imparato dalle esplorazioni lunari? Durante le sei spedizioni Apollo avvenute dal luglio del 1969 al dicembre del 1972 sono stati raccolti 382 chili di rocce distribuiti a vari istituti in tutto il mondo. Con le loro sonde artificiali Luna 16, 20 e 24 i Sovietici hanno riportato sulla Terra qualche centinaio di grammi di materiale. ••11 Da queste rocce e da altre ricerche si è dedotto quanto già abbiamo accennato, cioè che la Luna ha un’età di circa 4,6 miliardi d’anni, e che da questa data e per 5 o 600 milioni d’anni i bombardamenti meteoritici le hanno dato quell’aspetto generale e definitivo per cui ci sembra di vedere nella sua «faccia» delle figure come di uomo o di donna. Formazioni molto più giovani sono invece crateri quali Copernico e Tycho, prodotti dalla caduta sporadica di qualche meteorite o grosso nucleo cometario. I sismometri piazzati dagli astronauti hanno dimostrato che è quasi una tomba: l’energia totale liberata dai terremoti lunari in un anno è infatti equivalente a quella di un chilogrammo di tritolo in confronto ai 5 milioni di tonnellate nel caso dei terremoti terrestri durante lo stesso periodo. Si è constatato che l’impatto di un oggetto quale il modulo lunare fa risuonare il nostro satellite come una campana, indicando che l’interno della Luna è per lo più costituito da una grande massa fredda, con al centro, forse, un nucleo liquido relativamente piccolo. La superficie lunare è polverosa e poco conduttiva. Scendendo in profondità la temperatura dovrebbe raggiungere 1500 °C verso i 1000 chilometri: questa è la regione dove i dati sismici indicano delle rocce allo stato liquido, e la sorgente dei deboli terremoti lunari. Tutti gli esami compiuti sulle rocce hanno escluso ogni traccia di vita e di molecole organiche. La maggior parte del carbonio trovato si ritiene di origine meteoritica o depositato dal vento solare. Perciò le ricerche biologiche ora sono dirette soprattutto verso Marte e le altre lune del sistema planetario… in attesa di esplorare gli altri sistemi della nostra Galassia. 52 02_capitolo.indd 52 ••11 La Luna come la vediamo nel cielo nelle notti di plenilunio. Sono indicate le località raggiunte dalle sonde americane e sovietiche. I Surveyor (in giallo) furono sonde USA destinate a preparare i successivi sbarchi umani. Le sei missioni del progetto Apollo (in verde) portarono poi complessivamente 12 astronauti a esplorare il suolo lunare. Da parte sua, l’URSS mandò ben 8 stazioni automatiche Lunik (in rosso), anche con ritorno dei campioni sulla Terra. (NASA/GSFC) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 53 02_capitolo.indd 53 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 È noto che noi possiamo vedere solo una faccia della Luna, perché la forte attrazione gravitazionale della Terra ne ha rallentato il periodo di rotazione fino a farlo coincidere con quello di rivoluzione e costringere pertanto la Luna a rivolgere sempre la stessa faccia verso la Terra. Abbiamo potuto vedere l’altra faccia della Luna solo nel 1959 quando la sonda sovietica Luna 3 circumnavigò la Luna e ci inviò le immagini della faccia nascosta. ••12 Eccoci dunque alle altre lune. La sonda Galileo che ha esplorato il sistema di Giove e dei suoi satelliti ne ha contati almeno 63 fra vecchi e nuovi. lo, il primo dei quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei intorno a Giove e il più vicino alla superficie del pianeta dopo Amaltea, è forse anche il più interessante. Sembra possegga un’atmosfera carica di neve di metano, una ionosfera con nubi di sodio molto estese (tanto che la sua superficie potrebbe essere coperta di sale), e una specie di nube di idrogeno che si estende a forma di tubo per quasi un terzo della sua orbita. È l’unico satellite ad avere vulcani attivi. ••13 Procedendo verso l’esterno del Sistema solare incontriamo Saturno e i suoi satelliti. La sonda Cassini, che ha esplorato il sistema 54 02_capitolo.indd 54 ••12 La faccia nascosta della Luna fu svelata per la prima volta nel 1959 della sonda sovietica Luna 3. Qui la vediamo ripresa dalla sonda interplanetaria Galileo, partita verso Giove nel 1990. L’area scura al centro è il Mare Orientale. (NASA) ••13 Il satellite Io passa davanti a Giove. Notare la superficie butterata di vulcani, il bordo di Giove a sinistra nella figura e un pennacchio vulcanico sul bordo destro di Io. (NASA) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••14 Il suolo di Titano. Il modulo di discesa Huygens si è posato su questo lontano corpo celeste il 14 gennaio 2005, dopo essersi staccato dalla sonda Cassini al termine di un lungo viaggio fino a Saturno. La panoramica verticale a sinistra è stata ripresa dal livello del terreno, rivelatosi la spiaggia fangosa di un lago di metano, sollevando la visuale fino all’orizzonte. Per confronto, l’immagine è qui affiancata da un’analoga veduta del suolo lunare ripresa da una missione Apollo. I colori sono quelli reali. (ESA, NASA, JPL, ARIZONA UNIVERSITY) di Saturno ne ha contati 18. Però lo scopo principale del viaggio di Cassini è stato quello di portare «in groppa» la sonda Huygens e inviarla verso il più grande satellite di Saturno, Titano, dopo Tritone la più grossa luna del Sistema solare, che col suo diametro di 5150 km supera Mercurio e ha un’atmosfera ricca di molecole organiche, 25 volte più densa di quella di Marte. La Cassini è partita il 15 ottobre 1997 per arrivare nei dintorni di Saturno nel luglio 2004, dopo quasi sette anni di viaggio. Per Natale 2004 la Huygens ha lasciato la Cassini e si è avviata verso Titano, che ha raggiunto il 14 gennaio 2005 ed è scesa sulla superficie del satellite frenata da più paracadute. ••14 Durante la discesa ha inviato immagini del suolo in cui si vedevano scorrere fiumi, probabilmente formati da metano liquido, dato che a quelle temperature di circa -200 gradi centigradi non poteva trattarsi di acqua. Il terreno era bagnato come dopo una pioggia recente. Nonostante la sua temperatura super refrigerata non è escluso che esistano zone vulcaniche e quindi abbastanza calde da alimentare forme di vita. Quella di Titano, a parte la temperatura, sarebbe un’atmosfera non molto dissimile dall’atmosfera primitiva della Terra. Forse un giorno un’altra sonda riuscirà a portare sulla Terra campioni di quel liquido e dirci se in esso ci sono almeno dei batteri, e se la vita può nascere anche in un liquido diverso dall’acqua. ••15 Se Titano è la sesta luna di Saturno, Giapeto, l’ottavo satellite scoperto da Giovanni Domenico Cassini nel 1671, è detto «dai due volti», perché ha la straordinaria caratteristica di apparire 6 volte più luminoso quando si trova a Ovest, invece che a Est di Saturno. Si stima che abbia un diametro di circa 1500 km, e, a meno che non abbia una forma irregolare, uno dei suoi emisferi deve essere molto più riflettente dell’altro. Sempre a proposito delle lune, l’11a luna di Saturno ha la particolarità di viaggiare in strettissima coppia con Giano (la 10a luna scoperta nel 1966 dal francese Audouin Dollfus) dal quale dista meno di 8000 km. Sebbene una collisione sia improbabile, esse possono influenzare reciprocamente le loro orbite. Satelliti estremamente interessanti sono quelli che orbitano intorno a Urano. Prima delle missioni interplanetarie si conoscevano solo 5 di essi, i più grandi: Titania, Oberon, Umbriel, Ariel e il più piccolo Miranda, con diametri fra 1580 km per Titania e 484 km per Miranda. La sonda Voyager 2 ne scoprì altri 10 nel 1986. Altri ancora sono stati scoperti col 5m di Monte Palomar e oggi ne conosciamo 28. Eccetto Miranda, il più vicino alla superficie del pianeta, gli altri hanno orbite regolarissime e quasi circolari, giacenti su un piano pressoché coincidente con quello equatoriale 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 55 02_capitolo.indd 55 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 di Urano. Queste lune girano nel senso di rotazione del pianeta, formando un sistema di satelliti ancora più regolare di quelli di Giove e Saturno. Nettuno ha due satelliti principali, Tritone e Nereide, dal diametro rispettivamente di 2707 km e 340 km. Altri 6 sono stati scoperti da Voyager 2 nel 1989. Oggi se ne conoscono almeno 13. Di forma notevolmente irregolare sono i satelliti di Marte, Phobos e Deimos. Il primo misura 20 x 23 x 28 chilometri, e il secondo 10 x 12 x 16. In fotografia assomigliano a due patate, e sono butterati di crateri e di solchi. Inoltre, il loro colore è quello più «nero» di tutti i membri del Sistema solare. Non si sa nulla sulla loro origine, e poco sulla loro composizione, che si suppone sia basaltica e cioè di rocce vulcaniche ricche di ferro e magnesio, oppure come quella di certi meteoriti chiamati condriti carboniose. ••16 Anche il piccolo Plutone, declassato ad asteroide, ha un satellite, Caronte, che ha un diametro di 1186 km, circa la metà di quello di Plutone, 2390 km, per cui più che di un pianeta col suo satellite si dovrebbe parlare di un pianeta doppio. Lo stesso, come abbiamo già osservato, vale per il sistema Terra-Luna. 56 02_capitolo.indd 56 ••15 Titano e gli anelli di Saturno. Il colore rossastro del satellite Titano è dovuto alla sua atmosfera, mentre gli anelli di Saturno in primo piano sono composti di particelle di ghiaccio. (NASA, CASSINI) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••16 Phobos, uno dei due satelliti di Marte. L’immagine è stata ripresa dal Mars Reconnissance Orbiter. Si notano le striature provocate dal rotolamento di detriti sulla superficie di questo piccolo satellite. (NASA, JPL, UNIVERSITY OF ARIZONA) Dalle varie lune del Sistema solare a Mercurio, il passo è meno grande di quanto sembri. Non soltanto perché 4 dei satelliti del Sistema solare sono più grossi di Mercurio, e cioè Tritone (satellite di Nettuno), Titano, Ganimede e Callisto, ma anche perché c’è chi pensa che Mercurio sia stato un tempo un satellite di Venere. Il che, a parte altre ragioni, spiegherebbe il fatto che lo stesso Mercurio non ha satelliti. Inoltre, un motivo più importante in favore di questa ipotesi potrebbe essere la distribuzione asimmetrica dei crateri sulla sua superficie, un po’ come la Luna. Ritorneremo in seguito su questo argomento. Fino al 1965 si credeva che Mercurio rivolgesse sempre lo stesso emisfero al Sole, poi in quell’anno Gordon H. Pettengill e Rolf Bhucanam Dyce, col radar di Arecibo, scoprirono che invece ruotava in quasi 59 giorni e non in sincronia col suo periodo orbitale di 88 giorni. Un professore dell’Università di Padova, Giuseppe Colombo, fece subito notare che 59 giorni corrispondevano all’incirca a due terzi del periodo di rivoluzione, e ciò non era dovuto a una coincidenza fortuita, ma a una precisa causa fisica: l’azione gravitazionale del Sole su un piccolo rigonfiamento nella regione equatoriale del pianeta. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 57 02_capitolo.indd 57 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La NASA, l’Agenzia Spaziale Americana, deve anche a Colombo se il Mariner 10, lanciato all’esplorazione di Venere e Mercurio, ha avuto un successo maggiore del previsto. Con tale lancio la NASA sperimentava per la seconda volta, dopo il Pioneer 10 diretto a Giove, la tecnica del «Rimpallo Gravitazionale». Ossia, senza maggior spesa di carburante, e servendosi dell’attrazione gravitazionale di Venere come di una fionda, con un solo satellite si esploravano prima Venere e poi Mercurio. Colombo suggerì che si sarebbe potuto fare ancora meglio, se il Mariner avesse incrociato Mercurio in modo da entrare in un’orbita di «risonanza» con quella del pianeta, invece di immettersi in una delle tante orbite circumsolari. In altre parole, occorreva far girare il Mariner intorno al Sole in un periodo di 176 giorni, il doppio di quelli impiegati da Mercurio, perché la sonda lo ritrovasse puntualmente ogni volta che questo completava due orbite. Perciò, non un incontro singolo con Mercurio, ma ripetuti quanto si voleva, pagando solo il prezzo del carburante per le piccole correzioni di rotta e di assetto. In effetti, ci sono stati tre incontri del Mariner 10 con Mercurio: il 29 marzo e il 21 settembre del 1974, e poi il 13 marzo 1975, con un intervallo di 176 giorni l’uno dall’altro, pari a tre rotazioni di 58 02_capitolo.indd 58 ••17 Il pianeta Mercurio ripreso a colori dalla sonda Messenger nel gennaio 2008. Il suolo del pianeta è per certi versi simile a quello della Luna. (NASA) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 Mercurio su se stesso. Questo significa che il pianeta presentava lo stesso emisfero rivolto verso il Sole a ogni incontro col Mariner, che per questa ragione ha sempre fotografato la stessa metà del pianeta: quella illuminata, mentre l’altra rimaneva avvolta nella notte. Si è trovato che Mercurio è disseminato di crateri forse più della Luna, e ricoperto da uno strato anche più alto di «terriccio» e di polveri. Esso presenta pure delle caratteristiche non lunari, come, per esempio, una strana regione a 30° di longitudine Ovest e 25° di latitudine Sud, ricca di formazioni collinari, come tagliate e cosparse di materiale levigato. In complesso, però, non si vedono tracce di erosione. Comunque, tale apparenza lunare, anche se preannunciata dalle osservazioni telescopiche di Audouin Dollfus, è stata una sorpresa, considerata la densità di Mercurio che si aggira sui 5,5 grammi per centimetro cubo in confronto ai 3,3 della Luna. Ne deriva che Mercurio, come la Terra, deve avere un nucleo di ferro e nichel. Ma allora, come è possibile che due corpi così differenti all’interno siano così simili in superficie? Sorpresa non minore, è stata la scoperta del campo magnetico di Mercurio (che ammonta ad appena 1/100 di quello della Terra) con relativa magnetosfera e «risacca» del vento solare ai suoi limiti esterni. Abbiamo già detto, a proposito della magnetosfera del nostro pianeta, che per il suo formarsi si credono necessarie due condizioni: un nucleo liquido e una rotazione planetaria abbastanza rapida da instaurarvi turbolenza e vortici. Siccome sappiamo che Mercurio ruota molto lentamente, non si capisce quale sia il meccanismo causa della formazione della sua magnetosfera. ••17 A proposito dei crateri, invece, vale la pena ricordare un contributo alla vecchia polemica sull’origine dei crateri lunari. Per dire il vero, gli scienziati non hanno mai escluso che la Luna, Mercurio, Venere, la Terra e Marte (chiamati anche generalmente «pianeti terrestri») siano passati attraverso un periodo di vulcanismo diffuso. Tale periodo si farebbe risalire a circa 3,5 miliardi d’anni fa. Ma l’americano Robert G. Strom, un planetologo del Lunar and Pianetary Laboratory di Tucson, Arizona, sostenne di aver scoperto un altro periodo vulcanico avvenuto 500 milioni d’anni prima, ossia pressappoco 4 miliardi d’anni fa. Ciò indicherebbe un’associazione fra vulcanismo primitivo e formazione del nucleo di un pianeta. Così, se è vero che molti crateri primari sparsi nelle pianure mercuriane e simili ai crateri lunari vennero prodotti dall’impatto dei meteoriti, e quelli secondari dai materiali di ricaduta, non tutti si possono spiegare allo stesso modo. Il numero e la distribuzione dei crateri in alcune regioni della Luna non si accordano con la distribuzione dei crateri in altre regioni circostanti: secondo Strom, queste pianure su Mercurio e la Luna vennero prodotte dal vulcanismo primitivo, non dagli impatti. Ana- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 59 02_capitolo.indd 59 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 loghi processi vulcanici potrebbero essere accaduti anche sulla Terra, Venere e Marte. Certo, sulla Terra, a motivo dell’erosione e dell’attività endogena che ha trasformato i continenti e creato le montagne, è scomparsa ogni traccia di rocce più antiche di 3,8 miliardi d’anni. Dell’infanzia della Terra non resta più nulla, è perduta per sempre. Ecco perché è così interessante e importante ritrovare queste tracce e stabilire con la maggiore precisione possibile quali furono nei dettagli la natura, il tempo, il modo delle fasi di formazione sia dei pianeti più simili e vicini alla Terra, sia di quelli più dissimili e lontani. Nel nostro villaggio planetario, Venere è il pianeta più vicino e più nascosto. Sempre avvolto di nubi, non fa scorgere nemmeno un briciolo della sua «pelle». Per saperne qualcosa, occorre sondarla con le onde radar, e fino al 1961 non si sapeva nemmeno quale fosse il suo periodo di rotazione: chi diceva un giorno, chi 4, chi 225. Quando nel ‘62 i grandi radar americani e sovietici riuscirono a stabilire che Venere, rispetto alle stelle, ruota in un periodo di 243,16 giorni e in senso retrogrado (da Est a Ovest, contrario a quello di rivoluzione), non fu un risultato facilmente accettato. ••18 Si era perplessi, perché tre rotazioni di Venere, equivalenti a circa 730 giorni, risultano in «risonanza» con due rivoluzioni della Terra. È come se la Terra, o meglio, le sue forze mareali, le medesime che obbligano la Luna a «guardarci» sempre con la stessa faccia, riuscisse a controllare anche Venere in modo da obbligarla a presentarci lo stesso emisfero ogni volta che si avvicina a noi, cioè a ogni congiunzione inferiore. Si ha una congiunzione inferiore quando Terra, Venere e Sole sono allineati, con Venere fra la Terra e il Sole, e fase di Venere «nuova». Si parla invece di congiunzione superiore quando i tre corpi sono allineati, con il Sole fra la Terra e Venere, la quale è in fase «piena». Altri suppongono che a far ruotare Venere così lentamente, invece dell’attrazione terrestre, sia stato l’impatto di una piccola luna che si muoveva in un’orbita retrograda. Comunque sia, la lentissima rotazione di Venere è un fatto incontestabile. Dalla combinazione del moto di rivoluzione di Venere intorno al Sole con un periodo di 225 giorni, e dal moto di rotazione retrogrado pari a 243,16 giorni, consegue che il periodo di rotazione sinodico (ossia, rispetto al Sole) è di 117 giorni terrestri, con 58,5 giorni d luce e 58,5 di buio. Se le nubi non nascondessero il cielo, una mitica salamandra vedrebbe il Sole spostarsi di appena 3° durante 24 ore, e, naturalmente, da Ovest a Est. Inoltre Venere non ha stagioni perché il suo asse è inclinato soltanto di 3°. Se Venere è una «tardona», al contrario sono veloci le nuvole più alte che la ricoprono: possono raggiungere i 100 metri al secondo, e fanno un giro completo intorno al pianeta in un periodo 60 02_capitolo.indd 60 ••18 Fotografia di Venere, realizzata in luce visibile e ultravioletta dal Mariner 10 nel 1974. Il pianeta appare interamente avvolto da una coltre di nubi. (NASA/JPL, M. MALMER) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 di 4 giorni. Era questa rotazione della coltre di nubi che confondeva gli astronomi e li rendeva così incerti sulla vera durata del periodo di rotazione. La temperatura su Venere è elevatissima: un vero inferno, e, a volerla visitare, ci vorrebbe un batiscafo, adattato al fuoco, oltre che alle alte pressioni. Infatti, se la temperatura alla quota delle nubi più alte è di -40 °C; al suolo arriva a circa +480 °C, con una pressione di 93 kg/cm2, pari ad altrettante atmosfere. La composizione dell’aria consiste per il 97% di anidride carbonica e per il 3% di azoto, ossigeno e argon in proporzioni non ancora fissate. Inutile aggiungere che con questo calore, capace di liquefare il piombo e lo zinco, sulla superficie di Venere non c’è traccia di acqua allo stato liquido. Tuttavia questa superficie si comporta in un certo senso proprio come l’acqua sulla Terra, in quanto reagisce con l’anidride carbonica dell’atmosfera. Tale fenomeno avviene anche sulla Terra, ma con estrema lentezza a causa della bassa temperatura; su Venere, al contrario, le reazioni sono rapide e in base a esse si riesce a spiegare la presenza nelle nubi venusiane di vari acidi, compreso l’acido solforico e l’acido cloridrico, scoperti fin dal 1967 dai francesi Pierre e Janine Connes per mezzo dell’analisi spettrografica e dall’americano William S. Benedict. Quindi se su Venere piove, è pioggia all’acido solforico e il nostro batiscafo dovrebbe essere attrezzato anche contro la corrosione. Ma perché su Venere fa tanto caldo? Perché funziona come una serra. Se l’80% della radiazione solare viene riflessa nello spazio, le nubi assorbono la percentuale rimanente tanto nell’infrarosso che nell’ultravioletto. La superficie si riscalda, ma le radiazioni infrarosse rimangono intrappolate dall’atmosfera. Il meccanismo è lo stesso che si verifica in una macchina lasciata al Sole con i finestrini chiusi: la luce entra liberamente e viene riemessa; ma le radiazioni infrarosse a cui il vetro è meno trasparente vengono intrappolate e dopo poco l’interno della macchina diventa un forno. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 61 02_capitolo.indd 61 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Ancora in tema di radiazioni, domandiamoci quanta luce solare arriva al suolo. Le sonde sovietiche Venera 9 e 10, atterrate in pieno giorno venusiano rispettivamente il 22 e il 25 ottobre 1975, a una distanza di 2200 chilometri l’una dall’altra, trovarono un ambiente meno crepuscolare di quello sperimentato in ore più mattutine, dalla Venera 8 nel 1972. Forse, è dipeso anche dalle condizioni meteorologiche: un cielo di nubi più alto e diradato. Per avere un’idea più precisa, la Venera 8 aveva misurato un illuminamento sui 2-300 lux col Sole mattutino basso sull’orizzonte. Per illuminamento si intende la luce ricevuta per unità di superficie. Si misura in lux, che equivale a una candela a 1 metro di distanza. Con opportuni calcoli si deduceva che col Sole allo Zenit, si poteva arrivare a 2000 lux, da paragonare ai 100.000 lux presenti quando il Sole estivo brilla sulla Terra, e al chiaro di Luna equivalente soltanto a un quarto di lux. Le foto scattate da Venera 9 e 10 hanno mostrato in una località un panorama uniforme di rocce tagliate ad angoli acuti e come prodotte dallo spezzarsi di rocce fortemente stratificate e, altrove, rocce più arrotondate e «vecchie». Le ultime due sonde di questa serie, Venera 13 e 14, hanno trasmesso sulla Terra straordinarie panoramiche a colori del suolo venusiano. Da queste foto e dalle ricerche radar sembra si possa concludere che si tratta di un’attività tettonica d’origine interna, e probabilmente vulcanica. ••19 Il radiotelescopio di Arecibo in coppia con un’antenna da 30 metri posta a circa 11 chilometri di distanza nell’agosto del 1975 ha ottenuto dei segnali radar, che, convertiti in immagini, ci hanno mostrato una vasta regione compresa fra 46° e 75° di latitudine Nord, e circa 80° di longitudine, una sorta di grande bacino forse di origine meteoritica. Invece, altre zone di colore chiaro, in particolare una battezzata Maxwell, si direbbero quasi sicuramente di natura tettonica, con effusioni laviche. Sembra pure di intravedere alcune serie di catene montuose. «Sulla Luna non c’è nulla di simile», dicono gli scienziati R. B. Dyce e G. H. Pettengill. Anzi, aggiungono che le indicazioni di un’attività tettonica sono così va62 02_capitolo.indd 62 ••19 Il suolo di Venere, ripreso dalla sonda sovietica Venera 13 nel 1982. Si scorgono in primo piano la base dentata della sonda, il coperchio semicircolare della telecamera caduto sul terreno e un’asticella per la calibrazione dei colori. Il paesaggio venusiano mostra dei lastroni di roccia vulcanica che si perdono in lontananza. In questa ripresa, che è una strisciata grandangolare, l’orizzonte si trova in alto negli angoli a sinistra e a destra. (ROSCOSMOS E NASA) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••20 Il pianeta Marte. Il caratteristico colore rosso è dovuto alle rocce e a polveri rossastre molto fini. Nelle antiche mappe di Marte comparivano «mari» e «canali», ma si trattava di impressioni visive e illusioni ottiche riportate nelle prime osservazioni telescopiche. Anche se di queste primitive denominazioni rimane traccia nella nomenclatura marziana, oggi sappiamo che sulla superficie di Marte non c’è acqua allo stato liquido, ma c’è ghiaccio nelle calotte polari. (NASA/HST) ste «da sollevare qualche dubbio anche sull’origine meteoritica del grande bacino». Ricorderete gli analoghi ripensamenti di Strom riguardo le pianure di Mercurio e della Luna. Altrettanto importante dell’esplorazione delle sonde sovietiche su Venere è stata quella dei Viking americani atterrati su Marte, dopo i memorabili sorvoli e l’immissione in orbita dei Mariner. Fu specialmente il Mariner 9 che, arrivato su Marte durante una tempesta di sabbia durata diverse settimane, non appena la polvere prese a diradare, ci rivelò un mondo tutto diverso da quello osservato da Terra e dai precedenti Mariner. Nell’opinione dello scienziato americano Harold Masursky, l’aspetto globale di Marte rammentava l’immagine che noi ci facciamo della Terra all’epoca di Pangea, cioè di quell’ipotetica massa continentale unica dalla quale si sarebbero distaccati i continenti attuali. ••20 In breve, si vide che oltre che di crateri, Marte era ricco di poderosi vulcani, in particolare nell’emisfero settentrionale. Uno di questi, «Olympus Mons» (Nix Olimpica) coi suoi 26 km di altezza e 5 o 600 chilometri di diametro, è il più alto che si conosca sia su Marte che sugli altri pianeti. Si videro lunghissimi e larghissimi canyon che non hanno nulla a che vedere con i famosi «canali d’irrigazione» marziani, ma indicherebbero (anche se altri scien- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 63 02_capitolo.indd 63 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ziati, come Ernst J. Opik sono di diverso parere) che effettivamente su Marte ci sarebbero stati dei fiumi e un’atmosfera e un clima più umido e caldo. Nel giugno e nell’agosto del 1976 sono arrivati i Viking 1 e 2, i quali, dopo un periodo di esplorazione in orbita, hanno sganciato le capsule di atterraggio il 20 luglio nella regione di «Chryse Planitia» (22,27° di latitudine Nord e 48,00° di longitudine Ovest), e il 3 settembre a «Utopia Planitia» (40,97° latitudine Nord, 225,67° longitudine Ovest), con lo scopo principale di rintracciare eventuali forme di vita. La parte dei Viking rimasta in orbita serviva da collegamento con la Terra e svolgeva importanti ricerche, fra cui l’analisi della calotta polare, della conformazione del suolo, della forma di Marte, della costituzione dell’atmosfera. ••21 Vale la pena di riferire le difficoltà tecniche e di programmazione superate dagli ingegneri e dagli scienziati. A parte un atterraggio «morbido» per non danneggiare gli strumenti, si doveva scegliere un luogo, basso, umido e caldo, relativamente alla rigida temperatura di Marte che al suolo, in media, è di 23 °C sotto zero. Queste tre condizioni, considerate le più adatte per qualche forma di vita marziana, erano però anche piuttosto contraddittorie. Infatti, se vicino all’equatore marziano era facile trovare luoghi bassi e caldi, quelli presumibilmente più umidi si trovano al margine delle calotte polari. Infine, questi luoghi dovevano essere anche 64 02_capitolo.indd 64 ••21 I pianeti Mercurio, Venere e Marte, a confronto con la Terra. Le dimensioni sono in scala. (WWW.FERLUGA.NET) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 molto bassi, in modo che vi dominasse una pressione superiore ai 6,1 millibar: necessaria per trovare possibili pozze d’acqua allo stato liquido. È una pressione, che, sulla Terra, si riscontra a circa 35 km di altezza, e su Marte a 3 km sotto il livello medio della superficie. A «Chryse Planitia», la pressione è risultata di 7,7 millibar, il che farebbe presumere che si trovi a circa 5 chilometri sotto il livello medio marziano, mentre la temperatura oscillava da un minimo di -90°C, a un massimo di -10°C, con venti deboli di pochi metri al secondo. In altre regioni, come al di sopra dei grandi vulcani, si sono osservate formazioni di nubi trasportate dal vento a 200 chilometri l’ora. Sono nuvole in genere piuttosto tenui e stagionali, in quanto sembra si formino soltanto in primavera e in estate. A questo proposito, il Viking 1 è atterrato quando sull’emisfero settentrionale l’estate era cominciata da una decina di giorni, e corrispondeva al 361° giorno dell’anno marziano, che ha una durata di 668,6 giorni marziani, pari a 686,97 giorni terrestri. Dopo l’atterraggio sono cominciate subito le «giornate lavorative» del Lander, la capsula-laboratorio; giornate che i tecnici hanno chiamato SOL dalla frase Surface Operation Lander (attività del Lander sulla superficie). SOL 0 è stata chiamata la prima giornata, iniziata alle ore 4,13 pomeridiane (tempo locale), mentre SOL 1 è iniziata alla mezzanotte lungo la longitudine 48,01° Ovest. L’attività del laboratorio è proseguita fino a SOL 43, corrispondente al nostro 1° settembre, quando è stata ridotta, in attesa dell’atterraggio del Viking 2. Il panorama di Marte è un deserto rossastro disseminato di pietre di ogni dimensione, e anche il cielo è più o meno «rugginoso» in relazione alla quantità di polveri sollevate dal vento. È un suolo polveroso che i «bracci» dei Viking hanno scavato con facilità, ma è anche consistente. Le rocce hanno una composizione chimica basaltica, mentre mancherebbero i graniti. I gas atmosferici sono formati da anidride carbonica per il 95%, azoto 2-3%, argon intorno all’1%, e poi tracce di ossigeno, monossido di carbonio o altri gas inerti. Anche il Viking 2 è atterrato in una «foresta» di rocce, a un livello più basso di quello di «Chryse Planitia». Contrariamente alle aspettative, si tratta di una regione piatta e simile alla precedente, diversa da come appariva dalle capsule rimaste in orbita, che, abbracciando un panorama più ampio, avevano notato inconfondibili segni di crateri formatisi per impatto o vulcanismo e terreni fluviali. Gli strumenti in orbita hanno potuto stabilire che le calotte polari nella stagione estiva sono costituite in gran parte di ghiaccio e d’acqua, essendo evaporate le nevi invernali di anidride carbonica, e che Marte, pur rimanendo un pianeta arido, contiene racchiusa nei minerali più acqua di quanto si ritenesse. Inoltre si è 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 65 02_capitolo.indd 65 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 visto che le calotte polari sono formate da strati di ghiaccio e strati di polveri accumulati l’uno sull’altro per uno spessore di diversi chilometri, e che subiscono caratteristiche erosioni. Le polveri, in cui sono parzialmente affondati i piedi dei Lander, contengono percentuali di materiale magnetico, forse soprattutto magnetite, che è un ossido di ferro. Va aggiunta qualche informazione sui vulcani e sulla costituzione interna di Marte e Venere. Si pensa che la maggior parte dei vulcani marziani siano spenti da miliardi d’anni. I sismografi hanno avvertito appena una o due deboli scosse, la qual cosa concorda con l’ipotesi di un pianeta ormai geologicamente inattivo da moltissimo tempo. Lo dimostra anche l’assenza di rocce bianche come il nostro granito e la presenza di vulcani ma non di montagne: queste si crede risultino da compressioni della crosta di un pianeta, quelli da fuoriuscite di magma. Ciò si spiega con quanto dicevamo che Marte è un pianeta rimasto per sempre con la crosta unita come quella di Pangea, perché il suo «motore» interno non avrebbe avuto la forza di spezzare i continenti. Venere, con una massa e una densità quasi uguali a quelle del nostro pianeta, è probabile abbia la medesima struttura e composizione interna. La mancanza di una magnetosfera è spiegabile con la sua lenta rotazione. Marte, più piccolo e meno denso (3,9 grammi per centimetro cubo, in confronto ai 5,4 di Mercurio, 5,2 di Venere, 5,5 della Terra), deve essere composto soprattutto di silicati pur non mancando di un nucleo di ferro. Però, siccome Marte ruota più rapidamente della Terra, e tuttavia non ha magnetosfera, dovrebbe avere un nucleo di ferro ormai solido oppure troppo piccolo. Da quelle lontane «giornate lavorative» del Lander nell’estate del 1976, l’esperimento più atteso, quello biologico, malgrado anche le recenti esplorazioni, non ha dato finora risultati conclusivi. A causa dell’assenza di piogge da miliardi d’anni, Marte si è rivelato un mondo che ha subito pochi mutamenti nel corso dei millenni. Da questo si può inferire che si trovi anche in uno stato prebiologico permanente; ciò significa che la sua esplorazione ci dà l’opportunità inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la materia inerte in materia vivente. Nei laboratori terrestri abbiamo avuto la prova che certi microbi sopravvivono in un ambiente che simula quello marziano. Perciò, i Lander hanno condotto e condurranno ancora delicati esperimenti di metabolismo, respirazione, fotosintesi su vari campioni di terreno. L’esplorazione di Marte è proseguita attivamente, in vista della grande avventura del secolo XXI: sbarco di astronauti sul pianeta rosso. Fra le varie sonde che sono scese sul suolo di Marte dopo i Viking ricordiamo il Pathfinder atterrato nel luglio 1997 in una zona 66 02_capitolo.indd 66 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••22 Il rover Opportunity su Marte, al bordo del cratere Victoria nel 2006. L’immagine è stata ripresa dallo stesso Opportunity, qui sovrapposto con un fotomontaggio. (NASA) ricca di antiche rocce, che sembrano simili al meteorite ALH84001 proveniente da Marte e che potrebbe contenere un fossile di batterio; il Mars Global Surveyor che ha compiuto centinaia di orbite attorno a Marte inviandoci un gran numero di immagini della superficie marziana in cui si vedono dettagli di 1,5 metri, mentre i dettagli più piccoli visti dai Viking sono di 4 metri; la sonda 2001 Mars Odyssey in orbita attorno a Marte che aveva rilevato la presenza di ghiaccio; la sonda Phoenix, atterrata al polo nord di Marte il 25 maggio 2007, che ha prelevato un campione del suolo, e i suoi strumenti lo hanno esaminato e provato la presenza di acqua, che si ritiene essenziale per qualsiasi forma di vita. Le esplorazioni più complesse sono state compiute dalle due sonde gemelle Spirit e Opportunity, giunte in luoghi differenti di Marte nel gennaio 2004. Si tratta di veicoli a 6 ruote dotati di intelligenza artificiale, capaci di analizzare il terreno e di evitare gli ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra, che hanno viaggiato sul pianeta rosso per molti chilometri. Spirit ha raggiunto la vetta di una collina marziana, mentre Opportunity ha esplorato numerosi crateri e nel 2012 non ha ancora concluso la sua onorata attività. ••22 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 67 02_capitolo.indd 67 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 GLI ASTEROIDI E LE AVVENTUROSE COMETE Nella sua Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, G. W. F. Hegel scrive che «colui che erra è pur sempre spirito», e perciò superiore a tutte le meraviglie della natura. Succedeva, però, che fidandosi troppo dello spirito e tenendo in nessun conto l’esperienza, incorresse in grossi errori. È noto, per esempio, che nella Discussione filosofica sulle orbite dei pianeti dimostrava con orgogliosa sicurezza che non potevano esistere più di 7 pianeti. E ciò, otto mesi dopo la scoperta di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi la notte dal 1° al 2° gennaio del 1801. Quando, poi, si trovarono anche Pallade, Giunone e Vesta, pur riconoscendo l’esistenza degli asteroidi, Hegel proclamò che le leggi che regolavano l’ordine dei pianeti esigevano la loro suddivisione in tre gruppi: il primo formato dai quattro pianeti interni con soltanto la Terra provvista di un satellite; il secondo formato dai soli asteroidi, il terzo costituito dagli altri pianeti con molti satelliti o anelli come Saturno. Quando l’americano Asaph Hall, nel 1877, scoprì le due lune di Marte, Hegel era morto da 46 anni e non poté inventare un altro schema adattabile alla realtà. L’intuito scientifico che mancava a Hegel, invece non difettava in Giovanni Keplero, sebbene anch’egli fosse alquanto malato di pitagoriche stramberie; e dopo Keplero, in uomini come Christian Freiherr von Wolf, Johann Heinrich Lambert, e specialmente Johann Daniel Titius che enunciò la famosa legge, conosciuta come Legge Titius-Bode, perché fu Johann Bode a pubblicizzarla. Keplero si era accorto che nel succedersi delle distanze planetarie, quella fra Marte e Giove era troppo grande rispetto alle altre, e per ristabilire «l’armonia» pensò che bisognava metterci un pianeta. Il posto preciso a 2,8 U.A. lo trovò Titius, rappresentando con una serie di numeri le distanze dei pianeti dal Sole, misurate in base alla distanza Terra-Sole. Per esempio, aggiungendo 0,4 ai numeri della serie 0; 0,3; 0,6; 1,2; 2,4; 4,8; 9,6; 19,2; 38,4… si ottiene 0,4; 0,7; 1,0; 1,6; 2,8; 5,2; 10,0; 19,6; 38,8: valori che si accordano con le distanze vere fino a Urano, ma non per Nettuno e Plutone, a meno che non si salti da Urano a Plutone, trascurando Nettuno. Come si vede, è una «legge» per modo di dire, nonostante possa esprimere delle relazioni non ancora ben comprese. Tuttavia, specie dopo che William Herschel aveva scoperto casualmente Urano nel 1781, alla distanza media di 19,2 U.A. (non troppo diversa da quella di 19,6 di Titius-Bode), questa legge era ritenuta valida e meritevole di controllo. Fu così che, organizzata dal barone ungherese Franz Xavier von Zach, incominciò la caccia a questo corpo celeste che si nascondeva a 2,8 U.A. Vinse, come abbiamo detto, Giuseppe Piazzi, che non partecipava alla gara: Von Zach gli aveva spedito l’invito, ma Piazzi non aveva ricevuto la lettera, e quando 68 02_capitolo.indd 68 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••23 L’asteroide Eros. La sua orbita incrocia quella della Terra e quindi Eros rappresenta una potenziale minaccia per il nostro Pianeta. Questo asteroide, lungo 33 km, è stato raggiunto nel 2000 dalla sonda Near. (NASA) scoprì Cerere, osservava il cielo per compilare un catalogo stellare. L’importanza di Cerere non consiste soltanto nella scoperta di oggetti fino allora sconosciuti come gli asteroidi (o pianetini, come vengono anche chiamati per le loro esigue dimensioni), o nella conferma della strana legge di Titius- Bode, ma nel contributo dato in quell’occasione da un grandissimo matematico, Karl Friedrich Gauss, allora ventiquattrenne. Le osservazioni di Piazzi erano state sufficienti a stabilire che l’orbita di Cerere era quasi circolare, situata a circa 2,8 U.A., e non allungata come quella di una cometa: quindi si trattava proprio del «pianeta mancante». Però, a causa del cattivo tempo, le osservazioni avevano dovuto essere interrotte, e risultavano insufficienti per il calcolo dell’orbita completa. Era quasi come dire che Cerere era stato trovato e subito perso. In realtà, i dati disponibili non bastavano per i vecchi metodi matematici, tanto è vero che Gauss ne inventò uno nuovo: quello dei «minimi quadrati», che gli permise di calcolare l’orbita intera con sole 3 osservazioni. Dopo i primi quattro e più grossi asteroidi di forma sferica – Cerere, 1000 km di diametro; Pallade, 545; Vesta, 525; Giunone, 230 (ma sembra si debbano annoverare fra i «grandi» anche Davida che avrebbe un diametro di 285 km ed Eunomia di 260) – ne sono state trovate alcune altre migliaia di forma irregolare. In tutto si crede siano milioni, e naturalmente quelli più piccoli sono i più numerosi. Piuttosto, si è constatato che non tutti circolano fra Marte e Giove, nella cosiddetta fascia degli asteroidi, in quanto ve ne sono molti altri che orbitano più lontano o più vicino. Fra i più interessanti, è il gruppo degli EGA (Earth-Grazing Asteroids), asteroidi che sfiorano la Terra, ma possono sfiorare e cadere anche su Marte e Venere. Uno interessantissimo è stato scoperto il 7 gennaio 1976 dall’americana Eleanor Helin col telescopio di Monte Palomar. Si tratta dell’asteroide denominato 1976 AA, e la sua particolarità consiste nel fatto che gran parte della sua orbita si trova all’interno di quella della Terra e si avvicina a quella di Venere. Esso conferma l’esistenza di un’altra fascia di asteroidi orbitanti attorno al Sole circa alla stessa distanza a cui orbita la Terra e che perciò sono stati chiamati NEO, acronimo di tre parole inglesi, Near Orbiting Objects. ••23 Ci sono gruppi di ricercatori, sia della NASA che dell’ESA, come pure di vari osservatori astronomici, che si dedicano allo studio dei NEO, sia per determinarne accuratamente le orbite, e scoprirne 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 69 02_capitolo.indd 69 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 altri, sia per valutare l’eventuale rischio che qualcuno di questi cada sulla Terra con effetti devastanti, equiparabili all’esplosione di diverse testate nucleari. Vari metodi sono stati individuati per proteggersi da tale rischio. Oltre alla possibilità di distruggere l’oggetto pericoloso lanciandovi contro una carica nucleare, si pensa di avvicinarlo con una grossa astronave che con la sua attrazione gravitazionale potrebbe trascinarlo su un’orbita meno pericolosa, oppure farci atterrare sopra un’astronave che con i suoi motori potrebbe fargli cambiare leggermente orbita, quanto basta per evitare l’impatto. Sembrano scenari da fantascienza, e in effetti negli ultimi anni il cinema ci ha ricamato sopra, basti pensare a colossal hollywoodiani come Deep Impact e Armageddon. Ma il rischio di impatto non è una fantasia. Uno di questi asteroidi in rotta di collisione, chiamato Apofis, dal nome di un dio egizio che significa «Il distruttore», senza l’intervento umano si schianterebbe quasi certamente sulla Terra nel 2036. Una terza famiglia di asteroidi è stata scoperta con sonde sensibili all’infrarosso, nelle gelide regioni oltre Plutone ed è responsabile del declassamento di Plutone da pianeta ad asteroide, capostipite della famiglia dei «plutini», come abbiamo già accennato. Uno dei principali risultati ottenuti da quando si studiano le caratteristiche fisiche oltre che orbitali degli asteroidi è la loro suddivisione in due tipi, a seconda della composizione delle loro superfici: quelli formati da ferro e silicati, e quelli composti di carbonio. Questo fatto ci dovrebbe illuminare circa le loro origini, ma le opinioni sono contrastanti. C’è chi sostiene la vecchia teoria dell’esplosione di un pianeta, o della collisione fra una decina di pianetini delle dimensioni di Cerere, e chi vede negli attuali asteroidi quanto resta di una popolazione molto più numerosa di corpi formatisi all’inizio del Sistema solare. Non riuscendo a unirsi in un solo pianeta per le forze mareali esercitate da Giove, avrebbero ripreso a frammentarsi e a costituire la più formidabile santabarbara di proiettili che bombardarono i pianeti più interni all’epoca della loro nascita. Sia che si tratti di frammenti o di resti di corpi primordiali, tranne i maggiori che sono all’incirca sferici, per lo più gli asteroidi hanno forma irregolare. Abbiamo poc’anzi affermato che Piazzi e Von Zach si accorsero che Cerere non era una cometa, perché aveva un’orbita quasi circolare e non allungata. Infatti l’ellitticità a volte pronunciatissima del loro cammino è una delle principali caratteristiche delle comete, che ne denuncia anche l’età, in quanto si considerano giovani le comete che vengono da molto lontano, al di là di Plutone, e forse vedono il Sole da vicino per la prima volta. Tuttavia questo non è sempre vero, dato che vi sono comete che hanno preso dimora stabile nelle regioni più interne del Sistema solare, hanno orbite 70 02_capitolo.indd 70 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••24 La cometa di Halley nel passaggio del 1986. poco allungate e invecchiando hanno perso tutto il materiale volatile che circondava il loro nucleo, così da diventare asteroidi, o essere in procinto di diventarlo. Scoprire comete non è difficile e non richiede sempre grossi strumenti. Non di rado basta perfino un semplice binocolo. Quel che occorre è soprattutto l’abitudine a osservare il cielo, controllare sulle carte il campo stellare, tanta pazienza e tanta fortuna. Il più grande scopritore di comete è stato Jean-Louis Pons (17611831), che era un semplice portiere all’Osservatorio di Marsiglia. Ne scoprì 37, compresa la cometa che porta il nome di Encke, perché fu questi a calcolarne l’orbita. Oggi, il record di scopritori di comete lo detengono i Giapponesi, fra i quali si può ricordare Hiroaki Mori che la notte del 5 ottobre del 1975 ha scoperto due comete nello spazio di 70 minuti. Vi sono degli anni ricchi, come il 1973, quando su 28 comete osservate, si sono trovate 9 comete nuove; e anni poveri come il 1971 con una sola cometa. Questi corpi celesti un tempo temuti, perché si credeva annunziassero sventure di ogni genere, nell’Ottocento fruttavano un premio ai loro scopritori e oggi sono diventati quasi un hobby. Il primo passo importante nello studio delle comete lo fece Tycho Brahe, il grande astronomo danese. Osservando il cammino della cometa del 1577, comprese che essa non costituiva un fenomeno sublunare, ma passava attraverso quelle sfere cristalline che a quei tempi si pensava servissero a sostenere e far muovere i pianeti. Dunque, le sfere cristalline non esistevano, e le comete viaggiavano anche fra le dimore dei beati. La cometa del 1680 diede occasione a Newton di applicare la sua legge gravitazionale per calcolarne l’orbita. Lo stesso metodo servì due anni dopo a Edmund Halley per determinare l’orbita della cometa del 1682, identificarla con quella delle comete apparse nel 1607, 1531 e 1456, e «predire con sicurezza che sarebbe ritornata nel 1758». Il che avvenne proprio il giorno di Natale di quell’anno, quando la individuò Georg Palitzch, un astronomo dilettante di Dresda. È difficile rendersi conto del clamore suscitato fra gli scienziati dalla verifica puntuale della predizione di Halley. Fu una delle cause determinanti del discredito degli astrologi e dei maghi. ••24 Le comete non si presentano sempre con lo stesso aspetto, anche se il più consueto è quello che ne ha determinato il nome derivato dal greco kométes, chiomato. Altri le chiamavano «stelle che fumano», e i Cinesi «scope del cielo». In generale, le più vistose permettono di intravedere un nucleo quasi puntiforme e brillante, circondato da una coma da cui si sviluppa, ma non sempre, una coda di gas e polveri, oppure più code. La cometa di Chéseaux del 1744, detta «il pavone delle comete», dispiegava non meno di 6 code. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 71 02_capitolo.indd 71 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le forti variazioni di luminosità in rapporto alla distanza dal Sole suggeriscono che la luce delle comete dipende da quella solare. Infatti, alla distanza di Giove e Saturno, dove la temperatura dello spazio è inferiore ai 100 K, una cometa è ridotta a un nucleo solido che riflette semplicemente la luce solare come farebbe un asteroide. Ma avvicinandosi al Sole, il calore la mette in subbuglio, e il nucleo prende lentamente a sublimare formando un inviluppo gassoso, la coma, che per eccitazione da parte dei fotoni solari emette luce fluorescente. Se potessimo vedere da vicino una cometa quando si trova all’altezza dell’orbita di Saturno, questa ci sembrerebbe una montagna di ghiaccio sporchissimo e appena rilucente, mentre ai grandi telescopi posti sulla Terra appare come una stellina di 16a magnitudine, cioè 10.000 volte più debole di una stella appena visibile a occhio nudo. Questi nuclei cometari ghiacciati, dai quali non si è ancora sviluppata una coma, possono variare da qualche centinaio di metri di diametro a qualche decina di chilometri. Si è calcolato che la cometa di Encke abbia un nucleo di 1,7 km di diametro e una massa di 3000 milioni di tonnellate. La cometa di Halley è 6 volte più grande, avendo un diametro di una decina di km e una massa di 800.000 milioni di tonnellate. La cometa record è la Humason, molto più grande di quella di Halley, misurando 41 km di diametro con una massa di 37.500 miliardi di tonnellate. Ci vorrebbero 8 miliardi di comete Halley per fare un pianeta come il nostro, oppure 160 milioni di comete Humason. Avvicinandosi al Sole, queste montagne di ghiaccio si trasformano, si complicano, si espandono enormemente nello spazio, anche se con una costante parsimonia di mezzi. Infatti, meno di un milionesimo della massa di una cometa fluisce a ogni istante nella sua coma e nella sua coda. Eppure, il 99,9% della luminosità di una cometa pienamente sviluppata proviene proprio da queste sue componenti, mentre lo 0,1% deriva dal nucleo che le ha generate. Naturalmente, questo avviene non solo perché il nucleo, essendo così minuscolo e compatto, espone soltanto una piccola area alla luce del Sole, ma anche perché si limita a riflettere la luce solare, mentre i gas che si sviluppano nella coma e nella coda possono emettere anche luce propria fluorescente. Tale trasformazione da un nucleo a una cometa con tanto di coda si verifica per un tratto breve dell’orbita cometaria e per il tempo altrettanto breve che impiega a percorrerlo, come una fuggevole estate: pochi mesi trascorsi nelle vicinanze del Sole e dei pianeti più interni, in confronto agli anni, ai secoli e spesso alle decine di migliaia d’anni che trascorrono oltre Urano e Nettuno. È il caso della cometa di Halley, avente un periodo di 77 anni, o della Kohoutek, che si spinge ai confini del Sistema solare con un periodo di ol72 02_capitolo.indd 72 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••25 La cometa Hale-Bopp. Si vedono bene le componenti che formano la spettacolare coda. Vi è una componente gassosa, strutturata in molteplici filamenti, che segue il campo magnetico interplanetario emettendo una luce azzurrognola. La coda di pulviscolo forma invece una scia leggermente arcuata lungo l’orbita cometaria e riflette la luce solare con un colore giallastro. Entrambe le code si dipartono dal nucleo, che è avvolto nell’alone della chioma. (WIKIMEDIA COMMONS) tre 70.000 anni. Per contro la Encke ha un’orbita che non arriva a quella di Giove e un periodo di tre anni e quattro mesi, il più breve tra quelli conosciuti. Non tutte le comete sviluppano una coda, ma in generale è sempre per azione del calore solare che si formano le scie di polveri e di gas. Le scie di polveri sono prodotte dalla pressione esercitata dai fotoni solari che spingono i granelli fuori dalla coma e selettivamente, a seconda delle dimensioni, e in composizione con il moto orbitale, li distribuiscono nella caratteristica forma a ventaglio in direzione opposta al Sole. Le code formate da gas hanno struttura assai più complessa. Come nella coma, i gas risplendono soprattutto per fluorescenza, ma fanno assumere alle code una forma diritta, mentre all’interno sviluppano moti rapidi e turbolenze, che la pressione di radiazione è troppo debole per giustificare; le code gassose dunque hanno forma allungata e sono costituite in massima parte di ioni, ossia di molecole che per azione della luce solare hanno perduto elettroni, trasformandosi da molecole neutre in molecole cariche positivamente. ••25 Il meccanismo che sviluppa e modifica le code di gas è stato compreso soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con la scoperta del «vento solare», a cui si è accennato più volte. Questo è costituito da un fiume di particelle cariche (protoni ed elettroni) che, insieme ai campi magnetici cui tali particelle rimangono legate, vengono espulse in continuazione dal Sole, ma con maggiore intensità durante le tempeste solari. Sono le particelle che nella nostra atmosfera producono le Aurore Boreali, e fenomeni analoghi anche nelle atmosfere cometarie. In particolare, secondo Ludwig F. B. Biermann e Fred Whipple, avviene che gli elettroni ad alta energia del vento solare, unitamente alla radiazione elettromagnetica, ionizzano le molecole della coma. Allora il turbinio dei campi magnetici funziona come un rastrello che separa gli ioni da molecole e atomi non ionizzati. Mentre questi ultimi vengono lasciati dove si trovano, gli ioni subiscono un’accelerazione di alcune 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 73 02_capitolo.indd 73 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 decine di chilometri al secondo. È per questo che nelle code gassose si osservano variazioni e spostamenti di gas che percorrono milioni di chilometri, nello spazio di mezz’ora. Ecco perché le comete sono state chiamate anche «barometri interplanetari»: perché rivelano la «febbre» del Sole e il cammino percorso dal vento solare. Ed ecco perché, riassumendo, si può affermare che se da un lato le code di polveri assomigliano al fenomeno della Luce zodiacale, la quale effettivamente non è altro che una nube di polveri cometarie e asteroidali in orbita solare, dall’altro le code sono il luogo di interazioni simili a quelle che danno origine alle aurore boreali. Avvicinandosi al Sole può darsi che alla cometa non succeda niente di straordinario, oltre una maggiore perdita di polveri e gas. Però può anche darsi che essa si spezzi, come è successo alla brillantissima cometa West, il cui nucleo, nel marzo del 1966, si è suddiviso in 4 parti: un caso piuttosto raro (il precedente avvenne alla cometa Brooks 2, nel 1889) che dimostra a un tempo sia la costituzione dei nuclei, che il destino delle comete e la durata della loro vita. Queste e altre osservazioni condussero a fine Ottocento all’ipotesi delle comete simili a un «banco di ghiaia» e di polveri come quelle delle meteore, ricoperte di gas ghiacciati. È opportuno ricordare a questo punto il contributo dato da due italiani alla comprensione della natura chimico-fisica delle comete. Fu nel 1860, quando l’astrofisica era appena nata e ancora pochi credevano nelle sue possibilità, che Giambattista Donati rilevò i primi spettri cometari e individuò alcuni degli elementi di cui erano composte le comete. A Giovanni Schiaparelli va il merito di aver dimostrato nel 1866 una stretta relazione fra meteore e comete, provando che le meteore di agosto seguivano la medesima orbita della cometa Tuttle del 1862. Perciò, le celebri «lacrime di San Lorenzo» altro non sono che le polveri perdute dalla suddetta cometa, ne percorrono la medesima orbita, e quando la Terra incrocia quest’orbita, le polveri bruciano non appena penetrano negli strati più alti della nostra atmosfera e ne eccitano le molecole dando luogo alla striscia luminosa erroneamente chiamata «stella cadente». Analogamente, le stelle cadenti che vediamo negli altri mesi dell’anno sono le polveri di altre comete. Il modello «banco di ghiaia» è stato criticato, perché se da un lato poteva spiegare l’accendersi delle comete che si avvicinano al Sole, d’altra parte non spiegava la lunga vita di alcune di esse, e in particolare la grande quantità di gas sfuggenti da certi nuclei. In altre parole, occorreva un modello che comprendesse una maggiore quantità di sostanze volatili. Per esempio, la Encke è stata osservata per oltre 50 rivoluzioni, ma dal materiale abbandonato lungo il cammino, come le stelle filanti che si vedono a giugno 74 02_capitolo.indd 74 ••26 Il nucleo della cometa Hartley 2, fotografato dalla sonda Epoxy nel 2010. (NASA/JPL) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 e a novembre, Whipple ha dimostrato che deve aver compiuto almeno 1500 rivoluzioni. Se fosse costituita da un banco di ghiaia e polveri rivestite di ghiaccio, non avrebbe potuto campare tanto a lungo. ••26 È stato da queste e da altre considerazioni che lo stesso Whipple ha proposto il modello «iceberg sporco»: una montagna di ghiacci di metano, ammoniaca e acqua, letteralmente disseminata o mescolata a minerali, come polveri di ferro, nichel, magnesio, silicio e altri elementi. La teoria spiega anche certe perturbazioni rilevate nel cammino di alcune comete; non causate dagli altri pianeti e dovute a effetti «non-gravitazionali», come una specie di «effetto-razzo». Lo sfuggire dei gas dalla parte esposta al Sole di una cometa tende ad allontanarla in direzione contraria. Supponendo che la cometa ruoti come tutti i corpi celesti, la rotazione introduce una componente nella propulsione lungo l’orbita. Quando la rotazione ha direzione opposta al moto di rivoluzione, frena la velocità orbitale e la cometa prende a scendere verso il Sole, come pare succeda alla cometa Encke. Avviene il contrario quando la cometa ruota nella stessa direzione del moto di rivoluzione. Chiarito il funzionamento e la composizione di questi corpi celesti, occorre chiedersi: qual è l’origine delle comete? Un tempo si pensava fossero fenomeni meteorologici e limitati alla Terra. Poi si passò all’opinione contraria e si disse che erano visitatrici forestiere provenienti dagli spazi interstellari dove ritornavano, tranne quelle che si avventuravano troppo vicino a Giove e agli altri grossi pianeti. Con la loro forza d’attrazione ciascuno di essi aveva aggiunto una famiglia di comete a quella dei rispettivi satelliti. Oggi, non si crede molto alla origine interstellare delle comete, perché non se ne è trovata nemmeno una che abbia un’orbita sicuramente iperbolica. I dati orbitali ci dicono invece che appartengono tutte al Sistema solare, anche se nate nella sua più lontana periferia. Così si ritiene plausibile l’ipotesi di Jan Hendrik Oort di una fascia di comete estesa fino ai confini del Sistema solare e costituita dai resti della nebulosa primitiva: blocchi di molecole ghiacciate e polveri, cioè nuclei cometari. Alle maggiori distanze si muovono a velocità dell’ordine di 100 metri al secondo, alcune addirittura come oscure lumache intorno a un Sole ridotto a un puntino luminoso che quasi non le trattiene più. In queste condizioni, basta un nulla, una perturbazione leggera di una stella vicina o l’attrazione combinata di Giove e degli altri pianeti, per alterare la loro velocità e direzione, costringendole a un lunghissimo e avventuroso pellegrinaggio verso il Sole. Se questa ipotesi è vera, lo sapremo fra qualche anno quando varie sonde spaziali potranno ripetere l’impresa della sonda Giotto – che come 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 75 02_capitolo.indd 75 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ••27 Il nucleo della cometa di Halley, fotografato dalla sonda europea Giotto nel 1986. Si vedono i getti di gas e di pulviscolo che fuoriescono da crateri o avvallamenti. (ESA) vedremo è andata a guardare da vicino la cometa di Halley durante il passaggio del 1986 – e addirittura potranno scendere su una cometa dandoci la possibilità di conoscere un pezzetto di quella nebulosa da cui è nato il Sole e tutto il suo sistema planetario. Il passaggio della cometa di Halley nel 1986 fu un’occasione unica per studiare questa famosa cometa con tutti i mezzi che la tecnologia ci mette oggi a disposizione, e in particolare la tecnologia spaziale. L’URSS mandò due sonde, Vega 1 e Vega 2 a girare attorno alla cometa affinché potessero inviarci delle immagini. Vega 1 è passata a 8890 km dal nucleo, Vega 2 è arrivata un po’ più vicina, a 8030 km dal nucleo. Anche il Giappone ha inviato due sonde, Sakigake (pioniere) e Suisei (cometa). La prima passò a quasi 7 milioni di km dal nucleo, la seconda a 151.000 km. L’Agenzia spaziale europea (ESA) registrò un grande successo con la sonda Giotto, che passò a soli 596 km dal nucleo e riuscì a riprenderne e inviare splendide immagini fino a una distanza di soli 1372 km dal nucleo prima che la camera fosse messa fuori uso dal bombardamento delle particelle. La sonda fu chiamata Giotto perché la cometa al suo passaggio del 1301 fu dipinta dal celebre pittore nella sua Annunciazione nella cappella degli Scrovegni a Padova. La Giotto ci ha mostrato un nucleo a forma di patata, lungo 15 76 02_capitolo.indd 76 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 km e largo 8, di colore molto scuro, come catrame. Nella chioma la molecola più abbondante è quella dell’acqua, ma ci sono anche molecole di anidride carbonica, metano e ammoniaca. ••27 Il prossimo passaggio avverrà nel 2061, mentre i passaggi considerati certi sono avvenuti nel 240, 164, 87 e 12 a.C, nel 66, 141, 218, 295, 374, 451, 530, 607, 684, 760, 837, 912, 989, 1066, 1145, 1222, 1301, 1378, 1456, 1531, 1607, 1682, 1759, 1835, 1910. Si può dire che la cometa di Halley ha assistito a gran parte della storia umana. I PIANETI DI GHIACCIO: I QUATTRO GRANDI Giove è un pianeta così grosso, che se per assurdo il Sole svanisse, la Terra e tutti gli altri pianeti sarebbero costretti a girargli intorno. Giove viaggia intorno al Sole a una distanza media di 778,3 milioni di chilometri e percorre la sua orbita in 11 anni, 10 mesi e 17 giorni alla velocità media di circa 13 km al secondo. In confronto, la velocità della Terra è più che doppia: 30 km al secondo. La massa di Giove è due volte e mezzo la massa degli altri pianeti messi insieme, o quasi 318 volte quella della Terra. La sua composizione chimica è molto simile alla composizione del Sole, ma non la sua struttura, che del resto non assomiglia neppure a quella dei pianeti più interni, detti anche terrestri. Infatti, Giove è quasi del tutto liquido, tranne un nucleo solido relativamente piccolo. Più in dettaglio, si deduce che al di sopra di questo nucleo di composizione terrestre e con un diametro di circa 9000 km, vi è uno strato alto 40.000 km di idrogeno metallico liquido, ricoperto da uno strato di idrogeno molecolare di 24.000 km. Il tutto ancora avvolto da un migliaio di chilometri di atmosfera altrettanto complessa, composta, dal basso verso l’alto da cristalli di ghiaccio, cristalli di idrosolfuro di ammonio e cristalli di ammoniaca, sotto un tetto di nuvole di idrogeno gassoso. A questo livello la temperatura si aggira sui -140, -150 °C, mentre a 5000 km di profondità si superano i 2000 °C e l’idrogeno diventa sempre più denso. Scendendo a 24.000 km, sotto una pressione di 3 milioni di atmosfere e a una temperatura di 11.000 °C, incomincia la regione dell’idrogeno metallico, un tipo di idrogeno che in piccole quantità si è ottenuto pure in laboratorio e che non è propriamente solido, ma si può assimilare a una sorta di melma, ottima conduttrice di energia elettrica. Nel nocciolo di Giove si stima che la pressione raggiunga 40 milioni di atmosfere, mentre la temperatura deve aggirarsi sui 30.000 °C, troppo pochi perché possano innescarsi reazioni nucleari come sul Sole. Vi è chi dice che Giove 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 77 02_capitolo.indd 77 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 è quasi una stella: in realtà per diventarlo dovrebbe essere almeno 70 volte più grosso. ••28 Fin qui non abbiamo parlato di una superficie solida come quella dei pianeti simili alla Terra; infatti Giove non ha una crosta, ma è tutto liquido fino al nucleo. Questa affermazione è suffragata dalla maggiore e migliore quantità di dati di osservazione e dal calcolo teorico. Grazie alla sua grossa massa Giove esercita una forte attrazione gravitazionale sulle comete e gli asteroidi e qualcuno ogni tanto precipita sul pianeta. Particolarmente interessante è stato l’impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9 nel 1994. Questa cometa aveva di strano di essere in orbita attorno a Giove e non direttamente intorno al Sole. L’attrazione del pianeta causò la frammentazione del nucleo, e dalle osservazioni dell’orbita si poteva prevedere che sarebbe caduta su Giove nel luglio 1994. L’impatto coi 21 frammenti del nucleo avvenne effettivamente fra il 16 e il 22 luglio di quell’anno e fu osservato dal telescopio spaziale Hubble, dal satellite Rosat e dalla sonda Galileo diretta verso Giove. Per la prima volta si è potuto osservare «in diretta» le fasi dell’evento. Quando il primo frammento A colpì l’emisfero sud di Giove fu osservata una palla di fuoco e un getto che si innalzò fino a circa 1000 km. La massima liberazione d’energia fu sprigionata dall’impatto del frammento G, ed è stata stimata pari a 6 milioni di megaton. Le cicatrici dei vari impatti erano delle macchie scure e restarono visibili per parecchi mesi. Un altro impatto notevole, rivelato dalla cicatrice, è avvenuto nel luglio 2009. Tornando alla struttura e la composizione interna di tutti i corpi celesti, dagli asteroidi alla Terra, al Sole, va detto in effetti che si ricavano dalla loro massa e forma, dai fenomeni che producono e dalla composizione della superficie visibile (solida, liquida o gassosa che sia), nonché da teorie e ipotesi, comprese quelle più generali concernenti la nascita di questi corpi dalla nebulosa primitiva di cui abbiamo parlato. Abbiamo intitolato questo paragrafo ai «pianeti ghiacciati», riferendoci ai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) che occupano le orbite più esterne del nostro Sistema solare. Abbiamo detto che su Giove alla profondità di 5000 km la temperatura oltrepassa i 2000 °C per arrivare fino a 30.000 °C man mano che si sprofonda. In effetti potevamo definirli anche gassosi o semiliquidi, ma con il termine «ghiacciati» abbiamo voluto sottolineare il fatto che alla loro distanza dal Sole la condizione principale che li ha resi quali sono, ricchi di elementi volatili come l’idrogeno e l’elio, piuttosto che di minerali, è stata proprio la temperatura. Giove è bellissimo a vedersi anche a occhio nudo. Sebbene 5,25 volte meno luminoso di Venere, perché questa al suo mas78 02_capitolo.indd 78 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••28 Il pianeta Giove con tre dei suoi satelliti. Sono visibili i satelliti Io (davanti a Giove), Europa (a destra) e Callisto (in basso), mentre sul pianeta si può notare a sinistra la grande macchia rossa. La foto è stata fatta dal Voyager 1 nel 1979. (NASA/JPL) simo raggiunge una magnitudine -4,3 e Giove -2,5, può persino proiettare un’ombra dietro gli oggetti, come si è constatato frequentemente anche con Venere. Il celebre astronomo francese di fine Ottocento Camille Flammarion, afferma di aver osservato varie volte l’ombra di Venere, e una volta anche quella di Giove, mentre camminava lungo un corridoio esterno, davanti a un muro bianco. Molto note e facili da individuare, anche con un piccolo telescopio, le fasce scure intervallate dalle zone chiare che contraddistinguono, insieme alla famosa grande macchia rossa, l’atmosfera gioviana. Che questa macchia sia un immenso uragano, che da almeno tre secoli (e cioè da quando fu visto per la prima volta da Gian Domenico Cassini nel 1665) imperversa nella regione subtropicale di Giove, ormai è ammesso quasi da tutti. Tuttavia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 79 02_capitolo.indd 79 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 esistono altre macchie rosse più piccole e meno durevoli, come quella scoperta dal Pioneer 10 e non più rilevata l’anno seguente dal Pioneer 11. ••29 Non si può non rammentare la storica esplorazione di queste due sonde americane, che, il 4 dicembre 1973 e il 3 dicembre 1974, hanno sorvolato il più grosso dei pianeti, rispettivamente da una distanza di 131.400 e di 46.400 km, con due traiettorie di lancio che hanno costituito esse stesse una delle più belle imprese della tecnica astronautica. Infatti, non si trattava di studiare soltanto Giove e il suo ambiente, ma di scoprire se le sonde si potevano avvicinare abbastanza per sfruttarne l’energia gravitazionale rimanendo «vive», e proseguire oltre i confini del Sistema solare, all’esplorazione di Saturno e degli altri pianeti. Occorre sapere che, senza l’aiuto di Giove, nemmeno i più potenti razzi vettori oggi disponibili dagli Stati Uniti o da altre potenze sarebbero capaci di scagliare una nave spaziale fuori dal Sistema solare. Perciò, si è imitata la natura, e in particolare le comete, che vengono catturate o respinte da Giove nello spazio interstellare, a seconda di come gli si avvicinano. La manovra sembrerà strana, se si pensa che una sonda diretta verso un corpo celeste, prima viene accelerata dalla sua forza gravitazionale, poi, una volta compiuto il sorpasso, subisce una decelerazione all’incirca della stessa misura. Questo sarebbe del tutto vero, se il pianeta fosse un oggetto stazionario. Invece si muove lungo la sua orbita, col risultato che quando la sonda sorpassa il pianeta, contemporaneamente il pianeta si allontana dalla sonda. Ne deriva un piccolo incremento di accelerazione, che permette alla sonda di uscire dal Sistema solare, oppure, in determinati casi, di trovarsi all’appuntamento con altri pianeti. Così, a differenza del Pioneer 10 che incontrò Giove andando in senso antiorario, passandogli da destra a sinistra e sul piano dell’equatore, prima di involarsi verso le orbite dei pianeti più esterni e oltre il Sistema solare in direzione di Aldebaran, il Pioneer 11 ha sorpassato Giove in senso orario passando prima sotto il Polo Sud e poi sopra il Polo Nord, iniziando, per la spinta di Giove, un viaggio alto sull’eclittica, che, dopo averlo ricondotto verso il Sole, lo ha portato a esplorare Saturno il 5 settembre 1979. La sonda Galileo della NASA, lanciata il 18 ottobre 1989, è stata la prima dedicata in particolare allo studio di Giove e della sua numerosa famiglia. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò in orbita attorno al pianeta. 147 giorni prima, il 13 luglio, era stato liberato il modulo di discesa nell’atmosfera di Giove. La sonda è stata distrutta nell’atmosfera di Giove il 21 settembre 2000 dopo 14 anni di attività nel corso dei quali ha studiato i frammenti della cometa Shoemaker-Levi 9, ha analizzato l’atmosfera gioviana rivelando la 80 02_capitolo.indd 80 ••29 La macchia rossa di Giove. (NASA/B.JOHNSSON) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 presenza di venti a più di 600 km/ora, ha fornito preziosi dati sulla geologia, la mineralogia, i campi magnetici dei 4 satelliti maggiori scoperti da Galileo nel 1610, Io, Europa, Ganimede e Callisto. Particolarmente importante è stata la scoperta di un grande oceano sotto la superficie ghiacciata di Europa. Il che fa supporre che lì si possa forse trovare qualche forma di vita primitiva. ••30 Prima dell’incontro con Giove dei Pioneer, Van Allen, lo scopritore delle fasce di radiazione che circondano la Terra, aveva avvertito che di Giove non si sapeva molto, ma che la radiazione che lo avvolgeva poteva essere tanto forte da mettere fuori uso tutti i circuiti e gli strumenti anche molto prima del sorvolo. Perciò i tecnici avevano dovuto risolvere tanti problemi, per proteggere non soltanto la parte elettronica, ma anche gli isolanti intorno ai fili: il vetro ordinario, infatti, esposto alla radiazione sarebbe diventato opaco, mentre i consueti isolanti dei fili si sarebbero polverizzati. Mentre il Pioneer 10 si avvicinava ci fu un momento in cui sembrò che non potesse farcela. Fortunatamente i Pioneer 10 e 11 sono sopravvissuti e seguitarono a trasmettere per molti anni. Si è così scoperto che le particelle intrappolate dal campo magnetico gioviano producono delle fasce di radiazione da 10.000 a 1 milione di volte più forti di quelle della Terra, e formano una specie di disco appiattito con un diametro di 6,4 milioni di km, inclinato di 15° rispetto all’asse di rotazione del pianeta. Ne risulta che il disco di particelle intrappolate oscilla in su e in giù di circa 30° a ogni rotazione, che dura 10 ore. Il campo magnetico di Giove è di polarità opposta a quello della Terra e 10 volte più intenso. Mediante il Pioneer 10, che nel febbraio del 1976 sorpassò l’orbita di Saturno, si è accertato che la «coda magnetica» di Giove si allunga ben oltre Saturno, e si innalza a circa 6° sopra il piano dell’orbita di Giove. Siccome il vento solare soffia radialmente dal Sole (a una velocità di circa 500 km/s) la coda dovrebbe giacere per lo più sul piano orbitale gioviano. Tuttavia, si è visto che il vento solare è molto turbolento almeno fino all’orbita di Saturno, il che spiega come la coda magnetica, o parte di essa, venga soffiata anche in alto, dove il Pioneer 10 l’ha incontrata. Cosa succede quando Saturno si imbatte nella coda magnetica di Giove? Questo fenomeno avviene una volta ogni 20 anni, quando Giove e Saturno si trovano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, come accadde nell’aprile del 1981. Riguardo alle possibilità di vita su Giove è fuor di dubbio che nella sua atmosfera esistono molecole da cui potrebbe nascere la vita: si tratta comunque di una eventualità poco probabile, specialmente se si considerano le correnti di gas che salgono e scendono producendo formidabili tempeste come la grande macchia rossa. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 81 02_capitolo.indd 81 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 È evidente che questo ambiente turbinoso è poco adatto sia allo sviluppo che al mantenimento di forme di vita, per quanto semplici e primitive. I programmi di studio per mezzo di sonde spaziali si stanno ora occupando dei maggiori tra i satelliti di Giove: è infatti probabile che essi stiano ancora orbitando vicino alle regioni in cui si formarono, e offrano la possibilità di esaminare esemplari locali della nebulosa primitiva. Al contrario le lune più piccole si ritiene siano «vagabonde interplanetarie», catturate dai pianeti cui ora appartengono, in qualche periodo più o meno lontano della loro esistenza. Si tenta inoltre di risolvere il problema del modo in cui lo, una delle quattro grosse lune di Giove, agisca quasi da interruttore nelle emissioni radio del pianeta, oltre ad accertare l’intensità alle varie lunghezze d’onda delle radioemissioni di Saturno, di Urano e di Nettuno, senza dimenticare quelle della Terra, specie in associazione con le aurore boreali. Nota a tutti è la vicenda di Galileo che il 25 luglio 1610 osservando Saturno con il suo piccolo cannocchiale a 32 ingrandimenti notò che aveva un aspetto singolare, come se avesse «gli orecchioni»; egli comunicò questo fatto insolito e misterioso ai colleghi astronomi con un messaggio cifrato, secondo l’usanza dei tempi per rivendicare la priorità delle scoperte scientifiche. Il messaggio consisteva di 37 lettere SMAISMRMILMEPOETALEVMIBUNENUGTTAVIRAS, e naturalmente nessuno lo comprese finché Galileo non ne rivelò il significato nel novembre 1610: Altissimum planetam tergeminum observavi (ho osservato che il pianeta più lontano è tricorporeo). Il mistero venne risolto nel 1655 da Christian Huygens, mediante un telescopio lungo 7 metri, con lenti lavorate secondo un metodo migliore, e i consigli e l’esperienza del grande filosofo Benedetto Spinoza, il quale, come si sa, per tirare avanti faceva anche l’ottico. Egli poté vedere che ciò che aveva dato l’impressione di un oggetto tricorporeo era l’anello che circondava Saturno. Quando esso si presentava di taglio diventava per la sua sottigliezza invisibile, e quando si inclinava dava a Saturno aspetti impossibili a determinarsi coi piccoli e imperfetti cannocchiali del tempo di Galileo. Nel 1656, Huygens scoprì anche Titano, la più grossa luna di Saturno e del Sistema solare dopo Tritone. Così, in quell’anno, si conoscevano 6 pianeti (compresa la Terra) e 6 satelliti (compresa la Luna). A Huygens questo numero e questa simmetria parvero un fatto tanto straordinario che venne preso, si direbbe, da una crisi di misticismo, tanto frequente anche fra gli scienziati più razionali, oltre che tra i filosofi alla «Hegel». Egli affermò dunque che «non ci possono essere altri pianeti né satelliti». Venne però smentito alcuni anni dopo da Giovanni Domenico 82 02_capitolo.indd 82 ••30 Il satellite Europa. (NASA/GALILEO) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••31 Gli anelli di Saturno in controluce. Il puntino fra gli anelli è la Terra, lontanissima. (NASA/JPL) Cassini, il quale dal 1671 al 1684 scoprì altri 4 satelliti di Saturno: Giapeto, Rea, Dione e Teti; e inoltre, nel 1675, si accorse che l’anello di Saturno era diviso in due, e quindi bisognava parlare di anelli e non di un anello solo. Questi anelli sono composti da miliardi di pezzi di ghiaccio grossi come un pugno o fino a qualche metro di diametro, e perciò Saturno è stato anche chiamato «il pianeta con un miliardo di lune». Certo, per accorgersi che Saturno ha più di un anello occorre un telescopio di almeno 15 cm di diametro, che permetta di distinguere anche quattro o cinque delle sue 11 lune, insieme ad alcuni particolari della superficie di Saturno, come le fasce e il colore della regione equatoriale, più biancastra delle regioni polari. A questo proposito è interessante riportare una curiosa notizia tratta dal volume Music of the Spheres, di Guy Murchie, che scrive: «Uno dei grandi misteri connessi con Saturno è il problema ancora irrisolto di come gli antichi Maori della Nuova Zelanda conoscessero gli anelli, perché in effetti, se ne parla in una loro leggenda molto più antica di Galileo». Forse che in un passato perduto, una civiltà scomparsa, quella del «continente perduto di Mu», di cui i Maori sarebbero i discendenti, conoscesse l’uso degli specchi concavi parabolici, o, in altre parole, del telescopio? Non è certo facile cercare una risposta razionale per questa domanda. Un problema complesso è quello concernente l’origine e formazione degli anelli. Vi è chi si attiene più o meno strettamente all’opinione dell’astronomo francese Édouard Albert Roche, secondo cui essi sono nati dai resti di un satellite di Saturno accostatosi troppo al pianeta e distrutto da quelle stesse forze mareali che agiscono fra la Terra e la Luna e, in misura minore, fra il Sole e la Terra. Però, non si capisce come un satellite si sia potuto formare troppo vicino a Saturno e poi venirne distrutto; oppure, come si sia potuto avvicinare tanto da oltrepassare quel limite, detto «limite di Roche» dove le forze mareali di Saturno, o di qualsiasi altro pianeta, sono tanto forti da distruggere un altro corpo di non sufficiente densità o coesione. ••31 Altri condividono invece l’opinione di Opik. Egli sostiene che gli anelli di Saturno sono il resto della nubecola che formò il pianeta, le cui forze mareali impedirono a questi residui situati all’interno del limite di Roche di riunirsi in un corpo unico formando un satellite. Ma come è possibile che quella miriade di «chicchi di grandine» che costituisce gli anelli abbia potuto mantenersi in un’orbita quasi circolare senza disperdersi per perturbazioni di vario genere che avrebbero dovuto farli cadere prima o poi su Saturno come i satelliti artificiali in orbita terrestre finiscono sempre per ricadere sulla Terra? Ciò vuol dire che gli anelli non sono un fenomeno che risale all’origine di Saturno, ma dovrebbero essere un fenomeno molto più recente e forse prodotto dall’incontro di un asteroide o 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 83 02_capitolo.indd 83 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 di un satellite con Saturno; oppure derivare dal materiale perduto da qualche satellite di Saturno eroso dai meteoriti. Recentemente si è poi scoperto che anche Giove, Urano e Nettuno hanno un sistema di anelli, sebbene molto meno cospicuo di quello di Saturno. Per finire con Saturno, sembra che sia costituito da un nucleo di materiale roccioso, come Giove. Nei calcoli dei teorici, dovrebbe avere un diametro di 20.000 km, ed essere avviluppato da uno strato di ghiaccio alto 5000 km e un altro di idrogeno metallico di 8000 km, il tutto ricoperto da 37.000 km di idrogeno molecolare, sul quale infine galleggiano nubi di idrogeno, elio, metano, ammoniaca. Sono questi gas che danno a Saturno il suo colore giallastro, anzi «giallo plombé», tanto caratteristico da essere entrato nella letteratura medica: è un’eredità astrologica di quando si credeva che esistesse un’affinità fra il piombo e il pianeta Saturno, perciò anche oggi i medici chiamano «saturnismo» le intossicazioni da piombo. In realtà, il piombo nelle nuvole di Saturno non c’è, e i suoi colori sono dovuti probabilmente a cristalli ammoniacali con tracce di metalli alcalini. ••32 Se possiamo dire che i pianeti più esterni formano la famiglia dei pianeti di ghiaccio, dobbiamo però ammettere che si tratta di una famiglia alquanto eterogenea. Già fra Giove e Saturno esistono notevoli differenze, che non riguardano soltanto gli anelli di quest’ultimo, ma anche la massa e il moto. Infatti, non soltanto Saturno è notevolmente più piccolo di Giove, equivalendo quest’ultimo a 317,9 masse terrestri contro le 95,2 del primo; ma anche il periodo di rotazione è diverso, in quanto il giorno di Saturno è di 10h 14m, in confronto alle 9h 50m 30s di Giove. Sebbene le differenze fra i due più grossi pianeti del sistema siano tante e molto significative, tuttavia ancora più straordinarie si stanno rivelando le differenze fra Giove e Saturno da una parte, e Urano e Nettuno dall’altra. Urano fu scoperto per caso il 13 marzo 1781 da William Herschel che a quell’epoca era un astrofilo, un dilettante di astronomia quasi sconosciuto. Da principio, Herschel pensò di vedere nel suo telescopio una cometa, poi altre osservazioni rivelarono che si trattava di un nuovo pianeta. La cosa strana è che, pur essendo molto debole (magnitudine 5,7), è però visibile a occhio nudo, e quindi fa meraviglia che per tanti millenni astrologi e astronomi non lo abbiano individuato, scambiandolo per una stella. L’esistenza di Nettuno, visibile soltanto al telescopio, venne invece dedotta e calcolata in base a perturbazioni nel moto di Urano, prima che il pianeta venisse osservato direttamente. Fu un’altra conferma della validità della teoria della gravitazione newtoniana. I calcoli e le previsioni sulla posizione di Nettuno furono eseguiti quasi contemporaneamente dall’astronomo inglese John Couch Adams e dal francese UrbainJean-Joseph Le Verrier, il quale nel 1846 comunicò i risultati a 84 02_capitolo.indd 84 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 ••32 Il pianeta Saturno proietta la sua ombra sugli anelli. Il globo gassoso del pianeta è avvolto da fasce nuvolose delicatamente colorate. Gli anelli, costituiti da minuscoli frammenti ghiacciati, hanno una struttura complessa con molteplici suddivisioni parzialmente trasparenti, che a loro volta proiettano un’ombra azzurrata sull’emisfero inferiore del pianeta. (NASA CASSINI) un allievo tedesco, Johann Gottfried Galle, perché cercasse nella regione di cielo indicata. Il pianeta venne scoperto quasi subito, il 23 settembre di quello stesso anno. In realtà, la storia è molto più complicata: se Adams non avesse avuto un direttore che gli tenne per mesi i risultati nel cassetto, è probabile che l’onore della scoperta di Nettuno sarebbe andata più a lui che a Le Verrier, grande astronomo e matematico, ma anche antipaticissimo. Quando Le Verrier fece questi calcoli aveva 33 o 34 anni; lo occuparono per undici mesi, nei quali riempì di numeri più di 10.000 pagine, concludendo: «Si possono giustificare tutte le perturbazioni di Urano mediante l’azione di un pianeta avente una massa molto vicina a quella di Urano e di cui la longitudine eliocentrica al 1° gennaio 1847 sarà all’incirca 325°». In seguito, in una memoria del 31 agosto 1846 precisò meglio questa longitudine: 326°32 . Galle, ricevuta a Berlino l’informazione, trovò una stella di 8a magnitudine a 327°24 , uno scarto minore di due lune piene rispetto alla posizione prevista. Era Nettuno. Il nome fu suggerito da Le Verrier forse per il suo colore verdastro che ricordava il mare e il suo antico dio. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che Urano, pur avendo la stessa massa stimata in precedenza, è risultato più grande, e perciò ha una densità di 1,3 volte quella dell’acqua, vicina alla densità di Saturno, che è l’unico pianeta con densità minore dell’ac- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 85 02_capitolo.indd 85 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 qua. Si sa, infatti, che era molto difficile misurare il diametro di Urano per i suoi contorni molto sfumati, e quindi si davano misure varianti tra i 48.000 e i 51.000 km, mentre le ultime stime danno 53.440 km. La sorpresa più grossa tuttavia ci è venuta da osservazioni eseguite da un aereo d’alta quota in occasione dell’occultazione di una stella (SAO 150 687) da parte del pianeta. Questa stella è stata brevemente occultata due volte dai corpi vicini a Urano, che hanno tutta l’apparenza di anelli come quelli di Saturno. Andando dall’interno verso l’esterno troviamo U2R, con raggio da 37.000 a 39.500 km, U6R con raggio di 41.850 km, U5R con raggio di 42.240 km, U4R con raggio di 42.580 km. Altri anelli sono stati scoperti da Voyager 2 e sono indicati dalle lettere greche a, b, h, g, d, l ed e con raggi compresi fra 44.730 e 51.160 km. Secondo James Elliot dell’Università Cornell, che ha fatto queste osservazioni, gli anelli più interni formerebbero una banda larga 7000 km. Ciascuno degli anelli più interni avrebbe un’ampiezza di una decina di km mentre quello più esterno arriverebbe a 100 km. Questo sarebbe il più spesso o più denso, dato che occultava circa il 90% della luce della stella (in confronto al 50% occultata da ciascuno degli altri anelli), e sarebbe anche asimmetrico, per ragioni che non sappiamo, ma forse dipendenti dal fatto che l’anello non giace sullo stesso piano degli altri. Un’altra caratteristica ben nota di Urano è l’inclinazione del suo equatore quasi ad angolo retto (98°) rispetto all’eclittica, tanto che sembra ruzzolare piuttosto che ruotare su se stesso. Ebbene, fino a oggi si credeva che questa rotazione avvenisse in circa 10 ore e tre quarti, cioè una rotazione veloce che doveva appiattire Urano (tenuto conto della densità) quasi alla stessa maniera di Giove e Saturno. Al contrario nuovi metodi di misura ci danno un pianeta perfettamente rotondo. Le osservazioni di Voyager 2 danno invece un periodo di 17 ore e 12 minuti. Un fatto analogo è vero anche per Nettuno. ••33-34 86 02_capitolo.indd 86 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 Come si vede, la Terra, Marte, Urano e Nettuno hanno all’incirca lo stesso periodo di rotazione, e tutti e quattro sono composti di elementi condensabili, rocce e ghiaccio, in contrasto con Giove e Saturno, fatti soprattutto di idrogeno e ruotanti con velocità doppia. Questi fatti sono forse dipesi dalla massa e dalla forza gravitazionale dei due ultimi, i quali, attraendo materiale dalla nebulosa primitiva, anche da molto lontano, hanno incrementato sia la massa che il momento angolare, acquistando l’attuale rapida rotazione. Sembrerebbe dunque di poter distinguere i pianeti del Sistema solare in due categorie: terrestri, per il loro periodo di rotazione non troppo dissimile da quello della Terra e la costituzione di elementi condensabili, e gioviani, per la loro più rapida rotazione con conseguente schiacciamento polare e costituzione di elementi volatili. Alcuni Autori preferiscono tuttavia ripartire i pianeti in: terrestri (da Mercurio a Marte), gioviani (Giove e Saturno) e uraniani (Urano e Nettuno). In realtà, la maggiorazione dei diametri di Urano e Nettuno e quindi la loro minore densità, rende difficile mantenere questa distinzione, in quanto presuppone negli uraniani proprio una densità maggiore di quelli gioviani, ma minore dei pianeti terrestri, con conseguenti differenze di composizione chimica e processi evolutivi. ••33 Urano con i suoi anelli e satelliti. In questa ripresa all’infrarosso, effettuata dal Telescopio Spaziale, si nota la presenza di anelli multipli e di numerosi satelliti. Urano è orientato verticalmente in ragione della particolare inclinazione dell’asse di rotazione, che è pari a 98 gradi. (NASA JPL STSCI) ••34 Nettuno e Tritone in controluce. Tritone si vede in basso a sinistra. (NASA VOYAGER2) PLUTONE: SI CREDEVA GRANDE E INVECE È PICCINO Con questi discorsi non si è voluto confondere il lettore più di quanto non sia confuso l’astronomo. Non si può negare che ne sappiamo molto più di prima e anche molto più di 80 anni fa, quando si era all’inizio di quella nuova branca dell’astrofisica costituita dalla radioastronomia (cioè lo studio dei corpi celesti per mezzo della misura delle loro emissioni radio, invece che della sola radiazione visibile, quella che chiamiamo luce), e poi soprattutto dalle ricerche spaziali. Ma moltissimi problemi restano da risolvere e novità da scoprire, come dimostrano le ultime notizie su Plutone, detto romanticamente per la sua collocazione ai confini del Sistema solare «la scolta delle tenebre». Al contrario di ciò che accadde per Urano e Nettuno, più misure si fanno più si è costretti a diminuire Plutone, tanto che oggi si crede sia più piccolo della nostra Luna. Dopo la scoperta di Nettuno ci si accorse che questo pianeta non bastava a spiegare le perturbazioni di Urano, che continuava a deviare dalla sua orbita in una misura che, nei calcoli di allora, richiedeva la presenza di un pianeta con una massa 6,6 volte maggiore di quella della Terra. Ora si dubita di tale valutazione, ma nei primi anni del Novecento molti astronomi, fra cui Aimable-Jean-Baptiste Gaillot, William Henry Pickering e Percival Lowell (il convinto assertore dei «canali» di Marte), calcolarono la posizione di questo pianeta, che Lowell 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 87 02_capitolo.indd 87 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 stesso si diede a cercare con passione. Pickering l’aveva designato come pianeta 0, e pensava che fosse il primo di una serie di almeno 7 nuovi pianeti oltre Nettuno. Lowell lo chiamava pianeta X, e del pianeta calcolato da Pickering pensava che fosse «assolutamente giusto averlo designato con lo 0, perché non è proprio niente». Le ricerche non diedero risultati validi che 13 anni dopo la morte di Lowell, per merito e fortuna di un giovane astronomo di 23 anni, Clyde W. Tombaugh, che scoprì il nono pianeta del Sistema solare, non lontano dalla posizione predetta da Lowell e Pickering. In realtà è stato accertato che Plutone era già stato fotografato, senza riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una nel 1929. Preciseremo che le osservazioni del 1919 vennero fatte su richiesta di Pickering, il quale per quell’anno aveva di nuovo pronosticato la posizione di un pianeta transnettuniano, questa volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano. Però non si riconobbe la debolissima immagine di Plutone sulle lastre, si pensò che fossero difetti dell’emulsione, e così Pickering perse l’occasione di diventare lo scopritore di Plutone. Come avvenne la scoperta? Tombaugh, in un articolo intitolato Reminiscenze sulla scoperta di Plutone, racconta che nell’autunno del 1929 aveva cominciato a lavorare per 6 o 7 ore al giorno per esaminare delle lastre fotografiche con uno strumento chiamato comparatore di immagini: una specie di microscopio che permette di vedere, in rapida successione, ora l’una ora l’altra di due lastre riproducenti la stessa regione stellare, ma prese in epoche diverse. L’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur di pochissimo, la sua posizione; quel punto, che è solitamente un pianeta, risalta sullo sfondo e richiama l’attenzione dell’osservatore. Le lastre con i campi stellari nei Pesci e nell’Ariete contenevano qualcosa come 50.000 stelle ciascuna, oltre a centinaia di immagini di galassie spirali; le lastre della parte occidentale dei Gemelli e orientale del Toro riproducevano circa 400.000 stelle ciascuna e occorreva molta più attenzione e più tempo per esaminarle. In febbraio, terminate le «superaffollate» fotografie del Toro, incominciò l’osservazione di quelle della regione orientale dei Gemelli, dove le stelle erano un po’ meno numerose. Queste fotografie erano state realizzate alla fine di gennaio, e Tombaugh scelse tre lastre, del 21, 23 e 29 di gennaio, centrate su e Geminorum. La prima venne scartata perché le immagini non erano buone, le altre furono esaminate iniziando dalla zona a Sud-Est. Alle 4 pomeridiane del 18 febbraio, due gradi a Est di e, «Improvvisamente colsi un oggetto di 15a magnitudine che occhieggiava sullo sfondo. A distanza di 88 02_capitolo.indd 88 ••35 Immagini di Plutone, ai limiti delle capacità strumentali del Telescopio Spaziale. Si nota il movimento dei satelliti attorno a Plutone in un intervallo di 3 giorni, tra il 15 e il 18 maggio 2005. La sonda New Horizons, partita nel 2006, raggiungerà Plutone nel luglio 2015. (NASA) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 appena 3,5 millimetri, un altro oggetto della stessa magnitudine si comportava in modo simile, ma alternativamente rispetto all’altro, via via che attraverso l’oculare del microscopio si vedeva la prima o la seconda lastra. Eccolo, dissi a me stesso». ••35 Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio, cercando di ricavarne qualcosa; e, infatti, poté individuare la medesima immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23 gennaio. Ciò significava che non si trattava di una coppia di stelle variabili, perché l’oggetto si muoveva in senso retrogrado di circa 70 secondi di arco al giorno. Tombaugh fece controllare le lastre agli altri colleghi e al direttore Vesto Melvin Slipher. C’era un’aria d’entusiasmo. «Guardammo fuori della finestra. Il cielo era nuvoloso, nessuna possibilità di prendere una lastra quella notte. Slipher ordinò di non fare alcun annuncio finché non si fosse ottenuta conferma da altre osservazioni nelle settimane successive… La notte successiva, il 19 febbraio, era bel tempo e si poté prendere un’altra lastra della regione di e Geminorum, con un’ora di esposizione. Sviluppai la lastra e la misi ad asciugare, per ricominciare la mattina dopo l’esame al comparatore d’immagini e confrontarla con una lastra precedente. Sebbene fossero trascorse tre settimane, la nuova immagine si trovò subito a circa un centimetro a Ovest della posizione del 29 gennaio…» Col passare delle settimane, il moto dell’oggetto confermò perfettamente che si trattava dell’atteso pianeta transnettuniano. Venne deciso di annunciare la scoperta il 13 marzo 1930, che era il 75° anniversario della nascita di Percival Lowell e la data della scoperta di Urano 149 anni prima. Nella tarda notte del 12, Slipher mandò un telegramma all’Osservatorio di Harvard perché ne venisse data comunicazione ufficiale. Da questo momento incominciò il problema di come chiamarlo. Fra i nomi suggeriti c’erano Lowell, Minerva, Chronos e Postumus, visto che era stato scoperto dopo la morte di Lowell. Un tale commentò che battezzare il nuovo pianeta era diventato nella regione di Boston uno dei più favoriti sport al coperto (indoor sport). Chi doveva scegliere era però Slipher, il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff, che decise con i collaboratori di nominarlo Plutone, e contrassegnarlo col simbolo «P»: un monogramma che conteneva le iniziali di Percival Lowell ¯ e riconosceva anche il contributo di William Pickering, in quanto le due iniziali potevano anche voler dire Pickering e Lowell. Ambedue avevano usato differenti metodi matematici per la ricerca di Plutone e dedotto orbite diverse. Tuttavia, la posizione di Plutone, quando venne trovato, si discostava solo di uno o due gradi dalle orbite calcolate sia da Pickering che da Lowell. Piuttosto, col passare degli anni, ci si accorse che il pianeta si rivelava all’osservazione con una massa troppo piccola per spiegare le perturbazioni di 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 89 02_capitolo.indd 89 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Urano. Fra parentesi, un problema simile riguarda anche Nettuno, in quanto oggi si riconosce che i calcoli laboriosi e le deduzioni sia di Adams che di Le Verrier hanno parecchi punti oscuri; sicché anche in quell’occasione fu più la fortuna che il calcolo a far rintracciare il pianeta. Però, il caso di Plutone è ancora più straordinario. Fu il noto astronomo e matematico Ernst W. Brown che, riesaminando i calcoli di Lowell, concluse che nonostante i metodi analitici di Lowell fossero corretti, i risultati ottenuti, rivelatisi quasi in accordo con la posizione dove venne scoperto Plutone, furono semplicemente un caso. Infatti, i valori che Lowell aveva trovato per la distanza, la massa e l’eccentricità di Plutone dipendevano sostanzialmente da tre gruppi di osservazioni fatte prima del 1783 e piene di errori. Prima di dare le più recenti misure della massa di Plutone, ricorderemo che la sua orbita è la più eccentrica (0,25) ossia quella che più si scosta dal cerchio e la più inclinata rispetto all’eclittica (17°). Plutone la percorre in 249 anni, e segna attualmente i confini del Sistema solare sebbene le orbite delle comete si estendano anche molto più lontano. A causa dell’eccentricità di questa orbita, la distanza di Plutone dal Sole varia da un massimo di 49,4 U.A., pari a 7 miliardi 400 milioni di km all’afelio, a un minimo perielico di 31,6 U.A., pari a 4 miliardi 700 milioni di km. Ricordiamo che afelio e perielio indicano rispettivamente i due punti dell’orbita in cui il pianeta si trova alla massima e alla minima distanza dal Sole. L’inclinazione dell’orbita fa sì che il perielio cada leggermente all’interno dell’orbita di Nettuno, quando viene proiettata sul piano dell’eclittica. Tuttavia, nello spazio le orbite non si incrociano. Nei periodi in cui Plutone si avvicina al Sole e raggiunge il perielio (l’ultima volta è successo nel 1989), il pianeta apparirà di mezza magnitudine più splendente che al tempo della sua scoperta, quando si trovava a una distanza media dal Sole. Cioè, avrà una magnitudine di 14,9, troppo debole per essere individuato con un piccolo telescopio, specie se non si conosce l’esatta posizione. Gerard Peter Kuiper nel 1952-53 mostrò che la luminosità di Plutone varia di circa il 10% in un periodo di 6 giorni e 9 ore, che è il suo periodo di rotazione. Il diametro trovato da Kuiper confrontando il disco apparente del pianeta con le immagini di piccoli dischi luminosi proiettati nel campo del telescopio, e tenendo conto degli effetti atmosferici e strumentali, corrispondeva a un diametro di 5760 km, o al 45% di quello terrestre. Questo diametro e la magnitudine apparente del pianeta fecero stimare una albedo pari a 0,14 (si tenga presente che l’albedo è il potere riflettente di una superficie, eguale a 1 quando tutta la luce ricevuta viene completamente riflessa, un buon esempio è uno specchio; ed è eguale a zero quando tutta la luce ricevuta viene assorbita, un esempio è una superficie coperta di carbone). Ci si accorse subito che il diametro osservato non si accordava 90 02_capitolo.indd 90 ••36 Oltre Plutone: pianetini e asteroidi nel Sistema solare. In questa tavola originale sono riportati i 5 pianetini – definiti dalle convenzioni internazionali – insieme ai maggiori asteroidi, con i loro eventuali satelliti e con i dettagli superficiali conosciuti. Se confrontati con la Terra e la Luna, tutti i pianetini e gli asteroidi sono molto piccoli, incluso Plutone. Le distanze dal Sole sono misurate in unità astronomiche (1 AU = 150 milioni di km, pari al raggio medio dell’orbita terrestre). Il pianetino più vicino è Cerere, che appartiene alla fascia asteroidale tra Marte e Giove. Gli altri pianetini sono Plutone, Haumea, Makemake ed Eris, tutti oltre Nettuno nella cosiddetta fascia di Kuiper. L’asteroide più distante è Sedna, dieci volte più lontano di Plutone. (WWW.FERLUGA.NET) CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 con la massa di Plutone dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno, anche se nel frattempo queste ultime erano state rivalutate, così da richiedere una massa dell’80 o 90% di quella della Terra, e non più quasi 7 masse terrestri come pensava Lowell. Però, anche con questa massa molto diminuita, se il diametro era quello trovato da Kuiper, la densità di Plutone doveva essere 9,3 volte maggiore di quella del nostro pianeta, per cui ci si trovava di fronte a queste 3 alternative: o era sbagliato il diametro; o era sbagliata la massa dedotta dalle perturbazioni o il pianeta aveva una densità eccezionale. Scartata la terza possibilità, che avrebbe richiesto per Plutone una densità troppo alta per un pianeta, oggi si ritiene che siano probabili le altre due. In particolare, si tende a riconoscere che la massa dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno è troppo grande, e quindi le predizioni quasi precise di Lowell e Pickering furono dovute al caso. Inoltre, ci sono novità per la prima ipotesi. In effetti, l’osservazione che Plutone è coperto di metano ghiacciato significa che esso riflette la luce solare in maniera più efficiente che se fosse 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Il villaggio planetario 91 02_capitolo.indd 91 16/04/12 08:53 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 di roccia nuda, e che la sua albedo non è 0,14 come assumeva Kuiper, ma più alta. In altri termini, questo significa che più alto è il potere riflettente della sua superficie, minore è la sua area, e quindi (assumendo che sia composto di elementi volatili come gli altri pianeti esterni) minore la sua massa. Se l’albedo di Plutone è 0,4, il diametro sarà all’incirca di 3300 km, mentre un’albedo pari a 0,6, implicherebbe un diametro di soli 2800 km. Osservazioni fatte col telescopio spaziale Hubble danno un diametro ancora più piccolo, 2390 km. Così, questo pianeta sarebbe più piccolo della Luna, e la sua densità di appena 1,75 g/ cm3, in confronto ai 5,5 della densità della Terra. Vogliamo riportare le parole di Dale P. Cruikshank, l’astronomo che, coi suoi colleghi dell’Università delle Hawaii, ha condotto le ricerche suddette: «Questa densità, insieme a un diametro quasi come quello della Luna, fa derivare una massa pari a qualche millesimo di quella della Terra: molto minore di quanto sarebbe richiesto dai moti misurabili di Urano o Nettuno. Se è così, è evidente che la scoperta di Plutone da parte di Tombaugh è stata più il risultato di un’intuizione che una previsione fondata sulla dinamica planetaria». A questo punto, veniva spontaneo chiedersi se esistono altri pianeti al di là di Plutone. Già Ian Oort aveva supposto che oltre Plutone ci fosse una regione, detta appunto la nube di Oort popolata da numerosi asteroidi che trascinati dentro il Sistema solare dalle perturbazioni dei pianeti maggiori avrebbero dato origine alle comete, e che si estenderebbe fino 100.000 Unità Astronomiche. Più interna ci sarebbe la fascia di Kuiper, fra 35 e 1000 UA. Oggi si sono scoperti all’interno di questa fascia, con le sonde per infrarosso, numerosi pianetini, che come abbiamo già accennato hanno convinto gli astronomi a ritenere Plutone il capostipite di questa famiglia di asteroidi piuttosto che un pianeta a tutti gli effetti. Già ci si era chiesti se l’eccentricità dell’orbita di Plutone, e la sua forte inclinazione sul piano dell’eclittica, oltre alle piccole dimensioni non rendevano dubbio il suo stato di pianeta. Si era notata la somiglianza di Plutone con Tritone, uno dei due satelliti di Nettuno. È stato per questo che Raymond Arthur Lyttleton ha avanzato l’ipotesi che una volta Tritone e Plutone fossero satelliti nettuniani, entrambi orbitanti nel senso di rotazione del pianeta. A un certo punto, Plutone e Tritone si avvicinarono troppo l’un l’altro, con una duplice conseguenza: Tritone invertì la sua direzione di moto, mentre Plutone venne espulso dal sistema di Nettuno. Ma, naturalmente, c’è anche chi sostiene sia avvenuto il contrario: Tritone e Plutone sarebbero stati originalmente due piccoli pianeti indipendenti, vicini a Nettuno, che finì per catturare Tritone facendolo diventare un suo satellite… ••36 92 02_capitolo.indd 92 CAPITOLO 2 16/04/12 08:53 CAPITOLO 3 LA GALASSIA E LE SUE POPOLAZIONI 03_capitolo.indd 93 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 03_capitolo.indd 94 13/04/12 17:45 bbiamo capito, spero, come è fatta la Terra, come leggere il cielo, abbiamo imparato a conoscere gli abitanti del Sistema solare, che possiamo considerare per analogia come il «quartiere» della città cosmica in cui viviamo. Adesso allarghiamo lo sguardo, abbandoniamo il Sistema solare e rivolgiamoci alla nostra Galassia. Cosa sappiamo di essa e come abbiamo scoperto la sua struttura? È chiamata anche Via Lattea ed è quella striscia biancastra che attraversa tutto il cielo e che, fin dall’antichità, ha sempre suscitato curiosità e meraviglia. Gli eschimesi pensavano che fosse una striscia di neve, gli arabi che fosse un fiume, i greci l’hanno chiamata Galassia, da Galaxíav (Galaxìas), che in greco significa «di latte». La Via Lattea ha una forma a spirale come la Nebulosa di Andromeda e molte altre, e quando la osserviamo in direzione della costellazione del Cigno, la vediamo come se si ramificasse, ma in realtà sono le polveri di un braccio spirale che, essendo situato davanti a un elevato numero di stelle, assorbe la loro luce, dando l’impressione visiva di una biforcazione. ••1 La striscia irregolare della Via Lattea attraversa il cielo press’a poco all’altezza delle seguenti costellazioni: Perseo, Cassiopea, Cefeo, Cigno, Saetta, Aquila, Scudo, Scorpione, Sagittario, Poppa, Unicorno, Gemelli, Auriga e di nuovo Perseo. Ciò è dovuto a un effetto di prospettiva e significa che, guardando verso queste costellazioni che costituiscono la Via Lattea, noi vediamo la Galassia lungo il suo piano equatoriale, dove si addensa la maggior parte delle stelle e delle polveri. Se invece si guarda in direzione perpendicolare al piano, a parte le stelle brillanti più vicine, se ne scorgono molte meno. Nel 1610 Galileo per la prima volta utilizzò il cannocchiale per lo studio del cielo, e si accorse che questa striscia lattiginosa era dovuta all’addensarsi di un grandissimo numero di stelle in quella fascia. Ora noi sappiamo cos’è: è un’enorme struttura, una specie di grande megalopoli cosmica costituita da stelle, gas e polveri. Le polveri sono minuscole particelle solide di grafite, silicati, ghiaccio A 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 95 03_capitolo.indd 95 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 con impurità di altri elementi delle dimensioni di pochi micron, addensate soprattutto sul piano galattico. Hanno masse molto maggiori dei singoli atomi e molecole e perciò tendono ad aggregare altro materiale, favorendo così la formazione di una protostella. LA MEGALOPOLI STELLARE IN CUI VIVIAMO Ricostruire la forma della Galassia è stata un’impresa abbastanza difficile. La difficoltà è dovuta al fatto che noi ci siamo immersi dentro. È semplice rendersi conto di questo se continuiamo a immaginare la Galassia come una grande città. Noi siamo i turisti: 96 03_capitolo.indd 96 ••1 Spettacolare mosaico fotografico a 360 gradi che copre l’intera sfera celeste, rivelando il panorama cosmico che circonda il nostro piccolo pianeta azzurro. Il disco della Galassia viene visto di taglio nella nostra prospettiva dalla Terra, poiché ci troviamo nell’interno; la Via Lattea ci circonda quindi sulla volta celeste come un’immensa fascia CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 luminosa, che nell’immagine è rappresentata in proiezione lungo l’asse orizzontale. Si vedono chiaramente i costituenti principali della nostra spirale galattica: il disco con le sue nebulose luminose e oscure, contenente stelle giovani e luminose, nonché il bulbo centrale e le due Nubi di Magellano (in basso a destra) che sono piccole galassie satelliti. (ESO, S.BRUNIER) supponendo di essere in un qualunque punto della città, vediamo le piazze e le vie circostanti; ma, se vogliamo avere il quadro d’insieme, dobbiamo portarci al di fuori, e il modo più semplice è di sorvolarla su un aereo. Ci si può fare un’idea di come ci apparirebbe la Galassia se potessimo osservarla da lontano solo se ne guardiamo un’altra, ad esempio la galassia d’Andromeda che è quasi una gemella della nostra. Ancora più difficile – perché in contrasto con la presuntuosa convinzione che l’umanità fosse al centro dell’Universo – è stato rendersi conto che la nostra Galassia non è l’unica, ma è solo una delle tante, e che il Sistema solare non si trova in una posizione privilegiata, ma in una zona periferica. Le tappe cruciali delle scoperte astro- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 97 03_capitolo.indd 97 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 nomiche rappresentano, infatti, anche delle tappe cruciali per la cultura in generale e per la concezione che l’uomo ha di sé e del suo ruolo nell’Universo: Copernico toglie la Terra dal centro del Sistema solare; poi si scopre che il Sole è una stella (né troppo grande né troppo piccola, né troppo calda né troppo fredda…) fra i tanti miliardi che popolano il cielo e che appartiene a un ramo periferico di quella grande città di stelle, polveri, nubi chiamata Galassia, la quale a sua volta non è affatto il centro dell’Universo. Le galassie, infatti, sono tante e l’Universo non ha un centro. Viviamo quindi in una megalopoli stellare fra le tante altre di un continente di galassie in un angolo del cosmo. La Via Lattea fa parte di un ammasso di galassie chiamato Gruppo Locale comprendente una ventina di membri distribuiti in un raggio di 1,5 milioni di anni luce. È un gruppo che qualche astronomo ritiene faccia parte a sua volta del più grande ammasso della Vergine, il quale conta migliaia di galassie. Dato che questo grosso ammasso è lontano da noi 20 milioni di parsec (oltre 65 milioni di anni luce) e sembra abbia un raggio di 20 milioni di parsec, il Gruppo Locale potrebbe effettivamente essere un sottogruppo periferico dell’ammasso della Vergine. Se noi ci immaginiamo, dice Donald Goldsmith, l’intero Universo come una pantagruelica scodella di riso in brodo, l’ammasso della Vergine sarebbe rappresentato da un chicco di riso, mentre il Gruppo Locale sarebbe una macchiolina ai bordi del chicco. Parte di questa macchiolina sarebbe la Via Lattea, e uno degli atomi (10-8 cm di raggio) rappresenterebbe il Sistema solare. Nel Gruppo Locale contiamo 21 galassie: 14 galassie ellittiche, di cui 10 nane (l’ultima è stata trovata nel 1977 nella costellazione della Carena), tutte molto più piccole della Via Lattea; 4 galassie irregolari, fra cui la Piccola e Grande Nube di Ma98 03_capitolo.indd 98 ••2 La Grande Nube di Magellano, qui fotografata, si trova vicino alla Piccola Nube di Magellano. Queste sono due galassie nane, satelliti della Via Lattea, che si possono vedere nell’emisfero australe. La Grande Nube è distante circa 120.000 anni luce della Terra ed ha un diametro di circa 30.000 anni luce. (ESO, SCHMIDT CAMERA) CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 gellano satelliti della Via Lattea; 3 spirali, la Via Lattea, M 33, la galassia del Triangolo più piccola, e M 31, la Nebulosa d’Andromeda, un po’ più grande della nostra. ••2 Le due galassie Maffei I e II, scoperte nel 1967 da Paolo Maffei non apparterrebbero al Gruppo Locale, ma a quello dell’Orsa Maggiore-Giraffa. Si troverebbero infatti a una distanza di 3 Megaparsec (pari a 9,8 miliardi di anni luce), ma vicine fra loro. Invece, secondo altri, Maffei I, che è una gigante ellittica, si trova a circa 3,2 milioni d’anni luce. Semmai, alla lista delle 21 galassie potremmo aggiungere quella individuata nel 1975 da Christian Simonson III mediante osservazioni radio: è molto piccola e più vicina alla nostra delle Nubi di Magellano. È situata quasi ai confini della costellazione di Orione e dei Gemelli e ha una massa che si aggira sui 100 milioni di volte quella del Sole. Essendo in fase di avvicinamento, è prevedibile che quando, fra 70 o 80 milioni d’anni, passerà alla distanza minima dalla Via Lattea subirà ancora di più le perturbazioni gravitazionali a cui è già soggetta, ed è probabile che se non verrà dispersa del tutto, ridurrà a un 20% le sue dimensioni e a un 50% la sua massa, trasformandosi in una galassia ultranana. Per questo il nome provvisorio dato scherzosamente a questa galassia suicida è Snickers, che è il nome di certe tavolette di cioccolata alle noccioline. Cioè, in confronto alla Via Lattea, questa microgalassia è quasi un bruscolino. GLI ABITANTI DELLA GALASSIA A un osservatore esterno che la guardasse frontalmente, la Galassia apparirebbe come un disco con un rigonfiamento centrale da cui si dipartono dei bracci che si curvano a spirale. Vista di taglio, invece, sembrerebbe quasi un disco volante. La Via Lattea si compone di un sistema sferico, o alone, che va addensandosi verso il nucleo, e di un disco appiattito intorno a 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 99 03_capitolo.indd 99 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 questo nucleo. L’alone e il nucleo si compongono di vecchie stelle povere di elementi pesanti e contengono la stragrande maggioranza di tutte le stelle della Galassia, di cui almeno il 60% si trova nelle regioni centrali. Polveri e gas nel nucleo e nell’alone sono molto scarsi. Il disco molto appiattito ha una struttura a spirale, i cui bracci sembrano uscire dal nucleo, il quale in realtà erutta gas con tanta violenza che se seguitasse a questo modo per 10 miliardi d’anni finirebbe per svuotarsi come un sacco. Oltre che di gas, i bracci sono composti di polveri, le quali oscurano il piano centrale della Galassia, e di circa 1 miliardo di stelle giovani, più o meno isolate o in ammassi aperti. Il Sole si trova vicino al bordo esterno di uno dei bracci spirali, chiamato «braccio di Orione». Vi sono diversi altri bracci più vicini al centro (ad esempio, quello del Sagittario) e almeno uno ancora più esterno del nostro, chiamato «braccio del Perseo». Riguardo alle dimensioni, la Via Lattea è una galassia piuttosto grande, ma inferiore alla Nebulosa di Andromeda nostra vicina. Il disco ha le dimensioni di circa 110.000 anni luce di diametro e nel rigonfiamento centrale lo spessore si aggira sui 10.000 anni luce mentre nei bracci a spirale raggiunge i 1000 anni luce. Il Sole e la Terra si trovano in una posizione abbastanza periferica, a circa 27.000 anni luce dal centro. ••3 Osservando più da vicino, ecco che cosa scopriamo. Le nubi di materia interstellare (chiamate anche storicamente nebulose) – ossia quell’insieme di gas e polveri rarefatti che si trovano nello spazio ancora più rarefatto tra le stelle di una galassia – hanno una grande importanza perché sono le culle in cui nascono le stelle. Sono coloratissime: la nebulosa Trifide, per esempio, è di un bel rosso porpora, dovuto al fatto che le stelle di alta temperatura immerse nella nube eccitano il gas, che è in prevalenza idrogeno ed emette essenzialmente luce rossa e luce azzurra: rosso e azzurro combinati insieme danno un colore purpureo. Un altro esempio di nebulosa, culla di nuove stelle, è la famosa nebulosa di Orione. A volte osserviamo le stelle riunite in gruppi più o meno numerosi. Le Pleiadi sono una famigliola di stelle giovani e costituiscono un bell’esempio di quello che chiamiamo ammasso aperto. Si capisce che sono giovani perché sono ancora immerse in nubi di polvere. Le velature intorno alle stelle sono quel che è rimasto della nube di gas da cui si sono condensate le stelle. La popolazione dell’alone galattico, cioè di quella specie di involucro sferico che circonda il nucleo, è invece molto diversa: vi troviamo enormi famiglie di stelle antiche chiamate ammassi globulari proprio perché le sue abitanti si addensano formando una specie di globulo. Conosceremo meglio gli ammassi aperti e globulari nel capitolo successivo, al paragrafo sulle stelle giovani e vecchie. 100 03_capitolo.indd 100 ••3 Il disegno mostra come apparirebbe la nostra Galassia se noi fossimo in grado di vederla frontalmente dall’esterno. Si possono individuare la posizione del Sole, i bracci di spirale meglio conosciuti e le caratteristiche della zona centrale. Il diametro del disco è di 110.000 anni luce e il Sole si trova a 27.000 anni luce dal centro. (ESO - S. BRUNIER) CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 Infine, come tutto nell’Universo anche la Galassia si muove. Non ruota come un tutto unico, ma a differenti velocità a seconda della distanza dal centro. Infatti, mentre il Sole e le stelle a noi vicine hanno una velocità di 220 km/s e impiegano circa 250 milioni d’anni a compiere un giro completo intorno al nucleo centrale della Via Lattea situato nella costellazione del Sagittario, le stelle più vicine al centro sono più veloci, e quelle più lontane più lente. Così il Sole e le stelle vicine viaggiano come in un grande turbine, con appena qualche differenza in direzione e veloci- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 101 03_capitolo.indd 101 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 tà; si tratta di differenze di qualche decina di chilometri al secondo, sufficienti però a produrre nel corso dei millenni un graduale cambiamento nell’aspetto delle nostre attuali costellazioni e del cielo. E mentre il Sole viaggia intorno al nucleo galattico forse si attraversano anche differenti stagioni cosmiche, come ha suggerito Harlow Shapley molti anni fa, e altri più di recente, e come indicherebbe la coincidenza fra le grandi glaciazioni ricorrenti a intervalli di circa 200 milioni di anni e il periodo della rotazione galattica. UN PO’ DI STORIA Scoprire la vera natura della Via Lattea non è stato facile. Anche se già Democrito (400 a.C.) pensava che fosse costituita da una massa di stelle indistinguibili singolarmente, bisogna aspettare Galileo (1610) per averne conferma. Il primo modello della forma della Galassia è stato proposto dal musicista astronomo William Herschel alla fine del secolo XVIII. Con un telescopio da 1,2 metri di apertura (il più grande fino ad allora costruito), Herschel studiò il cielo in modo sistematico contando le stelle in ogni direzione. Suppose che più una stella risulta debole all’osservazione, tanto maggiore deve essere la sua distanza. In base alle sue accurate osservazioni riuscì a disegnare la forma della Galassia abbastanza correttamente, ma non riuscì a misurarne le dimensioni. ••4 Il grande passo successivo fu compiuto intorno al 1920. In quel periodo non si sapeva ancora se le stelle erano distribuite in maniera uniforme in tutto l’Universo oppure se erano concentrate in qualche tipo di struttura, come appunto le galassie. Proprio questa dicotomia alimentò quello che è stato chiamato «il gran dibattito» che contrappose in quegli anni due gruppi di astronomi. Alcuni sostenevano che le stelle fossero distribuite uniformemente nell’Universo, altri invece che fossero raggruppate in specie di conglomerati stellari. Il secondo gruppo sospettava che certe strane nebulose, che avevano una forma a spirale, fossero delle galassie, ma non ne aveva alcuna prova. Fu in quegli anni che entrò in funzione il grande telescopio di due metri e mezzo di Mount Wilson negli Stati Uniti. Con questo telescopio – il primo grande strumento astronomico moderno – si vide che le nebulose a spirale contenevano sia stelle sia nubi di materia interstellare, come quelle che si osservavano nei dintorni del Sole. Questo dimostrò che esistevano effettivamente dei conglomerati stellari ben staccati dai dintorni del Sole. In queste galassie si riuscirono a identificare delle stelle che ave102 03_capitolo.indd 102 CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 ••4 Modello della Via Lattea proposto da William Herschel nel 1785. vano caratteristiche analoghe a quelle vicino al Sole. Dal loro splendore apparente, ammettendo che avessero lo stesso splendore assoluto di quelle vicino al Sole, si ricavò la loro distanza. I risultati non lasciavano dubbi: si calcolavano distanze dell’ordine del milione e più di anni luce, mentre le stelle isolate di cui si poteva stimare la distanza si trovavano a 10-20.000 anni luce al massimo. Si cominciò a capire che la Galassia era una megalopoli stellare con dimensioni finite, e che le galassie più vicine erano separate dalla nostra da milioni di anni luce. Ne risultava quindi l’immagine di un Universo fatto di tanti agglomerati, di tante città stellari nettamente separate l’una dall’altra. Non possiamo non ricordare altri protagonisti delle principali scoperte della Via Lattea, tutti concentrati nel Novecento. A Harlow Shapley, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, si deve l’aver scoperto nel 1916-19 che il Sole non si trova al centro della Galassia, come si riteneva fino allora e come aveva supposto William Herschel, bensì alla periferia. Un altro grande progresso si fece nel 1920-24, quando Edwin P. Hubble provò che alcune nebulose, macchie di luce appena discernibili fra la gran folla di stelle, erano in realtà altri «universi isole», cioè galassie situate non all’interno, ma molto al di là della Via Lattea. Hubble provò in particolare che la Nebulosa di Andromeda era un’altra galassia composta di stelle, alcune delle quali erano stelle variabili. Questo fatto permise anche di calcolarne la distanza, che risultò di 700.000 anni luce. Misure più moderne hanno portato questa distanza a 2-2,5 milioni di anni luce come per M 33 visibile nella costellazione del Triangolo. Verso la fine degli anni Venti, l’olandese Jan Hendrik Oort dallo studio dei moti propri e delle velocità radiali delle stelle aveva dedotto che la rotazione delle stelle attorno al centro galattico doveva avvenire non come quella di un corpo rigido, ma in modo simile al moto dei pianeti attorno al Sole, seguendo cioè una legge kepleriana. Il passo successivo fu la scoperta, da parte di Walter Baade, delle Popolazioni stellari nel 1942, di cui parleremo nel prossimo capitolo sulle stelle. Ulteriori progressi si ebbero infine mediante le ricerche radioastronomiche inaugurate da Karl Jansky verso 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 103 03_capitolo.indd 103 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 il 1930, ma sviluppatesi in modo straordinario dopo la scoperta della radiazione a 21 cm dell’idrogeno neutro, da parte di Harold Ewen e Edmond Purcell, già predetta da Jan Oort e dal suo allievo Hendrik C. van de Hulst fin dal 1944-45. Radiazione che, come vedremo più avanti in questo capitolo, ci ha permesso di seguire il cammino dei bracci di spirale anche al di là del centro galattico impenetrabile ai telescopi ottici per le polveri, che arrestano la luce, ma non le radioonde. In ultimo sono da citare gli studi di Bertil Lindblad degli anni Cinquanta e quelli di Chi Chiao Lin che nel 1961, e poi in collaborazione con Frank Shu, spiegarono che i bracci spirali sono temporanee concentrazioni di materia, come creste di un’onda che gira intorno alla Via Lattea, alla stessa velocità sia a 15.000 che a 30.000 anni luce dal centro, e quindi senza condividere la rotazione differenziale della Galassia. Queste creste d’onda, o bracci spirali, sono aree leggermente più dense del resto della galassia, nel senso che accumulano una maggior quantità di materia per unità di spazio. Fatto che si verifica perché stelle e gas, sospinti dai diversi valori del campo gravitazionale in orbite ellittiche, si raccolgono nelle regioni dei bracci, ma ogni stella vi rimane per un tempo relativamente breve. Sono cambiamenti che avvengono nel corso di milioni d’anni, ma se fosse possibile filmare questi moti, si vedrebbe che intorno alla galassia corre una cresta luminosa lunga migliaia di anni luce e contenente un materiale di stelle, gas e polveri sempre diverso; e siccome l’onda che produce la cresta non viene disturbata dalla rotazione differenziale, i bracci non si avvolgono mai intorno al centro, come si pensava fino a metà del Novecento. IL NOSTRO POSTO NELLA GALASSIA Stabilito tutto ciò, torniamo alla metafora iniziale dei turisti: come facciamo a sapere dove siamo in questa megalopoli stellare? Detto in termini più scientifici, come si può stabilire, essendo immersi nella Galassia, la posizione del Sole? Dalle osservazioni e dai conteggi si vide che, in qualsiasi direzione si guardasse, sul piano galattico si trovava più o meno lo stesso numero di stelle. Ci si era quindi convinti che il Sole si trovasse al centro della Galassia, in quanto la densità stellare era più o meno la stessa in tutte le direzioni. Così accade quando ci si trova in una città che non si conosce: si giudica se si va verso il centro o verso la periferia dal traffico, dai negozi, da tanti piccoli segni che ci dicono che ci avviciniamo o ci allontaniamo dalla zona centrale. Fra il 1920 e il 1930 gli astronomi, in conseguenza delle osser104 03_capitolo.indd 104 CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 ••5 Lo spettro elettromegnetico. La luce visibile è soltanto una porzione piccolissima delle radiazioni elettromagnetiche che ci giungono dall’Universo (che comprendono anche le onde radio, le microonde, i raggi infrarossi, i raggi ultravioletti, i raggi X, i raggi g. vazioni di Hershel e poi di Kapteyn erano persuasi che ci si trovasse al centro della Galassia. Fu un astronomo statunitense, Harlow Shapley, che capì l’errore e si rese conto che in realtà il Sole si trova in una posizione molto periferica. Si accorse che gli ammassi globulari erano molto più numerosi nella direzione della costellazione del Sagittario che nella direzione opposta. Gli ammassi globulari sono distribuiti uniformemente intorno alla Galassia approssimativamente con simmetria sferica. Se il Sole fosse al centro della Galassia dovremmo contare un uguale numero di ammassi globulari in tutte le direzioni; il fatto che invece fossero più numerosi in una direzione piuttosto che in un’altra fece supporre a Shapley che il centro della Galassia doveva trovarsi nella costellazione del Sagittario. Come mai ci si era sbagliati? Il piano galattico è popolato da un gran numero di stelle, ma anche da una gran quantità di materia interstellare. La materia interstellare si trova sia sotto forma di gas sia sotto forma di polveri, cioè di particelle solide microscopiche che diffondono la luce stellare, che a noi appaiono come macchie scure sul piano galattico. Questa polvere ci impedisce di vedere oltre. Nella direzione del centro galattico cresce il numero di stelle, ma cresce anche la quantità di polvere e questi due effetti si compensano. In direzione opposta invece diminuiscono le stelle, ma diminuisce anche la quantità di polvere, per cui nel complesso sembrava che sul piano galattico le stelle fossero ugualmente abbondanti in tutte le direzioni. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 105 03_capitolo.indd 105 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Noi studiamo i corpi celesti, e quindi anche le galassie, misurando le radiazioni che ci mandano e che riusciamo a rilevare con i nostri strumenti. La luce che i nostri occhi sono in grado di percepire è solo uno dei tanti «tipi di luce» possibili, che differiscono solo per la lunghezza d’onda. La natura dei diversi «tipi di luce» (o radiazione elettromagnetica) è la stessa. Cominciando dalle lunghezze d’onda minori, abbiamo i raggi g, i raggi X, poi si giunge alla banda dell’ultravioletto, poi a quella dell’ottico (luce visibile), all’infrarosso, alle microonde e infine alle onde radio. La sequenza di queste radiazioni costituisce lo spettro elettromagnetico. ••5 La nostra atmosfera lascia passare soltanto due fettine di questo spettro, una che va dal violetto al rosso (che coincide con la banda ottica a cui è sensibile il nostro occhio) e un’altra banda nel radio, da qualche centimetro a qualche decina di metri di lunghezza d’onda. Gli astronomi le chiamano «la finestra ottica» e la «finestra radio», da cui possiamo affacciarci per osservare l’Universo. Oggi la scienza spaziale ci ha spalancato tutte le finestre. Fino al 1930 gli unici recettori capaci di misurare la radiazione stellare erano l’occhio e la lastra fotografica, sensibili alla banda di radiazioni visibili. Le radiazioni visibili però sono assorbite e diffuse dalle polveri. Quando si guarda in direzione perpendicolare al piano galattico, dove le stelle sono poche e la polvere manca completamente, si vede fino a distanze enormi (anche 10-13 miliardi di anni luce). Ma sul piano galattico si può arrivare solo a circa 10.000 anni luce. Questo rendeva difficile scoprire, come abbiamo visto prima, dove si trova il centro galattico. Shapley c’era riuscito basandosi sulla distribuzione degli ammassi globulari che sono nell’alone fuori del piano galattico, dove le polveri sono scarse. Quindi le radiazioni ottiche permettevano di esplorare in pratica solo quello che potrei chiamare «il piccolo villaggio» intorno al Sole, dandoci delle informazioni abbastanza limitate, mentre le osservazioni radio ci hanno dato il quadro d’insieme della Galassia. Comunque è stato grazie alle osservazioni ottiche che si è cominciato a capire che esistevano due classi di stelle che differiscono per composizione, età e distribuzione: – le stelle sul piano galattico, immerse nelle nubi di materia interstellare, estremamente giovani, chiamate stelle di Popolazione I; – le stelle nell’alone, dove mancano le polveri e le nubi di materia interstellare; sono stelle vecchie, chiamate stelle di Popolazione II. Lo studio della distribuzione delle due diverse popolazioni di stelle ha permesso di scoprire molto sulla storia e sulla struttura della Galassia, come vedremo nelle prossime pagine. 106 03_capitolo.indd 106 CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 UNA FINESTRA SPALANCATA SULLA GALASSIA ••6 Una mappa a radioonde della Galassia. Sono riportate le emissioni provenienti dall’idrogeno e dalle nubi molecolari. Si noti l’accenno di struttura a spirale. (HOU, HAN & SHI) Le osservazioni nella banda ottica non ci permettevano dunque di scoprire nulla di quello che succedeva al centro della Via Lattea, perché in quell’intervallo dello spettro elettromagnetico la radiazione viene tutta assorbita dalle nubi di polvere. È stato grazie alla radioastronomia che si è potuto esplorare la nostra Galassia da un estremo all’altro, addirittura «vedere» in onde radio che cosa c’era dalla parte diametralmente opposta al Sole, oltre al centro galattico. La radioastronomia è nata nel 1932 a opera di Karl Jansky, un tecnico della Bell Telephone Company. Egli cercava le cause dei rumori che disturbavano le trasmissioni radio transoceaniche. Per caso s’accorse di una sorgente di rumore che sorgeva a est e tramontava a ovest e ben presto notò che tale sorgente di rumore coincideva con la direzione della costellazione del Sagittario (la costellazione in cui Harlow Shapley tre anni prima aveva scoperto che lì si trova il centro galattico), dove, come abbiamo visto, si addensa la maggior quantità di stelle e polvere interstellare. Le particelle di polvere hanno dimensioni di 1/1000 di millimetro o anche meno. La lunghezza d’onda della luce visibile è compresa tra 1/1000 e 1/10.000 di millimetro: è quindi dello stesso ordine di grandezza. Ecco perché la radiazione ottica resta intrappolata. La luce che viene da una stella e incontra una nube di polvere viene diffusa in tutte le direzioni all’interno della nube, ma solo una percentuale minima della luce continua il suo percorso in direzione dell’osservatore, al quale, dunque, le polveri appaiono scure. Viceversa, la lunghezza d’onda delle onde radio è molto più grande delle dimensioni delle particelle di polvere: è infatti compresa tra il centimetro e le decine di metri (10-50 metri); le onde radio non risentono minimamente dell’effetto dei granuli di polvere. Possiamo spiegare il fenomeno con un’analogia animale. È come se un elefante camminasse in un prato, certamente i fili d’erba non ostacolerebbero il suo cammino, mentre sarebbero seri ostacoli per una formica. Con i radiotelescopi si è riusciti a determinare la struttura della Galassia; si è infatti scoperto che vengono emesse radio onde 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 107 03_capitolo.indd 107 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 sia dal disco galattico che dal centro. Elaborando le informazioni ottenute con i radiotelescopi si è potuto ricostruire la mappa della Galassia. Si è avuta la certezza che la materia è distribuita lungo bracci a spirale simili a quelli di altre galassie e che quindi la Via Lattea è una galassia a spirale. L’affinamento delle tecniche radioastronomiche ha permesso poi di scoprire i dettagli (il numero e la posizione dei bracci, la loro distanza, la velocità di rotazione). ••6 Ma come mai la nostra Galassia emette radioonde? Le emissioni ottiche si spiegano facilmente: i corpi caldi emettono luce. Sono emissioni note, normali, tutti sappiamo che un corpo, ad esempio un pezzo di metallo, se riscaldato e portato all’incandescenza, emette luce. Ma le onde radio provenienti dalla nostra Galassia hanno un’origine diversa. Uno dei meccanismi fisici alla base dell’emissione di onde radio è analogo a quello che si osserva nei sincrotroni, quegli acceleratori circolari di particelle che ormai conosciamo tutti. La radiazione di sincrotrone è un tipo di onda emessa quando elettroni molto veloci si muovono in un campo magnetico. Se una particella carica (ad esempio un elettrone) penetra in un campo magnetico, viene decelerata. Decelerazione significa perdita di energia, energia che la particella emette sotto forma di radiazione. ••7 Questa emissione avviene a lunghezze d’onda tanto più brevi quanto maggiore è l’intensità del campo magnetico e quanto maggiore è la velocità delle particelle. Nei sincrotroni i campi magnetici sono estremamente forti, quindi si ha emissione ultravioletta, X, g (cioè radiazioni di lunghezza d’onda molto breve). Nella Galassia il campo magnetico è estremamente debole, circa un centomillesimo di gauss, e quindi le particelle cariche (per esempio nei raggi cosmici) decelerate dal campo magnetico galattico emettono radiazioni di lunghezza d’onda elevata, nel dominio delle onde radio. Oltre alla radiazione di sincrotrone, riceviamo dalla Galassia altri segnali radio: la radiazione a 21 centimetri prodotta dall’idrogeno neutro è estremamente utile. L’idrogeno è l’elemento di gran lunga più abbondante nell’Universo (in percentuale, ogni 100 atomi 90 sono di idrogeno, 9 sono di elio, 1 distribuito tra tutti gli altri elementi). L’atomo d’idrogeno funziona come una radiotrasmittente che emette a una certa frequenza definita (alla lunghezza d’onda 108 03_capitolo.indd 108 ••7 La radiazione di sincrotrone viene emessa dagli elettroni che si muovono a spirale (o per meglio dire a elica) dentro un campo magnetico. CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 ••8 La parte centrale della Galassia vista ai raggi infrarossi. Queste radiazioni attraversano le polveri interstellari e quindi consentono di intravvedere «in trasparenza» il centro galattico. (NASA, JPL, CALTECH - S.STOLOVY) di 21 centimetri). Dato che l’idrogeno neutro si dispone sui bracci a spirale, dalla sua disposizione studiata con tecniche radioastronomiche e dalla misura delle velocità grazie allo spostamento Doppler si può ricostruire la forma della Galassia e la rotazione differenziale. IL CENTRO GALATTICO Finora abbiamo esplorato la Galassia studiando le radiazioni emesse nella banda ottica e radio dello spettro elettromagnetico. Dallo spazio arrivano anche raggi infrarossi, ultravioletti, X e g. Le osservazioni radio e infrarosse hanno dimostrato che in questa banda dello spettro elettromagnetico il centro galattico è una potente sorgente di onde. Più recentemente, grazie ai satelliti, si è potuto osservare il cielo anche studiando quelle radiazioni altrimenti assorbite dall’atmosfera terrestre: raggi X, raggi g, raggi ultravioletti. I raggi g non vengono nascosti dalle nubi di polveri e hanno fornito ulteriori informazioni sulla Galassia e soprattutto sul centro galattico. ••8 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 109 03_capitolo.indd 109 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’immagine della nostra Galassia osservata da un satellite per raggi g mostra che sul piano della Via Lattea c’è una fascia luminosa. In questa fascia, distribuita approssimativamente intorno al centro galattico, il gas interstellare raggiunge delle temperature dell’ordine del milione di gradi, (temperature cinetiche, indicate dalla velocità di agitazione termica) anche se bisogna tener conto che è estremamente rarefatto e quindi un pessimo radiatore. Per quanto possa sembrare paradossale, un termometro misurerebbe una temperatura di pochi gradi assoluti. La stranezza si spiega col fatto che la temperatura va intesa in maniera diversa dal solito, ossia come temperatura cinetica. Consideriamo un metallo all’incandescenza: se lo tocco mi scotto; ma, se metto un dito nel gas interstellare a un milione di gradi, non mi scotto. Questo perché il gas è estremamente rarefatto e il termine temperatura indica semplicemente il fatto che la velocità dell’agitazione a caso delle particelle corrisponde a una temperatura di un milione di gradi. Dire che i gas interstellari hanno temperature elevate significa, quindi, che l’energia delle particelle corrisponde ad altissime temperature che danno luogo all’emissione di radiazione di lunghezze d’onda brevi. Quali sono le condizioni che nel centro galattico generano queste spaventose emissioni di energia? Nessuno conosce la risposta esatta, ma si possono formulare delle ipotesi fondate. Il fenomeno non si può spiegare semplicemente con un ammasso di stelle, malgrado le stelle vadano certamente addensandosi verso il centro della Galassia: le emissioni sono di un’energia così elevata che può essere spiegata solo immaginando che al centro della Galassia si sia formata una tale condensazione di materia da creare quello che si chiama un buco nero. Oggigiorno, più o meno tutti hanno sentito parlare dei buchi neri. Si tratta di un addensamento di materia in un volume molto piccolo, tale che la velocità di fuga da questo supererebbe quella della luce, per cui nemmeno i fotoni potrebbero uscirne. La materia spirala intorno a questo buco nero, spirala sempre più rapidamente prima di cadervi dentro e per l’attrito si riscalda tanto da emettere una gran quantità d’energia, che è quella che osserviamo. L’ipotesi di un buco nero nel centro galattico è la spiegazione più plausibile per il momento. Essa è confermata dall’osservazione che il moto delle stelle più vicine al centro galattico indica che entro un raggio di appena 15 ore luce (una distanza pari ad appena tre volte la distanza di Plutone dal 110 03_capitolo.indd 110 ••9 Centaurus A è una galassia che contiene nel suo nucleo un gigantesco buco nero rotante. La materia è risucchiata verso il buco nero ed è poi proiettata all’esterno nei due getti lungo l’asse di rotazione. Anche la Via Lattea contiene nel suo centro un buco nero, ma meno attivo. Recenti osservazioni (immagine piccola) mostrano infatti strutture analoghe a forma di «bolle» simmetriche emesse dal nucleo anche nella nostra Galassia. (ESO, NASA-CHANDRA, ESA-PLANCK) CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 Sole) è contenuta una massa pari a circa 3 milioni di volte la massa del Sole. È poco probabile che tante stelle siano racchiuse in un volume così piccolo, mentre è plausibile che al centro ci sia un grosso buco nero. ••9 D’altra parte l’ammasso caldo intorno alla parte centrale del nucleo galattico provoca anche una pressione di radiazione: la radiazione esercita una pressione che spinge della materia perpendicolarmente al piano della Galassia, per cui noi osserviamo dei getti di gas che schizzano fuori dal centro galattico. Questi fenomeni si osservano anche in galassie lontane, su scala molto maggiore. Si può pensare che questi fenomeni, caratteristici di galassie estremamente attive, si ritrovino nella nostra a un livello molto più basso, poiché la nostra è una galassia vecchia e ormai evoluta. Infatti, le galassie lontane nello spazio 10-13 miliardi di 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 111 03_capitolo.indd 111 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 anni luce sono lontane anche nel tempo: quella che noi possiamo osservare ora è la radiazione partita molto tempo fa e ci fornisce informazioni sul passato degli oggetti studiati, che nel frattempo si saranno trasformati e non possiamo sapere come. La nostra Galassia è più vicina e ci manda, quindi, informazioni più «fresche», che la descrivono in uno stadio evolutivo successivo. La vediamo così com’è oggi o, per meglio dire, com’era nel passato prossimo. Si constata inoltre che la diminuzione d’attività del nucleo centrale è un segno caratteristico delle galassie vicine, cioè delle galassie più vecchie. Le galassie lontane, che per noi sono visibili solo allo stadio del loro passato lontano, quando erano giovani, sono tutte estremamente più attive. COME NACQUE LA GALASSIA Abbiamo visto fin qui che non abitiamo al centro della Galassia. Abbiamo visto cosa succede al suo centro, e capito grazie alla radioastronomia quale forma ha la nostra megalopoli cosmica. Resta da capire come si è formata ed evoluta la nostra dimora. Per farlo dobbiamo partire dai suoi abitanti, cioè dalle stelle, dalla loro nascita e anche dalla loro morte. La vita di una stella è legata alle sue fonti d’energia. Quando una stella è giovane, ha molta energia a disposizione; ma quando ha consumato tutte le sue fonti d’energia, invecchia e si avvia verso la fine del suo processo evolutivo. Nelle ultime fasi della loro vita, le stelle rilasciano nello spazio circostante, parzialmente o completamente, in modo più o meno violento, il gas che compone gli strati più esterni. In questo modo lo spazio interstellare si arricchisce di nuovo materiale da cui si formeranno le future generazioni di stelle. Così questa immensa città di stelle, la Galassia, si rinnova perché i suoi abitanti cambiano. E il processo ricomincia, incessantemente, in tutto l’Universo. Le fonti d’energia che fanno brillare le stelle sono le reazioni termonucleari che avvengono all’interno, soprattutto la trasformazione di idrogeno in elio. Quattro nuclei di idrogeno, che danno luogo al nucleo di elio, hanno una massa di poco superiore a quella del nucleo di elio e, nel processo di fusione di idrogeno in elio, una percentuale delle masse in gioco (7/1000) si trasforma in energia, seguendo la relazione di Einstein: l’energia prodotta è uguale al prodotto della massa per la velocità della luce al quadrato (E=mc2). Siccome la velocità della luce al quadrato è un numero molto grande, basta una minima quantità di materia per dar luogo a una gran quantità di energia. Nel nostro Sole attualmente la temperatu112 03_capitolo.indd 112 CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 ••10 Le reazioni di fusione nucleare dell’idrogeno secondo il ciclo «protone-protone», che avvengono nel Sole, si svolgono in stadi successivi. Dapprima due protoni (cioè due nuclei di idrogeno) si uniscono e formano un nucleo di idrogeno pesante ²H (deuterio). Poi un nucleo di deuterio cattura un protone e forma un nucleo di ³He (elio 3). A questo punto il deuterio e l’elio 3 reagiscono come illustrato in figura, formando un normale nucleo di elio e liberando un protone, insieme a una gran quantità di energia (17,6 MeV in totale). ra del nocciolo centrale è tredici milioni di gradi e l’idrogeno si trasforma in elio; l’energia prodotta si fa strada verso la superficie e viene irradiata sotto forma di luce e calore. ••10 Le stelle molto brillanti (le osservazioni ci dicono che c’è una relazione di proporzionalità fra massa e luminosità), che hanno per esempio una massa 10 volte quella del Sole, dispongono di una quantità di combustibile nucleare circa 10 volte superiore quella della nostra stella. Essendo però molto più brillanti, consumano la loro riserva di energia con una rapidità 10.000 volte maggiore. Quindi, anche se inizialmente hanno 10 volte il combustibile del Sole, lo bruciano 10.000 volte più rapidamente, il che significa che la loro vita è mille volte più breve di quella della nostra stella. Perciò, quando vedo una stella brillante, sperperatrice d’energia, so con sicurezza che è giovane. Si constata sistematicamente che le stelle molto brillanti sono immerse in nubi di gas e spessissimo sono raggruppate in ammassi aperti. Tale correlazione tra stelle giovani e gas non può essere casuale: le nubi di gas, infatti, sono il luogo e la materia prima da cui si formano le stelle. A riprova di ciò, si osserva che dove manca completamente materia interstellare non ci sono nemmeno stelle giovani. La formazione stellare è un processo continuo nell’Universo: anche ora, in questo momento, in qualche regione più o meno remota dello spazio, stanno nascendo delle stelle la cui luce non è stata ancora rilevata dai nostri strumenti. Nell’alone galattico manca completamente la materia interstellare e troviamo stelle vecchie, cioè stelle che bruciano molto lentamente il loro idrogeno e che possono vivere anche decine di miliardi di anni. È proprio l’assenza di materia interstellare, cioè la materia prima da cui si formano le stelle, che ci dice che risalgono a molto tempo fa. Perché le stelle vecchie si trovano soprattutto nell’alone e quelle giovani sul disco? Si può dare una spiegazione pensando a come si può esser formata la nostra Galassia. La protogalassia era un’immensa nube di gas in rotazione. In questa nube si formavano casualmente, per moto turbolento, degli addensamenti che, per effetto di autogravitazione, tendevano a condensarsi e a dar luogo alle stelle. Un fluido – come un gas – in rotazione tende a schiacciarsi e ad appiattirsi in corrispondenza del piano equatoriale perpendicolare all’asse di rotazione. Il gas che nella protoga- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 113 03_capitolo.indd 113 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 lassia non si era condensato in stelle seguì questa tendenza e si distribuì lungo il piano equatoriale dando luogo al disco galattico. Invece le stelle che si erano già formate mantennero la forma sferica originale della protogalassia e restarono perciò nell’alone. Questo è avvenuto perché le stelle sono tanto separate l’una dall’altra che non si urtano; quindi non c’è attrito relativo. La distribuzione degli ammassi globulari mantiene perciò la forma originale della nube di gas da cui si sono formati. L’attrito tra le particelle del gas, al contrario, fa sì che si distribuiscano seguendo il moto di rotazione della protogalassia. Ecco quindi che si forma il disco. Le nuove stelle potranno nascere soltanto là, nel disco, dov’è rimasta la materia prima per formarle. ••11-12 UN GRANDE MISTERO: LA MATERIA OSCURA Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo. Conosciamo le dimensioni della Galassia, le sue popolazioni, sappiamo che ci sono stelle isolate, che ci sono famiglie di stelle (gli ammassi aperti e gli ammassi globulari), che c’è materia interstellare e che ci sono le polveri. Sappiamo come ruotano la Galassia e i suoi bracci a spirale. Dalla velocità di rotazione della Galassia possiamo ricavare la massa. Per capire come, consideriamo l’analogia col Sistema solare. Dal moto di rivoluzione dei pianeti possiamo, infatti, calcolare la massa del Sole. Allo stesso modo, dal moto delle stelle (in particolare del Sole) intorno al centro galattico, si stima che la massa della Galassia sia pari a circa 300 miliardi di masse solari. Ma c’è una fondamentale differenza tra la Galassia e il Sistema solare. I pianeti si muovono più lentamente man mano che ci si allontana dal Sole: il moto di Giove è più lento di quello di Marte, Plutone è ancora più lento di Giove e così via. Allo stesso modo, le misure di rotazione della Galassia si effettuano normalmente misurando la velocità delle stelle. Il problema è che le stelle si vedono solo fino a una certa distanza dal centro galattico, perché a distanze superiori ai 40.000 anni luce dal centro cominciano a diminuire. In questi ultimi anni, grazie al progresso delle osservazioni radio a microonde, si è misurata la velocità delle nubi di monossido di carbonio, molto numerose anche a distanze superiori a 40.000 anni luce, nella periferia della Galassia, e dal loro moto si è visto che la velocità, invece di decrescere con la distanza dal centro come si pensava per analogia con il Sistema solare, resta costante, anzi tende ad aumentare. Che cosa significa? Dalla meccanica si sa che questo tipo di moto indica che nella periferia della Galassia deve esistere una gran quantità di materia di cui non si sospettava l’esistenza, e dal114 03_capitolo.indd 114 CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 ••11 Schema di evoluzione galattica (in alto). A. Protogalassia; B. formazione di stelle nell’alone; C. formazione di stelle nel disco; D. la Via Lattea oggi. ••12 Le componenti risultanti della Galassia (in basso). L’alone (in rosso) costituito dalle stelle più vecchie; il disco (in azzurro) composto dalle stelle più giovani; il bulbo (in verde) comprendente stelle di età crescente verso l’interno. la rotazione della Galassia si può dedurre che la materia nella periferia è addirittura 5 volte quella contenuta dentro l’orbita del Sole intorno al centro galattico. Di questa materia si ignorava l’esistenza. Il fenomeno è comune a tutto l’Universo. Considerando cioè l’insieme delle galassie, noi vediamo solo il 5% e forse meno della materia, mentre il 95% ha una natura per ora sconosciuta, e si compone al 72% di energia oscura e per il 23% di materia oscura. ••13 Nella nostra Galassia si può pensare che una gran quantità di materia oscura sia costituita da stelle deboli, che irraggiano troppo poco per scorgerle, e che ci sia una gran quantità di pianeti come Giove, troppo piccoli per essere rilevati dagli strumenti (anche se ce ne vorrebbero troppi per spiegare tutta la massa che manca). Se poi si considera tutto l’Universo, il problema diventa ancora più serio. È difficile render conto di tutta la materia oscura ricorrendo solo a quella che si chiama materia barionica, cioè fatta di protoni ed elettroni, di atomi di idrogeno o atomi o nuclei degli elementi che conosciamo. Ci sono poi altre ragioni, di cui parleremo nel capitolo dedicato ai misteri insoluti, che indicano che la materia oscura non può essere barionica. È possibile che questa materia sia sotto forma di particelle elementari, per esempio neutrini: i neutrini sono particelle neutre la cui massa è estremamente piccola. Nella prima fase della vita dell’Universo, subito dopo quello che si chiama Big Bang, si sarebbe formata una gran quantità di queste particelle tale che potrebbe spiegare la massa mancante negli spazi intergalattici ma non nelle singole galassie, perché a causa della loro piccola massa hanno una velocità paragonabile a quella della luce e sfuggirebbero all’attrazione gravitazionale della galassia. Si ipotizza, quindi, anche l’esistenza di altre particelle che, però, non sono ancora mai state osservate. La massa mancante è il grande problema che ancora avvolge di mistero la nostra Galassia: conosciamo solo una frazione di questa massa, solo una percentuale minima degli abitanti, il resto si 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 La Galassia e le sue popolazioni 115 03_capitolo.indd 115 13/04/12 17:45 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 trova sotto forma oscura, irraggiungibile con i nostri strumenti e inspiegabile con le attuali teorie. L’altro grande enigma riguarda cosa c’è nel centro della Galassia. Misure del moto di una stella a soli 15 ore luce dal centro indicano che entro questo raggio, pari ad appena tre volte la distanza di Plutone dal Sole, c’è una massa totale pari a circa 3 milioni di masse solari, il che fa pensare che sia molto probabile la presenza di un buco nero, formatosi quando la massa della protogalassia è andata addensandosi. Resta ancora molto da capire e scoprire. Tante risposte verranno dal miglioramento degli strumenti ma anche da una migliore comprensione della vita delle stelle, a cui dedichiamo il prossimo capitolo. 116 03_capitolo.indd 116 ••13 La curva di rotazione della nostra Galassia si può spiegare soltanto con la presenza di un esteso inviluppo di materia oscura. Poiché un pianeta sta in orbita attorno al Sole e una stella o una nube di gas sta in orbita attorno al centro della Galassia (senza cadere verso il centro e senza sfuggire per la tangente all’orbita) significa che la forza di gravità (che li farebbe cadere verso il centro) e la forza centrifuga (che li farebbe sfuggire per la tangente all’orbita) sono eguali; F. gravità = F. centrifuga GMm/r2 = mv2/r dove M è la massa della Galassia, m la massa della stella, r la distanza dell’oggetto dal centro e v la velocità orbitale, G la costante di gravitazione: da cui M= v2r/G CAPITOLO 3 13/04/12 17:45 CAPITOLO 4 LE STELLE 04_capitolo.indd 117 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 04_capitolo.indd 118 13/04/12 17:47 S iamo partiti dalla nostra Terra e abbiamo esplorato il Sistema solare. Siamo passati poi alla Galassia e le sue popolazioni, per renderci conto che viviamo in un isolato di una immensa megalopoli stellare, che a sua volta fa parte di un continente di altre mega città in uno spazio sconfinato. Vediamo ora un po’ più in dettaglio le caratteristiche di quelli che sono i principali «mattoni» dell’Universo: la grande varietà di stelle, e con quali mezzi siamo riusciti a capire di cosa son fatte, come si formano, perché brillano, come evolvono e muoiono questi oggetti così lontani e intangibili. Parleremo prima delle stelle in generale e poi del Sole come stella tipica e l’unica studiata in dettaglio perché, grazie alla sua vicinanza, è osservabile come una superficie estesa e non come un punto. Grande vantaggio, se si considera che la stella più vicina si trova a poco più di 4 anni luce e il Sole a circa 8 minuti luce. Gli astronomi definiscono stella un aggregato di materia gassosa che brilla di luce propria in conseguenza delle reazioni nucleari che avvengono nel suo interno. Le condizioni fisiche (temperatura e densità) necessarie all’innesco di queste reazioni nucleari si verificano soltanto se la massa della stella è almeno fra 1000 e 10.000 volte quella della Terra. Giove, che ha una massa 318 volte maggiore del nostro globo, è ancora troppo piccolo, sebbene, come Saturno, Urano e Nettuno, irradi più calore di quanto non ne riceva dal Sole: forse un residuo del calore accumulato al tempo della sua formazione, di origine gravitazionale e non nucleare. Esiste una grandissima varietà di stelle: si va da stelle più piccole di quelle che fanno parte del sistema binario Wolf 424 situato nella Vergine e che hanno una massa di 0,07 volte quella del Sole; a stelle massicce come quella di Plaskett, un altro sistema binario composto di due stelle, ciascuna 90 volte più grossa del Sole. La coppia si scorge anche a occhio nudo nella costellazione dell’Unicorno, circa a metà strada fra Procione e Betelgeuse. Abbiamo stelle isolate e stelle a gruppi, e alcune così vicine fra loro da essere praticamente a contatto, quale, per esempio, le due componenti del sistema doppio W Ursae Maioris. Abbiamo già 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 119 04_capitolo.indd 119 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 nominato S Doradus che è la stella con la magnitudine assoluta più grande di tutte e pari a -9,5. Tuttavia, quando le stelle esplodono alla maniera delle supernovae, possono raggiungere anche una magnitudine di -19 ed eguagliare in splendore l’intera loro galassia. Se poi si considerasse il nucleo di una galassia simile alla nostra come una stella unica, si arriverebbe a una magnitudine assoluta stimabile a -22,8, che però non è ancora il massimo dei massimi, se pensiamo che la quasar 3C 279, che si crede distante circa 6 miliardi di anni luce, nel 1975 ebbe una fluttuazione luminosa che al suo culmine raggiunse la magnitudine -31, uguale a 100.000 miliardi di volte quella del Sole. Dato che fra le stelle c’è una specie di distribuzione gerarchica di luminosità, ci possiamo immaginare una scala piena di stelle gradino per gradino, in ordine di magnitudine assoluta. Noteremo che le più brillanti in cima alla scala sono pochissime, mentre i gradini inferiori sono via via sempre più popolati di stelle sempre più deboli. Non basta: le più luminose, oltre ad avere diversi colori, dal rosso al giallo al bianco-azzurro, sono anche le più voluminose, al contrario delle piccole stelle «nane» dei gradini più bassi che (salvo eccezioni quali le «nane bianche») tendono a un rosso sempre più cupo fino all’invisibilità. Come i metalli che dal rosso arrivano al «calor bianco» coll’aumentare della temperatura, così le stelle rosse hanno una temperatura superficiale più bassa delle stelle bianche, e quanto più calda è la superficie di una stella tanto maggiore è l’energia emessa per cm2. Quest’ultima varia secondo la quarta potenza della temperatura, e quindi una stella avente una temperatura 2 volte maggiore di un’altra delle stesse dimensioni, emette non il doppio, ma 24, cioè 16 volte più luce. Pertanto le stelle più deboli della scala delle luminosità sono rosse: e non soltanto sono piccole, ma anche relativamente fredde, 2000 o 3000 gradi assoluti. ••1 La grande varietà di stelle non finisce qui. Esistono stelle che ruotano tanto rapidamente da diventare oblunghe, altre che pulsano con maestosa lentezza come le Cefeidi, oppure vibrano come corde di violino. Alcune stelle hanno atmosfere estesissime e rarefatte, altre sono dense al punto che la loro superficie è solida. Si crede che in alcune nebulose come quella d’Orione delle stelle stiano nascendo, mentre altre muoiono nelle più diverse età, e altre ancora sono vecchie quanto la Galassia (circa 14 miliardi d’anni) e vivranno ancora per moltissimo tempo. Vi sono stelle che «sputano» nello spazio grandi quantità di gas, e altre che «succhiano» con la loro forza gravitazionale stelle vicine trasferendone su di sé la materia e cambiando il loro processo evolutivo. Abbiamo stelle con fortissimi campi magnetici che raggiungono al limite i 35.000 gauss, mentre in confronto il Sole ha un campo magne120 04_capitolo.indd 120 CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••1 La stella Altair osservata con l’interferometro ci mostra il suo vero aspetto. La forma ellissoidale schiacciata è dovuta alla rapida rotazione stellare (evidenziata dalla griglia sovrapposta). Questa è un’immagine straordinaria, ai limiti della moderna tecnologia osservativa, poiché le stelle sono talmente lontane che appaiono come puntini anche nei più potenti telescopi (il bordo dentellato è un effetto strumentale). La barretta rappresenta 1 millisecondo d’arco, quindi per dare l’idea di come Altair si vede nel cielo dovremmo porre questa pagina a circa 2 km di distanza! (CHARA, J.MONNIER) tico generale inferiore a 1 gauss. Ma anche quando appartengono allo stesso tipo, non c’è stella che sia davvero identica a un’altra. Tuttavia, conoscere non significa solo notare le differenze, ma anche le somiglianze. È per questo motivo che noi abbiamo immaginato di dividere le stelle in quella scala a gradini dove si distribuivano secondo la magnitudine e il colore, cui occorre però aggiungere importanti caratteristiche fisiche quali lo spettro, il diametro e la massa. DIMMI CHE SPETTRO HAI E TI DIRÒ CHI SEI Spettro è il nome che Newton diede alla banda continua di colori formata da un prisma quando viene colpito da un raggio di luce, e lo spettroscopio, costituito essenzialmente da un prisma, è lo strumento che serve ad analizzare la luce, compresa quella delle stelle. Furono proprio le stelle, che, intorno al 1863, l’astronomo e gesuita italiano Padre Angelo Secchi prese a esaminare con uno spettroscopio. Altri prima di lui avevano già tentato, ma forse egli ebbe uno scopo più preciso. Lo scrive egli stesso: «In sostanza, voglio vedere se, proprio come le stelle sono senza numero, anche la loro composizione sia proporzionalmente variata». Egli scoprì invece che, per quanto le stelle siano innumerabili, i loro spettri possono ridursi a poche forme distinte e ben definite che per brevità chiamò «tipi». Più in particolare, egli aveva esaminato 4000 stelle che risultavano divisibili in 5 tipi, con le stelle bianche ad alta temperatura da una parte della scala, e all’estremo opposto le stelle rosse a bassa temperatura. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 121 04_capitolo.indd 121 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Occorre qui precisare la differenza fra spettro continuo e spettro di righe. La luce bianca emessa da una lampadina o da un metallo incandescente ha uno spettro continuo, cioè una striscia colorata sfumata dal rosso al violetto. Un gas rarefatto portato all’incandescenza emette invece uno spettro di righe luminose caratteristiche per ciascun elemento. Ad esempio, l’idrogeno emette una riga nel rosso, una nel verde-azzurro e una nell’estremo violetto; il sodio è contraddistinto da due forti righe nel giallo; il ferro (naturalmente allo stato gassoso) da numerosissime righe lungo tutto lo spettro. Quando un gas rarefatto viene frapposto fra una sorgente più calda e l’osservatore, nello spettro continuo della sorgente si vedono apparire delle righe scure al posto di quelle luminose. Le righe brillanti si chiamano anche «righe d’emissione», quelle scure «righe d’assorbimento». ••2 Lo spettro del Sole e delle stelle è uno spettro continuo solcato da righe d’assorbimento, e qualche volta d’emissione, per mezzo delle quali è possibile identificare gli elementi chimici presenti nelle atmosfere di questi corpi, e la loro quantità in percentuale. Da tali righe è possibile dedurre anche la temperatura (e molte altre caratteristiche fisiche, quali: pressione, campi magnetici, moti turbolenti dei gas ecc.) perché più alta è la temperatura più un 122 04_capitolo.indd 122 ••2 Spettri stellari per le diverse classi spettrali. Spostandosi nella figura dall’alto verso il basso, la classe spettrale avanza da O a M (a sinistra), mentre la temperatura stellare diminuisce da 35.000 a 3.000 gradi circa. Si nota che per le prime classi spettrali, ovvero per le stelle calde, sono predominanti alcune forti righe di assorbimento: si tratta dell’idrogeno. Diversamente per le classi spettrali più avanzate, ovvero per le stelle più fredde, sono visibili numerosissime righe sottili: si tratta dei metalli. CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 CLASSE SPETTRALE TEMPERATURA SUPERFICIALE K COLORE CARATTERISTICHE SPETTRALI W sopra i 35.000 bianco-azzurro righe brillanti, domina l’elio O 35.000 - 30.000 bianco-azzurro dominano le righe dell’elio B 30.000 - 15.000 bianco-azzurro righe dell’elio e dell’idrogeno A circa 10.000 bianco dominano le righe dell’idrogeno F circa 7000 bianco-giallo righe dell’idrogeno e di metalli ionizzati G circa 6000 giallo righe dell’idrogeno e metalli neutri e ionizzati K circa 5000 arancione metalli neutri, dominano le righe del calcio neutro e ionizzato M circa 3000 rosso-arancio dominano le bande dell’ossido di titanio S 3000 - 2000 rosso dominano le bande dell’ossido di zirconio R 3000 - 1500 rosso dominano le bande dei composti del carbonio Nella scala di temperature assolute, lo zero assoluto corrisponde a -273° centigradi; che sia assoluto si spiega col fatto che la temperatura è una misura della velocità di agitazione delle particelle (la velocità d’agitazione delle particelle cresce al crescere della temperatura): lo stato di velocità minima – e quindi di energia minima – corrisponde alla temperatura minima possibile ed è chiamato zero assoluto (0 Kelvin). atomo si ionizza; perde, cioè, un numero crescente di elettroni, producendo diverse serie di righe spettrali. È quindi evidente che deve esistere una relazione anche fra colore e caratteristiche dello spettro di righe, essendo ambedue essenzialmente dipendenti dalla temperatura. Nella tabella qui sopra si riportano le principali caratteristiche degli spettri stellari divisi secondo la classificazione dell’Osservatorio di Harvard (Stati Uniti) nei tipi W, O, B, A, F, G, K, M, S, R, N. Per fare qualche esempio concreto, nella costellazione di Orione la stella Betelgeuse, di colore rossastro, ha uno spettro molto diverso dall’azzurra Rigel: la prima è di tipo M e la seconda di tipo B. Il Sole è una stella gialla di tipo G, anzi G2, dato che ogni classe (o tipo) si suddivide in sottoclassi indicate con le cifre da 0 a 9: Betelgeuse è M2 e Rigel B8, mentre Sirio è di classe A0. Alla categoria W appartengono le stelle Wolf-Rayet (dal nome dei francesi Charles-Joseph-Étienne Wolf e Georges-Antoine-Pons Rayet, che le scoprirono): sono le più calde che si conoscano e abbastanza simili alle stelle classificate con la lettera O, ma molto più ricche di righe di emissioni. Le stelle R e N, oggi più spesso indicate con la lettera C, simbolo del carbonio, e le S hanno temperature simili alla M, ma ne differiscono per la composizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 123 04_capitolo.indd 123 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 chimica. Nei confronti delle M, le C hanno maggiore il rapporto carbonio/ossigeno; le S il rapporto terre rare/titanio. La magnitudine assoluta di una stella dipende sia dalla sua temperatura che dalle sue dimensioni. Dopo aver studiato un certo numero di spettri di stelle di cui era nota la distanza e quindi la magnitudine assoluta, il danese Ejnar Hertzsprung (al quale si deve l’aver introdotto proprio la nozione di magnitudine assoluta o intrinseca) nel 1905 trovò una relazione fra temperatura superficiale e luminosità delle stelle. Indipendentemente, e senza saper nulla del lavoro di Hertzsprung, che aveva pubblicato il suo lavoro in una rivista non astronomica e in forma semipopolare tanto da passare inosservato, l’americano Henry Norris Russell arrivò nel 1913 alla stessa conclusione dell’esistenza di una relazione fra la luminosità delle stelle, il loro colore e la loro classe spettrale. ••3 Nacque in questo modo il famoso diagramma Hertzsprung-Russell o diagramma H-R, il quale evidenzia come la maggior parte delle stelle si addensi su una retta, chiamata «sequenza principale», che va dalle stelle più calde e più luminose a quelle più fredde e più deboli. Il diagramma mostra poi un’altra regione popolata di stelle ad alta luminosità e bassa temperatura come Betelgeuse e Antares. Quindi, le stelle rosse sono divise in due gruppi ben distinti: uno di alta e uno di bassa luminosità. Dato che, come sappiamo, a uguale colore corrisponde uguale temperatura, la differenza in luminosità non può dipendere che da differenza di dimensioni. Perciò i due gruppi di stelle vengono chiamati «giganti» e «nane». In seguito sono state introdotte ulteriori suddivisioni: «supergiganti», «subgiganti» e «subnane». Infine, si conosce un altro gruppetto di stelle di colore bianco o giallastro e di bassissima luminosità, dette «nane bianche»: si tratta di stelle di piccolo diametro e alta temperatura. Fuori diagramma, ossia molto più in basso e a sinistra, cadrebbero le pulsar, ancora più calde e più piccole delle nane bianche. Se una nana bianca ha un diametro di circa 10.000 km e una temperatura superficiale che oscilla intorno ai 50-100.000 °C, una pulsar, o stella a neutroni, avrebbe un diametro dell’ordine di 10 km e una temperatura che arriva al milione di gradi centigradi. ••4 Determinare il diametro delle stelle è un grosso problema perché anche i maggiori telescopi ci mostrano soltanto dei punti e non dei 124 04_capitolo.indd 124 ••3 Relazione magnitudine-colore. Nel grafico la magnitudine assoluta (M) è rapportata al colore (indice B-V) per tutte le stelle «vicine» alla Terra, cioè distanti meno di 100 parsec. È evidente che le stelle si distribuiscono in zone ben definite del diagramma, e questo fatto rivela la presenza di profonde correlazioni fisiche. CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••4 Il diagramma di Hertzsprung-Russell indica una relazione tra la temperatura delle stelle e la magnitudine assoluta. La distribuzione nel diagramma H-R consente di distribuire le stelle entro differenti classi di luminosità. Dall’alto verso il basso, con luminosità decrescente, abbiamo le Supergiganti, le Giganti, la Sequenza principale (obliqua) e le Nane bianche. (ESO) dischetti. Il fisico americano Albert Abraham Michelson, applicando nel 1930 la tecnica dell’interferometro, riuscì a misurare il diametro di alcune stelle supergiganti relativamente vicine quali Antares e Betelgeuse: la prima risultò avere un diametro circa 400 volte maggiore di quello del Sole, e la seconda 2 o 300 volte. Ci si serve anche di altri metodi, quali l’occultazione di una stella da parte della Luna, come nel caso di m Geminorum: una gigante rossa di classe spettrale M3, che giace vicino all’eclittica e perciò viene frequentemente occultata dal nostro satellite. Da queste misure eseguite nel 1974, è risultato che m Geminorum, ammesso che si trovi a una distanza di una sessantina di parsec, avrebbe un diametro 81 volte quello del Sole, e perciò abbastanza grande da contenere l’orbita di Mercurio. Tuttavia, per la maggior parte delle stelle, si usa un metodo indiretto basato sulla conoscenza della temperatura e della magnitudine assoluta. Data la temperatura, la legge di StefanBoltzmann (che dice che la radiazione emessa da un «corpo nero» a tutte le lunghezze d’onda per cm2 e per secondo è direttamente proporzionale alla quarta potenza della temperatura) ci dà l’energia irradiata dalla stella per cm2 e per secondo. Dalla magnitudine assoluta si ricava il rapporto fra l’energia irradiata dalla stella e quella irradiata dal Sole; e quindi è possibile calcolare il diametro della stella prendendo come unità di misura quello solare. Si trova che esistono stelle con diametri centinaia di volte più grandi di quello del Sole, e altre con diametri pari a pochi millesimi del diametro solare. Così i diametri stellari variano da 10.000 km (o ancora meno per le stelle a neutroni) a un miliardo e più di chilometri, sebbene la stragrande maggioranza delle stelle della sequenza principale del diagramma di Russell abbia diametri compresi fra 0,5 (nane rosse) e 10 diametri solari. ••5 Le masse si possono misurare direttamente soltanto in pochissimi casi, come le stelle doppie di cui si conoscano le orbite e la distanza. Però, nel 1924 Arthur Stanley Eddington trovò per via teorica l’esistenza di una relazione fra massa e luminosità: le stelle di massa maggiore sono anche le più luminose. Si trattava di una relazione già conosciuta empiricamente sulla base di poche stelle di cui erano note la massa e la luminosità. Le masse variano entro limiti assai più ristretti dei volumi, passando da circa 0,2 a 50 (e forse 100) volte la massa solare. Di conseguenza, la densità media delle 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 125 04_capitolo.indd 125 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 giganti rosse risulta dell’ordine di 0,0001 g/cm3, mentre quella delle nane bianche è di 105 g/cm3. Consideriamo alcuni casi: il Sole, una stella media, ha una densità poco maggiore di quella dell’acqua, ovvero 1,41 g/cm3; Antares, una supergigante rossa, ha una densità pari a un milionesimo di quella dell’acqua; una nana bianca come la compagna di Sirio, Sirio B, avente la stessa massa del Sole ma un diametro appena 4 volte quello della Terra, raggiunge una densità 60.000 volte quella dell’acqua. A queste enormi densità (del resto ampiamente superate dalle pulsar per non parlare di alcune specie di «buchi neri») il gas che costituisce la nana bianca non è più un gas perfetto, eccetto che in una sottile atmosfera che avvolge la stella, ma si trova in uno stato che il fisico italiano Enrico Fermi chiamò «degenerato». Il gas in queste condizioni si comporta più come un metallo solido che come un gas: a differenza dei gas è altamente conduttivo, e inoltre la pressione è proporzionale a una potenza della densità, mentre nei gas è proporzionale al prodotto della temperatura per la densità. Tale proprietà del gas degenerato ha grande importanza per la comprensione delle ultime fasi dell’evoluzione delle stelle, come vedremo più avanti. ALCUNI TIPI DI STELLE Si potrebbe pensare che a determinare la varietà delle stelle sia la loro composizione chimica, e, infatti, così si credeva alla fine dell’Ottocento. Vedendo che gli spettri di certe stelle non avevano le righe dell’elio e quelle dell’idrogeno erano spesso molto deboli, si pensava che esse non contenessero elio, che l’idrogeno fosse molto scarso e che invece fossero composte quasi esclusivamente di metalli, perché 126 04_capitolo.indd 126 ••5 Confronto fra le dimensioni della Terra e dei pianeti, rispetto a quelle del Sole e delle stelle. In alto sono mostrati la Terra (1) e i grandi pianeti (2) del Sistema Solare; al centro ci sono le normali stelle nane come il Sole (3) e le stelle giganti (4); in basso le supergiganti (5) e (6). L’oggetto più grande di ciascuna figura compare come il più piccolo nella figura successiva. Alcune stelle riportate sono tra le più luminose del cielo notturno e tutte sono visibili a occhio nudo, tranne la più piccola (Wolf 359) e la più grande (VY Canis Majoris) che è molto lontana dalla Terra. (ADATTATO DA WIKIMEDIA COMMONS) CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 le righe dei metalli erano le più numerose. La scienza dell’astrofisica era nella sua infanzia, molte leggi non erano state ancora elaborate e di conseguenza quei primi astrofisici non sospettavano nemmeno di sbagliarsi in pieno. Infatti, dovevano imparare che lo spettro di un gas non dipende soltanto dalla sua composizione, ma anche dalla temperatura. Quando nello spettro di una stella mancano le righe spettrali di un qualche elemento, ciò non vuol dire necessariamente che quel tale elemento non sia presente, ma potrebbe significare che la temperatura della stella è inadeguata a produrre le righe dell’elemento in questione. La verità, dunque, è precisamente il contrario di come pensavano quegli astrofisici, perché sappiamo che l’idrogeno è l’elemento di gran lunga più abbondante dell’Universo: 90% in numero di atomi; l’elio assomma al 9%, e il restante 1% si suddivide fra tutti gli altri con il predominio in ordine d’abbondanza di ossigeno, carbonio, azoto, silicio, ferro e magnesio. Come si vede, non si può giudicare dalla composizione attuale della Terra o degli altri pianeti terrestri, i quali hanno perso gran parte dei gas leggeri che in origine li costituivano per motivi a cui abbiamo già accennato nel capitolo sul Sistema solare. E allora da cosa dipende la grande varietà delle stelle? Dipende quasi esclusivamente dalla massa, la quale condiziona l’esistenza di ogni stella, come abbiamo visto parlando dell’evoluzione stellare. Qui ci soffermeremo su alcuni tipi di stelle, incominciando da quelle chiamate «binarie» e «multiple». Infatti, si direbbe che le stelle amino la compagnia più che restare isolate, dal momento che almeno i due terzi delle stelle della nostra Galassia sono binarie o multiple, e inoltre si trovano raggruppate in associazioni, in ammassi chiusi o aperti, in galassie. Ciò non toglie che, fra stella e stella e fatte alcune eccezioni quali le «binarie a contatto», si spalanchino di solito immensi spazi, come fra noi e a Centauri, la stella più vicina al Sole, ma nondimeno distante circa 4 anni luce. La vicinanza fra le stelle va dunque intesa in senso astronomico. È come se delle capocchie di spillo (rappresentanti una stella sin- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 127 04_capitolo.indd 127 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 gola o multipla) fossero separate in media da una trentina di chilometri. Distanza che tuttavia si riduce a un decimo nel centro della Galassia o degli ammassi globulari. In confronto, le distanze fra i pianeti del Sistema solare sono quasi trascurabili; Per sottolineare quanto relativa sia la vicinanza delle stelle, diremo che due galassie potrebbero passare l’una attraverso all’altra come un fantasma attraverso un muro, cioè senza che le stelle dell’una corrano il pericolo d’incappare in una stella dell’altra, ma a scontrarsi saranno soltanto i gas e le polveri interstellari presenti nelle due galassie. È facile capire la ragione del raggrupparsi delle stelle se pensiamo che la gravitazione è la legge dominante dell’Universo. Il più semplice esempio di raggruppamento è dato dalle stelle doppie (o binarie), le quali si distinguono in doppie visuali, doppie spettroscopiche e doppie a eclisse. Le prime sono quelle i cui componenti sono visibili separatamente con i telescopi. Se ne elencano oltre 64.000 e un esempio è offerto dalla binaria Krueger 60: le due stelle girano l’una intorno all’altra in un periodo di 44,6 anni. Ma l’esempio, per così dire, più a portata di mano è a Centauri, la più vicina che si conosca al Sole (4,3 anni luce) e la terza per luminosità apparen128 04_capitolo.indd 128 ••6 Il sistema di Alfa Centauri. La stella più vicina alla Terra è in realtà un sistema triplo. Le due componenti principali A e B sono troppo ravvicinate per essere distinguibili in queste immagini, che invece evidenziano la componente C, ovvero la minuscola Proxima. (ESO) CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 te. Noi dell’emisfero settentrionale ne parliamo poco perché è ben visibile soltanto nel cielo dell’emisfero australe, vicina a b Centauri, che è una stella di magnitudine 0,9, e il loro allineamento serve a indicare la stella più settentrionale della Croce del Sud. Studiata per la prima volta da Nicolas-Louis de La Caille nel 1752, al telescopio si rivela composta di due stelle che orbitano l’una intorno all’altra in un periodo poco superiore a 80 anni. L’orbita è così eccentrica, che la distanza apparente fra le due stelle varia da 2” a 22” d’arco, corrispondenti a una distanza reale da 11 a 35 U.A. In altri termini, al periastro la loro distanza è paragonabile a quella di Saturno dal Sole, mentre all’apoastro sono separate da una distanza simile a quella intermedia fra Nettuno e Plutone dal Sole. ••6 La magnitudine apparente delle due stelle combinate insieme è 0,1; separate è 0,3 e 1,7. Tenuto conto della distanza, si trova che la più luminosa ha quasi lo stesso splendore e colore del Sole. Infatti, è di tipo spettrale G0, mentre il Sole è di tipo spettrale G2. L’altra è di colore arancione e di tipo spettrale K5. Inoltre, la massa della prima è uguale a 1,07 masse solari, e quella della seconda a 0,92. Ma l’interesse per questa coppia è fortemente aumentato da quando l’astronomo inglese Robert Innes, studiando nel 1915 la regione di a Centauri, scoprì che la coppia era accompagnata da una terza componente di 11a magnitudine, situata a 2°13’. Gli venne assegnato il nome di Proxima Centauri, allorché si credeva che fosse la più vicina a noi, ma ormai sappiamo che la sua distanza è pressappoco uguale a quella di a Centauri. Proxima si muove in orbita intorno al sistema principale in un periodo che certuni stimano intorno ai 367.000 anni, altri fino a 800.000. Comunque, la sua distanza dalla coppia non dovrebbe essere inferiore alle 6700 U.A. Di classe spettrale M e magnitudine assoluta 15,4, Proxima è una nana rossa che va soggetta a improvvise fluttuazioni di luce: qualcosa come 52 esplosioni sono state registrate in un periodo di 25 anni. Sarebbe, quindi, una di quelle stelle variabili che in inglese si chiamano flare (brillamento), e in italiano stelle a lampo eruttive. Proxima potrebbe essere anche una radiostella: cioè, in queste occasioni, potrebbe emettere, come spesso succede al Sole nei suoi periodi di attività, non soltanto onde luminose e ultraviolette, ma anche onde radio. Un’altra interessante notizia è la ricerca eseguita dall’americano di origine cinese Su-shu Huang sulla possibile esistenza di pianeti in un sistema binario come a Centauri. In generale le stelle binarie o multiple non sono adatte per i pianeti perché, anche se ne possiedono, c’è il pericolo che le perturbazioni gravitazionali esercitate dall’una o dall’altra stella facciano uscire i pianeti dalle regioni favorevoli alla vita, in cui la temperatura non è troppo alta né troppo bassa, come nel Sistema solare dove si trovano la Terra e Marte. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 129 04_capitolo.indd 129 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Però Huang sostiene che, in un sistema abbastanza separato, ogni componente potrebbe avere dei pianeti abitabili. Siccome in a Centauri non si sono riscontrate perturbazioni apprezzabili è esclusa la presenza di grossi pianeti, ma non è impossibile che dei pianeti piccoli esistano intorno a una e forse anche all’altra stella. Due binarie famose sono Sirio e Procione, perché la scoperta delle loro compagne inaugurò quella che una volta si usava chiamare «l’astronomia dell’invisibile». Poi questo termine è passato di moda perché oggi, nell’era spaziale, gran parte della ricerca astronomica si svolge in domini spettrali al di là e al di qua di quelli ottici. Con quell’espressione ci si riferiva alla possibilità di scoprire stelle troppo piccole per essere viste, mediante le perturbazioni che producevano nel moto della compagna visibile. Nel 1844, infatti, Bessel annunciò che Sirio non aveva il moto proprio uniforme che caratterizza le stelle singole (per moto proprio si intende lo spostamento angolare sulla volta celeste dovuto al movimento della stella nello spazio), ma mostrava delle deviazioni; e così anche Procione. Bessel concluse che dovevano avere delle compagne invisibili, che in realtà vennero scoperte rispettivamente nel 1862 e 1896. Furono le prime nane bianche osservate. Oggi il metodo è largamente applicato per scoprire pianeti extrasolari, in orbita cioè attorno a stelle diverse dal Sole, oltre ad altri metodi di cui parleremo nel capitolo a essi dedicato. Le binarie spettroscopiche sono stelle con membri tanto vicini da apparire singole anche al telescopio, ma non all’analisi spettrografica. In questo caso, a meno che il piano delle orbite non sia ad angolo retto con la nostra visuale, le stelle orbitanti si avvicinano e si allontanano dalla Terra, come ci rivelano gli spostamenti delle righe spettrali dovute all’effetto Doppler. Diciamo in breve di cosa si tratta. Quando una sorgente acustica o luminosa si allontana e si avvicina all’osservatore, questi riceve onde di lunghezza d’onda maggiore o minore di quelle emesse all’origine. Ne consegue che le righe spettrali di una stella in moto rispetto all’osservatore verranno spostate verso il rosso o verso il violetto a seconda che la stella si allontani o si avvicini. A differenza delle galassie, per le stelle si tratta di regola di spostamenti minimi. Una stella che si allontana da noi a 100 km/s avrà le sue righe spostate verso il rosso di circa 1 Angstrom (unità di misura della lunghezza pari a 1/10.000.000.000 di metro). Un grosso pianeta, come vedremo alla fine di questo capitolo, provoca spostamenti ancora minori, ed è pertanto grazie alle moderne tecniche che si è cominciato a scoprirli solo a partire dal 1995. La prima binaria spettroscopica venne scoperta da Edward Charles Pickering nel 1889. Si trattava di Mizar nell’Orsa Maggiore, che già era conosciuta come una doppia fin dal 1650, quando 130 04_capitolo.indd 130 CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••7 SS Leporis è una stella di «tipo Algol», che è stata osservata direttamente con l’interferometro dell’ESO. Gli interferometri impiegano un insieme di telescopi multipli o mobili, su distanze di decine o centinaia di metri, riuscendo così a superare il limite storico dei telescopi singoli per i quali le stelle, a causa dell’enorme distanza, appaiono sempre puntiformi. A sinistra: si vedono le due componenti separate e anche il flusso di gas che le collega (i colori sono aggiunti artificialmente). Questa straordinaria immagine conferma un secolo di studi teorici. A destra: ricostruzione di come dovrebbe apparire la stella binaria SS Leporis osservandola da vicino. (ESO) Giovan Battista Riccioli l’osservò col suo cannocchiale. Ora Pickering trovava mediante lo spettroscopio applicato a un telescopio che la stella più brillante della coppia era una coppia a sua volta. Diciannove anni dopo, nel 1908, Edwin Brand Frost scopriva che anche la stella più debole di Mizar era una binaria, e così pure Alcor. Sicché, quando si guarda verso l’Orsa Maggiore, si deve ricordare che in mezzo alla coda dell’Orsa Maggiore ci sono 6 stelle: le 4 che formano il sistema di Mizar, e le due di Alcor. Binarie spettroscopiche sono le famose Algol, Capella, Castore e Spica. La prima di queste è anche una binaria a eclisse. Cioè, la sua orbita, rispetto alla nostra visuale, è orientata in modo tale che le stelle componenti si eclissano a vicenda, e perciò noi osserviamo una periodica e regolare variazione di luce. Algol, che si trova in Perseo, era chiamata dagli Arabi la Stella Demone, e dagli Ebrei Testa di Satana, oppure Lilith: il nome della leggendaria moglie di Adamo, prima della creazione di Eva. Il fenomeno della sua variabilità venne notato per la prima volta scientificamente da Geminiano Montanari (professore di astronomia e matematica nelle Università di Bologna e Padova) che in un suo libro accenna ad Algol, la cui variabilità aveva incominciato a osservare a partire dal 1668. Fu uno studio che lo interessò moltissimo in quanto contribuiva a dare un colpo mortale all’antica credenza dell’incorruttibilità dei cieli. Le osservazioni di Montanari vennero confermate da Giacomo Filippo Maraldi nel 1694 e poi da Palitzch, lo scopritore della cometa di Halley, ma John Goodricke fu quello che per primo annunciò una stima abbastanza precisa del suo periodo, e avanzò anche l’ipotesi che un compagno «oscuro», orbitante ad altissima velocità intorno alla stella primaria, producesse l’eclisse. ••7 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 131 04_capitolo.indd 131 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Nato in Olanda, a Groninga nel 1764, venne educato in Inghilterra dove morì a soli 22 anni, il 20 aprile 1786. Goodricke era sordomuto, ma riuscì a essere una specie di astronomo prodigio e, con Montanari, il capostipite di quella legione di astronomi dilettanti e professionisti che sono i «variabilisti». La curiosità di scoprire la variabilità delle stelle, nei primi tempi doveva sembrare particolarmente peccaminosa. Il 12 novembre del 1782, Goodricke scriveva: «Stanotte ho osservato b Persei, e sono rimasto assai sorpreso di trovarla di splendore diverso – circa di 4a magnitudine e non di 2a –. L’ho seguita attentamente per quasi un’ora e non credevo a me stesso che variasse di luminosità, perché non ho mai udito di alcuna stella che cambiasse così rapidamente di splendore. Ho pensato che forse dipendesse da un’illusione ottica, un difetto dei miei occhi, o dalla turbolenza atmosferica: ma la sequenza mostra che cambia davvero e io non mi sbagliavo…» Egli continuò a studiarla finché fu visibile, e comunicò il risultato delle osservazioni alla Royal Society in data 15 Maggio 1783, con una lettera che gli valse una medaglia da parte della Società medesima. Il periodo trovato inizialmente da Goodricke: 2 giorni, 20 ore, 45 minuti, venne poi corretto da lui stesso in 2 giorni, 20 ore, 49 minuti e 9 secondi, molto vicino a quello vero. Alla fine di questo periodo, la luminosità di Algol scende dalla magnitudine 2,20 alla magnitudine 3,47 (un indebolimento di circa 3 volte). È 132 04_capitolo.indd 132 CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••8 Epsilon Aurigae viene parzialmente occultata ogni 27 anni da una compagna oscura, con un’eclisse che dura ben 2 anni. A sinistra: In base all’eclisse del 1982-84, il fenomeno è stato riprodotto al computer ipotizzando un disco ad anelli, visto obliquamente. (S. FERLUGA) A destra: durante l’ultima eclisse del 2009-2011, il disco oscuro che avanza obliquamente davanti alla stella è stato osservato dal vero, utilizzando un interferometro. (CHARA, J.MONNIER) un’eclisse che dura per quasi due ore. Si è dimostrato che il sistema è costituito da una primaria di tipo spettrale B8, avente un diametro 3 volte quello del Sole e una temperatura superficiale di 15.000 K, e una compagna molto meno luminosa di tipo spettrale K0, una temperatura di 5800 K e un diametro del 20% più grande della primaria. I centri delle due stelle sono separati da 21 milioni di km, pari a poco più di un terzo della distanza media fra il Sole e Mercurio. Una terza stella di tipo F2 orbita intorno alla coppia in un periodo di 1,87 anni. Si chiama Algol C e si deduce da un certo numero di sottili righe visibili nello spettro del sistema; ma ci sarebbe anche una quarta componente, Algol D, che secondo l’astrofisico americano Olin Jenck Eggen sarebbe un corpo con una massa 3,8 volte quella del Sole, e orbiterebbe intorno al sistema in 188,4 anni. Goodricke, che sembra sia morto per una malattia contratta in conseguenza del freddo e dell’umidità a cui si era esposto durante le sue osservazioni notturne, aveva suggerito che, oltre ad Algol, anche b Lyrae e d Cephei fossero variabili spiegabili allo stesso modo, cioè con dei compagni orbitanti intorno alla loro primaria, secondo quelle leggi gravitazionali scoperte da Newton più di un secolo prima, e che ancora non si sapeva se fossero da ritenersi valide anche al di fuori del Sistema solare. Goodricke aveva ragione, ma non poteva certo immaginarsi la complessità del sistema di b Lyrae che presenta un periodo di 12 giorni, 22 ore e 22 minuti, che aumenta di 10 secondi all’anno. È composta da una B8 e da una secondaria di massa maggiore ma invisibile, o per essere completamente nascosta da un anello di gas che fuoriesce dalla primaria oppure perché all’interno di questo anello di gas esiste una di quelle stelle di massa superiore ad almeno 5 volte la massa del Sole, che collassando diventano «buchi neri». Come Algol, anche b Lyrae è visibile a occhio nudo, con una magnitudine apparente che oscilla fra 3,4 e 4,3. Quasi come e Aurigae, un caso eccezionalmente interessante sia perché fra le variabili a eclisse è quella che ha il periodo più lungo: 27,1 anni, con un’eclisse che dura circa 2 anni; sia perché mentre alcuni pensavano che la compagna fosse un’enorme gigante rossa e l’eclisse causata dalla sua estesa atmosfera, altri cercavano di spiegare certe caratteristiche dello spettro che apparivano durante l’eclisse con la presenza di una stella molto più calda ma molto piccola da non essere visibile. Insomma, era uno dei tanti problemi che gli astronomi speravano di risolvere quando sarebbero stati disponibili telescopi spaziali. ••8 E così è stato. Le osservazioni fatte col satellite per l’osservazione dell’ultravioletto IUE (International Ultraviolet Explorer), non osservabili da Terra perché assorbite dall’atmosfera, hanno mostrato la 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 133 04_capitolo.indd 133 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 presenza di una compagna molto calda, la cui luce diventa predominante nell’ultravioletto, o forse di una coppia di stelle calde e molto vicine fra loro, responsabile delle caratteristiche spettrali che appaiono durante l’eclisse, mentre osservazioni nell’infrarosso indicano la presenza di un esteso disco di polveri che sarebbe responsabile dell’eclisse, forse una nebulosa proto planetaria attorno alla compagna (o alla binaria) calda. I periodi delle binarie a eclisse vanno da un minimo di 80 minuti come nel caso di WZ Sagittae, ai 27 anni di e Aurigae, ma più di frequente sono di due o tre giorni. Si capisce intuitivamente che quando il periodo è di 80 minuti, le stelle sono a contatto e sono piccole. Ma un sistema a contatto è anche b Lyrae che ha un periodo di 13 giorni, ed è costituita da due componenti molto massicce. Se il nostro Sole fosse a contatto con una di queste stelle, viaggerebbe intorno alla compagna in un periodo di circa 6 ore, e sia il Sole che la compagna sarebbero stelle molto deformate dalle reciproche forze mareali. Si «mangerebbero» l’una con l’altra finché fra le due non venisse ristabilito un certo equilibrio gravitazionale, ma alla fine di questo processo, entrambe sarebbero diventate del tutto diverse. È un destino non troppo raro. Si calcola che una su mille sia una stella binaria di questa specie. ••9 POPOLAZIONI STELLARI E STELLE GIOVANI E VECCHIE Al principio del 1900, la maggioranza degli astronomi riteneva che le stelle doppie, quasi come le cellule biologiche che si suddividono per cariocinesi, nascessero dal suddividersi di una singola stella in rapidissima rotazione. Del resto Sir George Howard Darwin, secondo figlio del celebre Charles Darwin, pensava che anche la Luna si fosse separata dagli strati più superficiali della Terra in modo simile. Dopo Darwin, a estendere queste idee alle stelle fu il non meno famoso astronomo inglese James Jeans, autore anche di popolarissimi libri. Però, se l’ipotesi di Jeans spiegava il 134 04_capitolo.indd 134 ••9 Beta Lyrae è stata osservata nel 2007 con l’interferometro del CHARA (un allineamento di 6 telescopi distanti fino a 350 metri sul sito astronomico del M. Wilson), riuscendo a distinguere per la prima volta le due componenti a contatto, che nei normali telescopi apparivano confuse in un puntino. A sinistra: immagini interferometriche di Beta Lyrae in movimento. A destra: il modello geometrico che meglio riproduce le osservazioni. (CHARA) CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 caso delle binarie spettroscopiche, non spiegava le binarie visuali che hanno le componenti molto separate fra loro. In seguito, si levarono critiche anche per l’origine singola delle binarie spettroscopiche, col risultato che ora si tende a pensare che le binarie di tutti i tipi nascono come nascono le stelle singole e gli ammassi stellari dalla condensazione gravitazionale di grandi nubi di gas e polveri interstellari. Arthur Stanley Eddington mostrava che a causa della pressione di radiazione (la stessa che contribuisce a piegare la coda delle comete, ma che all’interno delle stelle, dove la temperatura è di milioni di gradi, raggiunge decine di milioni di atmosfere) la massa delle stelle non può superare certi limiti pari a 50 o 100 masse solari. Quindi, una nube interstellare che ha una massa di migliaia o centinaia di migliaia di masse solari si deve necessariamente condensare in un gran numero di stelle separate. Eddington, scrive: «La forza di gravitazione raccoglie insieme la materia nebulare e caotica; la forza della pressione di radiazione la spezzetta in blocchi di più convenienti dimensioni». Come abbiamo già visto, nella nostra Via Lattea, gli astronomi individuano, in ordine di densità di stelle, gli ammassi globulari, gli ammassi aperti e le associazioni. Gli ammassi globulari sono, come dice il nome, gruppi di stelle compatti e di forma approssimativamente sferica, situati nell’alone galattico, avente un raggio di circa 50.000 anni luce. Essi differiscono dagli ammassi aperti per l’età molto maggiore delle stelle che li compongono (superiore ai 10 miliardi d’anni) e per la scarsa quantità se non la mancanza assoluta di polveri e gas. Un ammasso globulare può contenere decine o centinaia di migliaia e anche qualche milione di stelle, tanto che nelle fotografie si vede che la regione centrale dell’ammasso, avente un diametro di pochi anni luce, è così densa da sembrare una «marmellata» di stelle. Ma è soltanto un’impressione dovuta alla scintillazione perché le stelle sono molto più definite e isolate dell’immagine che producono sulla lastra fotografia o sul rivelatore elettronico. Ammettendo che al centro di un ammasso globulare la densità delle stelle sia 1500 volte più grande che nelle vicinanze del Sole, dove la distanza media fra le stelle si calcola sia di circa 7 anni luce, al centro dell’ammasso la distanza media sarà allora di 0,6 anni luce (40.000 U.A.). Qui a un ipotetico abitante di un pianeta situato nel cuore dell’ammasso, anche una stella supergigante con un diametro 1000 volte quello del Sole e distante 0,6 anni luce, apparirebbe con un diametro angolare di 50”, un valore al di sotto del potere risolutivo dell’occhio nudo che è di circa 1’ e perciò come un punto e non una superficie estesa. Si consideri che il diametro angolare è l’angolo sotto cui dalla Terra si vede un corpo celeste, è dato dal suo diametro lineare diviso per la distanza, ed è espresso in radianti. Per passare da radianti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 135 04_capitolo.indd 135 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 a secondi d’arco occorre moltiplicare per il numero di secondi contenuti in un radiante, che è 206266. Ben Bova, Anatole Boiko, Arthur Clarke, Patrick Moore, James Stokley, scrittori di fantascienza, divulgatori scientifici, astrofili e naturalmente anche astronomi si sono divertiti a immaginare che aspetto avrebbe il cielo visto da un ipotetico pianeta al centro di un ammasso globulare. Non tutti hanno dimostrato d’avere idee precise e nemmeno verosimili, fantasticando di un cielo letteralmente tappezzato di stelle senza nemmeno un briciolo di spazio nero fra loro, e quindi peggio di quello ipotizzato da Olbers quando si chiese perché di notte fa buio. Oppure con stelle così vicine come i pianeti del nostro Sistema solare; ovvero separate soltanto da ore luce invece che anni luce. Nel primo caso, il pianeta vaporizzerebbe in un fiat trovandosi come al centro di un’immensa fornace di energia radiante; nell’ultimo, supponendo che la distanza media delle stelle fosse di 7 ore luce, si avrebbero circa 2 miliardi di stelle per anno luce cubico, invece che una stella per ogni 30 anni luce cubici come nelle vicinanze del Sole. La realtà, al centro di un ammasso globulare anche dei più densi, si arguisce che deve essere – come dire? – un po’ più fresca, e come accennato sopra, alquanto meno affollata. Però è vero che gli abitanti di quell’ipotetico pianeta non conoscerebbero la notte, ma al suo posto ci sarebbe una luce crepuscolare, e stelle come Sirio, che è la più luminosa del nostro cielo e ha una magnitudine apparente di -1,6, sarebbero a malapena visibili affogate nello sfondo del cielo. Dunque, non la notte ma il crepuscolo si alternerebbe a un giorno 1000 volte più luminoso, supposto che a produrre quest’ultimo fosse una stella uguale al Sole. Arriverà mai un tempo in cui delle sonde terrestri toccheranno qualcuno dei circa 200 ammassi globulari che orbitano intorno al centro galattico? Per esempio, M3 nella costellazione dei Cani da caccia che raggruppa 500.000 stelle, oppure 47 Tucanae, o w Centauri: quest’ultimo, riconosciuto per primo da Edmund Halley nel 1667 durante un viaggio all’isola di Sant’Elena, è distante dalla Terra 15.000 anni luce. Per dare un’idea di queste distanze e delle difficoltà di una simile avventura, riporteremo un bell’esempio di Boiko. Immaginiamo un popolo di microbi di dimensioni molecolari, abitanti un seme di papavero che essi chiamano Terra, che siano riusciti a invadere un seme di tabacco, la «Luna», distante poco meno di 4 cm. Dopo la Luna, e lanciando delle particelle submicroscopiche dette «navi spaziali», supponiamo che riescano a superare distanze di decine di metri e visitare altri semi battezzati come Venere, Marte, ecc. Immaginiamo infine che gli abitanti del seme di papavero coi loro potenti telescopi, osservino oggetti che essi chiamano stelle, nessuno dei quali è più vicino di 6,5 km, 136 04_capitolo.indd 136 CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••10 L’ammasso globulare Omega Centauri contiene diversi milioni di stelle ed è uno dei maggiori nel suo genere. (ESO, INAF, A.GRADO) mentre il meno lontano degli ammassi globulari si troverebbe a 15,6 milioni di km. Poiché quest’ultima distanza equivale a un quarto della distanza che ci separa dal vero pianeta Venere, si dovrà ammettere l’insufficienza del nostro esempio, e concludere che nessun modello rapportato a una singola scala ci può fare intuire la distanza che passa fra noi e un ammasso globulare. ••10 Perché gli ammassi globulari sono «lassù», e circondano come una nube sferica di moscerini quella specie di disco rigonfio al centro, che è la Galassia? Si trovano in periferia, perché si formarono dalle nubecole distaccatesi per prime da quella grande nube che, ruotando sempre più veloce e schiacciandosi, diede origine alla ruota galattica. È per questo motivo che le stelle degli ammassi globulari sono più vecchie di tutte le altre, e perciò anche delle stelle che si trovano negli ammassi aperti, i quali invece sono situati 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 137 04_capitolo.indd 137 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 in prossimità del piano galattico, salvo eccezioni come l’ammasso aperto nella Chioma di Berenice. Ben noti sono l’ammasso aperto delle Pleiadi, quello delle ladi (una decina di gradi a Sud-Est delle Pleiadi) e quello del Presepe conosciuto anche come «nido d’api», tutti visibili a occhio nudo. Se ne conoscono quasi 500, costituiti alcuni da una ventina di stelle soltanto, altri da qualche centinaio e anche un migliaio. L’ammasso aperto dell’Orsa Maggiore contiene tutte le stelle di questa splendida costellazione, eccetto a ed h, e, nonostante sembri molto sparpagliato per la sua vicinanza, forma un gruppo abbastanza compatto e di piccole dimensioni. È circondato da un vasto alone o corrente di stelle che una volta gli appartenevano e che include Sirio, b Aurigae e altri due ammassi. Vi si trova in mezzo anche il Sole, pur non appartenendo a esso. ••11 Stelle ancora più giovani, e immerse in nuvole di polveri e gas, si trovano nelle associazioni stellari, chiamate così perché sono raggruppamenti di stelle ancora meno legate fra loro di quelle degli ammassi aperti, e anzi tendenti a disperdersi. Ne abbiamo un 138 04_capitolo.indd 138 ••11 L’ammasso aperto doppio nella costellazione di Perseo dista 7.000 anni luce dalla Terra, mentre le due componenti sono separate da circa 100 anni luce. Si nota una grande abbondanza di giovani stelle azzurre dei tipi O e B. Le stelle gialle sono «stelle di campo», che si trovano per caso lungo la linea della visuale davanti all’ammasso. (NOAO, AURA, NSF) CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••12 Popolazioni stellari nella galassia NGC 2976. Non è una fotografia sgranata, ma un’immagine ad alta definizione ottenuta dal Telescopio Spaziale, dove ogni puntino rappresenta una singola stella a 12 milioni di anni luce di distanza da noi. Le stelle azzurre sono di Popolazione I, quelle rosse sono principalmente di Popolazione II. (NASA, ESA, J.DALCANTON, B.WILLIAMS) esempio nell’associazione z Persei, costituita da luminose stelle azzurre nate appena 1 o 2 milioni d’anni fa. Un’altra associazione è nella ultrafamosa nube di Orione, dove si osservano stelle che si pensa stiano ancora formandosi e appartenenti al tipo detto T Tauri. Fra i raggruppamenti si possono infine ricordare le nubi stellari formate di gas, polveri e milioni di stelle sempre molto giovani, come quelle che si estendono quasi ininterrottamente da Cassiopea al Cigno, al Sagittario, verso e intorno al centro galattico. Tutti questi raggruppamenti di stelle vecchie e giovani, dalle differenti forme, caratteristiche e collocazione, hanno fatto giungere alla conclusione che le stelle si possono dividere, come abbiamo già accennato nel capitolo tre, in almeno due popolazioni principali: la Popolazione I, più giovane e addensata sul piano galattico, caratterizzata dalle luminose stelle azzurre O e B; e la Popolazione II, sparsa ovunque nella Galassia, ma caratterizzata soprattutto dalle stelle degli ammassi globulari. Più tardi ci si accorse che queste due Popolazioni si distinguono anche per la composizione chimica, dato che le stelle di Popolazione Il sono da 10 a 500 volte più povere di elementi 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 139 04_capitolo.indd 139 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 più pesanti di idrogeno ed elio, che per brevità vengono detti tutti «metalli», di quelle di Popolazione I. In realtà, si ha tutta una serie di Popolazioni intermedie fra la Popolazione II estrema o dell’alone galattico e le giovanissime stelle immerse nelle braccia spirali della Via Lattea, che gli astronomi chiamano: Popolazione dell’alone, Popolazione II intermedia, Popolazione del disco o Popolazione I Vecchia, alla quale appartiene il Sole, e Popolazione I estrema. ••12 Storicamente, la scoperta di differenti Popolazioni stellari risale al 1942 quando Walter Baade, fotografando col telescopio da 250 cm di Monte Wilson la nebulosa di Andromeda, riuscì a risolvere le stelle del nucleo e a constatare che erano di colore rosso a differenza di quelle dei bracci spirali che erano blu. Quindi, fu osservando una galassia esterna alla nostra che ci si accorse delle differenze di distribuzione, colore ed età delle stelle della Via Lattea. Da notare che la scoperta fu favorita dalla guerra. Infatti gli Stati Uniti erano entrati in guerra e per timore di possibili bombardamenti da parte dei tedeschi, a Los Angeles vigeva il più completo oscuramento. Fu così che Baade poté fare esposizioni abbastanza lunghe da osservare anche i più deboli dettagli della galassia di Andromeda, senza che la luce diffusa della città velasse la lastra. Oggi il telescopio di Monte Wilson è reso quasi inutilizzabile per le luci di Los Angeles e anche il 5 metri di Monte Palomar è molto disturbato dalle luci di San Diego. LE STELLE SON BELLE PERCHÉ VARIE Come fra gli uomini e le società, anche fra le stelle la variabilità è un segno di estrema giovinezza o estrema vecchiaia; o di accidenti vari, quale per esempio «una cattiva compagnia», se così vogliamo definire il caso delle binarie strette. E, infatti, guardando il diagramma di Hertzsprung-Russell, vediamo che le variabili si trovano tutte al di fuori di quella regione di stabilità ed età media, che è la sequenza principale. La variabilità di queste stelle non è dovuta quindi a eclissi, ma è intrinseca: dipende da cambiamenti nell’interno o nell’atmosfera delle stelle medesime. E tutte le stelle, a parte gli incidenti «sociali» a cui si è precedentemente accennato, attraversano questo periodo al principio e alla fine della loro vita. Ma ci sono anche differenze di variabilità. Esistono variabili regolari e irregolari. Le regolari sono dette così perché la variazione di luminosità, dovuta al loro pulsare, si ripete con estrema regolarità come con le famose Cefeidi e RR Lyrae e le notissime pulsar. ••13-14 Le Cefeidi hanno periodi da 1 a 50 giorni e appartengono alle supergiganti gialle; le RR Lyrae hanno periodi inferiori a un giorno 140 04_capitolo.indd 140 CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 ••13 Variazioni periodiche delle Cefeidi. A. Variazione di raggio: il raggio minimo corrisponde al colore più bianco. B. Variazione di colore: colore più bianco significa temperatura più alta. C. Variazione di luminosità: il massimo si ha nella prima parte dell’espansione. D. Variazione di velocità superficiale: velocità negativa equivale a espansione. ••14 Relazione fra luminosità e periodo delle Cefeidi. Si evidenziano 3 tipi di variabili pulsanti regolari, con diverse relazioni periodo-luminosità: le Cefeidi classiche, le W Virginis e le RR Lyrae. e sono giganti bianche; le pulsar, più che pulsare, vibrano con periodi da 3 centesimi di secondo a poco più di un secondo con fantastica precisione. Sono state chiamate pulsar da Pulsating Radio Source, perché emettono radioonde. ••15 Oltre alle suddette, molte altre giganti rosse e supergiganti variano notevolmente di luminosità (e dimensioni); ve ne sono di regolari, semiregolari e del tutto irregolari con grande e piccola ampiezza di variazione. Irregolari sono le stelle come R Coronae Borealis che, dopo deboli fluttuazioni di mesi o anni, improvvisamente «impallidiscono» di 5 o 6 magnitudini per giorni o settimane. Ma le più note sono forse le stelle tipo T Tauri e le stelle eruttive, come la nostra vicina di casa Proxima Centauri. La particolarità delle stelle eruttive 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 141 04_capitolo.indd 141 13/04/12 17:47 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 è che, contrariamente a quanto si affermava prima, appartengono alla sequenza principale delle stelle che dovrebbero vivere una vita tranquilla e invece… soffrono di agitazioni e lampeggiano. Alcune con notevole energia, altre debolmente. Si pensa si tratti di fenomeni come le tempeste solari e anzi, da questo punto di vista, anche il nostro Sole può essere considerato una stella eruttiva. Invece, le T Tauri esibiscono variazioni sporadiche, che in parte potrebbero essere estrinseche, in quanto prodotte per una specie di interazione con le nebulosità che sempre le circondano. Immerse in nubi di polveri e gas, le T Tauri si trovano in gruppi molto numerosi, e quindi è verosimile siano nate da queste nubi come sostenuto dall’astronomo sovietico Viktor Amazaspovic Ambarcumian e dall’americano George Howard Herbig. A questo punto è opportuno tracciare un rapido quadro dell’evoluzione delle stelle che ci darà modo di approfondire anche alcuni argomenti che abbiamo già accennato nelle pagine precedenti, quali il medium interstellare (polveri e gas), oltre che parlare di novae e supernovae, delle nebulose planetarie fino alle pulsar e ai buchi neri. 142 04_capitolo.indd 142 ••15 Una Cefeide «storica». Misurando il periodo di questa Cefeide, la V1 nella galassia di Andromeda, fu calcolata per la prima volta (tramite la relazione periodoluminosità) la distanza di una galassia esterna alla Via Lattea. Nei riquadri, vediamo le variazioni riprese dal Telescopio Spaziale Hubble. Le Cefeidi rappresentano tuttora la chiave di volta per determinare la scala cosmica delle distanze. (NASA-HST, ESA, R.GENDLER) CAPITOLO 4 13/04/12 17:47 EVOLUZIONE E MORTE DELLE STELLE L’evoluzione di una stella e la durata della sua vita dipendono dalla sua massa e composizione chimica. Tuttavia, in generale, la sequenza dei vari stadi evolutivi è quasi la medesima per tutte le stelle, mentre cambia molto la durata dei singoli stadi in quanto la vita è molto più breve per una stella di grande massa che per una di piccola. Bisogna anche premettere che è improbabile che le stelle si formino singolarmente, ma è verosimile che nascano in associazioni o famiglie di decine e centinaia di membri, come si vede negli ammassi. Tutto incomincia da quelle «nuvole nere» di polveri e gas che si vedono concentrate nelle braccia spirali della Galassia, specie nella direzione del Sagittario, ma anche in Orione e altre nebulose, nelle quali, a partire dal 1963, sono state trovate con i radiotelescopi decine di molecole sia organiche sia inorganiche. Soffermiamoci sulla Nebulosa Trifida del Sagittario o su quella di Orione illuminata dal famoso gruppo del Trapezio, al quale fa da sfondo una estesa nuvola di monossido di carbonio con una massa 100.000 volte quella del Sole. ••16 Il suo stesso peso potrebbe farla collassare e suddividere in nuvole di 500-1000 masse solari, cioè in quel che sembra sia un tipico ammasso aperto; oppure alcune stelle si potrebbero formare rapidamente in qualche parte della nube, disperdendo il resto per il calore che le stelle producono nascendo, e il «vento» che emettono proprio come fanno le T Tauri. Martin Harvit e Kris Davidson hanno dato il nome di «stella o nebulosa in bozzolo» (Cocoon Star, Cocoon Nebula) a certe stelle apparentemente giovani nascoste in nubi di idrogeno e finissime polveri che collassarono per formarle. Siccome la loro luce non può penetrare attraverso le polveri, e dato che le prime fasi delle stelle giovani non producono radio emissioni, questi oggetti sono inizialmente osservabili soltanto nell’infrarosso. Perché le stelle emergano da un simile involucro occorre qualche decina di migliaia d’anni. Tali bozzoli contengono stelle fino a 100 volte più massicce del Sole. Una stella nasce quindi da una condensazione di gas. Condensandosi sotto l’azione della sua stessa gravità, il gas si riscalda. A un certo momento la temperatura al centro raggiunge i 10-12 milioni di gradi assoluti, necessari a innescare la reazione nucleare che trasforma l’idrogeno in elio. Si stabilisce allora quello che si chiama un equilibrio fra la forza di pressione (che tenderebbe a far espandere il gas nello spazio interstellare e a far disperdere la massa di gas) e la forza di gravitazione (che invece tenderebbe a far collassare il gas al centro). La forza di pressione è dovuta all’agitazione termica delle particelle: quindi, quando la temperatura è sufficientemente alta, l’agitazione delle particelle serve a sorregge- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 143 04_capitolo.indd 143 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 re il peso della massa sovrastante; la temperatura, cioè l’agitazione termica, è mantenuta alta dalle reazioni nucleari che avvengono regolarmente nell’interno. Quando l’idrogeno s’è trasformato tutto, abbiamo un nucleo inerte di elio. La temperatura non è sufficiente a innescare il bruciamento dell’elio. Il nucleo tende a raffreddarsi, l’agitazione termica delle particelle diminuisce e non è più sufficiente a sorreggere il peso della massa sovrastante. La stella comincia a collassare, a condensarsi, e condensandosi si riscalda, perché quando un gas si comprime la sua temperatura aumenta. La condensazione continua finché la temperatura al centro è sufficientemente alta per innescare il bruciamento dell’elio. Se la stella ha una grande massa (10-20 volte quella del Sole), è in grado di innescare in fasi successive tutta una serie di reazioni nucleari. Vediamo prima questo caso, e poi la morte di stelle di massa simile al nostro Sole. In una stella di grandi dimensioni, quando l’elio è consumato, il nucleo si raffredda di nuovo, la stella si condensa finché la temperatura è sufficientemente alta perché il carbonio possa trasformarsi in ossigeno, e così via. Attraverso questi successivi bruciamenti e condensazioni si arriva a un punto in cui la parte centrale, il nocciolo della stella, è costituito da nuclei di ferro. I nuclei di ferro, alle temperature centrali di qualche miliardo raggiunte dalla stella in queste condizioni, si possono trasformare in elio. In tutte le reazioni delle fasi precedenti si è verificata produzione di energia, perché la massa dei nuclei iniziali era maggiore della massa dei nuclei prodotti; questa differenza di massa si trasforma in energia. Nel caso del ferro invece succede il contrario. Un nucleo di ferro dà luogo a 13 nuclei di elio più 4 neutroni. La massa totale del prodotto della reazione è un po’ più grande di quella dei nuclei di ferro, per cui la reazione, invece di produrre energia, ha bisogno di energia che viene sottratta dalla massa grande e calda della stella. La trasformazione del ferro in elio ha un effetto refrigerante e al centro della stella la temperatura cala bruscamente: dai 10 miliardi di gradi a cui si verifica la reazione ferro-elio, crolla a un centinaio di milioni di gradi. Un brusco abbassamento di temperatura vuol dire anche una brusca diminuzione della velocità di agitazione termica delle particelle: è come se al centro della stella si fosse improvvisamente creato il vuoto. Tutta la massa di gas sovrastante precipita verso il centro che viene compresso a enormi densità, dando origine a una stella a neutroni, in cui elettroni e protoni danno luogo a neutroni «stabili» (si consideri che in condizioni normali il neutrone è una particella instabile con una vita media di circa 15 minuti). Più la massa della stella originaria è grande, più l’evento è drammatico: i nuclei di 144 04_capitolo.indd 144 CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 ••16 La Nebulosa Trifida M 20 (NGC 6514), una nebulosa diffusa composta di gas surriscaldati, osservabile nella costellazione del Sagittario. (NOAO) stelle molto massicce si trasformano addirittura in buchi neri (sui quali torneremo nelle prossime pagine). Per quanto riguarda, invece, gli strati più esterni, in cui si trovano materiali come idrogeno ed elio in grado di produrre energia, durante il collasso si riscaldano tanto da innescare una gran quantità di reazioni nucleari, nel corso delle quali si formano tutti gli elementi che conosciamo sulla Terra, dall’idrogeno all’uranio. La stella, in quest’ultima parte della sua vita, si trasforma in una vera e propria bomba nucleare. Tutta la materia viene scagliata nello spazio, ma resta il nocciolo della stella a neutroni (o il buco nero) che può avere un diametro di due o tre chilometri ed è un pallino estremamente denso, milioni di miliardi di volte la densità dell’acqua. Invece la materia scagliata nello spazio interstellare si espande. Questo fenomeno è un’esplosione di supernova, nella 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 145 04_capitolo.indd 145 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 quale la stella aumenta di splendore centinaia di milioni di volte nel giro di poche ore, così che noi vediamo apparire una stella là dove prima non si vedeva niente. Le supernovae sono le principali responsabili dell’evoluzione chimica della galassia che le contiene, dando luogo a un progressivo aumento della percentuale di elementi più pesanti di idrogeno ed elio. ••17 La morte di stelle di massa più piccola, invece, è quieta. In una stella di piccola massa (com’è il nostro Sole) che abbia esaurito l’idrogeno, la materia al centro dopo il primo collasso, a causa dell’aumento di densità è in una condizione particolare, per cui si comporta come un solido: la pressione esercitata dal gas non dipende più dalla temperatura. Difatti normalmente la velocità d’agitazione termica del gas produce la pressione che controbilancia la forza di gravità. Questo è vero quando il gas si comporta come un gas perfetto. Invece il gas al centro delle stelle di piccola massa (più piccola del Sole), che hanno già esaurito l’idrogeno, si trova in una condizione che si definisce degenere e si comporta come un solido. Un solido, per esempio un tavolo, caldo o freddo che sia, oppone sempre la stessa resistenza a una spinta esterna; non è che scaldandolo eserciti una pressione più forte di quando è freddo. La stella non potendo contrarsi, non potrà nemmeno riscaldarsi e quindi innescare la reazione elio-carbonio. Avrà esaurito le 146 04_capitolo.indd 146 ••17 La nebulosa del Granchio è il residuo dell’esplosione di una supernova, registrata dagli astronomi cinesi nove secoli or sono. In questa immagine multibanda sono rappresentate con colori codificati anche le radiazioni invisibili all’occhio umano. Raggi X (in blu), infrarossi (in rosso) e luce visibile (in verde) sono stati ripresi da tre diversi telescopi spaziali: rispettivamente Chandra, Spitzer e Hubble. (NASA, JPL, ESA) CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 ••18 La nebulosa planetaria Elica (NGC7293) nella costellazione dell’Aquario. Questa è la nebulosa planetaria più vicina alla Terra, trovandosi a 650 anni luce da noi. (NOAO/HST) sue fonti di energia nucleare, o meglio non potrà sfruttare tutte le fonti di energia nucleare di cui potrebbe disporre se avesse una massa più grossa. La stella si raffredderà lentamente e diventerà una nana bianca, cioè una stella di piccole dimensioni che in tempi lunghissimi si trasformerà in nana nera. Le nane nere non irraggiano più perché si sono raffreddate. Prima di passare alla fase di nana bianca, le stelle un po’ più grosse, come il Sole, hanno un comportamento un po’ più complicato, subiscono un’espansione degli strati esterni che si raffreddano. La stella diventa una gigante rossa. Ma come mai passa attraverso la fase di gigante rossa? Prendiamo il caso del nostro Sole. Esso ha un’età di circa 5 miliardi di anni e ha trasformato in elio circa la metà dell’idrogeno nel suo centro, alla temperatura di 13 milioni di gradi. Fra circa altri 5 miliardi di anni il centro del Sole conterrà solo nuclei di elio, che alla temperatura di 13 milioni di gradi è inerte, non in grado di trasformarsi in carbonio. Il centro privo di «combustibile nucleare» comincia a raffreddarsi, la forza di pressione del gas diminuisce e la gravità prende il sopravvento, comprimendo il gas del centro che si riscalda fino a una temperatura di circa 100 milioni di gradi e l’elio si trasforma in carbonio. L’energia nucleare liberata cresce rapidamente al crescere della temperatura. Il Sole diventa una centrale nucleare che produ- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 147 04_capitolo.indd 147 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ce enormemente più energia di prima. Per irraggiare tutta l’energia prodotta senza esplodere, il Sole deve espandersi, aumentando il suo raggio di quasi 200 volte, fino a inghiottire Mercurio e Venere e lambire l’orbita della Terra che diventerà un pianeta torrido e deserto. L’espansione raffredda gli strati più esterni del Sole, la sua temperatura superficiale scende dagli attuali circa 6000 gradi a più o meno 3000 e il suo colore da giallastro diventa rossastro: il Sole è diventato una gigante rossa. Il suo centro è ormai di gas degenere, e quando tutto l’elio si sarà trasformato in carbonio non potrà più contrarsi per sfruttare altri combustibili nucleari. L’esteso inviluppo rarefatto andrà lentamente evaporando nello spazio interstellare, formerà un guscio attorno al caldo nocciolo centrale e si avrà la fase di nebulosa planetaria. Questa non ha niente a che fare con i pianeti, ma fu chiamata così per l’aspetto simile a un dischetto che nei modesti telescopi di una volta la rendeva simile all’immagine di un pianeta. ••18-19 La differenza di comportamento fra il Sole e stelle di massa più piccola dipende dal fatto che lo stato di gas degenere viene raggiunto a densità tanto più basse quanto più bassa è la temperatura centrale che a sua volta è tanto più bassa quanto più piccola è la massa della stella. Per questo stelle molto più grosse, 10 o 20 volte la massa del Sole, non diventano mai degeneri e terminano la loro vita esplodendo come supernove. 148 04_capitolo.indd 148 ••19 Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543). Le nebulose planetarie altro non sono che uno stadio evolutivo stellare successivo a quello di nova. (NASA) CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 NOVAE, SUPERNOVAE, PULSAR E BUCHI NERI Abbiamo seguito l’evoluzione delle stelle dalla nascita alla morte. Ora cerchiamo di guardare più da vicino quello che accade e nelle supernovae e nelle novae, che si manifestano in modo simile pur essendo prodotte da cause molto diverse. Il nome di nova fu dato dagli antichi a stelle che apparivano improvvisamente là dove prima nessuna stella era visibile, pensando che si trattasse dell’apparizione di una nuova stella. Oggi sappiamo che si tratta di fenomeni esplosivi che avvengono in particolari tipi di stelle. Le stelle novae aumentano improvvisamente di splendore anche di 100.000 volte. In alcuni casi molto più rari si assiste ad aumenti di splendore anche di miliardi di volte, e in tal caso si parla di supernovae. Le cause che producono le novae sono nettamente diverse da quelle che producono una supernova. Si sono osservati vari tipi di novae: novae lente, che impiegano molti mesi per tornare allo splendore che avevano prima dell’esplosione; novae rapide che invece impiegano giorni; novae ricorrenti, di cui si sono osservate più esplosioni. Si può dire che ogni nova ha caratteristiche sue proprie, anche se, probabilmente, tutte sono membri di stelle binarie, contenenti una nana bianca e una compagna molto vicina. L’esplosione avviene quando la compagna comincia a evolvere verso la fase di gigante rossa e i suoi strati superficiali ricchi di idrogeno formano il cosiddetto disco di accrescimento attorno alla nana bianca, prima di caderci sopra spiralando. L’idrogeno trasferito dalla compagna sulla nana bianca, può far sì che la massa della nana bianca superi il cosiddetto limite di Chandrasekhar, pari a 1,44 masse solari, limite massimo che un gas degenere può sostenere senza collassare. Quando viene raggiunto questo limite l’idrogeno a contatto con la superficie della nana bianca dà luogo a reazioni nucleari che provocano un aumento di splendore di circa 100.000 volte in pochi giorni, esplosioni che espellono nello spazio i prodotti delle reazioni. La temperatura alla superficie può raggiungere parecchi milioni di gradi, dato che il gas degenere si comporta come un metallo ed è altamente conduttivo, per cui la temperatura superficiale diventa eguale a quella dell’interno. In media ogni anno nella Galassia esplodono 25 novae, quindi è un fenomeno molto più frequente delle supernovae, che sono in media circa tre in un millennio, ma liberano ciascuna un’energia pari a un milione di volte quella liberata da una nova. ••20 È stato negli Anni Trenta che astrofisici e fisici come Fritz Zwicky e Lev D. Landau e Robert J. Oppenheimer hanno dimostrato che le stelle più massicce non si fermano allo stadio di nana bianca. Abbiamo visto nel paragrafo precedente che queste grandi stelle, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 149 04_capitolo.indd 149 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 anche dopo varie contrazioni e innesco di vari combustibili nucleari restano sempre formate di gas perfetto, e che l’esito della reazione ferro-elio, facendo scendere bruscamente la temperatura centrale da 10 miliardi a 100 milioni di gradi, fa sì che tutta la massa stellare crolli sotto il suo stesso peso con tale forza che le loro particelle subatomiche, quali protoni ed elettroni, si condensano in neutroni e così strettamente che l’equivalente di due o più masse solari giunge a occupare un volume che a stento tocca un diametro di 20 o 30 km. Abbiamo visto che questa situazione porta a un’esplosione di supernova, mentre una piccola frazione della massa originale della stella collassa, trasformandosi in una stella a neutroni, che spesso avvistiamo come una pulsar. Dai dati storici attualmente disponibili risulta che nel corso di 1500 anni si sono verificate sette gigantesche esplosioni stellari di cui oggi sono osservabili i resti. L’esempio più noto lo troviamo nella costellazione del Toro, e più precisamente nella Nebulosa del Granchio, scoperta nel 1731 da John Bevis e poi indipendentemente da Charles Messier nel 1758. Questa pulsar nella Nebulosa del Granchio venne individuata per caso da Jocelyn Bell, una dottoranda di Anthony Hewish, nell’agosto del 1967. Dapprima non si capiva cosa fosse, e nell’eccitamento di quegli anni per le ricerche di civiltà extraterrestri, si pensò che fosse un segnale artificiale indirizzato anche a noi terrestri. Poi si capì che doveva essere una di quelle stelle a neutroni preconizzate da Zwicky. Ruotando intorno al proprio asse in 1/30 di secondo, emette 30 radio-impulsi e altrettanti lampi di luce ogni secondo. Un’altra pulsar si trova nella Gum Nebula (dal nome dell’astronomo australiano Colin S. Gum) nella costeIIazione della Vela. Oggi si conoscono alcune centinaia di pulsar. ••21 È probabile che la maggioranza delle stelle con massa superiore a 3 volte quella del Sole concludano come pulsar la loro evoluzione, ma non è detto che avvenga sempre così. Si conoscono, infatti, delle stelle molto grosse che perdono massa con continuità: qualora giungano a ridursi a meno di 3 masse solari, non c’è bisogno che entrino in crisi esplodendo come supernovae e finendo come pulsar. Si trasformeranno invece in nane bianche, come fa la maggior parte delle stelle. D’altra parte, stelle più grosse di 3 masse solari e incapaci per qualche ragione di espellere dalle loro atmosfere abbastanza gas 150 04_capitolo.indd 150 ••20 Cassiopea A è un residuo di supernova con intensissima radioemissione. Sebbene l’esplosione sia avvenuta in epoca storica, non vi sono cronache che attestino il fenomeno. L’immagine è una sovrapposizione di raggi X (in blu), infrarossi (in rosso) e luce visibile (in giallo), ripresi dai telescopi spaziali Chandra, Spitzer e Hubble. La nebulosa Cassiopea A si trova a 11.000 anni luce da noi. (NASA, ESA, HST) CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 ••21 La nebulosa Velo. Si tratta di un residuo di supernova esplosa tra 5.000 e 10.000 anni fa, ormai quasi completamente disperso nello spazio. Sono messi in evidenza alcuni dettagli studiati dal Telescopio Spaziale. (NASA, ESA, HUBBLE) per raggiungere quel limite di massa che s’è detto, possono imboccare un cammino evolutivo ancora più complesso e drammatico. Dopo essere esplose come supernovae, diventano ancora più dense delle stelle di neutroni. Il campo gravitazionale di una stella collassata fino a questo punto è tanto grande da trattenere anche la luce e le altre radiazioni elettromagnetiche e perciò non è più possibile né vederla coi nostri telescopi né udirla con i radiotelescopi: è diventata un «buco nero». Il solo modo di individuarlo è cercare di scoprire gli effetti gravitazionali che esercita sulle stelle vicine. Lo stato della materia in un buco nero supera di gran lunga anche le condizioni estreme che si trovano nelle stelle a neutroni, poiché un buco nero con una massa uguale a quella del Sole 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 151 04_capitolo.indd 151 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 avrebbe un diametro di appena 6,4 km. Gli astronomi credono che una stella di questo tipo si trovi nella costellazione del Cigno: è una sorgente di raggi X, costituita da una binaria, di cui la componente maggiore (l’invisibile buco nero, ma causa indiretta della radiazione X) avrebbe una massa 8 volte più grande di quella del Sole. Da quanto abbiamo appena finito di dire, sembrerebbe che i buchi neri siano la tomba definitiva delle stelle di grossa massa e che un buco nero sia come un pozzo gravitazionale dove tutto può entrare e nulla può uscire. Tuttavia, nuove ricerche teoriche hanno portato alla conclusione che anche i buchi neri evolvono, si consumano ed esplodono. Inoltre potrebbero esistere buchi neri di ogni massa, come i mini o micro buchi neri, che, secondo i teorici, si sarebbero potuti formare subito dopo il Big-Bang in certe sacche di altissima densità, ed è probabile anche l’esistenza di grossi buchi neri, con masse di milioni o miliardi di masse solari, al centro delle galassie, come nel caso della nostra Via Lattea. MESSER LO FRATE SOLE Come annunciato in apertura del capitolo, parliamo ora del Sole, la stella a noi più vicina e l’unica studiata in dettaglio. Francesco, il Poverello d’Assisi, amante di Dio e di tutto il creato e le creature, lo chiamava così: «Messer lo frate Sole…» Si cominciò a sapere che era una stella soltanto ai tempi di Newton, e chissà se riusciremo mai ad arrivare nelle vicinanze di un’altra stella, per vederla come un disco e non più come un punto. Intanto sappiamo che il Sole brilla di una luce quasi gialla perché ha una temperatura superficiale di circa 6000 gradi Kelvin (K), alimentata da una fornace atomica situata al centro dove la temperatura raggiunge i 13 milioni di gradi K. In questa fornace, 564 milioni di tonnellate di idrogeno vengono trasformate ogni secondo in 560 milioni di tonnellate di elio. La differenza, 4 milioni di tonnellate, è la quantità di materia irradiata sotto forma di energia per secondo. ••22 Per quanto tempo brillerà ancora in questo modo? Dato che la massa del Sole è 333.000 volte quella della Terra, e ammesso che il Sole fosse composto interamente di idrogeno, se tutta la sua massa si trasformasse in elio, seguiterebbe a risplendere per circa 100 miliardi d’anni. Però, tenuto conto che il Sole è composto di idrogeno per circa 2/3 della sua massa, e che le reazioni nucleari possono avvenire solo nel nucleo contenente il 10% dell’intera massa, il tempo di durata del combustibile idrogeno si riduce a circa 8 miliardi d’anni. Ma da quanto tempo il Sole risplende come oggi? I fossili terrestri ci suggeriscono che ha continuato a irradiare in modo costan152 04_capitolo.indd 152 CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ••22 Il Sole fotografato in diverse bande spettrali. Sopra: nelle radioonde e nella luce H-alfa. Al centro: in luce visibile. Sotto: raggi ultravioletti e raggi X dal satellite Soho. (NASA) Le stelle 153 04_capitolo.indd 153 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 te all’incirca durante gli ultimi 3,5-4 miliardi d’anni. Ciò significa che la nostra stella è tuttora abbastanza giovane e seguiterà così ancora per almeno altri 5 miliardi d’anni prima di passare a più avanzate e irrequiete fasi evolutive di gigante rossa e poi di nana bianca, come abbiamo già spiegato. Il Sole è molto più complesso di come ci appare, e per accorgersene basta osservarlo a diverse lunghezze d’onda, con vari tipi di strumenti. Nel visibile noi vediamo il Sole quasi fosse delimitato da un «guscio» detto fotosfera, e durante le eclissi totali (cioè quando la Luna passa fra la Terra e il Sole al momento della Luna Nuova) si rivela circondato da una corona perlacea, di forma e dimensioni variabili. Però, se i nostri occhi fossero sensibili alle onde radio, il Sole ci apparirebbe più grande di quello «ottico» e non rotondo, ma ellittico. Costituito essenzialmente da una palla di gas, la sua densità media è 1,41 volte quella dell’acqua, ma al centro tocca le 80 volte. Il diametro solare è di circa 1.392.000 km, il che rappresenta il doppio del diametro dell’orbita lunare. Il Sole ruota su se stesso, facendo un giro in media in 25,4 giorni; tuttavia, il periodo di rotazione varia con la latitudine, ed è di 24,9 giorni all’equatore solare e di 34 giorni in prossimità dei poli. Anzi, ci sono novità al riguardo, perché si sospetta che questa rotazione subisca variazioni anche in rapporto al ciclo delle macchie solari. Infatti, Robert Howard ha constatato che dal 1967 la rotazione solare all’equatore è passata da 7200 a 7600 km/h, ma deve trattarsi di un fenomeno limitato alla fotosfera, perché se coinvolgesse gli strati più profondi, richiederebbe enorme dispendio di energie. Tale accelerazione si crede prodotta dai campi magnetici originati all’interno del Sole che, emergendo a velocità maggiore dei gas circostanti, agiscono come pagaie. La fotosfera, il cui spessore si stima sui 400 km, appare formata di granuli brillanti, intervallati da zone scure, nelle quali, quando il Sole è disturbato, si formano come dei «pori», che possono moltiplicarsi e ingrandirsi diventando «macchie». Queste sono costituite da un nucleo centrale detto «ombra», circondato da un’aureola grigiastra chiamata «penombra»; l’ombra è più scura perché la temperatura è di circa 4000 K assoluti, rispetto ai circa 6000 della fotosfera. Correlate alle macchie, abbiamo poi le «facole», dette anche «flocculi brillanti», simili a nubi filamentose. Sede di importanti correnti di materia, le macchie sono anche luoghi di forti campi magnetici; e la loro comparsa e scomparsa è un fenomeno oltremodo variabile. Esse si spostano dal bordo Est al bordo Ovest in circa 13 giorni, e il loro numero aumenta da un minimo a un massimo, ritornando quindi a un minimo in circa 11 anni. Alle macchie vanno associati fenomeni, come esplosioni di gas con espulsione di particelle ad alta energia, e radioemissioni. 154 04_capitolo.indd 154 CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 ••23 Fotografia della corona solare ripresa durante l’eclissi del 1° agosto 2008. Si possono osservare i pennacchi (o getti) coronali. (A&A) Di solito il nuovo ciclo undecennale si sovrappone in parte al vecchio: quando cominciano ad apparire le macchie ad alta latitudine caratteristiche del nuovo ciclo, si osservano ancora nascere macchie del vecchio ciclo in prossimità dell’equatore solare. In realtà, è soltanto dal 1715 che abbiamo incominciato a contare i cicli solari, ed è soltanto dal 1843 che Heinrich Schwabe confermò l’esistenza approssimativa del periodo undecennale. Negli anni seguenti la scoperta delle macchie (nel 1611), si verificarono due massimi alla distanza di 15 anni, e poi l’attività solare decrebbe a un livello bassissimo fino al 1715, tanto che per questi settant’anni di inattività (1645-1715) la corona solare, che è riscaldata in larga misura dalla frizione e dall’agitazione delle regioni attive del Sole, non venne mai osservata. Quando nel 1715 ripresero fenomeni quali le aurore boreali, causate appunto dall’attività solare, destarono a Stoccolma e a Copenhagen la più grande meraviglia e paura. Al di sopra della fotosfera, si trova l’atmosfera solare che ha una massa stimata sulle 1017 tonnellate, e cioè uguale alla ventimiliardesima parte dell’intera massa del Sole. In realtà, essa rappresenta soltanto pochi grammi di materia per ciascuna colonna di atmosfera solare di un cm2 di base. L’atmosfera solare si distingue in cromosfera e corona. ••23 La cromosfera (così chiamata dal colore rossastro dovuto all’emissione dell’idrogeno) ha uno spessore di circa 10.000 km, ed è composta da lingue di gas, dette «spicole», che la fanno assomigliare a una prateria infocata, e da «protuberanze» consistenti in getti di gas che dalla cromosfera si slanciano verso l’esterno, e assumono le forme più diverse. Le protuberanze sono associate quasi sempre alle zone di attività solare; però mentre le macchie non appaiono mai a latitudini maggiori di 50°, le protuberanze si presentano ovunque e dalle zone polari tendono a migrare lentamente verso latitudini più basse. La corona, che avviluppa la cromosfera e che si presenta come un’aureola argentea intorno al disco solare, con dei getti che si estendono per parecchi raggi solari, è un’altra specie di atmosfera estremamente tenue e di struttura eterogenea. Essa si compone di polveri (corona F), elettroni e ioni (corona K) e la sua temperatura è compresa fra 500.000 e 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 155 04_capitolo.indd 155 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 1.000.000 di gradi, tanto che gli atomi si trovano in uno stato fortemente ionizzato ossia mancanti di numerosi elettroni. La corona solare non ha limiti precisi, ma si estende, secondo alcuni, oltre l’orbita terrestre, immergendosi e confondendosi con la materia interplanetaria. Inoltre, ricordiamo il flusso di particelle cariche espulso senza interruzione dal Sole a velocità comprese fra i 300 e gli 800 km/s: è il «vento solare», che possiamo considerare un prolungamento o un’espansione della corona. Concludiamo con un cenno sull’attività solare e le relazioni Sole-Terra. Nel 1942, i radar di guerra captarono casualmente le prime radioonde di origine solare. Oggi si studiano con radiotelescopi a lunghezze d’onda che vanno da pochi millimetri a una ventina di metri: le più corte vengono emesse in prevalenza nella parte più bassa delle cromosfera, le più lunghe nella corona. Durante i periodi di calma solare, intorno al minimo di macchie, la forza delle radioemissioni corrisponde a quella che ci si può aspettare da un corpo alla temperatura della cromosfera e della corona. Ma quando il Sole è attivo e sono numerose le macchie e i brillamenti, cresce anche l’emissione radio con bruschi aumenti di intensità (le radiotempeste) che si sovrappongono alle ordinarie radioonde. In questi casi si pensa che dai brillamenti vengano espulsi getti di protoni e altre particelle a velocità di migliaia di chilometri al secondo, disturbando nello spazio di pochi secondi i gas ionizzati della corona e raggiungendo la Terra 24 ore dopo, dove producono tempeste magnetiche, aurore boreali ecc. PIANETI EXTRASOLARI Dall’antichità fino a pochi decenni fa, gli unici pianeti conosciuti erano quelli del Sistema solare e questo per molti secoli ha rappresentato un caso unico, il centro dell’Universo. Quando si è cominciato a comprendere la natura fisica delle stelle, e che il Sole era una stella comunissima fra miliardi di altre, conseguentemente si è cominciato a ritenere probabile l’esistenza di altri sistemi planetari. In realtà, già Giordano Bruno scriveva: «Esistono innumerevoli soli, innumerevoli terre ruotano attorno a questi similmente a come i sette pianeti ruotano attorno al nostro sole». E aggiungeva: «Questi mondi sono abitati da esseri viventi». Il primo pianeta extrasolare, in orbita cioè attorno a una stella diversa dal Sole, è stato scoperto solo nel 1995 da due astronomi svizzeri, Michel Major e Didier Queloz. Si supponeva che altre stelle, forse tutte, avessero dei pianeti, perché il Sole è una stella comunissima, e non c’era alcuna ragione di ritenere che avesse una speciale particolarità. Oggi si pensa che, quando si forma una 156 04_capitolo.indd 156 CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 ••24 Le stelle vicine al Sole entro un volume con raggio di 20 anni luce. Vi troviamo numerose stelle ben conosciute, nonché alcuni possibili sistemi planetari extrasolari. stella, si formi contemporaneamente anche una nebulosa proto planetaria da cui poi avranno origine i pianeti. Non è però facile scoprirli, non solo perché sono come «affogati» nella luce della loro stella, ma anche perché perfino i più lontani dal loro sole sono visti dalla Terra a una distanza angolare troppo piccola per essere risolta dai nostri telescopi. Supponiamo per esempio che Proxima Centauri abbia un pianeta alla distanza che ha Plutone dal Sole. Per calcolare la sua distanza angolare, dovremmo dividere la distanza Sole-Plutone, pari a 5870 milioni di km, per la distanza di Proxima Centauri da noi, pari a 4,22 anni luce, ossia 40.000 miliardi di km. Si trova così un angolo di 1,46 decimillesimi di radiante pari a 30 secondi d’arco: pur avendo considerato il caso di gran lunga più favorevole, il pianeta sarebbe comunque difficilmente visibile nascosto dal fulgore della stella. E la maggioranza 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Le stelle 157 04_capitolo.indd 157 13/04/12 17:48 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 delle stelle si trova a decine, centinaia, migliaia di anni luce da noi. Nel caso di una stella a 100 anni luce da noi, la distanza angolare di un pianeta che abbia da questa stella la distanza che Plutone ha dal Sole sarebbe inferiore al millesimo di secondo d’arco. ••24 In realtà, tutti i pianeti extrasolari scoperti fino a oggi sono stati individuati in maniera indiretta, rilevando cioè i disturbi che il pianeta produce al moto della stella a causa della sua attrazione gravitazionale, oppure – quando la nostra visuale giace sul piano dell’orbita – rilevando la minima, ma misurabile, diminuzione di luce che avviene tutte le volte che c’è un transito del pianeta davanti alla stella. Due telescopi in orbita attorno alla Terra, Kepler della Nasa e Corot dell’agenzia spaziale francese, osservando automaticamente milioni di stelle, hanno misurato periodiche diminuzioni di luce dovute a transiti. Con questi metodi sono stati scoperti fino a oggi parecchie centinaia di pianeti extrasolari. In gran parte sono grossi come e più di Giove, orbitano molto vicino alla loro stella e quindi hanno temperature troppo alte per ospitare la vita. Più i pianeti sono grandi e vicini alla stella, maggiore è il disturbo che provocano al suo moto, e per questo è molto più facile scoprirli rispetto a pianeti piccoli come la Terra, ma non per questo dobbiamo dubitare che esistano anche miliardi di pianeti come il nostro. È in progetto, da parte dell’Osservatorio Europeo dell’emisfero australe (ESO), un grande telescopio al suolo, di circa 40 metri di diametro, che dovrebbe essere in grado di scoprire pianeti come la Terra e fornircene delle immagini. Un altro metodo per scoprire pianeti extrasolari si basa sulla teoria della relatività. Einstein aveva previsto che anche la luce fosse soggetta all’attrazione gravitazionale e una massa come per esempio quella di una galassia frapposta fra noi e una galassia più lontana funzionerebbe come una lente ottica facendo convergere i raggi provenienti dalla galassia lontana e dandone una o più immagini virtuali, a seconda dell’allineamento tra l’osservatore, la «galassia lente» e la galassia lontana. Ci sono numerose osservazioni di queste immagini date da lenti gravitazionali. Ma anche una singola stella può agire da lente. Supponiamo che ci sia perfetto allineamento fra una stella lontana, una stella più vicina agente da «microlente» e l’osservatore. La microlente fa convergere la luce proveniente dalla stella lontana che viene intensificata. L’osservatore noterà l’aumento di splendore della stella: poiché osservatore, stella lente e stella lontana sono tutti in moto relativo l’uno rispetto all’altro l’allineamento dura poche settimane. Se poi la stella lente è accompagnata da uno o più pianeti, anche questi agiranno da micro-microlente e l’osservatore noterà altri minori aumenti di splendore della stella lontana della durata di poche ore. Con questo metodo si sono scoperti una diecina di pianeti. 158 04_capitolo.indd 158 CAPITOLO 4 13/04/12 17:48 CAPITOLO 5 L’ORIGINE DELL’UNIVERSO: TEORIE E FATTI 05_capitolo.indd 159 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 05_capitolo.indd 160 13/04/12 18:20 L a cosmologia studia le origini e l’evoluzione dell’Universo e cerca di elaborare modelli sempre più coerenti in grado di spiegarne il passato, il presente e il futuro. Il cielo ha da sempre suscitato la curiosità degli uomini: credo che già i nostri lontani progenitori cavernicoli si interrogassero su quei puntini luminosi che vedevano in cielo, e sul perché il Sole e la Luna si alternassero fra il giorno e la notte. Testimonianza di questo interesse per la natura sono i bellissimi graffiti trovati sulle pareti delle caverne, che dimostrano come gli uomini di quei tempi fossero osservatori molto attenti. In epoche successive lo studio del cielo diventa più sistematico: tutti i popoli antichi – in occidente (greci, romani…), in oriente (babilonesi, fenici, cinesi…), in America (maya, atzechi, toltechi…) – avevano una propria cosmogonia, cioè una teoria sulla nascita e sulla struttura dell’Universo. Queste teorie si basavano su dati osservativi (anche sorprendentemente accurati, dati i rudimentali strumenti dell’epoca), ma naturalmente inglobavano anche religione, mitologia e filosofia. Per fare un esempio, basta ricordare che gli antichi greci e i romani ponevano nel cielo i loro dèi. Giove, Saturno, Venere, Mercurio erano dèi e le costellazioni rappresentavano le gesta degli eroi: il cielo e la Terra erano strettamente connessi, e il cielo interferiva con le vicende degli umani. ANTICHE E NUOVE INTUIZIONI Eppure già nel V secolo a.C. Leucippo e Democrito ebbero un’intuizione dell’Universo che potremmo definire sorprendentemente moderna. Affermarono che l’Universo era costituito di innumerevoli atomi (in greco «indivisibile») distribuiti in un vuoto di estensione infinita. Gli atomi erano costituiti di una sostanza «primaria» universale e differivano l’uno dall’altro solo per forma e dimensione. Le sensazioni di colore, suono, sapore, tatto, odore non erano una proprietà delle cose, ma qualità di natura secondaria originatesi negli organi di senso. Democrito affermava che il colore, il dolce, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 161 05_capitolo.indd 161 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 l’amaro sono tutte convenzioni, in realtà esistono solo gli atomi e il vuoto. Tutto il resto è illusione. Queste idee, pur così simili alle nostre conoscenze attuali, erano comunque concezioni filosofiche, costruzioni della mente. La conoscenza scientifica oggi si basa sull’osservazione e sull’esperimento; le ipotesi più astratte e fantasiose, prima di poter essere chiamate teorie, sono sottoposte a riprove sperimentali. Nel corso della storia, il legame tra studio scientifico del cielo, religione e filosofia si consolida: il modo di vedere e interpretare l’Universo (o quello che si sapeva sull’Universo) diventa l’espressione della cultura del tempo e da questa viene influenzato. Questo legame verrà spezzato soltanto agli inizi del Novecento, con la scoperta dell’espansione dell’Universo e quindi la nascita di una cosmologia basata sull’osservazione. È da allora che i dati osservativi ci hanno consentito di dare un’interpretazione fisica dell’Universo e quindi di elaborare una cosmologia moderna. La cosmologia è dunque, contemporaneamente, una scienza antichissima e recente. Facciamo quindi una breve carrellata storica. Quello che sappiamo della nostra Galassia, delle galassie esterne e dell’Universo nel suo insieme presenta ancora molti interrogativi, sebbene appaia incredibile il cammino percorso sulla via della conoscenza e come i moderni strumenti a Terra e dallo spazio l’abbiano accelerato. Infatti, è indubbio che abbiamo costruito fondamenta ben più solide delle spalle di Atlante, e della tartaruga su cui i cosmologi indiani poggiavano il mondo. ••1 Come è noto, tra coloro che stabilirono queste basi fu Galileo, il quale nel Seicento fu il vero iniziatore della scienza moderna, basata sulla deduzione delle leggi generali dell’Universo a partire da osservazioni ed esperimenti, anziché da idee preconcette di natura filosofica o religiosa. Prima di allora le idee di Aristotele avevano fortemente influenzato il mondo antico fino al Rinascimento e oltre. Per il filosofo greco i corpi celesti erano addirittura di materia diversa da quella terrestre, quelli più lontani della Luna erano immutabili ed eterni, e le orbite dei pianeti dovevano assolutamente essere circolari, essendo il cerchio e la sfera figure geometriche perfette. Questi e altri dogmi aristotelici furono smentiti da Galileo e da Keplero. Quando, nel 1610, Galileo rivolse al cielo il suo modesto cannocchiale, scoprì sulla superficie lunare montagne, pianure e crateri come quelli che osserviamo sulla Terra; dimostrò che la nova apparsa nel 1604 non era un oggetto sublunare, ma, pur essendo variabile, apparteneva alla cosiddetta «sfera delle stelle fisse», e risolse una volta per sempre la natura della Via Lattea, scoprendo che era fatta da innumerevoli stelle. In seguito, si cominciò a studiare come queste stelle si muovessero e quante fossero, anche se nessuno ancora pensava fosse 162 05_capitolo.indd 162 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 ••1 La Via Lattea all’infrarosso. Poiché ci troviamo all’interno del disco galattico in posizione periferica, se guardiamo la parte centrale della nostra Galassia essa ci appare vista di taglio. Il suo aspetto è identico a una qualsiasi altra galassia a spirale, vista di taglio. (2MASS, CARPENTER-SKRUTSKIEHURT) possibile conoscerne struttura e composizione chimica. Quando Galileo scoprì i quattro maggiori satelliti di Giove, pensò di aver trovato un Sistema solare in miniatura e con esso la prova evidente che era la Terra, insieme alla Luna, a orbitare attorno al Sole e non viceversa. Circa negli stessi anni, Keplero, basandosi sulle accurate osservazioni dei pianeti fatte dal suo maestro Ticho Brahe, enunciò le leggi che mettono in relazione il periodo di rivoluzione dei pianeti con le loro orbite di forma ellittica, e non circolare come voleva il dogma aristotelico. Il filosofo francese Auguste Comte, che verso il 1850 sognava di trasformare la Terra «in un giardino dell’Eden disseminato di templi a Newton», è anche famoso per aver sostenuto che la separazione fra la Terra e le stelle non sarebbe mai stata colmata, e che sarebbe stato impossibile conoscere la loro temperatura e composizione chimica. «Lasciate perdere – diceva – le teorie cosmologiche. Il Sistema solare è l’unico soggetto di conoscenza. Studiare le stelle è soltanto un lusso da curiosi, e gli astronomi che ormai le osservano da quasi un secolo (si riferiva a Fraunhofer, Bessel e Herschel) cominciano a essere giustamente sospettati di fare cose frivole e irrazionali». Invece, numerosi progressi sono stati fatti nei quasi due secoli che ci separano da queste affermazioni di Comte. Grazie alla spettroscopia, cioè la scomposizione della luce bianca nelle sue componenti monocromatiche, siamo riusciti a conoscere la loro 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 163 05_capitolo.indd 163 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 composizione chimica, a sapere come e perché le stelle brillano ed evolvono. Abbiamo imparato i segreti del «fuoco nucleare» che le alimenta, forse né più né meno tremendi dei segreti del fuoco di legna che migliaia di anni fa imparammo ad accendere e conservare nei templi e nelle capanne. È da meno di un secolo che abbiamo capito che la Via Lattea non è tutto l’Universo, ma che al di là della nostra esistono miliardi di altre galassie, che ruotano, hanno forme e dimensioni differenti, si raggruppano in enormi ammassi all’interno di uno spazio che sta continuamente dilatandosi. Tutte insieme formano un Universo che sembra insondabile, e che tuttavia misuriamo e pesiamo proprio in base ai moti e all’attrazione reciproca che le galassie e gli ammassi galattici esercitano l’uno sull’altro. In realtà, fra materia visibile e non visibile, si ritiene che l’Universo abbia una massa di circa 1055 grammi; e una densità stimata fra 10-29 e 10-31 g/cm3. ••2 Ma all’inizio che accadde? All’inizio esplose una «palla di fuoco». Sembra un’espressione inventata da un artificiere, ma riassume le conclusioni dei cosmologi contemporanei sull’origine dell’Universo e giustifica perché questo Universo sia stato chiamato violento e lo si continui a vedere popolato di astronomici mostri. La si potrebbe considerare la versione scientifica di quello stupendo terzo versetto della Genesi: «Disse Dio: “Si faccia la luce”. E la luce fu». Lo comprese alla perfezione il pacifico canonico di Lovanio, George Lemaître, ingegnere e matematico, che prima di diventare sacerdote aveva servito come artigliere nella guerra del 1915-18. Forse è proprio da attribuirsi a quest’ultima attività bellica, oltre che alla scoperta di Edwin Powell Hubble della «fuga delle galassie», che a lui per primo nel 1931 venne l’idea dell’Universo nato da una specie di superbomba, battezzata «atomo primitivo e quasi un isotopo di un neutrone». Come accordare meglio di così scienza e ortodossia, ragione e fede? Ma cosa c’era prima? In uno dei suoi libri, George Gamow scrive che non si può dire niente al riguardo di un’epoca «che si dovrebbe giustamente chiamare “era agostiniana” perché fu Sant’Agostino d’Ippona a chiedersi che cosa facesse Dio avanti di creare il cielo e la Terra». Evitando di ribattere come quel tale di cui si racconta che, eludendo scherzosamente la difficoltà della domanda, rispose: «Preparava l’inferno per coloro che voglion scrutare gli arcani», Agostino afferma che «Dio prima di creare il cielo e la Terra, non faceva nulla. E invero se faceva qualche cosa, poteva fare altro che una creatura?» Oggi i filosofi sosterrebbero che questo è un «falso problema» e gli scienziati aggiungerebbero che non ha significato chiedersi che cosa ci sia stato prima della «grande esplosione»: sarebbe come arzigogolare che cosa c’è a Nord del Polo Nord. Analogamente, non ha senso chiedersi dove questa grande 164 05_capitolo.indd 164 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 ••2 L’ammasso di galassie nella costellazione della Vergine. Questa è la parte centrale di un enorme superammasso, attorno a cui orbita in estrema periferia anche la nostra Via Lattea. Nella parte superiore dell’immagine si nota un allineamento di galassie quasi a contatto, detto Catena Markarian, mentre tutta la zona è dominata da tre galassie ellittiche giganti, da sinistra a destra: M87, M86 e M84. (BIG PIC, PALOMAR QUEST TEAM, CALTECH) esplosione sia avvenuta, perché non era un oggetto isolato nello spazio, ma era l’Universo intero, anche se puntiforme, e perciò la sola risposta possibile è che era dappertutto. Quindi, non si deve pensare che la «palla di fuoco» esplosa con il Big Bang fosse paragonabile a una supernova, perché non c’erano confini e un centro dell’Universo non esisteva allora come non esiste oggi. Una delle cose più importanti da ritenere è piuttosto che la sua densità doveva essere altissima e la temperatura raggiungere e superare di gran lunga i 10 miliardi di gradi K: valori deducibili dall’attuale densità, temperatura ed età dell’Universo e dall’energia con cui si espande. A tale proposito, si deve aggiungere che la «grande esplosione» è sempre in atto, come la materia originale e la radiazione che seguitano a far espandere l’Universo in cui viviamo. Una delle prove più consistenti che l’Universo ebbe un’origine esplosiva e che allora la sua temperatura eccedeva i 10 miliardi di gradi K – a parte la grande scoperta di Hubble del 1929, sulla qua- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 165 05_capitolo.indd 165 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 le ci soffermeremo, sul crescere della velocità di allontanamento delle galassie in proporzione alla loro distanza – si è avuta dalla constatazione di un Universo tuttora pervaso da un certo calore, che non è quello diffuso dalle galassie. Si tratta, come vedremo, della cosiddetta «radiazione fossile», ipotizzata fin dal 1946 da Gamow e misurata poi effettivamente da Arno Penzias e Robert Wilson nel 1965. Questa notizia mise tutti gli astronomi in subbuglio e concluse, almeno per il momento, un dibattito annoso fra la cosiddetta teoria dell’Universo stazionario, e quella evolutiva dell’espansione dell’Universo, prospettata precedentemente da Lemaître. L’idea di un Universo in espansione originato da un punto a densità e temperatura infinite – idea che va sotto il nome di teoria del Big Bang – è sconcertante, tanto è vero che non tutti gli scienziati l’accettarono inizialmente. Una parte consistente e autorevole dell’ambiente scientifico – capeggiata da tre famosi astrofici, Fred Hoyle, Hermann Bondi e Tommy Gold – rifiutò quest’idea e propose l’ipotesi alternativa dello stato stazionario, che postula un Universo immutabile nel tempo e nello spazio. Hoyle, Bondi e Gold sostenevano che un osservatore, posto in un punto qualsiasi e in un qualsiasi momento del tempo, avrebbe sempre la stessa visione dell’Universo. Quindi ipotizzarono un Universo uniforme nello spazio e nel tempo, diversamente dal modello del Big Bang che si evolve. Secondo questa ipotesi, l’Universo non ha principio né fine, e supplisce alla rarefazione causata dall’espansione con la continua creazione di nuova materia (una specie di vuoto creativo). Facendo i conti, risultava che sarebbe bastata una minima quantità di materia all’anno per compensare l’espansione: circa dieci atomi di idrogeno ogni metro cubo ogni miliardo di anni. Una quantità tanto piccola da sfuggire a ogni possibilità di osservazione. Anche l’idea della creazione continua della materia non era facilmente accettabile, però i difensori dell’Universo stazionario sostenevano che è comunque più ammissibile che si crei un atomo di idrogeno all’anno in un volume molto grande, che ammettere la creazione dell’Universo da un punto a temperatura e densità infinite. La teoria evolutiva, invece, risalendo indietro nel tempo come un film proiettato a rovescio, otteneva la contrazione di un Universo, che, dopo miliardi d’anni, finiva per raggiungere le altissime densità dell’atomo primitivo. Quell’atomo, in considerazione non solo della densità, ma anche della temperatura, divenne per i cosmologi che approfondirono i suggerimenti di Lemaître, come Gamow, la «palla di fuoco» che produsse il Big-Bang oltre 10 miliardi di anni fa. Le due teorie, quella del Big Bang e quella dell’Universo stazionario, rimasero ugualmente possibili, almeno in base ai dati di 166 05_capitolo.indd 166 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 cui si disponeva all’inizio degli anni Sessanta. Circa la metà degli scienziati credeva (e il verbo «credere» è stato scelto proprio per indicare che si trattava di un vero atto di fede) all’idea dell’Universo stazionario e altrettanti credevano all’idea del Big Bang. Questa situazione si risolse grazie ad alcune scoperte, che, come vedremo nei prossimi paragrafi, fornirono graduali conferme alla teoria dell’Universo in espansione. L’UNIVERSO IN ESPANSIONE ••3 L’Universo come un panettone che lievita. L’espansione cosmica avviene in 3 dimensioni: lo spazio intergalattico si dilata, mentre le galassie (che sono governate dalla gravità) restano inalterate. Esattamente come in un panettone che lievita, la pasta (spazio) si gonfia fra le uvette (galassie) che rimangono inalterate. Notiamo che ciascuna uvetta resta ferma nella sua posizione dentro la pasta, ma si allontana contemporaneamente da tutte le altre. Così le galassie nell’espansione cosmica restano ferme nello spazio, pur allontanandosi l’una dall’altra. Si vede anche come la densità delle uvette si riduce mentre il panettone si gonfia: nello stesso modo la densità dell’Universo diminuisce con l’espansione. Nell’esempio considerato del dolce che lievita, quest’ultimo ha un’estensione limitata e noi lo guardiamo dall’esterno. L’Universo invece è illimitato e non ha un centro, ma noi lo osserviamo dall’interno come se stessimo su un’uvetta entro un panettone sconfinato. Negli anni Venti, l’astrofisico americano Edwin Hubble, che si dedicò allo studio sistematico delle galassie, scoprì che tutte le galassie si stanno allontanando da noi con una velocità che è proporzionale alla loro distanza. Questo fatto viene spesso interpretato in maniera sbagliata; si parla di «fuga delle galassie» come se noi fossimo al centro dell’Universo e tutte le galassie s’allontanassero da noi. In realtà le cose non stanno così; l’interpretazione giusta è che le galassie sono immerse in uno spazio che si espande. Espandendosi porta con sé le galassie, per cui, quanto più lontana è una galassia, tanto maggiore sembra la sua velocità. Un esempio gastronomico dell’Universo è dato dalla pasta di un dolce che si gonfia sotto l’azione del lievito: se nella pasta sono immerse delle noccioline, via via che la pasta si gonfia uniformemente in tutte le direzioni tutte le noccioline si allontanano le une dalle altre. Se dopo un tempo t le distanze nello spazio sono raddoppiate, un osservatore posto su una qualsiasi galassia vedrà la galassia A, che era posta a distanza d da lui, portarsi a distanza 2d e la galassia B, che era a distanza 2d, portarsi a distanza 4d. Quindi, gli sembrerà che A si sia allontanata a velocità v= d/t e B a velocità 2d/t, cioè proprio il risultato trovato da Hubble: la velocità di allontanamento cresce proporzionalmente alla distanza. ••3 (WWW.FERLUGA.NET) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 167 05_capitolo.indd 167 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Hubble arrivò a questa scoperta studiando gli spettri delle galassie. Scoprì che le righe spettrali caratteristiche dei vari elementi chimici erano sempre spostate verso il rosso rispetto alla posizione tipica misurata in laboratorio (cioè a lunghezza d’onda maggiore e quindi a frequenza minore). Applicò allora ai dati rilevati la legge dell’effetto Doppler, secondo la quale i suoni o le onde luminose emessi da una sorgente sonora o luminosa ci arrivano con frequenza maggiore (quindi lunghezza d’onda minore) quando la sorgente s’avvicina, e con frequenza minore (quindi lunghezza d’onda maggiore) quando la sorgente s’allontana. Si tratta di un effetto che si sperimenta spesso in ambito acustico. A tutti è sicuramente capitato di ascoltare il clacson di un’automobile che ci incrocia sull’autostrada o la sirena di un’ambulanza: quando la sorgente (automobile o ambulanza) si avvicina, il suono è più acuto, quando la sorgente ci ha incrociato e s’allontana, il suono diventa più grave. Così, partendo dalla differenza tra la lunghezza d’onda di laboratorio e quella osservata, e sapendo grazie all’effetto Doppler che la lunghezza d’onda varia in funzione della velocità, Hubble riuscì a calcolare la velocità di allontanamento delle galassie. ••4 Scoprì poi, confrontando lo spostamento delle righe spettrali di galassie di cui era nota approssimativamente la distanza, non solo che tutte le galassie si allontanano da noi, ma che la velocità di allontanamento cresce regolarmente al crescere della distanza. Per definire più esattamente la legge con cui le galassie si allontanano, però, Hubble aveva bisogno di conoscere più esattamente la loro distanza. 168 05_capitolo.indd 168 ••4 L’effetto Doppler. Si chiama così la variazione della lunghezza d’onda osservata in funzione del movimento della sorgente, che può avvenire per effetto della velocità (Doppler classico), oppure a causa dell’espansione cosmica (Doppler cosmologico). Quando la sorgente si avvicina, la lunghezza d’onda si accorcia e quindi il suo colore si sposta verso il blu; quando invece si allontana, la lunghezza d’onda aumenta e il suo colore si sposta verso il rosso. Un effetto Doppler dipendente dalla velocità si può percepire anche nel caso delle onde sonore. Infatti, quando la sorgente è in avvicinamento, il tono del suono appare più acuto, mentre è più grave quando la sorgente si allontana (come ad esempio per la sirena di un treno). CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 Misurare la distanza dei corpi celesti, in generale, e delle galassie, in particolare, non è facile. Misure dirette, usando metodi in tutto analoghi alle triangolazioni fatte dai geometri, sono possibili solo per i corpi del Sistema solare e per le stelle più vicine, poste a una distanza inferiore a un migliaio di anni luce. Ma poiché a determinate caratteristiche fisiche delle stelle – quali possono derivare dallo studio del loro spettro – corrisponde anche una ben definita luminosità assoluta, è possibile stimare il valore di quest’ultima. Sappiamo inoltre che la luminosità diminuisce secondo una legge nota man mano che ci si allontana dalla sorgente; allora, misurando con gli strumenti a Terra la luminosità apparente dell’oggetto e confrontandola con il valore stimato della luminosità assoluta, è possibile calcolare la distanza, almeno approssimativamente. Così per le galassie più vicine, in cui è possibile scorgere le singole stelle, si può assumere che quest’ultime, a parità di caratteristiche spettrali, abbiano anche la stessa luminosità assoluta di quelle della nostra Galassia, e di conseguenza si ricava la distanza della galassia di cui fanno parte. Un altro prezioso metodo di misura delle distanze è fornito dalle cosiddette variabili cefeidi, che abbiamo già descritto nel quarto capitolo. È stato infatti scoperto che la loro luminosità assoluta cresce regolarmente al crescere del periodo di variabilità (intervallo di tempo fra due successivi massimi o minimi di luce). Cosicché basta misurarne le variazioni luminose e determinare il periodo per conoscerne la luminosità assoluta. Però, dato che la maggioranza delle galassie è tanto lontana che appare come una macchiolina, e nessuna stella è distinguibile, bisogna ricorrere a metodi di tipo statistico, simile a quelli che utilizziamo anche intuitivamente in alcune occasioni quotidiane. Facciamo un esempio di valutazione della distanza basata su un metodo statistico. Gli esseri umani hanno un’altezza media che si aggira intorno al metro e settanta; sapendo questo, posso valutare la distanza di una persona a seconda dell’angolo sotto cui la vedo. In questo modo, riusciamo a stimare la distanza proprio perché ne conosciamo più o meno l’altezza. Lo stesso succede per qualunque altro oggetto di cui conosciamo approssimativamente le dimensioni, il nostro cervello lo colloca immediatamente alla giusta distanza. Tornando al calcolo delle distanze delle galassie, esse vengono raggruppate in categorie con caratteristiche morfologiche simili: a seconda della forma avremo galassie a spirale, a spirale barrata, ellittiche, irregolari… Supponiamo che tutte le galassie appartenenti a una certa categoria abbiano anche caratteristiche fisiche simili (ad esempio si può immaginare che abbiano tutte la stessa luminosità assoluta o le stesse dimensioni). A questo punto, se sono veri questi criteri 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 169 05_capitolo.indd 169 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 di base, potremo dedurre che quanto più debole ci appare una galassia appartenente a una certa popolazione tanto più lontana sarà rispetto alle altre sue compagne dello stesso tipo morfologico. Viceversa, quanto più lontana è una galassia tanto più ci sembrerà debole e più piccole ci sembreranno le sue dimensioni. Un altro metodo di misura delle distanze si basa su una classe di supernovae dette «--l a» che avrebbero tutte le stesse caratteristiche fisiche e quindi anche la stessa luminosità assoluta all’epoca del massimo splendore. Data la loro grande luminosità assoluta, esse sono ancora visibili nelle galassie più lontane, permettendoci così di misurare l’espansione dell’Universo fino a distanze di 13 miliardi di anni luce e scoprire la misteriosa energia oscura che accelererebbe l’espansione. Dunque, Hubble scoprì grazie all’allontanamento delle galassie che l’Universo è in espansione. Conoscendo poi la velocità di espansione è possibile ricavare l’età dell’Universo, come vedremmo nelle prossime pagine. Percorrendo l’evoluzione dell’Universo a ritroso, si arriva a un fatto che può sembrare sconvolgente: all’inizio, tutta la materia doveva essere compressa in un volume estremamente piccolo. Quando si comprime la materia, questa si riscalda e diventa prima completamente gassosa, poi, via via si riduce a particelle elementari in un volume il cui raggio tende a zero e la cui densità e temperatura tendono all’infinito. Pensare che tutto l’Universo che conosciamo possa essere ridotto a un punto, a temperatura e densità infinite, non è facilmente accettabile per la nostra immaginazione. Un simile stato in matematica viene chiamato «una singolarità», ma in fisica non ha molto senso e la nostra difficoltà di immaginazione riflette solo la nostra ignoranza su come si comporta la gravità quando si ha a che fare con materia in uno stato così estremo. Secondo la fisica quantistica, le dimensioni più piccole possibili sono centinaia di miliardi di volte più piccole di un nucleo dell’atomo di idrogeno che è 10-13 cm, e pari alla cosiddetta lunghezza di Planck che è 10-33 cm. La cosmologia moderna, basandosi anche su molti dati osservativi, è in grado di ripercorrere la storia dell’Universo fino a quando aveva l’età di un centomillesimo di un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo (10-32 secondi). Più oltre, le nostre osservazioni sperimentali non vanno; siamo ai limiti della speculazione. LA RADIAZIONE FOSSILE Verso la fine degli anni Quaranta, l’astrofisico russo-americano George Gamow, come abbiamo già ricordato all’inizio di questo capitolo, dedusse che se l’Universo avesse davvero avuto origine 170 05_capitolo.indd 170 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 dal Big Bang iniziale e se la sua età fosse superiore a 10 miliardi di anni – come indicava l’età degli oggetti celesti più vecchi che si conoscevano – con l’espansione si sarebbe dovuto raffreddare fino a una temperatura calcolabile teoricamente. Supponendo che l’Universo dell’età di pochi secondi avesse una temperatura di molti miliardi di gradi, Gamow calcolò che la temperatura attuale dovrebbe essere di qualche grado assoluto. La radiazione corrispondente a questa temperatura, chiamata radiazione fossile, dovrebbe permeare uniformemente tutto l’Universo. La previsione teorica di Gamow ha trovato una conferma nel 1965. Due tecnici della Bell Telephone Company, Robert Wilson e Arno Penzias, cercavano le cause di un disturbo nelle trasmissioni a microonde, verso e dai satelliti artificiali, rivolgendo la loro antenna a corno, una specie di grande cornetta acustica, in tutte le direzioni. Scoprirono un rumore di fondo, costante, uguale in tutte le direzioni del cielo. Si resero immediatamente conto che non poteva essere un disturbo terrestre, ma doveva avere origine nel cosmo. La storia si ripeteva: nel 1933, dopo anni di esperimenti cominciati nel 1929, Karl Jansky, radioingegnere della Bell Telephone Company, aveva scoperto che i disturbi alle trasmissioni transoceaniche erano di chiara origine cosmica e che provenivano, più precisamente, proprio dalla nostra Galassia. La causa di questo rumore costante rimase però avvolta nel mistero, fino a che la notizia fu pubblicata sulla rivista «Nature» e colpì l’attenzione di Robert Dicke e James Peebles, astrofisici teorici che lavoravano a Princeton; conoscevano la teoria di Gamow e non fu loro difficile collegarla con questo rumore di fondo. Capirono che effettivamente si era scoperta la radiazione cosmica, residuo dell’esplosione primeva da cui ha avuto origine l’Universo. Questa era la più bella riprova che l’Universo è stato effettivamente originato dal Big Bang e, per quanto i sostenitori della teoria alternativa abbiano tentato d’aggirarla, non è stato possibile spiegare la radiazione cosmica – o radiazione fossile, come è stata chiamata – con l’ipotesi dell’Universo stazionario. Dunque nel 1965 erano due i fatti fondamentali che sostenevano saldamente la teoria del Big Bang, che ormai godeva di molto credito e vantava moltissimi sostenitori: l’espansione dell’Universo e la radiazione fossile. Ricorriamo a una metafora per spiegare il modello di Universo che si presentava dopo queste scoperte. Possiamo immaginare di trovarci all’interno di un grande contenitore, un forno per esempio; all’inizio la temperatura è altissima. Supponiamo poi che le pareti del forno si dilatino, allora il gas contenuto nel forno va raffreddandosi. Noi siamo immersi in questo forno – l’Universo – che, dopo un’espansione durata quasi 14 miliardi di anni, ha raggiunto una 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 171 05_capitolo.indd 171 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 temperatura estremamente bassa, di circa 3 gradi assoluti, che corrispondono alla radiazione fossile. Oggi lo studio della radiazione fossile, detta anche radiazione cosmica di fondo, rappresenta il principale strumento per la conoscenza delle prime fasi evolutive dell’Universo. Questa radiazione ha le caratteristiche spettrali tipiche dell’emissione termica, che accomuna tutti i corpi caldi, con un andamento dipendente dalla temperatura detto curva planckiana. Da quest’andamento, che la radiazione di fondo riproduce con grande precisione, si può ricavare per l’Universo attuale una temperatura di circa 3 kelvin (ovvero -270°C). ••5 TRE SOLIDI PILASTRI Abbiamo visto fino a questo punto come si sia arrivati a formulare una teoria sulle origini dell’Universo, ma per descriverne in modo più completo le caratteristiche attuali, avremmo bisogno di conoscerne anche la densità media, che invece è nota con un errore notevole. Sappiamo, infatti, che la densità media attuale è compresa tra 10-29 e 10-31 grammi per centimetro cubo. Sono valori estremamente bassi, quasi inimmaginabili: 10-29 grammi per centimetro cubo – cioè il valore estremo più alto – corrispondono a un centesimo di miliardesimo, di miliardesimo, di miliardesimo di volte la densità dell’acqua (pari a 1 grammo per centimetro cubo); nell’altro caso, 10-31 grammi per centimetro cubo, la densità è cento volte più bassa. Il valore intermedio, 10-30 grammi per centimetro cubo, corrisponde a 1 atomo di idrogeno per metro cubo. 172 05_capitolo.indd 172 ••5 La radiazione di corpo nero e il fondo cosmico a microonde. La temperatura corrispondente alla radiazione fossile si calcola in base alla legge del corpo nero. Si dice corpo nero un corpo che ha la proprietà di assorbire completamente tutte le radiazioni che riceve. Un tale corpo emette a sua volta radiazione, secondo una legge trovata da Planck: precisamente emette radiazione con lunghezze d’onda comprese fra zero e infinito, distribuite su una curva a campana rovesciata. Il grafico spazia dalle radioonde ai raggi X, evidenziando a colori la luce visibile. Si nota che le «gobbe» delle curve si spostano a destra quando le temperature aumentano, cioè il massimo è a una lunghezza d’onda tanto più breve quanto maggiore è la temperatura (legge di Wien). Questo è il motivo per cui il fuoco è rosso, mentre il fulmine (molto più caldo) è violetto. In altre parole, il prodotto della temperatura T per la lunghezza d’onda L è costante (LT = costante). Si vede ancora nel grafico che le curve sono più alte, quando si riferiscono alle temperature maggiori. Ciò significa che a ogni lunghezza d’onda, l’intensità della radiazione è tanto maggiore quanto maggiore è la temperatura. La radiazione fossile (fondo cosmico a microonde), entro i limiti degli errori delle nostre osservazioni più raffinate, coincide esattamente con la curva di un corpo nero alla temperatura di 2,735 K. (curva rossa). CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 Conosciamo, dunque, la temperatura e solo approssimativamente la densità dell’Universo. Le relazioni tra densità, volume e temperatura nei gas ci dicono che sia densità sia temperatura crescono con il diminuire del volume. Se approssimiamo l’Universo a una grande sfera di raggio R, la densità cresce in modo inversamente proporzionale al cubo del raggio (dato che il volume della sfera è 4/3πR3). La temperatura, invece, cresce semplicemente in modo inversamente proporzionale al raggio. Questo si può capire tenendo presente che la temperatura della radiazione corrisponde alla sua energia e che l’energia dei fotoni, cioè delle unità elementari di radiazione, è tanto maggiore quanto più piccola è la lunghezza d’onda. Una radiazione con una lunghezza d’onda corta (ad esempio i raggi X) è più energetica di una radiazione con lunghezza d’onda maggiore (ad esempio luce visibile). Poiché la lunghezza d’onda, come tutte le lunghezze, aumenta con l’espansione, l’energia dei fotoni e quindi la temperatura T diminuiscono al crescere del raggio R. Da queste due relazioni, tra densità e volume e fra temperatura e volume, si può calcolare (dai valori attuali di temperatura e densità) quelli che dovevano essere i valori della temperatura e della densità dell’Universo in qualsiasi epoca passata. Si possono allora ripercorrere le tappe fondamentali della storia dell’Universo e confrontare i dati osservativi con le previsioni del modello del Big Bang per avere così una conferma della teoria. Tra i 3 e i 5 minuti circa dopo il Big Bang, si calcola che la temperatura doveva essere dell’ordine di 1 miliardo di gradi e la densità compresa fra un decimo e dieci volte la densità dell’acqua. In queste condizioni, i nuclei di idrogeno (protoni) potevano combinarsi per dar luogo alla formazione di deuterio, cioè di idrogeno pesante, e di elio. Si può calcolare che in quell’epoca iniziale si sia formato un nucleo di deuterio ogni 100.000 nuclei d’idrogeno e una certa quantità di elio corrispondente a circa il 25% della materia contenuta nell’Universo; il rimanente 75% sarebbe stato idrogeno (protoni). Questi sono valori calcolati teoricamente in base al modello del Big Bang. Prima dei tre minuti, nessun nucleo più pesante del singolo protone era stabile; dopo cinque minuti dal Big Bang, l’Universo, espandendo, era diventato troppo freddo e troppo poco denso perché potessero aver luogo queste e altre reazioni nucleari più complesse, in grado cioè di formare elementi più pesanti. Dall’analisi degli spettri delle stelle e delle nebulose interstellari si può risalire alla loro composizione chimica e, dato che stelle e nebulose sono le unità di base dove si concentra la materia dell’Universo, calcolare in definitiva quanto idrogeno, elio, deuterio ci sono nell’Universo. I risultati dicono che c’è un atomo di deuterio ogni 100.000 atomi di idrogeno e che l’elio rappresenta circa il 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 173 05_capitolo.indd 173 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 28% della massa dell’Universo. Questi valori vanno perfettamente d’accordo con le previsioni teoriche. Per quanto riguarda l’elio, quel 3% di elio in più rispetto al 25% che si sarebbe formato fra 3 e 5 minuti dopo il Big Bang corrisponde, infatti, all’elio sintetizzato, come abbiamo visto nel capitolo quarto, all’interno delle stelle durante la loro evoluzione. È stato calcolato che in tutta la vita della Galassia la quantità di elio che può essersi formata all’interno delle stelle ammonta proprio al 2 o 3% della massa della Galassia. Così i conti tornano perfettamente. Il modello del Big Bang, inoltre, rende conto anche della formazione del deuterio, altrimenti inspiegabile. Il deuterio, infatti, non può essersi formato nell’interno delle stelle, perché è abbastanza instabile e viene distrutto a temperature di appena mezzo milione di gradi, cioè a temperature molto inferiori a quelle tipiche dell’interno delle stelle (decine o centinaia di milioni di gradi). In natura, però, il deuterio esiste; si tratta allora di capire da dove trae origine. La soluzione la fornisce il Big Bang: il deuterio si è formato proprio in quei primi minuti di vita dell’Universo. Le abbondanze cosmiche di deuterio e di elio sono dunque una terza prova, fortissima, in favore dell’ipotesi del Big Bang. Perciò, allo stato attuale dell’arte, questa teoria poggia su almeno tre solidi pilastri: l’espansione dell’Universo, la scoperta della radiazione fossile e l’abbondanza cosmica di deuterio e di elio. L’ETÀ DELL’UNIVERSO A queste tre prove se ne aggiunge un’altra: l’età dell’Universo. Calcolare l’età dell’Universo è un problema di non facile soluzione. Si parte dalla legge di espansione scoperta da Hubble, in cui si afferma che la velocità di allontanamento delle galassie, v, è proporzionale alla loro distanza, d, secondo una costante, chiamata appunto costante di Hubble e che si indica con H: v =Hd La costante di proporzionalità H è misurata in km/s per megaparsec (ricordiamo che un megaparsec equivale a 3,26 milioni di anni luce). Consideriamo due galassie qualsiasi separate da una certa distanza. Le due galassie si allontanano l’una dall’altra a una certa velocità; è ovvio che nel passato erano più vicine e che nel futuro la loro distanza aumenterà ancora. Se supponiamo che l’espansione sia sempre stata uguale, conoscendo la velocità e la distanza attuale delle due galassie, è possibile risalire al momento in cui è iniziata l’espansione. In particolare, svolgendo qualche calcolo, dato che H è una velocità divisa per una lunghezza (H =v/d ) e la velocità è a sua volta una lunghezza divisa per un tempo, ne 174 05_capitolo.indd 174 ••6 L’Universo osservabile è una sfera attorno all’osservatore (sfera di Hubble), circondata dalla radiazione cosmica di fondo. Infatti la luce che raggiunge un osservatore da grandi distanze arriva dopo un viaggio che richiede miliardi di anni; tale viaggio però può durare al massimo 13,7 miliardi di anni, pari all’età dell’Universo. Pertanto la massima distanza da cui ci arrivano informazioni risulta pari a 13,7 miliardi di anni luce in ogni direzione: questo è il raggio di una superficie sferica cava, chiamata orizzonte cosmico perché limita l’Universo accessibile attorno all’osservatore, posto nel centro. La radiazione di fondo è una luce che proviene dalle vicinanze dell’orizzonte cosmico e che si è sprigionata 13,7 miliardi di anni fa, quando si formavano i primi atomi e l’Universo era ancora incandescente. Questa luce si chiama anche radiazione fossile poiché ci fa vedere, su tutta la volta celeste, il cielo primordiale rovente (fotosfera primordiale) che circondava il luogo in cui ora viviamo. La temperatura era di 3000 K, ma poi l’Universo si è espanso e raffreddato di 1000 volte, fino agli attuali 3 K. La figura mostra l’Universo osservabile (visto dall’esterno), pieno di ammassi di galassie (macchioline bianche), delimitato dalla radiazione fossile (in verde), con la Terra – o meglio l’osservatore – nel centro. Le macchioline colorate sono le condensazioni primordiali (mappate dal satellite WMAP) che evolveranno in ammassi, mentre i puntini nella piccola zona centrale sono le galassie vicine alla Terra (dal catalogo CfA). La distribuzione degli ammassi di galassie è un disegno, perché non è ancora nota per intero. (WWW.FERLUGA.NET) CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 segue che H è il reciproco di un tempo. L’età dell’Universo è data, quindi, dall’inverso della costante H. Per determinare la costante H, bisogna conoscere la velocità d’espansione e la distanza di molte galassie. La velocità si misura abbastanza facilmente dai dati spettroscopici, mentre la distanza è un dato molto più incerto perché basato su dati statistici, come già ricordato. Così il valore della costante ha subito molti ritocchi. Attualmente si ritiene che la costante di Hubble sia compresa tra 50 e 80 km/s per megaparsec. Le prime misure di Hubble erano però molto diverse. Egli aveva infatti trovato H = 520 km/s per megaparsec: cioè via via che la distanza aumentava di 1 megaparsec, la velocità cresceva di 520 chilometri al secondo. Facendo l’inverso di questo valore, si trovava che l’età dell’Universo era di appena 2 miliardi d’anni. Un valore impossibile, dato che la 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 175 05_capitolo.indd 175 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 geologia ci dice che l’età della Terra è di 4,6 miliardi d’anni e che il nostro Sistema solare ha circa 5 miliardi d’anni. Quindi com’era possibile che l’Universo fosse cominciato dopo che si era formato il Sistema solare? Le correzioni successive portarono a 200 km/s per megaparsec il valore della costante di Hubble, di conseguenza l’età dell’Universo saliva a 5 miliardi di anni, sempre troppo pochi, perché permettono di spiegare soltanto l’età del Sole e del Sistema solare, mentre la teoria dell’evoluzione stellare ci mostra con certezza che ci sono stelle di 10 o addirittura 13 miliardi di anni. Quindi le cose ancora non quadravano. Col migliorare dei sistemi di misura delle distanze, oggi siamo arrivati a stimare il valore della costante di Hubble in circa 70 km/s per megaparsec: un valore quasi sette volte più piccolo di quello che aveva stimato Hubble, corrispondente a un’età dell’Universo quasi sette volte più grande. La stima attuale dell’età dell’Universo è compresa fra circa 13,6 e 13,7 miliardi di anni, con un margine di incertezza di soli 100 milioni di anni. Lo studio della cosmologia ci porta inevitabilmente indietro nel tempo. Le informazioni che ci giungono dagli oggetti celesti sono trasmesse dalla radiazione elettromagnetica (luce, raggi ultravioletti, onde radio…), che, come abbiamo già avuto modo di vedere, viaggia nel vuoto con una velocità finita di circa 300.000 chilometri al secondo, la massima velocità consentita in natura. Questo ci permette di studiare l’Universo non solo a diverse distanze nello spazio, ma anche a diverse distanze nel tempo. La radiazione che osservo oggi sulla Terra proveniente da un oggetto posto a 10 miliardi di anni luce si riferisce, infatti, all’oggetto com’era nel passato, 10 miliardi di anni fa, quando l’Universo era molto più giovane di oggi. ••6 Quando osservo una galassia a 2 milioni di anni luce, la vedo com’era 2 milioni di anni fa; la vedo, quindi, in scala astronomica, com’era ieri e non com’è oggi. Per questo, confrontando le caratteristiche delle galassie vicine e di quelle lontane, possiamo avere un’idea dell’evoluzione dell’Universo. Si constata che tutte le galassie a distanze superiori ai 5 miliardi di anni luce hanno un nocciolo centrale estremamente luminoso rispetto alla parte circostante, una caratteristica che le differenzia da quelle più vicine a noi, che si trovano entro un raggio di un miliardo di anni luce. La nostra Galassia, ad esempio, è costituita da una parte centrale più brillante, circondata da bracci a spirale. La luminosità della parte centrale corrisponde a meno di un decimo della luminosità di tutta la Galassia; più o meno questi stessi valori valgono per le galassie vicine. Le galassie più distanti, oltre i 5 miliardi di anni luce, emet176 05_capitolo.indd 176 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 tono anche raggi X, raggi g, onde radio ecc., che testimoniano un’intensa attività nel loro nucleo, attività che è evidentemente molto diminuita nelle fasi successive. LE FORZE DELL’UNIVERSO Man mano che ci allontaniamo nello spazio e nel tempo e ci avviciniamo quindi alle origini dell’Universo, ci troviamo di fronte al coinvolgimento di forze che rivelano il nesso tra cosmologia e fisica delle particelle, cioè tra la fisica dell’estremamente grande e la fisica dell’estremamente piccolo: scopriamo che, forse, sono proprio le leggi e le forze che governano i fenomeni subatomici ad aver delineato la struttura dell’Universo come oggi lo conosciamo e la strada della sua evoluzione. Secondo il modello standard della fisica delle particelle, la materia dovrebbe essere costituita da due tipi di particelle, leptoni e quark, e quattro sono le forze, o interazioni, fondamentali: l’interazione gravitazionale, l’interazione elettromagnetica, l’interazione debole e l’interazione forte. Ognuna di queste ha delle caratteristiche proprie e un suo campo di azione. Abbiamo già citato l’azione di queste forze nelle pagine passate, ora cercheremo di approfondirne brevemente le caratteristiche più importanti. • La gravità fa sì che i corpi si attraggano a vicenda con un’intensità tanto maggiore quanto più grande è la loro massa e quanto più piccola è la distanza che li separa. Costante caratteristica è la costante di gravitazione universale (G=6,6720 10-11 Nm2kg-2): tra le quattro interazioni fondamentali è la più debole, ma è quella con il raggio di azione più grande e quindi domina a grandi distanze. Sistemi solari, ammassi di stelle, galassie, ammassi di galassie… sono tenuti insieme dalla gravità. La prima teoria della gravitazione è stata formulata da Isaac Newton nel XVII secolo. Albert Einstein nel 1916 interpretò la gravità come una curvatura dello spaziotempo, che sarebbe deformato dalla materia: più una massa è grande maggiore è la deformazione, analogamente a quanto farebbe una pallina su un telo di gomma. • La forza elettromagnetica agisce tra corpi elettricamente carichi e può essere attrattiva (tra cariche di segno opposto) o repulsiva (tra cariche dello stesso segno). L’unità fondamentale è la carica elettrica corrispondente alla carica dell’elettrone (e=1,602218892 10-19 coulomb), mentre non esiste una carica magnetica. La particella portatrice della forza elettromagnetica è il fotone. L’interazione elettromagnetica tiene insieme atomi e molecole (formati da cariche positive e negative) ed è molto più intensa della gravità, pur avendo una portata d’azione molto minore, entro un raggio 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 177 05_capitolo.indd 177 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 dell’ordine delle dimensioni delle molecole. James Clerk Maxwell nel XIX secolo ordinò le conoscenze sui fenomeni elettrici e magnetici in un sistema di equazioni differenziali che li unificava nell’elettromagnetismo e concluse che anche la luce è un fenomeno elettromagnetico prodotto dalle oscillazioni trasversali dello stesso mezzo che causa i fenomeni elettrici e magnetici. All’interno di questo sistema, tutte le onde elettromagnetiche, compresa la luce, differiscono fra loro unicamente per la frequenza delle oscillazioni. • La forza nucleare forte tiene insieme nei nuclei atomici i protoni, che la forza elettromagnetica tenderebbe a separare dato che sono elettricamente positivi. Questa interazione forte è molto più intensa di quella elettromagnetica, ma ha un raggio d’azione minore, che non supera le dimensioni del nucleo atomico (circa un centomillesimo del raggio atomico) e quindi è dominante all’interno del nucleo. Il problema di capire quale forza tenesse insieme i protoni nei nuclei degli atomi più pesanti dell’idrogeno (che ne ha solo uno), fu risolto grazie alla scoperta della forza nucleare forte, che viene «guidata» dai gluoni che assolvono il compito di collante fra queste particelle atomiche dello stesso segno (in inglese glue vuol dire «colla»). • La forza debole è responsabile del cosiddetto decadimento beta, quel processo per cui un nucleo emette spontaneamente un elettrone o un positrone (elettrone positivo). In pratica regola la trasmutazione di un elemento in un altro, che avviene quando un nucleo emette un elettrone o un positrone, e si trasforma in un elemento con un valore di carica successivo o precedente nella scala atomica. Una domanda che si pongono i cosmologi è come mai nell’Universo ci siano quattro forze. Perché questa complicazione quando, per esempio, già nel secolo scorso, Maxwell si accorse che elettricità e magnetismo erano due aspetti della stessa forza, l’elettromagnetismo? Non può darsi che nell’Universo primordiale, che si suppone estremamente più semplice (non c’erano stelle, né galassie, né particelle di vari tipi), ci fossero semplicemente fotoni, elettroni e quark, cioè la forma più elementare delle particelle che si conosca oggi? Perché allora quattro forze, se nell’Universo primordiale c’era una semplicità tale per cui sarebbe bastata una sola forza unificata? È un dato sperimentale che l’elettromagnetismo aumenta con la temperatura, mentre l’interazione debole diminuisce. È possibile dunque che a una certa temperatura le due forze vengano a coincidere. Partendo da questa idea, Abdus Salam e Steven Weinberg hanno dimostrato teoricamente che quando l’Universo era abbastanza giovane e caldo da avere una temperatura di un 178 05_capitolo.indd 178 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 ••7 Le quattro forze fondamentali della Natura sono la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole, la forza nucleare forte e la forza gravitazionale. Alle energie (temperature) molto elevate, ovvero nelle prime fasi di vita dell’Universo, le forze si unificano. Si sa che l’elettromagnetismo e la forza debole si combinano nella forza unificata elettrodebole. Si suppone poi che quest’ultima forza possa unificarsi alla forza nucleare forte nella Teoria Grande Unificata (GUT), che prevede l’inflazione cosmica. Infine con la teoria della Super Gravità (SG) si dovrebbe unificare anche la gravitazione, nelle prime fasi del Big Bang. milione di miliardi (1015) di gradi, l’elettromagnetismo e l’interazione debole dovevano essere due aspetti di un’unica forza. Questa previsione teorica fatta negli anni Sessanta è stata verificata sperimentalmente da Carlo Rubbia, al CERN, nel 1983. Quindi l’idea che effettivamente, andando a temperature sempre più alte, si debba avere un’unificazione delle forze fondamentali, trovava un sostegno molto forte. ••7 La temperatura necessaria per unificare l’elettromagnetismo e l’interazione debole di un milione di miliardi (1015) di gradi si raggiunge quando l’età dell’Universo è appunto un millesimo di miliardesimo (10-12) di secondo. Ecco perché siamo in grado di risalire alle condizioni fisiche dell’Universo fino all’età di un millesimo di miliardesimo di secondo. Oltre questo limite possiamo solo immaginare che a temperature ancora più alte anche l’interazione debole, l’elettromagnetismo e l’interazione forte siano diventate un’unica forza. Si suppone cioè che queste siano tre diversi aspetti d’una stessa forza, che si unifichino a una temperatura che si stima di 10 miliardi di miliardi di miliardi (1028) di gradi, quando l’età dell’Universo era di un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo (10-32) di secondo. La verifica di tali supposizioni non è certo alla portata degli strumenti attuali, e forse non lo sarà mai. Nulla ci impedisce però di andare ancora indietro con la fantasia. Si può pensare che a temperature ancora più elevate e a densità ancora più alte, anche la gravitazione si unifichi con le altre tre forze: si arriva allora a un Universo iniziale (10-43 sec) estremamente semplice costituito da un’unica forza fondamentale, fotoni e quark. Per ora queste idee rimangono confinate nel regno della speculazione. Non sappiamo nemmeno se le nostre leggi fisiche si possano 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 179 05_capitolo.indd 179 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 estrapolare ed estendere a condizioni così estreme come quelle iniziali, a una temperatura e una densità praticamente infinite. Certamente i fenomeni previsti dalla fisica quantistica dovrebbero essere dominanti. Concetti come le fluttuazioni quantistiche e l’indeterminazione spazio-temporale si usano in alcune teorie per descrivere lo stesso Big Bang. In tempi immediatamente successivi, avrebbe poi avuto luogo l’inflazione cosmica, una rapidissima dilatazione iniziale da cui sarebbe poi partita l’espansione dell’Universo. TUTTO DISCENDE DA UN CASUALE ECCESSO DI PARTICELLE Dunque, una volta ammessa come verosimile l’ipotesi della «palla di fuoco», gli scienziati, anche se non tutti, affermano come la Bibbia che la creazione fu essenzialmente un’esplosione di luce, un erompere di fotoni. Dopo un millesimo di secondo, la temperatura era un milione di miliardi di gradi Kelvin e i fotoni presero a collidere e a produrre coppie di particelle-antiparticelle. Poi, dopo un centesimo di secondo, materia e antimateria si annichilirono a vicenda dando luogo a una nuova generazione di fotoni. Rimaneva solo un piccolo casuale eccesso di particelle rispetto alle antiparticelle, forse dovuto al fatto che esiste una particella instabile, il kaone, la cui vita media è un cento milionesimo di secondo, appena più lunga di quella dell’antikaone. Così tutte le coppie di particelle-antiparticelle si sarebbero annichilite liberando un’enorme quantità di energia, che si ritiene abbia causato l’espansione dello spazio, e quindi la nascita di un Universo da quel minimo residuo di materia. Dopo 3 minuti, a causa dell’espansione, la temperatura era scesa a un miliardo di gradi consentendo la formazione di protoni e neutroni, ciascuno composto da tre quark, che prima, con una temperatura e quindi una velocità d’agitazione termica più alta, si sarebbero frantumati a causa degli urti. L’Universo era una zuppa di particelle veramente elementari, come neutrini, quark, elettroni. Protoni e neutroni danno luogo alle prime reazioni nucleari formando deuterio e i due isotopi dell’elio. Soltanto il 25% di tutta la massa della materia fece in tempo a trasformarsi in elio, prima che il progressivo raffreddamento dello spazio ne interrompesse la produzione. La maggior parte della materia restante era costituita da idrogeno e da un nucleo di deuterio ogni centomila di idrogeno. Dopo circa 8 minuti la temperatura era scesa troppo per permettere altre reazioni nucleari. L’Universo era a quel punto un miscuglio di protoni, nuclei di deuterio, elio 3 (l’isotopo meno ab180 05_capitolo.indd 180 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 bondante) ed elio 4, elettroni, neutrini e forse molte altre particelle sconosciute. Un altro stadio importante si verificò a circa 400.000 anni dall’istante del Big Bang quando la temperatura era scesa fino a 3000 gradi K e l’Universo era diventato trasparente. In precedenza l’Universo rovente era opaco, pervaso da una incandescenza diffusa, un po’ come accade al vetro uscito dalla fornace che all’inizio è luminoso e opaco e poi raffreddandosi diventa trasparente. Infatti, il moto degli elettroni liberi si era così rallentato che ormai non ne rimaneva quasi più nessuno. Tutti erano stati catturati dai nuclei, e in tali condizioni non potevano più diffondere i fotoni e generare opacità. Poiché il gas, da plasma formato da protoni ed elettroni liberi, si era trasformato in gas neutro trasparente composto di normali atomi, i fotoni da quel momento potranno viaggiare liberamente per miliardi di anni fino ad oggi. Questi fotoni formano la radiazione fossile e ci mostrano l’Universo com’era quando essi partirono quasi 14 miliardi di anni fa, un’epoca in cui ancora non c’erano né le stelle né le galassie. È così che ebbe origine la radiazione cosmica di fondo, che proviene da enormi distanze e da tutte le direzioni del cielo. Essa testimonia le condizioni dell’Universo primordiale, «fossilizzate» per sempre sulla volta celeste. La visione del gas incandescente a 3000 K, che all’epoca permeava tutto lo spazio intorno, è però (fortunatamente) sbiadita per effetto dell’espansione dell’Universo che nel frattempo si è dilatato di ben 1000 volte. La radiazione si è dunque diluita e raffreddata di 1000 volte, trasformandosi in un tenue fondo cosmico di microonde a 3 K, che oggi possiamo cartografare e anche riprodurre in alcune figure di questo libro. La radiazione cosmica di fondo è altamente omogenea, con leggerissime oscillazioni di poche parti per milione, che hanno l’aspetto di macchioline chiare e scure che punteggiano il cielo a microonde. Ma è proprio da queste minime perturbazioni di densità, che la gravitazione universale inizierà il suo lavoro di condensazione progressiva di tutte le strutture cosmiche: ammassi, galassie e stelle. ••8 Passati 100 milioni d’anni l’espansione aveva ridotto la densità di questo Universo gassoso a circa 10 mila volte il valore presente: è l’epoca considerata la più favorevole alla formazione delle galassie. Enormi nuvole di materia contenenti l’equivalente di quasi un trilione di stelle come il Sole riuscirono a vincere le forze che tendevano a disperderle. Erano le protogalassie. La nascita delle galassie, della quale a questo punto dovremo occuparci, è un problema molto più controverso e difficile che raccontare ciò che avvenne subito dopo il Big Bang: nacquero da fluttuazioni di densità nel gas, oppure da moti turbolenti? C’è chi dice che le 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 181 05_capitolo.indd 181 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 protogalassie erano ancora allo stato gassoso quando presero a collassare, e c’è invece chi pensa che le stelle nacquero prima di questo collasso. Più genericamente, si crede che una protogalassia diventi una galassia quando un’apprezzabile frazione del suo gas si è trasformato in stelle. Le più distanti galassie, viste come erano 3,5 e più miliardi di anni fa, non appaiono molto diverse da quelle vicine, sebbene l’aspetto e l’energia di quella specie di galassie molto compatte che sono le quasar (chiamate anche QSO, dall’inglese quasi stellar object ) faccia ritenere che possano rappresentare uno stadio primitivo della formazione di una galassia. In altre parole, e nonostante si parli spesso di galassie giovani o nasciture, non conosciamo nessuna galassia vicina che senza discussioni si possa riconoscere come un oggetto giovane. Al contrario, l’opinione comune è che tutte le galassie abbiano all’incirca la stessa età e siano nate nel primo miliardo d’anni dopo la grande esplosione. Infatti, la galassia più lontana che è stata osservata col telescopio spaziale Hubble (HST) è a 13 miliardi di anni luce, il che significa che noi la vediamo com’era 13 miliardi di anni fa. D’altra parte dato che, come abbiamo visto, il tempo trascorso dal Big Bang a oggi è stimato fra 13,6 e 13,7 miliardi di anni, quella galassia era 182 05_capitolo.indd 182 ••8 L’evoluzione dell’Universo. La radiazione cosmica di fondo (in verde) è la radiazione fossile, a cui segue la cosiddetta età oscura, che però terminerà presto con l’accensione delle prime stelle. Poi avrà luogo la formazione e l’evoluzione delle galassie, fino ai giorni nostri. A destra è raffigurata la sonda WMAP che ha osservato la radiazione fossile. (NASA) CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 ••9 La classificazione a «diapason» delle galassie. Le galassie ellittiche vanno da E0 a E7 secondo un grado crescente di schiacciamento. Poi le spirali si dividono nelle due classi S normali e SB barrate, suddivise a loro volta nei sottotipi a, b, c secondo importanza decrescente del nucleo. Infine ci sono le galassie irregolari, classificate come tipo I, che non sono riportate sul «diapason» poiché formano una classe a se stante. (HST) già formata appena 600 o 700 milioni di anni dopo il Big Bang. In conclusione, oggi nascono ancora le stelle, dato che il processo di formazione dal gas interstellare prosegue nella nostra e nella maggioranza delle altre galassie, il cui numero complessivo sarebbe di almeno 100 miliardi entro un raggio di 13,7 miliardi di anni luce (Universo osservabile). Dalle caratteristiche delle galassie, forma, distribuzione e dimensioni, possiamo dedurre alcune informazioni sulla loro probabile evoluzione. In genere, le galassie sono distribuite in ammassi (ciascuno dei quali può contenerne da poche decine, a decine di migliaia) sparsi uniformemente nell’Universo visibile, sebbene qualche astronomo sostenga che esista una certa asimmetria fra un emisfero del cielo e l’altro: il che significherebbe che l’espansione non è stata uniforme. Lo schema più noto di classificazione delle galassie secondo la loro forma è quello di Edwin Hubble, che le distinse in 4 gruppi fondamentali: galassie spirali normali (che posseggono un nucleo centrale da cui si dipartono dei bracci spirali più o meno aperti), galassie spirali barrate (con un nucleo attraversato da una larga sbarra di gas e polveri), galassie ellittiche (senza bracci e più o meno schiacciate in accordo alla velocità di rotazione) e galassie irregolari (che appaiono come 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 183 05_capitolo.indd 183 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 un semplice ammasso di stelle, polveri e gas senza una forma riconoscibile). ••9 Riguardo alle dimensioni si va da galassie molto più grandi della nostra Via Lattea, a galassie ultranane. Ma le loro differenze non finiscono qui, perché abbiamo galassie che sono potentissime radiosorgenti ed emettono enormi quantità di raggi X e raggi cosmici, e galassie relativamente calme. Alcune interagiscono e perfino inghiottono altre galassie, gettano ponti di materia fra loro, si suddividono, si deformano. Perciò si potrebbe affermare che le galassie non sono semplicemente degli immensi assembramenti di stelle, ma dei sistemi dinamici, quasi degli organismi cosmici dove, per riprendere l’immagine abbastanza azzeccata di François de Closets, le stelle sono un po’ come le cellule di un organismo vivente. Come evolvano le galassie non lo sappiamo. Quasi un secolo fa si pensava che da una protogalassia nascessero stelle in gran numero formando una galassia irregolare, che poi schiacciandosi sul piano equatoriale, forse sotto il controllo dei campi magnetici, sviluppava bracci spirali aperti. Qui vi si concentravano le polveri e i gas, e qui seguitavano a nascere le stelle, fino a esaurimento del materiale. Poi le nascite diminuivano, il numero delle stelle vecchie aumentava, i bracci spirali si serravano sempre più intorno al nucleo galattico, e infine la galassia diventava ellittica. Oggi si crede che le cose siano molto più complesse, e che l’evolversi di una galassia in ellittica o spirale dipenda da vari fattori, quale la massa iniziale, la velocità di rotazione e la turbolenza dei gas, l’intensità del campo magnetico. Non si ritiene più che una galassia debba necessariamente attraversare tutte le forme da irregolare a ellittica, perché le irregolari hanno sempre masse da 10.000 a 1000 volte più piccole delle ellittiche giganti e delle spirali. Inoltre, sappiamo che violente esplosioni si verificano nei nuclei galattici come in M 82 e tante altre galassie compresa la nostra. Che relazione c’è, inoltre, fra una galassia normale e una radiogalassia? Si suppone che l’origine di tutte le radiogalassie sia la medesima: una tremenda esplosione nel nucleo. E che relazione c’è con i quasar ? Saperlo significherebbe anche aver risolto il problema della natura stessa dei quasar, che sono tuttora un grosso mistero astronomico, da quando nel 1960 venne scoperto il primo dagli americani T. Matthews e A. Sandage. Essi identificarono una stella che coincideva con la radiosorgente numero 48 del 3° Catalogo di Cambridge delle radiosorgenti, con uno spettro incomprensibile. In seguito si trovarono altri oggetti simili, e fu soltanto nel 1963 che Maartin Schmidt si accorse che la peculiarità di tali spettri era dovuta al fatto che le righe di emissione 184 05_capitolo.indd 184 CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 ••10 Il Quasar 3C273. Nella foto a sinistra, è evidente la presenza di un sottile getto distaccato, che fuoriesce da una luminosissima sorgente di tipo quasi stellare. Nel dettaglio a destra, è stato usato il coronografo del Telescopio Spaziale per coprire (macchia scura) l’accecante punto centrale, rivelando così la galassia di cui fa parte. Il Quasar è infatti un nucleo galattico attivo, contenente un buco nero che emette enormi quantità di energia. In basso a destra si scorge anche una piccola parte del getto, che emana luce azzurra di sincrotrone, irraggiata dalle particelle energetiche di cui è composto. (NASA, ESA, HST, A.MARTEL) erano spostate enormemente rispetto alla loro posizione usuale, indicando che si allontanavano da noi come fossero galassie e non stelle. Fu per questo motivo che l’americano Hong-yee Chiù nel 1964 ebbe l’idea di battezzarli quasar. Ciò che non si è riusciti a spiegare è come sia possibile che oggetti tanto piccoli emettano tanta energia da diventare visibili fino ai limiti dell’Universo osservabile. In termini quantitativi, un quasar tipico emette energia come cento galassie; o, più precisamente, da un volume che è un milione di miliardi di volte più piccolo della nostra Galassia viene emessa una luminosità cento volte maggiore di quella di tutta la Via Lattea. L’ipotesi più probabile, largamente accettata, è che al centro del quasar si trovi un buco nero. I quasar sono l’esempio più estremo di tutta una classe di galassie indicata con l’acronimo AGN (Active Galactic Nuclei) dal cui centro vengono emesse radiazioni elettromagnetiche straordinariamente intense, dai raggi gamma e X alle onde radio. ••10 Il buco nero con masse pari a milioni e anche a miliardi di masse solari attrae la materia circostante, la quale spiralando attorno al buco nero a velocità crescente verso l’interno si riscalda fino a temperature di milioni di gradi e forma un disco detto disco di accrescimento. A volte dai dischi di accrescimento vengono emessi dei getti di 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 L’origine dell’Universo: teorie e fatti 185 05_capitolo.indd 185 13/04/12 18:20 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 materia che si estendono in direzione perpendicolare al disco per milioni di anni luce, dimensioni ben superiori a quelle della galassia. Non si sa bene come siano prodotti. Si pensa che le linee del campo magnetico incanalino particelle cariche del disco e le accelerino fino a velocità prossime a quella della luce. Queste, muovendosi nel campo magnetico producono la cosiddetta radiazione sincrotrone. Tutte queste sono ipotesi che attendono conferme sperimentali. Ma del resto, quando si ha a che fare con l’Universo quello che sappiamo, parafrasando Newton, è una goccia in un oceano di cose sconosciute. Ai misteri insoluti dedichiamo quindi l’ultimo capitolo, un breve affaccio sull’abisso di quello che resta da scoprire. ••11 186 05_capitolo.indd 186 ••11 Il Campo UltraProfondo. Questa visione è un panorama dell’abisso in cui ci troviamo. Scrutando in profondità (qui verso l’Orsa Maggiore), il Telescopio Spaziale rivela migliaia di galassie a distanze di miliardi di anni luce. Tutti gli oggetti visibili nell’immagine sono galassie, eccetto alcune stelle riconoscibili dall’aspetto a forma di croce (effetto ottico causato dalla luminosità). (HST) CAPITOLO 5 13/04/12 18:20 CAPITOLO 6 MISTERI INSOLUTI 06_capitolo.indd 187 13/04/12 18:21 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 06_capitolo.indd 188 13/04/12 18:22 S tiamo per concludere il viaggio che abbiamo condotto attraverso lo spazio, tra pianeti, satelliti, asteroidi, galassie e stelle, e attraverso il tempo, all’indietro fino all’origine dell’Universo, o almeno fino al punto in cui le nostre osservazioni, più o meno dirette, e le nostre conoscenze ci permettono di arrivare. Molti sono i problemi ancora aperti e per i quali i cosmologi stanno cercando una soluzione: la distribuzione spaziale degli ammassi di galassie, l’esistenza della materia oscura, perché il nostro è un Universo di materia e non di antimateria e poi come si sono formate galassie e ammassi di galassie da un Universo primordiale, apparentemente uniforme; infine la sorprendente scoperta dell’energia oscura. Ad alcuni di questi problemi abbiamo già avuto modo di accennare in altri capitoli, in queste ultime pagine cercheremo di approfondirli e svilupparli per quanto possibile sulla base delle conoscenze fin ora raggiunte. LA DISTRIBUZIONE DEGLI AMMASSI DI GALASSIE La distribuzione degli ammassi di galassie sulla volta celeste, cioè su una superficie, sembra del tutto casuale e uniforme, mentre conoscendo le distanze, si può ricostruire la loro distribuzione reale nello spazio a tre dimensioni. Ebbene, un risultato ottenuto in questi ultimi anni mostra che, almeno fino a una distanza di circa 1 miliardo di anni luce da noi (distanza a cui si estendono per ora le nostre più dettagliate osservazioni), gli ammassi di galassie e le galassie sono distribuiti nello spazio in modo tale da addensarsi sulle superfici di grandi volumi grosso modo sferici, a formare come delle enormi bolle praticamente vuote il cui diametro è dell’ordine del centinaio di milioni di anni luce e il cui spessore è di circa 10 milioni di anni luce. Dentro le bolle sembra non esserci nemmeno qualche debole galassia. La spiegazione di questa struttura a bolle è tuttora un mistero, ben più inspiegabile se si pensa che, a scala ancora più grande, l’Universo sembra uniforme e le galassie e gli ammassi di galassie appaiono distribuiti uniformemente nello spazio. ••1-2 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Misteri insoluti 189 06_capitolo.indd 189 13/04/12 18:22 ••1 La distribuzione delle galassie nel cielo. Già nel 1967 Shane e Wirtanen avevano compilato questa mappa, che raccoglie la posizione di 100.000 galassie sulla volta celeste (visibile dall’osservatorio Lick, il settore scuro è dovuto all’orizzonte). L’aspetto a «ragnatela» è evidente, stranamente però in quell’epoca tale scoperta non suscitò grandissimo interesse nel pubblico. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 (LICK OBSERVATORY) 190 06_capitolo.indd 190 CAPITOLO 6 13/04/12 18:22 LA MATERIA E L’ENERGIA OSCURA ••2 Un milione e mezzo di galassie in questa immagine. Si tratta di una mappa tridimensionale, dove il colore dal violetto al rosso indica la distanza fino a oltre 1 miliardo di anni luce, evidenziando la struttura a larga scala dell’Universo (al centro domina la Via Lattea). Le galassie si raccolgono in gruppi più o meno numerosi, da alcune decine fino a migliaia di galassie, chiamati ammassi. A loro volta gli ammassi sono organizzati in superammassi, cioè gruppi di ammassi di galassie. Ammassi e superammassi non sono però distribuiti uniformemente nello spazio, ma si addensano sulla superficie di enormi bolle e sono separati da spazi vuoti immensi. La grande macchia violacea in alto al centro è l’ammasso della Vergine. (2MASS, XSCZ) Una delle recenti scoperte che ha messo in crisi gli scienziati è quella dell’esistenza della materia oscura: è stato calcolato, infatti, che la maggior parte della materia si trova sotto una forma che non emette radiazioni elettromagnetiche e quindi risulta invisibile ai nostri strumenti. Ancora più misteriosa la presenza di un’energia che si oppone alla forza di gravità e accelera l’espansione dell’Universo, scoperta recentemente e per cui nel 2011 è stato assegnato il premio Nobel per la fisica agli statunitensi Saul Perlmutter e Adam Riess e all’australiano Brian Schmidt. Prima di questa scoperta si pensava che l’espansione dell’Universo andasse decelerando per effetto della sua stessa gravità. Per determinare l’entità di questo rallentamento, due gruppi di ricercatori, uno americano e uno australiano, avevano cominciato alla fine degli anni Ottanta a osservare una classe di supernove, note come SNIa, di cui si conosce con buona precisione lo splendore assoluto, per ottenere una più accurata relazione di Hubble fra spostamento verso il rosso e distanza estesa alle più lontane galassie raggiungibili con i moderni grandi telescopi, le quali ci avrebbero detto come avveniva l’espansione nel lontano passato. La sorpresa è stata che invece di rallentare, l’espansione risulta aver cominciato ad accelerare circa 6 miliardi di anni fa come se ci fosse una energia che si oppone all’energia gravitazionale. Dato che non si sa cosa sia, è stata chiamata «energia oscura». Non sappiamo se si tratta di una proprietà intrinseca dello spazio o se qualcosa di indipendente in esso contenuta. Nel primo caso la densità di energia rimarrebbe costante nel tempo, mentre nel secondo caso diminuirebbe la densità mentre la forza dell’energia resterebbe costante con l’aumentare dello spazio. Per ora sappiamo solo che questa «energia oscura» ha preso il sopravvento sulla gravità circa 6 miliardi di anni fa a causa della diminuzione della gravità con l’espansione. Oltre all’energia oscura, abbiamo già visto nel capitolo terzo che in base ai dati ottenuti dalla misurazione della massa delle galassie, si può ipotizzare l’esistenza di materia oscura. Per misurare la massa di una galassia, fino a poco tempo fa si contava il numero delle stelle e si moltiplicava questo numero per la massa di una stella media. In questo modo, ad esempio, la massa della nostra Galassia era pari a circa 300 miliardi di masse solari (prendendo il Sole come unità di misura). Un altro metodo di misura si basa sulle leggi della gravitazione: si studia il moto degli oggetti più periferici che gravitano attorno alla Galassia (ad esempio nubi gassose che emettono microonde). Da questo moto è possibile calcolare la massa della Galassia e si constata che è 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Misteri insoluti 191 06_capitolo.indd 191 13/04/12 18:22 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 ••3 Universo oscuro. Sebbene sia ormai accertato che la materia visibile è soltanto una minima parte del contenuto dell’Universo, ancora non v’è certezza sulla vera natura della materia oscura e tantomeno si ha un’idea di cosa sia davvero l’energia oscura. superiore di almeno cinque volte a quella visibile. Quindi la massa visibile, ricavata dagli oggetti che si vedono, è molto inferiore alla massa gravitazionale indicata dal moto dei corpi nella Galassia. Questo fatto vale per tutte le galassie di cui si possono contare le stelle e misurare i moti. Lo stesso risultato si ottiene per gli ammassi di galassie: dai moti delle galassie che compongono un ammasso, si vede che la massa visibile è circa un decimo della massa gravitazionale dell’ammasso. ••3 Non sappiamo cosa sia la materia oscura, ma sono state fatte diverse ipotesi. Alcuni sostengono che si possa trattare di stelle molto numerose e molto deboli, o di un gran numero di pianeti molto grossi eppure poco o del tutto invisibili a grandi distanze. Ma se si ammette che la materia oscura sia formata da materia normale – cioè di protoni, neutroni, elettroni – nei primi tre minuti dopo il Big Bang non avrebbe potuto formarsi il deuterio, perché le condizioni fisiche sarebbero state tali da impedirlo. Il deuterio non ci dovrebbe essere o sarebbe talmente scarso da non essere misurabile, e questo contraddice i dati osservabili. Invece di essere materia normale, la materia oscura potrebbe essere costituita, quindi, da particelle che interagiscono pochissimo con la materia e che quindi risultano difficili da rilevare. Abbiamo già appreso che in natura si conosce solo un tipo di queste particelle, i neutrini. La massa dei neutrini è piccolissima – tanto 192 06_capitolo.indd 192 CAPITOLO 6 13/04/12 18:22 che non si è ancora riusciti a misurarla con precisione – e per spiegare la massa mancante dovrebbero essere estremamente numerosi. In ogni caso i neutrini non potrebbero spiegare la massa mancante delle galassie, perché data la loro minuscola massa avrebbero velocità di gran lunga superiore alla velocità di fuga della galassia stessa e quindi sfuggirebbero nello spazio intergalattico. Non si può però escludere che in natura esistano altri tipi di particelle o, perlomeno, siano esistiti nei primi istanti di vita dell’Universo. MATERIA E ANTIMATERIA Il problema dell’asimmetria tra materia e antimateria nasce dalla constatazione che il nostro Universo è composto essenzialmente di materia. Particelle di antimateria, come il positrone e l’antiprotone, si osservano nei raggi cosmici, ma nessuna antiparticella più pesante è stata trovata in natura. Eppure nell’Universo primordiale esistevano probabilmente sia particelle che antiparticelle, in numero praticamente uguale. Perché allora questa asimmetria attuale? Si pensa che, come abbiamo accennato nel capitolo sulla cosmologia, per qualche motivo si fosse formato un piccolissimo eccesso di materia rispetto all’antimateria. Tutte le coppie di particelle e antiparticelle si sarebbero annichilite una con l’altra, dando luogo a un’enorme produzione di energia (sotto forma di fotoni), e sarebbe rimasto solo quel piccolo eccesso di materia da cui avrebbe avuto origine il nostro Universo attuale. Una conferma di questa ipotesi è data dall’osservato eccesso di fotoni rispetto alle particelle materiali: c’è, infatti, un miliardo di fotoni per ogni particella. Inoltre, si conosce una particella instabile, il kaone, del quale abbiamo già parlato, la cui vita media è un centomilionesimo di secondo un po’ più lunga di quella dell’antikaone. LA DISUNIFORMITÀ DELL’UNIVERSO Che le galassie e le stelle ci siano è un fatto inconfutabile, ma perché e come si siano formate inizialmente è un problema aperto. La radiazione cosmica che pervade tutto l’Universo attuale appare estremamente costante in tutte le direzioni. In qualunque direzione la si misuri si ottiene un valore di 2,735 K con un errore di misura di circa un decimillesimo di grado. Dato che tale radiazione testimonia com’era l’Universo primordiale, se ne deduce che anche l’Universo oggi dovrebbe essere altrettanto uniforme. Sappia- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Misteri insoluti 193 06_capitolo.indd 193 13/04/12 18:22 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 mo, invece, che l’Universo attuale è composto di stelle, galassie e ammassi di galassie separati da immensi spazi praticamente vuoti. Nella radiazione fossile dovrebbe esserci il seme di queste disuniformità. Per risolvere questo problema è necessario misurare la radiazione fossile con precisione ancora maggiore, alla ricerca di eventuali minime disuniformità. Proprio per questo scopo è stato stato dapprima costruito il satellite COBE (Cosmic Background Experiment), poi il WMAP (Wilkinson Anisotropy Probe) e infine il satellite Planck (le cui misurazioni sono ancora in corso). ••4 Perché dei satelliti? La radiazione emessa alla temperatura di 2,735 K ha un massimo a circa 1 millimetro di lunghezza d’onda. Le microonde – da qualche frazione di millimetro a qualche centimetro – sono in gran parte assorbite dalla nostra atmosfera; di conseguenza, le osservazioni della radiazione cosmica si fanno preferibilmente da palloni in alta quota e, meglio ancora, da satelliti, che possono continuare le osservazioni anche per alcuni anni. Le prime misure effettuate con COBE (1989) indicavano una temperatura costante in ogni direzione. Ma ulteriori misure (1992) – effettuate dopo aver apportato le correzioni per l’effetto doppler dovuto al moto del Sistema solare nella Galassia e per la radiazione emessa dalla Galassia stessa, da altre galassie e da ammassi di 194 06_capitolo.indd 194 ••4 Il fondo del cielo osservato dalla sonda WMAP. La radiazione cosmica a microonde, che vediamo in questo planisfero celeste, ci mostra l’Universo primordiale. La colorazione dal blu al rosso evidenzia i deboli contrasti di luminosità, che corrispondono alle variazioni di temperatura della materia in formazione, quando l’Universo era ancora incandescente (circa 5000 gradi), mezzo milione di anni dopo il Big Bang. Le macchioline rosse rappresentano zone più calde e dense, da cui poi nasceranno gli ammassi di galassie; si può stimare che da ogni singola macchiolina si formeranno decine di migliaia di galassie. (NASA) CAPITOLO 6 13/04/12 18:22 ••5 Il cielo di Planck. Dopo un anno di misurazioni, il satellite europeo Planck ha tracciato questa mappa completa del cielo a microonde. La Via Lattea domina in primo piano, ma sullo sfondo si vede con un colore più aranciato (ovvero a lunghezze d’onda maggiori) la radiazione cosmica primordiale. Quando il contributo della Via Lattea verrà rimosso (sfruttando la differenza spettrale), apparirà la retrostante radiazione cosmica di fondo con una nitidezza senza precedenti. Nel momento in cui stiamo completando questo libro, la comunità scientifica è in grande attesa dei prossimi risultati. (ESA) galassie – hanno dimostrato che ci sono delle piccolissime disomogeneità nella temperatura, con zone più calde o più fredde di 1,6 centomillesimi di grado del valore medio. Queste disuniformità indicano l’esistenza di strutture immense, estese molto più di 300 milioni di anni luce, e rappresenterebbero l’origine delle attuali strutture a grande scala (come i superammassi di galassie) osservati nell’Universo oggi. COBE aveva il difetto di essere «miope», aveva un potere risolutivo di 7 gradi d’arco, cioè non era in grado di distinguere dettagli visti sotto un angolo più piccolo di 7 gradi, pari a 14 diametri angolari del Sole o della Luna. Le immagini dell’Universo primordiale apparivano molto «sfocate». I successivi esperimenti, il progetto BOOMERANG (in cui le osservazioni erano eseguite da un telescopio su pallone stratosferico che per le particolari condizioni atmosferiche dell’Antartide orbitava attorno al polo sud), e poi le osservazioni dei satelliti WMap e Planck, hanno dato immagini molto più nitide, in cui si vedevano dettagli di dimensioni angolari inferiori al grado. Queste misurazioni hanno anche permesso di stabilire che il nostro Universo è piano, obbedisce cioè alla geometria euclidea, non è né curvo e chiuso (come l’analogo della superficie della sfera), né curvo e aperto (come l’analogo della superficie di un iperboloide). ••5 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Misteri insoluti 195 06_capitolo.indd 195 13/04/12 18:22 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Possiamo concludere questo viaggio attraverso un’estensione di quasi 14 miliardi di anni luce e una durata temporale di quasi 14 miliardi di anni osservando quanto si sia dilatata la nostra conoscenza dell’Universo nel corso del XX secolo, come oggi si sia coscienti di abitare un minuscolo pianeta fra miliardi di altri, di orbitare attorno a una comunissima stella fra miliardi di altre in una comune galassia fra centinaia di miliardi di altre galassie e ammassi di galassie, che costituiscono l’Universo, cioè tutto ciò che esiste. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo sicuri che anche l’Universo non sia uno fra tanti? Che esistano altri universi simili o diversi dal nostro? Possiamo solo immaginarlo. Sappiamo di essere fatti di materia prodotta dalle reazioni nucleari che avvengono nell’interno delle stelle. Sappiamo di essere un prodotto dell’evoluzione dell’Universo che ha sviluppato la capacità di osservare, misurare e comprendere lo spazio intorno a noi. Forse in questo XXI secolo riusciremo a capire cosa sono la materia e l’energia oscura e il loro ruolo nella formazione ed evoluzione delle galassie, a scoprire pianeti simili alla Terra e forse un giorno riceveremo un segnale radio modulato, non i soliti rumori emessi dal Sole e dalle galassie, ma un segnale chiaramente artificiale partito da un lontano pianeta anni e forse secoli fa da chi come noi si domanda: ma siamo soli nell’Universo? Possibile che questo immenso Universo abbia generato una sola civiltà? 196 06_capitolo.indd 196 CAPITOLO 6 13/04/12 18:22 APPENDICE TELESCOPI E SONDE GLI STRUMENTI PER LA CONQUISTA DELLO SPAZIO 07_appendice.indd 197 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 07_appendice.indd 198 13/04/12 18:40 I grandi progressi fatti nel corso del XX secolo nella comprensione dell’Universo, non sono dovuti soltanto alla nascita dell’era spaziale – e quindi alla possibilità di studiare i corpi celesti utilizzando tutto lo spettro elettromagnetico (raggi gamma, raggi X, ultravioletto, infrarosso che sono assorbiti totalmente o parzialmente dalla nostra atmosfera) – ma anche all’utilizzo di telescopi a Terra della «nuova generazione», molto più grandi e sofisticati dei precedenti, nonché a rilevatori elettronici più sensibili dell’emulsione fotografica. Diamo qui un breve cenno degli strumenti, sia terrestri che spaziali, che più hanno contribuito al progresso della conoscenza della volta celeste. Cominciamo con i telescopi e poi facciamo una carrellata storica sulle sonde e rover principali. TELESCOPI Telescopi ottici Il più grande telescopio della vecchia generazione ancora in funzione è il 5 metri di Monte Palomar e rappresenta un limite praticamente insuperabile. Difatti per ottenere immagini otticamente perfette la superficie parabolica dello specchio (un gigantesco specchio da barba) non dovrebbe discostarsi più di una frazione di micron dalla figura geometrica ideale. Poiché il vetro è un fluido, tende a deformarsi sotto il proprio peso, e perciò occorre lavorare un blocco di vetro di spessore almeno un quinto del diametro. Lo specchio va montato sulla montatura meccanica del telescopio, che deve poter ruotare da est a ovest per seguire il moto apparente della volta celeste e da sud a nord per puntare ogni punto del cielo. Poiché l’esposizione necessaria per ottenere le immagini di oggetti molto deboli, specialmente usando come rivelatore l’emulsione fotografica, poteva durare tutta la notte, era necessaria una montatura estremamente rigida e pesante, perché una flessione della montatura durante l’esposizione, pur con lo specchio perfetto, renderebbe l’immagine mossa. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 199 07_appendice.indd 199 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Eppure i telescopi della nuova generazione raggiungono anche i 10 metri e sono «sottili», qualche decina di cm di spessore. Possono essere formati da una superficie unica, oppure da tasselli, che come le piastrelle di un pavimento coprono tutta la superficie. Sotto vari punti dello specchio o sotto ogni tassello c’è un «adattatore» collegato a un computer che dice in tempo reale come va spostato il tassello per mantenere la superficie aderente al modello geometrico ideale. Con questa tecnologia si sono realizzati i 4 specchi da 8,2 metri di diametro del VLT (Very Large Telescope) presso l’osservatorio europeo per l’emisfero australe (ESO, acronimo di European Southern Observatory), situati nel deserto di Atacama sulle Ande cilene; i due specchi da 10 metri di diametro dell’osservatorio americano sul vulcano spento Mauna Kea alle Hawaii; e l’ESO sta progettando un telescopio da 40 metri di diametro per cercare di scoprire pianeti extrasolari, anche piccoli come la Terra, e vederne le immagini. Tutti questi telescopi sono situati in zone desertiche, lontane dall’inquinamento luminoso prodotto dalle luci artificiali. ••1-2 200 07_appendice.indd 200 ••1 I telescopi del VLT dell’ESO in Cile hanno 8,2 metri di diametro. Nella foto sono visibili tre di essi, mentre si stanno compiendo le operazioni preparatorie per la notte. (ESO, G.HÜDEPOHL) APPENDICE 13/04/12 18:40 ••2 I due telescopi da 10 metri alle Hawaii sono i più grandi del mondo. Anche l’altitudine è da record, poiché l’osservatorio Keck si trova a ben 4145 metri sul livello del mare. I telescopi sono illuminati all’interno delle cupole, prima del lavoro notturno. (WMKO) Radiotelescopi Quando, invece, si osserva il cielo con i radiotelescopi, bisogna tener conto del fatto che abbiamo a che fare con radiazioni di lunghezza d’onda da qualche cm a parecchi metri. Poiché la lunghezza d’onda è, per così dire, lo scandaglio che ci informa dei dettagli delle immagini celesti, questo scandaglio ci dà dettagli molto più grossolani di quelli ottenibili con la luce visibile, la quale ha lunghezza d’onda dell’ordine del migliaio di Angstrom (Å) e cioè del centomillesimo di cm. L’ottica ci insegna che il potere risolutivo, cioè la capacità di vedere dettagli di un’immagine (l’equivalente dell’acuità visiva del nostro occhio), è tanto maggiore quanto più piccola è la lunghezza d’onda e quanto più grande il diametro del telescopio. Per fare un esempio, prendiamo il caso dell’occhio nudo: per la lunghezza d’onda di massima sensibilità nel giallo verde, circa 5500 Å o 5,5 centomillesimi di cm, e il diametro della pupilla in condizioni di luce normale, di circa 2 mm, si trova che il potere risolutivo dell’occhio nudo è 2,75 decimillesimi di radiante o 57 secondi (un radiante equivale a 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 201 07_appendice.indd 201 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 206.265 secondi). Un telescopio di 5 metri di diametro ha un potere risolutivo di 2 centesimi di secondo. Per avere lo stesso potere risolutivo lavorando alla lunghezza d’onda di un cm occorrerebbe un telescopio di diametro 18.000 volte più grande. Alla lunghezza d’onda di un metro, ancora 100 volte più grande. Il problema è stato risolto con i grandi radiotelescopi costituiti da più elementi collegati elettronicamente, addirittura su diversi continenti, così da avere telescopi di diametro paragonabile a quello della Terra. Il principio su cui si basano questi radiotelescopi è che per ottenere un dato potere risolutivo da uno specchio non è necessario utilizzare tutta la superficie, bastano due punti diametralmente opposti. Fra i più grandi radiotelescopi di questo tipo va ricordato il VLA (Very Large Array) situato a Socorro nel Nuovo Messico, composto da decine di antenne che si estende su una cinquantina di km. Il più grande radiotelescopio italiano è la «Croce del Nord», costruito e operato dall’istituto di radioastronomia del CNR e ora facente parte dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), situato a Medicina in provincia di Bologna. Il braccio est-ovest è formato da una sola antenna di forma cilindro-parabolica lungo 560 metri e largo 35 metri. Il braccio nord-sud è formato da 64 antenne anch’esse di forma cilindro-parabolica lunghe 23,5 metri e larghe 8, disposte parallelamente a 10 metri l’una dall’altra. Tutto l’insieme più che una croce ha la forma di una T. Alla Croce si sono aggiunte tre grandi parabole, una di 32 metri di diametro sempre a Medicina, una di 32 metri a Noto (Sr) in Sicilia e una da 64 metri in Sardegna in località San Basilio, a 35 km da Cagliari, a formare un unico radiotelescopio che a sua volta è inserito in un interferometro intercontinentale internazionale. Ultravioletto I telescopi spaziali per l’ultravioletto rappresentano la naturale estensione dei telescopi ottici, in quanto la gran maggioranza delle stelle e delle nebulose interstellari irraggia in gran parte nell’ultravioletto. A differenza dei radiotelescopi, i telescopi per l’ultravioletto sono in tutto simili a quelli ottici. Fra questi vanno ricordati tre grandi successi della scienza spaziale, Copernicus (lanciato il 21 agosto 1972), IUE (International Ultraviolet Explorer, 26 gennaio 1978) e HST, il telescopio spaziale Hubble (Hubble Space Telescope, aprile 1990 e ancora funzionante). Copernicus, è stato il primo grande telescopio in orbita con uno specchio di 80 cm ed è rimasto unico per aver reso possibile ottenere spettri ad alta risoluzione fra 900 e 1200 Angstrom, regione spettrale che ha permesso misure accurate dell’abbondanza del deuterio interstellare, di grande importanza per la verifica delle teorie cosmologiche. 202 07_appendice.indd 202 APPENDICE 13/04/12 18:40 ••3 Il telescopio spaziale Hubble ha un diametro di 2,4 metri. Operando in orbita terrestre fuori dall’atmosfera, il Telescopio Spaziale ha l’enorme vantaggio di non essere disturbato dalla turbolenza dell’aria. Per tale motivo, le sue immagini sono generalmente dieci volte più nitide rispetto ai maggiori telescopi ottici terrestri. Da vent’anni, il Telescopio Spaziale è lo strumento di punta dell’astronomia mondiale. (NASA) IUE è stato l’unico a orbitare su un’orbita geosincrona, cioè a circa 30.000 km dalla Terra e avere un periodo orbitale di circa un giorno, il che permetteva di utilizzarlo come un telescopio a terra, in modo estremamente flessibile. Malgrado lo specchio fosse di soli 45 cm, lo spettrografo era molto più rapido di Copernicus e consentiva di ottenere spettri ad alta e bassa risoluzione anche di stelle più deboli della 13a magnitudine. l telescopio spaziale Hubble col suo specchio di 2,4 metri è stato portato in orbita il 24 aprile 1990 dalla navicella Shuttle Discovery. È stato ed è il più grande telescopio ottico in orbita. Oltre a sfruttare l’assenza di atmosfera per studiare i corpi celesti dall’ultravioletto all’infrarosso, HST, grazie all’assenza di turbolenza atmosferica ha un potere risolutivo che gli ha permesso di mostrarci dettagli mai visti prima di nebulose interstellari e di galassie. ••3 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 203 07_appendice.indd 203 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 HST, come anche Copernicus è in orbita bassa, circa 600 km dalla Terra. Il periodo orbitale è circa 90 minuti. Questo vuol dire che ogni 30 minuti circa bisogna cambiare il campo di osservazione perché nascosto dalla Terra. Perciò se dobbiamo osservare oggetti deboli che richiedono esposizioni di molte ore bisogna osservarli per mezz’ora e poi riprenderli di nuovo in orbite successive. Oppure se abbiamo una stella variabile in modo irregolare da osservare in continuazione, non è possibile farlo. Inoltre occorre programmare in anticipo tutta la serie di oggetti da osservare e non è possibile cambiarla sul momento, come si fa a Terra (e come si può fare con IUE), se appare un fenomeno inaspettato come l’esplosione di una nova o di una supernova. In compenso l’orbita bassa ha permesso agli astronauti di raggiungere con lo Shuttle il telescopio spaziale, sia per installare una lente correttrice di errori che erano stati fatti nella lavorazione dello specchio, sia per sostituire gli strumenti ausiliari (spettrografi, fotometri, camere) nel piano focale del telescopio con un bell’esempio di «attività extraveicolare», cioè le ormai celebri «passeggiate nello spazio». Infrarosso Il cielo è stato osservato anche nell’infrarosso, a lunghezze d’onda da qualche micron fino a 100 micron. Il primo telescopio di questa categoria è stato IRAS (Infrared Astronomical Satellite, della NASA). L’europeo ISO (Infrared Space Observatory), è stato messo in orbita il 17 novembre 1995 e ha lavorato per quasi due anni. A differenza dei telescopi per l’ottico e l’ultravioletto, la vita dei telescopi per l’infrarosso è piuttosto breve. Questo dipende dal fatto che il telescopio osserva oggetti a bassa temperatura che irraggiano soprattutto nell’infrarosso e hanno la stessa temperatura del telescopio, che introduce quindi un’indesiderata fonte di rumore. Per evitare ciò, occorre immergere il telescopio in un grande thermos pieno di elio liquido, il quale evapora abbastanza rapidamente. Il più recente telescopio per infrarosso si chiama Spitzer in onore dell’astrofisico americano Lyman Spitzer. Esso ha permesso di individuare la luce infrarossa diffusa che si 204 07_appendice.indd 204 ••4 Il Telescopio Spaziale Spitzer opera nell’infrarosso, con un diametro di 85 cm. È stato lanciato nel 2003 su un’orbita interplanetaria attorno al Sole (disegno a destra), lontano dalla Terra per evitare il riscaldamento del telescopio da parte del nostro pianeta. (NASA) APPENDICE 13/04/12 18:40 ritiene sia dovuta alle prime grandi stelle, formatesi 200 o 300 milioni di anni dopo il Big Bang. ••4 Telescopi per raggi X e Gamma Fra i telescopi a raggi gamma e raggi X, ricordo l’UHURU che ha osservato per primo il cielo a raggi X ed è stato lanciato dalla piattaforma petrolifera italiana davanti alle coste del Kenia. L’idea dell’utilizzo della piattaforma per il lancio dei satelliti è stata dell’italiano Luigi Broglio, esperto di astronautica. Da qui fu lanciato il satellite San Marco il 15 dicembre 1961, che fece dell’Italia l’unica nazione oltre a USA e URSS ad avere un proprio satellite in orbita attorno alla Terra. Importante da ricordare il satellite per raggi gamma Beppo Sax, dedicato a Giuseppe Occhialini, Beppo per gli amici e colleghi. Nel 1973, al tempo della guerra fredda, gli Usa avevano lanciato due satelliti Vela per scoprire eventuali esplosioni nucleari 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 205 07_appendice.indd 205 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 clandestine al di fuori dell’atmosfera. Invece delle bombe sovietiche, questi scoprirono degli improvvisi lampi di radiazione gamma la cui durata andava da qualche centesimo di secondo a qualche minuto. I lampi apparivano indifferentemente in ogni parte del cielo. Generalmente al lampo gamma seguiva un aumento di radiazione a raggi X. La distribuzione perfettamente isotropica sia rispetto alla Terra che rispetto alla Via Lattea voleva dire che si trattava di oggetti situati in un alone molto grande intorno alla Galassia, tanto che si poteva considerare la Terra praticamente al centro della Via Lattea, oppure si trattava di galassie. Senza sapere da che oggetto proveniva il lampo, e quindi senza conoscerne la distanza era impossibile calcolare l’energia emessa. La difficoltà di identificare gli oggetti responsabili dei lampi gamma dipende dal fatto che i rivelatori gamma ci dicono che il lampo proviene da una parte del cielo molto ampia ma non il punto preciso. Il problema è stato risolto da Beppo Sax, il quale a bordo, oltre alla camera per raggi gamma aveva anche un rivelatore di raggi X che era in grado di individuare con precisione la posizione di una sorgente. Quando veniva osservato un lampo gamma, Beppo Sax aveva la capacità di passare rapidamente dal modo di osservazione a raggi gamma a quello a raggi X e andare poi a cercare in quella parte di cielo la presenza di una sorgente rapidamente variabile di raggi X. In questo modo si è potuto stabilire che i lampi gamma provengono tutti da lontane galassie, e l’emissione inizia a raggi gamma e poi continua nel dominio dei raggi X, ultravioletto, visibile. Poiché le galassie responsabili dei lampi sono tutte lontane alcuni miliardi di anni luce, noi le vediamo nel lontano passato quando erano molto più giovani, e quindi i lampi gamma sarebbero un fenomeno caratteristico delle galassie di più recente formazione. Successivamente, sono stati messi in orbita diversi telescopi per osservare le radiazioni ad alta energia, come il GRO (Compton Gamma Ray Observatory), che ha operato durante un decennio fino all’anno 2000. Fra i principali strumenti ora in attività, abbiamo il satellite Chandra (in onore del fisico indiano Chandrasekhar) per i raggi X, lanciato dalla NASA nel 1999. Per i raggi Gamma è attualmente in funzione il satellite Fermi, con la partecipazione dell’Italia e di altri Paesi, insieme alla NASA che lo ha lanciato nel 2008. Un’importante partecipazione italiana si ha nel satellite europeo Integral per raggi X e Gamma, in attività dal 2002. ••5 Hipparcos Un telescopio spaziale unico nel suo genere è stato HIPPARCOS (HIgh Precision PARallax COlleting Satellite), destinato a misurare distanze, moti propri e magnitudini delle stelle, e perciò chiamato 206 07_appendice.indd 206 APPENDICE 13/04/12 18:40 ••5 Il telescopio Compton a raggi Gamma. Denominato anche GRO (Gamma Ray Observatory), questo strumento ha funzionato in orbita terrestre dal 1991 al 2000. (NASA) «Ipparco», perché come il grande astronomo greco fece il primo catalogo stellare, così HIPPARCOS ha fatto il primo catalogo astrometrico spaziale. È stato lanciato dall’Agenzia Spaziale Europea nell’agosto 1989. Grazie a un complesso sistema ottico ha potuto misurare distanze e moti propri di centinaia di migliaia di stelle e il loro splendore nel blu e nel giallo-verde. Il catalogo Hipparcos contiene dati per 129.332 stelle, le più deboli delle quali sono 15 volte più deboli della sesta magnitudine. In un secondo catalogo basato sulle osservazioni di Hipparcos, chiamato Tycho, da Tycho Brahe, grande osservatore e maestro di Keplero, sono elencate più di un milione di stelle, con precisione un po’ inferiore, e gli oggetti più deboli sono quasi 1000 volte più deboli di quelle visibili a occhio nudo, cioè di magnitudine 13,5. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 207 07_appendice.indd 207 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 SONDE INTERPLANETARIE L’esplorazione diretta del Sistema solare Per lo studio del Sistema solare, al giorno d’oggi generalmente le osservazioni non si fanno più con i telescopi, come aveva iniziato a fare Galileo Galilei. Le moderne ricerche planetarie procedono invece con l’esplorazione diretta, inviando sonde spaziali verso i pianeti per osservarli da vicino, oppure addirittura per toccarne il suolo. Cominciando dallo spazio circumterrestre, la presenza dell’uomo in orbita a partire dall’anno 2000 è ormai continua a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, per la conduzione di ogni genere di studi scientifici e astronomici. Ma forse non tutti sanno che l’unico mezzo attualmente disponibile per andare nello spazio è la vetusta navicella russa Soyuz, essendo ormai fuori servizio lo Space Shuttle americano. Lanciata per la prima volta nel 1967 dall’Unione Sovietica, la Soyuz ha avuto diverse generazioni nel corso dei decenni. Attualmente viene utilizzata la versione SoyuzTMA, capace di portare in orbita 3 astronauti. ••6 208 07_appendice.indd 208 ••6 La navicella russa Soyuz-TMA, capace di portare tre uomini in orbita. Dopo la dismissione degli Shuttle americani, questo antiquato ma collaudatissimo veicolo spaziale russo resta l’unico mezzo per raggiungere la Stazione Spaziale. (ROSCOSMOS/NASA) APPENDICE 13/04/12 18:40 ••7 Il «treno» lunare Apollo è una complessa struttura modulare, che ha orbitato intorno alla Luna nelle missioni con astronauti. Sulla sinistra si trova il voluminoso Modulo di Servizio, con la capsula conica per l’equipaggio. A destra è agganciato Il LEM (Modulo di Escursione Lunare) a forma di ragno. (GRAFICA NASA) Sonde lunari Il primo corpo celeste esplorato direttamente, rendendo così obsoleto il telescopio per il suo studio scientifico, è stata ovviamente la Luna. Negli anni Sessanta una numerosa serie di sonde automatiche ha anticipato lo sbarco degli astronauti, dopo che nel 1959 la sonda sovietica Luna 3 aveva mostrato per la prima volta la faccia nascosta agli occhi umani. L’epopea del Progetto Apollo resta tuttora ineguagliata. L’impresa è stata così straordinaria, che vi sono numerose persone le quali non credono che 6 missioni con 12 astronauti americani abbiano raggiunto la Luna più di 40 anni fa, tra il 1969 e il 1972. Il veicolo spaziale utilizzato per queste missioni è un’astronave composta di moduli collegati, che formano una specie di «treno» in orbita attorno alla Luna. A un’estremità si trova il Modulo di Servizio, cilindrico, con il potente motore per ripartire verso la Terra. ••7 Questo voluminoso elemento è collegato alla capsula Apollo, di forma conica, che ospita gli astronauti e servirà al rientro sul nostro pianeta. A essa è agganciato Il LEM (Modulo di Escursione Lunare), destinato a staccarsi per scendere sulla Luna, che a sua volta 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 209 07_appendice.indd 209 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 comprende una base dotata di zampe, nonché il piccolo Modulo di Risalita che riporterà gli astronauti in orbita lunare. Dopo il Progetto Apollo, gli sbarchi degli astronauti sono cessati, ma è proseguita attivamente l’esplorazione strumentale del nostro satellite. Non vanno dimenticate le sonde sovietiche della serie Lunik, veri robot capaci di muoversi per chilometri sul suolo lunare e di riportare campioni sulla Terra, che hanno proseguito le loro missioni fino al 1976. Nei decenni successivi, l’esplorazione è proseguita da parte di varie Nazioni, con l’invio in orbita lunare di sonde piccole ma sofisticate, che hanno mappato metro per metro il suolo della Luna. Vi sono state varie sonde americane: citiamo Clementine «piccola come un’arancia» nel 1994; le cinque missioni fotografiche Lunar Orbiter tra il 1966 e il 1967; il Lunar Prospector partito nel 1998 e fatto schiantare l’anno dopo sul Polo Sud lunare, fino alla Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) lanciata nel 2009 e ancora in attività. Anche i Paesi orientali si sono cimentati con la Luna: la sonda giapponese Kaguya (Selene) in orbita dal 2007 al 2009 ha inviato splendidi filmati, per ultima la cinese Chang’e-2 ha orbitato per 6 mesi attorno alla Luna nel 2011, effettuando riprese ad alta risoluzione. Venere e Mercurio L’esplorazione diretta del suolo di Venere è stata finora appannaggio esclusivo della vecchia Unione Sovietica, che ha realizzato imprese eccezionali tra il 1975 e il 1982, facendo scendere le sonde corazzate Venera (dalla Venera 9 alla Venera 14) sotto l’impenetrabile coltre di nubi che avvolge il pianeta. Queste enormi sonde, simili piuttosto a dei batiscafi, hanno resistito per più di un’ora alle terribili pressioni e alle altissime temperature (quasi 500°C) del pianeta, analizzando l’ambiente e scattando fotografie panoramiche sulla infernale superficie venusiana. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno inviato la sonda Magellan in orbita attorno a Venere dal 1989 al 1994, mappando l’intera superficie del pianeta con il radar. Si sono così scoperti numerosi vulcani attivi. Mercurio, il pianeta più vicino al Sole, non è stato oggetto di molte missioni spaziali. È stato raggiunto per la prima volta nel 1974 dalla sonda americana Mariner 10, che ha sorvolato il pianeta per 3 volte in un anno. Poi Mercurio è stato rivisitato nuovamente appena nel 2008 dalla sonda Messenger, che è tuttora in attività orbitando attorno al pianeta. Esploratori marziani Marte è il pianeta più simile alla Terra ed è anche il meglio esplorato, alla ricerca – per ora infruttuosa – di vita extraterrestre. Le 210 07_appendice.indd 210 APPENDICE 13/04/12 18:40 ••8 I rover marziani. Spirit e il suo gemello Opportunity sono due veicoli con intelligenza artificiale, che hanno percorso per anni il suolo di Marte. Hanno esplorato montagne e crateri, analizzando il terreno e le rocce. (GRAFICA NASA) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 211 07_appendice.indd 211 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 prime sonde a posarsi sul pianeta rosso furono i due Viking gemelli nel 1976, autentici laboratori chimici per l’analisi del suolo e dell’ambiente marziano. Due decenni dopo, nel 1997 il Pathfinder atterrò su Marte e fece anche uscire un piccolo robot semovente, il Sojourner, capace anche di trapanare e analizzare le rocce. Nel 2008, la Phoenix atterrò vicino alla calotta polare, trovando acqua ghiacciata nel terreno. Spirit e Opportunity sono due rover gemelli, atterrati su Marte nel 2004, che poi hanno viaggiato per chilometri sul pianeta rosso esplorando il territorio, salendo sulle montagne e nei crateri, con la facoltà di analizzare il terreno e le rocce nei luoghi più interessanti. Sono dotati di intelligenza artificiale, che li rende capaci di evitare gli ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra. La parte superiore è coperta di pannelli solari, mentre il lungo «collo» regge una telecamera stereoscopica. Nel 2012 Opportunity è ancora in funzione. ••8 Viaggiatori del profondo I Pioneer 10 e 11, partiti nel 1973 e ’74, furono le prime sonde a spingersi verso Giove e Saturno, e a lasciare il Sistema solare. 212 07_appendice.indd 212 APPENDICE 13/04/12 18:40 ••9 Viaggiatori del profondo. A sinistra: una delle due sonde gemelle Voyager, che hanno esplorato i pianeti giganti: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. L’immagine è scura poiché lontano dal Sole c’è poca luce; queste sonde non hanno pannelli solari ma piccoli generatori nucleari. (GRAFICA NASA) A destra: la sonda Galileo ha inviato una capsula di discesa nell’atmosfera di Giove (in primo piano). La Galileo è entrata in orbita attorno al pianeta, esplorando (a sinistra) i famosi satelliti medicei. (GRAFICA DON DAVIS) Le due sonde interplanetarie gemelle Voyager, partite dalla Terra nel 1977, hanno visitato con passaggi radenti i grandi pianeti esterni: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Il lunghissimo viaggio interplanetario è durato più di un decennio e la Voyager 2 ha sorvolato Nettuno nel 1989. Nelle regioni più remote del sistema planetario la luce del Sole scarseggia; pertanto le sonde che si spingono così lontano sono alimentate da generatori nucleari, perché i pannelli solari sarebbero inutili. ••9 Nel 1995, dopo 6 anni di viaggio, la sonda Galileo, è entrata in orbita attorno a Giove, esplorando con numerosi passaggi radenti i quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei: Io, Europa, Ganimede e Callisto. La Galileo ha anche lanciato una capsula di discesa dentro l’atmosfera del gigantesco pianeta. La missione Cassini ha raggiunto Saturno nel 2004 dopo un viaggio di 7 anni. Ha poi esplorato il sistema di anelli e i suoi numerosi satelliti, orbitando per anni attorno al grande pianeta. La piccola sonda europea Huygens si è staccata dalla nave-madre Cassini, per andare a esplorare il satellite Titano, che è avvolto in una nebbiosa atmosfera rossa. ••10 La discesa di Huygens su Titano ha svelato un mondo da fan- 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 213 07_appendice.indd 213 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 tascienza, che ospita montagne, fiumi e laghi di metano. Questo satellite è il più grande del Sistema solare ed è l’unico che possiede un’atmosfera. Titano è anche il corpo celeste più lontano dalla Terra, su cui sia atterrata una sonda. ••11 Comete e asteroidi Le prime missioni verso una cometa sono state quelle della sonda europea Giotto e della sovietica Vega, che nel 1986 hanno fotografato il nucleo della cometa di Halley. La prima missione con discesa su un asteroide è stata invece quella dell’americana Near, che ha raggiunto Eros nell’anno 2000. Dopo numerose orbite, alla fine la sonda si è posata dolcemente su questo corpo celeste lungo 30 km, che minaccia la Terra poiché percorre un’orbita a rischio di collisione col nostro pianeta. La sonda giapponese Hayabusa (che in giapponese significa Falco pellegrino) ha raggiunto il piccolo asteroide Itokawa nel 2005. In questa eccezionale missione, la Hayabusa ha toccato il suolo, prelevando alcuni minuscoli frammenti con un congegno a scatto. Nell’urto contro l’asteroide, però, si sono persi i contatti 214 07_appendice.indd 214 ••10 La missione Cassini ha studiato gli anelli e i satelliti di Saturno. Il modulo Huygens (capsula conica) ha raggiunto Titano, il satellite (a destra) con l’atmosfera rossa. (GRAFICA NASA, JPL) APPENDICE 13/04/12 18:40 ••11 La discesa di Huygens su Titano ha svelato un mondo alieno con montagne, fiumi e laghi. Il paesaggio al suolo mostra la spiaggia di un lago di metano liquido. (GRAFICA D. DUCROS, ESA) con la sonda, che ha iniziato a rotolare nello spazio, totalmente fuori controllo. Dopo mesi di sforzi, gli scienziati giapponesi sono infine riusciti a riprendere i comandi dirigendo la Hayabusa verso la Terra. Cinque anni dopo la sonda ritornava sul nostro pianeta, facendo cadere una capsula che è stata recuperata in Australia. ••12 La sonda americana Deep Impact (Impatto Profondo) nel 2005 ha fatto schiantare un apposito modulo sul nucleo della cometa Tempel 1, provocando un’esplosione artificiale. Questa ha generato un aumento di luminosità della cometa, visibile anche dalla Terra. ••13 Successivamente, la sonda Stardust (Polvere di Stelle) ha sorvolato la Tempel 1 fotografando il nuovo cratere «fatto a mano». La stessa Stardust aveva in precedenza compiuto un lungo viaggio interplanetario, sorvolando la cometa Wild 2 e inviando sulla Terra alcune particelle di pulviscolo della chioma, racchiuse in una capsula. La missione della sonda Dawn è in pieno svolgimento. Dopo aver raggiunto nel 2011 l’asteroide Vesta, che è il terzo corpo in 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 215 07_appendice.indd 215 13/04/12 18:40 ••12 La sonda giapponese 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Hayabusa sull’asteroide Itokawa. Sulla punta dell’asteroide, la sonda ha fotografato la propria ombra (macchiolina scura), ma non ha potuto ritrarre se stessa, per cui è riprodotta con un fotomontaggio. (JAXA - JAPAN AEROSPACE EXPLORATION AGENCY) ••13 Esplosione artificiale sulla cometa Tempel 1, prodotta dalla sonda Deep Impact. Disegnata in piccolo, è riportata la sonda Stardust che successivamente ha sorvolato la cometa. (NASA) 216 07_appendice.indd 216 APPENDICE 13/04/12 18:40 ••14 Il motore a ioni. Questo rivoluzionario mezzo di propulsione interplanetaria è in grado di funzionare continuamente per anni. (JAXA) ordine di grandezza nella fascia degli asteroidi (dopo Cerere e Pallade), la sonda dovrà toccare il pianetino Cerere nel 2015. Le più moderne sonde americane e giapponesi per l’esplorazione di comete e asteroidi sono equipaggiate con motori a ioni, che consentono maggiore libertà nelle traiettorie di viaggio entro il Sistema solare. Infatti il motore a ioni è un propulsore rivoluzionario, che può funzionare continuamente per anni. ••14 NELLE PAGINE SEGUENTI La scala del cosmo. Per orientarci nell’Universo, possiamo usare il metodo delle «scatole cinesi», dove ogni cubo è 1000 volte più grande del precedente. Partendo da 1 metro lineare (al centro in basso nella figura), troviamo un primo cubo (a sinistra) che ha 1 km di lato e comprende la località, o il rione cittadino, in cui ci trovaimo. Il cubo successivo, con 1000 km di spigolo, contiene l’Italia (qui ritratta dall’orbita). Il passaggio seguente ci porta già nello spazio, poiché arriviamo a 1 milione di chilometri, che è la dimensione del sistema Terra-Luna. Nel prossimo cubo, entro 1 miliardo di km ci sta il nostro Sistema solare fino a Giove. Con tale progressione di mille in mille, andiamo poi a considerare (pagina a destra) un cubo di 1000 miliardi di km, pari a 0,1 anni luce, che risulta vuoto con il Sole al centro. Le distanze interstellari sono così grandi, che soltanto la prossima «scatola», con 100 anni luce di spigolo, contiene le stelle più vicine a noi. Poi nel cubo che segue, entro 100.000 anni luce, ci sta tutta la Via Lattea. Questa è solo una delle innumerevoli galassie disperse nell’Universo, che vediamo aggregate in ammassi nel successivo cubo di 100 milioni di anni luce. La serie però non va avanti indefinitamente, perchè alla fine dobbiamo fermarci a una «scatola» ideale di 100 miliardi di anni luce (a destra in basso), che comprende l’intero Universo osservabile. (WWW.FERLUGA.NET) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 217 07_appendice.indd 217 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 218 07_appendice.indd 218 APPENDICE 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 Telescopi e sonde. Gli strumenti per la conquista dello spazio 219 07_appendice.indd 219 13/04/12 18:40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 07_appendice.indd 220 Stampato nell’aprile 2012 per conto di Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (PD) 13/04/12 18:40