Margherita
Hack
CON STENO FERLUGA
IL CIELO
INTORNO
A NOI
Viaggio dalla Terra
ai confini dell’ignoto
per capire il nostro posto
nell’Universo
Dalai editore
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SOMMARIO
Presentazione
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1. IL CIELO IN CUI VIVIAMO
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Per conoscere la volta celeste
Cielo azzurro, salmone e nero
Cosmologia del giorno e della notte
Dalla costellazione di Orione e del Cane…
a quella del Gatto
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2. IL VILLAGGIO PLANETARIO
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Come nacque (forse) il Sistema solare
Incominciamo da Gaia: la Terra
La Luna e le lune, Mercurio, Venere e Marte
Gli asteroidi e le avventurose comete
I pianeti di ghiaccio: i quattro grandi
Plutone: si credeva grande e invece è piccino
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3. LA GALASSIA E LE SUE POPOLAZIONI
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La megalopoli stellare in cui viviamo
Gli abitanti della Galassia
Un po’ di storia
Il nostro posto nella Galassia
Una finestra spalancata sulla Galassia
Il centro galattico
Come nacque la Galassia
Un grande mistero: la materia oscura
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4. LE STELLE
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Dimmi che spettro hai e ti dirò chi sei
Alcuni tipi di stelle
Popolazioni stellari e stelle giovani e vecchie
Le stelle son belle perché varie
Evoluzione e morte delle stelle
Novae, supernovae, pulsar e buchi neri
Messer lo Frate Sole
Pianeti extrasolari
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5. L’ORIGINE DELL’UNIVERSO:
TEORIE E FATTI
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Antiche e nuove intuizioni
L’Universo in espansione
La radiazione fossile
Tre solidi pilastri
L’età dell’Universo
Le forze dell’Universo
Tutto discende da un casuale eccesso
di particelle
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6. MISTERI INSOLUTI
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La distribuzione degli ammassi di galassie
La materia e l’energia oscura
Materia e antimateria
La disuniformità dell’Universo
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APPENDICE. TELESCOPI E SONDE
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Telescopi
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Sonde interplanetarie
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VIVIAMO NELL’ERA DELLA SCIENZA. SONO
LONTANI I SECOLI IN CUI CREDEVAMO DI
ESSERE AL CENTRO DELL’UNIVERSO. ORMAI
GIÀ A SCUOLA I BAMBINI APPRENDONO CHE
LA TERRA NON È UN PIANETA PRIVILEGIATO,
COLLOCATO NELLO SPAZIO IN POSIZIONE
PREFERENZIALE, BENSÌ UN OGGETTO
CELESTE COME TUTTI GLI ALTRI: UN PICCOLO
PIANETA IN ROTAZIONE INTORNO A UNA
DEI MILIARDI DI STELLE DELLA NOSTRA
GALASSIA: ANCH’ESSA NULL’ALTRO CHE UN
MICROCOSMO IN UN UNIVERSO POPOLATO
DA MILIARDI DI GALASSIE SIMILI.
LE IMPRESE SPAZIALI – DI ENORME
IMPORTANZA PER NOI CHE LE VIVIAMO E NE
CONOSCIAMO LE DIFFICOLTÀ, MA RAPPORTATE
ALL’UNIVERSO ASSAI PIÙ INSIGNIFICANTI DEL
SALTO DI UNA PULCE SU UN ELEFANTE – CI
HANNO PERMESSO DI CURIOSARE UN POCO
FUORI DAL NOSTRO PIANETA, MENTRE GLI
STRUMENTI, SEMPRE PIÙ PERFEZIONATI, CI
CONSENTONO DI CONOSCERE DEL COSMO
QUEL TANTO CHE CI SPRONA A PERSEVERARE
NELLA RICERCA, PONENDOCI SEMPRE NUOVI
INTERROGATIVI.
EPPURE, MALGRADO LE CONOSCENZE
DIFFUSE, I VANTAGGI DI VEDERE IMMAGINI
SU INTERNET, NON MUTA IL FASCINO
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CAPITOLO 1
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CHE L’UNIVERSO ESERCITA SU CIASCUNO
DI NOI, CON GLI INSONDABILI MISTERI
CHE CONSERVA ANCHE ALLA LUCE DEI
PIÙ MODERNI RISULTATI SCIENTIFICI, E
LA CURIOSITÀ DI CONOSCERE ALMENO
IL CONOSCIBILE DELLO SPAZIO INFINITO
CHE CI CIRCONDA. IL CHE GIUSTIFICA
LA PUBBLICAZIONE DI QUESTA SORTA DI
ATLANTE ILLUSTRATO DELL’UNIVERSO.
ATTRAVERSO QUESTE PAGINE SI SONO VOLUTE
DARE, IN MODO SEMPLICE E IL PIÙ POSSIBILE
CHIARO, TUTTE LE MAGGIORI INFORMAZIONI
IN NOSTRO POSSESSO CIRCA I CORPI
CELESTI, CON PARTICOLARI RIFERIMENTI
ALLA TERRA E AI COMPONENTI DEL SISTEMA
SOLARE, CORREDANDOLE DI UN MATERIALE
ICONOGRAFICO TANTO PERTINENTE E
CHIARIFICATORE QUANTO SPETTACOLARE.
A COMPIMENTO DELL’OPERA SI È AGGIUNTA
UNA PICCOLA APPENDICE CHE AIUTA A
CAPIRE VELOCEMENTE COME SI SONO
EVOLUTI I PRINCIPALI STRUMENTI MODERNI
DI INDAGINE DEL CIELO, OVVERO LE SONDE
E I TELESCOPI. STRUMENTI SENZA I QUALI,
NEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI DI STORIA
DELL’ASTRONOMIA NON AVREMMO POTUTO
COMPIERE I PICCOLI GRANDI PASSI CHE
ABBIAMO COMPIUTO.
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A
lmeno qualche volta nella vita sarà capitato a tutti
di osservare con curiosità il cielo, di porsi delle
domande sulle stelle, di provare meraviglia per
la loro piccolezza, il loro splendore e il numero
nell’immensità dello spazio: e poi concludere sgomenti: «Ma a che serve tutto questo?»
Fin dai tempi più antichi molti hanno risposto che il Sole, la
Luna e le stelle esistevano per dimostrare la gloria e l’onnipotenza
di Dio, oppure che quelle stelle erano esse stesse degli dèi; mentre
altri, forse un po’ meno riverenti, cercarono anche risposte diverse. Comunque, non si scoraggiarono mai completamente davanti
a un mistero che sembrava impenetrabile, e poco per volta incominciarono a scoprire e a imparare qualcosa, a decifrare qualche
«geroglifico» in quel gran libro di stelle. Così, per esempio, notarono delle regolarità, oppure delle differenze di colore e comportamento; e soltanto per questo riuscirono anche ad acquistare una
certa autorità sui loro simili.
Sicché, si potrebbe incominciare col dire che non è proprio vero
che le stelle non servano a niente. Infatti, si imparò presto che
molte di esse aiutano a orientarsi; il loro sorgere e tramontare contrassegna il trascorrere delle stagioni, i ritmi del Sole e della Luna
stabiliscono il calendario. Inoltre, come abbiamo accennato, l’osservazione dei pianeti e delle costellazioni fu una delle principali
fonti dell’autorità dei sacerdoti sumeri, babilonesi e caldei, che
erano astronomi, astrologi e anche banchieri. Per avere maggior
potere tenevano segreta la loro scienza, e perciò erano molto più
simili a Rosacroce o Massoni che a scienziati moderni. Non per
nulla gli antichi pensavano che la loro autorità fosse d’origine divina e venisse dal cielo.
I libri sacri sono ricchi di riferimenti astronomici. Nella Bibbia si
legge come e in che ordine Dio creò il mondo, ma anche le domande di Dio al misero Giobbe: «Conosci tu le dimensioni della Terra e la
dimora della luce e delle tenebre? Conosci tu forse l’ordine del cielo
e chi determini la sua influenza sulla Terra?» Dal Corano apprendiamo che Abramo contemplava le stelle, e Filone di Alessandria,
che visse all’incirca dal 30 a.C. al 50 d.C., ci ha tramandato che il
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«caldeo Abramo era un astronomo nato. Nella sua patria si dedicò
all’osservazione dei corpi celesti, calcolò il loro corso e si meravigliò
della loro armonia…» Un concetto, quello dell’armonia, che dopo
Pitagora acquistò grande popolarità non solo in astronomia, ma nella scienza in genere.
Negli ultimi secoli l’astronomia ha compiuto straordinari progressi, ormai gli astronomi non sono più sacerdoti e nemmeno astrologi,
sebbene rimangano sempre più o meno legati al potere politico per
i costosi mezzi e strumenti di cui abbisognano. Specialmente oggi
che siamo entrati nell’era dei viaggi spaziali e delle astronavi, e si
comincia a penetrare in quelle «dimore celesti» di cui Dio parlava a
Giobbe come gli fossero escluse per sempre, almeno in vita.
Tuttavia, proprio per l’oggetto stesso di una ricerca che non finisce di apparire temeraria, ossia quest’Universo dispiegato davanti ai nostri occhi con i suoi inesauribili enigmi, nell’astronomia
persiste una specie di alone mistico, un qualcosa di religioso, un
anelito a leggere il cielo, che ci colpisce fin da bambini. Infatti, è in
generale da bambini, quando l’ingenuità è una virtù e le avventure
tutte meravigliose, che viene la vocazione astronomica.
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••1 La Stazione Spaziale
Internazionale. Si tratta di
una grande base scientifica
orbitante a 390 km di quota,
abitata in modo continuo
sin dall’anno 2000. I moduli
abitati e i laboratori si trovano
sull’asse centrale, che nella
foto è orientato in senso
verticale (mentre l’asse
orizzontale regge i pannelli
solari). L’equipaggio è
composto da 2 a 6 astronauti
che si avvicendano in orbita,
provenienti da 15 nazioni
diverse in un decennio.
La Stazione Spaziale è
stata costruita per stadi
successivi realizzando una
struttura modulare, con inizio
nel 1998 e completamento
nel 2012. (NASA)
CAPITOLO 1
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È quanto è accaduto al noto astronomo Fred Hoyle. Molti lo
conosceranno, se non per le sue discusse teorie astrofisiche e
cosmologiche, per i libri di fantascienza come la Nuvola Nera, A
come Andromeda, Nello spazio profondo, Quinto pianeta, Inferno, e tanti altri romanzi. Nel volumetto in parte autobiografico intitolato Incontro col futuro, Hoyle ci racconta che scoprì il richiamo
delle stelle mentre giocava con un compagno per i campi del suo
paese natale, Bingley, nell’Inghilterra settentrionale. Aveva otto o
nove anni, era buio fondo e, dall’alto di un muretto dove si era
arrampicato, gli sembrò di sentirsi all’improvviso come staccato
dalla Terra, mentre il cielo punteggiato di migliaia di stelle gli appariva mostruosamente grande. «Così – egli dice – diventai consapevole e quasi intimorito dalle stelle. Quando, poi, mi decisi di
scendere dal muretto avevo maturato un proponimento. Ricordo
che stavo in piedi, ancora con gli occhi rivolti in alto, e fu allora
che stabilii che cosa avrei fatto da grande: avrei cercato di sapere
cosa fossero quelle luci lassù, e credo di aver mantenuto questa
promessa per tutta la mia vita». Infatti, ha contribuito a scoprire
come evolvono le stelle, e quale sia l’origine degli elementi più
pesanti dell’elio.
Ma è il futuro dell’astronomia che si prospetta sbalorditivo. Innanzi tutto perché, con l’avvento dell’astronautica, con i progressi
nelle sonde e telescopi, è come se tutta l’umanità fosse uscita
dall’infanzia e, apprestandosi a conquistare lo spazio, stesse diventando adulta. Tutto è iniziato con l’esplorazione della Luna negli
anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Nei decenni seguenti
grandi risultati nell’esplorazione degli altri pianeti e satelliti del Sistema solare sono stati raggiunti da nuove generazioni di sonde e
rover (come vedremo in Appendice).
In questi ultimi anni, il grande progetto internazionale della Stazione spaziale, piattaforma-laboratorio orbitante dove gli astronomi
stanno a turno per lunghi periodi, abituandosi a vivere nello spazio, verso cui hanno fatto la spola per anni le navette americane
Space shuttle e ora le russe Soyuz, assicurando trasporto e rifornimenti agli astronauti. Tutti questi progressi si possono in effetti
considerare come la nuova scuola, laboratorio e dimora dell’uomo
spaziale. In realtà, non soltanto ci si propone ormai di abitare sui
pianeti o in colonie spaziali, ma anche servirsi di asteroidi, comete,
pianeti e perfino stelle come fossero materiali da costruzione. Infatti, si pensa che un giorno saremo capaci di trasformare il Sistema solare come fanno architetti e ingegneri quando costruiscono
o riadattano una casa alle nostre esigenze. C’è chi pone il raggiungimento di questi obiettivi di ingegneria planetaria e stellare in un
futuro abbastanza prossimo; ma anche se occorressero molti altri
secoli, è probabile che ci arriveremo. ••1
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PER CONOSCERE LA VOLTA CELESTE
Oggi abbiamo le macchine fotografiche, le fotocellule, le camere televisive, i telescopi spaziali, a raggi X, gamma e neutrini; si
perfezionano quelli per la registrazione di eventuali «onde gravitazionali» (predette dalla teoria della Relatività Generale, ma non
ancora scoperte), per cui si può affermare che, come i medici
hanno perso l’abitudine di esaminare un paziente «auscultandolo e palpandolo», così gli astronomi di professione non guardano
quasi mai le stelle a occhio nudo. L’occhio nudo serve all’astronomo molto meno di quanto non serva ancora l’«occhio clinico» al
medico, perché i segreti più profondi della natura sono nascosti
sia alla vista che ai cinque sensi in generale. Perciò, l’uomo ha
inventato e trovato una quantità di nuovi sensi artificiali: un segno
anche questo che l’umanità non è nata per vivere soltanto sulla
«pellicola» del nostro pianeta, come se fosse – direbbe Arthur Eddington – una specie di muffa.
Tuttavia, è altrettanto chiaro che una prima conoscenza del cielo non possiamo farla che a occhio nudo. Ed è sicuramente più
facile se ci viene in aiuto qualcuno che l’astronomia la conosce di
già, almeno un poco; e, per così dire, ce la presenta, sebbene non
sia affatto disdicevole essere presuntuosi e fare da soli. Alcuni si
aiutano con quella sorta di «biglietti da visita» della volta celeste,
che sono i planisferi.
Prendiamone uno. È di cartone o di plastica, ed è formato da
due dischi girevoli l’uno sull’altro. Quello più grande porta disegnate le stelle del nostro emisfero con al bordo la scala dei giorni
e dei mesi; mentre il disco minore riproduce l’orizzonte e ha sul
bordo la scala delle ore. Serve tutto l’anno e conviene studiarselo
a tavolino prima di confrontarlo col cielo. In ogni caso è sempre
bene individuare prima il Nord e cercare la stellina all’estremità del
Carro dell’Orsa Minore, ossia la Polare; poi, passare alle più luminose stelle dell’Orsa Maggiore, al W di Cassiopea, e così via. ••2
Avvertiamo che l’amore per l’astronomia e specialmente l’osservazione sistematica del cielo a occhio nudo necessitano di un minimo di preparazione degli occhi. Pur usando il telescopio, nell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli si preparava stando per
quasi un’ora in una stanza buia a occhi chiusi, affinché la retina
acquistasse la maggiore sensibilità possibile, che può aumentare
di 10.000 volte. Quindi si metteva all’oculare del telescopio, raggiungendo risultati tali che molti astronomi sembravano ciechi in
paragone a lui. Altro famosissimo «occhio di falco» era l’astronomo
americano Edward Emerson Barnard. Ma, a proposito di acuità
visiva e visibilità delle stelle, quante se ne possono vedere a occhio
nudo? Innanzitutto dobbiamo dire che le stelle sono più colorate di
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••2 Le due Orse e la
Stella Polare. L’Orsa
Maggiore e l’Orsa Minore
si possono ammirare ogni
notte serena, guardando
verso Nord. La fotografia
mostra come queste
costellazioni si vedono nelle
serate autunnali. Poiché
la volta celeste ruota, la
stessa visione appare
capovolta nelle sere di
primavera. L’Orsa Maggiore
si riconosce facilmente,
perché è composta di
stelle luminose; la stella
centrale della coda è
Mizar, che a occhio nudo
si vede accompagnata
dalla vicinissima e quasi
indistinguibile Alcor.
Per trovare la Stella Polare,
basta prolungare la linea
immaginaria (trattini) che
congiunge le due stelle
anteriori dell’Orsa Maggiore;
la Polare, chiamata così
per la sua vicinanza al Polo
Nord Celeste, è a sua volta
la stella di coda dell’Orsa
Minore. Quest’ultima
costellazione è meno facile
da individuare, essendo
costituita principalmente
da stelle deboli. (DA
SPACETELESCOPE.ORG HEIC0401G)
CAPITOLO 1
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quanto sembri di primo acchito; poi spiegheremo perché il cielo
di giorno ci appare blu, mentre gli astronomi sanno che è nero
come l’inchiostro. Riguardo al cielo notturno accenneremo anche
al cosiddetto «paradosso di Olbers», entrando così nel vivo dei
problemi cosmologici ancora prima di conoscere le stelle.
Generalmente noi riusciamo, nelle migliori condizioni dei nostri
occhi, a vedere stelle piuttosto deboli, come quelle di 6a magnitudine ed eccezionalmente di 7a, tenuto conto che lo splendore
di una stella diminuisce di circa 2,5 volte da una magnitudine a
quella successiva. Ma che significa magnitudine di una stella?
È facile intuire che lo splendore delle stelle dipende sia dalle loro
dimensioni e temperature che dalla loro distanza. Però, anche la
stima dello splendore delle stelle ha una storia che merita di essere
raccontata. La storia incomincia con Ipparco e la costellazione del-
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lo Scorpione. Osservando un planisfero si nota subito che lo Scorpione è una di quelle costellazioni che si vedono bene d’estate, e
la sua stella più brillante è Antares, un nome che significa «rivale
di Marte». Infatti, Antares e Marte hanno quasi lo stesso colore, e
se non ci fosse la scintillazione che distingue le stelle dai pianeti,
quando Marte si trova più vicino alla Terra, entro la costellazione
dello Scorpione, si potrebbero confondere.
Nel 136 a.C., nell’osservare una cometa apparsa nella costellazione dello Scorpione, Ipparco, di cui Tolomeo diceva che «amava
lavorare sodo come amava la verità», si accorse che le stelle in
mezzo alle quali la cometa si trovava non erano state censite e
catalogate come avrebbero dovuto essere. Così, per localizzare e
seguire meglio il cammino di future comete, Ipparco prese a notare il numero, la luminosità relativa e la posizione di tutte le stelle
più luminose del cielo. Ne risultò un catalogo di 1080 stelle, che
completò nel 129 a.C. Egli aveva suddiviso queste stelle in 6 classi
di grandezze o magnitudini, partendo da Sirio e Vega che apparivano più grosse e si «accendevano» per prime nel cielo della sera.
Perciò, queste vennero definite di 1a magnitudine, mentre chiamò
di 6a quelle che apparivano per ultime. Per inciso, val la pena di
notare che questo «misurare» sia i corpi celesti, allora considerati
divinità, come tutta la natura in genere, se da un lato è il principio
della scienza, dall’altro ha fatto sempre rabbrividire i maghi antichi e moderni, del resto smentiti dalla Bibbia stessa che racconta
come Dio aveva creato il mondo «sopra il numero, il peso e la
misura». E quindi, il misurare si potrebbe considerare un modo
di riscoprire Dio, attraverso l’opera sua. Così, infatti, l’intendevano
scienziati credenti come Copernico, Keplero, Galileo e Newton,
considerati i fondatori della scienza moderna.
Riprendendo il nostro discorso, nel 1856 l’astronomo inglese
Norman Robert Pogson trovò il modo di trasformare in numeri le
stime di Ipparco ancora troppo opinabili e qualitative, mostrando
che una stella di 1a magnitudine era circa 100 volte più luminosa
di una di 6a. In genere, a una differenza di cinque magnitudini,
corrisponde un rapporto di intensità 100; e fra una magnitudine
e la successiva vi è una differenza di intensità di 2,512, in quanto
(2,512)5=100. Inoltre, la scala delle magnitudini è stata estesa
ai numeri negativi per le stelle più brillanti, cosicché Antares risulta di magnitudine +0,9, ma Sirio diventa di magnitudine -1,6;
Venere, al suo massimo di splendore, è di magnitudine -4,08;
Marte -1,24 (sempre al suo massimo); la Luna Piena -12,5 e il
Sole -26,6.
I maggiori telescopi ci permettono di osservare visualmente stelle fino alla magnitudine di +19 o 20, mentre fotograficamente si arriva alla magnitudine +22, 23 e anche 24, mentre con il telescopio
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CAPITOLO 1
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••3 Luminosità e
distanza. Aumentando la
distanza da una stella, la
stessa quantità di luce si
disperde sopra superfici
sempre più ampie, sicché
nell’occhio dell’osservatore
entra sempre meno luce.
Dalla figura si vede come,
alla distanza 3, la superficie
risulta 9 (ovvero d²) volte
più ampia, sicché viene
osservata una luminosità
apparente pari a 1/9 (ovvero
1/d²). Questa è la legge
dell’inverso del quadrato.
Ad esempio, se la distanza
aumenta 10 volte, la
luminosità si riduce a 1/100,
per cui la magnitudine
apparente (come spiegato
nel testo) cresce di 5 unità.
spaziale Hubble (HST) e con i telescopi
Keck da 10 metri è stata raggiunta la magnitudine 30. Così risulta che fra il Sole e
una stella di magnitudine +22 esiste una
differenza di 48,6 magnitudini, per cui
il Sole ci appare circa 28 miliardi di miliardi di volte più luminoso di una stellina
di magnitudine +22, perché (2,512)48,6=
27,6 miliardi di miliardi. Dato che fra la
Luna Piena e il Sole c’è una differenza di
14,1 magnitudini, avremo che il Sole è
(2,512)14,1= 436.516 volte più luminoso
della Luna Piena.
Le magnitudini di cui abbiamo appena
parlato si dicono «magnitudini apparenti»
perché si basano sulla luminosità che ci
arriva. È evidente, però, che lo splendore
di una lampada, come quello di una stella,
dipende tanto dalla sua luminosità quanto
dalla distanza. Per ottenere una «magnitudine assoluta» o intrinseca, che tenga
conto anche della distanza, gli astronomi
calcolano quale sarebbe lo splendore di una stella qualsiasi, se si
trovasse a una distanza standard di 10 parsec, uguale a circa 33
anni luce. Queste ultime sono unità di misura astronomiche venute in uso soltanto alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del
Novecento, quando ci si rese conto delle enormi distanze in gioco
e delle vere dimensioni della nostra Galassia. ••3
Detto questo, ci accorgiamo subito che il Sole, in realtà, non
è una stella molto luminosa, in quanto da una «magnitudine apparente» di -26,6, trasportato a una distanza di 33 anni luce,
avrebbe una magnitudine assoluta di +4,8: inferiore a quella di
numerose stelle che si trovano intorno a noi, e che ci appaiono
più deboli unicamente perché più lontane. Stelle come Antares,
Sirio, Betelgeuse, Procione, Aldebaran, Spica, Regolo sono molto
più luminose del Sole. Ma la stella che ha una magnitudine assoluta più grande di tutte quelle conosciute non appartiene alla Via
Lattea, ma alla Grande Nube di Magellano. Si chiama S Doradus
(dalla costellazione in cui si trova: Dorado) e raggiunge una magnitudine assoluta di -9,5. Sirio è la più luminosa, anche come
magnitudine assoluta nel raggio di 12 anni luce, irradiando 30
volte più del Sole. Tuttavia, se Rigel fosse alla medesima distanza
di Sirio, si vedrebbe anche di giorno. Se poi a questa distanza
avessimo S Doradus, la sua luce sarebbe paragonabile a quella
della Luna Piena.
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Le stelle visibili a occhio nudo in tutto il cielo, compreso l’emisfero australe,
sono circa 7000 (altri sostengono 6000 o
9000) e perciò 3500 quelle osservabili in
ogni momento sopra l’orizzonte. Però, di
queste 3500, quasi un’altra metà ci viene
nascosta dalla foschia e opacità dell’aria,
specie tutto intorno all’orizzonte, tanto
che, in conclusione, le stelle visibili a occhio nudo si ridurrebbero a 2000, in una
notte senza luna. Con un normale binocolo si arriva a osservarne 10.000, con un
piccolo telescopio da 7 cm 300.000, e coi
più grandi telescopi e lunghe esposizioni
fotografiche se ne potrebbero registrare da
2 a 3 miliardi per ogni emisfero. La maggior parte di queste appartiene alla nostra
Galassia, la quale ne contiene (come si
deduce da altre considerazioni) 100 o
200 miliardi, e probabilmente migliaia di
miliardi di pianeti, poiché le osservazioni
sia da Terra ma soprattutto dai satelliti Co18
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••4 La luce zodiacale e la Via Lattea nell’emisfero
celeste meridionale. La luce zodiacale appare come
un’ampia area luminosa triangolare, elevata sull’orizzonte
dopo il crepuscolo o prima dell’alba, che si nota qui al
centro dell’immagine. Essa è provocata dalla riflessione
della luce solare da parte della polvere meteoritica,
addensata sul piano dell’eclittica. Per la sua evanescenza,
la luce zodiacale si può vedere soltanto con cielo
limpidissimo, ad esempio in alta quota sulle Alpi.
Questa splendida panoramica mostra la volta celeste
meridionale – non visibile dall’Italia – con la Via Lattea
che si estende come un enorme arco nel cielo, insieme
alle due Nubi di Magellano, basse sull’orizzonte a destra.
La foto è stata scattata dalla spianata del VLT (Very Large
Telescope), in Cile sulle Ande. (ESO/H.H. HEYER)
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rot, francese, e Kepler, americano, scoprono sempre nuovi pianeti
extrasolari e si ritiene probabile che la gran maggioranza delle stelle, forse tutte, abbia un sistema planetario.
Si può credere che nello spazio dove non c’è opacità né turbolenza atmosferica un astronauta debba vedere più stelle di noi,
ma ciò non avviene che in minima parte. Si spiega col fatto che
l’occhio non è sensibile all’ultravioletto, ma ha un massimo di
sensibilità alle radiazioni giallo-verdi, le quali sono poco assorbite dall’atmosfera terrestre quando è limpida. Anzi, nello spazio,
data la mancanza di scintillazione, le stelle sembrano più piccole
e meno luminose. Insomma, si vedono quasi come da una montagna di 2 o 3000 m.
Riguardo alla maggiore o minore visibilità a occhio nudo dei
corpi del Sistema solare, noteremo che dopo il Sole e la Luna, sono
facilmente visibili Venere, Marte, Giove, Saturno e le meteore. Senza troppa difficoltà, ma soltanto in occasioni favorevoli, si possono
scorgere Mercurio, alcune comete, il falcetto della Luna dopo un
giorno dalla Luna Nuova, la Luce zodiacale. Osservatori molto abili
e dagli «occhi di falco» riescono a vedere Urano, l’asteroide Vesta,
le macchie solari più grandi (diametro circa un primo, pari a circa
1/30 del diametro solare) e la cosiddetta Luce dell’Opposizione (o
Gegenschein) che si può vedere talora nella posizione esattamente opposta al Sole. Alcuni affermano di avere osservato perfino le
fasi di Venere. ••4
Naturalmente tutto ciò che abbiamo detto riguardo alla visibilità
dei corpi celesti vale in assenza di inquinamento luminoso, dovuto al dilagare dell’illuminazione artificiale. In Europa si può dire
non esista un luogo sufficientemente buio dove piazzare i grandi
telescopi moderni, che infatti si trovano tutti in luoghi lontani da
regioni popolate. I grandi telescopi da 8 metri di diametro dell’Osservatorio Europeo per l’emisfero australe (ESO) si trovano sulle
Ande cilene, nel deserto di Atacama, i due telescopi Keck da 10
metri di diametro degli Stati Uniti si trovano sul vulcano spento
Mauna Kea alle Hawaii a quasi 5000 metri di altitudine, mentre
il 5 metri di Monte Palomar è fortemente disturbato dalle luci di
San Diego.
CIELO AZZURRO, SALMONE E NERO
Perché il nostro cielo è così bello e azzurro? A questa domanda,
John Tyndall, un fisico inglese dell’Ottocento, rispose: «Perché viviamo nel cielo, e non sotto il cielo». Tuttavia, questo colore non
è una radiazione emessa dall’atmosfera medesima, altrimenti risplenderebbe anche di notte, ma dal Sole e dalle molecole e dal
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pulviscolo dell’aria che ne diffondono selettivamente la luce: diffondono, cioè, maggiormente la parte della luce solare a lunghezza d’onda breve che non quella a lunghezza d’onda più lunga. In
altre parole, il cielo ci appare blu perché i gas atmosferici riflettono
il blu della luce solare in tutte le direzioni con assai maggiore efficacia degli altri colori. Via via che ci si innalza nell’atmosfera, la
densità delle molecole diminuisce e il cielo diventa gradualmente
più nero. Sulla Luna, dalle astronavi e sui pianeti privi di atmosfera,
o con un’atmosfera molto più debole, il cielo ci apparirebbe nero.
Invece, su Marte, che ha un’atmosfera ricca di finissime polveri in
sospensione, il cielo – come hanno accertato i Viking 1 e 2 – ha
un pallido color salmone, e anche il terreno, composto di rocce
ricoperte da una patina di ossido di ferro, ha un aspetto di rugginoso deserto.
C’è da immaginare che i futuri abitanti dello spazio e dei pianeti,
se provenienti dalla Terra, per abituarsi a questi mondi tanto diversi dovranno sottoporsi a un lungo e penoso tirocinio.
Dunque, il nostro cielo è blu e la Terra piena di colori per il tipo
della nostra atmosfera che filtra e diffonde la luce solare. Certo, se il
Sole, invece che giallo avesse un colore differente, tutto cambierebbe proprio in rapporto a questo mutamento di colore. Se il Sole, per
esempio, diventasse appena un po’ meno giallo per un aumento
della sua temperatura superficiale, c’è il pericolo che sul nostro
pianeta non soltanto cambierebbero i colori, ma scompariremmo
anche noi e tutta la vita animale e vegetale; gli oceani bollirebbero ed evaporerebbero, e anche l’atmosfera si disperderebbe nello
spazio, lasciando la Terra riarsa e calcinata. Questo vuol dire che la
vita dipende anche dal «colore» delle stelle. In realtà, nello spazio
nero dell’Universo, quei minuscoli puntini di stelle non sono tutti
dello stesso colore rossiccio, azzurrino o biancastro come appaiono
a un’occhiata superficiale, ma dispiegano una grande varietà di
colori e sfumature.
Abbiamo già accennato alla rossa Antares nella costellazione
dello Scorpione. In Orione spicca il contrasto fra la luce rossastra di Betelgeuse e quella bianco-azzurra di Rigel. Sirio, nel Cane
Maggiore, è bianca, mentre Procione, nel Cane Minore, è gialla. E
il loro colore non è costante, ma in continuo e più o meno lento o
rapido cambiamento, a seconda della loro evoluzione e della loro
età, che si conta in milioni e miliardi d’anni. Eppure, per l’effimera
brevità della nostra vita, una volta le stelle si credevano e si chiamavano fisse e immutabili, invece anche loro nascono e muoiono
viaggiando nello spazio. ••5
Gli antichi astrologi pensavano che le stelle e i pianeti (l’abbiamo
già detto) fossero divinità, e si spiegavano queste differenze con le
differenze di temperamento e carattere di questi dèi. Oggi, invece,
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••5 Paragone tra gli
oggetti celesti visibili a
occhio nudo e con posa
fotografica. Una data
regione del cielo – qui la
costellazione di Orione
– vista a occhio nudo
ci mostra in generale
soltanto alcune decine
di stelle scintillanti (a
sinistra), raramente si può
scorgere una nebulosa o
un ammasso come una
macchiolina sfocata. Si può
anche vedere che la stella in
alto a sinistra, Betelgeuse,
ha colore aranciato, mentre
quella in basso a desta,
Rigel, è azzurrina.
La stessa regione, osservata
con una fotocamera
dotata di moderni sensori
elettronici, dopo una
lunga posa fotografica e
successiva elaborazione
dell’immagine, ci mostra
l’aspetto «profondo» (a
destra) che vedremmo
se fossimo dotati di occhi
enormemente più sensibili
alla luce. Si nota come lo
spazio interstellare è pervaso
da materia diffusa. L’unica
nebulosa visibile anche a
occhio nudo è M42, che si
trova al centro in basso
(R.B. ANDREO, DEEPSKYCOLORS.COM)
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sappiamo che la varietà di colore indica una diversa temperatura
della superficie delle stelle. Come il ferro portato all’incandescenza
passa dal rosso cupo al bianco azzurro via via che la temperatura
aumenta, così le stelle vanno da temperature superficiali di 3 o
4000 gradi Kelvin (K) delle rosse Betelgeuse o Aldebaran, ai 6 o
7000 K di stelle come il Sole, Procione e a Centauri, ai 10.000 K
della bianca Sirio e ai 20 o 30.000 K di stelle bianco-azzurre come
Rigel. Inoltre, si conoscono stelle così fredde da essere visibili solo
con strumenti sensibili all’infrarosso; e, viceversa, stelle tanto calde da superare temperature superficiali di 100.000 K.
COSMOLOGIA DEL GIORNO E DELLA NOTTE
Spesso le cose che sembrano più ovvie nascondono profondi problemi. Agli antichi occorse molto tempo per capire che cosa fossero
il giorno e la notte. Non si pensava al Sole, perché il Sole non c’era
quando c’era il crepuscolo, seguitava a far giorno anche quando il
tempo era nuvoloso, e non si spiegavano fenomeni quali le aurore
boreali e la Luce zodiacale. Si argomentò dunque che il giorno fosse
una specie di vapore luminoso e la notte (come dice Paul Couderc)
un vapore nero che montava a sera dalle viscere della Terra. Questo
pensiero fu conservato sino alla fine del V secolo a.C. in Grecia e
altrove; ma ancora nel IV secolo d.C. un uomo colto e celebre quale Sant’Ambrogio scriveva: «Dobbiamo rammentarci che la luce
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del giorno è una cosa e un’altra la luce del
Sole, della Luna e delle stelle, il Sole coi
suoi raggi dando semplicemente lustro alla
luce diurna. Infatti, prima del sorgere del
Sole, il giorno rischiara, ma non nel suo
pieno fulgore perché il Sole deve ancora
contribuire col suo splendore».
Il fatto sorprendente è che il problema
della notte e del giorno è un problema
risolto solo in parte. La visione del cielo
buio disseminato dei puntini luminosi delle stelle pone addirittura la questione dei
limiti o dell’infinità dell’Universo, della sua
struttura e natura, e anche della vita.
In particolare bisogna esporre un’interessante ipotesi che gli astronomi chiamano
«paradosso di Olbers» dal nome di Heinrich
W. M. Olbers, detto «la gloria di Brema», la
città dove nacque e passò la maggior parte
della sua vita a cavallo fra Sette e Ottocento. Era un medico che studiò matematica
e astronomia per conto proprio, e il suo
maggior interesse fu per le comete, tanto
che per studiarle si costruì un osservatorio,
usando due ampi balconi al secondo piano della sua casa. Oltre a quattro comete
scoprì anche due asteroidi: Pallade e Vesta.
Anzi, notando che le orbite di questi due
pianetini avevano un’origine comune, suggerì che potevano essere nati dall’esplosione di un pianeta più grosso. ••6
Il «paradosso» che oggi porta il nome
di Olbers era già stato messo in rilievo da
Edmund Halley (quello della famosa cometa) nel 1720, e poi ripreso e discusso dall’astronomo svizzero Jean-Philippe
Poys de Chéseaux nel 1744, scopritore
in quel medesimo anno della celebre cometa a 6 code. Olbers scrisse di questo
problema il 7 maggio 1823 nella rivista
«Astronomisches Jahrbuch». Se noi accettiamo che l’Universo sia infinito, come
allora quasi tutti credevano, trasparente e
uniforme, in qualsiasi direzione si guardi
si dovrebbe vedere una stella, e l’intero
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••6 Il paradosso di Olbers, ovvero
il mistero del buio notturno. Per
comprendere il problema, paragoniamo
l’Universo a una foresta di stelle e
galassie, chiedendoci quanto sia vasta.
Se ci trovassimo entro una selva reale,
basterebbe guardarsi intorno. Infatti,
in un bosco limitato si vedono gli alberi
sullo sfondo dello spazio esterno,
mentre in una foresta sconfinata si
osserva ovunque una sovrapposizione
di piante. Il cielo intorno a noi è fatto
di stelle su uno sfondo buio (sopra),
proprio come accade in un «bosco»
limitato. È dunque impossibile che
la «foresta» di stelle sia infinita,
poiché esse coprirebbero l’intero cielo
(sotto). Oggi sappiamo che l’Universo
osservabile ha un limite preciso, detto
«orizzonte cosmologico».
(WWW.FERLUGA.NET)
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cielo dovrebbe risplendere giorno e notte
come la superficie di un unico e immenso Sole, 50.000 volte più luminoso del
nostro, mentre sulla Terra la temperatura
sorpasserebbe i 5000 °C.
Olbers e altri hanno spiegato il «paradosso» assumendo che lo spazio non
fosse trasparente, e che la materia interstellare dovesse perciò assorbire una
percentuale di luce, così da farci vedere
le stelle come puntini brillanti sullo sfondo scuro del cielo. Altri astronomi, come
Abbe, Proctor, Von Seeliger e Newcomb
erano invece dell’opinione che l’Universo
non fosse infinito, ma finito. È di un certo
interesse conoscere i commenti di Olbers
al fatto che non tutte le stelle del cielo
sono visibili. «Che peccato», egli dice,
«se non esistesse la notte! È vero che
Iddio onnipotente avrebbe potuto adattare l’organismo umano a sopportare le
conseguenze di un cielo sempre radioso
come un unico Sole ed equivalente alla
temperatura media e luce del Sole vero,
ma non avremmo conosciuto niente delle
stelle fisse; avremmo individuato il nostro
proprio Sole unicamente attraverso le sue
macchie e non senza penose difficoltà; e
noi avremmo dovuto riconoscere la Luna e i pianeti soltanto come
dischi neri sullo sfondo brillante del cielo. I pianeti illuminati da
questo cielo solare sarebbero apparsi più scuri del resto del cielo
in proporzione alle loro maggiori o minori proprietà riflettenti».
Ormai da quasi un secolo sappiamo che le stelle sono raccolte
in galassie e in ammassi di galassie, ma questo non diminuisce la
validità del «paradosso di Olbers», perché si crede che anche gli
ammassi galattici siano sparsi in modo uniforme nell’Universo. Piuttosto, non si ritiene valida la spiegazione di Olbers che a produrre il
cielo buio sia l’assorbimento prodotto dai gas interstellari o intergalattici. Infatti, come ha notato Hermann Bondi, la radiazione delle
stelle riscalderebbe la materia interstellare fino a farle raggiungere
una temperatura alla quale dovrebbe riemettere tutta la radiazione
ricevuta, col risultato che il cielo sarebbe ugualmente brillante.
Bisogna concludere che la risposta deve essere un’altra. In realtà, se ne sono trovate diverse, e cioè che l’Universo non è euclideo
(piano), ma curvo; che ha dimensioni finite; che non è uniforme e
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ha una struttura gerarchica; che è giovane; che è in espansione.
Quest’ultima è l’opinione più diffusa: la luce che riceviamo dalle
galassie lontane è minore di quanto sarebbe se esse non fossero
in fuga. Ovvero, la luminosità apparente di una galassia diminuisce più rapidamente del quadrato della sua distanza a causa della
velocità di recessione. La luminosità di una galassia distante circa
due miliardi d’anni luce è appena due terzi di quanto sarebbe se
l’Universo non fosse in espansione. Se una galassia recedesse alla
velocità della luce, non si potrebbe più vedere perché la sua luminosità sarebbe zero. Tuttavia, c’è chi non accetta neppure questa
soluzione, ritenendo che l’espansione giochi un ruolo relativamente
poco importante.
In questo senso il fisico e astronomo Edward R. Harrison sostiene che il cielo è nero durante la notte perché la radiazione
luminosa delle stelle e delle galassie non ci perviene da uno spazio
infinito, ma soltanto da una sfera limitata intorno a noi (sfera di
Hubble) avente un raggio di 13,7 miliardi di anni luce. Infatti da
distanze superiori a questo limite, detto orizzonte cosmologico, la
luce non ci può raggiungere poiché il suo viaggio durerebbe più
dell’età dell’Universo, che è pari appunto a 13,7 miliardi di anni.
DALLA COSTELLAZIONE DI ORIONE E DEL CANE… A QUELLA
DEL GATTO
La storia delle costellazioni può far pensare che a volte l’astronomia
sia anche un ramo della letteratura fantastica. È, infatti, indubbio il
contributo della fantasia, ma è ancora più vero che l’«invenzione»
delle costellazioni servì a scopi pratici come l’osservazione del Sole
e della Luna, per regolare il calendario e prevedere le eclissi. Si riconosce questa utilità delle costellazioni dall’enorme rilievo e significato che esse assunsero per differenti popoli, culture ed economie. I
popoli cacciatori diedero tutti grande importanza a Orione, costituita
dalle stelle z, e e d Orionis, conosciute anche coi nomi arabi di Alnitak, Alnilam e Mintaka, in cui vedevano una schiera di cacciatori,
mentre per i Patagoni sono le Tre Bola Bola, o tre pietre tonde con
le quali i cacciatori uccidono gli animali. Per un popolo agricolo quale quello degli Ewe dell’Africa, invece, Orione indica un periodo di
piogge, e annuncia precisamente sette giorni di pioggia in relazione
al numero di stelle più brillanti che compongono la costellazione.
Alle culture dei cacciatori appartengono pure l’Orsa Maggiore e
Minore. Nell’Orsa Maggiore alcuni popoli vedono un orso circondato da sette cacciatori, e la piccola stella Alcor, che un occhio acuto
può distinguere dalla vicina e più luminosa Mizar, è la pentola nella
quale i cacciatori intendono cuocerlo. Per i Samoiedi di Turuhansk
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••7 Il moto apparente
della volta celeste. Per
effetto della rotazione
terrestre, i corpi celesti
descrivono un cerchio
completo in 24 ore attorno
all’asse polare. La Stella
Polare, che si trova in
posizione quasi coincidente
col Polo Nord celeste, resta
praticamente immobile. Le
stelle che sono abbastanza
vicine al Polo descrivono
cerchi sufficientemente
piccoli per mantenersi
sempre sopra l’orizzonte,
pertanto si chiamano stelle
circumpolari. La fotografia
mostra il cielo sopra il
vulcano spento Mauna Kea
alle isole Hawaii. Sulla sua
sommità, a ben 4200 metri
di quota, sono concentrati
alcuni fra i più grandi
osservatori astronomici
del mondo. Per realizzare
l’immagine sono stati
combinati più di 150 singoli
scatti fotografici, ottenuti
durante una singola notte,
con la presenza fuori campo
della luna che illumina
debolmente il panorama.
(P. MICHAUD, GEMINI OBSERVATORY)
CAPITOLO 1
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la Stella Polare è un cacciatore che tenta di abbattere il Cervo (l’Orsa Maggiore). Nella tradizione induistica, le stelle dell’Orsa Maggiore non raffigurano più un animale coi suoi cacciatori, ma sette saggi
assunti al cielo. Tuttavia, i Kirghisi chiamano le stelle I Sette Ladri e
li accusano d’aver rubato due delle Pleiadi.
Naturalmente, grande importanza ha la Stella Polare che, quando non appare in miti di origine venatoria, assume la funzione di
cardine o centro del mondo. Per i Sioux è il centro di tutte le stelle,
l’Ombelico del Cielo; come del resto lo stesso valore di centro del
cielo, nell’emisfero australe, ha la Croce del Sud, sebbene il Polo
Celeste si trovi nei pressi della stella s Octantis, che ha una magnitudine +5,5 e quindi non poteva essere utile per gli antichi navigatori,
i quali preferivano orientarsi sulla Piccola e Grande Nube di Magellano. Per gli astronauti e le sonde spaziali si usa invece a Carinae,
cioè Canopo, che ha una magnitudine di -0,86. Infatti, per la navigazione spaziale sono necessari tre punti di riferimento ben distinti
e separati. Il Sole e l’emisfero illuminato della Terra sono i primi due
e definiscono una linea nel piano dell’eclittica, mentre Canopo è il
terzo punto perché è la stella luminosa più vicina al Polo dell’eclittica, e la più luminosa dopo Sirio, la quale trovandosi ad appena 40°
dal piano dell’eclittica non permette la stessa precisione.
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Sempre in tema di Stelle Polari, la nostra a Ursae Minoris (detta
anche con voce greca Cinosura, ossia «Coda del Cane») non si
trova esattamente al Polo Nord Celeste, ma a circa un grado da
esso. Sicché vi gira intorno in 24 ore, descrivendo un cerchio di due
gradi di diametro, pari a quasi 4 volte il diametro apparente della
Luna, che misura poco più di mezzo grado, anche se per la sua
luminosità sembra molto più grande. All’interno di questo cerchio
descritto dalla Polare vi sono molte stelle invisibili a occhio nudo, fra
cui la Polarissima, così detta perché, specialmente verso il 1930, si
trovava molto più vicina al Polo Nord. Per individuare questo centro,
3000 anni fa i Cinesi usavano un disco di giada forato nel mezzo.
Lo puntavano verso il cielo settentrionale in modo che i suoi bordi
combaciassero con un certo numero di stelle ben conosciute, e così
il Polo appariva attraverso il foro centrale del disco. A quell’epoca,
cioè quasi al principio della nostra era cristiana, non c’era alcuna
stella brillante che potesse fungere da Polare, come invece è stato
sia prima che dopo, a causa della Precessione degli Equinozi.
Un esperimento molto facile è quello di fotografare la Polare per
mettere in risalto il moto delle circumpolari. Occorre una esposizione di almeno due o tre ore con la camera immobile su un solido
treppiede. Sviluppata la pellicola, si noteranno gli archi di cerchio
luminosi, descritti dalle stelle intorno al Polo, tanto più ampi quanto più lunga sarà stata l’esposizione. Una fotografia analoga fatta
a 25 o 50 anni di distanza mostrerà lo spostamento della stessa
Polare rispetto al vero Polo Celeste. ••7
Prima di ritornare su questo argomento della Polare, apriamo
una breve parentesi per spiegare cosa sia la Precessione degli
Equinozi. Con tale espressione si intende quel fenomeno per cui
l’asse della Terra si comporta come quello di una trottola, e descrive un cerchio di 47° di diametro intorno al Polo dell’eclittica, in un
periodo di 25.780 anni.
Il nome di precessione venne introdotto nel 125 a.C. da Ipparco,
che notò come i punti degli equinozi, cioè i due punti posti sulla
sfera celeste in cui l’eclittica taglia l’equatore celeste, «precedono»
lentamente, ovvero avanzano incontro al Sole.
Vediamo di spiegare un po’ meglio. Partiamo dall’eclittica. Essa
è il cerchio massimo che il Sole, nel suo moto apparente, descrive
in un anno sulla sfera celeste, oppure anche il cerchio d’intersezione del piano dell’orbita terrestre con la sfera celeste. Rispetto
al piano dell’equatore celeste – che è il cerchio massimo lungo
cui l’equatore terrestre taglia la volta celeste ed è perpendicolare
rispetto all’asse di rotazione della Terra – l’eclittica e il suo piano
sono inclinate di un angolo di 23° 27’; i poli dell’eclittica si collocano a nord in direzione della costellazione del Dragone e a sud in
direzione di Dorado. ••8
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••8 La sfera celeste.
L’eclittica (in blu) è
inclinata di 23°,5 rispetto
all’equatore celeste (in
rosso). Sono anche
segnate le posizioni
del Sole sull’eclittica
nel corso dell’anno (in
giallo). Per effetto della
precessione, il Polo Nord
celeste si muove attorno
al Polo Nord dell’eclittica,
descrivendo in circa
26.000 anni un cerchio di
raggio pari a 23°,5.
A causa del cerchio descritto dall’asse terrestre, la Polare, dunque, non è sempre la medesima. Circa 4300 anni a.C. era la stella
i del Dragone; nel 2600 era a del Dragone ed è stata descritta da
astronomi cinesi ed egiziani. Questi ultimi costruivano dei corridoi
nelle piramidi, come quella di Giza, che avevano un’inclinazione di
27° proprio per osservare questa stella durante il suo passaggio al
meridiano in culminazione inferiore (ossia quando raggiunge il suo
punto più basso sull’orizzonte). Nel 1000 a.C. il Polo Nord Celeste
passò fra la stella b dell’Orsa Minore e c del Dragone. Erano i tempi
della spedizione degli Argonauti, e della sfera celeste di Chirone,
la più antica rappresentazione del cielo conosciuta. Chirone era
il mitologico Centauro, al quale San Clemente di Alessandria, seguito da molti altri, compreso Newton, attribuiva l’invenzione delle
costellazioni. Non c’è bisogno di aggiungere che la costellazione
del Centauro si riferisce proprio a lui. Nell’802 d.C. la stella 32 H
della Giraffa (Camelopardalis) si trovava a 0,5° dal Polo Nord Celeste, e sappiamo che serviva ai Vichinghi come Stella Polare. Per
finire il discorso sulla Polare, diremo che la stella a dell’Orsa Minore, la quale, come abbiamo accennato, dista di quasi un grado
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••9 La precessione
dalla vera posizione del Polo, si va accostando progressivamente
ad esso, tanto che nel 2100 d.C. ne disterà appena 28 minuti. Le
rimarrà il titolo di Stella Polare fin verso il 3500 d.C., quando lo
trasmetterà alla meno brillante g di Cefeo. Per riavere una Polare
luminosa più di quella attuale bisognerà aspettare fino all’anno
7400, quando la stella più vicina al Polo sarà a del Cigno, di magnitudine +1; oppure al 13.600, quando i nostri nipoti ammireranno come Polare Vega della Lira, candida e di magnitudine 0. ••9
Nonostante che la costellazione del Cane Maggiore non si possa
definire una costellazione «agricola» in contrapposizione a quelle
di carattere venatorio, tuttavia la sua stella più brillante e anzi la
più brillante di tutto il cielo, Sirio, era certamente seguita con attenzione dagli agricoltori. Gli Egiziani credevano addirittura che il
mondo fosse stato creato quando la dea Sothis, che essi identificavano con Sirio, si levò col Sole. Allorché, verso la metà di luglio
riappariva a Oriente poco prima del sorgere del Sole (questo significa l’espressione «levare eliaco» di una stella) era il segnale che
cominciavano le piene del Nilo. Inoltre, da Sirio e Sothis deriva il
cosiddetto «Periodo sotico». Esso indica il lasso temporale di 1460
anni allo scadere del quale, il levare eliaco di Sirio coincide nuovamente con lo stesso giorno dell’anno. Avendo gli Egiziani adottato
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dell’asse terrestre. Il Polo
Nord celeste descrive sulla
volta stellata un percorso
circolare, impiegando circa
26.000 anni (in giallo).
Nell’anno 14.000 d.C., per
esempio, il Polo Nord celeste
si troverà vicino alla stella
Vega. La mappa mostra una
parte del cielo visibile nelle
notti estive, ed è centrata
sul Polo Nord dell’eclittica
(in rosso). La precessione
dell’asse di rotazione è un
effetto che si può osservare
anche nelle trottole, ed è
causato da una forza che
agisce sul corpo rotante.
Per il nostro Pianeta, la forza
che causa la precessione
è l’attrazione gravitazionale
del Sole, mentre per la
trottola questa forza è
semplicemente il suo peso.
CAPITOLO 1
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••10 L’ammasso
delle Pleiadi. Si
tratta di un ammasso
stellare aperto (M45),
ben visibile a occhio
nudo e già conosciuto
dagli Antichi, che vi
scorgevano 7 stelle
componenti e vi
attribuivano significati
mitologici. Oggi
sappiamo che le Pleiadi
sono un gruppo di
stelle giovani e calde,
dal caratteristico
colore azzurro, ancora
immerse nella materia
diffusa da cui si sono
formate. La materia
interstellare si dispone
secondo linee arcuate,
denotando la presenza
di campi magnetici,
con un aspetto simile
alla limatura di ferro nei
pressi di una calamita.
(ESO/DSS, D. LACRUE)
un anno solare di 365 giorni precisi invece di circa 365 giorni e
1/4, il levare eliaco di Sirio si osservava ogni anno con quasi 6 ore
di ritardo, che, dopo 1460 anni, davano un totale di 365 giorni.
Un’altra costellazione agricola-venatoria è quella del Toro, dove
le Pleiadi, a seconda delle varie culture e popoli e delle latitudini in cui abitavano, assumono un diverso valore. Nelle Hawaii
l’anno incominciava con la levata delle Pleiadi, mentre nell’antico
Messico la loro culminazione di mezzanotte segnava il termine di
un periodo di 52 anni, che comportava il rischio di crollo e fine
dell’Universo, con l’inizio di un nuovo periodo. In tale occasione,
si spegnevano tutti i fuochi e l’avanzata delle Pleiadi era osservata
da un’altura detta la «Collina delle stelle». Quando le Pleiadi superavano il meridiano, si accendeva un nuovo fuoco sulla sommità
della collina, che dava il segnale per l’accensione degli altri fuochi
pubblici e privati. Per gli Jacuti della Siberia settentrionale, il loro
sorgere annunzia l’inverno, mentre il tramonto corrisponde all’inizio della stagione calda; ma la cosa più curiosa e interessante è
la credenza degli Jacuti che una volta l’inverno fosse più lungo e
freddo, finché uno sciamano riuscì a rompere il legame che univa
le Pleiadi. Esse poterono, così, correre più rapidamente e l’inverno
diventò più breve. Un’altra diffusa credenza nord-siberiana e altai-
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ca è che la zona dove sono le Pleiadi corrisponda a un foro nella
volta rocciosa del cielo. Per molti popoli primitivi dell’America, le
Pleiadi annunciavano invece la stagione dell’abbondanza e delle
messi. ••10
Finora abbiamo parlato delle costellazioni più nel loro aspetto
mitologico che astronomico. A dire il vero, agli astronomi non interessano un gran che, in quanto il fatto che le stelle di una costellazione formino un riconoscibile e caratteristico raggruppamento
nel cielo, non significa che abbiano una qualche relazione spaziale o fisica. Al contrario, si trovano di norma molto distanti l’una
dall’altra, e la loro vicinanza, oltre a essere per lo più un effetto di
prospettiva, a lungo andare, come vedremo in seguito, è anche
soggetta a variazioni.
Nonostante gli astronomi non si interessino delle costellazioni,
hanno tuttavia dovuto riconoscerne la funzione svolta e i bei nomi
con cui il cielo intero è stato battezzato e arricchito di significati, per cui si sono limitati a riordinarle come meglio potevano. In
realtà, c’era una gran confusione: non soltanto nel numero, ma
anche nelle delimitazioni. Non avevano confini ben stabiliti, e anche nelle costellazioni si rifletteva – direbbe il grande storico della
scienza Alexandre Koyré – la concezione «pressappochistica» che
gli antichi avevano del Mondo, rispetto all’Universo «preciso» dei
moderni. Il «riordinamento» è stato approvato nel 1928 dall’Unione
Astronomica Internazionale, la quale ha riconosciuto ufficialmente
e definitivamente 88 costellazioni. Di queste, 48 vennero elencate
da Claudio Tolomeo, verso il 140 d.C.; ben presto però diventarono
50, quando la Nave di Argo, che era la costellazione più grande di
tutte, venne suddivisa in tre parti coi nomi di Carena, Poppa e Vela.
Le costellazioni post-tolemaiche sono 38. Almeno una, la Chioma
di Berenice, era molto antica, ma non era stata riconosciuta come
indipendente da Tolomeo che l’aveva inclusa in quella del Leone.
Altre, come l’Uccello del Paradiso, facevano riferimento alle costellazioni cinesi di cui ebbero conoscenza i navigatori del XV secolo.
Quasi tutte le costellazioni dell’emisfero australe furono individuate
dal XVI al XVIII secolo dagli astronomi e matematici Johann Bayer, Johannes Hevelius e Nicolas-Louis de La Caille, come si può
indovinare anche dai nomi con cui furono battezzate: Ottante, Reticolo, Squadra e Regolo, Macchina Pneumatica. Nomi piuttosto
brutti, diciamo la verità, nonostante si sia appena finito di elogiare la
concezione «precisa» dell’Universo moderno; indubbiamente però
essi rispecchiano fedelmente e un po’ ingenuamente la filosofia
illuministica dell’epoca. Tuttavia, si è fatto anche di peggio. Per
affibbiare dei nomi al cielo e alle costellazioni, si sono perfino combattute delle battaglie ideologiche. Una delle più curiose, simpatiche e sfortunate iniziative fu quella di Joseph Jérôme de Lalande,
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••11 Animali nel
cielo. Nelle notti invernali,
guardando verso Sud,
è visibile un piccolo
«zoo» celeste. Possiamo
individuare in alto a
sinistra il rinoceronte
(Monoceros), più sotto
il cane (Canis Major)
con la stella Sirio, al
centro la lepre (Lepus) e
bassissima sull’orizzonte la
colomba (Columba). Sulla
scena domina dall’alto
il cacciatore (Orione),
mentre a destra vicino al
bordo c’è anche un toro
(Taurus, fuori campo).
un uomo straordinario per molti aspetti, anche fuori del campo
astronomico. Nemico di Napoleone, libero pensatore e ateo, amava
i gatti che hanno fama di essere amati dalle streghe. Forse proprio
per questo, nessuno aveva mai pensato di metterli in cielo, dove,
tuttavia, vi sono ben 43 costellazioni che portano nomi di animali,
compresi i mitologici Pegaso, Fenice, Liocorno. Si trova il Cane, il
Cagnolino, i Cani da caccia, il Lupo e la Volpetta; e c’è pure la Lince,
ma il Gatto non c’è. ••11
Lalande scrisse: «Amo molto i gatti. Ne disegnerò la figura sulla
carta celeste. Il cielo stellato mi ha fin troppo preoccupato nella
mia vita; perciò, mi si permetterà di scherzare un po’ con esso». La
costellazione del Gatto si ritrova nella XIX tavola di Johann Ehlert
Bode pubblicata nel 1799, con il nome di Katze, ed è formata da
20 stelle. Ma, a eccezione di Padre Angelo Secchi, che la incluse
nel suo planisfero del 1878, i cataloghi e le carte stellari non la
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menzionano più. Essa comunque era formata con alcune stelle
della Macchina Pneumatica e dell’Idra, nel cielo australe, stelle
che in seguito sono state restituite alle loro costellazioni d’origine.
Parlando delle costellazioni e del moto della Polare intorno al
Polo Celeste e alla cosiddetta Polarissima, abbiamo accennato a
qualcosa di facilmente constatabile anche di giorno, osservando
il cammino del Sole, il suo sorgere e tramontare. Nonostante che
nell’antichità i filosofi e gli scienziati la sapessero lunga non meno
di noi sul problema dell’apparenza e della realtà, e sull’esperienza
spesso ingannevole dei sensi, per millenni si è creduto che questo moto del Sole e delle stelle da Est a Ovest fosse reale, e che
la Terra si trovasse immobile proprio al centro dell’Universo. La
cosmologia tolemaica era basata su questa convinzione, come del
resto la scienza in generale, ma anche e soprattutto la teologia,
la quale aveva affidato molta della credibilità della religione a un
Universo dove Dio e i Beati abitavano un mondo superiore fatto di
sfere cristalline e incorruttibili, mentre al di sotto della sfera lunare
si precipitava verso una Terra immobile e peccaminosa, che nelle
sue profondità albergava l’Inferno, i diavoli e Satana.
Occorre riconoscere che questa visione aveva i suoi grandi vantaggi estetici, razionali e spirituali, in quanto ci presentava un mondo ben ordinato, nel quale l’uomo sapeva dove si trovava, perché
vi si trovava, e dove sarebbe andato una volta conclusa la sua
avventura di pellegrino sulla Terra. Dopo Copernico e la dimostrazione (che avvenne molto più tardi) che non erano i cieli a ruotare,
ma il nostro pianeta, la domanda che spesso si pone: «Qual è il
posto dell’Uomo nell’Universo?» riflette chiaramente l’angoscia di
un’umanità non ancora abituata all’idea «degli infiniti mondi» di
cui parlava Giordano Bruno, senza più sfere cristalline, armonie
pitagoriche e il brusio degli angeli che sospingevano i pianeti.
Dopo questa breve digressione storica sulle costellazioni, torniamo alla Terra e le stelle. Se la rotazione intorno al proprio asse
fosse il solo moto della Terra, allora ogni notte alla stessa ora si vedrebbero le stesse stelle e costellazioni nella medesima direzione
del cielo. Ma tutti sanno che le stelle visibili nelle sere d’inverno
sono differenti da quelle delle sere d’estate. La ragione è che la
Terra ha un altro moto in aggiunta alla rotazione, ed è quello detto
di rivoluzione: ossia, la Terra gira intorno al Sole, come affermò
Copernico, e Aristarco aveva intuito diciotto secoli prima. È per
questo moto intorno al Sole, che ci sembra che il Sole si sposti fra
le stelle di circa 1° ogni giorno. Certo, di giorno, a causa della luce
solare diffusa dall’atmosfera, le stelle non le possiamo vedere, ma
se guardiamo le stelle che a mezzanotte si trovano proprio nella
direzione opposta al Sole, constatiamo gli effetti della rivoluzione
terrestre. Una stella situata al Meridiano Celeste (la linea Nord-Sud
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••12 Il cielo stellato e le
stagioni. Mentre la Terra
ruota lungo la sua orbita noi
vediamo il Sole, proiettato
sulla volta celeste, che
si muove lungo la linea
dell’eclittica (in rosso) nel
corso dei mesi. Il cielo
stellato che osserviamo di
notte, ovvero la porzione
di sfera celeste opposta al
Sole, cambia dunque con
le stagioni. Nel bagliore
del giorno le stelle non si
vedono a causa della luce
solare diffusa dall’aria, ma
fuori dall’atmosfera (o anche
durante un’eclisse totale)
le stelle sono visibili anche
in direzioni vicine al Sole.
(WIKIMEDIA COMMONS)
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direttamente sopra la nostra testa) alla
mezzanotte di domani si troverà di circa
1° più a Ovest del Meridiano. Un grado è
una quantità notevole: equivale allo spazio che due Lune Piene, l’una vicina all’altra, occuperebbero sulla volta celeste. È
così che le stelle delle notti d’estate, come
quelle dello Scorpione, vengono sostituite
a poco a poco da quelle autunnali, finché, col sopraggiungere dell’inverno, appariranno sulla scena le splendide stelle
di Orione. Poi, quando un anno sarà trascorso e la Terra avrà compiuto un giro
completo intorno al Sole, soltanto allora
possiamo rivedere nella medesima direzione del cielo le stelle osservate 365 giorni prima. ••12
Oggi queste cose sembrano ovvie, ma
all’inizio (se così si può chiamare un periodo che va dalla morte di Copernico e
dalla pubblicazione della sua opera principale, il De revolutionibus orbium coelestium, nel 1543, alla fine del XVII secolo)
la teoria copernicana non venne combattuta soltanto dalla Chiesa e dai filosofi, ma
anche dagli scienziati. Questi obiettavano
che se davvero la Terra girava intorno al Sole, doveva occupare, a
sei mesi d’intervallo, delle posizioni molto distanti fra loro e uguali
al doppio della distanza media della Terra dal Sole. Invece, tale
cambiamento nella prospettiva delle stelle non si riscontrava. Il
motivo è che anche le stelle più vicine sono a distanze di molte
migliaia di miliardi di km, e perciò presentano spostamenti angolari piccolissimi, inferiori a un secondo d’arco: come a dire, l’angolo
sotto cui si vedrebbe 1 cm alla distanza di 2 chilometri. Quindi,
occorrono misure accuratissime e strumenti adatti.
Finalmente ottenne risultati positivi l’astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel nel 1838, quando misurò la posizione della
stella 61 Cygni rispetto a un’altra angolarmente vicina (ma in realtà
molto più lontana da noi di 61 Cygni ) e trovò che la loro distanza apparente variava di 0”,30 in un anno. Un’altra dimostrazione
diretta della rivoluzione della Terra era stata data già dall’inglese
James Bradley nel 1725, con la scoperta dell’aberrazione della
luce: un fenomeno illustrato dalla classica analogia dell’uomo che,
per ripararsi dalla pioggia, deve inclinare l’ombrello in avanti tanto
più quanto più svelto cammina.
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Oggi sappiamo che la stella più vicina a noi, Proxima Centauri,
si trova a poco più di 4 anni luce, dove l’anno luce è l’unità di
misura che corrisponde alla distanza percorsa dalla luce in un
anno. Poiché la velocità della luce nel vuoto è di 300.000 km/sec,
e in un anno sono contenuti circa 31 milioni di secondi, si calcola
facilmente che un anno luce equivale a quasi 10.000 miliardi di
km. Per confronto, il Sole si trova a circa 8 minuti luce.
Passando al fenomeno della rotazione terrestre, una delle diverse prove che la dimostrano è l’esperimento effettuato a Parigi
nel 1851 da Jean-Bernard-Léon Foucault. Un pendolo sospeso
a un sostegno in modo da ridurre al minimo ogni attrito oscilla in
un piano fisso in posizione invariabile nello spazio. Il pendolo di
Foucault, costituito da una palla di cannone sospesa a un filo di
acciaio lungo 67 metri attaccato alla cupola del Panthéon di Parigi,
arrivava a pochi centimetri dal suolo. Non appena Foucault mise la
palla in moto, una punta saldata alla palla prese a tracciare le sue
oscillazioni su uno strato di sabbia. Così si constatò che il pendolo,
come era previsto, tracciava dei solchi che via via si spostavano
da Est verso Ovest. Non era il pendolo che cambiava il suo piano
di oscillazione, ma la Terra che gli girava sotto. Fenomeno analogo
avviene per un satellite che ruota in un’orbita di qualche centinaio
di chilometri. A ogni passaggio su un dato luogo, sembra che si
sposti verso Ovest, mentre è la Terra che gli gira sotto, in senso
antiorario, da Ovest a Est.
È stato detto da molti che se il nostro mondo fosse perennemente coperto di nuvole come quello di Venere, ma naturalmente
senza le tremende pressioni e temperature che regnano su quel
pianeta, gli uomini non avrebbero potuto sviluppare la scienza
dell’astronomia, però avrebbero potuto scoprire almeno la rotazione della Terra: appunto con il pendolo di Foucault. Ma se anche
la Terra ruotasse tanto lentamente come Venere, dove un giorno
venusiano equivale a 243 giorni terrestri, è probabile non sarebbe bastato nemmeno un Foucault, e avremmo creduto davvero a
una Terra immobile oltre che senza cielo, chissà per quanti secoli
ancora.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere: «Tutto questo va bene.
L’uomo è capace anche di mettere dei satelliti in orbita intorno alla
Terra. Ma chi è, oppure che cosa è stato che ha spinto la Terra a
girare su se stessa e intorno al Sole?» Una volta si rispondeva «Dio
e gli angeli». Lo stesso Newton credeva a un misterioso «primo
impulso» divino e a ulteriori interventi regolatori e provvidenziali
affinché i pianeti e i loro satelliti seguitassero a girare in perpetuo
nelle loro orbite ellittiche… Oggi la risposta è del tutto diversa e
senza necessità di impulsi né iniziali né susseguenti, come spiegheremo nel prossimo capitolo.
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IL VILLAGGIO
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ohn A. Wheeler, il noto fisico americano, ha detto una volta che «noi siamo i
discendenti della palla di fuoco che diede
origine al presente stadio dell’Universo». Almeno, questa è l’opinione più diffusa in una cosmologia ancora alquanto mitologica. Sembra però fuor
di dubbio che la nascita delle stelle e dei pianeti sia stata
(e seguiti a essere) un evento drammatico come la nascita degli
animali e dell’uomo. I medici sanno che quando si nasce il nostro
corpo subisce tremende sollecitazioni meccaniche e traumi ambientali. Negli interventi ostetrici si può esercitare col forcipe una
trazione equivalente a 50 kg, pari a 15 volte il peso del bambino.
Nessun adulto potrebbe resistere a una corrispondente trazione
sulla testa di una tonnellata. Inoltre, per il brusco mutamento di
ambiente, le funzioni organiche del bambino si trasformano. Pare
sia molto più facile abituarsi a una vita da astronauta che nascere.
E nascere a fatica, in mezzo a mille tormenti e pericoli, si direbbe
una regola universale tanto per gli esseri viventi che per le cose
inanimate.
L’esempio più notevole, quasi a portata di mano, è la nostra
Luna con la sua superficie butterata di crateri e di «mari» ben visibili a occhio nudo. Anche tutti gli altri pianeti rocciosi e simili alla
Terra, come Mercurio, Venere e Marte, hanno subito nascendo le
medesime traversie e portano anch’essi i segni dei crateri scavati
dalla caduta di meteoriti. Se sulla Terra queste martellate originali
non si vedono più, è perché sono state cancellate dall’erosione
esercitata per centinaia di milioni d’anni dall’acqua e dai venti.
Tuttavia, si sono scoperte molte tracce di crateri più recenti detti
«astroblemi», cioè ferite stellari (dal greco astér, astro; e blema,
che significa colpo di freccia o ferita). Sono crateri dalla struttura
circolare e molto erosi, alcuni dei quali vennero prodotti 200 o 300
milioni d’anni fa, dalla caduta di grossi meteoriti. Esempi sono il
Manicouagan Lake e il Clearwater Lake nel Canada, che all’inizio
dovevano misurare un diametro di 65 e 32 km rispettivamente.
Ancora fresco e molto ben conservato è il famosissimo Meteor
Crater dell’Arizona, il quale ha un diametro di circa 1300 metri. Si
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stima abbia un’età inferiore ai 100.000 anni, e venne scavato da
un meteorite che, secondo Ernst J. Opik, doveva avere una massa
di 2,6 milioni di tonnellate.
Meteoriti così grossi cadono una volta ogni 10.000 o 100.000
anni (che è appunto l’età del Meteor Crater), mentre quelli via via
più piccoli cadono molto più di frequente: si possono citare il bolide che il 10 agosto 1972 sfiorò da poco più di 50 km di altezza
alcune regioni degli Stati Uniti e del Canada, e venne fotografato
e ripreso con videocamere amatoriali da centinaia di persone, e
il meteorite roccioso che, frammentandosi prima della caduta, ha
prodotto numerosi piccoli crateri l’8 marzo del 1976 nella provincia orientale cinese di Kirin. Lincoln La Paz ha calcolato che un
meteorite potrebbe colpire un uomo una volta ogni 300 anni, ma
le cronache registrano soltanto 5 o 6 casi di «morte da meteorite»
in tutta la storia. Negli ultimi anni si sono avuti in media 4 casi
comprovati di cadute di meteoriti piccole o medie ogni anno, con
ritrovamento del campione e successivo studio e conservazione in
collezioni private o musei. ••1-2
Non c’è dubbio che, sebbene oggi lo spazio interplanetario sia
molto meno polveroso di quando i pianeti si formarono dalla nebulosa primitiva, esso sia ancora abbastanza ricco di detriti più o
meno antichi di ogni dimensione: da quelli asteroidali a polveri più
fini della cipria. I residui più vecchi sono stati quasi tutti spazzati
via dai pianeti nel corso di miliardi d’anni, mentre le collisioni fra
gli asteroidi, e le comete quando si avvicinano al Sole, immettono
nello spazio sempre nuovo materiale. La Terra nella sua orbita ne
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••1 A sinistra, il Meteor
Crater in Arizona. Questo
cratere è uno dei meglio
conservati sul nostro
Pianeta, ha un diametro di
1,3 km e una profondità di
175 metri. È stato prodotto
da un meteorite grande
appena una trentina di
metri, caduto circa 35.000
anni fa. (NASA, M.WADHWA)
••2 A destra, frammento
di meteorite. I meteoriti
sono generalmente
residui del Sistema
solare primitivo. Qui
vediamo un frammento
del meteorite Tenham,
caduto in Australia nel
1879 frammentandosi
entro un’area di chilometri,
che viene classificato
come condrite. Per ragioni
espositive e di studio,
spesso i meteoriti vengono
tagliati in sottili sezioni in
modo da poter studiare la
struttura interna, come in
questo caso.
(J. TAYLOR, WIKIMEDIA COMMONS)
CAPITOLO 2
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••3 Crateri meteoritici
sulla Luna. Il cratere
presso il bordo lunare
è intitolato a Guglielmo
Marconi (sopra
l’antenna), mentre i due
crateri maggiori sono
Chaplygin (al centro) e
Schliemann (in basso).
Questa impressionante
veduta è stata ripresa
dal finestrino del LEM, il
modulo di discesa in cui
gli astronauti dell’Apollo 13
si erano rifugiati, mentre
sorvolavano la faccia
nascosta della Luna. In
tale drammatica missione,
infatti, il modulo principale
dell’astronave era esploso
prima di raggiungere la
Luna, per cui gli astronauti
rinunciarono allo sbarco
lunare e riutilizzarono
invece il LEM come
«scialuppa di salvataggio»
per ritornare sul nostro
pianeta. (NASA ALSJ)
raccoglie qualcosa come 43 o 44 tonnellate al giorno, pari a circa
16.000 tonnellate ogni anno, compresi i residui di comete. Le dimensioni di un cratere dipendono dalla massa, dalle dimensioni, e
dalla velocità del meteorite. Più esattamente, siccome l’attrazione
gravitazionale dei corpi celesti varia a seconda della loro massa, e
dato che un meteorite può arrivare da qualsiasi direzione, lo stesso
meteorite può avere differenti velocità di impatto sui vari pianeti,
formando crateri di dimensioni diverse. Quando il meteorite penetra nel suolo crea una formidabile pressione, deformandolo come
un fluido. Gli strati del suolo, che prima erano piatti, vengono sospinti in alto e in fuori come i petali di un fiore che si apra. Non
appena formato, il cratere, oltre a un bordo che si innalza ripido,
mostra segni di rocce percosse e frantumate, e pieghe che altro
non sono se non deformazioni plastiche di masse rocciose stratificate, che prima erano disposte orizzontalmente.
Sulla Luna, o su un pianeta senza atmosfera o quasi come
Mercurio, simili catastrofi e collisioni avvengono (almeno nel caso
dell’impatto di grossi meteoriti) come esplosioni luminose, ma nel
più assoluto silenzio. ••3
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I sismografi piazzati sulla Luna, e in seguito pure quelli depositati dai Viking su Marte, registrarono gli impatti anche di piccoli
meteoriti, come quelli piovuti sulla Luna dal primo gennaio 1973
al 13 luglio 1975. In quell’intervallo di 924 giorni si sono contati
815 impatti. In certi periodi i meteoriti sono piovuti più numerosi,
come nel giugno del 1975, quando, in una decina di giorni, si sono
contati 29 impatti.
In questo caso, si pensa che la Luna abbia incontrato nella sua
orbita una «nube» di meteoriti avente un diametro di circa 0,1
U.A. (U.A. è l’abbreviazione di Unità Astronomica, con la quale si
intende la distanza Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km. Viene usata come unità di distanza nel Sistema solare). Precisiamo
che una «nube» di meteoriti, non significa un qualcosa di molto
consistente, ma piuttosto una specie di sciame di moscerini, separati l’uno dall’altro anche da centinaia di chilometri. I 29 meteoriti
appartenenti a questa nube caduti sulla Luna si stima pesassero
in totale 320 kg, con una massa media di circa 11 kg.
A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa succederebbe se una nave spaziale con una sezione traversale di 1 km2
attraversasse una tale nube meteoritica, con una velocità rispetto
a questa di 20 km/s. Anche se la maggioranza dei meteoriti hanno una densità di appena 3 volte quella dell’acqua, è certo che
sarebbe pericoloso incontrare sassi di questa specie. Viaggiando
dentro la nube, però, ci sarebbe una probabilità di collisione solo
una volta ogni 9000 anni, e perciò non sembra necessario preoccuparsi di questo problema.
COME NACQUE (FORSE) IL SISTEMA SOLARE
Come abbiamo accennato, questi proiettili cosmici sono in maggioranza di origine recente e prodotti da collisioni di asteroidi situati specialmente fra Marte e Giove, oppure dalla disgregazione delle
comete. Quando i pianeti si formarono erano assai più numerosi…
e tutto ebbe inizio da una nebulosa ruotante costituita di gas e polveri, simile a quella che si vede anche con un piccolo telescopio
nella costellazione di Orione. A causa della rotazione, i gas e le polveri della nube si dispersero su un disco, con al centro una massa
che poi sarebbe diventata il Sole. Intanto, i granelli di polvere si
aggregavano via via in corpi sempre più grandi. Dapprima questi
aggregati erano simili a fiocchi di neve, ogni granellino essendo
avvolto di ghiacci e altri composti volatili; in seguito, o si dispersero evaporando, o riuscirono a condensarsi in corpi grossi come i
meteoriti, gli asteroidi e infine i pianeti. Ma perché tutti questi corpi
sono diversi sia per dimensioni che per aspetto e composizione?
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CAPITOLO 2
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••4 L’origine del Sistema
solare. I modelli teorici che
descrivono la formazione del
Sole e dei pianeti ipotizzano
la condensazione di una
nube di polveri e gas, dotata
di moto rotatorio, in uno
sciame di corpi che, in
seguito a continui processi di
aggregazione, incrementano
via via la loro massa dando
origine ai pianeti. La
condensazione centrale,
essendo molto più massiccia,
è destinata a produrre nel suo
interno temperature di milioni
di gradi tali da innescare
reazioni nucleari, generando
così il nostro Sole.
Questo disegno rappresenta
uno scenario evolutivo
che è oggi confermato
dall’osservazione telescopica.
Infatti, in alcune regioni
della Via Lattea ricche di
formazione stellare, sono
stati scoperti numerosi dischi
protoplanetari (detti anche
proplìdi), al centro dei quali è
anche visibile la protostella in
formazione. (NASA IMAGES 113035)
Infatti, Mercurio, Venere, la Terra, Marte e gli asteroidi sono di tipo
«roccioso», mentre i pianeti detti «giganti», quali Giove, Saturno,
Urano e Nettuno, sono in prevalenza gassosi.
Il fatto è che, vicino alla massa centrale della nebulosa dove il
Sole si andava formando, la temperatura permetteva l’aggregazione di oggetti costituiti da elementi con altissimo punto di ebollizione come i metalli. Invece, più lontano e alla periferia della
nebulosa, dove, alla distanza di Plutone, la temperatura si abbassava fin oltre i -200 °C, intorno ai nuclei rocciosi di tipo terrestre si
potevano aggregare allo stato solido gli altri elementi volatili come
l’acqua, l’ammoniaca, il metano. ••4
Questi corpi diventarono tanto grossi da attrarre anche grandi
quantità di elementi volatili e leggeri come l’elio e l’idrogeno, che
finirono anzi per comporre la maggior parte della loro massa. Quella di Giove equivale a ben 317,9 masse terrestri, quella di Saturno
a 95, Urano a 14 e Nettuno a 17. Frattanto, la massa centrale di
gas caldi collassava sotto il proprio enorme peso, dando origine
al Sole, che a quel tempo era simile a una di quelle stelle dette T
Tauri, immerse in vaste nubi di polveri e gas, in gran parte espulsi
dalle stelle medesime, ancora in formazione e alla ricerca di un
equilibrio fra pressione interna e massa gravitante.
Cerchiamo di descrivere la nascita della Luna e della Terra. Le
indagini più recenti ci dicono che la composizione chimica dei
due corpi è più simile di quanto si pensasse, il che forse favorisce
l’ipotesi che la Luna sia nata accanto alla Terra, e non nella parte
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del Sistema solare più vicina al Sole, per essere poi catturata dal
nostro pianeta. Quest’ultima era l’opinione di coloro che si basavano, appunto, su una composizione chimica della Luna più ricca
di elementi quali l’alluminio, il calcio, l’uranio della Terra e sulle
dimensioni medesime del nostro satellite. Infatti, il diametro della
Luna è circa la metà di quello della Terra, non per nulla si dice
che la Terra e la Luna formano piuttosto un pianeta doppio. Solo
Plutone ha anch’esso un satellite, Caronte, il cui diametro è circa
la metà del diametro del pianeta.
Ecco la sequenza di eventi che si suppone si sia verificata.
All’attuale distanza della Terra dal Sole, e all’interno della grande
nube originaria del sistema planetario, esisteva una piccola nube
in rapida rotazione, simile ad altre nubi secondarie poste nei punti
dove sarebbero nati gli altri pianeti. La nube del sistema TerraLuna, nel raccogliersi in un globo più denso, aveva lasciato indietro un inviluppo di elementi più leggeri, di polveri, meteoriti e gas,
i quali finirono per aggregarsi in un anello. Il tutto era avvolto da
una spessa atmosfera di idrogeno ed elio con piccole quantità di
acqua, metano e altri gas. In questo periodo, circa 4,5 miliardi di
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••5 Ricerche geologiche
sulla Luna. La missione
Apollo 17 è stata l’ultima
delle esplorazioni umane
sul nostro satellite, con il
più complesso programma
scientifico. Qui vediamo il
geologo Schmitt, accanto
al lunar rover, sull’orlo del
cratere Shorty. Poco a sinistra
del rover, alla base di una
montagnola, si nota una
zona dove il terreno ha colore
rossiccio. Alcuni campioni
sono stati riportati sulla Terra
e al microscopio si è visto che
il colore rossastro è dovuto
a microsferule di sabbia
vetrificata. Questo indica la
presenza di attività vulcanica,
successiva alla formazione
dei primi crateri meteoritici.
(NASA APOLLO IMAGE GALLERY)
CAPITOLO 2
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anni fa, la Terra, o meglio, la proto-Terra, assomigliava a Saturno,
ma naturalmente non c’era nessuno che la potesse osservare: il
sistema planetario era come un’officina sovraccarica di fumi, polveri e detriti, e il Sole era ancora invisibile.
La complessa avventura della «gestazione» si sarebbe svolta in
un buio totale, se fra gas e polveri nebulari e tutto intorno alla Terra
non ci fosse stato un quasi ininterrotto lampeggiare di scariche
elettriche. Inoltre, un’infinità di proiettili piccoli e grandi squassava
la Terra, mentre dalla giovane crosta ribollente si levavano fontane
di lava. Intanto, il disco che circondava il nostro pianeta non era
più come un anello, ma si era raggruppato in numerose lune più
o meno grandi: qualcosa di simile alle numerose lune di Giove e
di Saturno.
Considerate tutte insieme queste lune dovevano avere una massa assommante allo 0,01% della massa della Terra, in confronto
a meno dello 0,001 per mille, dei satelliti dei pianeti giganti. La
conseguenza fu che le forze d’attrazione mareale esercitate dai
primitivi satelliti della Terra erano molto più forti. Ammettiamo dunque che a un certo stadio dello sviluppo esistessero diverse lune
terrestri. La più grossa fra esse, avrebbe «inghiottito» la maggior
parte degli altri satelliti. Quelli sopravvissuti e lasciati indietro sarebbero stati gradualmente eliminati dalle perturbazioni gravitazionali prodotte dalla luna maggiore. Questo è il risultato che si
ottiene dalla soluzione del problema più complesso della meccanica celeste, il cosiddetto «problema a molti corpi», problema
che si può risolvere numericamente grazie ai moderni calcolatori
elettronici. Oggi è possibile ricostruire al computer anche un altro
possibile scenario di formazione della Luna, che sta riscuotendo
un crescente consenso dagli esperti. La Terra primordiale appena
formata, inizialmente isolata, sarebbe stata colpita da un colossale asteroide. Tale asteroide avrebbe squarciato la Terra senza
distruggerla, disintegrandosi e proiettando un’enorme quantità di
materiale (di origine anche terrestre) in orbita attorno al nostro
Pianeta. Da questa grande massa di detriti si sarebbe poi rapidamente condensata la Luna. ••5
Le collisioni, le aggregazioni di materiale piccolo e grande che
aveva formato i pianeti come la Terra e un satellite come la Luna,
caratterizzarono anche il periodo immediatamente successivo alla
nascita. Ai bombardamenti di meteoriti che avevano fuso la superficie della Terra e della Luna fino a una profondità di alcune centinaia
di chilometri, qualcosa come 4 miliardi d’anni fa, ne seguirono altri
che sconvolsero di nuovo una crosta appena consolidata. Fu la
tempesta che butterò la Luna quasi come la vediamo oggi, e ne
rifuse le rocce più superficiali. Enormi crateri si riempirono di lave
e crearono quei mari, visibili anche a occhio nudo, quale il Mare
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Nectaris, Humorum e Crisium, che quindi avrebbero un’età di circa
4 miliardi d’anni. Analoga sorte toccò pure alla Terra, ma mentre
questa cancellò presto ogni traccia per l’azione erosiva della sua
atmosfera e specialmente per la sua plasticità derivata dal forte
calore interno, il nostro satellite, più piccolo, più freddo, più rigido
e senza atmosfera, ne ha fedelmente conservata tutta l’evidenza.
Circa 4 miliardi di anni fa avvenne dunque il secondo e ultimo grande bombardamento che colpì indiscriminatamente tutti
i pianeti più interni del Sistema solare con proiettili di cui non
sappiamo esattamente né il luogo di provenienza, né le perturbazioni che li spinsero verso il Sole, né la catastrofe che li produsse.
Tuttavia, sappiamo che Giove e Saturno, ma soprattutto Giove, a
motivo della loro massa, sono quelli che dirigono il «traffico» del
sistema planetario, e, a seconda della direzione di marcia e della
velocità dei corpi che si avventurano nelle loro vicinanze, possono
scagliarli verso i pianeti più interni o addirittura al di fuori del Sistema solare. Quindi, è probabile che gli avvenimenti che coinvolsero
o addirittura scolpirono i pianeti «terrestri» e la Luna siano stati
determinati da Giove.
A questo punto si potrebbe concludere il già lungo paragrafo
dando per certo che il Sistema solare si sviluppò proprio come si
è accennato. Invece, dobbiamo sottolineare quel (forse) messo fra
parentesi nel titolo, perché la scienza persegue la verità fra mille
dubbi e correggendosi di continuo.
In realtà, sono state avanzate due critiche piuttosto serie all’ipotesi nebulare. La prima concerne il modo in cui il sistema planetario venne «ripulito» da polveri, detriti e gas non raccolti dai pianeti.
Finora si pensava che la «scopa» adatta fosse stata la materia
espulsa energicamente dal Sole sotto forma di «vento solare» all’inizio di quel suo stadio evolutivo detto T Tauri. Gli astronomi inglesi
M. J. Handbury e I. P. Williams hanno tuttavia calcolato che, pure
ammettendo che il Sole, in quel periodo, emettesse 10.000 miliardi di tonnellate di materia al secondo, come effettivamente fanno
certe stelle T Tauri, è difficile che sia stato in grado di «spazzare»
il Sistema solare e, quindi, è necessario che i teorici scoprano un
meccanismo diverso.
La seconda critica è stata avanzata dagli americani David C. Black
e Peter Bodenheimer. In un articolo apparso sull’«Astrophysical
Journal» (la più famosa rivista specializzata in astrofisica) essi sostengono che dal collasso di una nube interstellare non si può
formare una nebulosa solare, cioè un disco appiattito da cui poi
dovrebbero nascere i pianeti, conservando una massa principale
che darebbe origine al Sole. Infatti, a causa della rapida rotazione,
la nebulosa si trasformerebbe in una specie di ciambella quasi
vuota nel mezzo, senza nessuna possibilità che vi si possa formare
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una stella come il Sole. Però queste previsioni sono contraddette
da osservazioni che mostrano l’esistenza di stelle ancora circondate da una nebulosa a forma di disco, molto più estesa della stella
e molto più fredda. La prima nebulosa proto planetaria è stata
scoperta attorno a una stella simile al Sole, Beta Pictoris, ed è stata osservata col telescopio da 3,6 metri dell’osservatorio europeo
dell’emisfero australe, occultando con uno schermo la luce della
stella. Il disco si estende fino a circa 400 volte la distanza TerraSole, circa 10 volte la distanza di Plutone dal Sole.
Poi numerose altre nebulose proto planetarie sono state osservate attorno a giovani stelle immerse nella grande nube di Orione,
che è una vera e propria fabbrica di stelle neonate. Queste ultime
sono state osservate col telescopio spaziale Hubble in orbita attorno alla Terra. ••6
••6 Dischi protoplanetari
nella nebulosa di Orione.
Chiamati anche proplidi,
sono sistemi planetari
in formazione, grandi
circa come il nostro
Sistema solare. Si nota la
condensazione centrale,
destinata a generare una
stella come nel disco più
a destra. L’immagine è del
Telescopio Spaziale. (O’DELL,
RICE UNIVERSITY, NASA, ESA)
Sembra dunque molto probabile che i sistemi planetari si formino insieme alla loro stella in una nebulosa proto planetaria simile
a quella ipotizzata da Kant e da Laplace.
Si può dire che nel Sistema solare tutti i personaggi siano importanti, dai pianeti alle polveri interplanetarie. E oggi che lo spazio è
diventato la nuova frontiera dell’umanità, è come se lo stesso sistema planetario acquistasse una nuova vita, inaugurasse un nuovo
teatro. È difficile enumerare tutti i personaggi del Sistema solare.
Gli antichi ne conoscevano solo sette, ma sono molti di più. Infatti,
oltre ai 9 pianeti (o meglio 8, come ora vedremo), ci sono molti
pianetini, alcuni grandi come Plutone. Mentre all’interno del Sistema solare si trovano i piccoli pianeti rocciosi (Mercurio, Venere,
Terra e Marte, le cui densità medie vanno da 5,5 volte a 3,94 volte
la densità dell’acqua), dopo la fascia degli asteroidi incontriamo
i pianeti giganti (Giove poco più denso dell’acqua, 1,314, Saturno addirittura meno denso dell’acqua, 0,71,Urano e Nettuno con
densità rispettivamente 1,3 e 1,64).
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Infine ecco Plutone. Il suo diametro è circa la metà di Mercurio,
ha densità 1,75, ma un’orbita fortemente inclinata sull’eclittica e
anche marcatamente ellittica, tanto che interseca l’orbita di Nettuno e fra il 1970 e il 1999 era più vicino al Sole di Nettuno e
tornerà a esserlo nel 2231. Per queste sue stranezze si pensava
che Plutone potesse essere stato un satellite di Nettuno strappato
al suo pianeta dalle perturbazioni planetarie.
Ma dopo la scoperta dell’esistenza di un’altra fascia di pianetini oltre l’orbita di Plutone fra cui qualcuno anche più grande di
Plutone, si è ritenuto più corretto declassarlo ad asteroide, capostipite di questa famiglia di trans plutoniani, detti «plutini». Fino
a oggi si sono scoperti 120 satelliti, ma è certo che ne esistono
ancora tanti, attorno a Giove e agli altri pianeti più esterni: non si
vedono perché troppo piccoli, e occorrerà andarli a cercare con
le sonde spaziali.
Poi vengono gli asteroidi, detti anche pianetini, che fra grandi,
piccoli e piccolissimi formano una popolazione di parecchi milioni.
Se ne conoscono tre famiglie. La prima è quella della fascia situata
fa Marte e Giove, di cui l’asteroide più grande è Cerere, con un
diametro di 933 km. ••7
Altre due fasce sono state scoperte grazie alle sonde spaziali:
una è quella dei «plutini», ai confini del Sistema solare, accennata
poco sopra, e un’altra è detta dei NEO, – Near Earth Objects –
oggetti vicini alla Terra, perché orbitano attorno al Sole circa alla
stessa distanza a cui orbita il nostro pianeta.
Ancora più numerosi i meteoriti, le comete, senza dire delle
polveri che riempiono lo spazio interplanetario e che di continuo
finiscono nel Sole (e anche sulla Terra come «stelle filanti») e di
continuo vengono sostituite da altre polveri perdute dalle comete
o da polveri provenienti dallo spazio interstellare. Inoltre, il Sistema
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••7 Le dimensioni dei
pianeti. Il Sole è rappresentato
in proporzione e risulta così
grande che soltanto una sua
parte limitatissima è visibile
sulla sinistra, mentre le enormi
distanze interplanetarie non si
possono riportate in scala.
I quattro pianeti vicini al
Sole sono piccoli e rocciosi, i
quattro successivi sono grandi
e gassosi; tra i due gruppi si
trova la fascia degli asteroidi,
che contiene il pianetino
Cerere. Un’altra fascia di
asteroidi si trova oltre Nettuno.
Secondo le definizioni
approvate dall’Unione
Astronomica Internazionale nel
2006, i pianeti propriamente
detti sono 8, poiché Plutone
è stato declassato al ruolo di
pianetino o «pianeta nano»
(in inglese: dwarf planet).
Recentemente sono stati
individuati 3 nuovi pianetini
oltre Plutone, che sono
riportati nel disegno. In futuro
è possibile che nuove scoperte
costringano a rivedere
ulteriormente il quadro
complessivo del Sistema
solare, secondo le definizioni
degli organismi internazionali.
(ADATTATO DA IAU - INTERNATIONAL
ASTRONOMICAL UNION)
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solare è permeato di tenuissimi gas, di raggi cosmici che potremmo chiamare «nostrani» perché di origine solare e planetaria, e
raggi cosmici di origine galattica. Abbiamo campi magnetici planetari, interplanetari e solari, nonché dei venti solari e stellari: ossia, un continuo flusso di particelle di origine solare e stellare che
spazza tutto il sistema planetario, a volte a raffiche, come quando
il Sole è perturbato da qualche tempesta.
Sono tutti personaggi principali, attivi e importanti, simili e diversissimi l’uno dall’altro. Sono attivi per la loro influenza gravitazionale anche pianeti e satelliti, come Mercurio e la Luna, considerati
«morti» perché, specialmente in conseguenza della loro massa
più che della loro composizione chimica, hanno avuto una «vita
geologica» più breve di quella della Terra, e non perché siano nati
prima degli altri pianeti e poi siano morti di «vecchiaia».
Oggi si sa che il Sole e i pianeti sono nati all’incirca contemporaneamente, ma una volta si riteneva che i pianeti si fossero formati
in epoche diverse, e che fossero abitati da creature evolute più
o meno di noi terrestri, in accordo con l’evoluzione fisica dei loro
rispettivi pianeti.
La diversa età dei pianeti era un’ipotesi fondata sulle idee di
Laplace, il famoso astronomo, fisico e matematico francese, circa
l’origine del Sistema solare. Laplace suggeriva che, siccome i pianeti girano intorno al Sole nella medesima direzione e quasi nello
stesso piano, Sole e pianeti nacquero da un’estesa nube di gas
caldo in rotazione. Come il gas si contraeva, la velocità di rotazione
aumentava, producendo per forza centrifuga il distacco del bordo
più esterno: un anello che, spezzandosi, finiva per condensarsi in
un pianeta, oppure originava una moltitudine di asteroidi simili a
quelli presenti fra le attuali orbite di Marte e Giove. Dato che all’epoca di Laplace non si conoscevano Nettuno e Plutone, il pianeta
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più lontano era Urano, che perciò doveva essere pure il più vecchio. Poi il distacco di un altro anello aveva creato Saturno e così
via fino a Mercurio, l’ultimogenito.
INCOMINCIAMO DA GAIA: LA TERRA
È ormai molto tempo che gli scienziati non hanno più bisogno di
chiamare in causa il soprannaturale per spiegare certi fenomeni,
come l’origine della rotazione terrestre e dello stesso Sistema solare. Se Newton aveva pensato che a mettere in moto la macchina
del Sistema solare fosse stato il dito di Dio e così pure a regolarne
di tanto in tanto il meccanismo, in seguito la conoscenza delle
nebulose e ipotesi come quelle di Laplace esclusero ogni spinta
iniziale e altri interventi posteriori.
Bisogna riconoscere che questa indipendenza dal soprannaturale è stata una specie di rivoluzione o evoluzione intellettuale
che iniziò con Copernico e Galileo, e ha fatto grandi passi in
tutti i campi; tra cui i più importanti, dopo quello astronomico e
fisico, sono stati compiuti da Charles Lyell nella geologia, e dal
suo amico Charles Darwin nella biologia. Il primo, pubblicando
nel 1830 i Principi della geologia, dimostrò che la storia della
Terra è una storia naturale, regolata da comuni leggi fisiche e da
processi, che, oggi come ieri, sono i medesimi: basta comprenderli per ricostruire la storia geologica del passato. E così fece
anche Darwin, che avendo escluso il soprannaturale dalla storia
della Terra, dimostrò che tutti gli organismi, compresa la specie
umana, debbono la loro esistenza a processi naturali e non a
interventi divini.
Nel 1774, l’astronomo inglese Nevil Maskelyne notò che un
pendolo vicino alla parete di una grossa montagna non cadeva
perpendicolarmente, ma subiva una lieve deviazione. Ciò indicava
che l’attrazione della massa della montagna, per quanto minima
rispetto a quella della Terra, non era trascurabile. Siccome la massa della montagna si poteva stimare in base alle sue dimensioni
e composizione, misurando la deviazione del pendolo, Maskelyne
ne dedusse la massa relativa della Terra. Poco tempo dopo, Henry Cavendish, anch’egli inglese, la misurò con un altro metodo,
ottenendo, dopo ripetuti esperimenti, che la Terra ha una massa
di 5,98 per 1027 grammi. Si sarà notato che abbiamo parlato di
massa e non di peso. Il peso infatti è il prodotto della massa per
l’accelerazione di gravità, e quindi se sulla superficie della Terra si
può parlare indifferentemente di massa o di peso perché tutti i corpi sono soggetti alla medesima accelerazione di gravità terrestre,
nello spazio invece occorre parlare di massa. In altre parole, il peso
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••8 La Terra fotografata
dalla navicella Apollo 8
durante il suo viaggio
di ritorno dalla Luna.
Fu in occasione della
missione Apollo 8, nel
dicembre 1968, che per
la prima volta gli occhi
umani videro la Terra
rimpicciolire in lontananza
nello spazio. Fino ad
allora – e come tuttora
avviene con la Stazione
Spaziale – gli astronauti
si erano limitati a orbitare
a poche centinaia di
chilometri d’altezza,
vedendo scorrere sotto di
sé i mari e le montagne,
un po’ come dai finestrini
di un aereo. La traiettoria
dell’Apollo 8 tracciò
invece un’inedita rotta
interplanetaria intorno
alla Luna, portando per la
prima volta tre uomini nei
pressi di un altro corpo
celeste. (NASA/JSC)
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è relativo al corpo di cui si subisce l’accelerazione gravitazionale.
Così, se noi sulla Terra pesiamo 70 kg, sulla Luna, che ha gravità 6
volte minore, peseremmo circa 12 kg, su Marte 27, su Giove 177,
nello spazio interplanetario quasi niente. ••8
Le più recenti notizie ci danno un’immagine della Terra alquanto
diversa da quanto impariamo a scuola. L’inglese Desmond KingHele e altri, analizzando il moto dei satelliti artificiali, hanno trovato
che la Terra ha una leggera forma «a pera», accentuata dal fatto
che il Polo Nord presenta una specie di protuberanza alta 44,7
metri rispetto al Polo Sud e 18,9 metri rispetto allo sferoide medio,
mentre la depressione al Polo Sud risulta in questo caso di 25,8
metri. Tuttavia, se fosse possibile tagliare la Terra trasversalmente
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lungo l’equatore, ci si accorgerebbe che ha la sezione simile a
quella di una patata.
Totalmente cambiato, anzi capovolto, è oggi il vecchio concetto
di una Terra statica con continenti e bacini oceanici permanenti
da miliardi d’anni. La nuova tettonica globale (cioè, il ramo della
geologia che studia l’evoluzione e la trasformazione della superficie terrestre) parla di continenti in movimento e di bacini oceanici
che si aprono o si chiudono. Circa l’interno della Terra, tutti i nuovi
strumenti sismici hanno rivelato dettagli, prima inosservabili, sulla
natura del nucleo. Ora sembra si possa affermare che al centro del
globo esista un nucleo solido con densità 13,5 volte maggiore di
quella dell’acqua, e un raggio di 1216 chilometri. Esso sarebbe circondato da una zona di transizione di 500 chilometri di spessore, a
sua volta circondato da un nucleo esterno liquido con uno spessore
di 1700 chilometri. Attorno al nucleo liquido esterno, abbiamo il
mantello, spesso 2900 chilometri e formato di rocce solide. Arriva
fino a 40 chilometri sotto i continenti e 10 sotto gli oceani. Quest’ultimo strato sottile è quello che costituisce la crosta terrestre, e si
distingue in litosfera e idrosfera, la quale, fra mari e oceani, copre
i tre quarti della superficie del globo. Poi vengono vari strati atmosferici, che rarefacendosi via via si estendono nello spazio per oltre
2000 chilometri, con una massa complessiva stimata a 5,6 milioni
di miliardi di tonnellate, dei quali circa il 75% si trova nella troposfera che giunge fino ai quindici chilometri di quota.
Al di sopra di tutto, e tutto avvolgente, c’è la magnetosfera. Che la
Terra si comporti come un magnete lo sappiamo fin dal 1600, per
merito del medico e fisico inglese William Gilbert. Attualmente, il
Polo Nord Magnetico si trova a 100° di longitudine Ovest e circa 70°
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••9 La magnetosfera in
laboratorio. Le fasce di Van
Allen sono state riprodotte
in laboratorio per mezzo di
un propulsore al plasma,
entro una camera stagna
al centro di ricerca Lewis di
Cleveland. Si vede anche
un tecnico che osserva
il fenomeno dall’esterno
attraverso un oblò. (NASA
ELECTRIC PROPULSION LAB)
••10 A destra: un’aurora
vista dall’orbita. Le luci
colorate sono emesse dagli
atomi di ossigeno, colpiti
dalle particelle energetiche
provenienti da una tempesta
solare. Sul bordo sinistro
dell’immagine si nota lo
Space Shuttle. (NASA)
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di latitudine Nord, all’estremità settentrionale del Canada; e il Polo
Sud Magnetico non lontano dalla costa dell’Antartide. Tra i due Poli si
incurvano le linee di forza del campo magnetico. Nel 1957, un fisico
dilettante, il greco Nicolas Christofilos, fece l’ipotesi che le particelle
cariche, come gli atomi ionizzati (cioè privi di uno o più elettroni) e gli
elettroni presenti nello spazio e provenienti specialmente dal Sole,
venivano intrappolate dal campo magnetico terrestre disponendosi
a spirale lungo le sue linee di forza. Sarebbero queste particelle che,
incontrandosi con quelle dell’alta atmosfera in prossimità dei Poli,
danno origine al fenomeno delle aurore boreali. ••9-10
L’ipotesi di Christofilos venne confermata dalla scoperta nel
1958 delle fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense
James A. Van Allen. In seguito, si è visto che queste fasce sono
regioni magnetosferiche dove la concentrazione delle particelle è
massima. La prima si trova a una distanza di 4830 km dalla superficie della Terra, a 18.000 la seconda, con una fascia intermedia
più sottile a circa 13.000 chilometri. La magnetosfera dunque,
creata dal magnetismo terrestre, che a sua volta si pensa sia un
prodotto di moti turbolenti instaurati dalla rotazione della Terra nel
suo nucleo liquido, è come una trappola per le particelle cariche
espulse dal Sole e per i raggi cosmici.
Questa trappola magnetica non ha sempre le stesse dimensioni.
Per esempio, si restringe e si allunga sotto il «soffio» del vento solare. Inoltre, mentre dal lato diurno forma una semisfera di raggio
pari a 60.000 km, dalla parte notturna si estende a grandissima
distanza come la coda di una cometa. Analoghe trappole magnetiche sono state scoperte anche intorno a Mercurio e a Giove, il
quale ha un campo magnetico 10 volte più forte del nostro, che è
di soli 0,3 gauss, capace di emettere radioonde di grande intensità
e perfino raggi cosmici. Ma è una radiosorgente anche la Terra.
L’hanno scoperto i satelliti artificiali IMP 6 (Interplanetary Monitoring Platform) e il RAE 2 (Radio Astronomy Explorer) rilevando
le onde prodotte dagli elettroni della magnetosfera e riflesse nello
spazio interplanetario dalla sottostante ionosfera.
Prima di lasciare la Terra mi sembra importante sottolineare
quello che è il suo aspetto principale: il suo dinamismo quasi vitale dalle profondità del nucleo ai limiti della magnetosfera, dove
il vento solare, incontrandola, forma come una risacca. E che dire
di questo suolo dove poggiamo i piedi, e degli oceani e dell’atmosfera? Se la Terra ha grandi bacini d’acqua e grandi masse d’aria,
mentre mancano su altri corpi come Mercurio e la Luna, ciò è
dipeso dalla massa e dalla temperatura del nostro pianeta. Una
massa minore e una temperatura più elevata avrebbero provocato
l’evaporazione degli oceani e assottigliato l’atmosfera, favorendo la
fuga nello spazio dei gas che la compongono.
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Ma bisogna aggiungere che alla formazione del suolo, del mare
e dell’atmosfera quali noi oggi li possiamo conoscere ha contribuito in misura rilevante anche l’evoluzione della vita, specie quella
vegetale e quella dei microorganismi. Per questo, non pochi ecologi pensano che la materia vivente, l’aria, gli oceani, il suolo formino
quasi un solo organismo: quello di Gaia, come i Greci chiamavano
la madre Terra divinizzandola e umanizzandola così da eliminare
la barriera tra vivente e non vivente.
LA LUNA E LE LUNE, MERCURIO, VENERE E MARTE
Che cosa abbiamo imparato dalle esplorazioni lunari? Durante le
sei spedizioni Apollo avvenute dal luglio del 1969 al dicembre del
1972 sono stati raccolti 382 chili di rocce distribuiti a vari istituti
in tutto il mondo. Con le loro sonde artificiali Luna 16, 20 e 24 i
Sovietici hanno riportato sulla Terra qualche centinaio di grammi
di materiale. ••11
Da queste rocce e da altre ricerche si è dedotto quanto già
abbiamo accennato, cioè che la Luna ha un’età di circa 4,6 miliardi d’anni, e che da questa data e per 5 o 600 milioni d’anni i
bombardamenti meteoritici le hanno dato quell’aspetto generale
e definitivo per cui ci sembra di vedere nella sua «faccia» delle
figure come di uomo o di donna. Formazioni molto più giovani
sono invece crateri quali Copernico e Tycho, prodotti dalla caduta
sporadica di qualche meteorite o grosso nucleo cometario.
I sismometri piazzati dagli astronauti hanno dimostrato che è
quasi una tomba: l’energia totale liberata dai terremoti lunari in
un anno è infatti equivalente a quella di un chilogrammo di tritolo in confronto ai 5 milioni di tonnellate nel caso dei terremoti
terrestri durante lo stesso periodo. Si è constatato che l’impatto
di un oggetto quale il modulo lunare fa risuonare il nostro satellite
come una campana, indicando che l’interno della Luna è per lo
più costituito da una grande massa fredda, con al centro, forse, un
nucleo liquido relativamente piccolo. La superficie lunare è polverosa e poco conduttiva. Scendendo in profondità la temperatura
dovrebbe raggiungere 1500 °C verso i 1000 chilometri: questa è
la regione dove i dati sismici indicano delle rocce allo stato liquido,
e la sorgente dei deboli terremoti lunari.
Tutti gli esami compiuti sulle rocce hanno escluso ogni traccia di
vita e di molecole organiche. La maggior parte del carbonio trovato
si ritiene di origine meteoritica o depositato dal vento solare. Perciò
le ricerche biologiche ora sono dirette soprattutto verso Marte e le
altre lune del sistema planetario… in attesa di esplorare gli altri
sistemi della nostra Galassia.
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••11 La Luna come la
vediamo nel cielo nelle
notti di plenilunio. Sono
indicate le località raggiunte
dalle sonde americane e
sovietiche. I Surveyor (in
giallo) furono sonde USA
destinate a preparare i
successivi sbarchi umani.
Le sei missioni del progetto
Apollo (in verde) portarono
poi complessivamente
12 astronauti a esplorare
il suolo lunare. Da parte
sua, l’URSS mandò ben
8 stazioni automatiche
Lunik (in rosso), anche con
ritorno dei campioni sulla
Terra. (NASA/GSFC)
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È noto che noi possiamo vedere solo una faccia della Luna, perché la forte attrazione gravitazionale della Terra ne ha rallentato il
periodo di rotazione fino a farlo coincidere con quello di rivoluzione
e costringere pertanto la Luna a rivolgere sempre la stessa faccia
verso la Terra. Abbiamo potuto vedere l’altra faccia della Luna solo
nel 1959 quando la sonda sovietica Luna 3 circumnavigò la Luna
e ci inviò le immagini della faccia nascosta. ••12
Eccoci dunque alle altre lune. La sonda Galileo che ha esplorato il
sistema di Giove e dei suoi satelliti ne ha contati almeno 63 fra vecchi
e nuovi. lo, il primo dei quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei intorno a Giove e il più vicino alla superficie del pianeta dopo Amaltea, è
forse anche il più interessante. Sembra possegga un’atmosfera carica
di neve di metano, una ionosfera con nubi di sodio molto estese (tanto che la sua superficie potrebbe essere coperta di sale), e una specie
di nube di idrogeno che si estende a forma di tubo per quasi un terzo
della sua orbita. È l’unico satellite ad avere vulcani attivi. ••13
Procedendo verso l’esterno del Sistema solare incontriamo Saturno e i suoi satelliti. La sonda Cassini, che ha esplorato il sistema
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••12 La faccia nascosta
della Luna fu svelata per
la prima volta nel 1959
della sonda sovietica Luna
3. Qui la vediamo ripresa
dalla sonda interplanetaria
Galileo, partita verso Giove
nel 1990. L’area scura al
centro è il Mare Orientale.
(NASA)
••13 Il satellite Io passa
davanti a Giove. Notare
la superficie butterata di
vulcani, il bordo di Giove
a sinistra nella figura e un
pennacchio vulcanico sul
bordo destro di Io. (NASA)
CAPITOLO 2
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••14 Il suolo di Titano.
Il modulo di discesa
Huygens si è posato su
questo lontano corpo
celeste il 14 gennaio 2005,
dopo essersi staccato dalla
sonda Cassini al termine
di un lungo viaggio fino a
Saturno. La panoramica
verticale a sinistra è
stata ripresa dal livello
del terreno, rivelatosi la
spiaggia fangosa di un lago
di metano, sollevando la
visuale fino all’orizzonte.
Per confronto, l’immagine
è qui affiancata da
un’analoga veduta del
suolo lunare ripresa da una
missione Apollo. I colori
sono quelli reali. (ESA, NASA,
JPL, ARIZONA UNIVERSITY)
di Saturno ne ha contati 18. Però lo scopo principale del viaggio
di Cassini è stato quello di portare «in groppa» la sonda Huygens
e inviarla verso il più grande satellite di Saturno, Titano, dopo Tritone la più grossa luna del Sistema solare, che col suo diametro
di 5150 km supera Mercurio e ha un’atmosfera ricca di molecole
organiche, 25 volte più densa di quella di Marte.
La Cassini è partita il 15 ottobre 1997 per arrivare nei dintorni
di Saturno nel luglio 2004, dopo quasi sette anni di viaggio. Per
Natale 2004 la Huygens ha lasciato la Cassini e si è avviata verso
Titano, che ha raggiunto il 14 gennaio 2005 ed è scesa sulla superficie del satellite frenata da più paracadute. ••14
Durante la discesa ha inviato immagini del suolo in cui si vedevano scorrere fiumi, probabilmente formati da metano liquido,
dato che a quelle temperature di circa -200 gradi centigradi non
poteva trattarsi di acqua. Il terreno era bagnato come dopo una
pioggia recente.
Nonostante la sua temperatura super refrigerata non è escluso che esistano zone vulcaniche e quindi abbastanza calde da
alimentare forme di vita. Quella di Titano, a parte la temperatura,
sarebbe un’atmosfera non molto dissimile dall’atmosfera primitiva
della Terra.
Forse un giorno un’altra sonda riuscirà a portare sulla Terra campioni di quel liquido e dirci se in esso ci sono almeno dei batteri, e
se la vita può nascere anche in un liquido diverso dall’acqua. ••15
Se Titano è la sesta luna di Saturno, Giapeto, l’ottavo satellite
scoperto da Giovanni Domenico Cassini nel 1671, è detto «dai due
volti», perché ha la straordinaria caratteristica di apparire 6 volte
più luminoso quando si trova a Ovest, invece che a Est di Saturno.
Si stima che abbia un diametro di circa 1500 km, e, a meno che
non abbia una forma irregolare, uno dei suoi emisferi deve essere
molto più riflettente dell’altro. Sempre a proposito delle lune, l’11a
luna di Saturno ha la particolarità di viaggiare in strettissima coppia con Giano (la 10a luna scoperta nel 1966 dal francese Audouin
Dollfus) dal quale dista meno di 8000 km. Sebbene una collisione
sia improbabile, esse possono influenzare reciprocamente le loro
orbite.
Satelliti estremamente interessanti sono quelli che orbitano intorno a Urano. Prima delle missioni interplanetarie si conoscevano solo 5 di essi, i più grandi: Titania, Oberon, Umbriel, Ariel e il
più piccolo Miranda, con diametri fra 1580 km per Titania e 484
km per Miranda. La sonda Voyager 2 ne scoprì altri 10 nel 1986.
Altri ancora sono stati scoperti col 5m di Monte Palomar e oggi
ne conosciamo 28. Eccetto Miranda, il più vicino alla superficie
del pianeta, gli altri hanno orbite regolarissime e quasi circolari,
giacenti su un piano pressoché coincidente con quello equatoriale
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di Urano. Queste lune girano nel senso di rotazione del pianeta,
formando un sistema di satelliti ancora più regolare di quelli di
Giove e Saturno.
Nettuno ha due satelliti principali, Tritone e Nereide, dal diametro rispettivamente di 2707 km e 340 km. Altri 6 sono stati scoperti
da Voyager 2 nel 1989. Oggi se ne conoscono almeno 13.
Di forma notevolmente irregolare sono i satelliti di Marte, Phobos e Deimos. Il primo misura 20 x 23 x 28 chilometri, e il secondo
10 x 12 x 16. In fotografia assomigliano a due patate, e sono butterati di crateri e di solchi. Inoltre, il loro colore è quello più «nero» di
tutti i membri del Sistema solare. Non si sa nulla sulla loro origine,
e poco sulla loro composizione, che si suppone sia basaltica e
cioè di rocce vulcaniche ricche di ferro e magnesio, oppure come
quella di certi meteoriti chiamati condriti carboniose. ••16
Anche il piccolo Plutone, declassato ad asteroide, ha un satellite, Caronte, che ha un diametro di 1186 km, circa la metà di
quello di Plutone, 2390 km, per cui più che di un pianeta col suo
satellite si dovrebbe parlare di un pianeta doppio. Lo stesso, come
abbiamo già osservato, vale per il sistema Terra-Luna.
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••15 Titano e gli anelli di
Saturno. Il colore rossastro
del satellite Titano è dovuto
alla sua atmosfera, mentre
gli anelli di Saturno in primo
piano sono composti di
particelle di ghiaccio.
(NASA, CASSINI)
CAPITOLO 2
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••16 Phobos, uno dei
due satelliti di Marte.
L’immagine è stata ripresa
dal Mars Reconnissance
Orbiter. Si notano le striature
provocate dal rotolamento
di detriti sulla superficie
di questo piccolo satellite.
(NASA, JPL, UNIVERSITY OF ARIZONA)
Dalle varie lune del Sistema solare a Mercurio, il passo è meno
grande di quanto sembri. Non soltanto perché 4 dei satelliti del
Sistema solare sono più grossi di Mercurio, e cioè Tritone (satellite
di Nettuno), Titano, Ganimede e Callisto, ma anche perché c’è chi
pensa che Mercurio sia stato un tempo un satellite di Venere. Il che,
a parte altre ragioni, spiegherebbe il fatto che lo stesso Mercurio
non ha satelliti. Inoltre, un motivo più importante in favore di questa
ipotesi potrebbe essere la distribuzione asimmetrica dei crateri sulla sua superficie, un po’ come la Luna. Ritorneremo in seguito su
questo argomento.
Fino al 1965 si credeva che Mercurio rivolgesse sempre lo stesso
emisfero al Sole, poi in quell’anno Gordon H. Pettengill e Rolf Bhucanam Dyce, col radar di Arecibo, scoprirono che invece ruotava in
quasi 59 giorni e non in sincronia col suo periodo orbitale di 88 giorni. Un professore dell’Università di Padova, Giuseppe Colombo, fece
subito notare che 59 giorni corrispondevano all’incirca a due terzi del
periodo di rivoluzione, e ciò non era dovuto a una coincidenza fortuita, ma a una precisa causa fisica: l’azione gravitazionale del Sole su
un piccolo rigonfiamento nella regione equatoriale del pianeta.
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La NASA, l’Agenzia Spaziale Americana, deve anche a Colombo se il Mariner 10, lanciato all’esplorazione di Venere e Mercurio, ha avuto un successo maggiore del previsto. Con tale lancio
la NASA sperimentava per la seconda volta, dopo il Pioneer 10
diretto a Giove, la tecnica del «Rimpallo Gravitazionale». Ossia,
senza maggior spesa di carburante, e servendosi dell’attrazione
gravitazionale di Venere come di una fionda, con un solo satellite
si esploravano prima Venere e poi Mercurio. Colombo suggerì
che si sarebbe potuto fare ancora meglio, se il Mariner avesse incrociato Mercurio in modo da entrare in un’orbita di «risonanza»
con quella del pianeta, invece di immettersi in una delle tante
orbite circumsolari. In altre parole, occorreva far girare il Mariner
intorno al Sole in un periodo di 176 giorni, il doppio di quelli
impiegati da Mercurio, perché la sonda lo ritrovasse puntualmente ogni volta che questo completava due orbite. Perciò, non
un incontro singolo con Mercurio, ma ripetuti quanto si voleva,
pagando solo il prezzo del carburante per le piccole correzioni di
rotta e di assetto.
In effetti, ci sono stati tre incontri del Mariner 10 con Mercurio:
il 29 marzo e il 21 settembre del 1974, e poi il 13 marzo 1975,
con un intervallo di 176 giorni l’uno dall’altro, pari a tre rotazioni di
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••17 Il pianeta
Mercurio ripreso a colori
dalla sonda Messenger
nel gennaio 2008.
Il suolo del pianeta è per
certi versi simile a quello
della Luna. (NASA)
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Mercurio su se stesso. Questo significa che il pianeta presentava
lo stesso emisfero rivolto verso il Sole a ogni incontro col Mariner,
che per questa ragione ha sempre fotografato la stessa metà del
pianeta: quella illuminata, mentre l’altra rimaneva avvolta nella
notte. Si è trovato che Mercurio è disseminato di crateri forse più
della Luna, e ricoperto da uno strato anche più alto di «terriccio»
e di polveri. Esso presenta pure delle caratteristiche non lunari,
come, per esempio, una strana regione a 30° di longitudine Ovest
e 25° di latitudine Sud, ricca di formazioni collinari, come tagliate e
cosparse di materiale levigato. In complesso, però, non si vedono
tracce di erosione. Comunque, tale apparenza lunare, anche se
preannunciata dalle osservazioni telescopiche di Audouin Dollfus,
è stata una sorpresa, considerata la densità di Mercurio che si
aggira sui 5,5 grammi per centimetro cubo in confronto ai 3,3
della Luna. Ne deriva che Mercurio, come la Terra, deve avere un
nucleo di ferro e nichel. Ma allora, come è possibile che due corpi
così differenti all’interno siano così simili in superficie? Sorpresa
non minore, è stata la scoperta del campo magnetico di Mercurio
(che ammonta ad appena 1/100 di quello della Terra) con relativa
magnetosfera e «risacca» del vento solare ai suoi limiti esterni.
Abbiamo già detto, a proposito della magnetosfera del nostro pianeta, che per il suo formarsi si credono necessarie due condizioni:
un nucleo liquido e una rotazione planetaria abbastanza rapida da
instaurarvi turbolenza e vortici. Siccome sappiamo che Mercurio
ruota molto lentamente, non si capisce quale sia il meccanismo
causa della formazione della sua magnetosfera. ••17
A proposito dei crateri, invece, vale la pena ricordare un contributo alla vecchia polemica sull’origine dei crateri lunari. Per dire il
vero, gli scienziati non hanno mai escluso che la Luna, Mercurio,
Venere, la Terra e Marte (chiamati anche generalmente «pianeti
terrestri») siano passati attraverso un periodo di vulcanismo diffuso. Tale periodo si farebbe risalire a circa 3,5 miliardi d’anni
fa. Ma l’americano Robert G. Strom, un planetologo del Lunar
and Pianetary Laboratory di Tucson, Arizona, sostenne di aver
scoperto un altro periodo vulcanico avvenuto 500 milioni d’anni
prima, ossia pressappoco 4 miliardi d’anni fa. Ciò indicherebbe
un’associazione fra vulcanismo primitivo e formazione del nucleo
di un pianeta. Così, se è vero che molti crateri primari sparsi nelle pianure mercuriane e simili ai crateri lunari vennero prodotti
dall’impatto dei meteoriti, e quelli secondari dai materiali di ricaduta, non tutti si possono spiegare allo stesso modo. Il numero
e la distribuzione dei crateri in alcune regioni della Luna non si
accordano con la distribuzione dei crateri in altre regioni circostanti: secondo Strom, queste pianure su Mercurio e la Luna vennero prodotte dal vulcanismo primitivo, non dagli impatti. Ana-
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loghi processi vulcanici potrebbero essere accaduti anche sulla
Terra, Venere e Marte. Certo, sulla Terra, a motivo dell’erosione
e dell’attività endogena che ha trasformato i continenti e creato
le montagne, è scomparsa ogni traccia di rocce più antiche di
3,8 miliardi d’anni. Dell’infanzia della Terra non resta più nulla, è
perduta per sempre. Ecco perché è così interessante e importante ritrovare queste tracce e stabilire con la maggiore precisione
possibile quali furono nei dettagli la natura, il tempo, il modo delle
fasi di formazione sia dei pianeti più simili e vicini alla Terra, sia di
quelli più dissimili e lontani.
Nel nostro villaggio planetario, Venere è il pianeta più vicino e più
nascosto. Sempre avvolto di nubi, non fa scorgere nemmeno un
briciolo della sua «pelle». Per saperne qualcosa, occorre sondarla
con le onde radar, e fino al 1961 non si sapeva nemmeno quale
fosse il suo periodo di rotazione: chi diceva un giorno, chi 4, chi
225. Quando nel ‘62 i grandi radar americani e sovietici riuscirono
a stabilire che Venere, rispetto alle stelle, ruota in un periodo di
243,16 giorni e in senso retrogrado (da Est a Ovest, contrario a
quello di rivoluzione), non fu un risultato facilmente accettato. ••18
Si era perplessi, perché tre rotazioni di Venere, equivalenti a
circa 730 giorni, risultano in «risonanza» con due rivoluzioni della
Terra. È come se la Terra, o meglio, le sue forze mareali, le medesime che obbligano la Luna a «guardarci» sempre con la stessa
faccia, riuscisse a controllare anche Venere in modo da obbligarla
a presentarci lo stesso emisfero ogni volta che si avvicina a noi,
cioè a ogni congiunzione inferiore. Si ha una congiunzione inferiore quando Terra, Venere e Sole sono allineati, con Venere fra la
Terra e il Sole, e fase di Venere «nuova». Si parla invece di congiunzione superiore quando i tre corpi sono allineati, con il Sole
fra la Terra e Venere, la quale è in fase «piena». Altri suppongono
che a far ruotare Venere così lentamente, invece dell’attrazione
terrestre, sia stato l’impatto di una piccola luna che si muoveva in
un’orbita retrograda.
Comunque sia, la lentissima rotazione di Venere è un fatto incontestabile. Dalla combinazione del moto di rivoluzione di Venere intorno al Sole con un periodo di 225 giorni, e dal moto di rotazione retrogrado pari a 243,16 giorni, consegue che il periodo di
rotazione sinodico (ossia, rispetto al Sole) è di 117 giorni terrestri,
con 58,5 giorni d luce e 58,5 di buio. Se le nubi non nascondessero il cielo, una mitica salamandra vedrebbe il Sole spostarsi di
appena 3° durante 24 ore, e, naturalmente, da Ovest a Est. Inoltre
Venere non ha stagioni perché il suo asse è inclinato soltanto di
3°. Se Venere è una «tardona», al contrario sono veloci le nuvole
più alte che la ricoprono: possono raggiungere i 100 metri al secondo, e fanno un giro completo intorno al pianeta in un periodo
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••18 Fotografia di
Venere, realizzata in luce
visibile e ultravioletta
dal Mariner 10 nel
1974. Il pianeta appare
interamente avvolto da
una coltre di nubi.
(NASA/JPL, M. MALMER)
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di 4 giorni. Era questa rotazione della coltre di nubi che confondeva gli astronomi
e li rendeva così incerti sulla vera durata
del periodo di rotazione.
La temperatura su Venere è elevatissima: un vero inferno, e, a volerla visitare, ci vorrebbe un batiscafo, adattato al
fuoco, oltre che alle alte pressioni. Infatti, se la temperatura alla quota delle
nubi più alte è di -40 °C; al suolo arriva
a circa +480 °C, con una pressione di
93 kg/cm2, pari ad altrettante atmosfere.
La composizione dell’aria consiste per il
97% di anidride carbonica e per il 3%
di azoto, ossigeno e argon in proporzioni non ancora fissate. Inutile aggiungere
che con questo calore, capace di liquefare il piombo e lo zinco, sulla superficie di
Venere non c’è traccia di acqua allo stato
liquido. Tuttavia questa superficie si comporta in un certo senso proprio come l’acqua sulla Terra, in quanto reagisce con
l’anidride carbonica dell’atmosfera. Tale
fenomeno avviene anche sulla Terra, ma
con estrema lentezza a causa della bassa
temperatura; su Venere, al contrario, le
reazioni sono rapide e in base a esse si
riesce a spiegare la presenza nelle nubi
venusiane di vari acidi, compreso l’acido solforico e l’acido cloridrico, scoperti
fin dal 1967 dai francesi Pierre e Janine
Connes per mezzo dell’analisi spettrografica e dall’americano William S. Benedict.
Quindi se su Venere piove, è pioggia all’acido solforico e il nostro batiscafo dovrebbe essere attrezzato anche contro la corrosione.
Ma perché su Venere fa tanto caldo? Perché funziona come una
serra. Se l’80% della radiazione solare viene riflessa nello spazio,
le nubi assorbono la percentuale rimanente tanto nell’infrarosso
che nell’ultravioletto. La superficie si riscalda, ma le radiazioni infrarosse rimangono intrappolate dall’atmosfera. Il meccanismo è
lo stesso che si verifica in una macchina lasciata al Sole con i
finestrini chiusi: la luce entra liberamente e viene riemessa; ma le
radiazioni infrarosse a cui il vetro è meno trasparente vengono intrappolate e dopo poco l’interno della macchina diventa un forno.
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Ancora in tema di radiazioni, domandiamoci quanta luce solare arriva al suolo. Le sonde sovietiche Venera 9 e 10, atterrate in
pieno giorno venusiano rispettivamente il 22 e il 25 ottobre 1975,
a una distanza di 2200 chilometri l’una dall’altra, trovarono un
ambiente meno crepuscolare di quello sperimentato in ore più
mattutine, dalla Venera 8 nel 1972. Forse, è dipeso anche dalle
condizioni meteorologiche: un cielo di nubi più alto e diradato. Per
avere un’idea più precisa, la Venera 8 aveva misurato un illuminamento sui 2-300 lux col Sole mattutino basso sull’orizzonte. Per
illuminamento si intende la luce ricevuta per unità di superficie. Si
misura in lux, che equivale a una candela a 1 metro di distanza.
Con opportuni calcoli si deduceva che col Sole allo Zenit, si poteva
arrivare a 2000 lux, da paragonare ai 100.000 lux presenti quando il Sole estivo brilla sulla Terra, e al chiaro di Luna equivalente
soltanto a un quarto di lux.
Le foto scattate da Venera 9 e 10 hanno mostrato in una località
un panorama uniforme di rocce tagliate ad angoli acuti e come
prodotte dallo spezzarsi di rocce fortemente stratificate e, altrove,
rocce più arrotondate e «vecchie». Le ultime due sonde di questa
serie, Venera 13 e 14, hanno trasmesso sulla Terra straordinarie
panoramiche a colori del suolo venusiano. Da queste foto e dalle
ricerche radar sembra si possa concludere che si tratta di un’attività tettonica d’origine interna, e probabilmente vulcanica. ••19
Il radiotelescopio di Arecibo in coppia con un’antenna da 30
metri posta a circa 11 chilometri di distanza nell’agosto del 1975
ha ottenuto dei segnali radar, che, convertiti in immagini, ci hanno
mostrato una vasta regione compresa fra 46° e 75° di latitudine
Nord, e circa 80° di longitudine, una sorta di grande bacino forse
di origine meteoritica. Invece, altre zone di colore chiaro, in particolare una battezzata Maxwell, si direbbero quasi sicuramente di
natura tettonica, con effusioni laviche. Sembra pure di intravedere
alcune serie di catene montuose. «Sulla Luna non c’è nulla di
simile», dicono gli scienziati R. B. Dyce e G. H. Pettengill. Anzi,
aggiungono che le indicazioni di un’attività tettonica sono così va62
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••19 Il suolo di Venere,
ripreso dalla sonda
sovietica Venera 13
nel 1982. Si scorgono
in primo piano la base
dentata della sonda, il
coperchio semicircolare
della telecamera caduto sul
terreno e un’asticella per
la calibrazione dei colori.
Il paesaggio venusiano
mostra dei lastroni di roccia
vulcanica che si perdono
in lontananza. In questa
ripresa, che è una strisciata
grandangolare, l’orizzonte
si trova in alto negli angoli a
sinistra e a destra.
(ROSCOSMOS E NASA)
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••20 Il pianeta Marte.
Il caratteristico colore rosso
è dovuto alle rocce e a
polveri rossastre molto fini.
Nelle antiche mappe di
Marte comparivano «mari»
e «canali», ma si trattava di
impressioni visive e illusioni
ottiche riportate nelle prime
osservazioni telescopiche.
Anche se di queste primitive
denominazioni rimane
traccia nella nomenclatura
marziana, oggi sappiamo
che sulla superficie di Marte
non c’è acqua allo stato
liquido, ma c’è ghiaccio
nelle calotte polari.
(NASA/HST)
ste «da sollevare qualche dubbio anche sull’origine meteoritica del
grande bacino». Ricorderete gli analoghi ripensamenti di Strom
riguardo le pianure di Mercurio e della Luna.
Altrettanto importante dell’esplorazione delle sonde sovietiche
su Venere è stata quella dei Viking americani atterrati su Marte, dopo i memorabili sorvoli e l’immissione in orbita dei Mariner.
Fu specialmente il Mariner 9 che, arrivato su Marte durante una
tempesta di sabbia durata diverse settimane, non appena la polvere prese a diradare, ci rivelò un mondo tutto diverso da quello
osservato da Terra e dai precedenti Mariner. Nell’opinione dello
scienziato americano Harold Masursky, l’aspetto globale di Marte
rammentava l’immagine che noi ci facciamo della Terra all’epoca
di Pangea, cioè di quell’ipotetica massa continentale unica dalla
quale si sarebbero distaccati i continenti attuali. ••20
In breve, si vide che oltre che di crateri, Marte era ricco di poderosi vulcani, in particolare nell’emisfero settentrionale. Uno di
questi, «Olympus Mons» (Nix Olimpica) coi suoi 26 km di altezza
e 5 o 600 chilometri di diametro, è il più alto che si conosca sia
su Marte che sugli altri pianeti. Si videro lunghissimi e larghissimi
canyon che non hanno nulla a che vedere con i famosi «canali
d’irrigazione» marziani, ma indicherebbero (anche se altri scien-
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ziati, come Ernst J. Opik sono di diverso parere) che effettivamente su Marte ci sarebbero stati dei fiumi e un’atmosfera e un
clima più umido e caldo. Nel giugno e nell’agosto del 1976 sono
arrivati i Viking 1 e 2, i quali, dopo un periodo di esplorazione in
orbita, hanno sganciato le capsule di atterraggio il 20 luglio nella
regione di «Chryse Planitia» (22,27° di latitudine Nord e 48,00°
di longitudine Ovest), e il 3 settembre a «Utopia Planitia» (40,97°
latitudine Nord, 225,67° longitudine Ovest), con lo scopo principale di rintracciare eventuali forme di vita. La parte dei Viking
rimasta in orbita serviva da collegamento con la Terra e svolgeva importanti ricerche, fra cui l’analisi della calotta polare, della
conformazione del suolo, della forma di Marte, della costituzione
dell’atmosfera. ••21
Vale la pena di riferire le difficoltà tecniche e di programmazione superate dagli ingegneri e dagli scienziati. A parte un atterraggio «morbido» per non danneggiare gli strumenti, si doveva
scegliere un luogo, basso, umido e caldo, relativamente alla rigida
temperatura di Marte che al suolo, in media, è di 23 °C sotto zero.
Queste tre condizioni, considerate le più adatte per qualche forma
di vita marziana, erano però anche piuttosto contraddittorie. Infatti, se vicino all’equatore marziano era facile trovare luoghi bassi
e caldi, quelli presumibilmente più umidi si trovano al margine
delle calotte polari. Infine, questi luoghi dovevano essere anche
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••21 I pianeti Mercurio,
Venere e Marte, a
confronto con la Terra. Le
dimensioni sono in scala.
(WWW.FERLUGA.NET)
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molto bassi, in modo che vi dominasse una pressione superiore
ai 6,1 millibar: necessaria per trovare possibili pozze d’acqua allo
stato liquido. È una pressione, che, sulla Terra, si riscontra a circa
35 km di altezza, e su Marte a 3 km sotto il livello medio della
superficie.
A «Chryse Planitia», la pressione è risultata di 7,7 millibar, il che
farebbe presumere che si trovi a circa 5 chilometri sotto il livello
medio marziano, mentre la temperatura oscillava da un minimo
di -90°C, a un massimo di -10°C, con venti deboli di pochi metri
al secondo. In altre regioni, come al di sopra dei grandi vulcani,
si sono osservate formazioni di nubi trasportate dal vento a 200
chilometri l’ora. Sono nuvole in genere piuttosto tenui e stagionali,
in quanto sembra si formino soltanto in primavera e in estate. A
questo proposito, il Viking 1 è atterrato quando sull’emisfero settentrionale l’estate era cominciata da una decina di giorni, e corrispondeva al 361° giorno dell’anno marziano, che ha una durata di
668,6 giorni marziani, pari a 686,97 giorni terrestri.
Dopo l’atterraggio sono cominciate subito le «giornate lavorative»
del Lander, la capsula-laboratorio; giornate che i tecnici hanno chiamato SOL dalla frase Surface Operation Lander (attività del Lander
sulla superficie). SOL 0 è stata chiamata la prima giornata, iniziata
alle ore 4,13 pomeridiane (tempo locale), mentre SOL 1 è iniziata
alla mezzanotte lungo la longitudine 48,01° Ovest. L’attività del laboratorio è proseguita fino a SOL 43, corrispondente al nostro 1° settembre, quando è stata ridotta, in attesa dell’atterraggio del Viking 2.
Il panorama di Marte è un deserto rossastro disseminato di pietre di ogni dimensione, e anche il cielo è più o meno «rugginoso»
in relazione alla quantità di polveri sollevate dal vento. È un suolo
polveroso che i «bracci» dei Viking hanno scavato con facilità, ma
è anche consistente. Le rocce hanno una composizione chimica
basaltica, mentre mancherebbero i graniti. I gas atmosferici sono
formati da anidride carbonica per il 95%, azoto 2-3%, argon intorno all’1%, e poi tracce di ossigeno, monossido di carbonio o altri
gas inerti.
Anche il Viking 2 è atterrato in una «foresta» di rocce, a un livello più basso di quello di «Chryse Planitia». Contrariamente alle
aspettative, si tratta di una regione piatta e simile alla precedente,
diversa da come appariva dalle capsule rimaste in orbita, che, abbracciando un panorama più ampio, avevano notato inconfondibili
segni di crateri formatisi per impatto o vulcanismo e terreni fluviali.
Gli strumenti in orbita hanno potuto stabilire che le calotte polari nella stagione estiva sono costituite in gran parte di ghiaccio
e d’acqua, essendo evaporate le nevi invernali di anidride carbonica, e che Marte, pur rimanendo un pianeta arido, contiene
racchiusa nei minerali più acqua di quanto si ritenesse. Inoltre si è
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visto che le calotte polari sono formate da strati di ghiaccio e strati
di polveri accumulati l’uno sull’altro per uno spessore di diversi
chilometri, e che subiscono caratteristiche erosioni. Le polveri, in
cui sono parzialmente affondati i piedi dei Lander, contengono
percentuali di materiale magnetico, forse soprattutto magnetite,
che è un ossido di ferro.
Va aggiunta qualche informazione sui vulcani e sulla costituzione interna di Marte e Venere. Si pensa che la maggior parte
dei vulcani marziani siano spenti da miliardi d’anni. I sismografi
hanno avvertito appena una o due deboli scosse, la qual cosa concorda con l’ipotesi di un pianeta ormai geologicamente inattivo da
moltissimo tempo. Lo dimostra anche l’assenza di rocce bianche
come il nostro granito e la presenza di vulcani ma non di montagne: queste si crede risultino da compressioni della crosta di un
pianeta, quelli da fuoriuscite di magma. Ciò si spiega con quanto
dicevamo che Marte è un pianeta rimasto per sempre con la crosta
unita come quella di Pangea, perché il suo «motore» interno non
avrebbe avuto la forza di spezzare i continenti.
Venere, con una massa e una densità quasi uguali a quelle del
nostro pianeta, è probabile abbia la medesima struttura e composizione interna. La mancanza di una magnetosfera è spiegabile
con la sua lenta rotazione. Marte, più piccolo e meno denso (3,9
grammi per centimetro cubo, in confronto ai 5,4 di Mercurio, 5,2
di Venere, 5,5 della Terra), deve essere composto soprattutto di
silicati pur non mancando di un nucleo di ferro. Però, siccome
Marte ruota più rapidamente della Terra, e tuttavia non ha magnetosfera, dovrebbe avere un nucleo di ferro ormai solido oppure
troppo piccolo.
Da quelle lontane «giornate lavorative» del Lander nell’estate
del 1976, l’esperimento più atteso, quello biologico, malgrado anche le recenti esplorazioni, non ha dato finora risultati conclusivi. A
causa dell’assenza di piogge da miliardi d’anni, Marte si è rivelato
un mondo che ha subito pochi mutamenti nel corso dei millenni.
Da questo si può inferire che si trovi anche in uno stato prebiologico permanente; ciò significa che la sua esplorazione ci dà l’opportunità inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la
materia inerte in materia vivente. Nei laboratori terrestri abbiamo
avuto la prova che certi microbi sopravvivono in un ambiente che
simula quello marziano. Perciò, i Lander hanno condotto e condurranno ancora delicati esperimenti di metabolismo, respirazione, fotosintesi su vari campioni di terreno.
L’esplorazione di Marte è proseguita attivamente, in vista della
grande avventura del secolo XXI: sbarco di astronauti sul pianeta
rosso. Fra le varie sonde che sono scese sul suolo di Marte dopo i
Viking ricordiamo il Pathfinder atterrato nel luglio 1997 in una zona
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••22 Il rover
Opportunity su Marte, al
bordo del cratere Victoria
nel 2006. L’immagine
è stata ripresa dallo
stesso Opportunity, qui
sovrapposto con un
fotomontaggio. (NASA)
ricca di antiche rocce, che sembrano simili al meteorite ALH84001
proveniente da Marte e che potrebbe contenere un fossile di batterio; il Mars Global Surveyor che ha compiuto centinaia di orbite attorno a Marte inviandoci un gran numero di immagini della superficie
marziana in cui si vedono dettagli di 1,5 metri, mentre i dettagli più
piccoli visti dai Viking sono di 4 metri; la sonda 2001 Mars Odyssey
in orbita attorno a Marte che aveva rilevato la presenza di ghiaccio;
la sonda Phoenix, atterrata al polo nord di Marte il 25 maggio 2007,
che ha prelevato un campione del suolo, e i suoi strumenti lo hanno
esaminato e provato la presenza di acqua, che si ritiene essenziale
per qualsiasi forma di vita.
Le esplorazioni più complesse sono state compiute dalle due
sonde gemelle Spirit e Opportunity, giunte in luoghi differenti di
Marte nel gennaio 2004. Si tratta di veicoli a 6 ruote dotati di intelligenza artificiale, capaci di analizzare il terreno e di evitare gli
ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra, che hanno viaggiato
sul pianeta rosso per molti chilometri. Spirit ha raggiunto la vetta
di una collina marziana, mentre Opportunity ha esplorato numerosi crateri e nel 2012 non ha ancora concluso la sua onorata
attività. ••22
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GLI ASTEROIDI E LE AVVENTUROSE COMETE
Nella sua Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, G. W. F. Hegel
scrive che «colui che erra è pur sempre spirito», e perciò superiore
a tutte le meraviglie della natura. Succedeva, però, che fidandosi
troppo dello spirito e tenendo in nessun conto l’esperienza, incorresse in grossi errori. È noto, per esempio, che nella Discussione
filosofica sulle orbite dei pianeti dimostrava con orgogliosa sicurezza che non potevano esistere più di 7 pianeti. E ciò, otto mesi dopo
la scoperta di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi la notte dal 1° al 2°
gennaio del 1801. Quando, poi, si trovarono anche Pallade, Giunone e Vesta, pur riconoscendo l’esistenza degli asteroidi, Hegel
proclamò che le leggi che regolavano l’ordine dei pianeti esigevano
la loro suddivisione in tre gruppi: il primo formato dai quattro pianeti interni con soltanto la Terra provvista di un satellite; il secondo
formato dai soli asteroidi, il terzo costituito dagli altri pianeti con
molti satelliti o anelli come Saturno. Quando l’americano Asaph
Hall, nel 1877, scoprì le due lune di Marte, Hegel era morto da 46
anni e non poté inventare un altro schema adattabile alla realtà.
L’intuito scientifico che mancava a Hegel, invece non difettava
in Giovanni Keplero, sebbene anch’egli fosse alquanto malato di
pitagoriche stramberie; e dopo Keplero, in uomini come Christian
Freiherr von Wolf, Johann Heinrich Lambert, e specialmente Johann Daniel Titius che enunciò la famosa legge, conosciuta come
Legge Titius-Bode, perché fu Johann Bode a pubblicizzarla. Keplero si era accorto che nel succedersi delle distanze planetarie,
quella fra Marte e Giove era troppo grande rispetto alle altre, e per
ristabilire «l’armonia» pensò che bisognava metterci un pianeta. Il
posto preciso a 2,8 U.A. lo trovò Titius, rappresentando con una
serie di numeri le distanze dei pianeti dal Sole, misurate in base alla
distanza Terra-Sole. Per esempio, aggiungendo 0,4 ai numeri della
serie 0; 0,3; 0,6; 1,2; 2,4; 4,8; 9,6; 19,2; 38,4… si ottiene 0,4; 0,7;
1,0; 1,6; 2,8; 5,2; 10,0; 19,6; 38,8: valori che si accordano con le
distanze vere fino a Urano, ma non per Nettuno e Plutone, a meno
che non si salti da Urano a Plutone, trascurando Nettuno.
Come si vede, è una «legge» per modo di dire, nonostante possa
esprimere delle relazioni non ancora ben comprese. Tuttavia, specie dopo che William Herschel aveva scoperto casualmente Urano
nel 1781, alla distanza media di 19,2 U.A. (non troppo diversa da
quella di 19,6 di Titius-Bode), questa legge era ritenuta valida e
meritevole di controllo. Fu così che, organizzata dal barone ungherese Franz Xavier von Zach, incominciò la caccia a questo corpo
celeste che si nascondeva a 2,8 U.A. Vinse, come abbiamo detto,
Giuseppe Piazzi, che non partecipava alla gara: Von Zach gli aveva
spedito l’invito, ma Piazzi non aveva ricevuto la lettera, e quando
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CAPITOLO 2
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••23 L’asteroide Eros.
La sua orbita incrocia
quella della Terra e quindi
Eros rappresenta una
potenziale minaccia per
il nostro Pianeta. Questo
asteroide, lungo 33 km, è
stato raggiunto nel 2000
dalla sonda Near. (NASA)
scoprì Cerere, osservava il cielo per
compilare un catalogo stellare.
L’importanza di Cerere non consiste
soltanto nella scoperta di oggetti fino
allora sconosciuti come gli asteroidi (o
pianetini, come vengono anche chiamati per le loro esigue dimensioni), o
nella conferma della strana legge di
Titius- Bode, ma nel contributo dato
in quell’occasione da un grandissimo
matematico, Karl Friedrich Gauss, allora ventiquattrenne. Le osservazioni
di Piazzi erano state sufficienti a stabilire che l’orbita di Cerere era quasi
circolare, situata a circa 2,8 U.A., e
non allungata come quella di una cometa: quindi si trattava proprio del «pianeta mancante». Però, a causa del cattivo tempo, le
osservazioni avevano dovuto essere interrotte, e risultavano insufficienti per il calcolo dell’orbita completa. Era quasi come dire che
Cerere era stato trovato e subito perso. In realtà, i dati disponibili
non bastavano per i vecchi metodi matematici, tanto è vero che
Gauss ne inventò uno nuovo: quello dei «minimi quadrati», che gli
permise di calcolare l’orbita intera con sole 3 osservazioni.
Dopo i primi quattro e più grossi asteroidi di forma sferica – Cerere, 1000 km di diametro; Pallade, 545; Vesta, 525; Giunone, 230
(ma sembra si debbano annoverare fra i «grandi» anche Davida che
avrebbe un diametro di 285 km ed Eunomia di 260) – ne sono state
trovate alcune altre migliaia di forma irregolare. In tutto si crede
siano milioni, e naturalmente quelli più piccoli sono i più numerosi.
Piuttosto, si è constatato che non tutti circolano fra Marte e Giove,
nella cosiddetta fascia degli asteroidi, in quanto ve ne sono molti
altri che orbitano più lontano o più vicino. Fra i più interessanti, è il
gruppo degli EGA (Earth-Grazing Asteroids), asteroidi che sfiorano
la Terra, ma possono sfiorare e cadere anche su Marte e Venere.
Uno interessantissimo è stato scoperto il 7 gennaio 1976 dall’americana Eleanor Helin col telescopio di Monte Palomar. Si tratta
dell’asteroide denominato 1976 AA, e la sua particolarità consiste
nel fatto che gran parte della sua orbita si trova all’interno di quella
della Terra e si avvicina a quella di Venere. Esso conferma l’esistenza di un’altra fascia di asteroidi orbitanti attorno al Sole circa alla
stessa distanza a cui orbita la Terra e che perciò sono stati chiamati
NEO, acronimo di tre parole inglesi, Near Orbiting Objects. ••23
Ci sono gruppi di ricercatori, sia della NASA che dell’ESA, come
pure di vari osservatori astronomici, che si dedicano allo studio dei
NEO, sia per determinarne accuratamente le orbite, e scoprirne
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altri, sia per valutare l’eventuale rischio che qualcuno di questi
cada sulla Terra con effetti devastanti, equiparabili all’esplosione
di diverse testate nucleari. Vari metodi sono stati individuati per
proteggersi da tale rischio. Oltre alla possibilità di distruggere l’oggetto pericoloso lanciandovi contro una carica nucleare, si pensa
di avvicinarlo con una grossa astronave che con la sua attrazione
gravitazionale potrebbe trascinarlo su un’orbita meno pericolosa,
oppure farci atterrare sopra un’astronave che con i suoi motori
potrebbe fargli cambiare leggermente orbita, quanto basta per evitare l’impatto. Sembrano scenari da fantascienza, e in effetti negli
ultimi anni il cinema ci ha ricamato sopra, basti pensare a colossal
hollywoodiani come Deep Impact e Armageddon. Ma il rischio di
impatto non è una fantasia. Uno di questi asteroidi in rotta di collisione, chiamato Apofis, dal nome di un dio egizio che significa
«Il distruttore», senza l’intervento umano si schianterebbe quasi
certamente sulla Terra nel 2036.
Una terza famiglia di asteroidi è stata scoperta con sonde sensibili all’infrarosso, nelle gelide regioni oltre Plutone ed è responsabile del declassamento di Plutone da pianeta ad asteroide, capostipite della famiglia dei «plutini», come abbiamo già accennato.
Uno dei principali risultati ottenuti da quando si studiano le caratteristiche fisiche oltre che orbitali degli asteroidi è la loro suddivisione in due tipi, a seconda della composizione delle loro superfici:
quelli formati da ferro e silicati, e quelli composti di carbonio. Questo fatto ci dovrebbe illuminare circa le loro origini, ma le opinioni
sono contrastanti. C’è chi sostiene la vecchia teoria dell’esplosione
di un pianeta, o della collisione fra una decina di pianetini delle
dimensioni di Cerere, e chi vede negli attuali asteroidi quanto resta
di una popolazione molto più numerosa di corpi formatisi all’inizio
del Sistema solare. Non riuscendo a unirsi in un solo pianeta per
le forze mareali esercitate da Giove, avrebbero ripreso a frammentarsi e a costituire la più formidabile santabarbara di proiettili che
bombardarono i pianeti più interni all’epoca della loro nascita. Sia
che si tratti di frammenti o di resti di corpi primordiali, tranne i
maggiori che sono all’incirca sferici, per lo più gli asteroidi hanno
forma irregolare.
Abbiamo poc’anzi affermato che Piazzi e Von Zach si accorsero
che Cerere non era una cometa, perché aveva un’orbita quasi
circolare e non allungata. Infatti l’ellitticità a volte pronunciatissima
del loro cammino è una delle principali caratteristiche delle comete, che ne denuncia anche l’età, in quanto si considerano giovani
le comete che vengono da molto lontano, al di là di Plutone, e forse
vedono il Sole da vicino per la prima volta. Tuttavia questo non è
sempre vero, dato che vi sono comete che hanno preso dimora
stabile nelle regioni più interne del Sistema solare, hanno orbite
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CAPITOLO 2
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••24 La cometa di Halley
nel passaggio del 1986.
poco allungate e invecchiando hanno perso tutto il materiale volatile che circondava il loro nucleo, così da diventare asteroidi, o
essere in procinto di diventarlo.
Scoprire comete non è difficile e non richiede sempre grossi
strumenti. Non di rado basta perfino un semplice binocolo. Quel
che occorre è soprattutto l’abitudine a osservare il cielo, controllare sulle carte il campo stellare, tanta pazienza e tanta fortuna. Il
più grande scopritore di comete è stato Jean-Louis Pons (17611831), che era un semplice portiere all’Osservatorio di Marsiglia.
Ne scoprì 37, compresa la cometa che porta il nome di Encke,
perché fu questi a calcolarne l’orbita. Oggi, il record di scopritori
di comete lo detengono i Giapponesi, fra i quali si può ricordare
Hiroaki Mori che la notte del 5 ottobre del 1975 ha scoperto due
comete nello spazio di 70 minuti. Vi sono degli anni ricchi, come
il 1973, quando su 28 comete osservate, si sono trovate 9 comete
nuove; e anni poveri come il 1971 con una sola cometa. Questi
corpi celesti un tempo temuti, perché si credeva annunziassero
sventure di ogni genere, nell’Ottocento fruttavano un premio ai loro
scopritori e oggi sono diventati quasi un hobby.
Il primo passo importante nello studio delle comete lo fece Tycho Brahe, il grande astronomo danese. Osservando il cammino
della cometa del 1577, comprese che essa non costituiva un fenomeno sublunare, ma passava attraverso quelle sfere cristalline
che a quei tempi si pensava servissero a sostenere e far muovere
i pianeti. Dunque, le sfere cristalline non esistevano, e le comete
viaggiavano anche fra le dimore dei beati. La cometa del 1680
diede occasione a Newton di applicare la sua legge gravitazionale
per calcolarne l’orbita. Lo stesso metodo servì due anni dopo a
Edmund Halley per determinare l’orbita della cometa del 1682,
identificarla con quella delle comete apparse nel 1607, 1531 e
1456, e «predire con sicurezza che sarebbe ritornata nel 1758».
Il che avvenne proprio il giorno di Natale di quell’anno, quando
la individuò Georg Palitzch, un astronomo dilettante di Dresda. È
difficile rendersi conto del clamore suscitato fra gli scienziati dalla
verifica puntuale della predizione di Halley. Fu una delle cause
determinanti del discredito degli astrologi e dei maghi. ••24
Le comete non si presentano sempre con lo stesso aspetto, anche se il più consueto è quello che ne ha determinato il nome derivato dal greco kométes, chiomato. Altri le chiamavano «stelle che
fumano», e i Cinesi «scope del cielo». In generale, le più vistose
permettono di intravedere un nucleo quasi puntiforme e brillante,
circondato da una coma da cui si sviluppa, ma non sempre, una
coda di gas e polveri, oppure più code. La cometa di Chéseaux
del 1744, detta «il pavone delle comete», dispiegava non meno
di 6 code.
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Le forti variazioni di luminosità in rapporto alla distanza dal Sole
suggeriscono che la luce delle comete dipende da quella solare.
Infatti, alla distanza di Giove e Saturno, dove la temperatura dello spazio è inferiore ai 100 K, una cometa è ridotta a un nucleo
solido che riflette semplicemente la luce solare come farebbe un
asteroide. Ma avvicinandosi al Sole, il calore la mette in subbuglio,
e il nucleo prende lentamente a sublimare formando un inviluppo
gassoso, la coma, che per eccitazione da parte dei fotoni solari
emette luce fluorescente.
Se potessimo vedere da vicino una cometa quando si trova all’altezza dell’orbita di Saturno, questa ci sembrerebbe una
montagna di ghiaccio sporchissimo e appena rilucente, mentre ai
grandi telescopi posti sulla Terra appare come una stellina di 16a
magnitudine, cioè 10.000 volte più debole di una stella appena
visibile a occhio nudo. Questi nuclei cometari ghiacciati, dai quali
non si è ancora sviluppata una coma, possono variare da qualche
centinaio di metri di diametro a qualche decina di chilometri. Si è
calcolato che la cometa di Encke abbia un nucleo di 1,7 km di diametro e una massa di 3000 milioni di tonnellate. La cometa di Halley è 6 volte più grande, avendo un diametro di una decina di km
e una massa di 800.000 milioni di tonnellate. La cometa record è
la Humason, molto più grande di quella di Halley, misurando 41
km di diametro con una massa di 37.500 miliardi di tonnellate. Ci
vorrebbero 8 miliardi di comete Halley per fare un pianeta come il
nostro, oppure 160 milioni di comete Humason.
Avvicinandosi al Sole, queste montagne di ghiaccio si trasformano, si complicano, si espandono enormemente nello spazio,
anche se con una costante parsimonia di mezzi. Infatti, meno di
un milionesimo della massa di una cometa fluisce a ogni istante
nella sua coma e nella sua coda. Eppure, il 99,9% della luminosità
di una cometa pienamente sviluppata proviene proprio da queste
sue componenti, mentre lo 0,1% deriva dal nucleo che le ha generate. Naturalmente, questo avviene non solo perché il nucleo,
essendo così minuscolo e compatto, espone soltanto una piccola
area alla luce del Sole, ma anche perché si limita a riflettere la
luce solare, mentre i gas che si sviluppano nella coma e nella coda
possono emettere anche luce propria fluorescente.
Tale trasformazione da un nucleo a una cometa con tanto di coda
si verifica per un tratto breve dell’orbita cometaria e per il tempo
altrettanto breve che impiega a percorrerlo, come una fuggevole
estate: pochi mesi trascorsi nelle vicinanze del Sole e dei pianeti
più interni, in confronto agli anni, ai secoli e spesso alle decine di
migliaia d’anni che trascorrono oltre Urano e Nettuno. È il caso della
cometa di Halley, avente un periodo di 77 anni, o della Kohoutek,
che si spinge ai confini del Sistema solare con un periodo di ol72
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CAPITOLO 2
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••25 La cometa Hale-Bopp.
Si vedono bene le componenti
che formano la spettacolare
coda. Vi è una componente
gassosa, strutturata in
molteplici filamenti, che
segue il campo magnetico
interplanetario emettendo una
luce azzurrognola. La coda
di pulviscolo forma invece
una scia leggermente arcuata
lungo l’orbita cometaria
e riflette la luce solare con
un colore giallastro.
Entrambe le code si dipartono
dal nucleo, che è avvolto
nell’alone della chioma.
(WIKIMEDIA COMMONS)
tre 70.000 anni. Per contro la Encke
ha un’orbita che non arriva a quella di
Giove e un periodo di tre anni e quattro
mesi, il più breve tra quelli conosciuti.
Non tutte le comete sviluppano una
coda, ma in generale è sempre per
azione del calore solare che si formano le scie di polveri e di gas. Le scie di
polveri sono prodotte dalla pressione
esercitata dai fotoni solari che spingono i granelli fuori dalla coma e selettivamente, a seconda delle dimensioni,
e in composizione con il moto orbitale, li distribuiscono nella caratteristica
forma a ventaglio in direzione opposta
al Sole. Le code formate da gas hanno
struttura assai più complessa. Come
nella coma, i gas risplendono soprattutto per fluorescenza, ma fanno assumere alle code una forma diritta,
mentre all’interno sviluppano moti rapidi e turbolenze, che la pressione di
radiazione è troppo debole per giustificare; le code gassose dunque hanno forma allungata e sono costituite in
massima parte di ioni, ossia di molecole che per azione della luce solare
hanno perduto elettroni, trasformandosi da molecole neutre in molecole
cariche positivamente. ••25
Il meccanismo che sviluppa e modifica le code di gas è stato
compreso soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con la
scoperta del «vento solare», a cui si è accennato più volte. Questo
è costituito da un fiume di particelle cariche (protoni ed elettroni) che, insieme ai campi magnetici cui tali particelle rimangono
legate, vengono espulse in continuazione dal Sole, ma con maggiore intensità durante le tempeste solari. Sono le particelle che
nella nostra atmosfera producono le Aurore Boreali, e fenomeni
analoghi anche nelle atmosfere cometarie. In particolare, secondo
Ludwig F. B. Biermann e Fred Whipple, avviene che gli elettroni
ad alta energia del vento solare, unitamente alla radiazione elettromagnetica, ionizzano le molecole della coma. Allora il turbinio dei
campi magnetici funziona come un rastrello che separa gli ioni da
molecole e atomi non ionizzati. Mentre questi ultimi vengono lasciati dove si trovano, gli ioni subiscono un’accelerazione di alcune
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decine di chilometri al secondo. È per questo che nelle code gassose si osservano variazioni e spostamenti di gas che percorrono
milioni di chilometri, nello spazio di mezz’ora.
Ecco perché le comete sono state chiamate anche «barometri
interplanetari»: perché rivelano la «febbre» del Sole e il cammino
percorso dal vento solare. Ed ecco perché, riassumendo, si può
affermare che se da un lato le code di polveri assomigliano al fenomeno della Luce zodiacale, la quale effettivamente non è altro
che una nube di polveri cometarie e asteroidali in orbita solare,
dall’altro le code sono il luogo di interazioni simili a quelle che
danno origine alle aurore boreali.
Avvicinandosi al Sole può darsi che alla cometa non succeda
niente di straordinario, oltre una maggiore perdita di polveri e gas.
Però può anche darsi che essa si spezzi, come è successo alla
brillantissima cometa West, il cui nucleo, nel marzo del 1966, si è
suddiviso in 4 parti: un caso piuttosto raro (il precedente avvenne
alla cometa Brooks 2, nel 1889) che dimostra a un tempo sia la
costituzione dei nuclei, che il destino delle comete e la durata della
loro vita. Queste e altre osservazioni condussero a fine Ottocento
all’ipotesi delle comete simili a un «banco di ghiaia» e di polveri
come quelle delle meteore, ricoperte di gas ghiacciati.
È opportuno ricordare a questo punto il contributo dato da due
italiani alla comprensione della natura chimico-fisica delle comete.
Fu nel 1860, quando l’astrofisica era appena nata e ancora pochi
credevano nelle sue possibilità, che Giambattista Donati rilevò i
primi spettri cometari e individuò alcuni degli elementi di cui erano
composte le comete. A Giovanni Schiaparelli va il merito di aver
dimostrato nel 1866 una stretta relazione fra meteore e comete,
provando che le meteore di agosto seguivano la medesima orbita della cometa Tuttle del 1862. Perciò, le celebri «lacrime di
San Lorenzo» altro non sono che le polveri perdute dalla suddetta cometa, ne percorrono la medesima orbita, e quando la Terra
incrocia quest’orbita, le polveri bruciano non appena penetrano
negli strati più alti della nostra atmosfera e ne eccitano le molecole
dando luogo alla striscia luminosa erroneamente chiamata «stella
cadente». Analogamente, le stelle cadenti che vediamo negli altri
mesi dell’anno sono le polveri di altre comete.
Il modello «banco di ghiaia» è stato criticato, perché se da un
lato poteva spiegare l’accendersi delle comete che si avvicinano
al Sole, d’altra parte non spiegava la lunga vita di alcune di esse, e
in particolare la grande quantità di gas sfuggenti da certi nuclei. In
altre parole, occorreva un modello che comprendesse una maggiore quantità di sostanze volatili. Per esempio, la Encke è stata
osservata per oltre 50 rivoluzioni, ma dal materiale abbandonato
lungo il cammino, come le stelle filanti che si vedono a giugno
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••26 Il nucleo della
cometa Hartley 2,
fotografato dalla sonda
Epoxy nel 2010. (NASA/JPL)
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e a novembre, Whipple ha dimostrato che deve aver compiuto
almeno 1500 rivoluzioni. Se fosse costituita da un banco di ghiaia
e polveri rivestite di ghiaccio, non avrebbe potuto campare tanto
a lungo. ••26
È stato da queste e da altre considerazioni che lo stesso Whipple
ha proposto il modello «iceberg sporco»: una montagna di ghiacci
di metano, ammoniaca e acqua, letteralmente disseminata o mescolata a minerali, come polveri di ferro, nichel, magnesio, silicio
e altri elementi.
La teoria spiega anche certe perturbazioni rilevate nel cammino
di alcune comete; non causate dagli altri pianeti e dovute a effetti
«non-gravitazionali», come una specie di «effetto-razzo». Lo sfuggire dei gas dalla parte esposta al Sole di una cometa tende ad allontanarla in direzione contraria. Supponendo che la cometa ruoti
come tutti i corpi celesti, la rotazione introduce una componente
nella propulsione lungo l’orbita. Quando la rotazione ha direzione
opposta al moto di rivoluzione, frena la velocità orbitale e la cometa
prende a scendere verso il Sole, come pare succeda alla cometa
Encke. Avviene il contrario quando la cometa ruota nella stessa
direzione del moto di rivoluzione.
Chiarito il funzionamento e la composizione di questi corpi celesti, occorre chiedersi: qual è l’origine delle comete? Un tempo
si pensava fossero fenomeni meteorologici e limitati alla Terra. Poi
si passò all’opinione contraria e si disse che erano visitatrici forestiere provenienti dagli spazi interstellari dove ritornavano, tranne
quelle che si avventuravano troppo vicino a Giove e agli altri grossi
pianeti. Con la loro forza d’attrazione ciascuno di essi aveva aggiunto una famiglia di comete a quella dei rispettivi satelliti. Oggi,
non si crede molto alla origine interstellare delle comete, perché
non se ne è trovata nemmeno una che abbia un’orbita sicuramente iperbolica. I dati orbitali ci dicono invece che appartengono tutte
al Sistema solare, anche se nate nella sua più lontana periferia.
Così si ritiene plausibile l’ipotesi di Jan Hendrik Oort di una fascia
di comete estesa fino ai confini del Sistema solare e costituita dai
resti della nebulosa primitiva: blocchi di molecole ghiacciate e polveri, cioè nuclei cometari.
Alle maggiori distanze si muovono a velocità dell’ordine di 100
metri al secondo, alcune addirittura come oscure lumache intorno
a un Sole ridotto a un puntino luminoso che quasi non le trattiene
più. In queste condizioni, basta un nulla, una perturbazione leggera di una stella vicina o l’attrazione combinata di Giove e degli altri
pianeti, per alterare la loro velocità e direzione, costringendole a
un lunghissimo e avventuroso pellegrinaggio verso il Sole. Se questa ipotesi è vera, lo sapremo fra qualche anno quando varie sonde
spaziali potranno ripetere l’impresa della sonda Giotto – che come
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••27 Il nucleo della
cometa di Halley,
fotografato dalla sonda
europea Giotto nel 1986.
Si vedono i getti di gas e di
pulviscolo che fuoriescono
da crateri o avvallamenti.
(ESA)
vedremo è andata a guardare da vicino la cometa di Halley durante il passaggio del 1986 – e addirittura potranno scendere su una
cometa dandoci la possibilità di conoscere un pezzetto di quella
nebulosa da cui è nato il Sole e tutto il suo sistema planetario.
Il passaggio della cometa di Halley nel 1986 fu un’occasione
unica per studiare questa famosa cometa con tutti i mezzi che la
tecnologia ci mette oggi a disposizione, e in particolare la tecnologia spaziale.
L’URSS mandò due sonde, Vega 1 e Vega 2 a girare attorno
alla cometa affinché potessero inviarci delle immagini. Vega 1 è
passata a 8890 km dal nucleo, Vega 2 è arrivata un po’ più vicina,
a 8030 km dal nucleo.
Anche il Giappone ha inviato due sonde, Sakigake (pioniere) e
Suisei (cometa). La prima passò a quasi 7 milioni di km dal nucleo,
la seconda a 151.000 km.
L’Agenzia spaziale europea (ESA) registrò un grande successo
con la sonda Giotto, che passò a soli 596 km dal nucleo e riuscì
a riprenderne e inviare splendide immagini fino a una distanza di
soli 1372 km dal nucleo prima che la camera fosse messa fuori
uso dal bombardamento delle particelle. La sonda fu chiamata
Giotto perché la cometa al suo passaggio del 1301 fu dipinta dal
celebre pittore nella sua Annunciazione nella cappella degli Scrovegni a Padova.
La Giotto ci ha mostrato un nucleo a forma di patata, lungo 15
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km e largo 8, di colore molto scuro, come catrame. Nella chioma
la molecola più abbondante è quella dell’acqua, ma ci sono anche
molecole di anidride carbonica, metano e ammoniaca. ••27
Il prossimo passaggio avverrà nel 2061, mentre i passaggi considerati certi sono avvenuti nel 240, 164, 87 e 12 a.C, nel 66, 141,
218, 295, 374, 451, 530, 607, 684, 760, 837, 912, 989, 1066,
1145, 1222, 1301, 1378, 1456, 1531, 1607, 1682, 1759, 1835,
1910.
Si può dire che la cometa di Halley ha assistito a gran parte della
storia umana.
I PIANETI DI GHIACCIO: I QUATTRO GRANDI
Giove è un pianeta così grosso, che se per assurdo il Sole svanisse,
la Terra e tutti gli altri pianeti sarebbero costretti a girargli intorno.
Giove viaggia intorno al Sole a una distanza media di 778,3 milioni di chilometri e percorre la sua orbita in 11 anni, 10 mesi e 17
giorni alla velocità media di circa 13 km al secondo.
In confronto, la velocità della Terra è più che doppia: 30 km al
secondo. La massa di Giove è due volte e mezzo la massa degli
altri pianeti messi insieme, o quasi 318 volte quella della Terra. La
sua composizione chimica è molto simile alla composizione del
Sole, ma non la sua struttura, che del resto non assomiglia neppure a quella dei pianeti più interni, detti anche terrestri. Infatti,
Giove è quasi del tutto liquido, tranne un nucleo solido relativamente piccolo. Più in dettaglio, si deduce che al di sopra di questo
nucleo di composizione terrestre e con un diametro di circa 9000
km, vi è uno strato alto 40.000 km di idrogeno metallico liquido,
ricoperto da uno strato di idrogeno molecolare di 24.000 km. Il
tutto ancora avvolto da un migliaio di chilometri di atmosfera altrettanto complessa, composta, dal basso verso l’alto da cristalli di
ghiaccio, cristalli di idrosolfuro di ammonio e cristalli di ammoniaca, sotto un tetto di nuvole di idrogeno gassoso. A questo livello
la temperatura si aggira sui -140, -150 °C, mentre a 5000 km di
profondità si superano i 2000 °C e l’idrogeno diventa sempre più
denso. Scendendo a 24.000 km, sotto una pressione di 3 milioni
di atmosfere e a una temperatura di 11.000 °C, incomincia la
regione dell’idrogeno metallico, un tipo di idrogeno che in piccole
quantità si è ottenuto pure in laboratorio e che non è propriamente solido, ma si può assimilare a una sorta di melma, ottima
conduttrice di energia elettrica. Nel nocciolo di Giove si stima che
la pressione raggiunga 40 milioni di atmosfere, mentre la temperatura deve aggirarsi sui 30.000 °C, troppo pochi perché possano
innescarsi reazioni nucleari come sul Sole. Vi è chi dice che Giove
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è quasi una stella: in realtà per diventarlo dovrebbe essere almeno
70 volte più grosso. ••28
Fin qui non abbiamo parlato di una superficie solida come quella dei pianeti simili alla Terra; infatti Giove non ha una crosta, ma è
tutto liquido fino al nucleo. Questa affermazione è suffragata dalla
maggiore e migliore quantità di dati di osservazione e dal calcolo
teorico.
Grazie alla sua grossa massa Giove esercita una forte attrazione
gravitazionale sulle comete e gli asteroidi e qualcuno ogni tanto
precipita sul pianeta. Particolarmente interessante è stato l’impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9 nel 1994. Questa cometa aveva di strano di essere in orbita attorno a Giove e non direttamente
intorno al Sole. L’attrazione del pianeta causò la frammentazione
del nucleo, e dalle osservazioni dell’orbita si poteva prevedere che
sarebbe caduta su Giove nel luglio 1994.
L’impatto coi 21 frammenti del nucleo avvenne effettivamente
fra il 16 e il 22 luglio di quell’anno e fu osservato dal telescopio
spaziale Hubble, dal satellite Rosat e dalla sonda Galileo diretta
verso Giove. Per la prima volta si è potuto osservare «in diretta» le
fasi dell’evento.
Quando il primo frammento A colpì l’emisfero sud di Giove fu osservata una palla di fuoco e un getto che si innalzò fino a circa 1000
km. La massima liberazione d’energia fu sprigionata dall’impatto
del frammento G, ed è stata stimata pari a 6 milioni di megaton.
Le cicatrici dei vari impatti erano delle macchie scure e restarono visibili per parecchi mesi. Un altro impatto notevole, rivelato
dalla cicatrice, è avvenuto nel luglio 2009.
Tornando alla struttura e la composizione interna di tutti i corpi
celesti, dagli asteroidi alla Terra, al Sole, va detto in effetti che si
ricavano dalla loro massa e forma, dai fenomeni che producono e
dalla composizione della superficie visibile (solida, liquida o gassosa che sia), nonché da teorie e ipotesi, comprese quelle più generali concernenti la nascita di questi corpi dalla nebulosa primitiva di
cui abbiamo parlato. Abbiamo intitolato questo paragrafo ai «pianeti ghiacciati», riferendoci ai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano
e Nettuno) che occupano le orbite più esterne del nostro Sistema
solare. Abbiamo detto che su Giove alla profondità di 5000 km la
temperatura oltrepassa i 2000 °C per arrivare fino a 30.000 °C man
mano che si sprofonda. In effetti potevamo definirli anche gassosi
o semiliquidi, ma con il termine «ghiacciati» abbiamo voluto sottolineare il fatto che alla loro distanza dal Sole la condizione principale
che li ha resi quali sono, ricchi di elementi volatili come l’idrogeno
e l’elio, piuttosto che di minerali, è stata proprio la temperatura.
Giove è bellissimo a vedersi anche a occhio nudo. Sebbene
5,25 volte meno luminoso di Venere, perché questa al suo mas78
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••28 Il pianeta Giove con
tre dei suoi satelliti. Sono
visibili i satelliti Io (davanti a
Giove), Europa (a destra) e
Callisto (in basso), mentre
sul pianeta si può notare a
sinistra la grande macchia
rossa. La foto è stata fatta
dal Voyager 1 nel 1979.
(NASA/JPL)
simo raggiunge una magnitudine -4,3 e Giove -2,5, può persino
proiettare un’ombra dietro gli oggetti, come si è constatato frequentemente anche con Venere. Il celebre astronomo francese
di fine Ottocento Camille Flammarion, afferma di aver osservato
varie volte l’ombra di Venere, e una volta anche quella di Giove,
mentre camminava lungo un corridoio esterno, davanti a un muro
bianco. Molto note e facili da individuare, anche con un piccolo
telescopio, le fasce scure intervallate dalle zone chiare che contraddistinguono, insieme alla famosa grande macchia rossa, l’atmosfera gioviana. Che questa macchia sia un immenso uragano,
che da almeno tre secoli (e cioè da quando fu visto per la prima
volta da Gian Domenico Cassini nel 1665) imperversa nella regione subtropicale di Giove, ormai è ammesso quasi da tutti. Tuttavia
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esistono altre macchie rosse più piccole e meno durevoli, come
quella scoperta dal Pioneer 10 e non più rilevata l’anno seguente
dal Pioneer 11. ••29
Non si può non rammentare la storica esplorazione di queste
due sonde americane, che, il 4 dicembre 1973 e il 3 dicembre
1974, hanno sorvolato il più grosso dei pianeti, rispettivamente
da una distanza di 131.400 e di 46.400 km, con due traiettorie
di lancio che hanno costituito esse stesse una delle più belle imprese della tecnica astronautica. Infatti, non si trattava di studiare
soltanto Giove e il suo ambiente, ma di scoprire se le sonde si potevano avvicinare abbastanza per sfruttarne l’energia gravitazionale
rimanendo «vive», e proseguire oltre i confini del Sistema solare,
all’esplorazione di Saturno e degli altri pianeti.
Occorre sapere che, senza l’aiuto di Giove, nemmeno i più potenti razzi vettori oggi disponibili dagli Stati Uniti o da altre potenze
sarebbero capaci di scagliare una nave spaziale fuori dal Sistema
solare. Perciò, si è imitata la natura, e in particolare le comete,
che vengono catturate o respinte da Giove nello spazio interstellare, a seconda di come gli si avvicinano. La manovra sembrerà
strana, se si pensa che una sonda diretta verso un corpo celeste,
prima viene accelerata dalla sua forza gravitazionale, poi, una
volta compiuto il sorpasso, subisce una decelerazione all’incirca
della stessa misura. Questo sarebbe del tutto vero, se il pianeta
fosse un oggetto stazionario. Invece si muove lungo la sua orbita,
col risultato che quando la sonda sorpassa il pianeta, contemporaneamente il pianeta si allontana dalla sonda. Ne deriva un
piccolo incremento di accelerazione, che permette alla sonda di
uscire dal Sistema solare, oppure, in determinati casi, di trovarsi
all’appuntamento con altri pianeti. Così, a differenza del Pioneer
10 che incontrò Giove andando in senso antiorario, passandogli
da destra a sinistra e sul piano dell’equatore, prima di involarsi
verso le orbite dei pianeti più esterni e oltre il Sistema solare in
direzione di Aldebaran, il Pioneer 11 ha sorpassato Giove in senso
orario passando prima sotto il Polo Sud e poi sopra il Polo Nord,
iniziando, per la spinta di Giove, un viaggio alto sull’eclittica, che,
dopo averlo ricondotto verso il Sole, lo ha portato a esplorare Saturno il 5 settembre 1979.
La sonda Galileo della NASA, lanciata il 18 ottobre 1989, è stata
la prima dedicata in particolare allo studio di Giove e della sua
numerosa famiglia. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò in orbita
attorno al pianeta. 147 giorni prima, il 13 luglio, era stato liberato
il modulo di discesa nell’atmosfera di Giove. La sonda è stata distrutta nell’atmosfera di Giove il 21 settembre 2000 dopo 14 anni
di attività nel corso dei quali ha studiato i frammenti della cometa
Shoemaker-Levi 9, ha analizzato l’atmosfera gioviana rivelando la
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••29 La macchia rossa
di Giove. (NASA/B.JOHNSSON)
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presenza di venti a più di 600 km/ora, ha fornito preziosi dati sulla
geologia, la mineralogia, i campi magnetici dei 4 satelliti maggiori
scoperti da Galileo nel 1610, Io, Europa, Ganimede e Callisto. Particolarmente importante è stata la scoperta di un grande oceano
sotto la superficie ghiacciata di Europa. Il che fa supporre che lì si
possa forse trovare qualche forma di vita primitiva. ••30
Prima dell’incontro con Giove dei Pioneer, Van Allen, lo scopritore delle fasce di radiazione che circondano la Terra, aveva
avvertito che di Giove non si sapeva molto, ma che la radiazione
che lo avvolgeva poteva essere tanto forte da mettere fuori uso
tutti i circuiti e gli strumenti anche molto prima del sorvolo. Perciò
i tecnici avevano dovuto risolvere tanti problemi, per proteggere
non soltanto la parte elettronica, ma anche gli isolanti intorno ai fili:
il vetro ordinario, infatti, esposto alla radiazione sarebbe diventato
opaco, mentre i consueti isolanti dei fili si sarebbero polverizzati.
Mentre il Pioneer 10 si avvicinava ci fu un momento in cui sembrò
che non potesse farcela.
Fortunatamente i Pioneer 10 e 11 sono sopravvissuti e seguitarono a trasmettere per molti anni. Si è così scoperto che le particelle intrappolate dal campo magnetico gioviano producono delle
fasce di radiazione da 10.000 a 1 milione di volte più forti di quelle
della Terra, e formano una specie di disco appiattito con un diametro di 6,4 milioni di km, inclinato di 15° rispetto all’asse di rotazione
del pianeta. Ne risulta che il disco di particelle intrappolate oscilla
in su e in giù di circa 30° a ogni rotazione, che dura 10 ore. Il campo magnetico di Giove è di polarità opposta a quello della Terra e
10 volte più intenso. Mediante il Pioneer 10, che nel febbraio del
1976 sorpassò l’orbita di Saturno, si è accertato che la «coda magnetica» di Giove si allunga ben oltre Saturno, e si innalza a circa
6° sopra il piano dell’orbita di Giove.
Siccome il vento solare soffia radialmente dal Sole (a una velocità di circa 500 km/s) la coda dovrebbe giacere per lo più sul
piano orbitale gioviano. Tuttavia, si è visto che il vento solare è
molto turbolento almeno fino all’orbita di Saturno, il che spiega
come la coda magnetica, o parte di essa, venga soffiata anche
in alto, dove il Pioneer 10 l’ha incontrata. Cosa succede quando
Saturno si imbatte nella coda magnetica di Giove? Questo fenomeno avviene una volta ogni 20 anni, quando Giove e Saturno si
trovano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, come accadde
nell’aprile del 1981.
Riguardo alle possibilità di vita su Giove è fuor di dubbio che
nella sua atmosfera esistono molecole da cui potrebbe nascere la
vita: si tratta comunque di una eventualità poco probabile, specialmente se si considerano le correnti di gas che salgono e scendono
producendo formidabili tempeste come la grande macchia rossa.
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È evidente che questo ambiente turbinoso è poco adatto sia allo
sviluppo che al mantenimento di forme di vita, per quanto semplici
e primitive.
I programmi di studio per mezzo di sonde spaziali si stanno
ora occupando dei maggiori tra i satelliti di Giove: è infatti probabile che essi stiano ancora orbitando vicino alle regioni in cui si
formarono, e offrano la possibilità di esaminare esemplari locali
della nebulosa primitiva. Al contrario le lune più piccole si ritiene
siano «vagabonde interplanetarie», catturate dai pianeti cui ora
appartengono, in qualche periodo più o meno lontano della loro
esistenza. Si tenta inoltre di risolvere il problema del modo in cui
lo, una delle quattro grosse lune di Giove, agisca quasi da interruttore nelle emissioni radio del pianeta, oltre ad accertare l’intensità alle varie lunghezze d’onda delle radioemissioni di Saturno, di
Urano e di Nettuno, senza dimenticare quelle della Terra, specie
in associazione con le aurore boreali.
Nota a tutti è la vicenda di Galileo che il 25 luglio 1610 osservando Saturno con il suo piccolo cannocchiale a 32 ingrandimenti
notò che aveva un aspetto singolare, come se avesse «gli orecchioni»; egli comunicò questo fatto insolito e misterioso ai colleghi
astronomi con un messaggio cifrato, secondo l’usanza dei tempi
per rivendicare la priorità delle scoperte scientifiche. Il messaggio consisteva di 37 lettere SMAISMRMILMEPOETALEVMIBUNENUGTTAVIRAS, e naturalmente nessuno lo comprese finché
Galileo non ne rivelò il significato nel novembre 1610: Altissimum
planetam tergeminum observavi (ho osservato che il pianeta più
lontano è tricorporeo).
Il mistero venne risolto nel 1655 da Christian Huygens, mediante
un telescopio lungo 7 metri, con lenti lavorate secondo un metodo
migliore, e i consigli e l’esperienza del grande filosofo Benedetto
Spinoza, il quale, come si sa, per tirare avanti faceva anche l’ottico.
Egli poté vedere che ciò che aveva dato l’impressione di un oggetto
tricorporeo era l’anello che circondava Saturno. Quando esso si
presentava di taglio diventava per la sua sottigliezza invisibile, e
quando si inclinava dava a Saturno aspetti impossibili a determinarsi coi piccoli e imperfetti cannocchiali del tempo di Galileo.
Nel 1656, Huygens scoprì anche Titano, la più grossa luna di
Saturno e del Sistema solare dopo Tritone. Così, in quell’anno, si
conoscevano 6 pianeti (compresa la Terra) e 6 satelliti (compresa
la Luna). A Huygens questo numero e questa simmetria parvero
un fatto tanto straordinario che venne preso, si direbbe, da una
crisi di misticismo, tanto frequente anche fra gli scienziati più razionali, oltre che tra i filosofi alla «Hegel». Egli affermò dunque che
«non ci possono essere altri pianeti né satelliti».
Venne però smentito alcuni anni dopo da Giovanni Domenico
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••30 Il satellite Europa.
(NASA/GALILEO)
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••31 Gli anelli di Saturno
in controluce. Il puntino
fra gli anelli è la Terra,
lontanissima. (NASA/JPL)
Cassini, il quale dal 1671 al 1684 scoprì altri 4 satelliti di Saturno:
Giapeto, Rea, Dione e Teti; e inoltre, nel 1675, si accorse che l’anello di Saturno era diviso in due, e quindi bisognava parlare di anelli
e non di un anello solo. Questi anelli sono composti da miliardi di
pezzi di ghiaccio grossi come un pugno o fino a qualche metro di
diametro, e perciò Saturno è stato anche chiamato «il pianeta con
un miliardo di lune». Certo, per accorgersi che Saturno ha più di
un anello occorre un telescopio di almeno 15 cm di diametro, che
permetta di distinguere anche quattro o cinque delle sue 11 lune,
insieme ad alcuni particolari della superficie di Saturno, come le
fasce e il colore della regione equatoriale, più biancastra delle regioni polari. A questo proposito è interessante riportare una curiosa
notizia tratta dal volume Music of the Spheres, di Guy Murchie, che
scrive: «Uno dei grandi misteri connessi con Saturno è il problema
ancora irrisolto di come gli antichi Maori della Nuova Zelanda conoscessero gli anelli, perché in effetti, se ne parla in una loro leggenda
molto più antica di Galileo». Forse che in un passato perduto, una
civiltà scomparsa, quella del «continente perduto di Mu», di cui i
Maori sarebbero i discendenti, conoscesse l’uso degli specchi concavi parabolici, o, in altre parole, del telescopio? Non è certo facile
cercare una risposta razionale per questa domanda.
Un problema complesso è quello concernente l’origine e formazione degli anelli. Vi è chi si attiene più o meno strettamente all’opinione dell’astronomo francese Édouard Albert Roche, secondo cui
essi sono nati dai resti di un satellite di Saturno accostatosi troppo
al pianeta e distrutto da quelle stesse forze mareali che agiscono
fra la Terra e la Luna e, in misura minore, fra il Sole e la Terra. Però,
non si capisce come un satellite si sia potuto formare troppo vicino
a Saturno e poi venirne distrutto; oppure, come si sia potuto avvicinare tanto da oltrepassare quel limite, detto «limite di Roche»
dove le forze mareali di Saturno, o di qualsiasi altro pianeta, sono
tanto forti da distruggere un altro corpo di non sufficiente densità
o coesione. ••31
Altri condividono invece l’opinione di Opik. Egli sostiene che gli
anelli di Saturno sono il resto della nubecola che formò il pianeta,
le cui forze mareali impedirono a questi residui situati all’interno del
limite di Roche di riunirsi in un corpo unico formando un satellite.
Ma come è possibile che quella miriade di «chicchi di grandine» che costituisce gli anelli abbia potuto mantenersi in un’orbita
quasi circolare senza disperdersi per perturbazioni di vario genere
che avrebbero dovuto farli cadere prima o poi su Saturno come i
satelliti artificiali in orbita terrestre finiscono sempre per ricadere
sulla Terra? Ciò vuol dire che gli anelli non sono un fenomeno che
risale all’origine di Saturno, ma dovrebbero essere un fenomeno
molto più recente e forse prodotto dall’incontro di un asteroide o
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di un satellite con Saturno; oppure derivare dal materiale perduto
da qualche satellite di Saturno eroso dai meteoriti.
Recentemente si è poi scoperto che anche Giove, Urano e Nettuno hanno un sistema di anelli, sebbene molto meno cospicuo
di quello di Saturno. Per finire con Saturno, sembra che sia costituito da un nucleo di materiale roccioso, come Giove. Nei calcoli
dei teorici, dovrebbe avere un diametro di 20.000 km, ed essere
avviluppato da uno strato di ghiaccio alto 5000 km e un altro di
idrogeno metallico di 8000 km, il tutto ricoperto da 37.000 km di
idrogeno molecolare, sul quale infine galleggiano nubi di idrogeno,
elio, metano, ammoniaca. Sono questi gas che danno a Saturno il
suo colore giallastro, anzi «giallo plombé», tanto caratteristico da
essere entrato nella letteratura medica: è un’eredità astrologica di
quando si credeva che esistesse un’affinità fra il piombo e il pianeta Saturno, perciò anche oggi i medici chiamano «saturnismo»
le intossicazioni da piombo. In realtà, il piombo nelle nuvole di
Saturno non c’è, e i suoi colori sono dovuti probabilmente a cristalli
ammoniacali con tracce di metalli alcalini. ••32
Se possiamo dire che i pianeti più esterni formano la famiglia dei
pianeti di ghiaccio, dobbiamo però ammettere che si tratta di una
famiglia alquanto eterogenea. Già fra Giove e Saturno esistono notevoli differenze, che non riguardano soltanto gli anelli di quest’ultimo, ma anche la massa e il moto. Infatti, non soltanto Saturno
è notevolmente più piccolo di Giove, equivalendo quest’ultimo a
317,9 masse terrestri contro le 95,2 del primo; ma anche il periodo
di rotazione è diverso, in quanto il giorno di Saturno è di 10h 14m, in
confronto alle 9h 50m 30s di Giove. Sebbene le differenze fra i due
più grossi pianeti del sistema siano tante e molto significative, tuttavia ancora più straordinarie si stanno rivelando le differenze fra
Giove e Saturno da una parte, e Urano e Nettuno dall’altra. Urano
fu scoperto per caso il 13 marzo 1781 da William Herschel che a
quell’epoca era un astrofilo, un dilettante di astronomia quasi sconosciuto. Da principio, Herschel pensò di vedere nel suo telescopio una cometa, poi altre osservazioni rivelarono che si trattava di
un nuovo pianeta. La cosa strana è che, pur essendo molto debole
(magnitudine 5,7), è però visibile a occhio nudo, e quindi fa meraviglia che per tanti millenni astrologi e astronomi non lo abbiano
individuato, scambiandolo per una stella. L’esistenza di Nettuno,
visibile soltanto al telescopio, venne invece dedotta e calcolata in
base a perturbazioni nel moto di Urano, prima che il pianeta venisse osservato direttamente. Fu un’altra conferma della validità della
teoria della gravitazione newtoniana. I calcoli e le previsioni sulla
posizione di Nettuno furono eseguiti quasi contemporaneamente
dall’astronomo inglese John Couch Adams e dal francese UrbainJean-Joseph Le Verrier, il quale nel 1846 comunicò i risultati a
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••32 Il pianeta Saturno
proietta la sua ombra sugli
anelli. Il globo gassoso del
pianeta è avvolto da fasce
nuvolose delicatamente
colorate. Gli anelli, costituiti
da minuscoli frammenti
ghiacciati, hanno una
struttura complessa con
molteplici suddivisioni
parzialmente trasparenti,
che a loro volta proiettano
un’ombra azzurrata
sull’emisfero inferiore del
pianeta. (NASA CASSINI)
un allievo tedesco, Johann Gottfried Galle, perché cercasse nella
regione di cielo indicata. Il pianeta venne scoperto quasi subito, il
23 settembre di quello stesso anno. In realtà, la storia è molto più
complicata: se Adams non avesse avuto un direttore che gli tenne
per mesi i risultati nel cassetto, è probabile che l’onore della scoperta di Nettuno sarebbe andata più a lui che a Le Verrier, grande
astronomo e matematico, ma anche antipaticissimo.
Quando Le Verrier fece questi calcoli aveva 33 o 34 anni; lo occuparono per undici mesi, nei quali riempì di numeri più di 10.000
pagine, concludendo: «Si possono giustificare tutte le perturbazioni
di Urano mediante l’azione di un pianeta avente una massa molto
vicina a quella di Urano e di cui la longitudine eliocentrica al 1°
gennaio 1847 sarà all’incirca 325°». In seguito, in una memoria del
31 agosto 1846 precisò meglio questa longitudine: 326°32 . Galle,
ricevuta a Berlino l’informazione, trovò una stella di 8a magnitudine
a 327°24 , uno scarto minore di due lune piene rispetto alla posizione prevista. Era Nettuno. Il nome fu suggerito da Le Verrier forse
per il suo colore verdastro che ricordava il mare e il suo antico dio.
Le ricerche più recenti hanno dimostrato che Urano, pur avendo la stessa massa stimata in precedenza, è risultato più grande, e
perciò ha una densità di 1,3 volte quella dell’acqua, vicina alla densità di Saturno, che è l’unico pianeta con densità minore dell’ac-
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qua. Si sa, infatti, che era molto difficile
misurare il diametro di Urano per i suoi
contorni molto sfumati, e quindi si davano
misure varianti tra i 48.000 e i 51.000 km,
mentre le ultime stime danno 53.440 km.
La sorpresa più grossa tuttavia ci è venuta da osservazioni eseguite da un aereo
d’alta quota in occasione dell’occultazione di una stella (SAO 150 687) da parte
del pianeta. Questa stella è stata brevemente occultata due volte dai corpi vicini
a Urano, che hanno tutta l’apparenza di
anelli come quelli di Saturno. Andando
dall’interno verso l’esterno troviamo U2R,
con raggio da 37.000 a 39.500 km, U6R
con raggio di 41.850 km, U5R con raggio
di 42.240 km, U4R con raggio di 42.580
km. Altri anelli sono stati scoperti da Voyager 2 e sono indicati dalle lettere greche
a, b, h, g, d, l ed e con raggi compresi
fra 44.730 e 51.160 km. Secondo James
Elliot dell’Università Cornell, che ha fatto
queste osservazioni, gli anelli più interni
formerebbero una banda larga 7000 km.
Ciascuno degli anelli più interni avrebbe
un’ampiezza di una decina di km mentre
quello più esterno arriverebbe a 100 km.
Questo sarebbe il più spesso o più denso,
dato che occultava circa il 90% della luce
della stella (in confronto al 50% occultata
da ciascuno degli altri anelli), e sarebbe
anche asimmetrico, per ragioni che non
sappiamo, ma forse dipendenti dal fatto
che l’anello non giace sullo stesso piano
degli altri.
Un’altra caratteristica ben nota di Urano è l’inclinazione del suo
equatore quasi ad angolo retto (98°) rispetto all’eclittica, tanto che
sembra ruzzolare piuttosto che ruotare su se stesso. Ebbene, fino
a oggi si credeva che questa rotazione avvenisse in circa 10 ore e
tre quarti, cioè una rotazione veloce che doveva appiattire Urano
(tenuto conto della densità) quasi alla stessa maniera di Giove e
Saturno. Al contrario nuovi metodi di misura ci danno un pianeta
perfettamente rotondo. Le osservazioni di Voyager 2 danno invece
un periodo di 17 ore e 12 minuti. Un fatto analogo è vero anche
per Nettuno. ••33-34
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Come si vede, la Terra, Marte, Urano e Nettuno hanno all’incirca
lo stesso periodo di rotazione, e tutti e quattro sono composti di
elementi condensabili, rocce e ghiaccio, in contrasto con Giove e
Saturno, fatti soprattutto di idrogeno e ruotanti con velocità doppia.
Questi fatti sono forse dipesi dalla massa e dalla forza gravitazionale
dei due ultimi, i quali, attraendo materiale dalla nebulosa primitiva,
anche da molto lontano, hanno incrementato sia la massa che il
momento angolare, acquistando l’attuale rapida rotazione. Sembrerebbe dunque di poter distinguere i pianeti del Sistema solare
in due categorie: terrestri, per il loro periodo di rotazione non troppo
dissimile da quello della Terra e la costituzione di elementi condensabili, e gioviani, per la loro più rapida rotazione con conseguente
schiacciamento polare e costituzione di elementi volatili. Alcuni Autori preferiscono tuttavia ripartire i pianeti in: terrestri (da Mercurio
a Marte), gioviani (Giove e Saturno) e uraniani (Urano e Nettuno).
In realtà, la maggiorazione dei diametri di Urano e Nettuno e quindi
la loro minore densità, rende difficile mantenere questa distinzione,
in quanto presuppone negli uraniani proprio una densità maggiore
di quelli gioviani, ma minore dei pianeti terrestri, con conseguenti
differenze di composizione chimica e processi evolutivi.
••33 Urano con i suoi
anelli e satelliti. In questa
ripresa all’infrarosso,
effettuata dal Telescopio
Spaziale, si nota la presenza
di anelli multipli e di
numerosi satelliti. Urano è
orientato verticalmente in
ragione della particolare
inclinazione dell’asse di
rotazione, che è pari a 98
gradi. (NASA JPL STSCI)
••34 Nettuno e Tritone
in controluce. Tritone
si vede in basso
a sinistra. (NASA VOYAGER2)
PLUTONE: SI CREDEVA GRANDE E INVECE È PICCINO
Con questi discorsi non si è voluto confondere il lettore più di quanto
non sia confuso l’astronomo. Non si può negare che ne sappiamo
molto più di prima e anche molto più di 80 anni fa, quando si era
all’inizio di quella nuova branca dell’astrofisica costituita dalla radioastronomia (cioè lo studio dei corpi celesti per mezzo della misura
delle loro emissioni radio, invece che della sola radiazione visibile,
quella che chiamiamo luce), e poi soprattutto dalle ricerche spaziali.
Ma moltissimi problemi restano da risolvere e novità da scoprire,
come dimostrano le ultime notizie su Plutone, detto romanticamente per la sua collocazione ai confini del Sistema solare «la scolta
delle tenebre». Al contrario di ciò che accadde per Urano e Nettuno,
più misure si fanno più si è costretti a diminuire Plutone, tanto che
oggi si crede sia più piccolo della nostra Luna. Dopo la scoperta di
Nettuno ci si accorse che questo pianeta non bastava a spiegare le
perturbazioni di Urano, che continuava a deviare dalla sua orbita
in una misura che, nei calcoli di allora, richiedeva la presenza di
un pianeta con una massa 6,6 volte maggiore di quella della Terra.
Ora si dubita di tale valutazione, ma nei primi anni del Novecento molti astronomi, fra cui Aimable-Jean-Baptiste Gaillot, William
Henry Pickering e Percival Lowell (il convinto assertore dei «canali»
di Marte), calcolarono la posizione di questo pianeta, che Lowell
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stesso si diede a cercare con passione. Pickering l’aveva designato
come pianeta 0, e pensava che fosse il primo di una serie di almeno
7 nuovi pianeti oltre Nettuno. Lowell lo chiamava pianeta X, e del
pianeta calcolato da Pickering pensava che fosse «assolutamente
giusto averlo designato con lo 0, perché non è proprio niente».
Le ricerche non diedero risultati validi che 13 anni dopo la morte
di Lowell, per merito e fortuna di un giovane astronomo di 23 anni,
Clyde W. Tombaugh, che scoprì il nono pianeta del Sistema solare,
non lontano dalla posizione predetta da Lowell e Pickering. In realtà è stato accertato che Plutone era già stato fotografato, senza
riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima
della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una
nel 1929. Preciseremo che le osservazioni del 1919 vennero fatte
su richiesta di Pickering, il quale per quell’anno aveva di nuovo
pronosticato la posizione di un pianeta transnettuniano, questa
volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano.
Però non si riconobbe la debolissima immagine di Plutone sulle
lastre, si pensò che fossero difetti dell’emulsione, e così Pickering
perse l’occasione di diventare lo scopritore di Plutone.
Come avvenne la scoperta? Tombaugh, in un articolo intitolato
Reminiscenze sulla scoperta di Plutone, racconta che nell’autunno del 1929 aveva cominciato a lavorare per 6 o 7 ore al giorno per
esaminare delle lastre fotografiche con uno strumento chiamato
comparatore di immagini: una specie di microscopio che permette
di vedere, in rapida successione, ora l’una ora l’altra di due lastre
riproducenti la stessa regione stellare, ma prese in epoche diverse. L’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel
caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo
praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur
di pochissimo, la sua posizione; quel punto, che è solitamente un
pianeta, risalta sullo sfondo e richiama l’attenzione dell’osservatore. Le lastre con i campi stellari nei Pesci e nell’Ariete contenevano
qualcosa come 50.000 stelle ciascuna, oltre a centinaia di immagini di galassie spirali; le lastre della parte occidentale dei Gemelli
e orientale del Toro riproducevano circa 400.000 stelle ciascuna e
occorreva molta più attenzione e più tempo per esaminarle. In febbraio, terminate le «superaffollate» fotografie del Toro, incominciò
l’osservazione di quelle della regione orientale dei Gemelli, dove le
stelle erano un po’ meno numerose. Queste fotografie erano state
realizzate alla fine di gennaio, e Tombaugh scelse tre lastre, del
21, 23 e 29 di gennaio, centrate su e Geminorum. La prima venne
scartata perché le immagini non erano buone, le altre furono esaminate iniziando dalla zona a Sud-Est. Alle 4 pomeridiane del 18
febbraio, due gradi a Est di e, «Improvvisamente colsi un oggetto
di 15a magnitudine che occhieggiava sullo sfondo. A distanza di
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••35 Immagini di
Plutone, ai limiti delle
capacità strumentali del
Telescopio Spaziale. Si
nota il movimento dei
satelliti attorno a Plutone
in un intervallo di 3 giorni,
tra il 15 e il 18 maggio
2005. La sonda New
Horizons, partita nel 2006,
raggiungerà Plutone nel
luglio 2015. (NASA)
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appena 3,5 millimetri, un altro oggetto della stessa magnitudine si
comportava in modo simile, ma alternativamente rispetto all’altro,
via via che attraverso l’oculare del microscopio si vedeva la prima
o la seconda lastra. Eccolo, dissi a me stesso». ••35
Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio, cercando di ricavarne qualcosa; e, infatti, poté individuare la medesima
immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23
gennaio. Ciò significava che non si trattava di una coppia di stelle
variabili, perché l’oggetto si muoveva in senso retrogrado di circa
70 secondi di arco al giorno. Tombaugh fece controllare le lastre
agli altri colleghi e al direttore Vesto Melvin Slipher. C’era un’aria
d’entusiasmo. «Guardammo fuori della finestra. Il cielo era nuvoloso, nessuna possibilità di prendere una lastra quella notte. Slipher
ordinò di non fare alcun annuncio finché non si fosse ottenuta
conferma da altre osservazioni nelle settimane successive… La
notte successiva, il 19 febbraio, era bel tempo e si poté prendere
un’altra lastra della regione di e Geminorum, con un’ora di esposizione. Sviluppai la lastra e la misi ad asciugare, per ricominciare
la mattina dopo l’esame al comparatore d’immagini e confrontarla
con una lastra precedente. Sebbene fossero trascorse tre settimane, la nuova immagine si trovò subito a circa un centimetro a Ovest
della posizione del 29 gennaio…»
Col passare delle settimane, il moto dell’oggetto confermò perfettamente che si trattava dell’atteso pianeta transnettuniano. Venne deciso di annunciare la scoperta il 13 marzo 1930, che era il
75° anniversario della nascita di Percival Lowell e la data della scoperta di Urano 149 anni prima. Nella tarda notte del 12, Slipher
mandò un telegramma all’Osservatorio di Harvard perché ne venisse data comunicazione ufficiale. Da questo momento incominciò il problema di come chiamarlo. Fra i nomi suggeriti c’erano
Lowell, Minerva, Chronos e Postumus, visto che era stato scoperto
dopo la morte di Lowell. Un tale commentò che battezzare il nuovo
pianeta era diventato nella regione di Boston uno dei più favoriti sport al coperto (indoor sport). Chi doveva scegliere era però
Slipher, il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff, che decise con i
collaboratori di nominarlo Plutone, e contrassegnarlo col simbolo
«P»: un monogramma che conteneva le iniziali di Percival Lowell
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e riconosceva anche il contributo di William Pickering, in quanto le
due iniziali potevano anche voler dire Pickering e Lowell.
Ambedue avevano usato differenti metodi matematici per la ricerca di Plutone e dedotto orbite diverse. Tuttavia, la posizione di
Plutone, quando venne trovato, si discostava solo di uno o due gradi
dalle orbite calcolate sia da Pickering che da Lowell. Piuttosto, col
passare degli anni, ci si accorse che il pianeta si rivelava all’osservazione con una massa troppo piccola per spiegare le perturbazioni di
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Urano. Fra parentesi, un problema simile riguarda anche Nettuno,
in quanto oggi si riconosce che i calcoli laboriosi e le deduzioni sia di
Adams che di Le Verrier hanno parecchi punti oscuri; sicché anche
in quell’occasione fu più la fortuna che il calcolo a far rintracciare il
pianeta. Però, il caso di Plutone è ancora più straordinario.
Fu il noto astronomo e matematico Ernst W. Brown che, riesaminando i calcoli di Lowell, concluse che nonostante i metodi analitici
di Lowell fossero corretti, i risultati ottenuti, rivelatisi quasi in accordo
con la posizione dove venne scoperto Plutone, furono semplicemente un caso. Infatti, i valori che Lowell aveva trovato per la distanza,
la massa e l’eccentricità di Plutone dipendevano sostanzialmente
da tre gruppi di osservazioni fatte prima del 1783 e piene di errori.
Prima di dare le più recenti misure della massa di Plutone, ricorderemo che la sua orbita è la più eccentrica (0,25) ossia quella che
più si scosta dal cerchio e la più inclinata rispetto all’eclittica (17°).
Plutone la percorre in 249 anni, e segna attualmente i confini del
Sistema solare sebbene le orbite delle comete si estendano anche
molto più lontano. A causa dell’eccentricità di questa orbita, la distanza di Plutone dal Sole varia da un massimo di 49,4 U.A., pari a
7 miliardi 400 milioni di km all’afelio, a un minimo perielico di 31,6
U.A., pari a 4 miliardi 700 milioni di km. Ricordiamo che afelio e
perielio indicano rispettivamente i due punti dell’orbita in cui il pianeta si trova alla massima e alla minima distanza dal Sole. L’inclinazione dell’orbita fa sì che il perielio cada leggermente all’interno
dell’orbita di Nettuno, quando viene proiettata sul piano dell’eclittica. Tuttavia, nello spazio le orbite non si incrociano. Nei periodi in
cui Plutone si avvicina al Sole e raggiunge il perielio (l’ultima volta è
successo nel 1989), il pianeta apparirà di mezza magnitudine più
splendente che al tempo della sua scoperta, quando si trovava a
una distanza media dal Sole. Cioè, avrà una magnitudine di 14,9,
troppo debole per essere individuato con un piccolo telescopio,
specie se non si conosce l’esatta posizione. Gerard Peter Kuiper nel
1952-53 mostrò che la luminosità di Plutone varia di circa il 10%
in un periodo di 6 giorni e 9 ore, che è il suo periodo di rotazione. Il
diametro trovato da Kuiper confrontando il disco apparente del pianeta con le immagini di piccoli dischi luminosi proiettati nel campo
del telescopio, e tenendo conto degli effetti atmosferici e strumentali, corrispondeva a un diametro di 5760 km, o al 45% di quello
terrestre. Questo diametro e la magnitudine apparente del pianeta
fecero stimare una albedo pari a 0,14 (si tenga presente che l’albedo è il potere riflettente di una superficie, eguale a 1 quando tutta
la luce ricevuta viene completamente riflessa, un buon esempio
è uno specchio; ed è eguale a zero quando tutta la luce ricevuta
viene assorbita, un esempio è una superficie coperta di carbone).
Ci si accorse subito che il diametro osservato non si accordava
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••36 Oltre Plutone:
pianetini e asteroidi nel
Sistema solare. In questa
tavola originale sono
riportati i 5 pianetini –
definiti dalle convenzioni
internazionali – insieme
ai maggiori asteroidi, con
i loro eventuali satelliti e
con i dettagli superficiali
conosciuti. Se confrontati
con la Terra e la Luna, tutti
i pianetini e gli asteroidi
sono molto piccoli, incluso
Plutone. Le distanze dal
Sole sono misurate in unità
astronomiche (1 AU = 150
milioni di km, pari al raggio
medio dell’orbita terrestre).
Il pianetino più vicino è
Cerere, che appartiene alla
fascia asteroidale tra Marte
e Giove. Gli altri pianetini
sono Plutone, Haumea,
Makemake ed Eris,
tutti oltre Nettuno nella
cosiddetta fascia di Kuiper.
L’asteroide più distante
è Sedna, dieci volte più
lontano di Plutone.
(WWW.FERLUGA.NET)
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con la massa di Plutone dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno, anche se nel frattempo queste ultime erano state rivalutate,
così da richiedere una massa dell’80 o 90% di quella della Terra, e
non più quasi 7 masse terrestri come pensava Lowell. Però, anche
con questa massa molto diminuita, se il diametro era quello trovato
da Kuiper, la densità di Plutone doveva essere 9,3 volte maggiore di
quella del nostro pianeta, per cui ci si trovava di fronte a queste 3
alternative: o era sbagliato il diametro; o era sbagliata la massa dedotta dalle perturbazioni o il pianeta aveva una densità eccezionale.
Scartata la terza possibilità, che avrebbe richiesto per Plutone
una densità troppo alta per un pianeta, oggi si ritiene che siano probabili le altre due. In particolare, si tende a riconoscere che la massa
dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno è troppo grande, e
quindi le predizioni quasi precise di Lowell e Pickering furono dovute al caso.
Inoltre, ci sono novità per la prima ipotesi. In effetti, l’osservazione che Plutone è coperto di metano ghiacciato significa che
esso riflette la luce solare in maniera più efficiente che se fosse
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di roccia nuda, e che la sua albedo non è 0,14 come assumeva
Kuiper, ma più alta. In altri termini, questo significa che più alto
è il potere riflettente della sua superficie, minore è la sua area, e
quindi (assumendo che sia composto di elementi volatili come gli
altri pianeti esterni) minore la sua massa.
Se l’albedo di Plutone è 0,4, il diametro sarà all’incirca di 3300
km, mentre un’albedo pari a 0,6, implicherebbe un diametro di soli
2800 km. Osservazioni fatte col telescopio spaziale Hubble danno
un diametro ancora più piccolo, 2390 km. Così, questo pianeta
sarebbe più piccolo della Luna, e la sua densità di appena 1,75 g/
cm3, in confronto ai 5,5 della densità della Terra. Vogliamo riportare
le parole di Dale P. Cruikshank, l’astronomo che, coi suoi colleghi dell’Università delle Hawaii, ha condotto le ricerche suddette:
«Questa densità, insieme a un diametro quasi come quello della
Luna, fa derivare una massa pari a qualche millesimo di quella
della Terra: molto minore di quanto sarebbe richiesto dai moti misurabili di Urano o Nettuno. Se è così, è evidente che la scoperta di
Plutone da parte di Tombaugh è stata più il risultato di un’intuizione
che una previsione fondata sulla dinamica planetaria».
A questo punto, veniva spontaneo chiedersi se esistono altri
pianeti al di là di Plutone. Già Ian Oort aveva supposto che oltre
Plutone ci fosse una regione, detta appunto la nube di Oort popolata da numerosi asteroidi che trascinati dentro il Sistema solare
dalle perturbazioni dei pianeti maggiori avrebbero dato origine alle
comete, e che si estenderebbe fino 100.000 Unità Astronomiche.
Più interna ci sarebbe la fascia di Kuiper, fra 35 e 1000 UA. Oggi
si sono scoperti all’interno di questa fascia, con le sonde per infrarosso, numerosi pianetini, che come abbiamo già accennato hanno convinto gli astronomi a ritenere Plutone il capostipite di questa
famiglia di asteroidi piuttosto che un pianeta a tutti gli effetti.
Già ci si era chiesti se l’eccentricità dell’orbita di Plutone, e
la sua forte inclinazione sul piano dell’eclittica, oltre alle piccole
dimensioni non rendevano dubbio il suo stato di pianeta. Si era
notata la somiglianza di Plutone con Tritone, uno dei due satelliti
di Nettuno. È stato per questo che Raymond Arthur Lyttleton ha
avanzato l’ipotesi che una volta Tritone e Plutone fossero satelliti
nettuniani, entrambi orbitanti nel senso di rotazione del pianeta. A
un certo punto, Plutone e Tritone si avvicinarono troppo l’un l’altro,
con una duplice conseguenza: Tritone invertì la sua direzione di
moto, mentre Plutone venne espulso dal sistema di Nettuno.
Ma, naturalmente, c’è anche chi sostiene sia avvenuto il contrario: Tritone e Plutone sarebbero stati originalmente due piccoli
pianeti indipendenti, vicini a Nettuno, che finì per catturare Tritone
facendolo diventare un suo satellite… ••36
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LA GALASSIA
E LE SUE
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bbiamo capito, spero, come è fatta la Terra,
come leggere il cielo, abbiamo imparato a conoscere gli abitanti del Sistema solare, che possiamo considerare per analogia come il «quartiere» della città cosmica in cui viviamo. Adesso allarghiamo lo sguardo, abbandoniamo il Sistema solare
e rivolgiamoci alla nostra Galassia. Cosa sappiamo di essa e come
abbiamo scoperto la sua struttura?
È chiamata anche Via Lattea ed è quella striscia biancastra che
attraversa tutto il cielo e che, fin dall’antichità, ha sempre suscitato curiosità e meraviglia. Gli eschimesi pensavano che fosse una
striscia di neve, gli arabi che fosse un fiume, i greci l’hanno chiamata Galassia, da Galaxíav (Galaxìas), che in greco significa «di
latte».
La Via Lattea ha una forma a spirale come la Nebulosa di Andromeda e molte altre, e quando la osserviamo in direzione della
costellazione del Cigno, la vediamo come se si ramificasse, ma in
realtà sono le polveri di un braccio spirale che, essendo situato
davanti a un elevato numero di stelle, assorbe la loro luce, dando
l’impressione visiva di una biforcazione. ••1
La striscia irregolare della Via Lattea attraversa il cielo press’a
poco all’altezza delle seguenti costellazioni: Perseo, Cassiopea,
Cefeo, Cigno, Saetta, Aquila, Scudo, Scorpione, Sagittario, Poppa, Unicorno, Gemelli, Auriga e di nuovo Perseo. Ciò è dovuto a
un effetto di prospettiva e significa che, guardando verso queste
costellazioni che costituiscono la Via Lattea, noi vediamo la Galassia lungo il suo piano equatoriale, dove si addensa la maggior
parte delle stelle e delle polveri. Se invece si guarda in direzione
perpendicolare al piano, a parte le stelle brillanti più vicine, se ne
scorgono molte meno.
Nel 1610 Galileo per la prima volta utilizzò il cannocchiale per
lo studio del cielo, e si accorse che questa striscia lattiginosa era
dovuta all’addensarsi di un grandissimo numero di stelle in quella
fascia. Ora noi sappiamo cos’è: è un’enorme struttura, una specie
di grande megalopoli cosmica costituita da stelle, gas e polveri. Le
polveri sono minuscole particelle solide di grafite, silicati, ghiaccio
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con impurità di altri elementi delle dimensioni di pochi micron, addensate soprattutto sul piano galattico. Hanno masse molto maggiori dei singoli atomi e molecole e perciò tendono ad aggregare
altro materiale, favorendo così la formazione di una protostella.
LA MEGALOPOLI STELLARE IN CUI VIVIAMO
Ricostruire la forma della Galassia è stata un’impresa abbastanza
difficile. La difficoltà è dovuta al fatto che noi ci siamo immersi
dentro. È semplice rendersi conto di questo se continuiamo a immaginare la Galassia come una grande città. Noi siamo i turisti:
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••1 Spettacolare mosaico
fotografico a 360 gradi che
copre l’intera sfera celeste,
rivelando il panorama
cosmico che circonda
il nostro piccolo pianeta
azzurro. Il disco della
Galassia viene visto di taglio
nella nostra prospettiva
dalla Terra, poiché ci
troviamo nell’interno; la
Via Lattea ci circonda
quindi sulla volta celeste
come un’immensa fascia
CAPITOLO 3
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luminosa, che nell’immagine
è rappresentata in proiezione
lungo l’asse orizzontale.
Si vedono chiaramente i
costituenti principali della
nostra spirale galattica: il
disco con le sue nebulose
luminose e oscure,
contenente stelle giovani e
luminose, nonché il bulbo
centrale e le due Nubi di
Magellano (in basso a destra)
che sono piccole galassie
satelliti. (ESO, S.BRUNIER)
supponendo di essere in un qualunque punto della città, vediamo le piazze e le vie circostanti; ma, se vogliamo avere il quadro
d’insieme, dobbiamo portarci al di fuori, e il modo più semplice è
di sorvolarla su un aereo. Ci si può fare un’idea di come ci apparirebbe la Galassia se potessimo osservarla da lontano solo se ne
guardiamo un’altra, ad esempio la galassia d’Andromeda che è
quasi una gemella della nostra.
Ancora più difficile – perché in contrasto con la presuntuosa convinzione che l’umanità fosse al centro dell’Universo – è stato rendersi conto che la nostra Galassia non è l’unica, ma è solo una delle
tante, e che il Sistema solare non si trova in una posizione privilegiata, ma in una zona periferica. Le tappe cruciali delle scoperte astro-
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nomiche rappresentano, infatti, anche delle tappe cruciali per la cultura in generale
e per la concezione che l’uomo ha di sé e
del suo ruolo nell’Universo: Copernico toglie la Terra dal centro del Sistema solare;
poi si scopre che il Sole è una stella (né
troppo grande né troppo piccola, né troppo
calda né troppo fredda…) fra i tanti miliardi che popolano il cielo e che appartiene
a un ramo periferico di quella grande città
di stelle, polveri, nubi chiamata Galassia,
la quale a sua volta non è affatto il centro
dell’Universo. Le galassie, infatti, sono tante e l’Universo non ha un centro.
Viviamo quindi in una megalopoli stellare
fra le tante altre di un continente di galassie in un angolo del cosmo. La Via Lattea fa
parte di un ammasso di galassie chiamato
Gruppo Locale comprendente una ventina
di membri distribuiti in un raggio di 1,5 milioni di anni luce. È un gruppo che qualche
astronomo ritiene faccia parte a sua volta
del più grande ammasso della Vergine, il
quale conta migliaia di galassie. Dato che
questo grosso ammasso è lontano da noi
20 milioni di parsec (oltre 65 milioni di anni
luce) e sembra abbia un raggio di 20 milioni di parsec, il Gruppo Locale potrebbe
effettivamente essere un sottogruppo periferico dell’ammasso della Vergine. Se noi
ci immaginiamo, dice Donald Goldsmith,
l’intero Universo come una pantagruelica
scodella di riso in brodo, l’ammasso della
Vergine sarebbe rappresentato da un chicco di riso, mentre il Gruppo Locale sarebbe
una macchiolina ai bordi del chicco. Parte
di questa macchiolina sarebbe la Via Lattea, e uno degli atomi (10-8 cm di raggio)
rappresenterebbe il Sistema solare.
Nel Gruppo Locale contiamo 21 galassie: 14 galassie ellittiche, di cui 10 nane
(l’ultima è stata trovata nel 1977 nella costellazione della Carena), tutte molto più
piccole della Via Lattea; 4 galassie irregolari, fra cui la Piccola e Grande Nube di Ma98
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••2 La Grande Nube di Magellano, qui fotografata,
si trova vicino alla Piccola Nube di Magellano. Queste sono
due galassie nane, satelliti della Via Lattea, che si possono
vedere nell’emisfero australe. La Grande Nube è distante
circa 120.000 anni luce della Terra ed ha un diametro di
circa 30.000 anni luce. (ESO, SCHMIDT CAMERA)
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gellano satelliti della Via Lattea; 3 spirali, la
Via Lattea, M 33, la galassia del Triangolo
più piccola, e M 31, la Nebulosa d’Andromeda, un po’ più grande della nostra. ••2
Le due galassie Maffei I e II, scoperte
nel 1967 da Paolo Maffei non apparterrebbero al Gruppo Locale, ma a quello dell’Orsa Maggiore-Giraffa. Si troverebbero infatti
a una distanza di 3 Megaparsec (pari a 9,8
miliardi di anni luce), ma vicine fra loro.
Invece, secondo altri, Maffei I, che è una
gigante ellittica, si trova a circa 3,2 milioni
d’anni luce. Semmai, alla lista delle 21 galassie potremmo aggiungere quella individuata nel 1975 da Christian Simonson III
mediante osservazioni radio: è molto piccola e più vicina alla nostra delle Nubi di
Magellano. È situata quasi ai confini della
costellazione di Orione e dei Gemelli e ha
una massa che si aggira sui 100 milioni
di volte quella del Sole. Essendo in fase di
avvicinamento, è prevedibile che quando,
fra 70 o 80 milioni d’anni, passerà alla distanza minima dalla Via Lattea subirà ancora di più le perturbazioni gravitazionali
a cui è già soggetta, ed è probabile che
se non verrà dispersa del tutto, ridurrà a
un 20% le sue dimensioni e a un 50% la
sua massa, trasformandosi in una galassia
ultranana. Per questo il nome provvisorio
dato scherzosamente a questa galassia
suicida è Snickers, che è il nome di certe
tavolette di cioccolata alle noccioline. Cioè,
in confronto alla Via Lattea, questa microgalassia è quasi un bruscolino.
GLI ABITANTI DELLA GALASSIA
A un osservatore esterno che la guardasse frontalmente, la Galassia apparirebbe come un disco con un rigonfiamento centrale da
cui si dipartono dei bracci che si curvano a spirale. Vista di taglio,
invece, sembrerebbe quasi un disco volante.
La Via Lattea si compone di un sistema sferico, o alone, che va
addensandosi verso il nucleo, e di un disco appiattito intorno a
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questo nucleo. L’alone e il nucleo si compongono di vecchie stelle
povere di elementi pesanti e contengono la stragrande maggioranza di tutte le stelle della Galassia, di cui almeno il 60% si trova
nelle regioni centrali. Polveri e gas nel nucleo e nell’alone sono
molto scarsi. Il disco molto appiattito ha una struttura a spirale,
i cui bracci sembrano uscire dal nucleo, il quale in realtà erutta
gas con tanta violenza che se seguitasse a questo modo per 10
miliardi d’anni finirebbe per svuotarsi come un sacco. Oltre che
di gas, i bracci sono composti di polveri, le quali oscurano il piano
centrale della Galassia, e di circa 1 miliardo di stelle giovani, più
o meno isolate o in ammassi aperti. Il Sole si trova vicino al bordo
esterno di uno dei bracci spirali, chiamato «braccio di Orione». Vi
sono diversi altri bracci più vicini al centro (ad esempio, quello del
Sagittario) e almeno uno ancora più esterno del nostro, chiamato
«braccio del Perseo».
Riguardo alle dimensioni, la Via Lattea è una galassia piuttosto
grande, ma inferiore alla Nebulosa di Andromeda nostra vicina. Il
disco ha le dimensioni di circa 110.000 anni luce di diametro e
nel rigonfiamento centrale lo spessore si aggira sui 10.000 anni
luce mentre nei bracci a spirale raggiunge i 1000 anni luce. Il Sole
e la Terra si trovano in una posizione abbastanza periferica, a circa
27.000 anni luce dal centro. ••3
Osservando più da vicino, ecco che cosa scopriamo. Le nubi
di materia interstellare (chiamate anche storicamente nebulose)
– ossia quell’insieme di gas e polveri rarefatti che si trovano nello
spazio ancora più rarefatto tra le stelle di una galassia – hanno una
grande importanza perché sono le culle in cui nascono le stelle.
Sono coloratissime: la nebulosa Trifide, per esempio, è di un bel
rosso porpora, dovuto al fatto che le stelle di alta temperatura immerse nella nube eccitano il gas, che è in prevalenza idrogeno ed
emette essenzialmente luce rossa e luce azzurra: rosso e azzurro
combinati insieme danno un colore purpureo. Un altro esempio
di nebulosa, culla di nuove stelle, è la famosa nebulosa di Orione.
A volte osserviamo le stelle riunite in gruppi più o meno numerosi. Le Pleiadi sono una famigliola di stelle giovani e costituiscono un bell’esempio di quello che chiamiamo ammasso aperto. Si
capisce che sono giovani perché sono ancora immerse in nubi
di polvere. Le velature intorno alle stelle sono quel che è rimasto
della nube di gas da cui si sono condensate le stelle.
La popolazione dell’alone galattico, cioè di quella specie di involucro sferico che circonda il nucleo, è invece molto diversa: vi troviamo enormi famiglie di stelle antiche chiamate ammassi globulari
proprio perché le sue abitanti si addensano formando una specie
di globulo. Conosceremo meglio gli ammassi aperti e globulari nel
capitolo successivo, al paragrafo sulle stelle giovani e vecchie.
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••3 Il disegno mostra
come apparirebbe la
nostra Galassia se noi
fossimo in grado di vederla
frontalmente dall’esterno.
Si possono individuare la
posizione del Sole, i bracci
di spirale meglio conosciuti
e le caratteristiche della
zona centrale. Il diametro
del disco è di 110.000
anni luce e il Sole si trova
a 27.000 anni luce dal
centro. (ESO - S. BRUNIER)
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Infine, come tutto nell’Universo anche la Galassia si muove.
Non ruota come un tutto unico, ma a differenti velocità a seconda della distanza dal centro. Infatti, mentre il Sole e le stelle
a noi vicine hanno una velocità di 220 km/s e impiegano circa
250 milioni d’anni a compiere un giro completo intorno al nucleo
centrale della Via Lattea situato nella costellazione del Sagittario,
le stelle più vicine al centro sono più veloci, e quelle più lontane
più lente. Così il Sole e le stelle vicine viaggiano come in un grande turbine, con appena qualche differenza in direzione e veloci-
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tà; si tratta di differenze di qualche decina di chilometri al secondo, sufficienti però a produrre nel corso dei millenni un graduale
cambiamento nell’aspetto delle nostre attuali costellazioni e del
cielo. E mentre il Sole viaggia intorno al nucleo galattico forse si
attraversano anche differenti stagioni cosmiche, come ha suggerito Harlow Shapley molti anni fa, e altri più di recente, e come
indicherebbe la coincidenza fra le grandi glaciazioni ricorrenti a
intervalli di circa 200 milioni di anni e il periodo della rotazione
galattica.
UN PO’ DI STORIA
Scoprire la vera natura della Via Lattea non è stato facile. Anche se
già Democrito (400 a.C.) pensava che fosse costituita da una massa di stelle indistinguibili singolarmente, bisogna aspettare Galileo
(1610) per averne conferma.
Il primo modello della forma della Galassia è stato proposto dal
musicista astronomo William Herschel alla fine del secolo XVIII.
Con un telescopio da 1,2 metri di apertura (il più grande fino ad
allora costruito), Herschel studiò il cielo in modo sistematico contando le stelle in ogni direzione. Suppose che più una stella risulta
debole all’osservazione, tanto maggiore deve essere la sua distanza. In base alle sue accurate osservazioni riuscì a disegnare la
forma della Galassia abbastanza correttamente, ma non riuscì a
misurarne le dimensioni. ••4
Il grande passo successivo fu compiuto intorno al 1920. In quel
periodo non si sapeva ancora se le stelle erano distribuite in maniera uniforme in tutto l’Universo oppure se erano concentrate
in qualche tipo di struttura, come appunto le galassie. Proprio
questa dicotomia alimentò quello che è stato chiamato «il gran
dibattito» che contrappose in quegli anni due gruppi di astronomi.
Alcuni sostenevano che le stelle fossero distribuite uniformemente nell’Universo, altri invece che fossero raggruppate in specie
di conglomerati stellari. Il secondo gruppo sospettava che certe
strane nebulose, che avevano una forma a spirale, fossero delle
galassie, ma non ne aveva alcuna prova.
Fu in quegli anni che entrò in funzione il grande telescopio di
due metri e mezzo di Mount Wilson negli Stati Uniti. Con questo
telescopio – il primo grande strumento astronomico moderno
– si vide che le nebulose a spirale contenevano sia stelle sia
nubi di materia interstellare, come quelle che si osservavano nei
dintorni del Sole. Questo dimostrò che esistevano effettivamente
dei conglomerati stellari ben staccati dai dintorni del Sole. In
queste galassie si riuscirono a identificare delle stelle che ave102
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••4 Modello della Via
Lattea proposto da William
Herschel nel 1785.
vano caratteristiche analoghe a quelle vicino al Sole. Dal loro
splendore apparente, ammettendo che avessero lo stesso splendore assoluto di quelle vicino al Sole, si ricavò la loro distanza. I
risultati non lasciavano dubbi: si calcolavano distanze dell’ordine del milione e più di anni luce, mentre le stelle isolate di cui
si poteva stimare la distanza si trovavano a 10-20.000 anni luce
al massimo.
Si cominciò a capire che la Galassia era una megalopoli stellare
con dimensioni finite, e che le galassie più vicine erano separate
dalla nostra da milioni di anni luce. Ne risultava quindi l’immagine
di un Universo fatto di tanti agglomerati, di tante città stellari nettamente separate l’una dall’altra.
Non possiamo non ricordare altri protagonisti delle principali
scoperte della Via Lattea, tutti concentrati nel Novecento. A Harlow
Shapley, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, si deve
l’aver scoperto nel 1916-19 che il Sole
non si trova al centro della Galassia,
come si riteneva fino allora e come
aveva supposto William Herschel,
bensì alla periferia. Un altro grande
progresso si fece nel 1920-24, quando Edwin P. Hubble provò che alcune
nebulose, macchie di luce appena discernibili fra la gran folla di stelle, erano in realtà altri «universi isole», cioè
galassie situate non all’interno, ma
molto al di là della Via Lattea. Hubble
provò in particolare che la Nebulosa
di Andromeda era un’altra galassia
composta di stelle, alcune delle quali
erano stelle variabili. Questo fatto permise anche di calcolarne la distanza, che risultò di 700.000 anni
luce. Misure più moderne hanno portato questa distanza a 2-2,5
milioni di anni luce come per M 33 visibile nella costellazione del
Triangolo.
Verso la fine degli anni Venti, l’olandese Jan Hendrik Oort dallo
studio dei moti propri e delle velocità radiali delle stelle aveva dedotto che la rotazione delle stelle attorno al centro galattico doveva
avvenire non come quella di un corpo rigido, ma in modo simile
al moto dei pianeti attorno al Sole, seguendo cioè una legge kepleriana.
Il passo successivo fu la scoperta, da parte di Walter Baade,
delle Popolazioni stellari nel 1942, di cui parleremo nel prossimo
capitolo sulle stelle. Ulteriori progressi si ebbero infine mediante le ricerche radioastronomiche inaugurate da Karl Jansky verso
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il 1930, ma sviluppatesi in modo straordinario dopo la scoperta
della radiazione a 21 cm dell’idrogeno neutro, da parte di Harold
Ewen e Edmond Purcell, già predetta da Jan Oort e dal suo allievo
Hendrik C. van de Hulst fin dal 1944-45. Radiazione che, come
vedremo più avanti in questo capitolo, ci ha permesso di seguire
il cammino dei bracci di spirale anche al di là del centro galattico
impenetrabile ai telescopi ottici per le polveri, che arrestano la
luce, ma non le radioonde.
In ultimo sono da citare gli studi di Bertil Lindblad degli anni
Cinquanta e quelli di Chi Chiao Lin che nel 1961, e poi in collaborazione con Frank Shu, spiegarono che i bracci spirali sono temporanee concentrazioni di materia, come creste di un’onda che
gira intorno alla Via Lattea, alla stessa velocità sia a 15.000 che a
30.000 anni luce dal centro, e quindi senza condividere la rotazione differenziale della Galassia. Queste creste d’onda, o bracci
spirali, sono aree leggermente più dense del resto della galassia,
nel senso che accumulano una maggior quantità di materia per
unità di spazio. Fatto che si verifica perché stelle e gas, sospinti
dai diversi valori del campo gravitazionale in orbite ellittiche, si
raccolgono nelle regioni dei bracci, ma ogni stella vi rimane per un
tempo relativamente breve.
Sono cambiamenti che avvengono nel corso di milioni d’anni,
ma se fosse possibile filmare questi moti, si vedrebbe che intorno
alla galassia corre una cresta luminosa lunga migliaia di anni luce
e contenente un materiale di stelle, gas e polveri sempre diverso;
e siccome l’onda che produce la cresta non viene disturbata dalla
rotazione differenziale, i bracci non si avvolgono mai intorno al
centro, come si pensava fino a metà del Novecento.
IL NOSTRO POSTO NELLA GALASSIA
Stabilito tutto ciò, torniamo alla metafora iniziale dei turisti: come
facciamo a sapere dove siamo in questa megalopoli stellare? Detto
in termini più scientifici, come si può stabilire, essendo immersi
nella Galassia, la posizione del Sole? Dalle osservazioni e dai conteggi si vide che, in qualsiasi direzione si guardasse, sul piano
galattico si trovava più o meno lo stesso numero di stelle. Ci si
era quindi convinti che il Sole si trovasse al centro della Galassia,
in quanto la densità stellare era più o meno la stessa in tutte le
direzioni. Così accade quando ci si trova in una città che non si
conosce: si giudica se si va verso il centro o verso la periferia dal
traffico, dai negozi, da tanti piccoli segni che ci dicono che ci avviciniamo o ci allontaniamo dalla zona centrale.
Fra il 1920 e il 1930 gli astronomi, in conseguenza delle osser104
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••5 Lo spettro
elettromegnetico. La luce
visibile è soltanto una
porzione piccolissima
delle radiazioni
elettromagnetiche che ci
giungono dall’Universo (che
comprendono anche le onde
radio, le microonde, i raggi
infrarossi, i raggi ultravioletti,
i raggi X, i raggi g.
vazioni di Hershel e poi di Kapteyn erano persuasi che ci si trovasse al centro della Galassia. Fu un astronomo statunitense, Harlow
Shapley, che capì l’errore e si rese conto che in realtà il Sole si trova
in una posizione molto periferica. Si accorse che gli ammassi globulari erano molto più numerosi nella direzione della costellazione
del Sagittario che nella direzione opposta. Gli ammassi globulari
sono distribuiti uniformemente intorno alla Galassia approssimativamente con simmetria sferica. Se il Sole fosse al centro della
Galassia dovremmo contare un uguale numero di ammassi globulari in tutte le direzioni; il fatto che invece fossero più numerosi
in una direzione piuttosto che in un’altra fece supporre a Shapley
che il centro della Galassia doveva trovarsi nella costellazione del
Sagittario.
Come mai ci si era sbagliati? Il piano galattico è popolato da un
gran numero di stelle, ma anche da una gran quantità di materia
interstellare. La materia interstellare si trova sia sotto forma di gas
sia sotto forma di polveri, cioè di particelle solide microscopiche
che diffondono la luce stellare, che a noi appaiono come macchie
scure sul piano galattico. Questa polvere ci impedisce di vedere
oltre. Nella direzione del centro galattico cresce il numero di stelle, ma cresce anche la quantità di polvere e questi due effetti si
compensano. In direzione opposta invece diminuiscono le stelle,
ma diminuisce anche la quantità di polvere, per cui nel complesso sembrava che sul piano galattico le stelle fossero ugualmente
abbondanti in tutte le direzioni.
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Noi studiamo i corpi celesti, e quindi anche le galassie, misurando le radiazioni che ci mandano e che riusciamo a rilevare
con i nostri strumenti. La luce che i nostri occhi sono in grado di
percepire è solo uno dei tanti «tipi di luce» possibili, che differiscono solo per la lunghezza d’onda. La natura dei diversi «tipi di
luce» (o radiazione elettromagnetica) è la stessa. Cominciando
dalle lunghezze d’onda minori, abbiamo i raggi g, i raggi X, poi si
giunge alla banda dell’ultravioletto, poi a quella dell’ottico (luce
visibile), all’infrarosso, alle microonde e infine alle onde radio. La
sequenza di queste radiazioni costituisce lo spettro elettromagnetico. ••5
La nostra atmosfera lascia passare soltanto due fettine di questo
spettro, una che va dal violetto al rosso (che coincide con la banda
ottica a cui è sensibile il nostro occhio) e un’altra banda nel radio,
da qualche centimetro a qualche decina di metri di lunghezza
d’onda. Gli astronomi le chiamano «la finestra ottica» e la «finestra
radio», da cui possiamo affacciarci per osservare l’Universo. Oggi
la scienza spaziale ci ha spalancato tutte le finestre.
Fino al 1930 gli unici recettori capaci di misurare la radiazione
stellare erano l’occhio e la lastra fotografica, sensibili alla banda di
radiazioni visibili. Le radiazioni visibili però sono assorbite e diffuse
dalle polveri.
Quando si guarda in direzione perpendicolare al piano galattico,
dove le stelle sono poche e la polvere manca completamente, si
vede fino a distanze enormi (anche 10-13 miliardi di anni luce).
Ma sul piano galattico si può arrivare solo a circa 10.000 anni
luce. Questo rendeva difficile scoprire, come abbiamo visto prima,
dove si trova il centro galattico. Shapley c’era riuscito basandosi sulla distribuzione degli ammassi globulari che sono nell’alone
fuori del piano galattico, dove le polveri sono scarse. Quindi le
radiazioni ottiche permettevano di esplorare in pratica solo quello
che potrei chiamare «il piccolo villaggio» intorno al Sole, dandoci
delle informazioni abbastanza limitate, mentre le osservazioni radio ci hanno dato il quadro d’insieme della Galassia. Comunque è
stato grazie alle osservazioni ottiche che si è cominciato a capire
che esistevano due classi di stelle che differiscono per composizione, età e distribuzione:
– le stelle sul piano galattico, immerse nelle nubi di materia interstellare, estremamente giovani, chiamate stelle di Popolazione I;
– le stelle nell’alone, dove mancano le polveri e le nubi di materia
interstellare; sono stelle vecchie, chiamate stelle di Popolazione II.
Lo studio della distribuzione delle due diverse popolazioni di
stelle ha permesso di scoprire molto sulla storia e sulla struttura
della Galassia, come vedremo nelle prossime pagine.
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UNA FINESTRA SPALANCATA SULLA GALASSIA
••6 Una mappa a
radioonde della Galassia.
Sono riportate le emissioni
provenienti dall’idrogeno
e dalle nubi molecolari. Si
noti l’accenno di struttura
a spirale. (HOU, HAN & SHI)
Le osservazioni nella banda ottica non ci permettevano dunque
di scoprire nulla di quello che succedeva al centro della Via
Lattea, perché in quell’intervallo dello spettro elettromagnetico
la radiazione viene tutta assorbita dalle nubi di polvere. È stato
grazie alla radioastronomia che si è potuto esplorare la nostra
Galassia da un estremo all’altro, addirittura «vedere» in onde
radio che cosa c’era dalla parte diametralmente opposta al Sole,
oltre al centro galattico.
La radioastronomia è nata nel 1932 a opera di Karl Jansky, un
tecnico della Bell Telephone Company. Egli cercava le cause dei
rumori che disturbavano le trasmissioni
radio transoceaniche. Per caso s’accorse di una sorgente di rumore che sorgeva a est e tramontava a ovest e ben
presto notò che tale sorgente di rumore
coincideva con la direzione della costellazione del Sagittario (la costellazione
in cui Harlow Shapley tre anni prima
aveva scoperto che lì si trova il centro
galattico), dove, come abbiamo visto, si
addensa la maggior quantità di stelle e
polvere interstellare.
Le particelle di polvere hanno dimensioni di 1/1000 di millimetro o anche
meno. La lunghezza d’onda della luce visibile è compresa tra 1/1000 e 1/10.000
di millimetro: è quindi dello stesso ordine
di grandezza. Ecco perché la radiazione
ottica resta intrappolata. La luce che viene da una stella e incontra
una nube di polvere viene diffusa in tutte le direzioni all’interno
della nube, ma solo una percentuale minima della luce continua
il suo percorso in direzione dell’osservatore, al quale, dunque, le
polveri appaiono scure. Viceversa, la lunghezza d’onda delle onde
radio è molto più grande delle dimensioni delle particelle di polvere: è infatti compresa tra il centimetro e le decine di metri (10-50
metri); le onde radio non risentono minimamente dell’effetto dei
granuli di polvere.
Possiamo spiegare il fenomeno con un’analogia animale. È
come se un elefante camminasse in un prato, certamente i fili
d’erba non ostacolerebbero il suo cammino, mentre sarebbero
seri ostacoli per una formica.
Con i radiotelescopi si è riusciti a determinare la struttura della
Galassia; si è infatti scoperto che vengono emesse radio onde
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sia dal disco galattico che dal centro. Elaborando le informazioni ottenute con i radiotelescopi si è potuto ricostruire la mappa
della Galassia. Si è avuta la certezza che la materia è distribuita
lungo bracci a spirale simili a quelli di altre galassie e che quindi
la Via Lattea è una galassia a spirale. L’affinamento delle tecniche radioastronomiche ha permesso poi di scoprire i dettagli (il
numero e la posizione dei bracci, la loro distanza, la velocità di
rotazione). ••6
Ma come mai la nostra Galassia emette radioonde? Le emissioni ottiche si spiegano facilmente: i corpi
caldi emettono luce. Sono emissioni note,
normali, tutti sappiamo che un corpo, ad
esempio un pezzo di metallo, se riscaldato
e portato all’incandescenza, emette luce.
Ma le onde radio provenienti dalla nostra
Galassia hanno un’origine diversa. Uno dei
meccanismi fisici alla base dell’emissione
di onde radio è analogo a quello che si osserva nei sincrotroni, quegli acceleratori
circolari di particelle che ormai conosciamo tutti. La radiazione di sincrotrone è un
tipo di onda emessa quando elettroni molto
veloci si muovono in un campo magnetico.
Se una particella carica (ad esempio un
elettrone) penetra in un campo magnetico,
viene decelerata. Decelerazione significa
perdita di energia, energia che la particella emette sotto forma
di radiazione. ••7
Questa emissione avviene a lunghezze d’onda tanto più brevi
quanto maggiore è l’intensità del campo magnetico e quanto
maggiore è la velocità delle particelle. Nei sincrotroni i campi
magnetici sono estremamente forti, quindi si ha emissione ultravioletta, X, g (cioè radiazioni di lunghezza d’onda molto breve). Nella Galassia il campo magnetico è estremamente debole,
circa un centomillesimo di gauss, e quindi le particelle cariche
(per esempio nei raggi cosmici) decelerate dal campo magnetico galattico emettono radiazioni di lunghezza d’onda elevata,
nel dominio delle onde radio.
Oltre alla radiazione di sincrotrone, riceviamo dalla Galassia altri
segnali radio: la radiazione a 21 centimetri prodotta dall’idrogeno
neutro è estremamente utile. L’idrogeno è l’elemento di gran lunga
più abbondante nell’Universo (in percentuale, ogni 100 atomi 90
sono di idrogeno, 9 sono di elio, 1 distribuito tra tutti gli altri elementi). L’atomo d’idrogeno funziona come una radiotrasmittente
che emette a una certa frequenza definita (alla lunghezza d’onda
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••7 La radiazione di
sincrotrone viene emessa
dagli elettroni che si
muovono a spirale (o per
meglio dire a elica) dentro
un campo magnetico.
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••8 La parte centrale
della Galassia vista ai
raggi infrarossi. Queste
radiazioni attraversano le
polveri interstellari e quindi
consentono di intravvedere
«in trasparenza» il centro
galattico. (NASA, JPL,
CALTECH - S.STOLOVY)
di 21 centimetri). Dato che l’idrogeno neutro si dispone sui bracci a spirale, dalla sua disposizione studiata con tecniche radioastronomiche e dalla misura delle velocità grazie allo spostamento
Doppler si può ricostruire la forma della Galassia e la rotazione
differenziale.
IL CENTRO GALATTICO
Finora abbiamo esplorato la Galassia studiando le radiazioni
emesse nella banda ottica e radio dello spettro elettromagnetico.
Dallo spazio arrivano anche raggi infrarossi, ultravioletti, X e g.
Le osservazioni radio e infrarosse hanno dimostrato che in questa banda dello spettro elettromagnetico il centro galattico è una
potente sorgente di onde. Più recentemente, grazie ai satelliti, si
è potuto osservare il cielo anche studiando quelle radiazioni altrimenti assorbite dall’atmosfera terrestre: raggi X, raggi g, raggi
ultravioletti. I raggi g non vengono nascosti dalle nubi di polveri e
hanno fornito ulteriori informazioni sulla Galassia e soprattutto sul
centro galattico. ••8
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L’immagine della nostra Galassia osservata da un satellite per raggi g mostra che
sul piano della Via Lattea c’è una fascia
luminosa. In questa fascia, distribuita approssimativamente intorno al centro galattico, il gas interstellare raggiunge delle
temperature dell’ordine del milione di gradi, (temperature cinetiche, indicate dalla
velocità di agitazione termica) anche se
bisogna tener conto che è estremamente
rarefatto e quindi un pessimo radiatore.
Per quanto possa sembrare paradossale,
un termometro misurerebbe una temperatura di pochi gradi assoluti.
La stranezza si spiega col fatto che la temperatura va intesa in
maniera diversa dal solito, ossia come temperatura cinetica. Consideriamo un metallo all’incandescenza: se lo tocco mi scotto; ma,
se metto un dito nel gas interstellare a un milione di gradi, non mi
scotto. Questo perché il gas è estremamente rarefatto e il termine
temperatura indica semplicemente il fatto che la velocità dell’agitazione a caso delle particelle corrisponde a una temperatura di
un milione di gradi. Dire che i gas interstellari hanno temperature
elevate significa, quindi, che l’energia delle particelle corrisponde
ad altissime temperature che danno luogo all’emissione di radiazione di lunghezze d’onda brevi.
Quali sono le condizioni che nel centro galattico generano queste spaventose emissioni di energia? Nessuno conosce la risposta
esatta, ma si possono formulare delle ipotesi fondate. Il fenomeno
non si può spiegare semplicemente con un ammasso di stelle,
malgrado le stelle vadano certamente addensandosi verso il centro della Galassia: le emissioni sono di un’energia così elevata che
può essere spiegata solo immaginando che al centro della Galassia si sia formata una tale condensazione di materia da creare
quello che si chiama un buco nero. Oggigiorno, più o meno tutti
hanno sentito parlare dei buchi neri. Si tratta di un addensamento
di materia in un volume molto piccolo, tale che la velocità di fuga
da questo supererebbe quella della luce, per cui nemmeno i fotoni
potrebbero uscirne. La materia spirala intorno a questo buco nero,
spirala sempre più rapidamente prima di cadervi dentro e per l’attrito si riscalda tanto da emettere una gran quantità d’energia,
che è quella che osserviamo. L’ipotesi di un buco nero nel centro
galattico è la spiegazione più plausibile per il momento. Essa è
confermata dall’osservazione che il moto delle stelle più vicine al
centro galattico indica che entro un raggio di appena 15 ore luce
(una distanza pari ad appena tre volte la distanza di Plutone dal
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••9 Centaurus A è una
galassia che contiene nel
suo nucleo un gigantesco
buco nero rotante. La
materia è risucchiata
verso il buco nero ed è
poi proiettata all’esterno
nei due getti lungo l’asse
di rotazione. Anche la
Via Lattea contiene nel
suo centro un buco nero,
ma meno attivo. Recenti
osservazioni (immagine
piccola) mostrano infatti
strutture analoghe a forma
di «bolle» simmetriche
emesse dal nucleo anche
nella nostra Galassia.
(ESO, NASA-CHANDRA, ESA-PLANCK)
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Sole) è contenuta una massa pari a circa 3 milioni di volte la massa del Sole. È poco probabile che tante stelle siano racchiuse in
un volume così piccolo, mentre è plausibile che al centro ci sia un
grosso buco nero. ••9
D’altra parte l’ammasso caldo intorno alla parte centrale del
nucleo galattico provoca anche una pressione di radiazione: la
radiazione esercita una pressione che spinge della materia perpendicolarmente al piano della Galassia, per cui noi osserviamo
dei getti di gas che schizzano fuori dal centro galattico. Questi
fenomeni si osservano anche in galassie lontane, su scala molto
maggiore. Si può pensare che questi fenomeni, caratteristici di
galassie estremamente attive, si ritrovino nella nostra a un livello
molto più basso, poiché la nostra è una galassia vecchia e ormai
evoluta. Infatti, le galassie lontane nello spazio 10-13 miliardi di
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anni luce sono lontane anche nel tempo: quella che noi possiamo
osservare ora è la radiazione partita molto tempo fa e ci fornisce
informazioni sul passato degli oggetti studiati, che nel frattempo si
saranno trasformati e non possiamo sapere come. La nostra Galassia è più vicina e ci manda, quindi, informazioni più «fresche»,
che la descrivono in uno stadio evolutivo successivo. La vediamo
così com’è oggi o, per meglio dire, com’era nel passato prossimo.
Si constata inoltre che la diminuzione d’attività del nucleo centrale
è un segno caratteristico delle galassie vicine, cioè delle galassie
più vecchie. Le galassie lontane, che per noi sono visibili solo allo
stadio del loro passato lontano, quando erano giovani, sono tutte
estremamente più attive.
COME NACQUE LA GALASSIA
Abbiamo visto fin qui che non abitiamo al centro della Galassia.
Abbiamo visto cosa succede al suo centro, e capito grazie alla
radioastronomia quale forma ha la nostra megalopoli cosmica. Resta da capire come si è formata ed evoluta la nostra dimora. Per
farlo dobbiamo partire dai suoi abitanti, cioè dalle stelle, dalla loro
nascita e anche dalla loro morte.
La vita di una stella è legata alle sue fonti d’energia. Quando
una stella è giovane, ha molta energia a disposizione; ma quando ha consumato tutte le sue fonti d’energia, invecchia e si avvia
verso la fine del suo processo evolutivo. Nelle ultime fasi della loro
vita, le stelle rilasciano nello spazio circostante, parzialmente o
completamente, in modo più o meno violento, il gas che compone
gli strati più esterni. In questo modo lo spazio interstellare si arricchisce di nuovo materiale da cui si formeranno le future generazioni di stelle. Così questa immensa città di stelle, la Galassia, si
rinnova perché i suoi abitanti cambiano. E il processo ricomincia,
incessantemente, in tutto l’Universo.
Le fonti d’energia che fanno brillare le stelle sono le reazioni
termonucleari che avvengono all’interno, soprattutto la trasformazione di idrogeno in elio.
Quattro nuclei di idrogeno, che danno luogo al nucleo di elio,
hanno una massa di poco superiore a quella del nucleo di elio e,
nel processo di fusione di idrogeno in elio, una percentuale delle
masse in gioco (7/1000) si trasforma in energia, seguendo la relazione di Einstein: l’energia prodotta è uguale al prodotto della
massa per la velocità della luce al quadrato (E=mc2). Siccome
la velocità della luce al quadrato è un numero molto grande,
basta una minima quantità di materia per dar luogo a una gran
quantità di energia. Nel nostro Sole attualmente la temperatu112
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CAPITOLO 3
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••10 Le reazioni
di fusione nucleare
dell’idrogeno secondo il
ciclo «protone-protone»,
che avvengono nel Sole,
si svolgono in stadi
successivi. Dapprima due
protoni (cioè due nuclei
di idrogeno) si uniscono
e formano un nucleo
di idrogeno pesante ²H
(deuterio). Poi un nucleo
di deuterio cattura un
protone e forma un
nucleo di ³He (elio 3).
A questo punto il deuterio
e l’elio 3 reagiscono
come illustrato in figura,
formando un normale
nucleo di elio e liberando
un protone, insieme a una
gran quantità di energia
(17,6 MeV in totale).
ra del nocciolo centrale è tredici milioni
di gradi e l’idrogeno si trasforma in elio;
l’energia prodotta si fa strada verso la superficie e viene irradiata sotto forma di
luce e calore. ••10
Le stelle molto brillanti (le osservazioni
ci dicono che c’è una relazione di proporzionalità fra massa e luminosità), che
hanno per esempio una massa 10 volte
quella del Sole, dispongono di una quantità di combustibile nucleare circa 10
volte superiore quella della nostra stella.
Essendo però molto più brillanti, consumano la loro riserva di energia con una
rapidità 10.000 volte maggiore. Quindi,
anche se inizialmente hanno 10 volte il
combustibile del Sole, lo bruciano 10.000
volte più rapidamente, il che significa che la loro vita è mille volte
più breve di quella della nostra stella.
Perciò, quando vedo una stella brillante, sperperatrice d’energia, so con sicurezza che è giovane. Si constata sistematicamente
che le stelle molto brillanti sono immerse in nubi di gas e spessissimo sono raggruppate in ammassi aperti. Tale correlazione tra
stelle giovani e gas non può essere casuale: le nubi di gas, infatti,
sono il luogo e la materia prima da cui si formano le stelle. A riprova di ciò, si osserva che dove manca completamente materia
interstellare non ci sono nemmeno stelle giovani. La formazione
stellare è un processo continuo nell’Universo: anche ora, in questo momento, in qualche regione più o meno remota dello spazio,
stanno nascendo delle stelle la cui luce non è stata ancora rilevata dai nostri strumenti. Nell’alone galattico manca completamente la materia interstellare e troviamo stelle vecchie, cioè stelle che
bruciano molto lentamente il loro idrogeno e che possono vivere
anche decine di miliardi di anni. È proprio l’assenza di materia
interstellare, cioè la materia prima da cui si formano le stelle, che
ci dice che risalgono a molto tempo fa.
Perché le stelle vecchie si trovano soprattutto nell’alone e quelle giovani sul disco? Si può dare una spiegazione pensando a
come si può esser formata la nostra Galassia. La protogalassia era
un’immensa nube di gas in rotazione. In questa nube si formavano casualmente, per moto turbolento, degli addensamenti che,
per effetto di autogravitazione, tendevano a condensarsi e a dar
luogo alle stelle. Un fluido – come un gas – in rotazione tende a
schiacciarsi e ad appiattirsi in corrispondenza del piano equatoriale perpendicolare all’asse di rotazione. Il gas che nella protoga-
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lassia non si era condensato in stelle seguì questa tendenza e si
distribuì lungo il piano equatoriale dando luogo al disco galattico.
Invece le stelle che si erano già formate mantennero la forma sferica originale della protogalassia e restarono perciò nell’alone. Questo è avvenuto perché le stelle sono tanto separate l’una dall’altra
che non si urtano; quindi non c’è attrito relativo. La distribuzione
degli ammassi globulari mantiene perciò la forma originale della
nube di gas da cui si sono formati. L’attrito tra le particelle del
gas, al contrario, fa sì che si distribuiscano seguendo il moto di
rotazione della protogalassia. Ecco quindi che si forma il disco. Le
nuove stelle potranno nascere soltanto là, nel disco, dov’è rimasta
la materia prima per formarle. ••11-12
UN GRANDE MISTERO: LA MATERIA OSCURA
Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo. Conosciamo le dimensioni
della Galassia, le sue popolazioni, sappiamo che ci sono stelle isolate, che ci sono famiglie di stelle (gli ammassi aperti e gli ammassi globulari), che c’è materia interstellare e che ci sono le polveri.
Sappiamo come ruotano la Galassia e i suoi bracci a spirale. Dalla
velocità di rotazione della Galassia possiamo ricavare la massa.
Per capire come, consideriamo l’analogia col Sistema solare. Dal
moto di rivoluzione dei pianeti possiamo, infatti, calcolare la massa del Sole. Allo stesso modo, dal moto delle stelle (in particolare
del Sole) intorno al centro galattico, si stima che la massa della
Galassia sia pari a circa 300 miliardi di masse solari.
Ma c’è una fondamentale differenza tra la Galassia e il Sistema
solare. I pianeti si muovono più lentamente man mano che ci si
allontana dal Sole: il moto di Giove è più lento di quello di Marte,
Plutone è ancora più lento di Giove e così via. Allo stesso modo,
le misure di rotazione della Galassia si effettuano normalmente
misurando la velocità delle stelle. Il problema è che le stelle si
vedono solo fino a una certa distanza dal centro galattico, perché
a distanze superiori ai 40.000 anni luce dal centro cominciano a
diminuire. In questi ultimi anni, grazie al progresso delle osservazioni radio a microonde, si è misurata la velocità delle nubi di monossido di carbonio, molto numerose anche a distanze superiori
a 40.000 anni luce, nella periferia della Galassia, e dal loro moto
si è visto che la velocità, invece di decrescere con la distanza dal
centro come si pensava per analogia con il Sistema solare, resta
costante, anzi tende ad aumentare.
Che cosa significa? Dalla meccanica si sa che questo tipo di
moto indica che nella periferia della Galassia deve esistere una
gran quantità di materia di cui non si sospettava l’esistenza, e dal114
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••11 Schema di
evoluzione galattica (in
alto). A. Protogalassia;
B. formazione di stelle
nell’alone; C. formazione
di stelle nel disco; D. la Via
Lattea oggi.
••12 Le componenti
risultanti della Galassia (in
basso). L’alone (in rosso)
costituito dalle stelle più
vecchie; il disco (in azzurro)
composto dalle stelle più
giovani; il bulbo (in verde)
comprendente stelle di età
crescente verso l’interno.
la rotazione della Galassia si può dedurre
che la materia nella periferia è addirittura
5 volte quella contenuta dentro l’orbita del
Sole intorno al centro galattico. Di questa
materia si ignorava l’esistenza.
Il fenomeno è comune a tutto l’Universo. Considerando cioè l’insieme delle
galassie, noi vediamo solo il 5% e forse
meno della materia, mentre il 95% ha
una natura per ora sconosciuta, e si compone al 72% di energia oscura e per il
23% di materia oscura. ••13
Nella nostra Galassia si può pensare
che una gran quantità di materia oscura
sia costituita da stelle deboli, che irraggiano troppo poco per scorgerle, e che ci sia
una gran quantità di pianeti come Giove,
troppo piccoli per essere rilevati dagli strumenti (anche se ce ne vorrebbero troppi
per spiegare tutta la massa che manca).
Se poi si considera tutto l’Universo, il problema diventa ancora più serio. È difficile
render conto di tutta la materia oscura
ricorrendo solo a quella che si chiama
materia barionica, cioè fatta di protoni ed
elettroni, di atomi di idrogeno o atomi o
nuclei degli elementi che conosciamo. Ci
sono poi altre ragioni, di cui parleremo nel
capitolo dedicato ai misteri insoluti, che
indicano che la materia oscura non può
essere barionica.
È possibile che questa materia sia sotto forma di particelle
elementari, per esempio neutrini: i neutrini sono particelle neutre la cui massa è estremamente piccola. Nella prima fase della
vita dell’Universo, subito dopo quello che si chiama Big Bang, si
sarebbe formata una gran quantità di queste particelle tale che
potrebbe spiegare la massa mancante negli spazi intergalattici
ma non nelle singole galassie, perché a causa della loro piccola
massa hanno una velocità paragonabile a quella della luce e sfuggirebbero all’attrazione gravitazionale della galassia. Si ipotizza,
quindi, anche l’esistenza di altre particelle che, però, non sono
ancora mai state osservate.
La massa mancante è il grande problema che ancora avvolge di
mistero la nostra Galassia: conosciamo solo una frazione di questa massa, solo una percentuale minima degli abitanti, il resto si
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trova sotto forma oscura, irraggiungibile con i nostri strumenti e
inspiegabile con le attuali teorie. L’altro grande enigma riguarda
cosa c’è nel centro della Galassia. Misure del moto di una stella a
soli 15 ore luce dal centro indicano che entro questo raggio, pari
ad appena tre volte la distanza di Plutone dal Sole, c’è una massa
totale pari a circa 3 milioni di masse solari, il che fa pensare che
sia molto probabile la presenza di un buco nero, formatosi quando
la massa della protogalassia è andata addensandosi.
Resta ancora molto da capire e scoprire. Tante risposte verranno dal miglioramento degli strumenti ma anche da una migliore
comprensione della vita delle stelle, a cui dedichiamo il prossimo
capitolo.
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••13 La curva di
rotazione della nostra
Galassia si può spiegare
soltanto con la presenza
di un esteso inviluppo di
materia oscura. Poiché
un pianeta sta in orbita
attorno al Sole e una
stella o una nube di gas
sta in orbita attorno al
centro della Galassia
(senza cadere verso il
centro e senza sfuggire
per la tangente all’orbita)
significa che la forza di
gravità (che li farebbe
cadere verso il centro) e
la forza centrifuga (che
li farebbe sfuggire per la
tangente all’orbita) sono
eguali;
F. gravità = F. centrifuga
GMm/r2 = mv2/r
dove M è la massa della
Galassia, m la massa
della stella, r la distanza
dell’oggetto dal centro e
v la velocità orbitale, G la
costante di gravitazione:
da cui M= v2r/G
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LE STELLE
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iamo partiti dalla nostra Terra e abbiamo esplorato il Sistema solare. Siamo passati poi alla Galassia e le sue popolazioni, per renderci conto
che viviamo in un isolato di una immensa megalopoli stellare, che a sua volta fa parte di un continente di altre mega città in uno spazio sconfinato.
Vediamo ora un po’ più in dettaglio le caratteristiche di
quelli che sono i principali «mattoni» dell’Universo: la grande varietà di stelle, e con quali mezzi siamo riusciti a capire di cosa son
fatte, come si formano, perché brillano, come evolvono e muoiono
questi oggetti così lontani e intangibili.
Parleremo prima delle stelle in generale e poi del Sole come
stella tipica e l’unica studiata in dettaglio perché, grazie alla sua
vicinanza, è osservabile come una superficie estesa e non come
un punto. Grande vantaggio, se si considera che la stella più vicina
si trova a poco più di 4 anni luce e il Sole a circa 8 minuti luce.
Gli astronomi definiscono stella un aggregato di materia gassosa
che brilla di luce propria in conseguenza delle reazioni nucleari
che avvengono nel suo interno. Le condizioni fisiche (temperatura e densità) necessarie all’innesco di queste reazioni nucleari
si verificano soltanto se la massa della stella è almeno fra 1000
e 10.000 volte quella della Terra. Giove, che ha una massa 318
volte maggiore del nostro globo, è ancora troppo piccolo, sebbene,
come Saturno, Urano e Nettuno, irradi più calore di quanto non ne
riceva dal Sole: forse un residuo del calore accumulato al tempo
della sua formazione, di origine gravitazionale e non nucleare.
Esiste una grandissima varietà di stelle: si va da stelle più piccole di quelle che fanno parte del sistema binario Wolf 424 situato
nella Vergine e che hanno una massa di 0,07 volte quella del Sole;
a stelle massicce come quella di Plaskett, un altro sistema binario
composto di due stelle, ciascuna 90 volte più grossa del Sole. La
coppia si scorge anche a occhio nudo nella costellazione dell’Unicorno, circa a metà strada fra Procione e Betelgeuse.
Abbiamo stelle isolate e stelle a gruppi, e alcune così vicine fra
loro da essere praticamente a contatto, quale, per esempio, le due
componenti del sistema doppio W Ursae Maioris. Abbiamo già
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nominato S Doradus che è la stella con la magnitudine assoluta
più grande di tutte e pari a -9,5. Tuttavia, quando le stelle esplodono alla maniera delle supernovae, possono raggiungere anche
una magnitudine di -19 ed eguagliare in splendore l’intera loro
galassia. Se poi si considerasse il nucleo di una galassia simile alla
nostra come una stella unica, si arriverebbe a una magnitudine
assoluta stimabile a -22,8, che però non è ancora il massimo dei
massimi, se pensiamo che la quasar 3C 279, che si crede distante
circa 6 miliardi di anni luce, nel 1975 ebbe una fluttuazione luminosa che al suo culmine raggiunse la magnitudine -31, uguale a
100.000 miliardi di volte quella del Sole.
Dato che fra le stelle c’è una specie di distribuzione gerarchica
di luminosità, ci possiamo immaginare una scala piena di stelle
gradino per gradino, in ordine di magnitudine assoluta. Noteremo
che le più brillanti in cima alla scala sono pochissime, mentre i
gradini inferiori sono via via sempre più popolati di stelle sempre
più deboli. Non basta: le più luminose, oltre ad avere diversi colori,
dal rosso al giallo al bianco-azzurro, sono anche le più voluminose,
al contrario delle piccole stelle «nane» dei gradini più bassi che
(salvo eccezioni quali le «nane bianche») tendono a un rosso sempre più cupo fino all’invisibilità.
Come i metalli che dal rosso arrivano al «calor bianco» coll’aumentare della temperatura, così le stelle rosse hanno una temperatura superficiale più bassa delle stelle bianche, e quanto più
calda è la superficie di una stella tanto maggiore è l’energia emessa per cm2. Quest’ultima varia secondo la quarta potenza della
temperatura, e quindi una stella avente una temperatura 2 volte
maggiore di un’altra delle stesse dimensioni, emette non il doppio,
ma 24, cioè 16 volte più luce. Pertanto le stelle più deboli della
scala delle luminosità sono rosse: e non soltanto sono piccole, ma
anche relativamente fredde, 2000 o 3000 gradi assoluti. ••1
La grande varietà di stelle non finisce qui. Esistono stelle che
ruotano tanto rapidamente da diventare oblunghe, altre che pulsano con maestosa lentezza come le Cefeidi, oppure vibrano come
corde di violino. Alcune stelle hanno atmosfere estesissime e rarefatte, altre sono dense al punto che la loro superficie è solida.
Si crede che in alcune nebulose come quella d’Orione delle stelle
stiano nascendo, mentre altre muoiono nelle più diverse età, e
altre ancora sono vecchie quanto la Galassia (circa 14 miliardi
d’anni) e vivranno ancora per moltissimo tempo. Vi sono stelle che
«sputano» nello spazio grandi quantità di gas, e altre che «succhiano» con la loro forza gravitazionale stelle vicine trasferendone
su di sé la materia e cambiando il loro processo evolutivo. Abbiamo stelle con fortissimi campi magnetici che raggiungono al limite
i 35.000 gauss, mentre in confronto il Sole ha un campo magne120
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CAPITOLO 4
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••1 La stella
Altair osservata con
l’interferometro ci mostra il
suo vero aspetto. La forma
ellissoidale schiacciata è
dovuta alla rapida rotazione
stellare (evidenziata dalla
griglia sovrapposta).
Questa è un’immagine
straordinaria, ai limiti
della moderna tecnologia
osservativa, poiché le stelle
sono talmente lontane che
appaiono come puntini
anche nei più potenti
telescopi (il bordo dentellato
è un effetto strumentale).
La barretta rappresenta 1
millisecondo d’arco, quindi
per dare l’idea di come Altair
si vede nel cielo dovremmo
porre questa pagina a circa
2 km di distanza!
(CHARA, J.MONNIER)
tico generale inferiore a 1 gauss. Ma anche quando appartengono
allo stesso tipo, non c’è stella che sia davvero identica a un’altra.
Tuttavia, conoscere non significa solo notare le differenze, ma
anche le somiglianze. È per questo motivo che noi abbiamo immaginato di dividere le stelle in quella scala a gradini dove si distribuivano secondo la magnitudine e il colore, cui occorre però
aggiungere importanti caratteristiche fisiche quali lo spettro, il diametro e la massa.
DIMMI CHE SPETTRO HAI E TI DIRÒ CHI SEI
Spettro è il nome che Newton diede alla banda continua di colori
formata da un prisma quando viene colpito da un raggio di luce,
e lo spettroscopio, costituito essenzialmente da un prisma, è lo
strumento che serve ad analizzare la luce, compresa quella delle
stelle. Furono proprio le stelle, che, intorno al 1863, l’astronomo e
gesuita italiano Padre Angelo Secchi prese a esaminare con uno
spettroscopio. Altri prima di lui avevano già tentato, ma forse egli
ebbe uno scopo più preciso. Lo scrive egli stesso: «In sostanza,
voglio vedere se, proprio come le stelle sono senza numero, anche
la loro composizione sia proporzionalmente variata». Egli scoprì
invece che, per quanto le stelle siano innumerabili, i loro spettri
possono ridursi a poche forme distinte e ben definite che per brevità chiamò «tipi». Più in particolare, egli aveva esaminato 4000
stelle che risultavano divisibili in 5 tipi, con le stelle bianche ad
alta temperatura da una parte della scala, e all’estremo opposto le
stelle rosse a bassa temperatura.
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Occorre qui precisare la differenza fra spettro continuo e spettro
di righe. La luce bianca emessa da una lampadina o da un metallo
incandescente ha uno spettro continuo, cioè una striscia colorata sfumata dal rosso al violetto. Un gas rarefatto portato all’incandescenza
emette invece uno spettro di righe luminose caratteristiche per ciascun elemento. Ad esempio, l’idrogeno emette una riga nel rosso,
una nel verde-azzurro e una nell’estremo violetto; il sodio è contraddistinto da due forti righe nel giallo; il ferro (naturalmente allo stato
gassoso) da numerosissime righe lungo tutto lo spettro. Quando un
gas rarefatto viene frapposto fra una sorgente più calda e l’osservatore, nello spettro continuo della sorgente si vedono apparire delle righe
scure al posto di quelle luminose. Le righe brillanti si chiamano anche
«righe d’emissione», quelle scure «righe d’assorbimento». ••2
Lo spettro del Sole e delle stelle è uno spettro continuo solcato
da righe d’assorbimento, e qualche volta d’emissione, per mezzo delle quali è possibile identificare gli elementi chimici presenti
nelle atmosfere di questi corpi, e la loro quantità in percentuale.
Da tali righe è possibile dedurre anche la temperatura (e molte altre caratteristiche fisiche, quali: pressione, campi magnetici, moti
turbolenti dei gas ecc.) perché più alta è la temperatura più un
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••2 Spettri stellari per
le diverse classi spettrali.
Spostandosi nella figura
dall’alto verso il basso, la
classe spettrale avanza da
O a M (a sinistra), mentre
la temperatura stellare
diminuisce da 35.000 a
3.000 gradi circa. Si nota
che per le prime classi
spettrali, ovvero per le stelle
calde, sono predominanti
alcune forti righe di
assorbimento: si tratta
dell’idrogeno. Diversamente
per le classi spettrali più
avanzate, ovvero per le stelle
più fredde, sono visibili
numerosissime righe sottili:
si tratta dei metalli.
CAPITOLO 4
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CLASSE
SPETTRALE
TEMPERATURA
SUPERFICIALE K
COLORE
CARATTERISTICHE SPETTRALI
W
sopra i 35.000
bianco-azzurro
righe brillanti, domina l’elio
O
35.000 - 30.000
bianco-azzurro
dominano le righe dell’elio
B
30.000 - 15.000
bianco-azzurro
righe dell’elio e dell’idrogeno
A
circa 10.000
bianco
dominano le righe dell’idrogeno
F
circa 7000
bianco-giallo
righe dell’idrogeno e
di metalli ionizzati
G
circa 6000
giallo
righe dell’idrogeno e metalli
neutri e ionizzati
K
circa 5000
arancione
metalli neutri, dominano le
righe del calcio neutro e ionizzato
M
circa 3000
rosso-arancio
dominano le bande
dell’ossido di titanio
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3000 - 2000
rosso
dominano le bande
dell’ossido di zirconio
R
3000 - 1500
rosso
dominano le bande dei
composti del carbonio
Nella scala di temperature
assolute, lo zero assoluto
corrisponde a -273°
centigradi; che sia
assoluto si spiega col fatto
che la temperatura è una
misura della velocità di
agitazione delle particelle
(la velocità d’agitazione
delle particelle cresce
al crescere della
temperatura): lo stato
di velocità minima –
e quindi di energia
minima – corrisponde
alla temperatura minima
possibile ed è chiamato
zero assoluto (0 Kelvin).
atomo si ionizza; perde, cioè, un numero crescente di elettroni,
producendo diverse serie di righe spettrali. È quindi evidente che
deve esistere una relazione anche fra colore e caratteristiche dello spettro di righe, essendo ambedue essenzialmente dipendenti
dalla temperatura. Nella tabella qui sopra si riportano le principali
caratteristiche degli spettri stellari divisi secondo la classificazione
dell’Osservatorio di Harvard (Stati Uniti) nei tipi W, O, B, A, F, G, K,
M, S, R, N. Per fare qualche esempio concreto, nella costellazione
di Orione la stella Betelgeuse, di colore rossastro, ha uno spettro
molto diverso dall’azzurra Rigel: la prima è di tipo M e la seconda
di tipo B. Il Sole è una stella gialla di tipo G, anzi G2, dato che ogni
classe (o tipo) si suddivide in sottoclassi indicate con le cifre da 0
a 9: Betelgeuse è M2 e Rigel B8, mentre Sirio è di classe A0.
Alla categoria W appartengono le stelle Wolf-Rayet (dal nome
dei francesi Charles-Joseph-Étienne Wolf e Georges-Antoine-Pons
Rayet, che le scoprirono): sono le più calde che si conoscano e
abbastanza simili alle stelle classificate con la lettera O, ma molto
più ricche di righe di emissioni. Le stelle R e N, oggi più spesso indicate con la lettera C, simbolo del carbonio, e le S hanno
temperature simili alla M, ma ne differiscono per la composizione
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chimica. Nei confronti delle M, le C hanno maggiore il rapporto
carbonio/ossigeno; le S il rapporto terre rare/titanio.
La magnitudine assoluta di una stella dipende sia dalla sua temperatura che dalle sue dimensioni. Dopo aver studiato un certo
numero di spettri di stelle di cui era nota la distanza e quindi la
magnitudine assoluta, il danese Ejnar Hertzsprung (al quale si deve
l’aver introdotto proprio la nozione di magnitudine assoluta o intrinseca) nel 1905 trovò una relazione fra temperatura superficiale
e luminosità delle stelle. Indipendentemente, e senza saper nulla
del lavoro di Hertzsprung, che aveva
pubblicato il suo lavoro in una rivista
non astronomica e in forma semipopolare tanto da passare inosservato,
l’americano Henry Norris Russell arrivò nel 1913 alla stessa conclusione
dell’esistenza di una relazione fra la
luminosità delle stelle, il loro colore e
la loro classe spettrale. ••3
Nacque in questo modo il famoso
diagramma Hertzsprung-Russell o diagramma H-R, il quale evidenzia come
la maggior parte delle stelle si addensi su una retta, chiamata «sequenza
principale», che va dalle stelle più calde e più luminose a quelle più fredde
e più deboli. Il diagramma mostra poi
un’altra regione popolata di stelle ad
alta luminosità e bassa temperatura
come Betelgeuse e Antares. Quindi, le stelle rosse sono divise in due
gruppi ben distinti: uno di alta e uno di bassa luminosità. Dato che,
come sappiamo, a uguale colore corrisponde uguale temperatura,
la differenza in luminosità non può dipendere che da differenza di
dimensioni. Perciò i due gruppi di stelle vengono chiamati «giganti»
e «nane». In seguito sono state introdotte ulteriori suddivisioni: «supergiganti», «subgiganti» e «subnane». Infine, si conosce un altro
gruppetto di stelle di colore bianco o giallastro e di bassissima luminosità, dette «nane bianche»: si tratta di stelle di piccolo diametro e
alta temperatura. Fuori diagramma, ossia molto più in basso e a sinistra, cadrebbero le pulsar, ancora più calde e più piccole delle nane
bianche. Se una nana bianca ha un diametro di circa 10.000 km e
una temperatura superficiale che oscilla intorno ai 50-100.000 °C,
una pulsar, o stella a neutroni, avrebbe un diametro dell’ordine di 10
km e una temperatura che arriva al milione di gradi centigradi. ••4
Determinare il diametro delle stelle è un grosso problema perché
anche i maggiori telescopi ci mostrano soltanto dei punti e non dei
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••3 Relazione
magnitudine-colore.
Nel grafico la magnitudine
assoluta (M) è rapportata
al colore (indice B-V) per
tutte le stelle «vicine»
alla Terra, cioè distanti
meno di 100 parsec. È
evidente che le stelle si
distribuiscono in zone ben
definite del diagramma,
e questo fatto rivela la
presenza di profonde
correlazioni fisiche.
CAPITOLO 4
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••4 Il diagramma di
Hertzsprung-Russell
indica una relazione tra la
temperatura delle stelle e
la magnitudine assoluta.
La distribuzione nel
diagramma H-R consente
di distribuire le stelle
entro differenti classi di
luminosità. Dall’alto verso
il basso, con luminosità
decrescente, abbiamo le
Supergiganti, le Giganti,
la Sequenza principale
(obliqua) e le Nane
bianche. (ESO)
dischetti. Il fisico americano Albert Abraham Michelson, applicando
nel 1930 la tecnica dell’interferometro, riuscì a misurare il diametro
di alcune stelle supergiganti relativamente vicine quali Antares e Betelgeuse: la prima risultò avere un diametro circa 400 volte maggiore
di quello del Sole, e la seconda 2 o 300 volte. Ci si serve anche di
altri metodi, quali l’occultazione di una stella da parte della Luna,
come nel caso di m Geminorum: una gigante rossa di classe spettrale M3, che giace vicino all’eclittica e perciò viene frequentemente
occultata dal nostro satellite. Da queste misure eseguite nel 1974, è
risultato che m Geminorum, ammesso
che si trovi a una distanza di una sessantina di parsec, avrebbe un diametro
81 volte quello del Sole, e perciò abbastanza grande da contenere l’orbita di
Mercurio. Tuttavia, per la maggior parte
delle stelle, si usa un metodo indiretto
basato sulla conoscenza della temperatura e della magnitudine assoluta.
Data la temperatura, la legge di StefanBoltzmann (che dice che la radiazione
emessa da un «corpo nero» a tutte le
lunghezze d’onda per cm2 e per secondo è direttamente proporzionale alla
quarta potenza della temperatura) ci dà
l’energia irradiata dalla stella per cm2 e
per secondo. Dalla magnitudine assoluta si ricava il rapporto fra l’energia irradiata dalla stella e quella irradiata dal
Sole; e quindi è possibile calcolare il diametro della stella prendendo
come unità di misura quello solare. Si trova che esistono stelle con
diametri centinaia di volte più grandi di quello del Sole, e altre con
diametri pari a pochi millesimi del diametro solare. Così i diametri
stellari variano da 10.000 km (o ancora meno per le stelle a neutroni)
a un miliardo e più di chilometri, sebbene la stragrande maggioranza
delle stelle della sequenza principale del diagramma di Russell abbia
diametri compresi fra 0,5 (nane rosse) e 10 diametri solari. ••5
Le masse si possono misurare direttamente soltanto in pochissimi casi, come le stelle doppie di cui si conoscano le orbite e la
distanza. Però, nel 1924 Arthur Stanley Eddington trovò per via
teorica l’esistenza di una relazione fra massa e luminosità: le stelle
di massa maggiore sono anche le più luminose. Si trattava di una
relazione già conosciuta empiricamente sulla base di poche stelle di
cui erano note la massa e la luminosità. Le masse variano entro limiti assai più ristretti dei volumi, passando da circa 0,2 a 50 (e forse
100) volte la massa solare. Di conseguenza, la densità media delle
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giganti rosse risulta dell’ordine di 0,0001
g/cm3, mentre quella delle nane bianche
è di 105 g/cm3. Consideriamo alcuni casi:
il Sole, una stella media, ha una densità
poco maggiore di quella dell’acqua, ovvero 1,41 g/cm3; Antares, una supergigante
rossa, ha una densità pari a un milionesimo di quella dell’acqua; una nana bianca
come la compagna di Sirio, Sirio B, avente
la stessa massa del Sole ma un diametro
appena 4 volte quello della Terra, raggiunge una densità 60.000 volte quella dell’acqua. A queste enormi densità (del resto
ampiamente superate dalle pulsar per non
parlare di alcune specie di «buchi neri»)
il gas che costituisce la nana bianca non
è più un gas perfetto, eccetto che in una
sottile atmosfera che avvolge la stella, ma
si trova in uno stato che il fisico italiano Enrico Fermi chiamò «degenerato».
Il gas in queste condizioni si comporta
più come un metallo solido che come un
gas: a differenza dei gas è altamente conduttivo, e inoltre la pressione è proporzionale a una potenza della densità, mentre
nei gas è proporzionale al prodotto della
temperatura per la densità. Tale proprietà
del gas degenerato ha grande importanza per la comprensione delle ultime fasi
dell’evoluzione delle stelle, come vedremo
più avanti.
ALCUNI TIPI DI STELLE
Si potrebbe pensare che a determinare la
varietà delle stelle sia la loro composizione
chimica, e, infatti, così si credeva alla fine
dell’Ottocento. Vedendo che gli spettri di
certe stelle non avevano le righe dell’elio
e quelle dell’idrogeno erano spesso molto
deboli, si pensava che esse non contenessero elio, che l’idrogeno fosse molto scarso e che invece fossero composte
quasi esclusivamente di metalli, perché
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••5 Confronto fra le dimensioni della Terra e dei
pianeti, rispetto a quelle del Sole e delle stelle. In alto
sono mostrati la Terra (1) e i grandi pianeti (2) del Sistema
Solare; al centro ci sono le normali stelle nane come il Sole
(3) e le stelle giganti (4); in basso le supergiganti (5) e (6).
L’oggetto più grande di ciascuna figura compare come il più
piccolo nella figura successiva. Alcune stelle riportate sono
tra le più luminose del cielo notturno e tutte sono visibili
a occhio nudo, tranne la più piccola (Wolf 359) e la più
grande (VY Canis Majoris) che è molto lontana dalla Terra.
(ADATTATO DA WIKIMEDIA COMMONS)
CAPITOLO 4
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le righe dei metalli erano le più numerose. La scienza dell’astrofisica era nella sua
infanzia, molte leggi non erano state ancora elaborate e di conseguenza quei primi
astrofisici non sospettavano nemmeno di
sbagliarsi in pieno. Infatti, dovevano imparare che lo spettro di un gas non dipende
soltanto dalla sua composizione, ma anche dalla temperatura. Quando nello spettro di una stella mancano le righe spettrali
di un qualche elemento, ciò non vuol dire
necessariamente che quel tale elemento
non sia presente, ma potrebbe significare
che la temperatura della stella è inadeguata a produrre le righe dell’elemento in questione. La verità, dunque, è precisamente il
contrario di come pensavano quegli astrofisici, perché sappiamo che l’idrogeno è
l’elemento di gran lunga più abbondante
dell’Universo: 90% in numero di atomi;
l’elio assomma al 9%, e il restante 1% si
suddivide fra tutti gli altri con il predominio in ordine d’abbondanza di ossigeno,
carbonio, azoto, silicio, ferro e magnesio.
Come si vede, non si può giudicare dalla
composizione attuale della Terra o degli
altri pianeti terrestri, i quali hanno perso
gran parte dei gas leggeri che in origine li
costituivano per motivi a cui abbiamo già
accennato nel capitolo sul Sistema solare.
E allora da cosa dipende la grande varietà delle stelle? Dipende quasi esclusivamente dalla massa, la
quale condiziona l’esistenza di ogni stella, come abbiamo visto
parlando dell’evoluzione stellare. Qui ci soffermeremo su alcuni
tipi di stelle, incominciando da quelle chiamate «binarie» e «multiple». Infatti, si direbbe che le stelle amino la compagnia più che
restare isolate, dal momento che almeno i due terzi delle stelle della nostra Galassia sono binarie o multiple, e inoltre si trovano raggruppate in associazioni, in ammassi chiusi o aperti, in galassie.
Ciò non toglie che, fra stella e stella e fatte alcune eccezioni quali le
«binarie a contatto», si spalanchino di solito immensi spazi, come
fra noi e a Centauri, la stella più vicina al Sole, ma nondimeno
distante circa 4 anni luce.
La vicinanza fra le stelle va dunque intesa in senso astronomico.
È come se delle capocchie di spillo (rappresentanti una stella sin-
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gola o multipla) fossero separate in media da una trentina di chilometri. Distanza che tuttavia si riduce a un decimo nel centro della
Galassia o degli ammassi globulari. In confronto, le distanze fra i
pianeti del Sistema solare sono quasi trascurabili; Per sottolineare
quanto relativa sia la vicinanza delle stelle, diremo che due galassie potrebbero passare l’una attraverso all’altra come un fantasma
attraverso un muro, cioè senza che le stelle dell’una corrano il pericolo d’incappare in una stella dell’altra, ma a scontrarsi saranno
soltanto i gas e le polveri interstellari presenti nelle due galassie. È
facile capire la ragione del raggrupparsi delle stelle se pensiamo
che la gravitazione è la legge dominante dell’Universo. Il più semplice esempio di raggruppamento è dato dalle stelle doppie (o binarie), le quali si distinguono in doppie visuali, doppie spettroscopiche e doppie a eclisse. Le prime sono quelle i cui componenti sono
visibili separatamente con i telescopi. Se ne elencano oltre 64.000
e un esempio è offerto dalla binaria Krueger 60: le due stelle girano
l’una intorno all’altra in un periodo di 44,6 anni. Ma l’esempio, per
così dire, più a portata di mano è a Centauri, la più vicina che si
conosca al Sole (4,3 anni luce) e la terza per luminosità apparen128
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••6 Il sistema di Alfa
Centauri. La stella più
vicina alla Terra è in realtà
un sistema triplo. Le due
componenti principali A e
B sono troppo ravvicinate
per essere distinguibili
in queste immagini, che
invece evidenziano la
componente C, ovvero la
minuscola Proxima. (ESO)
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te. Noi dell’emisfero settentrionale ne parliamo poco perché è ben
visibile soltanto nel cielo dell’emisfero australe, vicina a b Centauri,
che è una stella di magnitudine 0,9, e il loro allineamento serve a
indicare la stella più settentrionale della Croce del Sud.
Studiata per la prima volta da Nicolas-Louis de La Caille nel 1752,
al telescopio si rivela composta di due stelle che orbitano l’una intorno all’altra in un periodo poco superiore a 80 anni. L’orbita è così
eccentrica, che la distanza apparente fra le due stelle varia da 2” a
22” d’arco, corrispondenti a una distanza reale da 11 a 35 U.A. In
altri termini, al periastro la loro distanza è paragonabile a quella di
Saturno dal Sole, mentre all’apoastro sono separate da una distanza
simile a quella intermedia fra Nettuno e Plutone dal Sole. ••6
La magnitudine apparente delle due stelle combinate insieme
è 0,1; separate è 0,3 e 1,7. Tenuto conto della distanza, si trova
che la più luminosa ha quasi lo stesso splendore e colore del Sole.
Infatti, è di tipo spettrale G0, mentre il Sole è di tipo spettrale G2.
L’altra è di colore arancione e di tipo spettrale K5. Inoltre, la massa
della prima è uguale a 1,07 masse solari, e quella della seconda
a 0,92. Ma l’interesse per questa coppia è fortemente aumentato
da quando l’astronomo inglese Robert Innes, studiando nel 1915
la regione di a Centauri, scoprì che la coppia era accompagnata
da una terza componente di 11a magnitudine, situata a 2°13’. Gli
venne assegnato il nome di Proxima Centauri, allorché si credeva
che fosse la più vicina a noi, ma ormai sappiamo che la sua distanza è pressappoco uguale a quella di a Centauri.
Proxima si muove in orbita intorno al sistema principale in un
periodo che certuni stimano intorno ai 367.000 anni, altri fino a
800.000. Comunque, la sua distanza dalla coppia non dovrebbe
essere inferiore alle 6700 U.A. Di classe spettrale M e magnitudine assoluta 15,4, Proxima è una nana rossa che va soggetta a
improvvise fluttuazioni di luce: qualcosa come 52 esplosioni sono
state registrate in un periodo di 25 anni. Sarebbe, quindi, una di
quelle stelle variabili che in inglese si chiamano flare (brillamento),
e in italiano stelle a lampo eruttive. Proxima potrebbe essere anche una radiostella: cioè, in queste occasioni, potrebbe emettere,
come spesso succede al Sole nei suoi periodi di attività, non soltanto onde luminose e ultraviolette, ma anche onde radio.
Un’altra interessante notizia è la ricerca eseguita dall’americano
di origine cinese Su-shu Huang sulla possibile esistenza di pianeti
in un sistema binario come a Centauri. In generale le stelle binarie
o multiple non sono adatte per i pianeti perché, anche se ne possiedono, c’è il pericolo che le perturbazioni gravitazionali esercitate
dall’una o dall’altra stella facciano uscire i pianeti dalle regioni favorevoli alla vita, in cui la temperatura non è troppo alta né troppo
bassa, come nel Sistema solare dove si trovano la Terra e Marte.
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Però Huang sostiene che, in un sistema abbastanza separato,
ogni componente potrebbe avere dei pianeti abitabili. Siccome
in a Centauri non si sono riscontrate perturbazioni apprezzabili è
esclusa la presenza di grossi pianeti, ma non è impossibile che dei
pianeti piccoli esistano intorno a una e forse anche all’altra stella.
Due binarie famose sono Sirio e Procione, perché la scoperta
delle loro compagne inaugurò quella che una volta si usava chiamare «l’astronomia dell’invisibile». Poi questo termine è passato
di moda perché oggi, nell’era spaziale, gran parte della ricerca
astronomica si svolge in domini spettrali al di là e al di qua di quelli
ottici. Con quell’espressione ci si riferiva alla possibilità di scoprire
stelle troppo piccole per essere viste, mediante le perturbazioni
che producevano nel moto della compagna visibile. Nel 1844, infatti, Bessel annunciò che Sirio non aveva il moto proprio uniforme
che caratterizza le stelle singole (per moto proprio si intende lo
spostamento angolare sulla volta celeste dovuto al movimento della stella nello spazio), ma mostrava delle deviazioni; e così anche
Procione. Bessel concluse che dovevano avere delle compagne
invisibili, che in realtà vennero scoperte rispettivamente nel 1862
e 1896. Furono le prime nane bianche osservate. Oggi il metodo
è largamente applicato per scoprire pianeti extrasolari, in orbita
cioè attorno a stelle diverse dal Sole, oltre ad altri metodi di cui
parleremo nel capitolo a essi dedicato.
Le binarie spettroscopiche sono stelle con membri tanto vicini
da apparire singole anche al telescopio, ma non all’analisi spettrografica. In questo caso, a meno che il piano delle orbite non sia ad
angolo retto con la nostra visuale, le stelle orbitanti si avvicinano
e si allontanano dalla Terra, come ci rivelano gli spostamenti delle
righe spettrali dovute all’effetto Doppler. Diciamo in breve di cosa
si tratta. Quando una sorgente acustica o luminosa si allontana e
si avvicina all’osservatore, questi riceve onde di lunghezza d’onda maggiore o minore di quelle emesse all’origine. Ne consegue
che le righe spettrali di una stella in moto rispetto all’osservatore
verranno spostate verso il rosso o verso il violetto a seconda che
la stella si allontani o si avvicini. A differenza delle galassie, per
le stelle si tratta di regola di spostamenti minimi. Una stella che
si allontana da noi a 100 km/s avrà le sue righe spostate verso il
rosso di circa 1 Angstrom (unità di misura della lunghezza pari a
1/10.000.000.000 di metro). Un grosso pianeta, come vedremo
alla fine di questo capitolo, provoca spostamenti ancora minori,
ed è pertanto grazie alle moderne tecniche che si è cominciato a
scoprirli solo a partire dal 1995.
La prima binaria spettroscopica venne scoperta da Edward
Charles Pickering nel 1889. Si trattava di Mizar nell’Orsa Maggiore, che già era conosciuta come una doppia fin dal 1650, quando
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••7 SS Leporis è
una stella di «tipo
Algol», che è stata
osservata direttamente
con l’interferometro
dell’ESO. Gli interferometri
impiegano un insieme
di telescopi multipli o
mobili, su distanze di
decine o centinaia di
metri, riuscendo così a
superare il limite storico
dei telescopi singoli per
i quali le stelle, a causa
dell’enorme distanza,
appaiono sempre
puntiformi.
A sinistra: si vedono
le due componenti
separate e anche il flusso
di gas che le collega
(i colori sono aggiunti
artificialmente). Questa
straordinaria immagine
conferma un secolo di
studi teorici. A destra:
ricostruzione di come
dovrebbe apparire la
stella binaria SS Leporis
osservandola da vicino.
(ESO)
Giovan Battista Riccioli l’osservò col suo cannocchiale. Ora Pickering trovava mediante lo spettroscopio applicato a un telescopio
che la stella più brillante della coppia era una coppia a sua volta.
Diciannove anni dopo, nel 1908, Edwin Brand Frost scopriva che
anche la stella più debole di Mizar era una binaria, e così pure
Alcor. Sicché, quando si guarda verso l’Orsa Maggiore, si deve ricordare che in mezzo alla coda dell’Orsa Maggiore ci sono 6 stelle:
le 4 che formano il sistema di Mizar, e le due di Alcor.
Binarie spettroscopiche sono le famose Algol, Capella, Castore
e Spica. La prima di queste è anche una binaria a eclisse. Cioè,
la sua orbita, rispetto alla nostra visuale, è orientata in modo tale
che le stelle componenti si eclissano a vicenda, e perciò noi osserviamo una periodica e regolare variazione di luce. Algol, che si
trova in Perseo, era chiamata dagli Arabi la Stella Demone, e dagli Ebrei Testa di Satana, oppure Lilith: il nome della leggendaria
moglie di Adamo, prima della creazione di Eva. Il fenomeno della
sua variabilità venne notato per la prima volta scientificamente
da Geminiano Montanari (professore di astronomia e matematica
nelle Università di Bologna e Padova) che in un suo libro accenna ad Algol, la cui variabilità aveva incominciato a osservare a
partire dal 1668. Fu uno studio che lo interessò moltissimo in
quanto contribuiva a dare un colpo mortale all’antica credenza
dell’incorruttibilità dei cieli. Le osservazioni di Montanari vennero
confermate da Giacomo Filippo Maraldi nel 1694 e poi da Palitzch, lo scopritore della cometa di Halley, ma John Goodricke fu
quello che per primo annunciò una stima abbastanza precisa del
suo periodo, e avanzò anche l’ipotesi che un compagno «oscuro», orbitante ad altissima velocità intorno alla stella primaria,
producesse l’eclisse. ••7
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Nato in Olanda, a Groninga nel 1764, venne educato in Inghilterra dove morì a soli 22 anni, il 20 aprile 1786. Goodricke era
sordomuto, ma riuscì a essere una specie di astronomo prodigio e,
con Montanari, il capostipite di quella legione di astronomi dilettanti
e professionisti che sono i «variabilisti». La curiosità di scoprire la
variabilità delle stelle, nei primi tempi doveva sembrare particolarmente peccaminosa. Il 12 novembre del 1782, Goodricke scriveva:
«Stanotte ho osservato b Persei, e sono rimasto assai sorpreso di
trovarla di splendore diverso – circa di 4a magnitudine e non di
2a –. L’ho seguita attentamente per quasi un’ora e non credevo a
me stesso che variasse di luminosità, perché non ho mai udito di
alcuna stella che cambiasse così rapidamente di splendore. Ho
pensato che forse dipendesse da un’illusione ottica, un difetto dei
miei occhi, o dalla turbolenza atmosferica: ma la sequenza mostra
che cambia davvero e io non mi sbagliavo…»
Egli continuò a studiarla finché fu visibile, e comunicò il risultato delle osservazioni alla Royal Society in data 15 Maggio 1783,
con una lettera che gli valse una medaglia da parte della Società
medesima. Il periodo trovato inizialmente da Goodricke: 2 giorni,
20 ore, 45 minuti, venne poi corretto da lui stesso in 2 giorni, 20
ore, 49 minuti e 9 secondi, molto vicino a quello vero. Alla fine di
questo periodo, la luminosità di Algol scende dalla magnitudine
2,20 alla magnitudine 3,47 (un indebolimento di circa 3 volte). È
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••8 Epsilon Aurigae viene
parzialmente occultata ogni
27 anni da una compagna
oscura, con un’eclisse che
dura ben 2 anni.
A sinistra: In base all’eclisse
del 1982-84, il fenomeno è
stato riprodotto al computer
ipotizzando un disco ad
anelli, visto obliquamente.
(S. FERLUGA)
A destra: durante l’ultima
eclisse del 2009-2011, il
disco oscuro che avanza
obliquamente davanti alla
stella è stato osservato
dal vero, utilizzando un
interferometro.
(CHARA, J.MONNIER)
un’eclisse che dura per quasi due ore. Si è dimostrato che il sistema è costituito da una primaria di tipo spettrale B8, avente un
diametro 3 volte quello del Sole e una temperatura superficiale di
15.000 K, e una compagna molto meno luminosa di tipo spettrale
K0, una temperatura di 5800 K e un diametro del 20% più grande
della primaria. I centri delle due stelle sono separati da 21 milioni
di km, pari a poco più di un terzo della distanza media fra il Sole
e Mercurio. Una terza stella di tipo F2 orbita intorno alla coppia
in un periodo di 1,87 anni. Si chiama Algol C e si deduce da un
certo numero di sottili righe visibili nello spettro del sistema; ma ci
sarebbe anche una quarta componente, Algol D, che secondo l’astrofisico americano Olin Jenck Eggen sarebbe un corpo con una
massa 3,8 volte quella del Sole, e orbiterebbe intorno al sistema
in 188,4 anni.
Goodricke, che sembra sia morto per una malattia contratta in
conseguenza del freddo e dell’umidità a cui si era esposto durante
le sue osservazioni notturne, aveva suggerito che, oltre ad Algol,
anche b Lyrae e d Cephei fossero variabili spiegabili allo stesso
modo, cioè con dei compagni orbitanti intorno alla loro primaria,
secondo quelle leggi gravitazionali scoperte da Newton più di un
secolo prima, e che ancora non si sapeva se fossero da ritenersi
valide anche al di fuori del Sistema solare. Goodricke aveva ragione, ma non poteva certo immaginarsi la complessità del sistema di
b Lyrae che presenta un periodo di 12 giorni, 22 ore e 22 minuti,
che aumenta di 10 secondi all’anno. È composta da una B8 e
da una secondaria di massa maggiore ma invisibile, o per essere
completamente nascosta da un anello di gas che fuoriesce dalla
primaria oppure perché all’interno di questo anello di gas esiste
una di quelle stelle di massa superiore ad almeno 5 volte la massa
del Sole, che collassando diventano «buchi neri».
Come Algol, anche b Lyrae è visibile a occhio nudo, con una
magnitudine apparente che oscilla fra 3,4 e 4,3. Quasi come e
Aurigae, un caso eccezionalmente interessante sia perché fra le
variabili a eclisse è quella che ha il periodo più lungo: 27,1 anni,
con un’eclisse che dura circa 2 anni; sia perché mentre alcuni pensavano che la compagna fosse un’enorme gigante rossa
e l’eclisse causata dalla sua estesa atmosfera, altri cercavano di
spiegare certe caratteristiche dello spettro che apparivano durante
l’eclisse con la presenza di una stella molto più calda ma molto
piccola da non essere visibile. Insomma, era uno dei tanti problemi che gli astronomi speravano di risolvere quando sarebbero stati
disponibili telescopi spaziali. ••8
E così è stato. Le osservazioni fatte col satellite per l’osservazione
dell’ultravioletto IUE (International Ultraviolet Explorer), non osservabili da Terra perché assorbite dall’atmosfera, hanno mostrato la
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presenza di una compagna molto calda,
la cui luce diventa predominante nell’ultravioletto, o forse di una coppia di stelle
calde e molto vicine fra loro, responsabile
delle caratteristiche spettrali che appaiono durante l’eclisse, mentre osservazioni
nell’infrarosso indicano la presenza di un
esteso disco di polveri che sarebbe responsabile dell’eclisse, forse una nebulosa proto planetaria attorno alla compagna
(o alla binaria) calda.
I periodi delle binarie a eclisse vanno
da un minimo di 80 minuti come nel caso
di WZ Sagittae, ai 27 anni di e Aurigae, ma
più di frequente sono di due o tre giorni.
Si capisce intuitivamente che quando il
periodo è di 80 minuti, le stelle sono a
contatto e sono piccole. Ma un sistema
a contatto è anche b Lyrae che ha un periodo di 13 giorni, ed è costituita da due
componenti molto massicce. Se il nostro
Sole fosse a contatto con una di queste
stelle, viaggerebbe intorno alla compagna
in un periodo di circa 6 ore, e sia il Sole
che la compagna sarebbero stelle molto
deformate dalle reciproche forze mareali.
Si «mangerebbero» l’una con l’altra finché fra le due non venisse ristabilito un
certo equilibrio gravitazionale, ma alla fine
di questo processo, entrambe sarebbero
diventate del tutto diverse. È un destino non troppo raro. Si calcola
che una su mille sia una stella binaria di questa specie. ••9
POPOLAZIONI STELLARI E STELLE GIOVANI E VECCHIE
Al principio del 1900, la maggioranza degli astronomi riteneva che
le stelle doppie, quasi come le cellule biologiche che si suddividono per cariocinesi, nascessero dal suddividersi di una singola
stella in rapidissima rotazione. Del resto Sir George Howard Darwin, secondo figlio del celebre Charles Darwin, pensava che anche
la Luna si fosse separata dagli strati più superficiali della Terra
in modo simile. Dopo Darwin, a estendere queste idee alle stelle
fu il non meno famoso astronomo inglese James Jeans, autore
anche di popolarissimi libri. Però, se l’ipotesi di Jeans spiegava il
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••9 Beta Lyrae è stata
osservata nel 2007 con
l’interferometro del CHARA
(un allineamento di 6
telescopi distanti fino a 350
metri sul sito astronomico
del M. Wilson), riuscendo
a distinguere per la prima
volta le due componenti a
contatto, che nei normali
telescopi apparivano
confuse in un puntino.
A sinistra: immagini
interferometriche di Beta
Lyrae in movimento. A
destra: il modello geometrico
che meglio riproduce le
osservazioni. (CHARA)
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caso delle binarie spettroscopiche, non spiegava le binarie visuali
che hanno le componenti molto separate fra loro. In seguito, si
levarono critiche anche per l’origine singola delle binarie spettroscopiche, col risultato che ora si tende a pensare che le binarie
di tutti i tipi nascono come nascono le stelle singole e gli ammassi
stellari dalla condensazione gravitazionale di grandi nubi di gas
e polveri interstellari. Arthur Stanley Eddington mostrava che a
causa della pressione di radiazione (la stessa che contribuisce a
piegare la coda delle comete, ma che all’interno delle stelle, dove
la temperatura è di milioni di gradi, raggiunge decine di milioni di
atmosfere) la massa delle stelle non può superare certi limiti pari a
50 o 100 masse solari. Quindi, una nube interstellare che ha una
massa di migliaia o centinaia di migliaia di masse solari si deve
necessariamente condensare in un gran numero di stelle separate. Eddington, scrive: «La forza di gravitazione raccoglie insieme la
materia nebulare e caotica; la forza della pressione di radiazione
la spezzetta in blocchi di più convenienti dimensioni».
Come abbiamo già visto, nella nostra Via Lattea, gli astronomi
individuano, in ordine di densità di stelle, gli ammassi globulari,
gli ammassi aperti e le associazioni. Gli ammassi globulari sono,
come dice il nome, gruppi di stelle compatti e di forma approssimativamente sferica, situati nell’alone galattico, avente un raggio
di circa 50.000 anni luce. Essi differiscono dagli ammassi aperti
per l’età molto maggiore delle stelle che li compongono (superiore
ai 10 miliardi d’anni) e per la scarsa quantità se non la mancanza
assoluta di polveri e gas. Un ammasso globulare può contenere
decine o centinaia di migliaia e anche qualche milione di stelle,
tanto che nelle fotografie si vede che la regione centrale dell’ammasso, avente un diametro di pochi anni luce, è così densa da
sembrare una «marmellata» di stelle. Ma è soltanto un’impressione dovuta alla scintillazione perché le stelle sono molto più definite
e isolate dell’immagine che producono sulla lastra fotografia o sul
rivelatore elettronico. Ammettendo che al centro di un ammasso
globulare la densità delle stelle sia 1500 volte più grande che nelle
vicinanze del Sole, dove la distanza media fra le stelle si calcola
sia di circa 7 anni luce, al centro dell’ammasso la distanza media sarà allora di 0,6 anni luce (40.000 U.A.). Qui a un ipotetico
abitante di un pianeta situato nel cuore dell’ammasso, anche una
stella supergigante con un diametro 1000 volte quello del Sole e
distante 0,6 anni luce, apparirebbe con un diametro angolare di
50”, un valore al di sotto del potere risolutivo dell’occhio nudo che
è di circa 1’ e perciò come un punto e non una superficie estesa.
Si consideri che il diametro angolare è l’angolo sotto cui dalla Terra
si vede un corpo celeste, è dato dal suo diametro lineare diviso
per la distanza, ed è espresso in radianti. Per passare da radianti
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a secondi d’arco occorre moltiplicare per il numero di secondi
contenuti in un radiante, che è 206266.
Ben Bova, Anatole Boiko, Arthur Clarke, Patrick Moore, James
Stokley, scrittori di fantascienza, divulgatori scientifici, astrofili e
naturalmente anche astronomi si sono divertiti a immaginare che
aspetto avrebbe il cielo visto da un ipotetico pianeta al centro di un
ammasso globulare. Non tutti hanno dimostrato d’avere idee precise e nemmeno verosimili, fantasticando di un cielo letteralmente
tappezzato di stelle senza nemmeno un briciolo di spazio nero
fra loro, e quindi peggio di quello ipotizzato da Olbers quando si
chiese perché di notte fa buio. Oppure con stelle così vicine come
i pianeti del nostro Sistema solare; ovvero separate soltanto da ore
luce invece che anni luce. Nel primo caso, il pianeta vaporizzerebbe in un fiat trovandosi come al centro di un’immensa fornace di
energia radiante; nell’ultimo, supponendo che la distanza media
delle stelle fosse di 7 ore luce, si avrebbero circa 2 miliardi di stelle
per anno luce cubico, invece che una stella per ogni 30 anni luce
cubici come nelle vicinanze del Sole.
La realtà, al centro di un ammasso globulare anche dei più densi, si arguisce che deve essere – come dire? – un po’ più fresca,
e come accennato sopra, alquanto meno affollata. Però è vero
che gli abitanti di quell’ipotetico pianeta non conoscerebbero la
notte, ma al suo posto ci sarebbe una luce crepuscolare, e stelle
come Sirio, che è la più luminosa del nostro cielo e ha una magnitudine apparente di -1,6, sarebbero a malapena visibili affogate
nello sfondo del cielo. Dunque, non la notte ma il crepuscolo si
alternerebbe a un giorno 1000 volte più luminoso, supposto che a
produrre quest’ultimo fosse una stella uguale al Sole.
Arriverà mai un tempo in cui delle sonde terrestri toccheranno
qualcuno dei circa 200 ammassi globulari che orbitano intorno al
centro galattico? Per esempio, M3 nella costellazione dei Cani da
caccia che raggruppa 500.000 stelle, oppure 47 Tucanae, o w
Centauri: quest’ultimo, riconosciuto per primo da Edmund Halley
nel 1667 durante un viaggio all’isola di Sant’Elena, è distante dalla
Terra 15.000 anni luce. Per dare un’idea di queste distanze e delle
difficoltà di una simile avventura, riporteremo un bell’esempio di
Boiko. Immaginiamo un popolo di microbi di dimensioni molecolari, abitanti un seme di papavero che essi chiamano Terra, che
siano riusciti a invadere un seme di tabacco, la «Luna», distante
poco meno di 4 cm. Dopo la Luna, e lanciando delle particelle
submicroscopiche dette «navi spaziali», supponiamo che riescano
a superare distanze di decine di metri e visitare altri semi battezzati
come Venere, Marte, ecc. Immaginiamo infine che gli abitanti del
seme di papavero coi loro potenti telescopi, osservino oggetti che
essi chiamano stelle, nessuno dei quali è più vicino di 6,5 km,
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CAPITOLO 4
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••10 L’ammasso
globulare Omega
Centauri contiene diversi
milioni di stelle ed è uno
dei maggiori nel suo
genere. (ESO, INAF, A.GRADO)
mentre il meno lontano degli ammassi globulari si troverebbe a
15,6 milioni di km. Poiché quest’ultima distanza equivale a un
quarto della distanza che ci separa dal vero pianeta Venere, si
dovrà ammettere l’insufficienza del nostro esempio, e concludere
che nessun modello rapportato a una singola scala ci può fare
intuire la distanza che passa fra noi e un ammasso globulare. ••10
Perché gli ammassi globulari sono «lassù», e circondano come
una nube sferica di moscerini quella specie di disco rigonfio al
centro, che è la Galassia? Si trovano in periferia, perché si formarono dalle nubecole distaccatesi per prime da quella grande nube
che, ruotando sempre più veloce e schiacciandosi, diede origine
alla ruota galattica. È per questo motivo che le stelle degli ammassi
globulari sono più vecchie di tutte le altre, e perciò anche delle
stelle che si trovano negli ammassi aperti, i quali invece sono situati
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in prossimità del piano galattico, salvo eccezioni come l’ammasso
aperto nella Chioma di Berenice.
Ben noti sono l’ammasso aperto delle Pleiadi, quello delle ladi
(una decina di gradi a Sud-Est delle Pleiadi) e quello del Presepe
conosciuto anche come «nido d’api», tutti visibili a occhio nudo.
Se ne conoscono quasi 500, costituiti alcuni da una ventina di stelle soltanto, altri da qualche centinaio e anche un migliaio. L’ammasso aperto dell’Orsa Maggiore contiene tutte le stelle di questa
splendida costellazione, eccetto a ed h, e, nonostante sembri molto sparpagliato per la sua vicinanza, forma un gruppo abbastanza
compatto e di piccole dimensioni. È circondato da un vasto alone
o corrente di stelle che una volta gli appartenevano e che include
Sirio, b Aurigae e altri due ammassi. Vi si trova in mezzo anche il
Sole, pur non appartenendo a esso. ••11
Stelle ancora più giovani, e immerse in nuvole di polveri e gas,
si trovano nelle associazioni stellari, chiamate così perché sono
raggruppamenti di stelle ancora meno legate fra loro di quelle degli ammassi aperti, e anzi tendenti a disperdersi. Ne abbiamo un
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••11 L’ammasso
aperto doppio nella
costellazione di Perseo
dista 7.000 anni luce
dalla Terra, mentre le
due componenti sono
separate da circa 100
anni luce. Si nota una
grande abbondanza di
giovani stelle azzurre dei
tipi O e B. Le stelle gialle
sono «stelle di campo»,
che si trovano per caso
lungo la linea della visuale
davanti all’ammasso.
(NOAO, AURA, NSF)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:47
••12 Popolazioni stellari
nella galassia NGC 2976.
Non è una fotografia
sgranata, ma un’immagine
ad alta definizione ottenuta
dal Telescopio Spaziale,
dove ogni puntino
rappresenta una singola
stella a 12 milioni di anni
luce di distanza da noi.
Le stelle azzurre sono di
Popolazione I, quelle rosse
sono principalmente di
Popolazione II. (NASA, ESA,
J.DALCANTON, B.WILLIAMS)
esempio nell’associazione z Persei, costituita da luminose stelle
azzurre nate appena 1 o 2 milioni d’anni fa. Un’altra associazione
è nella ultrafamosa nube di Orione, dove si osservano stelle che
si pensa stiano ancora formandosi e appartenenti al tipo detto T
Tauri. Fra i raggruppamenti si possono infine ricordare le nubi
stellari formate di gas, polveri e milioni di stelle sempre molto giovani, come quelle che si estendono quasi ininterrottamente da
Cassiopea al Cigno, al Sagittario, verso e intorno al centro galattico.
Tutti questi raggruppamenti di stelle vecchie e giovani, dalle differenti forme, caratteristiche e collocazione, hanno fatto giungere
alla conclusione che le stelle si possono dividere, come abbiamo già
accennato nel capitolo tre, in almeno due popolazioni principali: la
Popolazione I, più giovane e addensata sul piano galattico, caratterizzata dalle luminose stelle azzurre O e B; e la Popolazione II, sparsa
ovunque nella Galassia, ma caratterizzata soprattutto dalle stelle degli ammassi globulari. Più tardi ci si accorse che queste due Popolazioni si distinguono anche per la composizione chimica, dato che le
stelle di Popolazione Il sono da 10 a 500 volte più povere di elementi
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più pesanti di idrogeno ed elio, che per brevità vengono detti tutti
«metalli», di quelle di Popolazione I. In realtà, si ha tutta una serie
di Popolazioni intermedie fra la Popolazione II estrema o dell’alone
galattico e le giovanissime stelle immerse nelle braccia spirali della Via Lattea, che gli astronomi chiamano: Popolazione dell’alone,
Popolazione II intermedia, Popolazione del disco o Popolazione I
Vecchia, alla quale appartiene il Sole, e Popolazione I estrema. ••12
Storicamente, la scoperta di differenti Popolazioni stellari risale
al 1942 quando Walter Baade, fotografando col telescopio da 250
cm di Monte Wilson la nebulosa di Andromeda, riuscì a risolvere
le stelle del nucleo e a constatare che erano di colore rosso a differenza di quelle dei bracci spirali che erano blu.
Quindi, fu osservando una galassia esterna alla nostra che ci si
accorse delle differenze di distribuzione, colore ed età delle stelle
della Via Lattea. Da notare che la scoperta fu favorita dalla guerra.
Infatti gli Stati Uniti erano entrati in guerra e per timore di possibili
bombardamenti da parte dei tedeschi, a Los Angeles vigeva il più
completo oscuramento. Fu così che Baade poté fare esposizioni
abbastanza lunghe da osservare anche i più deboli dettagli della
galassia di Andromeda, senza che la luce diffusa della città velasse
la lastra. Oggi il telescopio di Monte Wilson è reso quasi inutilizzabile per le luci di Los Angeles e anche il 5 metri di Monte Palomar
è molto disturbato dalle luci di San Diego.
LE STELLE SON BELLE PERCHÉ VARIE
Come fra gli uomini e le società, anche fra le stelle la variabilità
è un segno di estrema giovinezza o estrema vecchiaia; o di accidenti vari, quale per esempio «una cattiva compagnia», se così
vogliamo definire il caso delle binarie strette. E, infatti, guardando
il diagramma di Hertzsprung-Russell, vediamo che le variabili si
trovano tutte al di fuori di quella regione di stabilità ed età media,
che è la sequenza principale. La variabilità di queste stelle non è
dovuta quindi a eclissi, ma è intrinseca: dipende da cambiamenti
nell’interno o nell’atmosfera delle stelle medesime.
E tutte le stelle, a parte gli incidenti «sociali» a cui si è precedentemente accennato, attraversano questo periodo al principio e
alla fine della loro vita.
Ma ci sono anche differenze di variabilità. Esistono variabili regolari e irregolari. Le regolari sono dette così perché la variazione di luminosità, dovuta al loro pulsare, si ripete con estrema regolarità come
con le famose Cefeidi e RR Lyrae e le notissime pulsar. ••13-14
Le Cefeidi hanno periodi da 1 a 50 giorni e appartengono alle
supergiganti gialle; le RR Lyrae hanno periodi inferiori a un giorno
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CAPITOLO 4
13/04/12 17:47
••13 Variazioni
periodiche delle Cefeidi.
A. Variazione di raggio:
il raggio minimo
corrisponde al colore più
bianco.
B. Variazione di colore:
colore più bianco significa
temperatura più alta.
C. Variazione di
luminosità: il massimo
si ha nella prima parte
dell’espansione.
D. Variazione di velocità
superficiale: velocità
negativa equivale a
espansione.
••14 Relazione fra
luminosità e periodo
delle Cefeidi.
Si evidenziano 3 tipi di
variabili pulsanti regolari,
con diverse relazioni
periodo-luminosità: le
Cefeidi classiche, le W
Virginis e le RR Lyrae.
e sono giganti bianche; le pulsar, più che pulsare, vibrano con
periodi da 3 centesimi di secondo a poco più di un secondo con
fantastica precisione. Sono state chiamate pulsar da Pulsating Radio Source, perché emettono radioonde. ••15
Oltre alle suddette, molte altre giganti rosse e supergiganti variano notevolmente di luminosità (e dimensioni); ve ne sono di regolari, semiregolari e del tutto irregolari con grande e piccola ampiezza
di variazione. Irregolari sono le stelle come R Coronae Borealis che,
dopo deboli fluttuazioni di mesi o anni, improvvisamente «impallidiscono» di 5 o 6 magnitudini per giorni o settimane. Ma le più note
sono forse le stelle tipo T Tauri e le stelle eruttive, come la nostra
vicina di casa Proxima Centauri. La particolarità delle stelle eruttive
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è che, contrariamente a quanto si affermava prima, appartengono
alla sequenza principale delle stelle che dovrebbero vivere una vita
tranquilla e invece… soffrono di agitazioni e lampeggiano. Alcune
con notevole energia, altre debolmente. Si pensa si tratti di fenomeni come le tempeste solari e anzi, da questo punto di vista, anche il
nostro Sole può essere considerato una stella eruttiva. Invece, le T
Tauri esibiscono variazioni sporadiche, che in parte potrebbero essere estrinseche, in quanto prodotte per una specie di interazione
con le nebulosità che sempre le circondano.
Immerse in nubi di polveri e gas, le T Tauri si trovano in gruppi molto numerosi, e quindi è verosimile siano nate da queste
nubi come sostenuto dall’astronomo sovietico Viktor Amazaspovic
Ambarcumian e dall’americano George Howard Herbig. A questo
punto è opportuno tracciare un rapido quadro dell’evoluzione delle
stelle che ci darà modo di approfondire anche alcuni argomenti
che abbiamo già accennato nelle pagine precedenti, quali il medium interstellare (polveri e gas), oltre che parlare di novae e supernovae, delle nebulose planetarie fino alle pulsar e ai buchi neri.
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••15 Una Cefeide
«storica». Misurando il
periodo di questa Cefeide,
la V1 nella galassia di
Andromeda, fu calcolata
per la prima volta (tramite
la relazione periodoluminosità) la distanza di
una galassia esterna alla
Via Lattea. Nei riquadri,
vediamo le variazioni
riprese dal Telescopio
Spaziale Hubble. Le
Cefeidi rappresentano
tuttora la chiave di volta
per determinare la scala
cosmica delle distanze.
(NASA-HST, ESA, R.GENDLER)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:47
EVOLUZIONE E MORTE DELLE STELLE
L’evoluzione di una stella e la durata della sua vita dipendono dalla
sua massa e composizione chimica. Tuttavia, in generale, la sequenza dei vari stadi evolutivi è quasi la medesima per tutte le
stelle, mentre cambia molto la durata dei singoli stadi in quanto la
vita è molto più breve per una stella di grande massa che per una
di piccola. Bisogna anche premettere che è improbabile che le
stelle si formino singolarmente, ma è verosimile che nascano in associazioni o famiglie di decine e centinaia di membri, come si vede
negli ammassi. Tutto incomincia da quelle «nuvole nere» di polveri
e gas che si vedono concentrate nelle braccia spirali della Galassia,
specie nella direzione del Sagittario, ma anche in Orione e altre
nebulose, nelle quali, a partire dal 1963, sono state trovate con i
radiotelescopi decine di molecole sia organiche sia inorganiche.
Soffermiamoci sulla Nebulosa Trifida del Sagittario o su quella
di Orione illuminata dal famoso gruppo del Trapezio, al quale fa
da sfondo una estesa nuvola di monossido di carbonio con una
massa 100.000 volte quella del Sole. ••16
Il suo stesso peso potrebbe farla collassare e suddividere in
nuvole di 500-1000 masse solari, cioè in quel che sembra sia un
tipico ammasso aperto; oppure alcune stelle si potrebbero formare
rapidamente in qualche parte della nube, disperdendo il resto per
il calore che le stelle producono nascendo, e il «vento» che emettono proprio come fanno le T Tauri. Martin Harvit e Kris Davidson
hanno dato il nome di «stella o nebulosa in bozzolo» (Cocoon Star,
Cocoon Nebula) a certe stelle apparentemente giovani nascoste in
nubi di idrogeno e finissime polveri che collassarono per formarle.
Siccome la loro luce non può penetrare attraverso le polveri,
e dato che le prime fasi delle stelle giovani non producono radio emissioni, questi oggetti sono inizialmente osservabili soltanto
nell’infrarosso. Perché le stelle emergano da un simile involucro
occorre qualche decina di migliaia d’anni. Tali bozzoli contengono
stelle fino a 100 volte più massicce del Sole.
Una stella nasce quindi da una condensazione di gas. Condensandosi sotto l’azione della sua stessa gravità, il gas si riscalda.
A un certo momento la temperatura al centro raggiunge i 10-12
milioni di gradi assoluti, necessari a innescare la reazione nucleare
che trasforma l’idrogeno in elio. Si stabilisce allora quello che si
chiama un equilibrio fra la forza di pressione (che tenderebbe a
far espandere il gas nello spazio interstellare e a far disperdere la
massa di gas) e la forza di gravitazione (che invece tenderebbe a
far collassare il gas al centro). La forza di pressione è dovuta all’agitazione termica delle particelle: quindi, quando la temperatura è
sufficientemente alta, l’agitazione delle particelle serve a sorregge-
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re il peso della massa sovrastante; la temperatura, cioè l’agitazione
termica, è mantenuta alta dalle reazioni nucleari che avvengono
regolarmente nell’interno.
Quando l’idrogeno s’è trasformato tutto, abbiamo un nucleo
inerte di elio. La temperatura non è sufficiente a innescare il bruciamento dell’elio. Il nucleo tende a raffreddarsi, l’agitazione termica delle particelle diminuisce e non è più sufficiente a sorreggere
il peso della massa sovrastante. La stella comincia a collassare,
a condensarsi, e condensandosi si riscalda, perché quando un
gas si comprime la sua temperatura aumenta. La condensazione
continua finché la temperatura al centro è sufficientemente alta
per innescare il bruciamento dell’elio.
Se la stella ha una grande massa (10-20 volte quella del Sole), è
in grado di innescare in fasi successive tutta una serie di reazioni
nucleari. Vediamo prima questo caso, e poi la morte di stelle di
massa simile al nostro Sole.
In una stella di grandi dimensioni, quando l’elio è consumato, il
nucleo si raffredda di nuovo, la stella si condensa finché la temperatura è sufficientemente alta perché il carbonio possa trasformarsi in ossigeno, e così via. Attraverso questi successivi bruciamenti
e condensazioni si arriva a un punto in cui la parte centrale, il
nocciolo della stella, è costituito da nuclei di ferro. I nuclei di ferro,
alle temperature centrali di qualche miliardo raggiunte dalla stella
in queste condizioni, si possono trasformare in elio.
In tutte le reazioni delle fasi precedenti si è verificata produzione
di energia, perché la massa dei nuclei iniziali era maggiore della
massa dei nuclei prodotti; questa differenza di massa si trasforma
in energia. Nel caso del ferro invece succede il contrario. Un nucleo di ferro dà luogo a 13 nuclei di elio più 4 neutroni. La massa
totale del prodotto della reazione è un po’ più grande di quella dei
nuclei di ferro, per cui la reazione, invece di produrre energia, ha
bisogno di energia che viene sottratta dalla massa grande e calda
della stella. La trasformazione del ferro in elio ha un effetto refrigerante e al centro della stella la temperatura cala bruscamente: dai
10 miliardi di gradi a cui si verifica la reazione ferro-elio, crolla a
un centinaio di milioni di gradi. Un brusco abbassamento di temperatura vuol dire anche una brusca diminuzione della velocità di
agitazione termica delle particelle: è come se al centro della stella
si fosse improvvisamente creato il vuoto.
Tutta la massa di gas sovrastante precipita verso il centro che
viene compresso a enormi densità, dando origine a una stella a
neutroni, in cui elettroni e protoni danno luogo a neutroni «stabili»
(si consideri che in condizioni normali il neutrone è una particella
instabile con una vita media di circa 15 minuti). Più la massa della
stella originaria è grande, più l’evento è drammatico: i nuclei di
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CAPITOLO 4
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••16 La Nebulosa
Trifida M 20 (NGC
6514), una nebulosa
diffusa composta di gas
surriscaldati, osservabile
nella costellazione del
Sagittario. (NOAO)
stelle molto massicce si trasformano addirittura in buchi neri (sui
quali torneremo nelle prossime pagine). Per quanto riguarda, invece, gli strati più esterni, in cui si trovano materiali come idrogeno
ed elio in grado di produrre energia, durante il collasso si riscaldano tanto da innescare una gran quantità di reazioni nucleari, nel
corso delle quali si formano tutti gli elementi che conosciamo sulla
Terra, dall’idrogeno all’uranio.
La stella, in quest’ultima parte della sua vita, si trasforma in una
vera e propria bomba nucleare. Tutta la materia viene scagliata
nello spazio, ma resta il nocciolo della stella a neutroni (o il buco
nero) che può avere un diametro di due o tre chilometri ed è un
pallino estremamente denso, milioni di miliardi di volte la densità
dell’acqua. Invece la materia scagliata nello spazio interstellare si
espande. Questo fenomeno è un’esplosione di supernova, nella
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quale la stella aumenta di splendore centinaia di milioni di volte
nel giro di poche ore, così che noi vediamo apparire una stella là
dove prima non si vedeva niente. Le supernovae sono le principali
responsabili dell’evoluzione chimica della galassia che le contiene,
dando luogo a un progressivo aumento della percentuale di elementi più pesanti di idrogeno ed elio. ••17
La morte di stelle di massa più piccola, invece, è quieta. In una
stella di piccola massa (com’è il nostro Sole) che abbia esaurito
l’idrogeno, la materia al centro dopo il primo collasso, a causa
dell’aumento di densità è in una condizione particolare, per cui
si comporta come un solido: la pressione esercitata dal gas non
dipende più dalla temperatura. Difatti normalmente la velocità d’agitazione termica del gas produce la pressione che controbilancia
la forza di gravità. Questo è vero quando il gas si comporta come
un gas perfetto. Invece il gas al centro delle stelle di piccola massa
(più piccola del Sole), che hanno già esaurito l’idrogeno, si trova in
una condizione che si definisce degenere e si comporta come un
solido. Un solido, per esempio un tavolo, caldo o freddo che sia,
oppone sempre la stessa resistenza a una spinta esterna; non è
che scaldandolo eserciti una pressione più forte di quando è freddo. La stella non potendo contrarsi, non potrà nemmeno riscaldarsi e quindi innescare la reazione elio-carbonio. Avrà esaurito le
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••17 La nebulosa del
Granchio è il residuo
dell’esplosione di una
supernova, registrata dagli
astronomi cinesi nove
secoli or sono. In questa
immagine multibanda
sono rappresentate con
colori codificati anche
le radiazioni invisibili
all’occhio umano. Raggi
X (in blu), infrarossi (in
rosso) e luce visibile (in
verde) sono stati ripresi
da tre diversi telescopi
spaziali: rispettivamente
Chandra, Spitzer e
Hubble. (NASA, JPL, ESA)
CAPITOLO 4
13/04/12 17:48
••18 La nebulosa
planetaria Elica
(NGC7293) nella
costellazione
dell’Aquario. Questa è
la nebulosa planetaria
più vicina alla Terra,
trovandosi a 650 anni
luce da noi. (NOAO/HST)
sue fonti di energia nucleare, o meglio non potrà sfruttare tutte le
fonti di energia nucleare di cui potrebbe disporre se avesse una
massa più grossa. La stella si raffredderà lentamente e diventerà una nana bianca, cioè una stella di piccole dimensioni che in
tempi lunghissimi si trasformerà in nana nera. Le nane nere non
irraggiano più perché si sono raffreddate.
Prima di passare alla fase di nana bianca, le stelle un po’ più
grosse, come il Sole, hanno un comportamento un po’ più complicato, subiscono un’espansione degli strati esterni che si raffreddano. La stella diventa una gigante rossa.
Ma come mai passa attraverso la fase di gigante rossa? Prendiamo il caso del nostro Sole. Esso ha un’età di circa 5 miliardi di anni e
ha trasformato in elio circa la metà dell’idrogeno nel suo centro, alla
temperatura di 13 milioni di gradi. Fra circa altri 5 miliardi di anni il
centro del Sole conterrà solo nuclei di elio, che alla temperatura di
13 milioni di gradi è inerte, non in grado di trasformarsi in carbonio.
Il centro privo di «combustibile nucleare» comincia a raffreddarsi,
la forza di pressione del gas diminuisce e la gravità prende il sopravvento, comprimendo il gas del centro che si riscalda fino a una
temperatura di circa 100 milioni di gradi e l’elio si trasforma in carbonio. L’energia nucleare liberata cresce rapidamente al crescere
della temperatura. Il Sole diventa una centrale nucleare che produ-
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ce enormemente più energia di prima. Per irraggiare tutta l’energia
prodotta senza esplodere, il Sole deve espandersi, aumentando il
suo raggio di quasi 200 volte, fino a inghiottire Mercurio e Venere
e lambire l’orbita della Terra che diventerà un pianeta torrido e
deserto. L’espansione raffredda gli strati più esterni del Sole, la sua
temperatura superficiale scende dagli attuali circa 6000 gradi a più
o meno 3000 e il suo colore da giallastro diventa rossastro: il Sole è
diventato una gigante rossa. Il suo centro è ormai di gas degenere,
e quando tutto l’elio si sarà trasformato in carbonio non potrà più
contrarsi per sfruttare altri combustibili nucleari.
L’esteso inviluppo rarefatto andrà lentamente evaporando nello
spazio interstellare, formerà un guscio attorno al caldo nocciolo
centrale e si avrà la fase di nebulosa planetaria. Questa non ha
niente a che fare con i pianeti, ma fu chiamata così per l’aspetto
simile a un dischetto che nei modesti telescopi di una volta la rendeva simile all’immagine di un pianeta. ••18-19
La differenza di comportamento fra il Sole e stelle di massa più
piccola dipende dal fatto che lo stato di gas degenere viene raggiunto a densità tanto più basse quanto più bassa è la temperatura
centrale che a sua volta è tanto più bassa quanto più piccola è la
massa della stella. Per questo stelle molto più grosse, 10 o 20 volte
la massa del Sole, non diventano mai degeneri e terminano la loro
vita esplodendo come supernove.
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••19 Nebulosa Occhio
di Gatto (NGC 6543).
Le nebulose planetarie
altro non sono che uno
stadio evolutivo stellare
successivo a quello di
nova. (NASA)
CAPITOLO 4
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NOVAE, SUPERNOVAE, PULSAR E BUCHI NERI
Abbiamo seguito l’evoluzione delle stelle dalla nascita alla morte.
Ora cerchiamo di guardare più da vicino quello che accade e nelle
supernovae e nelle novae, che si manifestano in modo simile pur
essendo prodotte da cause molto diverse.
Il nome di nova fu dato dagli antichi a stelle che apparivano
improvvisamente là dove prima nessuna stella era visibile, pensando che si trattasse dell’apparizione di una nuova stella. Oggi
sappiamo che si tratta di fenomeni esplosivi che avvengono in particolari tipi di stelle. Le stelle novae aumentano improvvisamente
di splendore anche di 100.000 volte. In alcuni casi molto più rari
si assiste ad aumenti di splendore anche di miliardi di volte, e in
tal caso si parla di supernovae. Le cause che producono le novae
sono nettamente diverse da quelle che producono una supernova.
Si sono osservati vari tipi di novae: novae lente, che impiegano
molti mesi per tornare allo splendore che avevano prima dell’esplosione; novae rapide che invece impiegano giorni; novae ricorrenti, di cui si sono osservate più esplosioni.
Si può dire che ogni nova ha caratteristiche sue proprie, anche
se, probabilmente, tutte sono membri di stelle binarie, contenenti
una nana bianca e una compagna molto vicina. L’esplosione avviene quando la compagna comincia a evolvere verso la fase di
gigante rossa e i suoi strati superficiali ricchi di idrogeno formano il
cosiddetto disco di accrescimento attorno alla nana bianca, prima
di caderci sopra spiralando. L’idrogeno trasferito dalla compagna
sulla nana bianca, può far sì che la massa della nana bianca superi il cosiddetto limite di Chandrasekhar, pari a 1,44 masse solari,
limite massimo che un gas degenere può sostenere senza collassare. Quando viene raggiunto questo limite l’idrogeno a contatto
con la superficie della nana bianca dà luogo a reazioni nucleari
che provocano un aumento di splendore di circa 100.000 volte in
pochi giorni, esplosioni che espellono nello spazio i prodotti delle
reazioni. La temperatura alla superficie può raggiungere parecchi
milioni di gradi, dato che il gas degenere si comporta come un metallo ed è altamente conduttivo, per cui la temperatura superficiale
diventa eguale a quella dell’interno.
In media ogni anno nella Galassia esplodono 25 novae, quindi
è un fenomeno molto più frequente delle supernovae, che sono in
media circa tre in un millennio, ma liberano ciascuna un’energia
pari a un milione di volte quella liberata da una nova. ••20
È stato negli Anni Trenta che astrofisici e fisici come Fritz Zwicky
e Lev D. Landau e Robert J. Oppenheimer hanno dimostrato che
le stelle più massicce non si fermano allo stadio di nana bianca.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che queste grandi stelle,
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anche dopo varie contrazioni e innesco di
vari combustibili nucleari restano sempre
formate di gas perfetto, e che l’esito della
reazione ferro-elio, facendo scendere bruscamente la temperatura centrale da 10
miliardi a 100 milioni di gradi, fa sì che tutta la massa stellare crolli sotto il suo stesso
peso con tale forza che le loro particelle
subatomiche, quali protoni ed elettroni, si
condensano in neutroni e così strettamente che l’equivalente di due o più masse
solari giunge a occupare un volume che a
stento tocca un diametro di 20 o 30 km.
Abbiamo visto che questa situazione
porta a un’esplosione di supernova, mentre una piccola frazione della massa originale della stella collassa, trasformandosi
in una stella a neutroni, che spesso avvistiamo come una pulsar. Dai dati storici attualmente disponibili risulta che nel corso di 1500 anni si sono verificate sette gigantesche
esplosioni stellari di cui oggi sono osservabili i resti. L’esempio più
noto lo troviamo nella costellazione del Toro, e più precisamente
nella Nebulosa del Granchio, scoperta nel 1731 da John Bevis e
poi indipendentemente da Charles Messier nel 1758.
Questa pulsar nella Nebulosa del Granchio venne individuata per caso da Jocelyn Bell, una dottoranda di Anthony Hewish,
nell’agosto del 1967. Dapprima non si capiva cosa fosse, e nell’eccitamento di quegli anni per le ricerche di civiltà extraterrestri,
si pensò che fosse un segnale artificiale indirizzato anche a noi
terrestri. Poi si capì che doveva essere una di quelle stelle a neutroni preconizzate da Zwicky. Ruotando intorno al proprio asse in
1/30 di secondo, emette 30 radio-impulsi e altrettanti lampi di luce
ogni secondo. Un’altra pulsar si trova nella Gum Nebula (dal nome
dell’astronomo australiano Colin S. Gum) nella costeIIazione della
Vela. Oggi si conoscono alcune centinaia di pulsar. ••21
È probabile che la maggioranza delle stelle con massa superiore
a 3 volte quella del Sole concludano come pulsar la loro evoluzione, ma non è detto che avvenga sempre così. Si conoscono,
infatti, delle stelle molto grosse che perdono massa con continuità:
qualora giungano a ridursi a meno di 3 masse solari, non c’è bisogno che entrino in crisi esplodendo come supernovae e finendo
come pulsar. Si trasformeranno invece in nane bianche, come fa
la maggior parte delle stelle.
D’altra parte, stelle più grosse di 3 masse solari e incapaci per
qualche ragione di espellere dalle loro atmosfere abbastanza gas
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••20 Cassiopea A è
un residuo di supernova
con intensissima
radioemissione. Sebbene
l’esplosione sia avvenuta in
epoca storica, non vi sono
cronache che attestino il
fenomeno. L’immagine è
una sovrapposizione di
raggi X (in blu), infrarossi
(in rosso) e luce visibile (in
giallo), ripresi dai telescopi
spaziali Chandra, Spitzer
e Hubble. La nebulosa
Cassiopea A si trova a
11.000 anni luce da noi.
(NASA, ESA, HST)
CAPITOLO 4
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••21 La nebulosa Velo.
Si tratta di un residuo
di supernova esplosa
tra 5.000 e 10.000
anni fa, ormai quasi
completamente disperso
nello spazio. Sono messi
in evidenza alcuni dettagli
studiati dal Telescopio
Spaziale. (NASA, ESA, HUBBLE)
per raggiungere quel limite di massa che s’è detto, possono imboccare un cammino evolutivo ancora più complesso e drammatico. Dopo essere esplose come supernovae, diventano ancora più
dense delle stelle di neutroni. Il campo gravitazionale di una stella
collassata fino a questo punto è tanto grande da trattenere anche
la luce e le altre radiazioni elettromagnetiche e perciò non è più
possibile né vederla coi nostri telescopi né udirla con i radiotelescopi: è diventata un «buco nero». Il solo modo di individuarlo è
cercare di scoprire gli effetti gravitazionali che esercita sulle stelle
vicine. Lo stato della materia in un buco nero supera di gran lunga
anche le condizioni estreme che si trovano nelle stelle a neutroni,
poiché un buco nero con una massa uguale a quella del Sole
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avrebbe un diametro di appena 6,4 km. Gli astronomi credono che
una stella di questo tipo si trovi nella costellazione del Cigno: è una
sorgente di raggi X, costituita da una binaria, di cui la componente
maggiore (l’invisibile buco nero, ma causa indiretta della radiazione X) avrebbe una massa 8 volte più grande di quella del Sole.
Da quanto abbiamo appena finito di dire, sembrerebbe che i
buchi neri siano la tomba definitiva delle stelle di grossa massa e
che un buco nero sia come un pozzo gravitazionale dove tutto può
entrare e nulla può uscire. Tuttavia, nuove ricerche teoriche hanno
portato alla conclusione che anche i buchi neri evolvono, si consumano ed esplodono. Inoltre potrebbero esistere buchi neri di ogni
massa, come i mini o micro buchi neri, che, secondo i teorici, si
sarebbero potuti formare subito dopo il Big-Bang in certe sacche
di altissima densità, ed è probabile anche l’esistenza di grossi buchi neri, con masse di milioni o miliardi di masse solari, al centro
delle galassie, come nel caso della nostra Via Lattea.
MESSER LO FRATE SOLE
Come annunciato in apertura del capitolo, parliamo ora del Sole,
la stella a noi più vicina e l’unica studiata in dettaglio. Francesco, il
Poverello d’Assisi, amante di Dio e di tutto il creato e le creature, lo
chiamava così: «Messer lo frate Sole…» Si cominciò a sapere che
era una stella soltanto ai tempi di Newton, e chissà se riusciremo
mai ad arrivare nelle vicinanze di un’altra stella, per vederla come
un disco e non più come un punto. Intanto sappiamo che il Sole
brilla di una luce quasi gialla perché ha una temperatura superficiale di circa 6000 gradi Kelvin (K), alimentata da una fornace atomica situata al centro dove la temperatura raggiunge i 13 milioni
di gradi K. In questa fornace, 564 milioni di tonnellate di idrogeno
vengono trasformate ogni secondo in 560 milioni di tonnellate di
elio. La differenza, 4 milioni di tonnellate, è la quantità di materia
irradiata sotto forma di energia per secondo. ••22
Per quanto tempo brillerà ancora in questo modo? Dato che
la massa del Sole è 333.000 volte quella della Terra, e ammesso
che il Sole fosse composto interamente di idrogeno, se tutta la sua
massa si trasformasse in elio, seguiterebbe a risplendere per circa
100 miliardi d’anni. Però, tenuto conto che il Sole è composto di
idrogeno per circa 2/3 della sua massa, e che le reazioni nucleari
possono avvenire solo nel nucleo contenente il 10% dell’intera
massa, il tempo di durata del combustibile idrogeno si riduce a
circa 8 miliardi d’anni.
Ma da quanto tempo il Sole risplende come oggi? I fossili terrestri ci suggeriscono che ha continuato a irradiare in modo costan152
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••22 Il Sole
fotografato in diverse
bande spettrali. Sopra:
nelle radioonde e nella
luce H-alfa. Al centro: in
luce visibile. Sotto: raggi
ultravioletti e raggi X dal
satellite Soho. (NASA)
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te all’incirca durante gli ultimi 3,5-4 miliardi d’anni. Ciò significa
che la nostra stella è tuttora abbastanza giovane e seguiterà così
ancora per almeno altri 5 miliardi d’anni prima di passare a più
avanzate e irrequiete fasi evolutive di gigante rossa e poi di nana
bianca, come abbiamo già spiegato.
Il Sole è molto più complesso di come ci appare, e per accorgersene basta osservarlo a diverse lunghezze d’onda, con vari tipi di
strumenti. Nel visibile noi vediamo il Sole quasi fosse delimitato da
un «guscio» detto fotosfera, e durante le eclissi totali (cioè quando
la Luna passa fra la Terra e il Sole al momento della Luna Nuova)
si rivela circondato da una corona perlacea, di forma e dimensioni
variabili. Però, se i nostri occhi fossero sensibili alle onde radio, il
Sole ci apparirebbe più grande di quello «ottico» e non rotondo,
ma ellittico.
Costituito essenzialmente da una palla di gas, la sua densità media è 1,41 volte quella dell’acqua, ma al centro tocca le 80 volte.
Il diametro solare è di circa 1.392.000 km, il che rappresenta il
doppio del diametro dell’orbita lunare. Il Sole ruota su se stesso, facendo un giro in media in 25,4 giorni; tuttavia, il periodo di rotazione
varia con la latitudine, ed è di 24,9 giorni all’equatore solare e di 34
giorni in prossimità dei poli. Anzi, ci sono novità al riguardo, perché
si sospetta che questa rotazione subisca variazioni anche in rapporto al ciclo delle macchie solari. Infatti, Robert Howard ha constatato
che dal 1967 la rotazione solare all’equatore è passata da 7200 a
7600 km/h, ma deve trattarsi di un fenomeno limitato alla fotosfera,
perché se coinvolgesse gli strati più profondi, richiederebbe enorme
dispendio di energie. Tale accelerazione si crede prodotta dai campi
magnetici originati all’interno del Sole che, emergendo a velocità
maggiore dei gas circostanti, agiscono come pagaie.
La fotosfera, il cui spessore si stima sui 400 km, appare formata
di granuli brillanti, intervallati da zone scure, nelle quali, quando il
Sole è disturbato, si formano come dei «pori», che possono moltiplicarsi e ingrandirsi diventando «macchie». Queste sono costituite
da un nucleo centrale detto «ombra», circondato da un’aureola
grigiastra chiamata «penombra»; l’ombra è più scura perché la
temperatura è di circa 4000 K assoluti, rispetto ai circa 6000 della
fotosfera. Correlate alle macchie, abbiamo poi le «facole», dette anche «flocculi brillanti», simili a nubi filamentose. Sede di importanti
correnti di materia, le macchie sono anche luoghi di forti campi
magnetici; e la loro comparsa e scomparsa è un fenomeno oltremodo variabile. Esse si spostano dal bordo Est al bordo Ovest in circa
13 giorni, e il loro numero aumenta da un minimo a un massimo,
ritornando quindi a un minimo in circa 11 anni. Alle macchie vanno
associati fenomeni, come esplosioni di gas con espulsione di particelle ad alta energia, e radioemissioni.
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CAPITOLO 4
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••23 Fotografia della
corona solare ripresa
durante l’eclissi del 1°
agosto 2008. Si possono
osservare i pennacchi (o
getti) coronali. (A&A)
Di solito il nuovo ciclo undecennale si
sovrappone in parte al vecchio: quando
cominciano ad apparire le macchie ad alta
latitudine caratteristiche del nuovo ciclo,
si osservano ancora nascere macchie del
vecchio ciclo in prossimità dell’equatore
solare. In realtà, è soltanto dal 1715 che
abbiamo incominciato a contare i cicli solari, ed è soltanto dal 1843 che Heinrich
Schwabe confermò l’esistenza approssimativa del periodo undecennale. Negli
anni seguenti la scoperta delle macchie
(nel 1611), si verificarono due massimi
alla distanza di 15 anni, e poi l’attività solare decrebbe a un livello bassissimo fino
al 1715, tanto che per questi settant’anni
di inattività (1645-1715) la corona solare,
che è riscaldata in larga misura dalla frizione e dall’agitazione delle regioni attive del
Sole, non venne mai osservata. Quando
nel 1715 ripresero fenomeni quali le aurore boreali, causate appunto dall’attività
solare, destarono a Stoccolma e a Copenhagen la più grande meraviglia e paura.
Al di sopra della fotosfera, si trova l’atmosfera solare che ha una
massa stimata sulle 1017 tonnellate, e cioè uguale alla ventimiliardesima parte dell’intera massa del Sole. In realtà, essa rappresenta soltanto pochi grammi di materia per ciascuna colonna di
atmosfera solare di un cm2 di base. L’atmosfera solare si distingue
in cromosfera e corona. ••23
La cromosfera (così chiamata dal colore rossastro dovuto all’emissione dell’idrogeno) ha uno spessore di circa 10.000 km, ed
è composta da lingue di gas, dette «spicole», che la fanno assomigliare a una prateria infocata, e da «protuberanze» consistenti
in getti di gas che dalla cromosfera si slanciano verso l’esterno, e
assumono le forme più diverse. Le protuberanze sono associate
quasi sempre alle zone di attività solare; però mentre le macchie
non appaiono mai a latitudini maggiori di 50°, le protuberanze si
presentano ovunque e dalle zone polari tendono a migrare lentamente verso latitudini più basse. La corona, che avviluppa la
cromosfera e che si presenta come un’aureola argentea intorno al
disco solare, con dei getti che si estendono per parecchi raggi solari, è un’altra specie di atmosfera estremamente tenue e di struttura eterogenea. Essa si compone di polveri (corona F), elettroni
e ioni (corona K) e la sua temperatura è compresa fra 500.000 e
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1.000.000 di gradi, tanto che gli atomi si trovano in uno stato fortemente ionizzato ossia mancanti di numerosi elettroni. La corona
solare non ha limiti precisi, ma si estende, secondo alcuni, oltre
l’orbita terrestre, immergendosi e confondendosi con la materia
interplanetaria. Inoltre, ricordiamo il flusso di particelle cariche
espulso senza interruzione dal Sole a velocità comprese fra i 300
e gli 800 km/s: è il «vento solare», che possiamo considerare un
prolungamento o un’espansione della corona. Concludiamo con
un cenno sull’attività solare e le relazioni Sole-Terra. Nel 1942,
i radar di guerra captarono casualmente le prime radioonde di
origine solare. Oggi si studiano con radiotelescopi a lunghezze
d’onda che vanno da pochi millimetri a una ventina di metri: le più
corte vengono emesse in prevalenza nella parte più bassa delle
cromosfera, le più lunghe nella corona. Durante i periodi di calma
solare, intorno al minimo di macchie, la forza delle radioemissioni corrisponde a quella che ci si può aspettare da un corpo alla
temperatura della cromosfera e della corona. Ma quando il Sole è
attivo e sono numerose le macchie e i brillamenti, cresce anche
l’emissione radio con bruschi aumenti di intensità (le radiotempeste) che si sovrappongono alle ordinarie radioonde. In questi
casi si pensa che dai brillamenti vengano espulsi getti di protoni
e altre particelle a velocità di migliaia di chilometri al secondo, disturbando nello spazio di pochi secondi i gas ionizzati della corona
e raggiungendo la Terra 24 ore dopo, dove producono tempeste
magnetiche, aurore boreali ecc.
PIANETI EXTRASOLARI
Dall’antichità fino a pochi decenni fa, gli unici pianeti conosciuti
erano quelli del Sistema solare e questo per molti secoli ha rappresentato un caso unico, il centro dell’Universo. Quando si è cominciato a comprendere la natura fisica delle stelle, e che il Sole era
una stella comunissima fra miliardi di altre, conseguentemente si
è cominciato a ritenere probabile l’esistenza di altri sistemi planetari. In realtà, già Giordano Bruno scriveva: «Esistono innumerevoli soli, innumerevoli terre ruotano attorno a questi similmente a
come i sette pianeti ruotano attorno al nostro sole». E aggiungeva:
«Questi mondi sono abitati da esseri viventi».
Il primo pianeta extrasolare, in orbita cioè attorno a una stella
diversa dal Sole, è stato scoperto solo nel 1995 da due astronomi svizzeri, Michel Major e Didier Queloz. Si supponeva che altre
stelle, forse tutte, avessero dei pianeti, perché il Sole è una stella
comunissima, e non c’era alcuna ragione di ritenere che avesse
una speciale particolarità. Oggi si pensa che, quando si forma una
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CAPITOLO 4
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••24 Le stelle vicine al
Sole entro un volume con
raggio di 20 anni luce. Vi
troviamo numerose stelle
ben conosciute, nonché
alcuni possibili sistemi
planetari extrasolari.
stella, si formi contemporaneamente anche una nebulosa proto
planetaria da cui poi avranno origine i pianeti. Non è però facile
scoprirli, non solo perché sono come «affogati» nella luce della
loro stella, ma anche perché perfino i più lontani dal loro sole sono
visti dalla Terra a una distanza angolare troppo piccola per essere
risolta dai nostri telescopi. Supponiamo per esempio che Proxima
Centauri abbia un pianeta alla distanza che ha Plutone dal Sole.
Per calcolare la sua distanza angolare, dovremmo dividere la distanza Sole-Plutone, pari a 5870 milioni di km, per la distanza
di Proxima Centauri da noi, pari a 4,22 anni luce, ossia 40.000
miliardi di km. Si trova così un angolo di 1,46 decimillesimi di
radiante pari a 30 secondi d’arco: pur avendo considerato il caso
di gran lunga più favorevole, il pianeta sarebbe comunque difficilmente visibile nascosto dal fulgore della stella. E la maggioranza
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delle stelle si trova a decine, centinaia, migliaia di anni luce da noi.
Nel caso di una stella a 100 anni luce da noi, la distanza angolare
di un pianeta che abbia da questa stella la distanza che Plutone
ha dal Sole sarebbe inferiore al millesimo di secondo d’arco. ••24
In realtà, tutti i pianeti extrasolari scoperti fino a oggi sono stati individuati in maniera indiretta, rilevando cioè i disturbi che il pianeta
produce al moto della stella a causa della sua attrazione gravitazionale, oppure – quando la nostra visuale giace sul piano dell’orbita
– rilevando la minima, ma misurabile, diminuzione di luce che avviene tutte le volte che c’è un transito del pianeta davanti alla stella.
Due telescopi in orbita attorno alla Terra, Kepler della Nasa e
Corot dell’agenzia spaziale francese, osservando automaticamente milioni di stelle, hanno misurato periodiche diminuzioni di luce
dovute a transiti. Con questi metodi sono stati scoperti fino a oggi
parecchie centinaia di pianeti extrasolari. In gran parte sono grossi
come e più di Giove, orbitano molto vicino alla loro stella e quindi
hanno temperature troppo alte per ospitare la vita. Più i pianeti
sono grandi e vicini alla stella, maggiore è il disturbo che provocano al suo moto, e per questo è molto più facile scoprirli rispetto
a pianeti piccoli come la Terra, ma non per questo dobbiamo dubitare che esistano anche miliardi di pianeti come il nostro. È in
progetto, da parte dell’Osservatorio Europeo dell’emisfero australe
(ESO), un grande telescopio al suolo, di circa 40 metri di diametro,
che dovrebbe essere in grado di scoprire pianeti come la Terra e
fornircene delle immagini.
Un altro metodo per scoprire pianeti extrasolari si basa sulla
teoria della relatività. Einstein aveva previsto che anche la luce
fosse soggetta all’attrazione gravitazionale e una massa come per
esempio quella di una galassia frapposta fra noi e una galassia più
lontana funzionerebbe come una lente ottica facendo convergere i raggi provenienti dalla galassia lontana e dandone una o più
immagini virtuali, a seconda dell’allineamento tra l’osservatore, la
«galassia lente» e la galassia lontana. Ci sono numerose osservazioni di queste immagini date da lenti gravitazionali. Ma anche una
singola stella può agire da lente. Supponiamo che ci sia perfetto
allineamento fra una stella lontana, una stella più vicina agente da
«microlente» e l’osservatore. La microlente fa convergere la luce
proveniente dalla stella lontana che viene intensificata. L’osservatore noterà l’aumento di splendore della stella: poiché osservatore,
stella lente e stella lontana sono tutti in moto relativo l’uno rispetto
all’altro l’allineamento dura poche settimane. Se poi la stella lente è accompagnata da uno o più pianeti, anche questi agiranno
da micro-microlente e l’osservatore noterà altri minori aumenti di
splendore della stella lontana della durata di poche ore. Con questo metodo si sono scoperti una diecina di pianeti.
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CAPITOLO 5
L’ORIGINE
DELL’UNIVERSO:
TEORIE E FATTI
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L
a cosmologia studia le origini e l’evoluzione dell’Universo e cerca di elaborare modelli sempre più
coerenti in grado di spiegarne il passato, il presente e il futuro.
Il cielo ha da sempre suscitato la curiosità degli
uomini: credo che già i nostri lontani progenitori cavernicoli si interrogassero su quei puntini luminosi che vedevano in cielo, e sul perché il Sole e la Luna si alternassero fra il giorno
e la notte. Testimonianza di questo interesse per la natura sono i
bellissimi graffiti trovati sulle pareti delle caverne, che dimostrano
come gli uomini di quei tempi fossero osservatori molto attenti.
In epoche successive lo studio del cielo diventa più sistematico:
tutti i popoli antichi – in occidente (greci, romani…), in oriente (babilonesi, fenici, cinesi…), in America (maya, atzechi, toltechi…)
– avevano una propria cosmogonia, cioè una teoria sulla nascita
e sulla struttura dell’Universo. Queste teorie si basavano su dati
osservativi (anche sorprendentemente accurati, dati i rudimentali
strumenti dell’epoca), ma naturalmente inglobavano anche religione, mitologia e filosofia. Per fare un esempio, basta ricordare
che gli antichi greci e i romani ponevano nel cielo i loro dèi. Giove,
Saturno, Venere, Mercurio erano dèi e le costellazioni rappresentavano le gesta degli eroi: il cielo e la Terra erano strettamente
connessi, e il cielo interferiva con le vicende degli umani.
ANTICHE E NUOVE INTUIZIONI
Eppure già nel V secolo a.C. Leucippo e Democrito ebbero un’intuizione dell’Universo che potremmo definire sorprendentemente
moderna. Affermarono che l’Universo era costituito di innumerevoli
atomi (in greco «indivisibile») distribuiti in un vuoto di estensione
infinita. Gli atomi erano costituiti di una sostanza «primaria» universale e differivano l’uno dall’altro solo per forma e dimensione.
Le sensazioni di colore, suono, sapore, tatto, odore non erano una
proprietà delle cose, ma qualità di natura secondaria originatesi
negli organi di senso. Democrito affermava che il colore, il dolce,
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l’amaro sono tutte convenzioni, in realtà esistono solo gli atomi e
il vuoto. Tutto il resto è illusione. Queste idee, pur così simili alle
nostre conoscenze attuali, erano comunque concezioni filosofiche,
costruzioni della mente. La conoscenza scientifica oggi si basa
sull’osservazione e sull’esperimento; le ipotesi più astratte e fantasiose, prima di poter essere chiamate teorie, sono sottoposte a
riprove sperimentali.
Nel corso della storia, il legame tra studio scientifico del cielo,
religione e filosofia si consolida: il modo di vedere e interpretare l’Universo (o quello che si sapeva sull’Universo) diventa l’espressione
della cultura del tempo e da questa viene influenzato. Questo legame verrà spezzato soltanto agli inizi del Novecento, con la scoperta
dell’espansione dell’Universo e quindi la nascita di una cosmologia
basata sull’osservazione. È da allora che i dati osservativi ci hanno
consentito di dare un’interpretazione fisica dell’Universo e quindi
di elaborare una cosmologia moderna.
La cosmologia è dunque, contemporaneamente, una scienza antichissima e recente. Facciamo quindi una breve carrellata storica.
Quello che sappiamo della nostra Galassia, delle galassie esterne e dell’Universo nel suo insieme presenta ancora molti interrogativi, sebbene appaia incredibile il cammino percorso sulla via
della conoscenza e come i moderni strumenti a Terra e dallo spazio l’abbiano accelerato. Infatti, è indubbio che abbiamo costruito
fondamenta ben più solide delle spalle di Atlante, e della tartaruga
su cui i cosmologi indiani poggiavano il mondo. ••1
Come è noto, tra coloro che stabilirono queste basi fu Galileo,
il quale nel Seicento fu il vero iniziatore della scienza moderna,
basata sulla deduzione delle leggi generali dell’Universo a partire
da osservazioni ed esperimenti, anziché da idee preconcette di
natura filosofica o religiosa. Prima di allora le idee di Aristotele avevano fortemente influenzato il mondo antico fino al Rinascimento e
oltre. Per il filosofo greco i corpi celesti erano addirittura di materia
diversa da quella terrestre, quelli più lontani della Luna erano immutabili ed eterni, e le orbite dei pianeti dovevano assolutamente
essere circolari, essendo il cerchio e la sfera figure geometriche
perfette. Questi e altri dogmi aristotelici furono smentiti da Galileo e da Keplero. Quando, nel 1610, Galileo rivolse al cielo il suo
modesto cannocchiale, scoprì sulla superficie lunare montagne,
pianure e crateri come quelli che osserviamo sulla Terra; dimostrò che la nova apparsa nel 1604 non era un oggetto sublunare,
ma, pur essendo variabile, apparteneva alla cosiddetta «sfera delle
stelle fisse», e risolse una volta per sempre la natura della Via Lattea, scoprendo che era fatta da innumerevoli stelle.
In seguito, si cominciò a studiare come queste stelle si muovessero e quante fossero, anche se nessuno ancora pensava fosse
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CAPITOLO 5
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••1 La Via Lattea
all’infrarosso. Poiché
ci troviamo all’interno
del disco galattico in
posizione periferica,
se guardiamo la parte
centrale della nostra
Galassia essa ci appare
vista di taglio. Il suo
aspetto è identico a una
qualsiasi altra galassia
a spirale, vista di taglio.
(2MASS, CARPENTER-SKRUTSKIEHURT)
possibile conoscerne struttura e composizione chimica. Quando
Galileo scoprì i quattro maggiori satelliti di Giove, pensò di aver
trovato un Sistema solare in miniatura e con esso la prova evidente
che era la Terra, insieme alla Luna, a orbitare attorno al Sole e non
viceversa. Circa negli stessi anni, Keplero, basandosi sulle accurate osservazioni dei pianeti fatte dal suo maestro Ticho Brahe,
enunciò le leggi che mettono in relazione il periodo di rivoluzione
dei pianeti con le loro orbite di forma ellittica, e non circolare come
voleva il dogma aristotelico.
Il filosofo francese Auguste Comte, che verso il 1850 sognava
di trasformare la Terra «in un giardino dell’Eden disseminato di
templi a Newton», è anche famoso per aver sostenuto che la separazione fra la Terra e le stelle non sarebbe mai stata colmata,
e che sarebbe stato impossibile conoscere la loro temperatura e
composizione chimica. «Lasciate perdere – diceva – le teorie cosmologiche. Il Sistema solare è l’unico soggetto di conoscenza.
Studiare le stelle è soltanto un lusso da curiosi, e gli astronomi che
ormai le osservano da quasi un secolo (si riferiva a Fraunhofer,
Bessel e Herschel) cominciano a essere giustamente sospettati di
fare cose frivole e irrazionali».
Invece, numerosi progressi sono stati fatti nei quasi due secoli che ci separano da queste affermazioni di Comte. Grazie alla
spettroscopia, cioè la scomposizione della luce bianca nelle sue
componenti monocromatiche, siamo riusciti a conoscere la loro
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composizione chimica, a sapere come e perché le stelle brillano
ed evolvono. Abbiamo imparato i segreti del «fuoco nucleare» che
le alimenta, forse né più né meno tremendi dei segreti del fuoco
di legna che migliaia di anni fa imparammo ad accendere e conservare nei templi e nelle capanne. È da meno di un secolo che
abbiamo capito che la Via Lattea non è tutto l’Universo, ma che
al di là della nostra esistono miliardi di altre galassie, che ruotano,
hanno forme e dimensioni differenti, si raggruppano in enormi ammassi all’interno di uno spazio che sta continuamente dilatandosi.
Tutte insieme formano un Universo che sembra insondabile, e che
tuttavia misuriamo e pesiamo proprio in base ai moti e all’attrazione reciproca che le galassie e gli ammassi galattici esercitano l’uno
sull’altro. In realtà, fra materia visibile e non visibile, si ritiene che
l’Universo abbia una massa di circa 1055 grammi; e una densità
stimata fra 10-29 e 10-31 g/cm3. ••2
Ma all’inizio che accadde? All’inizio esplose una «palla di fuoco».
Sembra un’espressione inventata da un artificiere, ma riassume le
conclusioni dei cosmologi contemporanei sull’origine dell’Universo e giustifica perché questo Universo sia stato chiamato violento
e lo si continui a vedere popolato di astronomici mostri. La si potrebbe considerare la versione scientifica di quello stupendo terzo
versetto della Genesi: «Disse Dio: “Si faccia la luce”. E la luce fu».
Lo comprese alla perfezione il pacifico canonico di Lovanio, George Lemaître, ingegnere e matematico, che prima di diventare
sacerdote aveva servito come artigliere nella guerra del 1915-18.
Forse è proprio da attribuirsi a quest’ultima attività bellica, oltre
che alla scoperta di Edwin Powell Hubble della «fuga delle galassie», che a lui per primo nel 1931 venne l’idea dell’Universo
nato da una specie di superbomba, battezzata «atomo primitivo e
quasi un isotopo di un neutrone». Come accordare meglio di così
scienza e ortodossia, ragione e fede?
Ma cosa c’era prima? In uno dei suoi libri, George Gamow scrive
che non si può dire niente al riguardo di un’epoca «che si dovrebbe
giustamente chiamare “era agostiniana” perché fu Sant’Agostino
d’Ippona a chiedersi che cosa facesse Dio avanti di creare il cielo
e la Terra». Evitando di ribattere come quel tale di cui si racconta
che, eludendo scherzosamente la difficoltà della domanda, rispose: «Preparava l’inferno per coloro che voglion scrutare gli arcani»,
Agostino afferma che «Dio prima di creare il cielo e la Terra, non
faceva nulla. E invero se faceva qualche cosa, poteva fare altro che
una creatura?» Oggi i filosofi sosterrebbero che questo è un «falso
problema» e gli scienziati aggiungerebbero che non ha significato
chiedersi che cosa ci sia stato prima della «grande esplosione»:
sarebbe come arzigogolare che cosa c’è a Nord del Polo Nord.
Analogamente, non ha senso chiedersi dove questa grande
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CAPITOLO 5
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••2 L’ammasso di galassie
nella costellazione della
Vergine. Questa è la parte
centrale di un enorme
superammasso, attorno
a cui orbita in estrema
periferia anche la nostra Via
Lattea. Nella parte superiore
dell’immagine si nota un
allineamento di galassie
quasi a contatto, detto
Catena Markarian, mentre
tutta la zona è dominata da
tre galassie ellittiche giganti,
da sinistra a destra: M87,
M86 e M84. (BIG PIC, PALOMAR
QUEST TEAM, CALTECH)
esplosione sia avvenuta, perché non era un oggetto isolato nello
spazio, ma era l’Universo intero, anche se puntiforme, e perciò la
sola risposta possibile è che era dappertutto. Quindi, non si deve
pensare che la «palla di fuoco» esplosa con il Big Bang fosse paragonabile a una supernova, perché non c’erano confini e un centro
dell’Universo non esisteva allora come non esiste oggi.
Una delle cose più importanti da ritenere è piuttosto che la sua
densità doveva essere altissima e la temperatura raggiungere e superare di gran lunga i 10 miliardi di gradi K: valori deducibili dall’attuale densità, temperatura ed età dell’Universo e dall’energia con
cui si espande. A tale proposito, si deve aggiungere che la «grande
esplosione» è sempre in atto, come la materia originale e la radiazione che seguitano a far espandere l’Universo in cui viviamo.
Una delle prove più consistenti che l’Universo ebbe un’origine
esplosiva e che allora la sua temperatura eccedeva i 10 miliardi di
gradi K – a parte la grande scoperta di Hubble del 1929, sulla qua-
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le ci soffermeremo, sul crescere della velocità di allontanamento
delle galassie in proporzione alla loro distanza – si è avuta dalla
constatazione di un Universo tuttora pervaso da un certo calore,
che non è quello diffuso dalle galassie. Si tratta, come vedremo,
della cosiddetta «radiazione fossile», ipotizzata fin dal 1946 da
Gamow e misurata poi effettivamente da Arno Penzias e Robert
Wilson nel 1965.
Questa notizia mise tutti gli astronomi in subbuglio e concluse,
almeno per il momento, un dibattito annoso fra la cosiddetta teoria
dell’Universo stazionario, e quella evolutiva dell’espansione dell’Universo, prospettata precedentemente da Lemaître.
L’idea di un Universo in espansione originato da un punto a
densità e temperatura infinite – idea che va sotto il nome di teoria
del Big Bang – è sconcertante, tanto è vero che non tutti gli scienziati l’accettarono inizialmente. Una parte consistente e autorevole dell’ambiente scientifico – capeggiata da tre famosi astrofici,
Fred Hoyle, Hermann Bondi e Tommy Gold – rifiutò quest’idea
e propose l’ipotesi alternativa dello stato stazionario, che postula
un Universo immutabile nel tempo e nello spazio. Hoyle, Bondi e
Gold sostenevano che un osservatore, posto in un punto qualsiasi
e in un qualsiasi momento del tempo, avrebbe sempre la stessa
visione dell’Universo. Quindi ipotizzarono un Universo uniforme
nello spazio e nel tempo, diversamente dal modello del Big Bang
che si evolve.
Secondo questa ipotesi, l’Universo non ha principio né fine, e
supplisce alla rarefazione causata dall’espansione con la continua
creazione di nuova materia (una specie di vuoto creativo). Facendo i conti, risultava che sarebbe bastata una minima quantità di
materia all’anno per compensare l’espansione: circa dieci atomi
di idrogeno ogni metro cubo ogni miliardo di anni. Una quantità
tanto piccola da sfuggire a ogni possibilità di osservazione. Anche
l’idea della creazione continua della materia non era facilmente
accettabile, però i difensori dell’Universo stazionario sostenevano
che è comunque più ammissibile che si crei un atomo di idrogeno
all’anno in un volume molto grande, che ammettere la creazione
dell’Universo da un punto a temperatura e densità infinite.
La teoria evolutiva, invece, risalendo indietro nel tempo come un
film proiettato a rovescio, otteneva la contrazione di un Universo,
che, dopo miliardi d’anni, finiva per raggiungere le altissime densità
dell’atomo primitivo. Quell’atomo, in considerazione non solo della
densità, ma anche della temperatura, divenne per i cosmologi che
approfondirono i suggerimenti di Lemaître, come Gamow, la «palla
di fuoco» che produsse il Big-Bang oltre 10 miliardi di anni fa.
Le due teorie, quella del Big Bang e quella dell’Universo stazionario, rimasero ugualmente possibili, almeno in base ai dati di
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CAPITOLO 5
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cui si disponeva all’inizio degli anni Sessanta. Circa la metà degli
scienziati credeva (e il verbo «credere» è stato scelto proprio per
indicare che si trattava di un vero atto di fede) all’idea dell’Universo
stazionario e altrettanti credevano all’idea del Big Bang. Questa
situazione si risolse grazie ad alcune scoperte, che, come vedremo nei prossimi paragrafi, fornirono graduali conferme alla teoria
dell’Universo in espansione.
L’UNIVERSO IN ESPANSIONE
••3 L’Universo come
un panettone che lievita.
L’espansione cosmica
avviene in 3 dimensioni:
lo spazio intergalattico si
dilata, mentre le galassie
(che sono governate dalla
gravità) restano inalterate.
Esattamente come in un
panettone che lievita, la
pasta (spazio) si gonfia
fra le uvette (galassie)
che rimangono inalterate.
Notiamo che ciascuna
uvetta resta ferma nella
sua posizione dentro la
pasta, ma si allontana
contemporaneamente da
tutte le altre. Così le galassie
nell’espansione cosmica
restano ferme nello spazio,
pur allontanandosi l’una
dall’altra. Si vede anche
come la densità delle
uvette si riduce mentre il
panettone si gonfia: nello
stesso modo la densità
dell’Universo diminuisce con
l’espansione. Nell’esempio
considerato del dolce che
lievita, quest’ultimo ha
un’estensione limitata e noi
lo guardiamo dall’esterno.
L’Universo invece è illimitato
e non ha un centro, ma noi
lo osserviamo dall’interno
come se stessimo su
un’uvetta entro un
panettone sconfinato.
Negli anni Venti, l’astrofisico americano Edwin Hubble, che si
dedicò allo studio sistematico delle galassie, scoprì che tutte le
galassie si stanno allontanando da noi con una velocità che è proporzionale alla loro distanza. Questo fatto viene spesso interpretato
in maniera sbagliata; si parla di «fuga delle galassie» come se noi
fossimo al centro dell’Universo e tutte le galassie s’allontanassero
da noi. In realtà le cose non stanno così; l’interpretazione giusta
è che le galassie sono immerse in uno spazio che si espande.
Espandendosi porta con sé le galassie, per cui, quanto più lontana
è una galassia, tanto maggiore sembra la sua velocità.
Un esempio gastronomico dell’Universo è dato dalla pasta di
un dolce che si gonfia sotto l’azione del lievito: se nella pasta sono
immerse delle noccioline, via via che la pasta si gonfia uniformemente in tutte le direzioni tutte le noccioline si allontanano le une
dalle altre. Se dopo un tempo t le distanze nello spazio sono raddoppiate, un osservatore posto su una qualsiasi galassia vedrà la
galassia A, che era posta a distanza d da lui, portarsi a distanza
2d e la galassia B, che era a distanza 2d, portarsi a distanza 4d.
Quindi, gli sembrerà che A si sia allontanata a velocità v= d/t e B a
velocità 2d/t, cioè proprio il risultato trovato da Hubble: la velocità
di allontanamento cresce proporzionalmente alla distanza. ••3
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Hubble arrivò a questa scoperta studiando gli spettri delle galassie. Scoprì che le righe spettrali caratteristiche dei vari elementi
chimici erano sempre spostate verso il rosso rispetto alla posizione
tipica misurata in laboratorio (cioè a lunghezza d’onda maggiore e
quindi a frequenza minore). Applicò allora ai dati rilevati la legge
dell’effetto Doppler, secondo la quale i suoni o le onde luminose
emessi da una sorgente sonora o luminosa ci arrivano con frequenza maggiore (quindi lunghezza d’onda minore) quando la sorgente s’avvicina, e con frequenza minore (quindi lunghezza d’onda
maggiore) quando la sorgente s’allontana. Si tratta di un effetto
che si sperimenta spesso in ambito acustico. A tutti è sicuramente
capitato di ascoltare il clacson di un’automobile che ci incrocia
sull’autostrada o la sirena di un’ambulanza: quando la sorgente
(automobile o ambulanza) si avvicina, il suono è più acuto, quando la sorgente ci ha incrociato e s’allontana, il suono diventa più
grave. Così, partendo dalla differenza tra la lunghezza d’onda di
laboratorio e quella osservata, e sapendo grazie all’effetto Doppler
che la lunghezza d’onda varia in funzione della velocità, Hubble
riuscì a calcolare la velocità di allontanamento delle galassie. ••4
Scoprì poi, confrontando lo spostamento delle righe spettrali di
galassie di cui era nota approssimativamente la distanza, non solo
che tutte le galassie si allontanano da noi, ma che la velocità di
allontanamento cresce regolarmente al crescere della distanza.
Per definire più esattamente la legge con cui le galassie si allontanano, però, Hubble aveva bisogno di conoscere più esattamente
la loro distanza.
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••4 L’effetto Doppler.
Si chiama così la
variazione della lunghezza
d’onda osservata in
funzione del movimento
della sorgente, che può
avvenire per effetto
della velocità (Doppler
classico), oppure a causa
dell’espansione cosmica
(Doppler cosmologico).
Quando la sorgente si
avvicina, la lunghezza
d’onda si accorcia e quindi
il suo colore si sposta
verso il blu; quando invece
si allontana, la lunghezza
d’onda aumenta e il suo
colore si sposta verso il
rosso. Un effetto Doppler
dipendente dalla velocità
si può percepire anche nel
caso delle onde sonore.
Infatti, quando la sorgente
è in avvicinamento, il
tono del suono appare
più acuto, mentre è più
grave quando la sorgente
si allontana (come ad
esempio per la sirena di
un treno).
CAPITOLO 5
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Misurare la distanza dei corpi celesti, in generale, e delle galassie, in particolare, non è facile. Misure dirette, usando metodi in
tutto analoghi alle triangolazioni fatte dai geometri, sono possibili
solo per i corpi del Sistema solare e per le stelle più vicine, poste
a una distanza inferiore a un migliaio di anni luce. Ma poiché
a determinate caratteristiche fisiche delle stelle – quali possono
derivare dallo studio del loro spettro – corrisponde anche una
ben definita luminosità assoluta, è possibile stimare il valore di
quest’ultima. Sappiamo inoltre che la luminosità diminuisce secondo una legge nota man mano che ci si allontana dalla sorgente; allora, misurando con gli strumenti a Terra la luminosità
apparente dell’oggetto e confrontandola con il valore stimato della
luminosità assoluta, è possibile calcolare la distanza, almeno approssimativamente. Così per le galassie più vicine, in cui è possibile scorgere le singole stelle, si può assumere che quest’ultime,
a parità di caratteristiche spettrali, abbiano anche la stessa luminosità assoluta di quelle della nostra Galassia, e di conseguenza
si ricava la distanza della galassia di cui fanno parte. Un altro
prezioso metodo di misura delle distanze è fornito dalle cosiddette variabili cefeidi, che abbiamo già descritto nel quarto capitolo. È stato infatti scoperto che la loro luminosità assoluta cresce
regolarmente al crescere del periodo di variabilità (intervallo di
tempo fra due successivi massimi o minimi di luce). Cosicché
basta misurarne le variazioni luminose e determinare il periodo
per conoscerne la luminosità assoluta.
Però, dato che la maggioranza delle galassie è tanto lontana
che appare come una macchiolina, e nessuna stella è distinguibile, bisogna ricorrere a metodi di tipo statistico, simile a quelli che
utilizziamo anche intuitivamente in alcune occasioni quotidiane.
Facciamo un esempio di valutazione della distanza basata su un
metodo statistico. Gli esseri umani hanno un’altezza media che si
aggira intorno al metro e settanta; sapendo questo, posso valutare
la distanza di una persona a seconda dell’angolo sotto cui la vedo.
In questo modo, riusciamo a stimare la distanza proprio perché ne
conosciamo più o meno l’altezza. Lo stesso succede per qualunque
altro oggetto di cui conosciamo approssimativamente le dimensioni, il nostro cervello lo colloca immediatamente alla giusta distanza.
Tornando al calcolo delle distanze delle galassie, esse vengono
raggruppate in categorie con caratteristiche morfologiche simili: a
seconda della forma avremo galassie a spirale, a spirale barrata,
ellittiche, irregolari…
Supponiamo che tutte le galassie appartenenti a una certa categoria abbiano anche caratteristiche fisiche simili (ad esempio si
può immaginare che abbiano tutte la stessa luminosità assoluta o
le stesse dimensioni). A questo punto, se sono veri questi criteri
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di base, potremo dedurre che quanto più debole ci appare una
galassia appartenente a una certa popolazione tanto più lontana
sarà rispetto alle altre sue compagne dello stesso tipo morfologico.
Viceversa, quanto più lontana è una galassia tanto più ci sembrerà
debole e più piccole ci sembreranno le sue dimensioni.
Un altro metodo di misura delle distanze si basa su una classe
di supernovae dette «--l a» che avrebbero tutte le stesse caratteristiche fisiche e quindi anche la stessa luminosità assoluta all’epoca
del massimo splendore. Data la loro grande luminosità assoluta,
esse sono ancora visibili nelle galassie più lontane, permettendoci
così di misurare l’espansione dell’Universo fino a distanze di 13
miliardi di anni luce e scoprire la misteriosa energia oscura che
accelererebbe l’espansione.
Dunque, Hubble scoprì grazie all’allontanamento delle galassie che l’Universo è in espansione. Conoscendo poi la velocità di
espansione è possibile ricavare l’età dell’Universo, come vedremmo nelle prossime pagine. Percorrendo l’evoluzione dell’Universo a ritroso, si arriva a un fatto che può sembrare sconvolgente:
all’inizio, tutta la materia doveva essere compressa in un volume
estremamente piccolo. Quando si comprime la materia, questa si
riscalda e diventa prima completamente gassosa, poi, via via si
riduce a particelle elementari in un volume il cui raggio tende a
zero e la cui densità e temperatura tendono all’infinito.
Pensare che tutto l’Universo che conosciamo possa essere ridotto a un punto, a temperatura e densità infinite, non è facilmente
accettabile per la nostra immaginazione. Un simile stato in matematica viene chiamato «una singolarità», ma in fisica non ha molto
senso e la nostra difficoltà di immaginazione riflette solo la nostra
ignoranza su come si comporta la gravità quando si ha a che fare
con materia in uno stato così estremo. Secondo la fisica quantistica, le dimensioni più piccole possibili sono centinaia di miliardi di
volte più piccole di un nucleo dell’atomo di idrogeno che è 10-13
cm, e pari alla cosiddetta lunghezza di Planck che è 10-33 cm.
La cosmologia moderna, basandosi anche su molti dati osservativi, è in grado di ripercorrere la storia dell’Universo fino a quando
aveva l’età di un centomillesimo di un miliardesimo di miliardesimo
di miliardesimo di secondo (10-32 secondi). Più oltre, le nostre osservazioni sperimentali non vanno; siamo ai limiti della speculazione.
LA RADIAZIONE FOSSILE
Verso la fine degli anni Quaranta, l’astrofisico russo-americano
George Gamow, come abbiamo già ricordato all’inizio di questo
capitolo, dedusse che se l’Universo avesse davvero avuto origine
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dal Big Bang iniziale e se la sua età fosse superiore a 10 miliardi
di anni – come indicava l’età degli oggetti celesti più vecchi che
si conoscevano – con l’espansione si sarebbe dovuto raffreddare fino a una temperatura calcolabile teoricamente. Supponendo
che l’Universo dell’età di pochi secondi avesse una temperatura
di molti miliardi di gradi, Gamow calcolò che la temperatura attuale dovrebbe essere di qualche grado assoluto. La radiazione
corrispondente a questa temperatura, chiamata radiazione fossile,
dovrebbe permeare uniformemente tutto l’Universo.
La previsione teorica di Gamow ha trovato una conferma nel
1965. Due tecnici della Bell Telephone Company, Robert Wilson e
Arno Penzias, cercavano le cause di un disturbo nelle trasmissioni
a microonde, verso e dai satelliti artificiali, rivolgendo la loro antenna a corno, una specie di grande cornetta acustica, in tutte le direzioni. Scoprirono un rumore di fondo, costante, uguale in tutte le
direzioni del cielo. Si resero immediatamente conto che non poteva
essere un disturbo terrestre, ma doveva avere origine nel cosmo.
La storia si ripeteva: nel 1933, dopo anni di esperimenti cominciati nel 1929, Karl Jansky, radioingegnere della Bell Telephone
Company, aveva scoperto che i disturbi alle trasmissioni transoceaniche erano di chiara origine cosmica e che provenivano, più
precisamente, proprio dalla nostra Galassia.
La causa di questo rumore costante rimase però avvolta nel
mistero, fino a che la notizia fu pubblicata sulla rivista «Nature»
e colpì l’attenzione di Robert Dicke e James Peebles, astrofisici
teorici che lavoravano a Princeton; conoscevano la teoria di Gamow e non fu loro difficile collegarla con questo rumore di fondo.
Capirono che effettivamente si era scoperta la radiazione cosmica,
residuo dell’esplosione primeva da cui ha avuto origine l’Universo.
Questa era la più bella riprova che l’Universo è stato effettivamente
originato dal Big Bang e, per quanto i sostenitori della teoria alternativa abbiano tentato d’aggirarla, non è stato possibile spiegare la
radiazione cosmica – o radiazione fossile, come è stata chiamata
– con l’ipotesi dell’Universo stazionario.
Dunque nel 1965 erano due i fatti fondamentali che sostenevano saldamente la teoria del Big Bang, che ormai godeva di molto
credito e vantava moltissimi sostenitori: l’espansione dell’Universo
e la radiazione fossile.
Ricorriamo a una metafora per spiegare il modello di Universo
che si presentava dopo queste scoperte. Possiamo immaginare di
trovarci all’interno di un grande contenitore, un forno per esempio;
all’inizio la temperatura è altissima. Supponiamo poi che le pareti
del forno si dilatino, allora il gas contenuto nel forno va raffreddandosi. Noi siamo immersi in questo forno – l’Universo – che, dopo
un’espansione durata quasi 14 miliardi di anni, ha raggiunto una
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temperatura estremamente bassa, di circa 3 gradi assoluti, che
corrispondono alla radiazione fossile.
Oggi lo studio della radiazione fossile, detta anche radiazione
cosmica di fondo, rappresenta il principale strumento per la conoscenza delle prime fasi evolutive dell’Universo.
Questa radiazione ha le caratteristiche spettrali tipiche dell’emissione termica, che accomuna tutti i corpi caldi, con un andamento dipendente dalla temperatura detto curva planckiana.
Da quest’andamento, che la radiazione di fondo riproduce con
grande precisione, si può ricavare per l’Universo attuale una temperatura di circa 3 kelvin (ovvero -270°C). ••5
TRE SOLIDI PILASTRI
Abbiamo visto fino a questo punto come si sia arrivati a formulare una teoria sulle origini dell’Universo, ma per descriverne in
modo più completo le caratteristiche attuali, avremmo bisogno di
conoscerne anche la densità media, che invece è nota con un
errore notevole. Sappiamo, infatti, che la densità media attuale
è compresa tra 10-29 e 10-31 grammi per centimetro cubo. Sono
valori estremamente bassi, quasi inimmaginabili: 10-29 grammi per
centimetro cubo – cioè il valore estremo più alto – corrispondono a
un centesimo di miliardesimo, di miliardesimo, di miliardesimo di
volte la densità dell’acqua (pari a 1 grammo per centimetro cubo);
nell’altro caso, 10-31 grammi per centimetro cubo, la densità è cento volte più bassa. Il valore intermedio, 10-30 grammi per centimetro cubo, corrisponde a 1 atomo di idrogeno per metro cubo.
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••5 La radiazione di corpo
nero e il fondo cosmico a
microonde.
La temperatura
corrispondente alla
radiazione fossile si calcola
in base alla legge del corpo
nero. Si dice corpo nero un
corpo che ha la proprietà di
assorbire completamente
tutte le radiazioni che
riceve. Un tale corpo emette
a sua volta radiazione,
secondo una legge trovata
da Planck: precisamente
emette radiazione con
lunghezze d’onda comprese
fra zero e infinito, distribuite
su una curva a campana
rovesciata. Il grafico spazia
dalle radioonde ai raggi X,
evidenziando a colori la
luce visibile. Si nota che
le «gobbe» delle curve si
spostano a destra quando
le temperature aumentano,
cioè il massimo è a una
lunghezza d’onda tanto più
breve quanto maggiore è la
temperatura (legge di Wien).
Questo è il motivo per cui
il fuoco è rosso, mentre il
fulmine (molto più caldo)
è violetto. In altre parole, il
prodotto della temperatura T
per la lunghezza d’onda L è
costante (LT = costante).
Si vede ancora nel grafico
che le curve sono più alte,
quando si riferiscono alle
temperature maggiori.
Ciò significa che a ogni
lunghezza d’onda, l’intensità
della radiazione è tanto
maggiore quanto maggiore è
la temperatura.
La radiazione fossile (fondo
cosmico a microonde),
entro i limiti degli errori
delle nostre osservazioni
più raffinate, coincide
esattamente con la curva
di un corpo nero alla
temperatura di 2,735 K.
(curva rossa).
CAPITOLO 5
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Conosciamo, dunque, la temperatura e solo approssimativamente la densità dell’Universo. Le relazioni tra densità, volume e
temperatura nei gas ci dicono che sia densità sia temperatura crescono con il diminuire del volume. Se approssimiamo l’Universo a
una grande sfera di raggio R, la densità cresce in modo inversamente proporzionale al cubo del raggio (dato che il volume della
sfera è 4/3πR3). La temperatura, invece, cresce semplicemente in
modo inversamente proporzionale al raggio.
Questo si può capire tenendo presente che la temperatura della
radiazione corrisponde alla sua energia e che l’energia dei fotoni,
cioè delle unità elementari di radiazione, è tanto maggiore quanto
più piccola è la lunghezza d’onda. Una radiazione con una lunghezza d’onda corta (ad esempio i raggi X) è più energetica di
una radiazione con lunghezza d’onda maggiore (ad esempio luce
visibile). Poiché la lunghezza d’onda, come tutte le lunghezze, aumenta con l’espansione, l’energia dei fotoni e quindi la temperatura T diminuiscono al crescere del raggio R.
Da queste due relazioni, tra densità e volume e fra temperatura e volume, si può calcolare (dai valori attuali di temperatura e
densità) quelli che dovevano essere i valori della temperatura e
della densità dell’Universo in qualsiasi epoca passata. Si possono
allora ripercorrere le tappe fondamentali della storia dell’Universo
e confrontare i dati osservativi con le previsioni del modello del Big
Bang per avere così una conferma della teoria.
Tra i 3 e i 5 minuti circa dopo il Big Bang, si calcola che la temperatura doveva essere dell’ordine di 1 miliardo di gradi e la densità
compresa fra un decimo e dieci volte la densità dell’acqua. In queste condizioni, i nuclei di idrogeno (protoni) potevano combinarsi
per dar luogo alla formazione di deuterio, cioè di idrogeno pesante,
e di elio. Si può calcolare che in quell’epoca iniziale si sia formato
un nucleo di deuterio ogni 100.000 nuclei d’idrogeno e una certa
quantità di elio corrispondente a circa il 25% della materia contenuta nell’Universo; il rimanente 75% sarebbe stato idrogeno (protoni). Questi sono valori calcolati teoricamente in base al modello
del Big Bang. Prima dei tre minuti, nessun nucleo più pesante
del singolo protone era stabile; dopo cinque minuti dal Big Bang,
l’Universo, espandendo, era diventato troppo freddo e troppo poco
denso perché potessero aver luogo queste e altre reazioni nucleari
più complesse, in grado cioè di formare elementi più pesanti.
Dall’analisi degli spettri delle stelle e delle nebulose interstellari
si può risalire alla loro composizione chimica e, dato che stelle e
nebulose sono le unità di base dove si concentra la materia dell’Universo, calcolare in definitiva quanto idrogeno, elio, deuterio ci
sono nell’Universo. I risultati dicono che c’è un atomo di deuterio
ogni 100.000 atomi di idrogeno e che l’elio rappresenta circa il
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28% della massa dell’Universo. Questi valori vanno perfettamente
d’accordo con le previsioni teoriche. Per quanto riguarda l’elio,
quel 3% di elio in più rispetto al 25% che si sarebbe formato fra 3
e 5 minuti dopo il Big Bang corrisponde, infatti, all’elio sintetizzato, come abbiamo visto nel capitolo quarto, all’interno delle stelle
durante la loro evoluzione. È stato calcolato che in tutta la vita della
Galassia la quantità di elio che può essersi formata all’interno delle
stelle ammonta proprio al 2 o 3% della massa della Galassia. Così
i conti tornano perfettamente.
Il modello del Big Bang, inoltre, rende conto anche della formazione del deuterio, altrimenti inspiegabile. Il deuterio, infatti, non
può essersi formato nell’interno delle stelle, perché è abbastanza
instabile e viene distrutto a temperature di appena mezzo milione
di gradi, cioè a temperature molto inferiori a quelle tipiche dell’interno delle stelle (decine o centinaia di milioni di gradi). In natura,
però, il deuterio esiste; si tratta allora di capire da dove trae origine.
La soluzione la fornisce il Big Bang: il deuterio si è formato proprio
in quei primi minuti di vita dell’Universo.
Le abbondanze cosmiche di deuterio e di elio sono dunque una
terza prova, fortissima, in favore dell’ipotesi del Big Bang. Perciò,
allo stato attuale dell’arte, questa teoria poggia su almeno tre solidi pilastri: l’espansione dell’Universo, la scoperta della radiazione
fossile e l’abbondanza cosmica di deuterio e di elio.
L’ETÀ DELL’UNIVERSO
A queste tre prove se ne aggiunge un’altra: l’età dell’Universo.
Calcolare l’età dell’Universo è un problema di non facile soluzione.
Si parte dalla legge di espansione scoperta da Hubble, in cui si
afferma che la velocità di allontanamento delle galassie, v, è proporzionale alla loro distanza, d, secondo una costante, chiamata
appunto costante di Hubble e che si indica con H:
v =Hd
La costante di proporzionalità H è misurata in km/s per megaparsec (ricordiamo che un megaparsec equivale a 3,26 milioni di
anni luce). Consideriamo due galassie qualsiasi separate da una
certa distanza. Le due galassie si allontanano l’una dall’altra a una
certa velocità; è ovvio che nel passato erano più vicine e che nel
futuro la loro distanza aumenterà ancora. Se supponiamo che l’espansione sia sempre stata uguale, conoscendo la velocità e la distanza attuale delle due galassie, è possibile risalire al momento in
cui è iniziata l’espansione. In particolare, svolgendo qualche calcolo, dato che H è una velocità divisa per una lunghezza (H =v/d )
e la velocità è a sua volta una lunghezza divisa per un tempo, ne
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••6 L’Universo osservabile è
una sfera attorno all’osservatore
(sfera di Hubble), circondata
dalla radiazione cosmica
di fondo. Infatti la luce che
raggiunge un osservatore da
grandi distanze arriva dopo un
viaggio che richiede miliardi
di anni; tale viaggio però può
durare al massimo 13,7 miliardi
di anni, pari all’età dell’Universo.
Pertanto la massima distanza
da cui ci arrivano informazioni
risulta pari a 13,7 miliardi di
anni luce in ogni direzione:
questo è il raggio di una
superficie sferica cava, chiamata
orizzonte cosmico perché
limita l’Universo accessibile
attorno all’osservatore, posto
nel centro. La radiazione di
fondo è una luce che proviene
dalle vicinanze dell’orizzonte
cosmico e che si è sprigionata
13,7 miliardi di anni fa,
quando si formavano i primi
atomi e l’Universo era ancora
incandescente. Questa luce
si chiama anche radiazione
fossile poiché ci fa vedere, su
tutta la volta celeste, il cielo
primordiale rovente (fotosfera
primordiale) che circondava
il luogo in cui ora viviamo. La
temperatura era di 3000 K, ma
poi l’Universo si è espanso e
raffreddato di 1000 volte, fino
agli attuali 3 K. La figura mostra
l’Universo osservabile (visto
dall’esterno), pieno di ammassi
di galassie (macchioline
bianche), delimitato dalla
radiazione fossile (in verde), con
la Terra – o meglio l’osservatore
– nel centro. Le macchioline
colorate sono le condensazioni
primordiali (mappate dal satellite
WMAP) che evolveranno in
ammassi, mentre i puntini nella
piccola zona centrale sono le
galassie vicine alla Terra (dal
catalogo CfA). La distribuzione
degli ammassi di galassie è un
disegno, perché non è ancora
nota per intero. (WWW.FERLUGA.NET)
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segue che H è il reciproco di un tempo. L’età dell’Universo è data,
quindi, dall’inverso della costante H.
Per determinare la costante H, bisogna conoscere la velocità
d’espansione e la distanza di molte galassie. La velocità si misura
abbastanza facilmente dai dati spettroscopici, mentre la distanza
è un dato molto più incerto perché basato su dati statistici, come
già ricordato. Così il valore della costante ha subito molti ritocchi.
Attualmente si ritiene che la costante di Hubble sia compresa
tra 50 e 80 km/s per megaparsec. Le prime misure di Hubble
erano però molto diverse. Egli aveva infatti trovato H = 520 km/s
per megaparsec: cioè via via che la distanza aumentava di 1 megaparsec, la velocità cresceva di 520 chilometri al secondo. Facendo l’inverso di questo valore, si trovava che l’età dell’Universo
era di appena 2 miliardi d’anni. Un valore impossibile, dato che la
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geologia ci dice che l’età della Terra è di 4,6 miliardi d’anni e che
il nostro Sistema solare ha circa 5 miliardi d’anni. Quindi com’era
possibile che l’Universo fosse cominciato dopo che si era formato
il Sistema solare?
Le correzioni successive portarono a 200 km/s per megaparsec il
valore della costante di Hubble, di conseguenza l’età dell’Universo
saliva a 5 miliardi di anni, sempre troppo pochi, perché permettono
di spiegare soltanto l’età del Sole e del Sistema solare, mentre la
teoria dell’evoluzione stellare ci mostra con certezza che ci sono
stelle di 10 o addirittura 13 miliardi di anni. Quindi le cose ancora
non quadravano.
Col migliorare dei sistemi di misura delle distanze, oggi siamo
arrivati a stimare il valore della costante di Hubble in circa 70 km/s
per megaparsec: un valore quasi sette volte più piccolo di quello che
aveva stimato Hubble, corrispondente a un’età dell’Universo quasi
sette volte più grande.
La stima attuale dell’età dell’Universo è compresa fra circa 13,6
e 13,7 miliardi di anni, con un margine di incertezza di soli 100
milioni di anni.
Lo studio della cosmologia ci porta inevitabilmente indietro nel
tempo. Le informazioni che ci giungono dagli oggetti celesti sono
trasmesse dalla radiazione elettromagnetica (luce, raggi ultravioletti, onde radio…), che, come abbiamo già avuto modo di vedere,
viaggia nel vuoto con una velocità finita di circa 300.000 chilometri
al secondo, la massima velocità consentita in natura. Questo ci
permette di studiare l’Universo non solo a diverse distanze nello spazio, ma anche a diverse distanze nel tempo. La radiazione
che osservo oggi sulla Terra proveniente da un oggetto posto a
10 miliardi di anni luce si riferisce, infatti, all’oggetto com’era nel
passato, 10 miliardi di anni fa, quando l’Universo era molto più
giovane di oggi. ••6
Quando osservo una galassia a 2 milioni di anni luce, la vedo
com’era 2 milioni di anni fa; la vedo, quindi, in scala astronomica, com’era ieri e non com’è oggi. Per questo, confrontando le
caratteristiche delle galassie vicine e di quelle lontane, possiamo
avere un’idea dell’evoluzione dell’Universo. Si constata che tutte
le galassie a distanze superiori ai 5 miliardi di anni luce hanno un
nocciolo centrale estremamente luminoso rispetto alla parte circostante, una caratteristica che le differenzia da quelle più vicine a
noi, che si trovano entro un raggio di un miliardo di anni luce. La
nostra Galassia, ad esempio, è costituita da una parte centrale più
brillante, circondata da bracci a spirale. La luminosità della parte
centrale corrisponde a meno di un decimo della luminosità di tutta
la Galassia; più o meno questi stessi valori valgono per le galassie
vicine. Le galassie più distanti, oltre i 5 miliardi di anni luce, emet176
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tono anche raggi X, raggi g, onde radio ecc., che testimoniano
un’intensa attività nel loro nucleo, attività che è evidentemente
molto diminuita nelle fasi successive.
LE FORZE DELL’UNIVERSO
Man mano che ci allontaniamo nello spazio e nel tempo e ci avviciniamo quindi alle origini dell’Universo, ci troviamo di fronte al
coinvolgimento di forze che rivelano il nesso tra cosmologia e fisica
delle particelle, cioè tra la fisica dell’estremamente grande e la fisica dell’estremamente piccolo: scopriamo che, forse, sono proprio
le leggi e le forze che governano i fenomeni subatomici ad aver
delineato la struttura dell’Universo come oggi lo conosciamo e la
strada della sua evoluzione.
Secondo il modello standard della fisica delle particelle, la materia dovrebbe essere costituita da due tipi di particelle, leptoni e
quark, e quattro sono le forze, o interazioni, fondamentali: l’interazione gravitazionale, l’interazione elettromagnetica, l’interazione
debole e l’interazione forte. Ognuna di queste ha delle caratteristiche proprie e un suo campo di azione. Abbiamo già citato l’azione
di queste forze nelle pagine passate, ora cercheremo di approfondirne brevemente le caratteristiche più importanti.
• La gravità fa sì che i corpi si attraggano a vicenda con un’intensità tanto maggiore quanto più grande è la loro massa e quanto
più piccola è la distanza che li separa. Costante caratteristica è la
costante di gravitazione universale (G=6,6720 10-11 Nm2kg-2): tra
le quattro interazioni fondamentali è la più debole, ma è quella con
il raggio di azione più grande e quindi domina a grandi distanze.
Sistemi solari, ammassi di stelle, galassie, ammassi di galassie…
sono tenuti insieme dalla gravità. La prima teoria della gravitazione
è stata formulata da Isaac Newton nel XVII secolo. Albert Einstein
nel 1916 interpretò la gravità come una curvatura dello spaziotempo, che sarebbe deformato dalla materia: più una massa è
grande maggiore è la deformazione, analogamente a quanto farebbe una pallina su un telo di gomma.
• La forza elettromagnetica agisce tra corpi elettricamente carichi
e può essere attrattiva (tra cariche di segno opposto) o repulsiva
(tra cariche dello stesso segno). L’unità fondamentale è la carica
elettrica corrispondente alla carica dell’elettrone (e=1,602218892
10-19 coulomb), mentre non esiste una carica magnetica. La particella portatrice della forza elettromagnetica è il fotone. L’interazione elettromagnetica tiene insieme atomi e molecole (formati da
cariche positive e negative) ed è molto più intensa della gravità,
pur avendo una portata d’azione molto minore, entro un raggio
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dell’ordine delle dimensioni delle molecole. James Clerk Maxwell
nel XIX secolo ordinò le conoscenze sui fenomeni elettrici e magnetici in un sistema di equazioni differenziali che li unificava
nell’elettromagnetismo e concluse che anche la luce è un fenomeno elettromagnetico prodotto dalle oscillazioni trasversali dello
stesso mezzo che causa i fenomeni elettrici e magnetici. All’interno di questo sistema, tutte le onde elettromagnetiche, compresa
la luce, differiscono fra loro unicamente per la frequenza delle
oscillazioni.
• La forza nucleare forte tiene insieme nei nuclei atomici i protoni, che la forza elettromagnetica tenderebbe a separare dato che
sono elettricamente positivi. Questa interazione forte è molto più
intensa di quella elettromagnetica, ma ha un raggio d’azione minore, che non supera le dimensioni del nucleo atomico (circa un
centomillesimo del raggio atomico) e quindi è dominante all’interno del nucleo. Il problema di capire quale forza tenesse insieme i
protoni nei nuclei degli atomi più pesanti dell’idrogeno (che ne ha
solo uno), fu risolto grazie alla scoperta della forza nucleare forte,
che viene «guidata» dai gluoni che assolvono il compito di collante
fra queste particelle atomiche dello stesso segno (in inglese glue
vuol dire «colla»).
• La forza debole è responsabile del cosiddetto decadimento
beta, quel processo per cui un nucleo emette spontaneamente
un elettrone o un positrone (elettrone positivo). In pratica regola
la trasmutazione di un elemento in un altro, che avviene quando
un nucleo emette un elettrone o un positrone, e si trasforma in un
elemento con un valore di carica successivo o precedente nella
scala atomica.
Una domanda che si pongono i cosmologi è come mai nell’Universo ci siano quattro forze. Perché questa complicazione quando,
per esempio, già nel secolo scorso, Maxwell si accorse che elettricità e magnetismo erano due aspetti della stessa forza, l’elettromagnetismo? Non può darsi che nell’Universo primordiale, che
si suppone estremamente più semplice (non c’erano stelle, né
galassie, né particelle di vari tipi), ci fossero semplicemente fotoni, elettroni e quark, cioè la forma più elementare delle particelle
che si conosca oggi? Perché allora quattro forze, se nell’Universo
primordiale c’era una semplicità tale per cui sarebbe bastata una
sola forza unificata?
È un dato sperimentale che l’elettromagnetismo aumenta con
la temperatura, mentre l’interazione debole diminuisce. È possibile dunque che a una certa temperatura le due forze vengano
a coincidere. Partendo da questa idea, Abdus Salam e Steven
Weinberg hanno dimostrato teoricamente che quando l’Universo
era abbastanza giovane e caldo da avere una temperatura di un
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••7 Le quattro forze
fondamentali della
Natura sono la forza
elettromagnetica, la
forza nucleare debole, la
forza nucleare forte e la
forza gravitazionale. Alle
energie (temperature)
molto elevate, ovvero
nelle prime fasi di vita
dell’Universo, le forze
si unificano. Si sa che
l’elettromagnetismo e la
forza debole si combinano
nella forza unificata
elettrodebole. Si suppone
poi che quest’ultima forza
possa unificarsi alla forza
nucleare forte nella Teoria
Grande Unificata (GUT),
che prevede l’inflazione
cosmica. Infine con la
teoria della Super Gravità
(SG) si dovrebbe unificare
anche la gravitazione, nelle
prime fasi del Big Bang.
milione di miliardi (1015) di gradi, l’elettromagnetismo e l’interazione debole dovevano essere due aspetti di un’unica forza. Questa
previsione teorica fatta negli anni Sessanta è stata verificata sperimentalmente da Carlo Rubbia, al CERN, nel 1983. Quindi l’idea
che effettivamente, andando a temperature sempre più alte, si
debba avere un’unificazione delle forze fondamentali, trovava un
sostegno molto forte. ••7
La temperatura necessaria per unificare l’elettromagnetismo
e l’interazione debole di un milione di miliardi (1015) di gradi si
raggiunge quando l’età dell’Universo è appunto un millesimo di
miliardesimo (10-12) di secondo. Ecco perché siamo in grado di
risalire alle condizioni fisiche dell’Universo fino all’età di un millesimo di miliardesimo di secondo. Oltre questo limite possiamo
solo immaginare che a temperature ancora più alte anche l’interazione debole, l’elettromagnetismo e l’interazione forte siano diventate un’unica forza. Si suppone cioè che queste siano tre diversi
aspetti d’una stessa forza, che si unifichino a una temperatura che
si stima di 10 miliardi di miliardi di miliardi (1028) di gradi, quando l’età dell’Universo era di un centomillesimo di miliardesimo di
miliardesimo di miliardesimo (10-32) di secondo. La verifica di tali
supposizioni non è certo alla portata degli strumenti attuali, e forse
non lo sarà mai.
Nulla ci impedisce però di andare ancora indietro con la fantasia.
Si può pensare che a temperature ancora più elevate e a densità
ancora più alte, anche la gravitazione si unifichi con le altre tre forze: si arriva allora a un Universo iniziale (10-43 sec) estremamente
semplice costituito da un’unica forza fondamentale, fotoni e quark.
Per ora queste idee rimangono confinate nel regno della speculazione. Non sappiamo nemmeno se le nostre leggi fisiche si possano
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estrapolare ed estendere a condizioni così estreme come quelle
iniziali, a una temperatura e una densità praticamente infinite.
Certamente i fenomeni previsti dalla fisica quantistica dovrebbero essere dominanti. Concetti come le fluttuazioni quantistiche
e l’indeterminazione spazio-temporale si usano in alcune teorie
per descrivere lo stesso Big Bang. In tempi immediatamente successivi, avrebbe poi avuto luogo l’inflazione cosmica, una rapidissima dilatazione iniziale da cui sarebbe poi partita l’espansione
dell’Universo.
TUTTO DISCENDE DA UN CASUALE ECCESSO DI PARTICELLE
Dunque, una volta ammessa come verosimile l’ipotesi della «palla
di fuoco», gli scienziati, anche se non tutti, affermano come la
Bibbia che la creazione fu essenzialmente un’esplosione di luce,
un erompere di fotoni.
Dopo un millesimo di secondo, la temperatura era un milione
di miliardi di gradi Kelvin e i fotoni presero a collidere e a produrre coppie di particelle-antiparticelle. Poi, dopo un centesimo di
secondo, materia e antimateria si annichilirono a vicenda dando
luogo a una nuova generazione di fotoni. Rimaneva solo un piccolo casuale eccesso di particelle rispetto alle antiparticelle, forse
dovuto al fatto che esiste una particella instabile, il kaone, la cui
vita media è un cento milionesimo di secondo, appena più lunga
di quella dell’antikaone. Così tutte le coppie di particelle-antiparticelle si sarebbero annichilite liberando un’enorme quantità di
energia, che si ritiene abbia causato l’espansione dello spazio,
e quindi la nascita di un Universo da quel minimo residuo di
materia.
Dopo 3 minuti, a causa dell’espansione, la temperatura era scesa a un miliardo di gradi consentendo la formazione di protoni e
neutroni, ciascuno composto da tre quark, che prima, con una
temperatura e quindi una velocità d’agitazione termica più alta, si
sarebbero frantumati a causa degli urti. L’Universo era una zuppa
di particelle veramente elementari, come neutrini, quark, elettroni.
Protoni e neutroni danno luogo alle prime reazioni nucleari formando deuterio e i due isotopi dell’elio. Soltanto il 25% di tutta
la massa della materia fece in tempo a trasformarsi in elio, prima
che il progressivo raffreddamento dello spazio ne interrompesse
la produzione. La maggior parte della materia restante era costituita da idrogeno e da un nucleo di deuterio ogni centomila di
idrogeno. Dopo circa 8 minuti la temperatura era scesa troppo per
permettere altre reazioni nucleari. L’Universo era a quel punto un
miscuglio di protoni, nuclei di deuterio, elio 3 (l’isotopo meno ab180
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bondante) ed elio 4, elettroni, neutrini e forse molte altre particelle
sconosciute.
Un altro stadio importante si verificò a circa 400.000 anni dall’istante del Big Bang quando la temperatura era scesa fino a 3000
gradi K e l’Universo era diventato trasparente. In precedenza l’Universo rovente era opaco, pervaso da una incandescenza diffusa,
un po’ come accade al vetro uscito dalla fornace che all’inizio è
luminoso e opaco e poi raffreddandosi diventa trasparente. Infatti,
il moto degli elettroni liberi si era così rallentato che ormai non ne
rimaneva quasi più nessuno. Tutti erano stati catturati dai nuclei,
e in tali condizioni non potevano più diffondere i fotoni e generare
opacità. Poiché il gas, da plasma formato da protoni ed elettroni
liberi, si era trasformato in gas neutro trasparente composto di
normali atomi, i fotoni da quel momento potranno viaggiare liberamente per miliardi di anni fino ad oggi. Questi fotoni formano la
radiazione fossile e ci mostrano l’Universo com’era quando essi
partirono quasi 14 miliardi di anni fa, un’epoca in cui ancora non
c’erano né le stelle né le galassie.
È così che ebbe origine la radiazione cosmica di fondo, che
proviene da enormi distanze e da tutte le direzioni del cielo. Essa
testimonia le condizioni dell’Universo primordiale, «fossilizzate»
per sempre sulla volta celeste. La visione del gas incandescente
a 3000 K, che all’epoca permeava tutto lo spazio intorno, è però
(fortunatamente) sbiadita per effetto dell’espansione dell’Universo
che nel frattempo si è dilatato di ben 1000 volte. La radiazione
si è dunque diluita e raffreddata di 1000 volte, trasformandosi in
un tenue fondo cosmico di microonde a 3 K, che oggi possiamo
cartografare e anche riprodurre in alcune figure di questo libro.
La radiazione cosmica di fondo è altamente omogenea, con
leggerissime oscillazioni di poche parti per milione, che hanno
l’aspetto di macchioline chiare e scure che punteggiano il cielo a microonde. Ma è proprio da queste minime perturbazioni di
densità, che la gravitazione universale inizierà il suo lavoro di condensazione progressiva di tutte le strutture cosmiche: ammassi,
galassie e stelle. ••8
Passati 100 milioni d’anni l’espansione aveva ridotto la densità
di questo Universo gassoso a circa 10 mila volte il valore presente: è l’epoca considerata la più favorevole alla formazione delle galassie. Enormi nuvole di materia contenenti l’equivalente di
quasi un trilione di stelle come il Sole riuscirono a vincere le forze
che tendevano a disperderle. Erano le protogalassie. La nascita
delle galassie, della quale a questo punto dovremo occuparci, è
un problema molto più controverso e difficile che raccontare ciò
che avvenne subito dopo il Big Bang: nacquero da fluttuazioni
di densità nel gas, oppure da moti turbolenti? C’è chi dice che le
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protogalassie erano ancora allo stato gassoso quando presero a
collassare, e c’è invece chi pensa che le stelle nacquero prima di
questo collasso.
Più genericamente, si crede che una protogalassia diventi una
galassia quando un’apprezzabile frazione del suo gas si è trasformato in stelle. Le più distanti galassie, viste come erano 3,5 e più
miliardi di anni fa, non appaiono molto diverse da quelle vicine,
sebbene l’aspetto e l’energia di quella specie di galassie molto
compatte che sono le quasar (chiamate anche QSO, dall’inglese quasi stellar object ) faccia ritenere che possano rappresentare
uno stadio primitivo della formazione di una galassia. In altre parole, e nonostante si parli spesso di galassie giovani o nasciture,
non conosciamo nessuna galassia vicina che senza discussioni si
possa riconoscere come un oggetto giovane. Al contrario, l’opinione comune è che tutte le galassie abbiano all’incirca la stessa età
e siano nate nel primo miliardo d’anni dopo la grande esplosione.
Infatti, la galassia più lontana che è stata osservata col telescopio
spaziale Hubble (HST) è a 13 miliardi di anni luce, il che significa
che noi la vediamo com’era 13 miliardi di anni fa. D’altra parte
dato che, come abbiamo visto, il tempo trascorso dal Big Bang a
oggi è stimato fra 13,6 e 13,7 miliardi di anni, quella galassia era
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••8 L’evoluzione
dell’Universo. La
radiazione cosmica di
fondo (in verde) è la
radiazione fossile, a
cui segue la cosiddetta
età oscura, che però
terminerà presto con
l’accensione delle prime
stelle. Poi avrà luogo la
formazione e l’evoluzione
delle galassie, fino ai
giorni nostri. A destra
è raffigurata la sonda
WMAP che ha osservato
la radiazione fossile. (NASA)
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••9 La classificazione
a «diapason» delle
galassie. Le galassie
ellittiche vanno da
E0 a E7 secondo un
grado crescente di
schiacciamento. Poi le
spirali si dividono nelle
due classi S normali e
SB barrate, suddivise a
loro volta nei sottotipi a,
b, c secondo importanza
decrescente del nucleo.
Infine ci sono le galassie
irregolari, classificate
come tipo I, che non sono
riportate sul «diapason»
poiché formano una
classe a se stante. (HST)
già formata appena 600 o 700 milioni di anni dopo il Big Bang. In
conclusione, oggi nascono ancora le stelle, dato che il processo di
formazione dal gas interstellare prosegue nella nostra e nella maggioranza delle altre galassie, il cui numero complessivo sarebbe di
almeno 100 miliardi entro un raggio di 13,7 miliardi di anni luce
(Universo osservabile).
Dalle caratteristiche delle galassie, forma, distribuzione e dimensioni, possiamo dedurre alcune informazioni sulla loro probabile evoluzione. In genere, le galassie sono distribuite in ammassi
(ciascuno dei quali può contenerne da poche decine, a decine
di migliaia) sparsi uniformemente nell’Universo visibile, sebbene
qualche astronomo sostenga che esista una certa asimmetria fra
un emisfero del cielo e l’altro: il che significherebbe che l’espansione non è stata uniforme. Lo schema più noto di classificazione
delle galassie secondo la loro forma è quello di Edwin Hubble,
che le distinse in 4 gruppi fondamentali: galassie spirali normali (che posseggono un nucleo centrale da cui si dipartono dei
bracci spirali più o meno aperti), galassie spirali barrate (con un
nucleo attraversato da una larga sbarra di gas e polveri), galassie
ellittiche (senza bracci e più o meno schiacciate in accordo alla
velocità di rotazione) e galassie irregolari (che appaiono come
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un semplice ammasso di stelle, polveri e gas senza una forma
riconoscibile). ••9
Riguardo alle dimensioni si va da galassie molto più grandi
della nostra Via Lattea, a galassie ultranane. Ma le loro differenze
non finiscono qui, perché abbiamo galassie che sono potentissime radiosorgenti ed emettono enormi quantità di raggi X e raggi
cosmici, e galassie relativamente calme. Alcune interagiscono
e perfino inghiottono altre galassie, gettano ponti di materia fra
loro, si suddividono, si deformano. Perciò si potrebbe affermare
che le galassie non sono semplicemente degli immensi assembramenti di stelle, ma dei sistemi dinamici, quasi degli organismi
cosmici dove, per riprendere l’immagine abbastanza azzeccata
di François de Closets, le stelle sono un po’ come le cellule di un
organismo vivente.
Come evolvano le galassie non lo sappiamo. Quasi un secolo
fa si pensava che da una protogalassia nascessero stelle in gran
numero formando una galassia irregolare, che poi schiacciandosi
sul piano equatoriale, forse sotto il controllo dei campi magnetici,
sviluppava bracci spirali aperti. Qui vi si concentravano le polveri e
i gas, e qui seguitavano a nascere le stelle, fino a esaurimento del
materiale. Poi le nascite diminuivano, il numero delle stelle vecchie aumentava, i bracci spirali si serravano sempre più intorno al
nucleo galattico, e infine la galassia diventava ellittica.
Oggi si crede che le cose siano molto più complesse, e che l’evolversi di una galassia in ellittica o spirale dipenda da vari fattori,
quale la massa iniziale, la velocità di rotazione e la turbolenza
dei gas, l’intensità del campo magnetico. Non si ritiene più che
una galassia debba necessariamente attraversare tutte le forme
da irregolare a ellittica, perché le irregolari hanno sempre masse
da 10.000 a 1000 volte più piccole delle ellittiche giganti e delle
spirali. Inoltre, sappiamo che violente esplosioni si verificano nei
nuclei galattici come in M 82 e tante altre galassie compresa la
nostra.
Che relazione c’è, inoltre, fra una galassia normale e una radiogalassia? Si suppone che l’origine di tutte le radiogalassie sia
la medesima: una tremenda esplosione nel nucleo. E che relazione c’è con i quasar ? Saperlo significherebbe anche aver risolto
il problema della natura stessa dei quasar, che sono tuttora un
grosso mistero astronomico, da quando nel 1960 venne scoperto
il primo dagli americani T. Matthews e A. Sandage. Essi identificarono una stella che coincideva con la radiosorgente numero
48 del 3° Catalogo di Cambridge delle radiosorgenti, con uno
spettro incomprensibile. In seguito si trovarono altri oggetti simili,
e fu soltanto nel 1963 che Maartin Schmidt si accorse che la peculiarità di tali spettri era dovuta al fatto che le righe di emissione
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CAPITOLO 5
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••10 Il Quasar 3C273.
Nella foto a sinistra, è
evidente la presenza di
un sottile getto distaccato,
che fuoriesce da una
luminosissima sorgente di
tipo quasi stellare.
Nel dettaglio a destra, è
stato usato il coronografo
del Telescopio Spaziale
per coprire (macchia
scura) l’accecante punto
centrale, rivelando così
la galassia di cui fa parte.
Il Quasar è infatti un
nucleo galattico attivo,
contenente un buco
nero che emette enormi
quantità di energia. In
basso a destra si scorge
anche una piccola parte
del getto, che emana luce
azzurra di sincrotrone,
irraggiata dalle particelle
energetiche
di cui è composto.
(NASA, ESA, HST, A.MARTEL)
erano spostate enormemente rispetto alla loro posizione usuale,
indicando che si allontanavano da noi come fossero galassie e
non stelle. Fu per questo motivo che l’americano Hong-yee Chiù
nel 1964 ebbe l’idea di battezzarli quasar. Ciò che non si è riusciti a spiegare è come sia possibile che oggetti tanto piccoli emettano tanta energia da diventare visibili fino ai limiti dell’Universo
osservabile. In termini quantitativi, un quasar tipico emette energia come cento galassie; o, più precisamente, da un volume che
è un milione di miliardi di volte più piccolo della nostra Galassia
viene emessa una luminosità cento volte maggiore di quella di
tutta la Via Lattea.
L’ipotesi più probabile, largamente accettata, è che al centro del
quasar si trovi un buco nero. I quasar sono l’esempio più estremo
di tutta una classe di galassie indicata con l’acronimo AGN (Active
Galactic Nuclei) dal cui centro vengono emesse radiazioni elettromagnetiche straordinariamente intense, dai raggi gamma e X alle
onde radio. ••10
Il buco nero con masse pari a milioni e anche a miliardi di masse solari attrae la materia circostante, la quale spiralando attorno
al buco nero a velocità crescente verso l’interno si riscalda fino
a temperature di milioni di gradi e forma un disco detto disco di
accrescimento.
A volte dai dischi di accrescimento vengono emessi dei getti di
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materia che si estendono in direzione perpendicolare al disco per
milioni di anni luce, dimensioni ben superiori a quelle della galassia. Non si sa bene come siano prodotti. Si pensa che le linee del
campo magnetico incanalino particelle cariche del disco e le accelerino fino a velocità prossime a quella della luce. Queste, muovendosi nel campo magnetico producono la cosiddetta radiazione
sincrotrone.
Tutte queste sono ipotesi che attendono conferme sperimentali. Ma del resto, quando si ha a che fare con l’Universo quello
che sappiamo, parafrasando Newton, è una goccia in un oceano
di cose sconosciute. Ai misteri insoluti dedichiamo quindi l’ultimo capitolo, un breve affaccio sull’abisso di quello che resta da
scoprire. ••11
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••11 Il Campo UltraProfondo. Questa visione è
un panorama dell’abisso in
cui ci troviamo. Scrutando in
profondità (qui verso l’Orsa
Maggiore), il Telescopio
Spaziale rivela migliaia
di galassie a distanze di
miliardi di anni luce. Tutti gli
oggetti visibili nell’immagine
sono galassie, eccetto
alcune stelle riconoscibili
dall’aspetto a forma di croce
(effetto ottico causato dalla
luminosità). (HST)
CAPITOLO 5
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CAPITOLO 6
MISTERI
INSOLUTI
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S
tiamo per concludere il viaggio che abbiamo
condotto attraverso lo spazio, tra pianeti, satelliti, asteroidi, galassie e stelle, e attraverso
il tempo, all’indietro fino all’origine dell’Universo, o almeno fino al punto in cui le nostre osservazioni, più o meno dirette, e le nostre conoscenze ci permettono di
arrivare. Molti sono i problemi ancora aperti e per i quali i cosmologi stanno cercando una soluzione: la distribuzione spaziale degli
ammassi di galassie, l’esistenza della materia oscura, perché il
nostro è un Universo di materia e non di antimateria e poi come si
sono formate galassie e ammassi di galassie da un Universo primordiale, apparentemente uniforme; infine la sorprendente scoperta dell’energia oscura. Ad alcuni di questi problemi abbiamo
già avuto modo di accennare in altri capitoli, in queste ultime pagine cercheremo di approfondirli e svilupparli per quanto possibile
sulla base delle conoscenze fin ora raggiunte.
LA DISTRIBUZIONE DEGLI AMMASSI DI GALASSIE
La distribuzione degli ammassi di galassie sulla volta celeste, cioè
su una superficie, sembra del tutto casuale e uniforme, mentre conoscendo le distanze, si può ricostruire la loro distribuzione reale
nello spazio a tre dimensioni. Ebbene, un risultato ottenuto in questi ultimi anni mostra che, almeno fino a una distanza di circa 1
miliardo di anni luce da noi (distanza a cui si estendono per ora le
nostre più dettagliate osservazioni), gli ammassi di galassie e le galassie sono distribuiti nello spazio in modo tale da addensarsi sulle
superfici di grandi volumi grosso modo sferici, a formare come
delle enormi bolle praticamente vuote il cui diametro è dell’ordine
del centinaio di milioni di anni luce e il cui spessore è di circa 10
milioni di anni luce. Dentro le bolle sembra non esserci nemmeno
qualche debole galassia. La spiegazione di questa struttura a bolle
è tuttora un mistero, ben più inspiegabile se si pensa che, a scala
ancora più grande, l’Universo sembra uniforme e le galassie e
gli ammassi di galassie appaiono distribuiti uniformemente nello
spazio. ••1-2
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Misteri insoluti 189
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••1 La distribuzione
delle galassie nel cielo.
Già nel 1967 Shane
e Wirtanen avevano
compilato questa mappa,
che raccoglie la posizione
di 100.000 galassie sulla
volta celeste (visibile
dall’osservatorio Lick, il
settore scuro è dovuto
all’orizzonte). L’aspetto a
«ragnatela» è evidente,
stranamente però in
quell’epoca tale scoperta
non suscitò grandissimo
interesse nel pubblico.
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(LICK OBSERVATORY)
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CAPITOLO 6
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LA MATERIA E L’ENERGIA OSCURA
••2 Un milione e mezzo
di galassie in questa
immagine. Si tratta di una
mappa tridimensionale,
dove il colore dal violetto
al rosso indica la distanza
fino a oltre 1 miliardo di
anni luce, evidenziando
la struttura a larga scala
dell’Universo (al centro
domina la Via Lattea).
Le galassie si raccolgono
in gruppi più o meno
numerosi, da alcune
decine fino a migliaia
di galassie, chiamati
ammassi. A loro volta gli
ammassi sono organizzati in
superammassi, cioè gruppi
di ammassi di galassie.
Ammassi e superammassi
non sono però distribuiti
uniformemente nello spazio,
ma si addensano sulla
superficie di enormi bolle
e sono separati da spazi
vuoti immensi. La grande
macchia violacea in alto al
centro è l’ammasso della
Vergine. (2MASS, XSCZ)
Una delle recenti scoperte che ha messo in crisi gli scienziati è
quella dell’esistenza della materia oscura: è stato calcolato, infatti,
che la maggior parte della materia si trova sotto una forma che non
emette radiazioni elettromagnetiche e quindi risulta invisibile ai
nostri strumenti. Ancora più misteriosa la presenza di un’energia
che si oppone alla forza di gravità e accelera l’espansione dell’Universo, scoperta recentemente e per cui nel 2011 è stato assegnato il premio Nobel per la fisica agli statunitensi Saul Perlmutter
e Adam Riess e all’australiano Brian Schmidt. Prima di questa
scoperta si pensava che l’espansione dell’Universo andasse decelerando per effetto della sua stessa gravità. Per determinare l’entità
di questo rallentamento, due gruppi di ricercatori, uno americano
e uno australiano, avevano cominciato alla fine degli anni Ottanta
a osservare una classe di supernove, note come SNIa, di cui si
conosce con buona precisione lo splendore assoluto, per ottenere una più accurata relazione di Hubble fra spostamento verso il
rosso e distanza estesa alle più lontane galassie raggiungibili con
i moderni grandi telescopi, le quali ci avrebbero detto come avveniva l’espansione nel lontano passato.
La sorpresa è stata che invece di rallentare, l’espansione risulta
aver cominciato ad accelerare circa 6 miliardi di anni fa come
se ci fosse una energia che si oppone all’energia gravitazionale.
Dato che non si sa cosa sia, è stata chiamata «energia oscura».
Non sappiamo se si tratta di una proprietà intrinseca dello spazio
o se qualcosa di indipendente in esso contenuta. Nel primo caso
la densità di energia rimarrebbe costante nel tempo, mentre nel
secondo caso diminuirebbe la densità mentre la forza dell’energia
resterebbe costante con l’aumentare dello spazio. Per ora sappiamo solo che questa «energia oscura» ha preso il sopravvento sulla
gravità circa 6 miliardi di anni fa a causa della diminuzione della
gravità con l’espansione.
Oltre all’energia oscura, abbiamo già visto nel capitolo terzo che
in base ai dati ottenuti dalla misurazione della massa delle galassie, si può ipotizzare l’esistenza di materia oscura.
Per misurare la massa di una galassia, fino a poco tempo fa
si contava il numero delle stelle e si moltiplicava questo numero
per la massa di una stella media. In questo modo, ad esempio, la
massa della nostra Galassia era pari a circa 300 miliardi di masse
solari (prendendo il Sole come unità di misura). Un altro metodo
di misura si basa sulle leggi della gravitazione: si studia il moto
degli oggetti più periferici che gravitano attorno alla Galassia (ad
esempio nubi gassose che emettono microonde). Da questo moto
è possibile calcolare la massa della Galassia e si constata che è
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••3 Universo oscuro.
Sebbene sia ormai
accertato che la materia
visibile è soltanto una
minima parte del
contenuto dell’Universo,
ancora non v’è certezza
sulla vera natura della
materia oscura e
tantomeno si ha un’idea
di cosa sia davvero
l’energia oscura.
superiore di almeno cinque volte a quella visibile. Quindi la massa
visibile, ricavata dagli oggetti che si vedono, è molto inferiore alla
massa gravitazionale indicata dal moto dei corpi nella Galassia.
Questo fatto vale per tutte le galassie di cui si possono contare le
stelle e misurare i moti. Lo stesso risultato si ottiene per gli ammassi di galassie: dai moti delle galassie che compongono un ammasso, si vede che la massa visibile è circa un decimo della massa
gravitazionale dell’ammasso. ••3
Non sappiamo cosa sia la materia oscura, ma sono state fatte
diverse ipotesi. Alcuni sostengono che si possa trattare di stelle
molto numerose e molto deboli, o di un gran numero di pianeti
molto grossi eppure poco o del tutto invisibili a grandi distanze.
Ma se si ammette che la materia oscura sia formata da materia
normale – cioè di protoni, neutroni, elettroni – nei primi tre minuti
dopo il Big Bang non avrebbe potuto formarsi il deuterio, perché
le condizioni fisiche sarebbero state tali da impedirlo. Il deuterio
non ci dovrebbe essere o sarebbe talmente scarso da non essere
misurabile, e questo contraddice i dati osservabili.
Invece di essere materia normale, la materia oscura potrebbe
essere costituita, quindi, da particelle che interagiscono pochissimo con la materia e che quindi risultano difficili da rilevare. Abbiamo già appreso che in natura si conosce solo un tipo di queste
particelle, i neutrini. La massa dei neutrini è piccolissima – tanto
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CAPITOLO 6
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che non si è ancora riusciti a misurarla con precisione – e per
spiegare la massa mancante dovrebbero essere estremamente
numerosi. In ogni caso i neutrini non potrebbero spiegare la massa mancante delle galassie, perché data la loro minuscola massa
avrebbero velocità di gran lunga superiore alla velocità di fuga
della galassia stessa e quindi sfuggirebbero nello spazio intergalattico. Non si può però escludere che in natura esistano altri tipi
di particelle o, perlomeno, siano esistiti nei primi istanti di vita
dell’Universo.
MATERIA E ANTIMATERIA
Il problema dell’asimmetria tra materia e antimateria nasce dalla
constatazione che il nostro Universo è composto essenzialmente
di materia. Particelle di antimateria, come il positrone e l’antiprotone, si osservano nei raggi cosmici, ma nessuna antiparticella più pesante è stata trovata in natura. Eppure nell’Universo
primordiale esistevano probabilmente sia particelle che antiparticelle, in numero praticamente uguale. Perché allora questa
asimmetria attuale? Si pensa che, come abbiamo accennato nel
capitolo sulla cosmologia, per qualche motivo si fosse formato un
piccolissimo eccesso di materia rispetto all’antimateria. Tutte le
coppie di particelle e antiparticelle si sarebbero annichilite una
con l’altra, dando luogo a un’enorme produzione di energia (sotto
forma di fotoni), e sarebbe rimasto solo quel piccolo eccesso di
materia da cui avrebbe avuto origine il nostro Universo attuale.
Una conferma di questa ipotesi è data dall’osservato eccesso di
fotoni rispetto alle particelle materiali: c’è, infatti, un miliardo di
fotoni per ogni particella. Inoltre, si conosce una particella instabile, il kaone, del quale abbiamo già parlato, la cui vita media
è un centomilionesimo di secondo un po’ più lunga di quella
dell’antikaone.
LA DISUNIFORMITÀ DELL’UNIVERSO
Che le galassie e le stelle ci siano è un fatto inconfutabile, ma perché e come si siano formate inizialmente è un problema aperto.
La radiazione cosmica che pervade tutto l’Universo attuale appare
estremamente costante in tutte le direzioni. In qualunque direzione la si misuri si ottiene un valore di 2,735 K con un errore di
misura di circa un decimillesimo di grado. Dato che tale radiazione
testimonia com’era l’Universo primordiale, se ne deduce che anche l’Universo oggi dovrebbe essere altrettanto uniforme. Sappia-
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mo, invece, che l’Universo attuale è composto di stelle, galassie
e ammassi di galassie separati da immensi spazi praticamente
vuoti. Nella radiazione fossile dovrebbe esserci il seme di queste
disuniformità.
Per risolvere questo problema è necessario misurare la radiazione fossile con precisione ancora maggiore, alla ricerca di eventuali minime disuniformità. Proprio per questo scopo è stato stato
dapprima costruito il satellite COBE (Cosmic Background Experiment), poi il WMAP (Wilkinson Anisotropy Probe) e infine il satellite Planck (le cui misurazioni sono ancora in corso). ••4
Perché dei satelliti? La radiazione emessa alla temperatura di
2,735 K ha un massimo a circa 1 millimetro di lunghezza d’onda. Le microonde – da qualche frazione di millimetro a qualche
centimetro – sono in gran parte assorbite dalla nostra atmosfera;
di conseguenza, le osservazioni della radiazione cosmica si fanno
preferibilmente da palloni in alta quota e, meglio ancora, da satelliti, che possono continuare le osservazioni anche per alcuni anni.
Le prime misure effettuate con COBE (1989) indicavano una
temperatura costante in ogni direzione. Ma ulteriori misure (1992)
– effettuate dopo aver apportato le correzioni per l’effetto doppler
dovuto al moto del Sistema solare nella Galassia e per la radiazione
emessa dalla Galassia stessa, da altre galassie e da ammassi di
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••4 Il fondo del cielo
osservato dalla sonda
WMAP. La radiazione
cosmica a microonde,
che vediamo in questo
planisfero celeste, ci mostra
l’Universo primordiale.
La colorazione dal blu al
rosso evidenzia i deboli
contrasti di luminosità,
che corrispondono alle
variazioni di temperatura
della materia in formazione,
quando l’Universo era
ancora incandescente
(circa 5000 gradi), mezzo
milione di anni dopo il Big
Bang. Le macchioline rosse
rappresentano zone più
calde e dense, da cui poi
nasceranno gli ammassi di
galassie; si può stimare che
da ogni singola macchiolina
si formeranno decine di
migliaia di galassie. (NASA)
CAPITOLO 6
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••5 Il cielo di Planck.
Dopo un anno di
misurazioni, il satellite
europeo Planck ha
tracciato questa mappa
completa del cielo a
microonde. La Via Lattea
domina in primo piano, ma
sullo sfondo si vede con
un colore più aranciato
(ovvero a lunghezze d’onda
maggiori) la radiazione
cosmica primordiale.
Quando il contributo della
Via Lattea verrà rimosso
(sfruttando la differenza
spettrale), apparirà la
retrostante radiazione
cosmica di fondo con una
nitidezza senza precedenti.
Nel momento in cui stiamo
completando questo libro,
la comunità scientifica è in
grande attesa dei prossimi
risultati. (ESA)
galassie – hanno dimostrato che ci sono delle piccolissime disomogeneità nella temperatura, con zone più calde o più fredde di
1,6 centomillesimi di grado del valore medio. Queste disuniformità
indicano l’esistenza di strutture immense, estese molto più di 300
milioni di anni luce, e rappresenterebbero l’origine delle attuali
strutture a grande scala (come i superammassi di galassie) osservati nell’Universo oggi.
COBE aveva il difetto di essere «miope», aveva un potere risolutivo di 7 gradi d’arco, cioè non era in grado di distinguere
dettagli visti sotto un angolo più piccolo di 7 gradi, pari a 14 diametri angolari del Sole o della Luna. Le immagini dell’Universo
primordiale apparivano molto «sfocate». I successivi esperimenti,
il progetto BOOMERANG (in cui le osservazioni erano eseguite da
un telescopio su pallone stratosferico che per le particolari condizioni atmosferiche dell’Antartide orbitava attorno al polo sud), e poi
le osservazioni dei satelliti WMap e Planck, hanno dato immagini
molto più nitide, in cui si vedevano dettagli di dimensioni angolari
inferiori al grado. Queste misurazioni hanno anche permesso di
stabilire che il nostro Universo è piano, obbedisce cioè alla geometria euclidea, non è né curvo e chiuso (come l’analogo della
superficie della sfera), né curvo e aperto (come l’analogo della
superficie di un iperboloide). ••5
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Possiamo concludere questo viaggio attraverso un’estensione
di quasi 14 miliardi di anni luce e una durata temporale di quasi
14 miliardi di anni osservando quanto si sia dilatata la nostra conoscenza dell’Universo nel corso del XX secolo, come oggi si sia
coscienti di abitare un minuscolo pianeta fra miliardi di altri, di
orbitare attorno a una comunissima stella fra miliardi di altre in
una comune galassia fra centinaia di miliardi di altre galassie e
ammassi di galassie, che costituiscono l’Universo, cioè tutto ciò
che esiste.
Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo sicuri che anche
l’Universo non sia uno fra tanti? Che esistano altri universi simili o
diversi dal nostro? Possiamo solo immaginarlo.
Sappiamo di essere fatti di materia prodotta dalle reazioni nucleari che avvengono nell’interno delle stelle. Sappiamo di essere un
prodotto dell’evoluzione dell’Universo che ha sviluppato la capacità
di osservare, misurare e comprendere lo spazio intorno a noi.
Forse in questo XXI secolo riusciremo a capire cosa sono la
materia e l’energia oscura e il loro ruolo nella formazione ed evoluzione delle galassie, a scoprire pianeti simili alla Terra e forse un
giorno riceveremo un segnale radio modulato, non i soliti rumori
emessi dal Sole e dalle galassie, ma un segnale chiaramente artificiale partito da un lontano pianeta anni e forse secoli fa da chi
come noi si domanda: ma siamo soli nell’Universo? Possibile che
questo immenso Universo abbia generato una sola civiltà?
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CAPITOLO 6
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APPENDICE
TELESCOPI
E SONDE
GLI STRUMENTI
PER LA CONQUISTA
DELLO SPAZIO
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I
grandi progressi fatti nel corso del XX secolo nella
comprensione dell’Universo, non sono dovuti soltanto alla nascita dell’era spaziale – e quindi alla
possibilità di studiare i corpi celesti utilizzando tutto
lo spettro elettromagnetico (raggi gamma, raggi X,
ultravioletto, infrarosso che sono assorbiti totalmente o parzialmente dalla nostra atmosfera) – ma anche all’utilizzo di telescopi a Terra della «nuova generazione», molto più grandi e sofisticati dei precedenti, nonché a
rilevatori elettronici più sensibili dell’emulsione fotografica. Diamo
qui un breve cenno degli strumenti, sia terrestri che spaziali, che
più hanno contribuito al progresso della conoscenza della volta
celeste. Cominciamo con i telescopi e poi facciamo una carrellata
storica sulle sonde e rover principali.
TELESCOPI
Telescopi ottici
Il più grande telescopio della vecchia generazione ancora in funzione è il 5 metri di Monte Palomar e rappresenta un limite praticamente insuperabile. Difatti per ottenere immagini otticamente
perfette la superficie parabolica dello specchio (un gigantesco
specchio da barba) non dovrebbe discostarsi più di una frazione
di micron dalla figura geometrica ideale. Poiché il vetro è un fluido,
tende a deformarsi sotto il proprio peso, e perciò occorre lavorare
un blocco di vetro di spessore almeno un quinto del diametro. Lo
specchio va montato sulla montatura meccanica del telescopio,
che deve poter ruotare da est a ovest per seguire il moto apparente della volta celeste e da sud a nord per puntare ogni punto del
cielo. Poiché l’esposizione necessaria per ottenere le immagini di
oggetti molto deboli, specialmente usando come rivelatore l’emulsione fotografica, poteva durare tutta la notte, era necessaria una
montatura estremamente rigida e pesante, perché una flessione
della montatura durante l’esposizione, pur con lo specchio perfetto, renderebbe l’immagine mossa.
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Eppure i telescopi della nuova generazione raggiungono anche i
10 metri e sono «sottili», qualche decina di cm di spessore. Possono essere formati da una superficie unica, oppure da tasselli, che
come le piastrelle di un pavimento coprono tutta la superficie. Sotto vari punti dello specchio o sotto ogni tassello c’è un «adattatore»
collegato a un computer che dice in tempo reale come va spostato
il tassello per mantenere la superficie aderente al modello geometrico ideale. Con questa tecnologia si sono realizzati i 4 specchi
da 8,2 metri di diametro del VLT (Very Large Telescope) presso
l’osservatorio europeo per l’emisfero australe (ESO, acronimo di
European Southern Observatory), situati nel deserto di Atacama
sulle Ande cilene; i due specchi da 10 metri di diametro dell’osservatorio americano sul vulcano spento Mauna Kea alle Hawaii;
e l’ESO sta progettando un telescopio da 40 metri di diametro per
cercare di scoprire pianeti extrasolari, anche piccoli come la Terra,
e vederne le immagini. Tutti questi telescopi sono situati in zone
desertiche, lontane dall’inquinamento luminoso prodotto dalle luci
artificiali. ••1-2
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••1 I telescopi del VLT
dell’ESO in Cile hanno 8,2
metri di diametro. Nella
foto sono visibili tre di essi,
mentre si stanno compiendo
le operazioni preparatorie
per la notte. (ESO, G.HÜDEPOHL)
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••2 I due telescopi da 10
metri alle Hawaii sono i più
grandi del mondo. Anche
l’altitudine è da record,
poiché l’osservatorio Keck si
trova a ben 4145 metri sul
livello del mare. I telescopi
sono illuminati all’interno
delle cupole, prima del
lavoro notturno. (WMKO)
Radiotelescopi
Quando, invece, si osserva il cielo con i radiotelescopi, bisogna
tener conto del fatto che abbiamo a che fare con radiazioni di
lunghezza d’onda da qualche cm a parecchi metri. Poiché la lunghezza d’onda è, per così dire, lo scandaglio che ci informa dei
dettagli delle immagini celesti, questo scandaglio ci dà dettagli
molto più grossolani di quelli ottenibili con la luce visibile, la quale
ha lunghezza d’onda dell’ordine del migliaio di Angstrom (Å) e cioè
del centomillesimo di cm.
L’ottica ci insegna che il potere risolutivo, cioè la capacità di vedere dettagli di un’immagine (l’equivalente dell’acuità visiva del nostro
occhio), è tanto maggiore quanto più piccola è la lunghezza d’onda
e quanto più grande il diametro del telescopio. Per fare un esempio, prendiamo il caso dell’occhio nudo: per la lunghezza d’onda di
massima sensibilità nel giallo verde, circa 5500 Å o 5,5 centomillesimi di cm, e il diametro della pupilla in condizioni di luce normale,
di circa 2 mm, si trova che il potere risolutivo dell’occhio nudo è
2,75 decimillesimi di radiante o 57 secondi (un radiante equivale a
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206.265 secondi). Un telescopio di 5 metri di diametro ha un potere risolutivo di 2 centesimi di secondo. Per avere lo stesso potere
risolutivo lavorando alla lunghezza d’onda di un cm occorrerebbe
un telescopio di diametro 18.000 volte più grande. Alla lunghezza
d’onda di un metro, ancora 100 volte più grande. Il problema è stato
risolto con i grandi radiotelescopi costituiti da più elementi collegati elettronicamente, addirittura su diversi continenti, così da avere
telescopi di diametro paragonabile a quello della Terra. Il principio
su cui si basano questi radiotelescopi è che per ottenere un dato
potere risolutivo da uno specchio non è necessario utilizzare tutta la
superficie, bastano due punti diametralmente opposti.
Fra i più grandi radiotelescopi di questo tipo va ricordato il VLA
(Very Large Array) situato a Socorro nel Nuovo Messico, composto
da decine di antenne che si estende su una cinquantina di km.
Il più grande radiotelescopio italiano è la «Croce del Nord»,
costruito e operato dall’istituto di radioastronomia del CNR e ora
facente parte dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), situato
a Medicina in provincia di Bologna. Il braccio est-ovest è formato
da una sola antenna di forma cilindro-parabolica lungo 560 metri
e largo 35 metri. Il braccio nord-sud è formato da 64 antenne
anch’esse di forma cilindro-parabolica lunghe 23,5 metri e larghe
8, disposte parallelamente a 10 metri l’una dall’altra. Tutto l’insieme più che una croce ha la forma di una T. Alla Croce si sono
aggiunte tre grandi parabole, una di 32 metri di diametro sempre
a Medicina, una di 32 metri a Noto (Sr) in Sicilia e una da 64 metri
in Sardegna in località San Basilio, a 35 km da Cagliari, a formare
un unico radiotelescopio che a sua volta è inserito in un interferometro intercontinentale internazionale.
Ultravioletto
I telescopi spaziali per l’ultravioletto rappresentano la naturale
estensione dei telescopi ottici, in quanto la gran maggioranza delle
stelle e delle nebulose interstellari irraggia in gran parte nell’ultravioletto. A differenza dei radiotelescopi, i telescopi per l’ultravioletto sono in tutto simili a quelli ottici. Fra questi vanno ricordati tre
grandi successi della scienza spaziale, Copernicus (lanciato il 21
agosto 1972), IUE (International Ultraviolet Explorer, 26 gennaio
1978) e HST, il telescopio spaziale Hubble (Hubble Space Telescope, aprile 1990 e ancora funzionante).
Copernicus, è stato il primo grande telescopio in orbita con uno
specchio di 80 cm ed è rimasto unico per aver reso possibile ottenere spettri ad alta risoluzione fra 900 e 1200 Angstrom, regione
spettrale che ha permesso misure accurate dell’abbondanza del
deuterio interstellare, di grande importanza per la verifica delle
teorie cosmologiche.
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••3 Il telescopio spaziale
Hubble ha un diametro di
2,4 metri. Operando in orbita
terrestre fuori dall’atmosfera,
il Telescopio Spaziale ha
l’enorme vantaggio di non
essere disturbato dalla
turbolenza dell’aria. Per tale
motivo, le sue immagini sono
generalmente dieci volte più
nitide rispetto ai maggiori
telescopi ottici terrestri.
Da vent’anni, il Telescopio
Spaziale è lo strumento
di punta dell’astronomia
mondiale. (NASA)
IUE è stato l’unico a orbitare su un’orbita geosincrona, cioè a
circa 30.000 km dalla Terra e avere un periodo orbitale di circa un
giorno, il che permetteva di utilizzarlo come un telescopio a terra,
in modo estremamente flessibile. Malgrado lo specchio fosse di
soli 45 cm, lo spettrografo era molto più rapido di Copernicus e
consentiva di ottenere spettri ad alta e bassa risoluzione anche di
stelle più deboli della 13a magnitudine.
l telescopio spaziale Hubble col suo specchio di 2,4 metri è stato
portato in orbita il 24 aprile 1990 dalla navicella Shuttle Discovery.
È stato ed è il più grande telescopio ottico in orbita. Oltre a sfruttare
l’assenza di atmosfera per studiare i corpi celesti dall’ultravioletto
all’infrarosso, HST, grazie all’assenza di turbolenza atmosferica ha
un potere risolutivo che gli ha permesso di mostrarci dettagli mai
visti prima di nebulose interstellari e di galassie. ••3
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HST, come anche Copernicus è in orbita
bassa, circa 600 km dalla Terra. Il periodo
orbitale è circa 90 minuti. Questo vuol dire
che ogni 30 minuti circa bisogna cambiare
il campo di osservazione perché nascosto
dalla Terra. Perciò se dobbiamo osservare
oggetti deboli che richiedono esposizioni di
molte ore bisogna osservarli per mezz’ora
e poi riprenderli di nuovo in orbite successive. Oppure se abbiamo una stella variabile in modo irregolare da osservare in
continuazione, non è possibile farlo. Inoltre
occorre programmare in anticipo tutta la
serie di oggetti da osservare e non è possibile cambiarla sul momento, come si fa
a Terra (e come si può fare con IUE), se
appare un fenomeno inaspettato come l’esplosione di una nova o di una supernova.
In compenso l’orbita bassa ha permesso
agli astronauti di raggiungere con lo Shuttle il telescopio spaziale, sia per installare
una lente correttrice di errori che erano
stati fatti nella lavorazione dello specchio,
sia per sostituire gli strumenti ausiliari
(spettrografi, fotometri, camere) nel piano
focale del telescopio con un bell’esempio
di «attività extraveicolare», cioè le ormai
celebri «passeggiate nello spazio».
Infrarosso
Il cielo è stato osservato anche nell’infrarosso, a lunghezze d’onda da qualche micron fino a 100 micron. Il primo telescopio di
questa categoria è stato IRAS (Infrared Astronomical Satellite,
della NASA). L’europeo ISO (Infrared Space Observatory), è stato
messo in orbita il 17 novembre 1995 e ha lavorato per quasi due
anni. A differenza dei telescopi per l’ottico e l’ultravioletto, la vita
dei telescopi per l’infrarosso è piuttosto breve. Questo dipende
dal fatto che il telescopio osserva oggetti a bassa temperatura
che irraggiano soprattutto nell’infrarosso e hanno la stessa temperatura del telescopio, che introduce quindi un’indesiderata
fonte di rumore. Per evitare ciò, occorre immergere il telescopio
in un grande thermos pieno di elio liquido, il quale evapora abbastanza rapidamente. Il più recente telescopio per infrarosso si
chiama Spitzer in onore dell’astrofisico americano Lyman Spitzer.
Esso ha permesso di individuare la luce infrarossa diffusa che si
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••4 Il Telescopio
Spaziale Spitzer opera
nell’infrarosso, con un
diametro di 85 cm. È
stato lanciato nel 2003 su
un’orbita interplanetaria
attorno al Sole (disegno a
destra), lontano dalla Terra
per evitare il riscaldamento
del telescopio da parte del
nostro pianeta. (NASA)
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ritiene sia dovuta alle prime grandi stelle, formatesi 200 o 300
milioni di anni dopo il Big Bang. ••4
Telescopi per raggi X e Gamma
Fra i telescopi a raggi gamma e raggi X, ricordo l’UHURU che
ha osservato per primo il cielo a raggi X ed è stato lanciato dalla
piattaforma petrolifera italiana davanti alle coste del Kenia. L’idea
dell’utilizzo della piattaforma per il lancio dei satelliti è stata dell’italiano Luigi Broglio, esperto di astronautica. Da qui fu lanciato il
satellite San Marco il 15 dicembre 1961, che fece dell’Italia l’unica
nazione oltre a USA e URSS ad avere un proprio satellite in orbita
attorno alla Terra.
Importante da ricordare il satellite per raggi gamma Beppo Sax,
dedicato a Giuseppe Occhialini, Beppo per gli amici e colleghi.
Nel 1973, al tempo della guerra fredda, gli Usa avevano lanciato due satelliti Vela per scoprire eventuali esplosioni nucleari
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clandestine al di fuori dell’atmosfera. Invece delle bombe sovietiche, questi scoprirono degli improvvisi lampi di radiazione
gamma la cui durata andava da qualche centesimo di secondo
a qualche minuto. I lampi apparivano indifferentemente in ogni
parte del cielo. Generalmente al lampo gamma seguiva un aumento di radiazione a raggi X. La distribuzione perfettamente
isotropica sia rispetto alla Terra che rispetto alla Via Lattea voleva
dire che si trattava di oggetti situati in un alone molto grande
intorno alla Galassia, tanto che si poteva considerare la Terra
praticamente al centro della Via Lattea, oppure si trattava di galassie. Senza sapere da che oggetto proveniva il lampo, e quindi
senza conoscerne la distanza era impossibile calcolare l’energia
emessa. La difficoltà di identificare gli oggetti responsabili dei
lampi gamma dipende dal fatto che i rivelatori gamma ci dicono
che il lampo proviene da una parte del cielo molto ampia ma non
il punto preciso. Il problema è stato risolto da Beppo Sax, il quale
a bordo, oltre alla camera per raggi gamma aveva anche un rivelatore di raggi X che era in grado di individuare con precisione
la posizione di una sorgente. Quando veniva osservato un lampo
gamma, Beppo Sax aveva la capacità di passare rapidamente dal
modo di osservazione a raggi gamma a quello a raggi X e andare
poi a cercare in quella parte di cielo la presenza di una sorgente
rapidamente variabile di raggi X. In questo modo si è potuto stabilire che i lampi gamma provengono tutti da lontane galassie,
e l’emissione inizia a raggi gamma e poi continua nel dominio
dei raggi X, ultravioletto, visibile. Poiché le galassie responsabili
dei lampi sono tutte lontane alcuni miliardi di anni luce, noi le
vediamo nel lontano passato quando erano molto più giovani,
e quindi i lampi gamma sarebbero un fenomeno caratteristico
delle galassie di più recente formazione.
Successivamente, sono stati messi in orbita diversi telescopi
per osservare le radiazioni ad alta energia, come il GRO (Compton
Gamma Ray Observatory), che ha operato durante un decennio
fino all’anno 2000. Fra i principali strumenti ora in attività, abbiamo il satellite Chandra (in onore del fisico indiano Chandrasekhar)
per i raggi X, lanciato dalla NASA nel 1999. Per i raggi Gamma
è attualmente in funzione il satellite Fermi, con la partecipazione
dell’Italia e di altri Paesi, insieme alla NASA che lo ha lanciato
nel 2008. Un’importante partecipazione italiana si ha nel satellite
europeo Integral per raggi X e Gamma, in attività dal 2002. ••5
Hipparcos
Un telescopio spaziale unico nel suo genere è stato HIPPARCOS
(HIgh Precision PARallax COlleting Satellite), destinato a misurare
distanze, moti propri e magnitudini delle stelle, e perciò chiamato
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••5 Il telescopio
Compton a raggi
Gamma. Denominato
anche GRO (Gamma
Ray Observatory), questo
strumento ha funzionato
in orbita terrestre dal
1991 al 2000. (NASA)
«Ipparco», perché come il grande astronomo greco fece il primo
catalogo stellare, così HIPPARCOS ha fatto il primo catalogo astrometrico spaziale. È stato lanciato dall’Agenzia Spaziale Europea
nell’agosto 1989. Grazie a un complesso sistema ottico ha potuto
misurare distanze e moti propri di centinaia di migliaia di stelle e
il loro splendore nel blu e nel giallo-verde. Il catalogo Hipparcos
contiene dati per 129.332 stelle, le più deboli delle quali sono 15
volte più deboli della sesta magnitudine. In un secondo catalogo
basato sulle osservazioni di Hipparcos, chiamato Tycho, da Tycho
Brahe, grande osservatore e maestro di Keplero, sono elencate
più di un milione di stelle, con precisione un po’ inferiore, e gli
oggetti più deboli sono quasi 1000 volte più deboli di quelle visibili
a occhio nudo, cioè di magnitudine 13,5.
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SONDE INTERPLANETARIE
L’esplorazione diretta del Sistema solare
Per lo studio del Sistema solare, al giorno d’oggi generalmente le
osservazioni non si fanno più con i telescopi, come aveva iniziato
a fare Galileo Galilei. Le moderne ricerche planetarie procedono
invece con l’esplorazione diretta, inviando sonde spaziali verso i
pianeti per osservarli da vicino, oppure addirittura per toccarne il
suolo.
Cominciando dallo spazio circumterrestre, la presenza dell’uomo in orbita a partire dall’anno 2000 è ormai continua a bordo
della Stazione Spaziale Internazionale, per la conduzione di ogni
genere di studi scientifici e astronomici. Ma forse non tutti sanno
che l’unico mezzo attualmente disponibile per andare nello spazio
è la vetusta navicella russa Soyuz, essendo ormai fuori servizio lo
Space Shuttle americano. Lanciata per la prima volta nel 1967
dall’Unione Sovietica, la Soyuz ha avuto diverse generazioni nel
corso dei decenni. Attualmente viene utilizzata la versione SoyuzTMA, capace di portare in orbita 3 astronauti. ••6
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••6 La navicella russa
Soyuz-TMA, capace di
portare tre uomini in
orbita. Dopo la dismissione
degli Shuttle americani,
questo antiquato ma
collaudatissimo veicolo
spaziale russo resta l’unico
mezzo per raggiungere
la Stazione Spaziale.
(ROSCOSMOS/NASA)
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••7 Il «treno» lunare
Apollo è una complessa
struttura modulare, che
ha orbitato intorno alla
Luna nelle missioni con
astronauti. Sulla sinistra si
trova il voluminoso Modulo
di Servizio, con la capsula
conica per l’equipaggio. A
destra è agganciato Il LEM
(Modulo di Escursione
Lunare) a forma di ragno.
(GRAFICA NASA)
Sonde lunari
Il primo corpo celeste esplorato direttamente, rendendo così obsoleto il telescopio per il suo studio scientifico, è stata ovviamente la
Luna. Negli anni Sessanta una numerosa serie di sonde automatiche ha anticipato lo sbarco degli astronauti, dopo che nel 1959 la
sonda sovietica Luna 3 aveva mostrato per la prima volta la faccia
nascosta agli occhi umani.
L’epopea del Progetto Apollo resta tuttora ineguagliata. L’impresa è stata così straordinaria, che vi sono numerose persone le quali
non credono che 6 missioni con 12 astronauti americani abbiano
raggiunto la Luna più di 40 anni fa, tra il 1969 e il 1972. Il veicolo
spaziale utilizzato per queste missioni è un’astronave composta
di moduli collegati, che formano una specie di «treno» in orbita
attorno alla Luna. A un’estremità si trova il Modulo di Servizio,
cilindrico, con il potente motore per ripartire verso la Terra. ••7
Questo voluminoso elemento è collegato alla capsula Apollo, di
forma conica, che ospita gli astronauti e servirà al rientro sul nostro
pianeta. A essa è agganciato Il LEM (Modulo di Escursione Lunare), destinato a staccarsi per scendere sulla Luna, che a sua volta
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comprende una base dotata di zampe, nonché il piccolo Modulo
di Risalita che riporterà gli astronauti in orbita lunare.
Dopo il Progetto Apollo, gli sbarchi degli astronauti sono cessati,
ma è proseguita attivamente l’esplorazione strumentale del nostro
satellite. Non vanno dimenticate le sonde sovietiche della serie
Lunik, veri robot capaci di muoversi per chilometri sul suolo lunare
e di riportare campioni sulla Terra, che hanno proseguito le loro
missioni fino al 1976.
Nei decenni successivi, l’esplorazione è proseguita da parte di
varie Nazioni, con l’invio in orbita lunare di sonde piccole ma sofisticate, che hanno mappato metro per metro il suolo della Luna.
Vi sono state varie sonde americane: citiamo Clementine «piccola
come un’arancia» nel 1994; le cinque missioni fotografiche Lunar
Orbiter tra il 1966 e il 1967; il Lunar Prospector partito nel 1998 e
fatto schiantare l’anno dopo sul Polo Sud lunare, fino alla Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) lanciata nel 2009 e ancora in attività.
Anche i Paesi orientali si sono cimentati con la Luna: la sonda
giapponese Kaguya (Selene) in orbita dal 2007 al 2009 ha inviato
splendidi filmati, per ultima la cinese Chang’e-2 ha orbitato per 6
mesi attorno alla Luna nel 2011, effettuando riprese ad alta risoluzione.
Venere e Mercurio
L’esplorazione diretta del suolo di Venere è stata finora appannaggio esclusivo della vecchia Unione Sovietica, che ha realizzato
imprese eccezionali tra il 1975 e il 1982, facendo scendere le
sonde corazzate Venera (dalla Venera 9 alla Venera 14) sotto l’impenetrabile coltre di nubi che avvolge il pianeta. Queste enormi
sonde, simili piuttosto a dei batiscafi, hanno resistito per più di
un’ora alle terribili pressioni e alle altissime temperature (quasi
500°C) del pianeta, analizzando l’ambiente e scattando fotografie
panoramiche sulla infernale superficie venusiana.
Da parte loro, gli Stati Uniti hanno inviato la sonda Magellan in orbita attorno a Venere dal 1989 al 1994, mappando l’intera superficie
del pianeta con il radar. Si sono così scoperti numerosi vulcani attivi.
Mercurio, il pianeta più vicino al Sole, non è stato oggetto di molte missioni spaziali. È stato raggiunto per la prima volta nel 1974
dalla sonda americana Mariner 10, che ha sorvolato il pianeta per
3 volte in un anno. Poi Mercurio è stato rivisitato nuovamente appena nel 2008 dalla sonda Messenger, che è tuttora in attività
orbitando attorno al pianeta.
Esploratori marziani
Marte è il pianeta più simile alla Terra ed è anche il meglio esplorato, alla ricerca – per ora infruttuosa – di vita extraterrestre. Le
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••8 I rover marziani. Spirit e il suo gemello Opportunity sono due veicoli con intelligenza artificiale, che hanno
percorso per anni il suolo di Marte. Hanno esplorato montagne e crateri, analizzando il terreno e le rocce. (GRAFICA NASA)
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prime sonde a posarsi sul pianeta rosso furono i due Viking gemelli nel 1976, autentici laboratori chimici per l’analisi del suolo e
dell’ambiente marziano. Due decenni dopo, nel 1997 il Pathfinder
atterrò su Marte e fece anche uscire un piccolo robot semovente,
il Sojourner, capace anche di trapanare e analizzare le rocce. Nel
2008, la Phoenix atterrò vicino alla calotta polare, trovando acqua
ghiacciata nel terreno.
Spirit e Opportunity sono due rover gemelli, atterrati su Marte
nel 2004, che poi hanno viaggiato per chilometri sul pianeta rosso
esplorando il territorio, salendo sulle montagne e nei crateri, con
la facoltà di analizzare il terreno e le rocce nei luoghi più interessanti. Sono dotati di intelligenza artificiale, che li rende capaci di
evitare gli ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra. La parte superiore è coperta di pannelli solari, mentre il lungo «collo» regge
una telecamera stereoscopica. Nel 2012 Opportunity è ancora in
funzione. ••8
Viaggiatori del profondo
I Pioneer 10 e 11, partiti nel 1973 e ’74, furono le prime sonde a
spingersi verso Giove e Saturno, e a lasciare il Sistema solare.
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••9 Viaggiatori del
profondo. A sinistra: una
delle due sonde gemelle
Voyager, che hanno
esplorato i pianeti giganti:
Giove, Saturno, Urano e
Nettuno. L’immagine è
scura poiché lontano dal
Sole c’è poca luce; queste
sonde non hanno pannelli
solari ma piccoli generatori
nucleari. (GRAFICA NASA)
A destra: la sonda Galileo
ha inviato una capsula di
discesa nell’atmosfera di
Giove (in primo piano).
La Galileo è entrata in
orbita attorno al pianeta,
esplorando (a sinistra) i
famosi satelliti medicei.
(GRAFICA DON DAVIS)
Le due sonde interplanetarie gemelle Voyager, partite dalla Terra nel 1977, hanno visitato con passaggi radenti i grandi pianeti
esterni: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Il lunghissimo viaggio
interplanetario è durato più di un decennio e la Voyager 2 ha sorvolato Nettuno nel 1989. Nelle regioni più remote del sistema
planetario la luce del Sole scarseggia; pertanto le sonde che si
spingono così lontano sono alimentate da generatori nucleari, perché i pannelli solari sarebbero inutili. ••9
Nel 1995, dopo 6 anni di viaggio, la sonda Galileo, è entrata in
orbita attorno a Giove, esplorando con numerosi passaggi radenti
i quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei: Io, Europa, Ganimede
e Callisto. La Galileo ha anche lanciato una capsula di discesa
dentro l’atmosfera del gigantesco pianeta.
La missione Cassini ha raggiunto Saturno nel 2004 dopo un
viaggio di 7 anni. Ha poi esplorato il sistema di anelli e i suoi numerosi satelliti, orbitando per anni attorno al grande pianeta. La
piccola sonda europea Huygens si è staccata dalla nave-madre
Cassini, per andare a esplorare il satellite Titano, che è avvolto in
una nebbiosa atmosfera rossa. ••10
La discesa di Huygens su Titano ha svelato un mondo da fan-
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tascienza, che ospita montagne, fiumi e laghi di metano. Questo
satellite è il più grande del Sistema solare ed è l’unico che possiede un’atmosfera. Titano è anche il corpo celeste più lontano dalla
Terra, su cui sia atterrata una sonda. ••11
Comete e asteroidi
Le prime missioni verso una cometa sono state quelle della sonda
europea Giotto e della sovietica Vega, che nel 1986 hanno fotografato il nucleo della cometa di Halley. La prima missione con
discesa su un asteroide è stata invece quella dell’americana Near,
che ha raggiunto Eros nell’anno 2000. Dopo numerose orbite, alla
fine la sonda si è posata dolcemente su questo corpo celeste lungo
30 km, che minaccia la Terra poiché percorre un’orbita a rischio
di collisione col nostro pianeta.
La sonda giapponese Hayabusa (che in giapponese significa
Falco pellegrino) ha raggiunto il piccolo asteroide Itokawa nel
2005. In questa eccezionale missione, la Hayabusa ha toccato il
suolo, prelevando alcuni minuscoli frammenti con un congegno
a scatto. Nell’urto contro l’asteroide, però, si sono persi i contatti
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••10 La missione Cassini
ha studiato gli anelli e
i satelliti di Saturno. Il
modulo Huygens (capsula
conica) ha raggiunto Titano,
il satellite (a destra) con
l’atmosfera rossa.
(GRAFICA NASA, JPL)
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••11 La discesa di
Huygens su Titano ha
svelato un mondo alieno
con montagne, fiumi e
laghi. Il paesaggio al suolo
mostra la spiaggia di un
lago di metano liquido.
(GRAFICA D. DUCROS, ESA)
con la sonda, che ha iniziato a rotolare nello spazio, totalmente fuori controllo. Dopo mesi di sforzi, gli scienziati giapponesi
sono infine riusciti a riprendere i comandi dirigendo la Hayabusa verso la Terra. Cinque anni dopo la sonda ritornava sul nostro
pianeta, facendo cadere una capsula che è stata recuperata in
Australia. ••12
La sonda americana Deep Impact (Impatto Profondo) nel 2005
ha fatto schiantare un apposito modulo sul nucleo della cometa
Tempel 1, provocando un’esplosione artificiale. Questa ha generato un aumento di luminosità della cometa, visibile anche dalla
Terra. ••13
Successivamente, la sonda Stardust (Polvere di Stelle) ha sorvolato la Tempel 1 fotografando il nuovo cratere «fatto a mano».
La stessa Stardust aveva in precedenza compiuto un lungo viaggio
interplanetario, sorvolando la cometa Wild 2 e inviando sulla Terra alcune particelle di pulviscolo della chioma, racchiuse in una
capsula.
La missione della sonda Dawn è in pieno svolgimento. Dopo
aver raggiunto nel 2011 l’asteroide Vesta, che è il terzo corpo in
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••12 La sonda giapponese
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Hayabusa sull’asteroide
Itokawa. Sulla punta
dell’asteroide, la sonda ha
fotografato la propria ombra
(macchiolina scura), ma
non ha potuto ritrarre se
stessa, per cui è riprodotta
con un fotomontaggio.
(JAXA - JAPAN AEROSPACE
EXPLORATION AGENCY)
••13 Esplosione artificiale
sulla cometa Tempel 1,
prodotta dalla sonda Deep
Impact. Disegnata in piccolo,
è riportata la sonda Stardust
che successivamente ha
sorvolato la cometa. (NASA)
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••14 Il motore a ioni.
Questo rivoluzionario
mezzo di propulsione
interplanetaria è in
grado di funzionare
continuamente per anni.
(JAXA)
ordine di grandezza nella fascia degli asteroidi (dopo Cerere e Pallade), la sonda dovrà toccare il pianetino Cerere nel 2015.
Le più moderne sonde americane e giapponesi per l’esplorazione di comete e asteroidi sono equipaggiate con motori a ioni, che
consentono maggiore libertà nelle traiettorie di viaggio entro il Sistema solare. Infatti il motore a ioni è un propulsore rivoluzionario,
che può funzionare continuamente per anni. ••14
NELLE PAGINE SEGUENTI
La scala del cosmo. Per orientarci nell’Universo, possiamo usare il metodo delle «scatole cinesi», dove ogni cubo
è 1000 volte più grande del precedente. Partendo da 1 metro lineare (al centro in basso nella figura), troviamo un
primo cubo (a sinistra) che ha 1 km di lato e comprende la località, o il rione cittadino, in cui ci trovaimo. Il cubo
successivo, con 1000 km di spigolo, contiene l’Italia (qui ritratta dall’orbita).
Il passaggio seguente ci porta già nello spazio, poiché arriviamo a 1 milione di chilometri, che è la dimensione del
sistema Terra-Luna. Nel prossimo cubo, entro 1 miliardo di km ci sta il nostro Sistema solare fino a Giove. Con tale
progressione di mille in mille, andiamo poi a considerare (pagina a destra) un cubo di 1000 miliardi di km, pari a
0,1 anni luce, che risulta vuoto con il Sole al centro.
Le distanze interstellari sono così grandi, che soltanto la prossima «scatola», con 100 anni luce di spigolo, contiene
le stelle più vicine a noi. Poi nel cubo che segue, entro 100.000 anni luce, ci sta tutta la Via Lattea. Questa è solo
una delle innumerevoli galassie disperse nell’Universo, che vediamo aggregate in ammassi nel successivo cubo
di 100 milioni di anni luce. La serie però non va avanti indefinitamente, perchè alla fine dobbiamo fermarci a una
«scatola» ideale di 100 miliardi di anni luce (a destra in basso), che comprende l’intero Universo osservabile.
(WWW.FERLUGA.NET)
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Stampato nell’aprile 2012
per conto di Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A.
da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (PD)
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