Igor Piotto DAL JUST IN TIME ALLA PRODUZIONE MODULARE. RAPPORTI TRA IMPRESE E PROBLEMI DI RELAZIONI INDUSTRIALI DSS PAPERS SOC 4-01 INDICE Introduzione ............................................................................... Pag. 5 Parte Prima a. Trasformazione del sistema di fornitura: dal just in time alla produzione modulare ............................................................. 6 a) Filiera di prodotto organizzato secondo il modello “Just in time” .............................................................................. 8 b) Filiera a “fornitura integrata” .................................................. 11 c) La produzione modulare e le sue implicazioni organizzative . 14 b. Traiettorie di sviluppo nella rete di fornitura industriale .. 21 c. Incompletezza contrattuale e competenze relazionali nel sistema di fornitura .................................................................. 28 a) Incompletezza dei contratti tra imprese .................................. 29 b) Incompletezza e regolazione dei contratti di lavoro ............... 34 Parte Seconda d. La ridefinizione dei confini d’impresa nella filiera di prodotto mette in discussione l’attuale modello di relazioni industriali alla produzione modulare ........................................................... 43 a) Confini di impresa e contrattazione aziendale ........................ 44 b) Parametri di contrattazione del salario variabile ..................... 48 c) Produttori di integrazione e salario professionale ................... 51 d) Coinvolgimento sindacale e terziarizzazione avanzata ........... 53 e. Il contratto di prodotto una strategia di riunificazione contrattuale ................................................................................. 57 a) Problemi e prospettive ............................................................. 57 f. Conclusione. La contrattazione nella terziarizzazione avanzata: una sfida strategica del sindacato ............................................. 64 Bibliografia ...................................................................................... 66 Introduzione Dopo la lean production l’obiettivo strategico delle imprese si è spostato sulle modalità di organizzazione del sistema di fornitura, che ha visto mutare i rapporti tra le imprese e le caratteristiche delle loro interazioni, prima con l’introduzione delle tecniche di just in time, sino alla fornitura integrata per finire con le strategie di esternalizzazione calibrate sull’outsourcing modulare. Una prima parte di questo lavoro sarà dunque focalizzata sull’analisi organizzativa del profilo di questo cambiamento. Il riferimento empirico va al sistema di fornitura della produzione automobilistica; non tanto perché i fenomeni di esternalizzazione siano inesistenti in altri settori, quanto invece perché questa rappresenta il terreno più avanzato nella sperimentazione di nuovi modelli di organizzazione del ciclo di prodotto. Una seconda parte, verranno indagate le conseguenze che questa tendenza strategica tende a produrre sul sistema di relazioni industriali successive al Protocollo del 23 luglio 1993, ed in particolare sulla contrattazione collettiva decentrata; si ridefinisce la posta in gioco della negoziazione e con essi i vinvoli che si pongono di fronte a ciascun attore: rappresentanza degli interessi, costi di contrattazione, regolazione dei rapporti di lavoro. Benché il fenomeno dell’outsourcing ha una portata internazionale, che supera le barriere nazionali e riconfigura il territorio sulla base delle relazioni di scambio, il lavoro di ricerca sarà contestualizzato al caso italiano e quindi indirettamente al suo sistema di regolazione contrattuale di cui il Protocollo ne costituisce il “testo” fondante. In questo studio il ponte tematico che lega le trasformazioni del sistema di fornitura alle relazioni industriali verrà ricercato sull’approfondimento delle caratteristiche di due tipi di contratti: i contratti commerciali tra imprese ed i contratti di lavoro all’interno della singola azienda. L’ipotesi centrale è che l’incompletezza dei contratti di lavoro all’interno delle imprese è una risorsa strategica, utilizzata dal management per fronteggiare i fattori di incertezza che provengono dai rapporti di collaborazione con imprese committenti e di fornitura. L’approccio economico alla teoria dei contratti applicato ai processi di outsourcing può essere una fertile lente di ingrandimento di alcune questioni cruciali sul terreno della contrattazione decentrata. A fronte di una trasformazione dei “confini” dell’impresa si generano delle conseguenze che hanno un impatto diretto sulle modalità di “partecipazione” tra management Dal just in time alla produzione modulare 5 e lavoratori (premi di risultato, strategie di contrattazione del salario professionale). Dopo aver sinteticamente messo in rilievo i punti critici della contrattazione decentrata aziendale, lo sforzo dell’analisi sarà orientato e mettere sotto osservazione critica alcune ipotesi “contrattazione di filiera o di sito” comprendente non più la singola impresa ma la rete di imprese coinvolte in un ciclo di prodotto. Quest’ultima sezione di lavoro, prenderà in considerazione la prospettiva del “contratto di prodotto”; più che un’esercizio di ingegneria contrattuale, il contratto di prodotto è l’occasione per discutere criticamente i dilemmi aperti dai tentativi di configurare la rappresentanza sindacale e la contrattazione decentrata nei casi in cui sono radicalmente messi in discussione i confini giuridici ed organizzativi dell’impresa. a. PRIMA PARTE Trasformazione del sistema di fornitura: dal just in time alla produzione modulare L’esposizione dell’impresa su mercati internazionali e l’inasprimento della competitività hanno contribuito ad assegnare ai fenomeni di “terziarizzazione” un ruolo strategico crescente, imprimendo una duplice svolta organizzativa sul versante interno dell’organizzazione del lavoro allo scopo di ottimizzare i processi organizzativi attraverso lo “snellimento” (streamlining), e sul versante delle relazioni tra cliente e fornitore. I processi di esternalizzazione delle attività aziendali prima svolte all’interno dell’impresa introducono nuove forme forme transazionali, non riducibili alla rigida alternativa tra “gerarchia” e “mercato”, che si sviluppano sia all’interno della singola impresa sia nei suoi rapporti con l’ambiente esterno, in particolare con il suo parco fornitori. L’aumento dei livelli di offerta di beni sul mercato, il recupero di produttività, la riduzione dei costi sono obiettivi strategici perseguibili per mezzo di interventi di snellimento volti ad assottigliare la struttura dimensionale aziendale, restringendola al nucleo di attività che costituiscono il core business dell’organizzazione, ed attraverso un intervento sui meccanismi di governo delle relazioni con i partners esterni, improntate sulla richiesta di una incrementale “responsabilizzazione” dei soggetti coinvolti nella rete di fornitura. Dove la rete di fornitura descrive quei casi di cooperazione tra imprese appartenenti ad un comune filiera di produzione; non si tratta di una 6 Dal just in time alla produzione modulare precisazione puramente accademica, essa consente di evitare generalizzazioni indebite. La struttura di fornitura non coincide con un generico sistema di relazioni tra imprese, essa ha della caratteristiche distintive riconoscibili a partire dalla individuazione di una specifica vocazione produttiva della struttura di filiera1. Questa può essere ricondotta ad «un sistema di articolazione – delle tecniche, dei mercati e dei capitali – tra le attività di produzione, trasformazione, distribuzione; tiene conto dell’esistenza e delle direzioni di complementarietà tra attività produttive; la sua unitarietà è determinata da centri di gravità situati ad un livello variabile del processo produttivo che individuano la densità massima di articolazioni (…) Queste articolazioni fanno emergere relazioni di stretta complementarietà, opposizione ed anche dominazione fra i diversi livelli» (Bellon, 1984, cit. in Enrietti, 1988). Con il passaggio dalla produzione di massa ad economie di varietà, il rapporto tra imprese committenti ed imprese di fornitura tende a concentrarsi non solo sugli aspetti economici del rapporto ma anche sulle attività di servizio (controlli di qualità, miglioramento continuo tramite innovazione delle memorie organizzative, problem solving) che investono direttamente la qualità della prestazione e la sua tempistica. Si addensano intorno ai nuovi contratti di fornitura, ed in parte sono compresi da questo, rapporti di collaborazione con nuovi contenuti che prevedono, oltre a numerosi altri fattori, scambi incessanti di conoscenze tacite ed esplicite e di trasferimento tecnologico. L’instaurarsi di scambi a forte “intensità informativa” dà origine a forme di interazione che non possono essere ricondotte, se non al rischio di pericolosi riduzionismi, ai semplici rapporti di compra-vendita (Rullani, 1986); prendono consistenza “transazioni non codificate” che non possono essere comprese nelle transazioni contrattuali formalmente organizzate. Queste ultime non sono in grado di catturare, e quindi regolare, quella fitta rete di scambi di codici, informazioni, saperi professionali e tecnologie, che rendono altamente qualificante la commistione difficilmente separabile tra conoscenza codificata e conoscenza tacita e localizzata, che costituisce, quest’ultima, uno dei patrimoni più rilevanti dell’impresa stessa, necessari a garantire la tempistica e la qualità della fornitura insieme alle attività di “interfaccia” con l’ambiente esterno. L’incalzare di tempi più ristretti di consegna del prodotto all’interno di vincoli di costo e di qualità, cambia la struttura relazionale all’interno della filiera e delle singole imprese, la cooperazione attiva tende a sostituire la 1 Per un ricognizione sul concetto di filiera e sulle implicazione concettuali rimandiamo a Enrietti (1988). Dal just in time alla produzione modulare 7 natura fortemente eterodiretta di un comportamento fondato sulla “conformità alle regole”. Il rapporto di fornitura in un sistema ad integrazione quasi verticale raramente prevede contratti spot occasionali, adatti per uno scambio di prodotti standardizzati, che deve invece rispondere continuamente a domande di differenziazione e specializzazione dell’offerta di un’ampia gamma di prestazioni. La produzione viene “trainata” dalle specificità del prodotto richiesto dal mercato finale determinando quindi la diversificazione dei singoli contratti di fornitura, e quindi la formalizzazione delle modalità di collaborazione. Sul modello giapponese molto è stato scritto, ci si limiterà quindi a sottolineare che la lean production non ha solo rappresentato una risposta aziendale alla crisi strutturale del fordismo, ha anche definito l’infrastruttura organizzativa sulla quale è stato possibile lo sviluppo di una nuova architettura di relazioni tra imprese finali, di prima fornitura e subfornitura. Dentro il riferimento a questo modello si annidano però alcuni problemi di interpretazione. La produzione snella viene alternativamente ricondotta ad un sistema di “tecniche organizzative” ed in questo caso l’attenzione si sposta sul just in time (Ohno, 1990, Monden, 1983), oppure ad un paradigma di produzione sostitutivo di quello fordista della produzione di massa. Ma se è fuori discussione che tra di esse esista una relazione, la loro sovrapposizione è altrettanto rischiosa; questo studio fa riferimento ad una trasformazione della filiera tutta interna a relazioni di fornitura che si svolgono nell’ambito della lean production, ed il just in time è una delle configurazioni, insieme a quelle della fornitura integrata e della produzione modulare, che la filiera può assumere. In altri termini, all’interno della produzione snella si sono sviluppare relazioni tra imprese che si sono innestate sulla matrice originaria del JIT e ne hanno ridefinito i confini dando origine a forme diversificate di fornitura integrata e successivamente di outsourcing modulare. a) Filiera di prodotto organizzata secondo il modello “just in time”. Il sistema just in time ha rappresentato nella trasformazione del sistema di fornitura un punto di passaggio nel processo di razionalizzazione produttiva intervenuta sul finire degli anni ’80. L’impresa finale fa riferimento ad un parco fornitori piuttosto numeroso, in cui ciascuna impresa si trova posizionata all’interno di configurazione gerarchica piuttosto variabile. Il fornitore è localizzato in prossimità del cliente ma questo non prevede necessariamente una stretta contiguità geografica; il nodo fondamentale su cui ruota il sistema di fornitura JIT riguarda essenzialmente l’integrazione di tipo logistico. La sincronizzazione dei 8 Dal just in time alla produzione modulare processi obbliga le imprese fornitrici ad una drastica riduzione dei tempi di consegna, con un abbattimento dei tempi nella movimentazione dei semilavorati e dei materiali. I due pilastri della razionalizzazione produttiva veicolata dal JIT sono l’ottimizzazione dell’interscambio e la riduzione dei costi; due elementi che chiamano direttamente in causa le strategie di innovazione logistica della produzione. Questo ha avuto come effetto immediato la riduzione o il progressivo esaurimento degli stock di magazzino del cliente finale, e con esso una riduzione rilevante dei costi di gestione. Magazzini che si sono poi distribuiti lungo la filiera nelle officine di fornitori e subfornitori, con l’esito di creare un sostanziale stato di dipendenza dal cliente finale. La centralità della dimensione logistica trova ulteriori conferme se analizzata sotto il profilo dell’innovazione tecnologica introdotta in questa fase di decollo dei nuovi modelli di produzione. Dopo l’introduzione delle macchine a controllo numerico a cui è seguita la robotizzazione di alcuni segmenti del ciclo di lavorazione grazie all’impiego massiccio di tecnologie meccatroniche; sviluppatasi ancora nel quadro organizzativo del paradigma fordista nonostante i suoi evidenti segnali di crisi, l’innovazione tecnologica più consistente nella fase di just in time ha riguardato software informatici di gestione delle informazioni riguardanti lo stoccaggio dei materiali e la gestione delle consegne. Oltre ad esperienze di kanban elettronico, i software più diffusi – Sigip e Sap – riguardano l’informatizzazione delle procedure di gestione dei materiali, che hanno reso possibile un ulteriore snellimento di moduli organizzativi (es. Material Resource Planning), in particolare favorendo il controllo “in tempo reale” dei processi di alimentazione del ciclo produttivo. L’integrazione logistica è dunque il perno della trasformazione proprio perché è l’esito di un’attività di cooperazione tra cliente e fornitore, assai superiore a quella conosciuta in passato: da qui si può affermare che l’integrazione dei processi interaziendali inizia a diventare un bene che dipende dalla qualità della relazione2. 2 Con la produzione snella si apre una prospettiva nuova di sinergia tra il nucleo tecnico dell’organizzazione, ovvero quegli elementi distintivi che l’organizzazione cerca di preservare dalle turbolenze esterne e l’ambiente locale (task environment); l’impresa sconfina nel territorio e l’ambiente locale entra nell’impresa. Nucleo tecnico e ambiente locale conservano due logiche di azione differenziata ma non sotto il profilo spaziale, che invece dà origine ad una sorta di “regionalizzazione della produzione”, che talvolta può prendere la forma del distretto industriale. In altri termini il just in time riposiziona il nucleo tecnico della singola organizzazione all’interno di una rete territoriale di imprese, o di impresa rete (Pichierri, 1994). Dal just in time alla produzione modulare 9 Un bene relazionale che può essere riprodotto attraverso relazioni contrattuali ripetute ma anche discontinue, senza che questo metta in discussione il permanere – e questo aspetto accomuna l’impresa JIT all’impresa taylor-fordista - di una strategia aziendale ancora costruita sulla corporate governance. Da un lato i vincoli di reciprocità connessi alla logistica hanno richiesto investimenti specifici soprattutto da parte dei fornitori (informatizzazione dei piani di alimentazione e consegna, gestione di un volume considerevole di stock di materiali all’interno di vincoli temporali assai stretti), con una perdita di una parte consistente del potere negoziale nei confronti del cliente finale, a vantaggio di quest’ultimo che ha potuto così sperimentare la portata e gli effetti di una prima selezione del parco fornitori. La gestione del cronometro si è esteso dalle “linee di produzione” alle relazioni inter-aziendali, assumendo una connotazione sistemica; la tempistica offre parametri certi ed oggettivi di definizione degli obblighi reciproci riducendo ampi margini di aleatorietà anche in fase di stipulazione ed implementazione del contratto di fornitura. Il bene relazionale “integrazione” comporta che le attività di soggetti economici giuridicamente autonomi vengano sincronizzate nei tempi di consegna e acquisizione del materiale, demandando alla singola impresa fornitrice il compito di attivare al proprio interno le risorse per adempiere alle richieste del cliente. In questo quadro sono riconoscibili i confini dell’impresa e le strategie di corporate governance riguardano al mobilitazione di risorse interne, ma anche esterne attraverso relazioni con imprese di subfonitura, alle quali si assegnano compiti di intervento nei momenti di sovraccarico delle commesse (subfornitura di capacità). Questo processo di razionalizzazione tempistica è stato ulteriormente vincolato a parametri di controllo della qualità (coagulati intorno alle norme ISO 9000), con ricadute sulla stessa organizzazione interna del lavoro. Lo ricordiamo, l’introduzione del modello just in time non ha solo investito i rapporti di fornitura ma anche la struttura aziendale nel suo insieme; ricordiamo che l’introduzione della lean production è inseparabile da un assottigliamento dei livelli gerarchici accompagnato da richieste di maggiore polivalenza delle attività di tipo esecutivo. Con il supporto di studi empirici (Esposito, Lo Storto, 1999 ; Raffa, 1998) è possibile ricostruire il profilo più rappresentativo delle imprese fornitrici in un contesto organizzativo di just in time. All’interno della filiera di fornitura troviamo imprese (chiuse) che hanno scambi esclusivamente con le imprese committenti, e svolgono al loro interno tutto il volume della commessa. Le modalità di coordinamento con il 10 Dal just in time alla produzione modulare cliente vengono veicolate essenzialmente da conoscenze codificate; in questo caso le competenze tecniche dell’impresa prevalgono su quelle relazionali, date le possibilità di codificazione della regolazione degli scambi. Alle imprese chiuse si affiancano imprese che esternalizzano a subfornitori le parti meno importante del ciclo produttivo; questo meccanismo riproduce una sostanziale debolezza dei subfornitori collocati negli anelli finali della “catena” che unisce il ciclo di prodotto. Essi ricalcano un profilo di impresa chiusa caratterizzata da un know how essenzialmente tecnico e scarsamente rivolto verso skills relazionali. Segue l’impresa semi-aperta che, pur collocandosi negli anelli finali della catena di fornitura, si differenzia dal modello precedente perchè lo scambio di informazioni prevede un aumento di intensità bidirezionale (in entrata/in uscita). Di minore rilevanza numerica sono quelle imprese – aperte - che esternalizzano fasi complesse e rilevanti del ciclo produttivo, affidandole a subfornitori complementari sotto il profilo tecnologico e professionale. La loro posizione nel network di fornitura è intermedia e si contraddistingue per la presenza, sia verso il cliente finale sia verso i subfornitori, di intensi flussi di informazioni e di tecnologia (non solo materiali, attrezzature, disegni, procedure, manuali, programmi di lavoro, ma anche know how trasmesso attraverso l’interazione tra figure professionali specializzate). Questo terzo tipo ha una minore consistenza numerica, ma risulta rilevante perché costituisce la forma embrionale dell’impresa co-design, ovvero di quella forma aziendale paradigmatica della filiera a struttura integrata. b) Filiera a “fornitura integrata”. La caratteristica principale della filiera di prodotto a fornitura integrata riguarda essenzialmente l’ampliamento del raggio di prestazioni demandate al fornitore, il cui ruolo «non è più quello di realizzare particolare su disegno del cliente ma quello di fornire entità complesse, essendo responsabile dello sviluppo, della progettazione, della qualità e dell’affidabilità degli stessi sistemi» (Bianchi, Enrietti, 1999, 16-17). Il nuovo profilo dell’impresa di fornitura si estrinseca su due differenti direzioni; da un lato l’impresa fornitrice diventa un integratore di sistema, responsabile di sotto sistemi del prodotto finale, della sua progettazione ed industrializzazione3, 3 L’industrializzazione è una fase solitamente dimenticata o assorbita dai termini della produzione e della progettazione; essa descrive quell’insieme di attività specificatamente dedicate a “tradurre” in forma fisica l’oggetto del disegno tecnico. Questo comporta una disamina dettagliata di tecnologie e metodologie di processo più adatte alla fabbricazione Dal just in time alla produzione modulare 11 dell’interscambio con i vari produttori specializzati nella produzione delle singole parti e deve farsi carico di tutta la dimensione logistica di questa gestione. Dall’altro lato essa diventa una fornitrice di moduli, ovvero si impegna a fornire all’impresa finale moduli “preassemblati” che verranno successivamente inviati all’impresa finale ed assemblati nell’oggetto finale dalla stessa (Bianchi, Enrietti, 1999). Questo nuovo modello di organizzazione della filiera richiede un grado di integrazione dei processi inter-aziendali superiore a quello incardinato sulla dimensione prettamente logistica; la cooperazione tra impresa finale ed impresa di fornitura deve dare luogo ad un bene relazionale che nasce dall’intersezione di specifiche competenze tecniche e relazionali che si cementano nella fasi di codesign, ovvero nella fase in cui il prodotto viene “ingegnerizzato”. Vengono attenuati i confini di una rigida divisione tecnica del lavoro interna alla filiera, che vedeva l’impresa finale al centro di tutto il lavoro di progettazione, mentre si fa strada la strategia di esternalizzazione di funzioni aziendali altamente specializzate come sono quelle del design e della progettazione4. L’integrazione dei processi si muove lungo la direttiva dell’ingegnerizzazione congiunta, con transazioni di lungo periodo che sfociano nel consolidamento di meccanismi di governance inter-aziendali incardinati sulla partnership. Con questo termine si intende descrivere un rapporto di cooperazione tra imprese fornitrici ed impresa finale basati sulla reciproca fiducia e sulle garanzia di un rapporto continuativo che produce esternalità positive per entrambi i partner della relazione contrattuale; partnership definisce dunque un contratto di associazione che si esprime non solo nella dimensione logistica della fornitura ma anche nella collaborazione nel design e nella progettazione. Questo scenario di relazioni cooperative non si sviluppa su un livello prevalentemente “orizzontale” di rapporti paritari, estranei a dinamiche di dell’oggetto stesso. Il passaggio dei compiti di industrializzazione dal cliente finale all’impresa di fornitura ha effetti non trascurabili nel carico di lavoro, e funge spesso da incentivo alla promozione di innovazioni organizzative, tecnologiche e di know how dell’impresa. Il prodotto va disegnato, industrializzato e fabbricato, con il risultato che il monitoraggio sui test in fase di sperimentazione del prodotto sono a carico dell’impresa di fornitura. 4 È da sottolineare che le stesse imprese di progettazione satelliti di grandi imprese finali, specie nel settore automobilistico, sono state investite dello stesso processo di razionalizzazione. Anche l’impresa fornitrice di progettazione non si limita ad “eseguire” disegni su una matrice fornita dal cliente. L’impresa di progettazione in codesign progetta l’oggetto avendo a disposizione solo i vincoli (tecnologie dei materiali, vincoli normativi e temporali) che incanalano il lavoro di progettazione. 12 Dal just in time alla produzione modulare potere di mercato; la cooperazione inter-aziendale non è incompatibile con la presenza di asimmetrie di potere che esistono e sopravvivono nella filiera di prodotto5. Anche nella fornitura integrata si forma una struttura gerarchica che ingloba tutta la filiera del ciclo di prodotto; anche se la molteplicità dei fornitori presenti nel modello just in time viene considerevolmente ridotta attraverso la selezione di un primo livello di fornitura a cui si aggiungono n livelli di subfornitura dando origine ad una “piramide” più ristretta al vertice e meno variabile per quanto riguarda il posizionamento delle singole aziende ai differenti livelli di fornitura. I fornitori di “ieri” che non entrano nella fascia di primo livello non vengono espulsi dal mercato – se non in una minima parte – ma vengono piuttosto ricollocati all’interno di una struttura fortemente gerarchica, strutturata in base alla qualità della prestazione che riescono a fornire all’impresa finale6. L’impresa codesign, dunque, è quell’impresa di primo livello con la quale l’impresa finale stabilisce rapporti di partnership, ed alla quale chiede prestazioni più qualificate, che scaturiscono da un impegno finalizzato a garantire la produzione di un bene relazionale strategico quale l’integrazione di attività sempre più interdipendenti. La base della piramide gerarchica – strutturata secondo i canoni dell’integrazione quasi verticale7 – che raccoglie le imprese subfornitrici (dal secondo livello in poi) vede prevalere il profilo organizzativo delle imprese che hanno caratterizzato il sistema just in time di fornitura, con una variante. All’interno di questo modello relazionale, anche l’impresa di primo 5 Per una rassegna sulla distinzione tra le prospettive della partnership e della gerarchia rimandiamo a Enrietti (1997). 6 Secondo Lamming (1993) nel settore automobilistico la tendenza nella selezione delle imprese segue una configurazione piramidale che vede una drastica diminuzione delle imprese di fornitura di primo livello, le quali sono anche imprese multinazionali che riescono a seguire e supportare l’impresa finale nei processidi internazionalizzazione di quest’ultima (global service). Questa impostazione analitica viene confermata da Bianchi ed Enrietti (1999) nel corso della loro ricerca sul distretto tecnologico dell’auto. 7 La definizione di integrazione quasi verticale è di Aoki (1988). Essa si vuole distinguere da un ciclo di prodotto verticalmente integrato all’interno di una impresa di produzione, se un consistente numero di fasi del processo produttivo sono all’interno di un'unica impresa, il ciclo di prodotto viene verticalmente integrato. Alla dimensione gerarchica si unisce l’elemento di appartenenza ad una comune proprietà. L’integrazione quasi verticale descrive un contesto in cui diverse fasi del ciclo di prodotto sono state esternalizzate ed appartengono ad imprese differenti, ma la posizione di queste imprese non è distribuita orizzontalmente ma all’interno di una struttura gerarchizzata su diversi livelli. Del modello precedente sopravvive il criterio gerarchico come principio di strutturazione dell’ambiente. Cfr. Aoki (1988). Dal just in time alla produzione modulare 13 livello farà richieste alle imprese subfornitrici sempre più connotate da una visione multidimensionale della collaborazione, non più circoscrivibile alla gestione tempistica dei materiali, con casi di esternalizzazione ai subfornitori di attività non più solo a bassa qualificazione che possono investire fasi del processo particolarmente articolate, che richiedono infrastrutture tecnologiche e skills professionali di crescente complessità, e sempre più orientati a sviluppare competenze di “relazione” e di interfacciamento con il cliente e con i subfornitori. c) La produzione modulare e le sue implicazioni organizzative. Il concetto di modulare necessita di una prima specificazione. Può riguardare la configurazione interna dell’impresa, ovvero l’articolazione dei suoi processi interni strutturata secondo moduli altamente flessibili, che nella letteratura prendono il nome di “celle”. Il riferimento in questo caso è alla cellular manufacturing. Questa innovazione organizzativa è largamente presente nelle esperienze di implementazione del just in time sin dalle sue prime applicazioni; un esempio di produzione a “celle” ampiamente esplorato nella letteratura è quello sperimentato negli stabilimenti Fiat sotto il nome di UTE (unità tecnologiche elementari). Queste sono unità organizzative semi-autonome incaricate della gestione di interi segmenti di processo produttivo, capaci di adattamento dinamico alle richieste mutevoli del mercato e dei clienti interni. In altre parole, la modularizzazione organizzativa è uno strumento di “assorbimento” delle incertezze. Questa riconfigurazione dei gruppi di lavoro interni alla “cella” costituisce una delle architravi del lean production, ne riassume la prospettiva culturale ed evidenzia la distanza rispetto al tradizionale modello tayloriano di organizzazione della produzione e delle risorse umane ad essa connesse. Con un altro significato, la modularizzazione fa riferimento alle caratteristiche del ciclo di un prodotto relativamente all’organizzazione delle imprese che fanno parte della filiera di fornitura. In questo caso la produzione modulare è un fenomeno esteso su un piano inter-aziendale, e non più circoscritto alle dinamiche organizzative della singola impresa, come nel caso della cellular manufacturing. I due fenomeni non sono separati, anzi, tendono a sovrapporsi nei casi di outsourcing, nei casi cioè di esternalizzazione di attività aziendali prima svolte all’interno di una singola impresa. Quello di outsourcing è un concetto problematico, non tanto per una sua intrinseca complessità, quanto piuttosto per il fatto che comprende fenomeni organizzativi tra loro diversificati. Genericamente, esso designa «il processo attraverso il quale le aziende assegnano stabilmente la gestione 14 Dal just in time alla produzione modulare operativa per la realizzazione di un prodotto o di un servizio, in precedenza ottenuti all’interno di un’azienda» (Boin, Salvodelli, Merlino, 1998, 102). Questo fenomeno non costituisce una novità nelle scelte strategiche del management industriale. Già nella prima metà degli anni ’70 le strategie di “decentramento produttivo” 8 nelle grandi imprese si erano caratterizzate per la cessione di parti della proprietà e di segmenti del processo produttivo ad imprese esterne in risposta a shock esogeni provenienti da un consistente incremento dei prezzi delle materie prime, ed endogeni, conseguenza di un aumento della conflittualità sociale (Barca, Magnani, 1989). La riedizione del fenomeno di “esternalizzazione” ripropone ciò che Graziani (1977) aveva definito come «ristrutturazione fuori della fabbrica», ma in una nuova veste: le imprese prima tendono a trasferire all’esterno quelle attività che si trovano in una posizione periferica dell’organizzazione, cioè quelle che contribuiscono solo marginalmente alla catena del valore dell’azienda, concentrando i propri investimenti su quei settori che più rispondono alla sua vocazione produttiva, il suo core business. In questa fase le imprese trasferiscono all’esterno la gestione operativa di servizi amministrativi (attività di amministrazione e rendicontazione) o servizi di supporto (gestione dei servizi informatici, formazione professionale e aziendale). Solo successivamente l’outsourcing comprende attività, sempre più prossime al 8 Il modello strategico ed organizzativo della produzione di massa non si è mai configurato come un blocco monolitico costante nel tempo ed impermeabile a tentativi di trasformazione; senza mai mettere seriamente in discussione l’impianto organizzativo del taylorismo; sin dalla prima metà degli anni ’70 le grandi imprese reagiscono a shock esogeni ed endogeni attraverso strategie di “decentramento produttivo”, inteso in senso difensivo come contenimento dei rischi di conflitto sociali contenuti in grandi e congestionati impianti industriali, ed in senso aggressivo come politica di rilancio, basata su un aumento dell’intensità di capitale, a fronte di un’accresciuta competizione internazionale. Le strategie di riaggiustamento industriale intraprese dalle grandi imprese che si apre a partire dalla prima metà degli anni ’80 si spostano sul terreno dell’efficienza produttiva attraverso politiche di ristrutturazione del lavoro, distribuzione del reddito e massicci investimenti in innovazione tecnologica di processo (sono questi gli anni dell’euforia tecnocratica della unmanned factory). Tuttavia all’interno dell’intervallo temporale che va dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’80, il modello fordista di organizzazione del lavoro e dei rapporti di fornitura non subisce significativi mutamenti, che restano ancora fortemente condizionati da una visione gerarchica delle relazioni. L’aumento del grado di specializzazione e diversificazione della domanda e l’aumento della flessibilità potenziale del capitale come conseguenza dell’innovazione tecnologica (Barca, Magnani, 1989) modificano il quadro economico e fanno emergere un modello produttivo di specializzazione flessibile. La produzione delle piccole imprese a ridosso dei grandi gruppi industriali non solo assorbe la domanda di mercati di nicchia ma consente una diversificazione dell’offerta che non è possibile realizzare su larga scala e che richiede lavoro specializzato. Dal just in time alla produzione modulare 15 core business, ad elevata complessità gestionale9. Specie nell’impresa industriale, questi trasferimenti riguardano l’outsourcing di “sottosistemi di prodotto” o di intere fasi del processo produttivo. In entrambi questi due casi la modularizzazione consiste nell’intreccio di due indistinti fenomeni; da un lato attraverso il trasferimento della proprietà, e dall’altro attraverso l’internalizzazione (insourcing) delle attività produttive, e quindi delle imprese a cui è stata ceduta la proprietà, sulle linee di produzione dell’impresa finale. L’outsourcing non consiste solo nella esternalizzazione di funzioni aziendali (Durante, Gavitelli, 1997, Ichino, 2000), esso descrive dunque una nuova architettura di progettazione del prodotto e del processo, dove accanto alla “cessione della proprietà” - esternalizzazione proprietaria procede parallelamente un fenomeno di internalizzazione operativa. Questa simultaneità è la caratteristica principale dei nuovi processi aziendali di outsourcing, e costituisce un elemento di distinzione non solo verso l’esperienza del “decentramento produttivo”, ma anche rispetto alla struttura della “filiera integrata”, in cui la fornitura viene regolata da un contratto di partnership che non investe necessariamente la cessione di proprietà aziendali. Veniamo ora alle tipicità dell’outsourcing modulare ovvero alle caratteristiche aziendali che presidiano il concetto di produzione modulare, distinguendo in primo luogo tra modularità di processo e modularità di prodotto. Nel primo caso la produzione modulare riguarda la cessione di fasi del processo produttivo, tecnologie e risorse umane. Un esempio in questa direzione è il trasferimento promosso da costruttori finali di autoveicoli come Fiat ed Iveco di interi reparti di stampaggio, che sono diventati proprietà di imprese esterne che operano però negli stabilimenti Fiat di Rivalta ed Iveco di Brescia. La modularizzazione non riguarda il prodotto 9 Ricciardi in un recente ed interessante studio sul fenomeno dell’outsourcing individua due variabili, complessità gestionale (alta, bassa) ed attività da esternalizzare (vicine/lontane dal core business), per costruire una tipologia di modalità di outsourcing: outsourcing “tattico” per descrivere l’esternalizzazione di attività quali la formazione del personale e lo sviluppo di sistemi informativi, “quello tradizionale” per attività di supporto anch’esse distanti dal core business aziendale, quello “strategico” per attività vicine al core business e ad elevata complessità gestionale, per concludere con l’outsourcing “di soluzione” in merito ad attività a bassa complessità gestionale ma contigue ai processi che strutturano iul core business dell’impresa. Dentro questa tipologia l’outsourcing modulare rientra nella categoria delle attività strategiche, cioè quelle che concorrono alla definizione del sistema finale del prodotto. Cfr. Ricciardi (2000). 16 Dal just in time alla produzione modulare ma la sincronizzazione dei segmenti di processo; il prodotto piuttosto non presenta un’elevata complessità gestionale, non ha la struttura di un subsistema autonomo del prodotto finale. La fabbrica modulare in questa prospettiva diventa un’oganizzazione composta differenti imprese giuridicamente autonome ma dislocate su un comune spazio operativo. Lavoratoti appartenenti a imprese differenti operano sulla stessa linea, la disomogeneità di “appartenenza contrattuale” viene riunificata da questa nuova organizzazione produttiva che non si trova più perimetrata da confini giuridici della singola impresa. Nel secondo caso la produzione modulare invece riscrive l’architettura di un prodotto attraverso la cessione della proprietà di interi moduli, ovvero di sottosistemi del prodotto variabili nella loro combinazione su interfaccia standardizzati: nell’industria automobilistica possono riguardare, la plancia, il sistema frenante, ecc. Diversi componenti, a loro volta disaggregabili in sub-componenti, con caratteristiche ed interfaccia standard possono essere aggregati in molteplici combinazioni dando origine a prodotti differenti o a variazioni dello stesso prodotto. In questo caso la varietà del singolo prodotto è uno strumento di competitività sul mercato, in quanto consente una riduzione dei costi pur salvaguardando le garanzia di risposta alle richieste di customization. Da qui si deduce che il nodo problematico non consiste tanto nella definizione di queste “unità di componente” quanto nella gestione degli interfaccia che ne consentono un’efficace combinazione; ne consegue che il grado di modularizzazione è strettamente connesso con il numero di componenti ed i vincoli di interfaccia richieste dalle specifiche combinazioni. La complessità di una tale architettura può essere dunque ricondotta – oltre che alla tecnologia, al know how della progettazione, ed alle professionalità in fase di fabbricazione – alla gestione dell’impatto che ciascun componente ha sull’altro in relazione alla funzionalità complessiva del prodotto ed alle performance desiderate. Seguendo questo ragionamento il prodotto “modularizzato” può essere inteso come un “sistema di componenti che sono reciprocamente in relazione, tenuti insieme dall’architettura complessiva del prodotto” (Christensen, Rosembloom, 1995). I vantaggi derivanti dall’organizzazione modulare del ciclo di prodotto non investono solo la possibilità di fornire un ampio numero di variazioni, ma riguardano anche la possibilità di instaurare percorsi di innovazione su due fronti: da un lato, la divisione del lavoro interna alla filiera è organizzata secondo una “rete” in cui, sulla base di standard di compatibilità “di incastro delle unità elementari”, ciascun gruppo di progettazione e fabbricazione del Dal just in time alla produzione modulare 17 componente può apportare innovazioni e modifiche in modo autonomo ma all’interno di un framework comune (Hsuan, 1999). Dall’altro lato si intensificano i circuiti di apprendimento soprattutto per quanto concerne lo sviluppo di competenze di coordinamento che si collocano proprio nella gestione delle zone di interfaccia tra i singoli processi (Sanchez, Mahoney, 1996). Da questa prima descrizione l’outsourcing modulare delinea i tratti di un sistema di produzione del ciclo di prodotto che riprende alcune delle “tipicità” riscontrate nel sistema a “fornitura integrata”: 1. l’importanza del sistema informativo come infrastruttura cruciale nel governo della rete su cui transitano le informazioni e le conoscenze che l’impresa finale e quella di primo livello si scambiano reciprocamente. 2. L’intensificazione degli scambi è stata una delle leve principali di impiego intensivo di tecnologie informatiche all’interno della struttura di fornitura; Il circuito CAD/CAM viene inserito in una rete telematica che facilita la progettazione e l’ingegnerizzazione congiunta dei prodotti e la loro scomposizione in unità modulari. Nella fase successiva alla progettazione, i fornitori di primo livello assemblano il prodotto in aree limitrofe (fornitura integrata) o all’interno degli stabilimenti del produttore finale (outsourcing modulare)10. 3. In entrambe le strutture di filiera, il bene relazionale strategico riguarda le attività di coordinamento e integrazione. Nel caso dell’outsourcing la cessione della proprietà spinge i partner a concordare un programma “aggressivo di miglioramenti” (Collins, Bechler, Pires, 1997), orientato alla congiunzione di competenze distintive; risorse, tecnologia e professionalità che vanno a strutturare le competenze chiave delle singole imprese coinvolte nella relazione devono trovare efficienti “punti di fusione”. Il precipitato di questa collaborazione non si limita dunque alla cooperazione in fase di progettazione e produzione ma riguarda la gestione congiunta dell’assemblaggio dei sottosistemi modularizzati che compongono il prodotto finale. 4. Prima con la fornitura integrata e successivamente con l’outsourcing modulare cresce l’importanza della logistica nella movimentazione dei materiali; anch’essa soggetta ad estrernalizzazione 10 Questa tendenza è stata recentemente riscontrata nell’ambito della componentistica autoveicolare, non solo per quanto concerne il distretto tecnologico dell’auto torinese, ma anche di altre imprese leader nel settore automotive (Opel, BMW, Renault). (Osservatorio sulla componentistica autoveicolare, 1998). 18 Dal just in time alla produzione modulare (pensiamo all’accordo tra Fiat e TNT Traco) ricopre un ruolo cruciale nell’integrazione delle attività produttive oltre a garantire una rete di supporto nella rete internazionale del cliente (global service)11. 5. Poi L’impresa “tipo” dell’outsourcing modulare rimane dunque collocata al primo livello di fornitura, lasciando così invariata la struttura gerarchica del modello integrato, pur modificando radicalmente i confini operativi dell’impresa. Imprese di logistica, modularizzazione dei sottosistemi che compongono il prodotto, informatizzazione avanzata di comunicazione inter-aziendale e co-localizzazione del fornitore (anche quello di logistica) “sulla linea” dell’impresa finale sono i nodi tematici più rilevanti che segnalano la presenza di innovazioni incrementali ma non radicali del sistema di fornitura integrata. L’aspetto più rilevante nel segnare la distanza dalla fornitura integrata è costituito dal progressivo venir meno dei confini organizzativi dell’impresa, come risultante dei due processi sincronici di outsourcing proprietario ed insourcing operativo. Questo passaggio può essere chiarito partendo dall’ordinamento giuridico civile italiano; qui l’impresa viene definita come «il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa» (art. 2555 c.v.). L’impresa come entità economica organizzata si differenzia da “azienda” che invece rimanda ad una complesso di beni e ad una struttura socio-tecnica (Gallino, 1961). Con l’outsourcing modulare si assiste ad una progressiva dissociazione della struttura organizzativa dalla sua condizione “aziendale”; i suoi confini non rispondono più alla configurazione giuridica dando origine ad una struttura ibrida, che richiama una forma reticolare; l’efficienza delle sue attività produttive è sempre più vincolata alla qualità delle sue zone di integrazione e coordinamento. La produzione modulare - o terziarizzazione avanzata (Magnabosco, 1999) - mette radicalmente in discussione, più di quanto non sia avvenuto con la fornitura integrata, i meccanismi di governo dell’impresa 11 In questo senso la terziarizzazione della logistica è una componente fondamentale non solo nel supporto alla “modularizzazione della produzione” ma costituisce anche uno dei fattori chiave nella internazionalizzazione dell’impresa stessa. Questo fenomeno è particolarmente evidente negli impianti delle imprese multinazionali automobilistiche; i casi di Volkswagen a Resende in Brasile (Woodruff, Katz, Naughton, 1996), della Skoda (Collins, Bechler, Pires, 1997), gli stessi accordi tra Fiat e TNT lasciano intendere come la rete logistica sia la dorsale di tutto il sistema di fornitura. La sua efficienza determina le alleanze strategiche dell’impresa costruttrice e le sue prospettive di localizzazione (Willcocks, Ju Choi, 1995). Dal just in time alla produzione modulare 19 riconducibili al concetto di corporate governance, ovvero di quel sistema di governo dell’impresa che descrive «l’insieme di incentivi, salvaguardie e processi di risoluzione dei conflitti che ordina le attività degli stakeolder di un’azienda» (Kester, 1991, 5). Il governo delle attività produttive di un’azienda è la risultante della qualità della cooperazione con altre imprese. Il riferimento nelle modalità di governo non è più la struttura della corporate ma il contratto di fornitura; la formalizzazione delle reciproche obbligazioni/prestazioni contenute nella transazione è parziale, infatti rimangono in forma implicita, in continua definizione, quelle attività di integrazione che oltre a potenziare il “nocciolo duro” delle competenze aziendali (Quinn, 2000), fanno da supporto al contratto stesso e lo rendono eseguibile. Il contratto commerciale può essere inteso alla stregua di un “cantiere” in perenne costruzione e ricerca di un punto di saldatura tra il requisito organizzativo della filiera e l’attività economica della singola azienda. La ricerca dei confini efficienti dell’impresa diventa così un problema di governo dei contratti (contractual governance12) che regolano lo scambio di risorse tra l’impresa outsourcer e quella outsourcee. I confini dell’azienda sbiadiscono nella rete di cooperazione formale sancita contrattualmente ed in quella informale caratterizzata da quelle attività che rendono possibile lo scambio13. Non solo ma la qualità dell’integrazione organizzativa tra le due imprese contraenti diventa la risorsa più rilevante per il raggiungimento di livelli soddisfacenti di implementazione degli obblighi contrattuali. 12 Il concetto di contractual governance comprende quella attività volte ad «escogitare metodi per accordi o relazioni fra compagnie che equilibrino in maniera ottimale i rischi di negoziare sul mercato con quelli di controllare a livello amministrativo le stesse attività all’interno di una gerarchia organizzativa» (Kester, 1996, 127). Questa prospettiva interseca quella aperta dalla scuola dell’economia dei costi di transazione, proprio a partire dal dilemma di origine relativo all’alternativa tra gerarchia e mercato. Il dibattito intorno alla integrazione contrattuale, che ha origine non tanto dagli studi sulla proprietà ma sulla esperienza di governance giapponese. Il concetto di corporate governance, più focalizzato sui problemi di agenzia del management separato dai titolari della proprietà dell’impresa, costituisce comunque il termine di paragone rispetto alle trasformazioni delle relazioni di cooperazione inter-azidendale. Cfr. Per una rassegna sulle problematiche della governance aziendale, Guelpa, 1995. 13 Per un approfondimento sul tema della ridefinizione dei confini di impresa rimandiamo a due studi di rilevante interesse: Holmstrom, Roberts (1998), Colombo (1998). 20 Dal just in time alla produzione modulare b. Traiettorie di sviluppo nella rete di fornitura industriale La sequenza con la quale è stata ricostruita tale trasformazione (ved. Tav.I) non deve generare una illusione evolutiva dei singoli processi, secondo la quale ciascun modello incorpora quello precedente ed al contempo lo supera. L’esperienza empirica dimostra piuttosto la coesistenza di modelli diversi all’interno di una stessa filiera di prodotto. L’outsourcing modulare che investe il primo anello di fornitura coabita con imprese organizzate secondo le tecniche del just in time relative ad imprese dislocate negli anelli inferiori della catena di fornitura. Le esperienze soprattutto nel settore della produzione automobilistica, ma la tendenza si ripropone nel settore del legno-arredo (Gargiulo, Mariotti, 1999), dimostrano la natura fortemente ibrida di tale catena; si tratta di imprese diversificate per strategie, competenze ed organizzazione14. 14 Su questo punto si può inserire la questione relativa alle diverse vie della flessibilità per quanto concerne la strategia di sviluppo e le modalità di gestione delle risorse umane interne; nella catena di fornitura possono convivere funzionalemnete una via alta alla flessibilità ed una via bassa alla flessibilità, secondo una divisione tecnica del lavoro di filiera, il cui principio regolatore concerne il livello di competenze che la singola impresa è in grado di mobilitare per raggiungere un’alta qualità del prodotto, ovvero la qualità del bene relazionale che è in grado di co-determinare con l’impresa finale. Dal just in time alla produzione modulare 21 Tav. I – Fasi di trasformazione del sistema di fornitura Just in Time Parco fornitori Molti con una gerarchia variabili nell’avvicendamento ai diversi livelli che la compongono In prossimità del cliente finale con una separazione dei confini geografici Grado di Integrazione integrazione dei logistica processi Localizzazione dei fornitori Fornitura integrata Consolidamento della gerarchia e riduzione dei fornitori nel primo anello. Localizzazione “fino alle linee” di assemblaggio del cliente finale Outsourcing modulare Simultaneità di processi di esternalizzazione proprietaria (outsourcing) ed internalizzazione operativa (insourcing) “Sulla linea” del cliente finale. Ingegnerizzazion Modularizzazione e congiunta del ciclo di prodotto e del processo produttivo Tempistica nella Cooperazione in Congiunzione Bene movimentazione fase di delle competenze relazionale dei semilavorati progettazione e distintive produzione Transazioni Transazioni Cessione di ramo Forma continue di lungo di impresa: contrattuale di ripetute e periodo collaborazione discontinue Governance Meccanismi di Governo interno Partnership della strategia di contrattuale governance impresa (governo dei (Corporate contratti commerciali di governance) fornitura) Fonte: nostra elaborazione 22 Dal just in time alla produzione modulare Dal JIT all’outsourcing modulare si assiste ad un progressivo sbiadimento dei confini “efficienti” dell’impresa; seguitamente all’intensificarsi degli scambi informativi (con media tecnologici e non) ed all’impiego crescente di risorse di integrazione, la relazione di cooperazione tra imprese si arricchisce di nuovi contenuti. Prima confinata alla dimensione logistica e successivamente estesa a quella della progettazione, l’outsourcing modulare accentua la multidisciplinarietà della relazione; intervengono da parte del cliente finale richieste di interdipendenza contrattuale, operativa, socio-culturale e tecnologica sino a quel momento marginali e confinate a poche “nicchie” di mercato. La crescente interdipendenza viene governata a livello operativo ed organizzativo mobilitando ingenti risorse ed investimenti specifici di integrazione; ovvero nella produzione di collettivi indispensabili nel raggiungimento degli obiettivi aziendali di produzione. L’integrazione diventa un bene marcatamente segnato da una particolarità, che è quella di essere sempre di più il prodotto di una fusione di conoscenze tecniche e tecnologiche non circoscrivibili a quelle racchiuse nel patrimonio cognitivo della singola impresa. Va detto però che la complessità delle attività di integrazione subisce un notevole incremento parallelamente alla estensione dei processi di esternalizzazione. In altri termini, il costo di coordinamento e gli investimenti in risorse specifiche per sostenerlo si elevano quando le attività da coordinare sono svolte da imprese autonome differenti. Questo passaggio ci riporta al dilemma aperto da Coase (1937) e sviluppato successivamente dalla scuola dell’economia dei costi di transazione (Williamson, 1986): quando, in presenza di investimenti specifici15 promossi dalle singole imprese (fonitrici e committenti finali) e di rischi crescenti di opportunismo nell’appropriazione delle esternalità della relazione, le imprese trovano più conveniente portare al proprio interno segmenti della produzione piuttosto che esternalizzarli. Ma, come abbiamo visto la tendenza non è questa e l’esternalizzazione di funzioni è diventato un esplicito obiettivo aziendale. Infatti, c’è una sostanziale convergenza nel valutare la scelta dell’outsourcing come un’operazione volta ad incrementare il rendimento delle risorse interne attraverso investimenti specifici nelle aree distintive, alleggerendosi di quelle attività distanti o non comprese nel core business dell’organizzazione. Questa tendenza può apparire antieconomica se la variabile del “prezzo della 15 Per investimenti specifici si intendono quegli investimenti che hanno valore nel contesto di una particolare relazione ma lo perdono al di fuori di essa (Alchian, Demsetz, 1972; Williamson, 1986). Dal just in time alla produzione modulare 23 relazione” viene letta nella prospettiva di uno scambio tra grandezze “certe”, misurabili e quantificabili. Ma in un contesto di mercato in cui la competitività di una proposta commerciale è sottoposta ad un insieme di variabili non semrpe misurabili, ed una di queste è la competenza necessaria a congiungere le differenti specializzazioni tecnologiche e professionali che concorrono alla definizione ed alla produzione di un prodotto. Inoltre, nessuna impresa finale produttrice di beni complessi è in grado di sopportare il costo di acquisizione e di riproduzione di una gamma così ampia di competenze chiave. Il fornitore al quale si esternalizzano attività prima svolte all’interno diventa un attore con il quale condividere il rischio di un investimento progettuale, ma soprattutto le specificità professionali e tecnologiche di cui questi è in possesso costituiscono una componente rilevante nel mettere in moto economie di apprendimento. Ed una gestione efficiente di queste competenze investe proprio la capacità di coordinamento nel favorire economie di combinazione di saperi finalizzati ad un progetto comune. La relazione dunque deve essere efficiente, deve produrre scambi di informazioni e saperi in modo da invertire il rischio di impoverimento che deriva dal trasferimento di funzioni aziendali. La relazione che presiede il rapporto di collaborazione e fornitura è il luogo in cui Si riproducono quelle esternalità positive (relational quasi rent16) che concorrono a generare il bene collettivo di integrazione. Tuttavia questo tipo di relazione che richiede investimenti specifici da parte di tutte le imprese contraenti contiene in sé alcuni elementi di destabilizzazione, riconducibili alla presenza di asimmetrie informative e rischi di opportunismo post-contrattuale. Questa asimmetria potrebbe indurre il committente ad espropriare quasi completamente il fornitore di quelle quasi rendite – definito bene relazionale di integrazione – che entrambi hanno congiuntamente prodotto, vale a dire quei saperi e quelle informazioni che si sono generate dal contatto collaborativo. Ma un comportamento aziendale di questo tipo produrrebbe effetti negativi che, in ultima istanza, andrebbero a discapito del committente stesso; il fornitore sarebbe così disincentivato dal destinare parte delle sue risorse – non solo economiche – alla gestione specifica della relazione, allo scopo di evitare rischi di opportunismo post-contrattuale del committente (Esposito, 1999), inaridendo però in questo modo le capacità generative di conoscenza ed innovazione incrementale che possono sorgere, almeno potenzialmente, dalla relazione. 16 Aoki definisce le relational quasi rent il prodotto di una «efficienza informativa di relazioni contrattuali all’interno dei raggruppamenti di subfornitura» (1988, 218, n.t.). 24 Dal just in time alla produzione modulare A partire dall’accentuazione del suo profilo multidiscplinare, nella struttura integrata di fornitura e nella produzione modulare, la relazione, che si instaura tra le imprese, ha l’esplicito obiettivo di governare le richieste di specializzazione e differenziazione del mercato; ad essa sono affidati compiti di riduzione di quel margine di inefficienza – interfirm Xinefficiency17 - che separa la produttività reale dell’impresa dalla sua potenziale massimizzazione. La relazione stessa è un investimento che deve produrre conoscenza, normalizzare anomalie, alimentare innovazioni incrementali. Un comportamento opportunistico di appropriazione unilaterale delle “quasi rendite relazionali” finirebbe per prosciugare quel bacino di risorse di conoscenza necessarie a garantire in modo continuativo l’integrazione dei processi. Impresa finale e fornitore si trovano così all’interno di un circuito in cui si mescolano competizione ed cooperazione; competizione per appropriarsi di una gamma crescente di esternalità positive senza che questo vada a ledere i benefici derivanti da un comportamento cooperativo. L’equilibrio tra competizione e cooperazione e l’efficienza della relazione scaturiscono dalla capacità degli attori di assicurare le condizioni minime perché sia garantita la riproduzione di questa conoscenza localizzata, ovvero che il circuito delle economie di apprendimento fluisca senza soluzione di continuità. In questa prospettiva i processi di apprendimento hanno sempre una valenza sperimentale, di esplorazione di nuove vie e di sfruttamento delle risorse possedute, non è semplice acquisizione, ma è piuttosto il prodotto di un continuo monitoraggio18 con le esperienze dirette ed indirette maturate all’esterno della singola impresa. Il rapporto tra impresa committente ed impresa fornitore non è mai privo di asimmetrie di potere, come tutte le relazioni; l’impresa finale determina e coordina lo sviluppo aziendale delle imprese fornitrici, 17 Questa definizione di Sako (1992) è la rielaborazione ripresa da Leibenstein (1966) della teoria della X-efficiency: con il concetto di X-inefficiency Leibenstein intendeva indicare il differenziale che separa la produttività attuale dell’impresa da quella massimizzata. Sako modifica il contesto organizzativo su cui si sviluppano i limiti all’efficienza, non più la singola impresa ma un network di imprese. In questo modo la inter-firm X-efficiency riguarda l’efficienza della relazione tra un gruppo di imprese, le quali sono collegialmente accomunate dalla volontà di massimizzare la singola relazione. 18 L’apprendimento tramite monitoraggio, come ha sostenuto Sabel, è incarinato sul carattere cumulativo degli scambi ed elaborazione di saperi ed informazione e deriva dal fatto che il «sistema produttivo nel suo insieme oscilla tra la definizione di una divisione del lavoro per se stesso [all’interno della singola impresa] e la riconsiderazione di tale definizione alla luce di quanto appreso in fase esecutiva» (Sabel, 1998, 82). Dal just in time alla produzione modulare 25 incidendo sulla natura e portata dei loro investimenti. Tuttavia anche l’impresa finale, proprio in conseguenza di questo intensificarsi di interdipendenze esperte si trova esposta ai rischi di opportunismo post contrattuale. Senza rinunciare ad esercitare pressioni sul terreno della riduzione dei costi, l’impresa finale determina e coordina lo sviluppo aziendale delle imprese fornitrici, incidendo sulla natura e portata dei loro investimenti. Ciononostante si esce dal dilemma della scuola transazionale, da Coase (1937) in poi, del make or buy per approdare ad una struttura ibrida di relazioni contrattuali che vengono finalizzate alla produzione continua di beni relazionali. Gli attori coinvolti nella relazione collaborativa non potendo utilizzare la formula contrattuale come strumento di recupero dei fattori di incertezza e conflittualità, ricorrono diffusamente alla formazione di apposite strutture composte da manager e tecnici di entrambe le imprese coinvolte nel contratto di outsourcing. Questa formula, che prende il nome di piattaforma organizzativa, ha il compito attraverso il ricorso a configurazioni matriciali di organizzazione, di definire luoghi e momenti istituzionalizzati di scambio continuo di informazioni riducendo così i rischi di opportunismo da parte dei contraenti. La piattaforma è strutturata su più livelli, è strutturata intorno ad una serie di prodotti raggruppati sulla base della loro reciproca e coerenza e comune matrice tecnica, allo scopo di intervenire su uno dei nodi più critici delle attività di produzione, vale a dire l’«interfacciamento tra attività di sviluppo del prodotto ed attività di sviluppo del processo (Calabrese, 1997). Ciascun livello interno alla piattaforma necessita di punti di raccordo, di figure di intermediazione. Questi produttori di integrazione presentano due caratteristiche: ! la prima è quella di essere risorse di integrazione organizzativa e la loro competenza risiede nella capacità di mettere in collegamento studi progettuali, know how specialistici, risorse umane e finanziarie. ! La seconda è quella di costituire una risorsa di supporto alla gestione dei contratti commerciali. Infatti, lo scambio di conoscenze ed esperienze non è facilmente certificabile e la loro immaterialità espande i rischi opportunistici; da qui emerge come l’unico strumento di contenimento di tali rischi risieda nella possibilità di monitorare continuativamente i risultati conseguiti in modo da valutarli step by step in relazioni agli obiettivi (Ricciardi, 2000). I confini organizzativi dell’impresa non sono più circoscrivibili al suo perimetro giuridico, si verifica una separazione tra organizzazione ed impresa che richiede la definizione – attraverso la partnership e l’outsourcing modulare – di nuovi strumenti integrazione contrattuale, 26 Dal just in time alla produzione modulare necessari ad un’efficiente regolazione dell’attività aziendale. Aumentano così le variabili di integrazione a fronte di contratti che per quanto dettagliati rimangono strutturalmente incompleti, a causa di limiti posti alla razionalità nella fase di stipulazione del contratto e successivamente di implementazione dello stesso. In questo contesto, non sono sufficienti investimenti in tecnologie informatiche quali supporto nella trasmissione di informazioni e nelle attività di coordinamento, è necessario che la relazione, in virtù della mutua dipendenza che si crea tra gli attori, preveda una disponibilità allo «svolgimento di attività non prescritte per facilitare il raggiungimento di obiettivi comuni» (Migliarese, Ferioli, 1997, 116). L’informatizzazione del sistema informativo costituisce l’infrastruttura che sostiene la gestione degli scambi (di prodotti, come nel caso dell’informatica applicata al settore logistico, e di informazioni, come nel caso delle attività di design e progettazione con l’utilizzo di comuni database e di comuni software CAD di elaborazione dei dati) e fa da struttura portante della forma reticolare che va assumendo la filiera di prodotto attraverso l’outsourcing modulare. Utilizzando i paradossi argomentativi di un ossimoro, si potrebbe dire che questa filiera prende la forma di una “gerarchia reticolare”, che ha il problema di trovare meccanismi regolativi di governo che non possono più appoggiarsi a risorse facilmente misurabili e formalizzabili per via contrattuale. La transazione viene considerata alla stregua di una “merce” ed il coordinamento efficiente degli scambi nella transazione è un condizione essenziale per il conseguimento della qualità del prodotto finale (Rullani, 1986), la quale può certo uscire rafforzata dall’impiego di un’agile infrastruttura tecnologica, ma rimane fortemente condizionata dal sistema di governo del contratto, a partire dai limiti imposti dalla sua incompletezza. In questo senso la piattaforma è uno strumento di governance contrattuale; è in essa, infatti, che le attività di coordinamento organizzativo si mescolano ad attività di coordinamento degli obblighi contrattuali. Ma è proprio l’incompletezza contrattuale a costituire il terreno fertile per la gestazione delle relational quasi rent necessarie a rendere efficiente il contratto di fornitura. Incompletezza contrattuale (interna, con le relazioni di impiego, ed esterna con le relazioni commerciali) ed integrazione organizzativa si trovano così parte di un circuito di reciproco rafforzamento. Dal just in time alla produzione modulare 27 c. Incompletezza contrattuale e competenze relazionali nel sistema di fornitura. Per poter argomentare questa relazione di reciproco rafforzamento è opportuno passare ad un approccio di tipo “contrattualista”, come quello elaborato dalla teoria economica dell’organizzazione, Il contratto assume così il profilo di dispositivo di regolazione della transazione, e questo costituisce il nucleo centrale di una prospettiva che guarda all’impresa come ad una “connessione di contratti” (Reve, 1990); l’attività economica altro non sarebbe che un intreccio di accordi formalizzati che definiscono il raggio delle transazioni in cui è inserita l’organizzazione aziendale. L’analisi del contratto ha radici lontane, non di esclusiva pertinenza delle discipline giuridiche o filosofiche; l’interesse per le sue implicazioni ha contagiato l’analisi economica (in particolare la teoria economica dell’organizzazione) e le scienze sociali a partire dalla seduzione che questo concetto ha esercitato sulla ricerca durkeimiana in merito alle ragioni che rendono possibile la coesione sociale. «Non tutto nel contratto è contrattuale», scriveva Durkheim (1897); la produzione contrattuale necessita per l’efficacia dei suoi contenuti di agganciarsi ad elementi, valori, culture, modalità di interazione che sono lasciati impliciti nel contratto o vengono demandati alla capacità degli attori (impresa cliente/ impresa fornitrice) di produrre regole informali di gestione delle contingenze imprevedibili (FalK-Moore, 1973; Serverin, 1996) o alla capacità dell'ambiente istituzionale in cui operano di fornire/imporre norme pertinenti. Un’analisi scrupolosa del contratto deve collocarsi all’interno di un “sistema di azione storica”, di un contesto, soprattutto quando l’attenzione si sposta sui termini della sua applicazione. I contratti non sono un prodotto negoziale statico, hanno invece una configurazione dinamica data dall’intersezione, continuamente mutevole, di aspetti impliciti ed espliciti: «il silenzio o l’incompletezza della convenzione esplicita non si presenta più, allora, come una lacuna o una patologia del contratto, ma piuttosto come il fatto normale di una normatività contrattuale in cui il detto si comprende solo in relazione necessaria con il non detto» (Guy-Belley, 1996, 466, n.t.). Essi presentano una intrinseca incompletezza dovuta a fattori di limitata razionalità degli attori di definire anticipatamente le contingenze future ed il comportamento dei contraenti nelle fasi di incertezza (Williamson, 1986; Milgrom, Roberts, 1992). Sulla base di questi presupposti, l’incompletezza 28 Dal just in time alla produzione modulare contrattuale costituisce un elemento insopprimibile di qualsiasi processo di contrattazione. a) Incompletezza dei contratti tra imprese. Benché fertile e suggestiva l’applicazione della teoria dei contratti all’analisi della fornitura integrata e dei contratti di outsourcing modulare, rivela un’inquadratura ristretta che taglia fuori i meccanismi attraverso cui avviene il coordinamento delle attività interne e di quelle esterne all’impresa che sono lasciate implicite, o non regolate dal contenuto contrattuale. Non “spiega”, cioè, come sia garantita l’efficienza del contratto stesso. Fig. 1 – Teoria dei contratti: la trasformazione fondamentale t0 t1 ∆t a Stipula contratto Valutazione dei contraenti in ∆t a si verificano S stati del mondo che inducono le parti ad attivare investimenti specifici, non non prevedibili nella fase definitoria del contratto (t0). ∆t b t2 Nuovo accordo/ interruzione della collaborazione ∆t b apre la fase della revisione e/o della rinegoziazione del contratto Fonte: rielaborazione da Hart, Moore, 1988 La Figura I, propone uno dei problemi più rilevanti di incompletezza contrattuale (nei casi contratti di lungo periodo non di quelli occasionali19) in una relazione di scambio, e nello specifico degli accordi di fornitura. 19 Nel caso di contratti a pronti (spot markets contracts) - utilizzati prevalentemente nelle borse merci - si può parlare di completezza contrattuale; qui «le condizioni alle quali avviene lo scambio sono determinate simultaneamente allo scambio stesso» (Del Monte, 1994). I contratti spot configurano le modalità di scambio in un mercato perfettamente concorrenziale; in esso ogni esternalità dell’agire sociale viene rimossa alla radice attraverso il meccanismo del price-taking. In questa direzione la dispersione delle informazioni,in un sistema di pianificazione, viene risolto: il prezzo di ogni bene converge al suo valore minimo, e ciò garantisce che il soggetto che emerge come produttore di ciascun bene è il produttore a minimo costo, ma è anche quello “socialmente” più adatto a svolgere questo compito. Gli altri produttori possono Dal just in time alla produzione modulare 29 Al momento della stipula del contratto (t0) l’impresa committente e l’impresa di fornitura stipulano un accordo commerciale allo scopo di “internalizzare” il maggior numero di possibili esternalità, ovvero incorporare nel contratto la regolazione di tutti quegli effetti della transazione non desiderabili. Malgrado ciò in questa fase i contraenti non sono in grado di prefigurare comportamenti opportunistici da parte del partner derivanti da asimmetrie informative. Successivamente in fase di applicazione del contratto (t1) interviene una sorta di “trasformazione fondamentale” (Williamson, 1986), e si verificano delle contingenze inaspettate che richiedono nuovi investimenti specifici; la distribuzione di questi investimenti e dei risultati che producono (esternalità positive e negative) è il terreno su cui avviene la revisione o la rinegoziazione di parti del contratto iniziale, ed anche il contesto in cui si annidano i maggiori rischi di opportunismo post-contrattuale20. Se così non fosse il contratto risulterebbe “completo”21; l’individuazione preventiva di avvicinarsi a quel bene in qualità di consumatori e non produttori. Il meccanismo di price-taking determina quindi un “ordine spontaneo” che nasce dall’estrema competizione. Per un approfondimento, ved. Grillo (1994). 20 Concetto di opportunismo post-contrattuale: la possibilità che il valore degli investimenti specifici fatti da un’impresa possa essere “espropriato” nella contrattazione ex post produce un incentivo a non investire abbassando così il livello di competitività generale acquisibile non solo dalla singola impresa ma dalla relazione stessa quindi anche dal partner contrattuale. La cooperazione salta nel momento in cui uno dei contraenti percepisce la possibilità di un dominio oltre la soglia da parte del partner, attraverso l’instaurazione di forme di opportunismo post-contrattuale. L’opportunismo post-contrattuale riguarda l’opportunismo di un contraente che si verifica successivamente la stipulazione di un contratto. Le direzioni di questo opportunismo possono riguardare problemi di hold up (una parte si vede forzata ad accettare delle condizioni svantaggiose e quindi assiste ad una svalutazione del valore del proprio investimento a causa delle azioni della controparte) e di moral hazard (quando le azioni specificate in un contratto non sono perfettamente osservabili e quindi questo induce i contraenti ad avere minor cura da parte dei contraenti per ridurre i rischi di danno). Questo approccio di “teoria economica dell’organizzazione” occupa uno spazio rilevante nella letteratura sociologica ed economica. Per un approfondimento rimandiamo a: Hart, Holmstrom (1987); Milgrom, Roberts (1992); per quanto concerne la teoria dell’agenzia come variante nei rapporti di impiego dell’opportunismo post-contrattuale a Coleman (1990) e Hart, Holmstrom (1987). 21 Riportiamo qui da Grillo (1994) due concetti distinti di contratto completo: Milgrom, Roberts (1992), definiscono il “contratto completo” quel contratto che emerge sempre quando le possibilità di condizionamento reciproco sono illimitate; in questo senso in assenza di costi di transazione vi è una piena internalizzazione delle esternalità – il mercato secondo Coase (1937). L’incompletezza contrattuale però non implica che le parti non arrivino ad un accordo per via contrattuale ma questa soluzione di scelta può essere dominata da un’altra scelta che, in quanto sconosciuta alle parti, non può essere 30 Dal just in time alla produzione modulare ogni fattori di incertezza insieme al suo assorbimento renderebbe l’attività produttiva altamente programmabile ed i processi di problem solving sarebbero sostituiti dalla pianificazione del comportamento organizzativo. Posto che sia possibile, un simile contratto avrebbe costi di realizzazione insostenibili. Le due imprese si trovano, dunque, nella condizione di “internalizzare” in fase di stipulazione del contratto tutti i possibili meccanismi di governo delle incertezze, che concerne essenzialmente l’erogazione di un surplus aggiuntivo e non previsto di interventi specifici. La mobilitazione del surplus di investimenti specifici apre dunque la fase della revisione del contratto o la sua rinegoziazione, portando così alla configurazione di un nuovo “ordine relazionale” (accordo post-contrattuale) o, ma sono casi rari nei contratti di lungo periodo, alla interruzione del rapporto di collaborazione. A questo punto sono necessarie due precisazioni: da un lato l’esito di tale negoziazione può sfociare in un accordo ma non necessariamente nella formalizzazione di esso, da un altro lato la rinegoziazione dei termini contrattuali non può eludere la questione del potere negoziale degli attori. Tuttavia sebbene le imprese clienti generino dei dispositivi di controllo dell’impresa fornitrice, i rapporti di forza che si articolano all’ombra di contratti di lungo periodo non devono superare una soglia di tolleranza, oltre la quale viene messa a repentaglio la riproduzione dell’integrazione dei processi. Soprattutto nel quadro delle pratiche di ingegnerizzazione congiunta e nell’outsourcing modulare si instaura tra le imprese una condizione di dipendenza bilaterale (Williamson, 1986, 1996); entrambi i contraenti hanno fatto investimenti specifici finalizzati al supporto della relazione, e questo genera un interesse congiunto che arresta le tentazioni di soluzione unilaterale del contratto. La variabile coercitiva della relazione, che pur esiste, lascia spazio alla dimensione cooperativa della relazione. In altri termini, le imprese appartenenti al primo anello di fornitura, non sarebbero in grado di garantire alti livelli di integrazione solamente con la “coazione al controllo” da parte dell’impresa cliente. soggetta a negoziazione, di conseguenza anche l’internalizzazione delle esternalità non è completa, con conseguenze sulla stessa efficienza. Secondo Hart, Holmstrom (1987), un contratto è completo quando l’accordo delle parti definisce in modo esauriente il profilo di azioni congiuntamente selezionato, indipendente che esso conduca ad una situazione efficiente. È questa seconda interpretazione il riferimento utilizzato in questo lavoro. Dal just in time alla produzione modulare 31 La rinegoziazione dunque non si avvale solo di strumenti di coercizione, ma privilegia la via consensuale quanto più il governo del surplus di esternalità (eventi negativi, distribuzione benefici) è ricavabile solo da un alto grado di cooperazione non contrattualizzabile a priori (t0). Ecco che la posta in gioco nella fase di rinegoziazione del contratto riguarda la struttura di governance del surplus di esternalità, vale a dire i “diritti residuali di allocazione e controllo delle risorse”22 che non sono «espressamente ceduti a qualche contraente per via contrattuale» (D’antoni, 1995, 487) ma che consentono all’impresa finale di intraprendere strategie di adattamento continuo dei processi interni grazie alle conoscenze ed informazioni che si scambiano nel corso della relazione di fornitura. Nonostante il potere di mercato (strategie di pressione per la riduzione del prezzo) dell’impresa finale sull’impresa fornitrice di primo livello contribuisca a regolare la distribuzione dei “diritti residuali di controllo” ” di risorse integrative nella produzione continua di beni relazionali, esso si rivela comunque inadeguato nel limitare i rischi di “azzardo” nei momenti di massima incertezza, cioè di opportunismo post-contrattuale da parte dei contraenti. Più efficace è il ricorso a legami fiduciari generati da interazioni ripetute e continuative nel quadro di contratti di fornitura di lungo periodo. La fiducia23 intesa come “attendibilità” di un comportamento non 22 Il concetto di “diritti residuali di controllo” è stato impiegato prevalentemente nell’ambito di un filone sviluppatosi nella teoria economica dell’organizzazione (Grossman, Hart, 1986); partendo dai presupposti dell’incompletezza contrattuale i due autori sostengono che i rischi di opportunismo, e nello specifico degli investimenti che occorre aggiungere, rispetto a quelli preventivamente programmati, possono essere superati se sin dalla fase di stipulazione del contratto sono definiti i diritti di proprietà nell’allocazione delle risorse aggiuntive. In altri termini, l’efficienza ex ante (fase di stipulazione del contratto) dipenderà da come sono allocati questi diritti residuali di controllo. Da un punto di vista empirico, però, il fenomeno della fornitura integrata e dell’outsourcing modulare mettono in discussione gli assunti di questa impostazione basata sui diritti di proprietà; l’allocazione dei diritti residuali di controllo avviene sulla base di una forza coercitiva dell’impresa committente, e su una via consensuale fondata sullo sviluppo di relazioni fiduciarie rafforzate da ripetute occasioni di collaborazione (contratti di lungo periodo). Il punto nodale che allontana questa prospettiva dalle più avanzate forme di fornitura risiede nella scarsa importanza assegnata alla produzione di beni relazionali, non necessariamente conseguibili per via proprietaria. 23 L’assunzione della fiducia come elemento generato da interazione ripetuta delle relazioni contrattuali è un terreno impervio che si presta a molteplici interpretazioni, che talvolta corre il rischio di fungere da concetto “pigliatutto” per spiegare tutte quelle situazioni in la cooperazione nasce da interazioni non meramente coercitive. Qui ci si limiterà a dire che la fiducia - intesa come impegno specifico nel mantenimento delle promesse contrattuali emerse nella fase di stipulazione del contratto – presenta gradi differenti di intensità (Sako, 1991): ad un primo livello Sako individua la “fiducia 32 Dal just in time alla produzione modulare opportunistico (Sako, 1991) costituisce dunque uno di quegli elementi “extra-contrattuali” che svolgono una funzione sociale di rafforzamento delle relazioni tra imprese. Il legame fiduciario – come emerge da uno studio sul caso anseatico – non è una pre-condizione quanto piuttosto la risultante della “contiguità” e della “frequenza dei contatti”; anche in un contesto caratterizzato dalla presenza di “legami deboli” tra gli attori, da motivazioni strumentali e comportamenti opportunistici, lunghi periodi di cooperazione monitorata tra opportunisti può essere all’origine dell’instaurarsi di legami fiduciari (Pichierri, 1998). Il monitoraggio diventa così uno strumento di controllo e di apprendimento allo stesso tempo. Il legame fiduciario non è omogeneo si distribuisce lunga una scala di diversa intensità; la quale cresce parallelamente agli investimenti specifici degli attori, via via che crescono le attività di integrazione, ovvero di produzione di beni relazionali non contrattualizzabili. La produzione delle norme sociali di rafforzamento (e l’instaurazione del legame fiduciario è parte di essa) dell’efficienza del contratto di fornitura mettono in discussione la tesi dell’impresa come connessione di contratti (Hodgson, 1998), per lasciare spazio spazio ad una nozione di impresa, di matrice neo-schumpeteriana, come “deposito di conoscenze” che si riproducono attraverso la continua interazione, dentro e fuori l’impresa, tra differenti di competenze tecnologiche e gestionali24. La teoria dei contratti sin qui utilizzata è stata una leva efficace per aprire un varco sulla questione dei confini di impresa e circa le conseguenze che questo comporta nella gestione dei sistemi di fornitura; ma si tratta di un contrattuale” che consiste nella sostanza nel mantenimento delle promesse definite in fase di stipulazione del contratto, segue la “fiducia di competenza” che riguarda essenzialmente un maggiore coinvolgimento tra cliente e fornitore anche sul terreno dello scambio di competenze. Infine una terza forma definita goodwill trust che prevede l’impegno implicito da parte del fornitore di prendere inziativa, introdurre innovazioni (processo/prodotto), e determinare quindi un clima di cooperazione che si basa sull’impegno implicito a svolgere attività di miglioramento in un contesto di assenza di opportunismo. 24 Da qui emerge come, nel caso della fornitura la relazione contrattuale entra in difficoltà quando non è in grado di affrontare compiti di “integrazione” (Richardson, 1972); questi infatti nel riconfigurare i confini dell’impresa al di fuori del suo perimetro giuridico, richiedono investimenti sulle capacità di gestione delle interdipendenze che si coagulano intorno al core business dell’impresa: «La cooperazione tra imprese risulta piuttosto guidata dalla necessità di minimizzare i costi di apprendimento essendo questi i costi maggiormente connessi con il governo delle complementarietà dinamiche relative all’upgrading delle conoscenze e delle capacità dei partner» (Gargiulo, Mariotti, 1999, 267). Dal just in time alla produzione modulare 33 “compagno di viaggio” che non è in grado di accompagnarci sino alla fine del percorso. La teoria dei contratti risponde alle questioni riguardanti i rischi di opportunismo che corrono le imprese in conseguenza della strutturale incompletezza dei contratti; qui subentra invece un altro interrogativo, nonostante l’incompletezza contrattuale dei contratti di fornitura quali altri fattori intervengono nel determinare una strategia efficiente dell’impresa? Prende consistenza la prospettiva, che ritroviamo nel filone analitico dell’economia dell’innovazione (Antonelli, 1999, Malerba, 2000) di analisi orientata a vedere nelle imprese, ed in questo caso soprattutto quelle del primo anello di fornitura, organizzazioni economiche sempre più inseparabili dalla capabilities25 cognitive ed informative in loro possesso. L’incompletezza contrattuale, in questo frangente non è più un elemento di “disturbo” dell’attività organizzativa, quanto invece una condizione “virtuosa” che richiede strumenti di rafforzamento del contratto informali necessari per governare il surplus di investimenti necessari a fronteggiare le contingenze impreviste, a generare “quasi-rendite” relazionali, ed indirettamente salvaguardare il valore della relazione di fornitura (interfirm –X efficiency). Con un’espressione apparentemente paradossale, che ci riporta a Durkheim, il governo dei contratti avviene non nonostante ma grazie al ricorso ad elementi extracontrattuali. Incompletezza e regolazione dei contratti di lavoro Il processo di integrazione organizzativa e di coordinamento è possibile grazie alla presenza di un altro tipo di incompletezza contrattuale, quella relativa ai contratti di lavoro interni a ciascuna impresa. Ripartendo dalla teoria dei contratti l’impresa si presenta anche al suo interno come una connessione di contratti; in particolare contratti di impiego che regolano l’erogazione delle prestazioni necessarie a garantire e supportare l’attività economica dell’organizzazione. Tuttavia anche qui però vengono in superficie i problemi legati all’incompletezza contrattuale, come 25 Sul concetto di apprendimento dinamico nelle imprese il riferimento va ad alcuni autori I. Nonaka, T. Takeuchi – Knowledge Creating Company, Oxford University Press, 1995, Lundvall B.A., National Systems of Innovation, Pinter Publishers, 1992; N.J. Foss, Capabilities and the Theory of Firm, Revue d’Economie Industrielle, vol.77, 1996; G.M. Hodgson, Competence and Contract in the Theory of the Firm, Journal of Economic Behavior and Organization, vol.35, 1998; R.N. Langlois, P.L. Robertson, Firms, Markets and the EconomicChange: A Dynamic Theory of Business Institutions, Routledge London, 1995; B. Loasby, Organizational Capabilities and the Interfirms Relations, Metroeconomica, vol. 45, 1994 34 Dal just in time alla produzione modulare fattore intrinseco ed inamovibile di ogni accordo tra soggetti portatori di interessi differenti e talvolta conflittuali. L’attenzione sui contratti incompleti e sui risvolti che questo comporta nella struttura delle relazioni di lavoro, è una questione che percorre la ricerca lavorista nelle sue diverse varianti (giuridica, economica e sociologica)26. Il contratto si è costantemente presentato come uno strumento incompleto anche nei rapporti di lavoro caratterizzati da una pervasiva standardizzazione dei contenuti della prestazione; l’ideologia razionalistica del taylorismo ha sempre dovuto fare i conti con la necessità, imprescindibile, di azioni ed interventi del lavoro non esplicitamente prescritti. La devianza dal territorio normativo formale ha puntellato in modo costante l’organizzazione gerarchico-funzionale, costituendo un elemento di garanzia del suo funzionamento (Crozier, 1969). Questo sotto il profilo organizzativo. Sul versante più giuridico il contratto di lavoro ha sancito la legittimità di una asimmetria di poteri tra datore di lavoro e lavoratore; nella sua parte esplicita il contratto sancisce dei vincoli all’arbitrio del datore di lavoro, il quale però si riappropria di questo potere sul versante dell’organizzazione del lavoro; nessun contratto si spinge sino alla descrizione delle mansioni, con una legittimazione implicita delle figure datoriale e manageriali nel determinare il contenuto della prestazione richiesta al singolo lavoratore27. 26 Già Marx metteva in rilievo come il contratto tra il datore di lavoro ed il lavoratore non solo veniva stipulato all’interno di una relazione fortemente asimmetrica e diseguale, ma lo stesso suo contenuto restava largamente indeterminato. Il contratto acquisiva in Marx, così, lo strumento di istituzionalizzazione di un rapporto di autorità anche se il contraente più debole veniva caratterizzato dallo status giuridico di una manodopera “formalmente libera”. 27 La relazione per così dire dialettica tra l’organizzazione del lavoro e la struttura autoritativa del rapporto di lavoro si svolgono, come ha scritto Perulli (1989), dentro un vuoto normativo; esiste cioè una profonda separazione tra la zona del contratto e la zona dell’impresa, intesa come potere direttivo; è la prassi sociale con la costruzione di norme non esplicitate dal contratto a determinare “zone di accettazione” in cui specifici ordini troveranno “obbedienza” senza resistenze (Perulli, 1989). Questo ha raccolto l’interesse non solo di sociologi e giuristi, ma anche economisti: indicativo in questo senso il lavoro pionieristico di Simon (1951) che mette in evidenza la discrasia tra il contratto di impiego come scambio e la relazione autoritativa che scaturisce implicitamente dal contratto. Ma questo non elimina il problema di fondo del «potere discrezionale del “datore di lavoro” nel determinare l’oggetto del lavoro e le regole che di volta in volta presiedono all’estrinsecazione del rapporto di subordinazione nella prestazione concreta del lavoro» (Trentin, 1997, 226). Rimane cioè insoluta la contraddizione tra il benelavoro come bene scambiabile oggetto del diritto e la persona come soggetto del diritto. Per un approfondimento su questi temi rinviamo a Supiot (1994), Trentin (1997). Dal just in time alla produzione modulare 35 Nonostante l’ossessione prescrittiva del taylorismo inducesse ad una produzione continua di norme di comportamento (regolamenti, accordi, ecc.), costante è stata la separazione tra la dimensione economica dell’impresa da quella organizzativa; il contratto di lavoro ha riguardato prevalentemente la regolazione della contropartita alla prestazione insieme ad una giurisprudenza sui diritti individuali del singolo lavoratore, ma ha lasciato priva di copertura contrattuale l’organizzazione della prestazione. Affidata, sempre da un punto di vista organizzativo, alla gerarchia aziendale. La gerarchia è stato per lungo tempo il principale meccanismo di gestione delle risorse umane interne all’impresa; cementata sul “principio di eccezione”, essa è stata, ed in parte se pur ridimensionata costituisce ancora, lo strumento di regolazione dei rapporti di lavoro. Essa ha costituito un vincolo organizzativo finalizzato a canalizzare in una sequenza predeterminata di fasi tutte le risorse organizzative (materie prime, tecnologie, individui, saperi ed informazioni). Un vincolo giustificato dalla ricerca del maggior controllo sui processi di lavoro e produzione, come garanzia di efficienza organizzativa. A questi vincoli se ne sono opposti altri provenienti dalle organizzazioni sindacali attraverso la contrattazione collettiva: la negoziazione tra i diversi attori dell’impresa fordista aveva come posta in gioco l’introduzione di limitazioni volte ad accrescere le possibilità di condizionamento della controparte; ne scaturiva un potere negoziale che nasceva dal controllo dei reciproci margini di incertezza (Crozier, 1963), localizzati nelle aree a maggiore incompletezza contrattuale, cioè quelle organizzative. Ad una configurazione aziendale rigida si contrapponeva un orientamento sindacale altrettanto proteso alla sedimentazione di rigidità incrementali. Partendo da queste premesse l’obiettivo di questo paragrafo consiste nell’analizzare come si trasformano i meccanismi di governance del rapporto di lavoro, successivi al modello di matrice taylor-fordista, nella divisione del lavoro all’interno di una filiera di prodotto, ed individuare in questa trasformazione una tendenza allo slittamento verso forme di regolazione improntate sullo status anziché sul contratto. 1. L’incompletezza contrattuale delle relazioni di lavoro è particolarmente riconoscibile a partire da due variabili, recentemente riproposte da Goldthorpe (2000): a. Grado di difficoltà nel monitoraggio della prestazione di lavoro, vale a dire il grado di difficoltà nel valutare la quantità di lavoro erogato ed osservarne gli aspetti qualitativi. 36 Dal just in time alla produzione modulare b. Grado di specificità delle risorse umane (capitale umano e professionale) utilizzato dagli occupati nella loro performance di lavoro, il grado di specificità misura il valore produttivo che andrebbe perso se queste risorse venissero trasferite altrove. Il passaggio dalla dimensione materiale alla dimensione processuale del lavoro (Kern, 1991), propria di quei modelli di organizzazione del lavoro successivi alla crisi del taylor-fordismo e raccolti intorno alla prospettiva della lean production, ha determinato l’introduzione di forti elementi di complessità nella prestazione e nel suo controllo. Le prestazioni industriali, soprattutto, sono state investite di richieste sempre più orientate alla manipolazione di simboli ed informazioni (Zuboff, 1988), unitamente allo sforzo di tipo fisico-manuale, che invece è andato diminuendo. I contenuti che presiedono il contratto di lavoro in un’impresa fortemente caratterizzata dalla gestione di beni immateriali (simboli, informazioni e saperi), più che focalizzati su uno scambio di certezze (gesti, movimenti, operazioni, ritmi, orari), sono proiettati su uno scambio di intenzionalità (impegno nel raggiungimento di obiettivi complessi, interfacciamento tra più fonti informative, problem solving), difficilmente riconducibili a grandezze quantificabili. Questo genera un deficit di “misurabilità” che definisce anche la portata della incompletezza dei contratti di lavoro; una quota consistente dei contenuti della prestazione viene ulteriormente sottratta alla possibilità di definirne in sede di stipulazione del contratto (il t0 nella Fig. I) i criteri di regolazione. Anzi l’avvicendarsi delle diverse forme di fornitura dal JIT e struttura integrata sino all’outsourcing modulare può essere letta, sotto il profilo dei contratti interni, come lo sviluppo di aree sempre più vaste di incompletezza contrattuale. Questo procede parallelamente alla diffusione di sistemi premianti differenziati, che contribuiscono a frammentare i mercati interni del lavoro. Come ha sintetizzato Dore (1974), nella sua comparazione tra il modello di produzione americano e quello giapponese, questo processo può essere descritto come preminenza del rate for the job sul rate for the person28. 28 Dore nel suo lavoro di ricerca, British Factory – Japanese Factory (1974), che può essere considerato uno degli studi più ricchi e completi di sociologia industriale comparata, mette in evidenza le profonde differenze tra il sistema organizzativo aziendale nipponico e quello occidentale di tipo americano. Molti degli aspetti considerati tipici del japanese system trovano ampio credito nella cultura manageriale degli ultimi anni, a dimostrazione che l’importazione delle tecniche del just in time non ha avuto solo conseguenze sul terreno della logistica ma aperto un varco nella Dal just in time alla produzione modulare 37 Si sviluppano meccanismi di incentivazione29 all’interno di sistemi di riconoscimento economico legati alla qualità della singola prestazione di lavoro. Viene così a configurarsi un intreccio tra indeterminatezza della prestazione, sia in fase di stipulazione del contratto che in fase esecutiva, e individualizzazione del sistema di incentivazione. Su questa relazione si innesta un ulteriore elemento che riguarda le modalità di contrattazione del rapporto prestazione/incentivi; se sono cioè l’esito di un’azione collettiva o piuttosto il prodotto di una negoziazione individuale. Però, l’alternativa tra azione individuale/azione collettiva non si è mai proposta in una visione così netta e semplificata. Piuttosto il ricorso alla contrattazione individuale ha ricoperto spesso un ruolo di complementarietà all’azione collettiva; sin dall’esperienza del sindacalismo di mestiere, la negoziazione individuale, strettamente connessa con il potere di mercato del singolo lavoratore, si spingeva oltre l’azione collettiva per marcare una differenza; quando cioè la contrattazione non riusciva ad incorporare contenuti rivendicativi unitari partendo da interessi eterogenei. In particolare sul fronte impiegatizio, Crozier (1963) ha sostenuto come l’azione di ampie fasce del lavoro impiegatizio sia stata improntata ad una sorta di “dualismo negoziale”, individuale in fase aggressiva e collettiva in fase difensiva, quando cioè gli interventi del management costituivano una minaccia a posizioni consolidate30. Azione individuale ed azione collettiva sperimentazione “in terra straniera” di prospettive di gestione delle risorse umane, consolidate da decenni in Giappone. 29 Questo elemento era già stato messo in evidenza da Max Weber quando ad una situazione di lavoro affiancava una situazione di mercato; la loro compresenza non aggiunge nulla di nuovo sul terreno degli strumenti di analisi; gli aspetti interessanti vertono piuttosto sulla “combinazione” articolata e variabile di gerarchia e mercato. 30 Questa posizione è stata criticata da Chiesi (1988) soprattutto per la eccessiva genericità con la quale si assumono concetti quali azione difensiva ed azione offensiva, rimangono cioè indeterminati i contenuti che strutturano e presidiano gli obiettivi dell’azione. Sotto il profilo metodologico questa critica è ineccepibile ma merita un accenno quanto accaduto in Fiat circa trent’anni dopo il lavoro di ricerca di Crozier: qui un ceto impiegatizio da sempre vicino alle posizioni manageriali e con un rapporto difficile, talora di aperta ostilità con le organizzazioni sindacali, fu al centro di consistenti interventi di prepensionamento, generando una frattura in quella “storica alleanza” che aveva profondamente caratterizzato le relazioni industriali nella multinazionale torinese. Leaders sindacali locali e nazionali assunsero presto il ruolo di interlocutori di quel movimento, che sfociò nella dichiarazione di uno sciopero generale di quattro ore. Quella forma embrionale di avvicinamento del ceto impiegatizio ancora oggi incontra ostacoli nel trasformarsi in un rapporto reale di rappresentanza, ma il dato saliente è che in quella vicenda, ed in quelle successive al febbraio 1994, si ripropose quel dualismo negoziale 38 Dal just in time alla produzione modulare sono modalità costanti nelle relazioni di lavoro e nella loro gestione. Non deve dunque sorprendere che in un sistema di produzione sempre più caratterizzato dallo scambio di intenzionalità piuttosto che dallo scambio di grandezze certe, il ricorso aziendale a forme sempre più individualizzate di incentivazione della prestazione tenda non solo ad espandersi a danno delle altre forme di contrattazione collettiva31, ma proceda anche secondo un principio di sostituzione più che di complementarietà. Questo fenomeno mostra tutta la sua evidenzia nelle occupazioni che ruotano intorno alla figura del “lavoratore della conoscenza”, che, come hanno evidenziato le più recenti ricerche (Bufera, Donati, Cesaria, 1997) in merito, solo con una forzatura concettuale che ne snaturerebbe la specificità è possibile far rientrare nella categoria del tecnico e dell’impiegato. Appartiene alla categoria dei colletti bianchi ma con funzioni tecniche e con un sostanziale ruolo di mediazione, prima di tutto cognitiva, essendo il crocevia delle principali trasformazioni della conoscenza e del circuito di trasmissione delle informazioni nell’impresa. Sono knowledge workers i componenti di quella fascia di forza-lavoro svolge un ruolo di “relè organizzativo” nel sistema integrato di fornitura e nei casi di outsourcing modulare: coordinano attività, traghettano informazioni lungo il sistema informativo inter-aziendale, elaborano nuove conoscenze. Tali figure spesso non hanno una collocazione precisa, definita da organigramma; sono piuttosto dislocate nelle aree dove maggiore è la necessità di interventi di problem solving, possono così riguardare il tecnico della progettazione come il professional in officina. Queste sono collocate sui “bordi” dell’organizzazione, nei punti nevralgici del sistema informativo che mette in connessione l’impresa di che qualche decennio prima Crozier aveva rintracciato tra gli impiegati del Monopolio industriale francese. 31 Nel suo saggio Goldthorpe definisce i contratti caratterizzati da un forte impiego di risorse specifiche e da difficoltà di monitoraggio come “service relationship” – relativa ad occupazioni collocate sulla parte alta della stratificazione sociale nel mercato del lavoro – contrapposti ai “labour contract” - che invece descrivono prestazioni più povere e più facilmente controolabili. Dentro questo continuum, Goldthorpe individua delle forme miste, dove si ibridano i due “ideal-tipi” contrattuali. Lo scopo di Goldthorpe non consiste solo nella mappatura delle occupazioni e della natura della loro differente incompletezza contrattuale, il suo sforzo è anche diretto ad individuare il punto chiave riguarda «come un contratto di lavoro può essere efficacemente elaborato, non solo per quanto riguarda la sua configurazione ex ante, ma anche per quanto riguarda le interpretazioni ex post che condizionano la sua implementazione quotidiana» (212). Ripropone i temi chiave della teoria dei contratti, a partire dal fenomeno del comportamento opportunistico nella relazione tra principale e agente (teoria dell’agenzia). Cfr. Goldthorpe J., On Sociology, Oxford University Press, 2000. Dal just in time alla produzione modulare 39 fornitura con quella finale; conoscono i segreti di quella “scatola nera” che è la transazione commerciale di fornitura, sono in grado di orientarsi al suo interno e di intervenire. Sia dal punto di vista operativo integrando attività e fonti informative di diversa provieneza, sia sul terreno gestionale, di supporto e mediazione nella gestione quotidiana e monitorata del contratto stesso di fornitura, arginando i rischi di opportunismo post-contrattuale che emerge quando intervengono eventi e criticità destabilizzanti le premesse che hanno reso possibile l’accordo per la sua stipulazione. Quanto più l’efficienza della relazione tra le imprese diventa fondamentale per la qualità della cooperazione inter-aziendale tanto più la loro specificità professionale cresce in importanza. Ed è nel quadro di questa assunzione che diventa comprensibile l’introduzione di sistemi premianti all’interno delle imprese. Il management aziendale utilizza questi incentivi non solo nella logica di contenimento dei rischi di “opportunismo post-contrattuale”, legati alla promessa di impegni non direttamente osservabili nelle fasi successive alla stipulazione del contratto di lavoro (un problema riconducibile al concetto di “trasformazione fondamentale”, Fig. I), ma deve fare i conti con la crescente esigenza di assicurare nell’organizzazione del lavoro l’impiego continuativo di conoscenza tacita e l’impegno implicito di reimmetterla nel corso della prestazione lavorativa soprattutto quando questa incontra delle anomalie che la ostacolano (Giaccone, Piotto, 2000). La continuità nell’erogazione dell’impegno non trova una regolazione contrattuale, o meglio più precisamente non trova nella contrattazione collettiva e negli accordi che questa esprime un riferimento normativo. La gestione di questo specifico rapporto tra prestazione e sistema premiante si situa proprio laddove più consistente è l’incompletezza contrattuale (Foss, 1999), cioè nella definizione di condivisi schemi di riconoscimento di quel patrimonio di sapere esperto che garantisce il governo delle criticità, estendendosi alla produzione di quel bene relazionale costituito dalla integrazione interaziendale che presiede le forme più avanzate di fornitura industriale. L’interazione tra gerarchia e mercato all’interno della relazione di lavoro non costituisce, come è stato detto, un fattore originale nel governo delle relazioni di lavoro; la strutturazione dei mercati del lavoro all’interno dell’azione o tra imprese, come accade nei casi di cessione di ramo di impresa o di partnership, era presente in forma più limitata e circoscritta ad alcune fasce della forza lavoro aziendale. Ma comunque consisteva in un fenomeno già presente nei modelli gerarchico funzionali di organizzazione del lavoro. 40 Dal just in time alla produzione modulare Il nodo del cambiamento risiede invece nel fatto che la natura incompleta dei contratti di questi lavoratori diviene una risorsa manageriale essenziale per gestire i rischi di un’altra incompletezza contrattuale, quella che regola il rapporto di fornitura tra l’impresa finale e le imprese appartenenti prevalentemente al primo livello di fornitura nelle sue diverse forme (negli anelli successivi l’imprescindibilità del loro ruolo andrà scemando perché diverso è il contenuto dell’impegno richiesto all’impresa stessa). Il vuoto lasciato dall’incompletezza contrattuale in queste relazioni di lavoro viene riempito da forme sempre più estese di contrattazione individuale sostitutiva, non più complementare, di quella collettiva. Non rientrano in questo profilo lavorativo e professionale quei soggetti della produzione il cui lavoro richiede una specificità minore di risorse e comporta meno difficoltà nel monitoraggio della loro prestazione. Accanto ad una core workforce chiamata a gestire i gangli vitali delle attività organizzative dell’azienda si affianca invece una manodopera periferica (peripheral workforce), in senso cognitivo e non spaziale, relativa a professionalità più esecutive e con una minore porzione di sapere tacito impiegabile nelle attività di assorbimento delle incertezze organizzative; non solo, ma spesso caratterizzate da una maggiore “precarietà occupazionale”. Questo dualismo di traiettorie lavorative e professionali ma anche di “situazioni di mercato” (Cainarca, 1994, Cerruti, 1994) non deve trarre nell’inganno della semplificazione eccessiva. 2. La proiezione di questi due tipi di forza lavoro non vuole riproporre la tesi della “biforcazione” delle traiettorie di lavoro, e nemmeno assegnare ai produttori di integrazione il ruolo di apripista nel formazione di una “nuova classe operaia”, per riprendere un’espressione seguita agli studi e ricerche di Touraine e Mallet; una creatura misteriosa formatasi sulle ceneri del fordismo a cui passare il testimone della rappresentanza generale. La frammentazione della forza lavoro industriale è un fenomeno complesso ed articolato in molteplici specificità che cambiano al mutare delle richieste organizzative rivolte alle prestazioni di lavoro, e questa segmentazione ha delle conseguenze sulle risorse impiegate nella contrattazione e quindi sul ricorso all’azione collettiva o allo status individuale. Il dinamismo organizzativo porta con sé un’ampia variabilità nella regolazioni delle transazioni, e quindi anche dei rapporti di lavoro. Nella prospettiva taylor-fordista l’acquisizione di diritti contrattuali – tramite l’introduzione crescente di vincoli attraverso la contrattazione collettiva – assegnava al singolo lavoratore diritti civili e sociali di status; Dal just in time alla produzione modulare 41 questo quadro normativo viene meno quando «il moderno status industriale perde il carattere costitutivo di diritti civili e la funzione di meccanismo politico di redistribuzione, diventando uno “stato” di possesso individuale privato» (Streeck 1988, 713). La tendenza è quella che vede lo status direttamente connesso con la posizione occupata dal singolo all’interno della struttura del mercato interno dell’impresa di appartenenza, svincolata da vincoli contrattuali che tendono ad indebolirisi quanto più la prestazione diventa specifica ed immateriale: «ciò che qui sembra essere status, non si basa sui diritti civili, ma su quelli di proprietà, e perciò non solo non è trasferibile e generalizzabile mediante l’attività collettiva, ma non è neanche utilizzabile come motore di redistribuzione e di giustizia egualitaria» (Streeck, 1988, 717). Questa situazione ridimensiona la portata dell’azione collettiva come strumento di acquisizione di status attraverso il contratto o accordi di tipo aziendale; cresce invece la contrattazione individuale che consegna la negoziazione di tali sistemi di incentivazione alla distribuzione dei rapporti di forza dell’impresa ed al potere di status del singolo lavoratore. Questo dilata le prerogative del management nella regolazione di quelle competenze che rendono possibile il governo delle interdipendenze organizzative provenienti dai contratti di fornitura. La qualità della transazione di fornitura non può fare a meno di considerare questo spostamento dal contratto allo status; un processo che coinvolge non più solo quelle figure professionali, storicamente sensibili agli obblighi di status ed ostili all’azione collettiva, ma anche figure professionali emergenti, che riconoscono nelle proprietà del proprio status individuale (capitale umano e professionale) un canale privilegiato di regolazione del rapporto di lavoro. I produttori di integrazione non sono rilevanti dal punto di vista numerico, e nemmeno perché espressione di esperienze negoziali storicamente sconosciute; la loro specificità consiste nella centralità strategica della loro prestazione rispetto ai vincoli di competitività dell’azienda stessa. Quanto più si centralizza il loro ruolo tanto più le relazioni industriali perdono capacità di presa regolativa. Il dualismo non comprime le differenze di “ceto” che si muovono all’interno dell’impresa in una filiera di prodotto ma evidenzia due situazioni estreme in cui il risorso allo status lancia una pesante sfida alle relazioni industriali contrapponendosi ad esse nella regolazione dei rapporti di lavoro, e confinando la contrattazione collettiva prevalentemente al ruolo di rappresentanza e difesa di una forza lavoro che solo in alcuni rari casi opera nel perimetro delle attività di core business. 42 Dal just in time alla produzione modulare Il ricorso alla prospettiva dualistica viene giustificato dal fatto di mettere in evidenza il legame profondo – intermediato dal peso delle “incompletezze contrattuali” - che esiste tra le trasformazioni del sistema di fornitura industriale e le modalità di regolazione dei mercati dei lavori, quindi indirettamente dei limiti e delle potenzialità che si aprono sul terreno delle relazioni industriali all’interno di una filiera di prodotto, soprattutto, come vedremo nella seconda parte di questo lavoro, partendo dall’architettura contrattuale successiva all’accordo del 23 luglio 1993. d. SECONDA PARTE La ridefinizione dei confini d’impresa nella filiera di prodotto mette in discussione l’attuale modello di relazioni industriali? Il Protocollo del 1993 può essere considerato nelle relazioni industriali italiane il testo “costitutivo” della concertazione; esso definisce le coordinate della politica dei redditi e di un nuovo sistema contrattuale. In questo lavoro il versante macroeconomica della politica dei redditi verrà lasciata sullo sfondo, mentre l’attenzione sarà focalizzata sugli aspetti di contrattazione collettiva aziendale, in particolare sul profilo delle relazioni industriali all’interno di un una struttura modulare del ciclo di prodotto. Infatti, nella prima parte dedicata al percorso di approdo ad una nuova configurazione del ciclo di prodotto, incardinata sulla produzione modulare la quale trova come vincoli organizzativi la qualità della transazione commerciale come terreno di gestazione e produzione di “beni relazionali” (relational quasi rent). Questi beni sono “semilavorati cognitivi” (saperi, professionalità, tecnologie di coordinamento, informazioni) che intervengono nelle situazioni di criticità e supportano la gestione dell’interdipendenza aziendale, e si addensano intorno al profilo professionale di figure di interfaccia, non necessariamente collocate in una specifica funziona aziendale, ma distribuiti lungo il processo produttivo, anche in prossimità delle occupazioni a carattere più esecutivo. Professionalità di “confine” che talvolta assumono la fisionomia del “lavoratore della conoscenza” o più genericamente del lavoro come permanente problem solving. La regolazione di questa produzione di beni immateriali sfugge alla capacità di “presa diretta” da parte dei contratti interni (rapporti di impiego) ed dei contratti commerciali tra imprese. Anzi prima con la partnership e successivamente con l’outsourcing modulare non solo il contratto si rivela Dal just in time alla produzione modulare 43 uno strumento parziale nella determinazione della qualità dell’output finale, ma è necessario ricorre a risorse extracontrattuali (legami fiduciari interorganizzativi, e gestione delle risorse umane improntate allo status individuale) per garantire un’efficiente gestione dei rapporti commerciali. Questo fenomeno non può essere letto come residuale o come sopravvalutazione di una contingenza storica, ridimensionabile nel breve periodo. Il governo delle incertezze è un vincolo organizzativo, che aumenta di valore quanto più l’organizzazione si snellisce e riduce i tempi di risposta alle richieste dei mercati. Il filo dell’argomentazione che ispira questa riflessione va ricercato non solo nel tentativo di cimentarsi con le problematiche che i processi avanzati di terziarizzazione sollevano genericamente sulle relazioni industriali, ma proprio partendo dal Protocollo e dalle sue intrinseche potenzialità. Intrinseche, perchè la struttura contrattuale del 1993 definisce le coordinate di un sistema di contrattazione da cui si possono sviluppare molteplici possibilità di adattamento ai contesti organizzativi aziendali senza che questo ne minacci l’orientamento regolativo. Verranno dunque presi in considerazione tre aspetti della contrattazione in relazione ai processi di outsourcing modulare e di fornitura integrata: il mutamento dei confini dell’impresa, la struttura partecipativa veicolata dal salario variabile, ed infine la rappresentanza sindacale. a) Confini di impresa e contrattazione aziendale. La vicenda storica del contratto collettivo aziendale trova nel Protocollo del 23 luglio 1993 una coerenza giuridica di complementarietà con il livello contrattuale nazionale e di categoria, non la sua origine. La presenza della contrattazione decentrata nelle relazioni industriali italiane, nonostante venga fatta formalmente risalire alla stipulazione nel 1962 dell’accordo tra le federazioni dei lavoratori metalmeccanici e le associazioni Intersind ed Asap (Giugni, 1996), percorre la storia delle organizzazioni sindacali ed è presente, come realtà fattuale, sin dalle esperienze contrattuali degli anni ‘5032. Attraversa il ciclo di lotte ’68-’72 dell’autunno caldo e resiste nella prassi sindacale anche quando il baricentro delle relazioni industriali si sposta sulla sponda della centralizzazione degli istituti contrattuali (si pensi alla tematica del neo-corporativismo e dello “scambio politico”) per assumere nella metà degli anni ’80 la configurazione 32 Per una ricostruzione del percorso giuridico dell’istituto del contratto collettivo aziendale dagli anni ’50 agli anni ’80 rimandiamo al saggio di R. Del Punta, “Il contratto collettivo aziendale”, M. D’Antona (a cura di), Letture di diritto sindacale, Napoli, Jovene, 1990. 44 Dal just in time alla produzione modulare di “micro-concertazione appartata” (Regini, 1991); una prassi di regolazione del rapporto di lavoro che sfugge al controllo sindacale e talvolta è in implicita polemica con esso, ma che si rivela essenziale nelle “strategie di riaggiustamento industriale” (Regini, Sabel, 1989). L’accordo del 1993 si colloca nel quadro di un tentativo ambizioso di trovare un equilibrio dinamico tra una politica macroeconomica dei redditi finalizzata al contenimento della dinamica salariale attraverso lo strumento dell’inflazione programmata e gli istituti della contrattazione collettiva, ed in particolare quella decentrata; la quale assume un ruolo complementare di integrazione alle materie trattate esplicitamente dal contratto nazionale, e di recupero del gap salariale non più erogabile attraverso gli automatismi della indicizzazione dei salari nominali rispetto alle variazioni dei prezzi al consumo (scala mobile). I due livelli di contrattazione (centralizzata e aziendale) non si trovano in una rapporto di competizione, quanto piuttosto di complementarietà: il principio di “alternatività” tra i livelli negoziali viene finalizzato a stabilire dei “raccordi oggettivi” tra le reciproche aree di competenza. Da un lato il rapporto è gerarchico, con il contratto nazionale che definisce le materie di competenza della contrattazione decentrata, e dall’altro è funzionale33 in quanto viene riconosciuto a ciascun livello un’autonomia di specializzazione, che assegna alla contrattazione decentrata competenze riguardo la crescita retributiva e la definizione dei premi di produzione (Bellardi, 1997, 1999). Ciononostante, sarebbe limitativo leggere il profilo della contrattazione decentrata secondo una prospettiva “salarialista”, ingenerosa verso le intrinseche potenzialità dell’accordo interconfederale. Questa costituisce, senza dubbio, una componente centrale. Il sindacato ha la responsabilità di contrattare tutta la materia salariale», ma il suo ruolo non si esaurisce in compiti di regolazione economica di mera redistribuzione economica. 33 Se seguiamo il contributo di Bellardi per funzionale si intende «la competenza in materia di “erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”, con l’unico vincolo – di tipo quantitativo – che non vengano impiegati i margini di produttività già realizzati dal livello nazionale per gli incrementi retributivi. La definizione della disciplina della contrattazione decentrata a contenuto economico spetta comunque al contratto di categoria, al quale però, proprio in applicazione del criterio della specializzazione, dovrebbe risultare inibita la possibilità di dettare in materia una regolamentazione che in sostanza, se non formalmente, esautori o limiti fortemente l’autonomia della contrattazione di secondo livello in materia» (Bellardi, 1999, 130-131). Dal just in time alla produzione modulare 45 La riforma delle relazioni industriali che esce dal Protocollo risponde anche ad una esigenza, emersa con la prassi “nascosta” della microconcertazione verso la fine degli anni ’80 ed accelerata dalla crisi del modello consiliare34 fondato sull’omogeneità dei rappresentati (il delegato del “gruppo omogeneo”), di ridefinizione della rappresentanza sindacale che si conclude con il riconoscimento formale della rappresentanza sindacale unitaria (RSU). Può sembrare azzardato, ma è su questo secondo versante che è possibile rintracciare il filo rosso che lega la prospettiva del “sindacato consiliare”, uscito dall’autunno caldo del 1969, con le rappresentanze sindacali unitarie: queste configurano il sindacato come agente contrattuale impegnato nel conseguimento di strategie di controllo sull’organizzazione della prestazione, non limitata alla sua componente salariale. Il sistema contrattuale successivo al Protocollo non si limita quindi a regolare un conflitto redistributivo ma si spinge, almeno potenzialmente, sulla soglia del governo dell’impresa. Accanto ad una proiezione del sindacato come regolatore di equità sociale nella determinazione delle politiche redistributive viene riportata in superficie la sua vocazione contrattuale in termini di attore di giustizia. Come era accaduto con i “consigli dei delegati” l’organizzazione sindacale decide di proiettarsi sul terreno della contrattazione con l’ambizione di incidere sugli istituti salariali ma anche sulle condizioni di lavoro in cui si svolge la prestazione lavorativa, le sue cadenze, i suoi ritmi, la sua dimensione ergonomica e l’impatto sulla salute. La centralità dei Consigli, e la sua parabola storica, tuttavia è inseparabile dallo scenario economico e produttivo in cui essi hanno avuto origine e dalla mobilitazione collettiva che ne ha reso possibile lo sviluppo. Le differenze con il sistema contrattuale e con i modelli di organizzazione della produzione che emergono dalla crisi del fordismo proiettano l’organizzazione sindacale e la sua rappresentanza su uno scenario radicalmente mutato, ma rimane inalterata quella doppia vocazione contrattuale che percorre la storia del sindacalismo, in particolare quello italiano, sin dalle sue origini; quella cioè di essere insieme regolatore nell’allocazione delle risorse ed attore nella rappresentanza inclusiva di interessi eterogenei. Due elementi che accompagnano l’evoluzione della contrattazione collettiva da una configurazione di tipo 34 Per un approfondimento circa le ragioni di crisi del modello consiliare di rappresentanza sindacale italiano rimandiamo alla ricerca empirica di I. Regalia (1984), ed in una prospettiva comparata con il mondo industriale europeo e nordamericano al volume curato da Streeck e Rogers nella metà degli anni ’90 (1995). 46 Dal just in time alla produzione modulare redistributivo/normativo ad una invece incardinata su criteri di “partecipazione” (Negrelli, 2000). Quest’ultimo rimane un concetto carico di forti ambiguità, la ricchezza dei significati a cui rimanda non è solo un fattore semantico, rimanda piuttosto a prospettive diverse di intendere le modalità di cooperazione tra management e lavoratori. Tuttavia, l’indirizzo partecipativo, al di là delle sue diverse connotazioni, descrive il passaggio da un sistema negoziale fondato sullo scambio di grandezze certe (orari, ritmi, controprestazioni, incentivi) ad un sistema che invece comprende in modo esteso la contrattazione di volontà, di intenzionalità non facilmente quantificabili. È il processo parallelo a quanto avvenuto sul terreno delle relazioni tra imprese all’interno di un sistema integrato o modulare di fornitura. La rappresentanza sindacale unitaria nelle imprese si trova così immersa in questa sorta di “ambivalenza virtuosa” tra l’essere il collettore di interessi (sempre più articolati e frammentati) ed un produttore di “beni collettivi” (come ad esempio la salvaguardia della cooperazione necessaria a conseguire la competitività aziendale, o la continuità di immissione di sapere tacito nella regolazione del processo produttivo e nelle attività di problem solving). È dalle caratteristiche di questa “ambivalenza” che l’azione sindacale in azienda emerge come un insieme di attività di “contrattazione partecipativa” (Carrieri, 1996, 2001), in cui non solo si alternano conflitto e cooperazione, questo con modalità variabili è sempre avvenuto; il punto di svolta riguarda piuttosto la “posta in gioco” che genera esiti negoziali con un’impronta cooperativa piuttosto che conflittuale. Nel sistema fordista era rappresentata dal governo delle rigidità; ovvero da quanto i vincoli imposti dalle rivendicazioni sindacali riuscivano a limitare l’azione del management espressione di una struttura organizzativa altrettanto rigida. La nuova “costituzione” delle relazioni industriali pone al centro della negoziazione aziendale il nodo della competitività aziendale, che costituisce un obiettivo condiviso della rappresentanza dei lavoratori e del management aziendale. Una sorta di “meta-vincolo” assunto dagli attori (management e sindacato) quale limite invalicabile nella esplorazione delle soluzioni negoziali. Una competitività resa instabile dalla internazionalizzazione dei mercati, dall’accellerazione delle sue necessità di autocorrezione e miglioramento, in un contesto di forte riduzione della ridondanza delle risorse, che il fordismo invece utilizzava come polmone di assorbimento delle istanze sindacali. Questi elementi erano già venuti in superficie con la diffusione della lean production e con essa la tendenza al decentramento della contrattazione Dal just in time alla produzione modulare 47 collettiva; il profilo della fornitura integrata e quello dell’outsourcing modulare non solo accentuano la centralità dei vincoli di competitività ma lo fanno in un contesto che sbiadisce i confini organizzativi delle imprese. La competitività non è governabile solo in termini di economia aziendale, necessita invece di elementi che configurano una sorta di “economia reticolare”; ovvero di efficienza nella gestione degli scambi e delle transazioni che compongono la rete di fornitura, ma soprattutto nella produzione di quel bene collettivo che riguarda l’integrazione delle attività che concorrono allo sviluppo e produzione di un prodotto o di un servizio. La competitività è dunque strettamente connesso alla qualità della relazione. In questo scenario, l’assetto contrattuale formalizzato dal Protocollo del 23 luglio 1993 incontra alcune difficoltà, che emergono a partire da alcuni interrogativi che strutturano un sistema di relazioni industriali: quali contenuti assume la contrattazione a partire da uno dei fattori fondanti la “partecipazione”, ovvero il salario variabile, quali risorse e modalità vengono utilizzate in fase negoziale (azione collettiva e azione individuale), ed infine la rappresentanza relativa a “chi rappresenta chi”. Interrogativi che cercheremo di approfondire nei prossimi paragrafi. a) Parametri di contrattazione del salario variabile. Con il protocollo 1993 una quota degli incrementi salariali viene agganciata alle variazioni della performance aziendale, attraverso l’utilizzo di una gamma variegata di indicatori attraverso i quali viene misurato e calcolato il “premio di risultato”. Questi possono essere raccolti in quattro categorie: parametri tecnico-produttivi, o gestionali, finalizzati ad una valorizzazione del fattore lavoro nel conseguimento di obiettivi produttivi concordati nell’accordo integrativo (qualità, quantità, riduzione degli sprechi e degli scarti); parametri economico-aziendali, o finanziari, legati alla redditività dell’impresa (margine operativo lordo, profitto netto, reddito operativo lordo, ecc.); parametri di presenza e parametri di sicurezza, questi ultimi connessi con l’implementazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Se escludiamo gli ultimi due, i parametri finanziari e quelli tecnico produttivi costituiscono il volume più rappresentativo ed esteso delle materie di contrattazione aziendale. L’obiettivo comune a questi parametri è quello di “incentivare lo sforzo lavorativo”, con una redistribuzione degli incrementi di produttività, o attraverso la suddivisione del “rischio di impresa” tra l’impresa ed i lavoratori, o ancora attraverso meccanismi di partecipazione agli utili dell’azienda (Auleta, Fabbri, Melotti, Pini, 1999). Questa tipologia può essere ulteriormente semplificata, se si procede con una loro aggregazione 48 Dal just in time alla produzione modulare sulla base della vicinanza o lontananza dalla prestazione: se i parametri sono centralizzati il meccanismo del salario variabile avviene senza una rilevante incidenza del singolo sulla regolazione della erogazione del premio, laddove invece i parametri sono centralizzati sul luogo della prestazione l’incidenza aumenta, e con essa si sviluppano possibilità di intervento, in sede negoziale, sull’organizzazione del lavoro. In quest’ultimo caso il salario variabile viene agganciato ad opportunità di contrattazione della organizzazione della prestazione, ed indirettamente sulla qualità del lavoro. Un altro aspetto comune è che i parametri che definiscono i criteri redistributivi del premio di risultato sono calibrati sulla performance della singola azienda, come soggetto economico autonomo: la sua redditività, la sua produttività, la qualità di processo e di prodotto. Viene esclusa la dimensione inter-aziendale che, come abbiamo visto emergere nel sistema di fornitura di un ciclo di prodotto, condiziona fortemente la qualità delle attività produttive, ed in ultima istanza l’andamento aziendale. La reticolazione dei rapporti nella catena di fornitura, in particolare finale e primo anello di fornitura, rende spesso indistinguibile il confine che separa il valore aggiunto immesso nel ciclo di prodotto dalle singole organizzazioni. In altri termini una parte consistente del valore aggiunto immesso da interi gruppi di lavoratori non viene compreso dai parametri che definiscono il premio di risultato nelle sue diverse forme35. A questo si aggiunge un ulteriore elemento distorsivo: imprese finali e del primo livello di fornitura pur partecipando ad un comune ciclo di prodotto possono fare riferimento ad inquadramenti contrattuali distinti (con imprese finali che implementano il CCNL di una categoria e l’impresa di fornitura che fa riferimento ad un contratto differente). Accanto a questa disomogeneità contrattuale, è particolarmente diffuso un secondo fattore di distinzione e riguarda la disomogeneità dei sistemi premianti e di 35 Un approccio inter-aziendale spinge anche nella direzione di un aggiornamento delle metodologie e degli schemi di analisi che si sono cimentati con il tema della contrattazione. Un riferimento particolare va allo schema di H.A. Clegg (1976), ancora recentemente utilizzato per inquadrare il fenomeno della contrattazione aziendale (Cella, Treu, 1998) e per indagarne empiricamente la natura, l’estensione, la profondità, i contenuti, le prerogative ed il grado di controllo sui meccanismi di implementazione degli accordi (Bordogna, 1997). Uno strumento che mantiene la sua efficacia non solo per inquadrare la contrattazione decentrata aziendale, ma che nei casi di filiera integrata o di outsourcing consentirebbe, a partire dalle sue variabili costitutive (estensione, coinvolgimento delle rappresentanze sindacali, grado di controllo, portata) di misurare il discostamento, alla stregua di un “ideal-tipo” weberiano, tra la contrattazione effettivamente svolta e le implicazioni problematiche che il mutamento dei confini di impresa solleva sul terreno negoziale complessivo. Dal just in time alla produzione modulare 49 incentivazione tra le imprese di fornitura. Tecnici e professionisti di due imprese giuridicamente distinte possono lavorare quotidianamente ad un progetto che prevede una interazione continua di condivisione non solo di saperi ed informazioni ma anche dello stesso spazio fisico, con retribuzioni variabili che fanno capo a premi di risultato misurati su parametri della stessa categoria ma calcolati diversamente, o su categorie distinte (gestionali, finanziari), o ancora uno dei due gruppi di lavoratori può non fare riferimento ad alcun accordo “collettivo” che regoli l’incentivazione dello sforzo lavorativo. Nonostante la crescente interdipendenza tra le imprese della filiera di fornitura renda indefiniti i confini organizzativi dell’azienda, la regolazione collettiva del salario variabile continua a fare appello a parametri rigidamente calcolata sulla prestazione della singola impresa. Con una perdita di capacità di presa diretta sui mutamenti organizzativi e sulla varaiabilità dei contributi che provengono dall’attività lavorativa. La contrattazione collettiva del salario variabile, anche nelle sue versioni più dinamiche ed ambiziose, si arresta sui confini giuridici dell’impresa. Ma la contrattazione del salario variabile non è solo un fenomeno collettivo, è anche il risultato di negoziazioni individuali; e la loro disposizione è altamente variabile. Può comprendere la prassi diffusa di un’integrazione salariale “fuori busta” soprattutto nel tessuto delle PMI, e può riguardare operai specializzati o figure professionali altamente qualificate, con compiti di elaborazione cognitiva di saperi ed informazioni, all’interno di realtà industriali di dimensioni più consistenti. In questo senso, la negoziazione individuale del salario variabile è un fenomeno trasversale scarsamente correlato con condizione dimensionale dell’azienda. Nel caso delle imprese di fornitura, specie quelle collocate nei primi anelli della catena, riguarda proprio quei lavoratori della conoscenza che rientrano nella categoria dei produttori di integrazione. Sono queste figure strategiche a rappresentare le maggiori articolazioni di status e contratto; il loro salario variabile per una parte viene regolato dagli accordi prodotti dalla contrattazione collettiva in azienda, e per un’altra parte sono l’esito della capacità del singolo lavoratore di utilizzare il proprio potere di mercato nel gioco negoziale con il management. Un fenomeno ampiamente conosciuto che ha riguardato tutta la storia della sindacalizzazione degli impiegati e dei tecnici, e che ora si ripropone riportando all’attenzione la questione centrale dei riconoscimenti di professionalità e le sue modalità di regolazione economica. 50 Dal just in time alla produzione modulare b) Produttori di integrazione e salario professionale Una linea interpretativa che ha attraversato il dibattito sul salario variabile, istituzionalizzato con il Protocollo del 1993, tendeva non solo a riconoscere nel potere negoziale del sindacato uno strumento di rafforzamento del potere d’acquisito delle retribuzioni, ma anche un’opportunità per regolare collettivamente la frammentazione dei profili professionali, individuando “regole certe” di corrispettivo economico e sanando così la frattura prodotta negli anni precedenti dalla strategia dell’egualitarismo salariale (Bellardi, 1999); che può essere, senza eccessive forzature, assunta tra gli elementi che hanno concorso allo sviluppo di quella “micro-concertazione appartata” che si svolgeva all’ombra della contrattazione collettiva. Nel panorama degli studi empirici che in questi anni hanno svolto un’operazione di monitoraggio sulla contrattazione aziendale (Bellardi, Bordogna, 1997), i temi riguardanti l’organizzazione del lavoro, ed in particolare la ridefinizione dei parametri di valutazione dei profili professionali presenti nell’organizzazione ricopre un peso residuale nel panorama complessivo degli accordi integrativi. C’è un problema di rappresentanza sindacale, come vedremo successivamente, ma sulla scarsa “contrattazione del sapere” pesa l’obsolescenza delle declaratorie dell’inquadramento professionale e della job evaluation, che vale non solo per figure professionali altamente qualificate ma anche per tecnici ed operai; in particolare, emerge con tutta la sua complessità, il ritardo nella definizione di criteri di valutazione ed inquadramento del sapere professionale dato dal rapporto tra le competenze professionali possedute dal singolo, l’organizzazione del lavoro e l’oggetto della sua attività lavorativa. La contrattazione del sapere professionale, di cui il suo riconoscimento retributivo è una componente, non può dunque essere scisso dai criteri di classificazione e sviluppo professionale36. 36 A questo proposito Butera (1997) mette in evidenza la necessita di riconfigurare tali sistemi secondo la nozione di “ruolo”: il ruolo può essere atteso o agito. Nel primo caso si tratta di un ruolo che deriva dall’assegnazione della gestione di uno specifico segmento del processo produttivo; mentre nel secondo caso il ruolo rappresenta la “fenomenologia della prestazione individuale”, e riguarda la prestazione contestualizzata nell’organizzazione del lavoro insieme ai risultati conseguiti. Questa impostazione la necessità di adeguare il sistema di classificazione alla natura dinamica del processo produttivo in cui viene sviluppata la prestazione. Distanziandosi dal modello tayloristico, invece imperniato su una logica statica di stabilità, regolarità e prevedibilità della mansione che coincideva con il compito da svolgere. Una posizione complementare a questa (Cerruti, 1997) è quella che vede nei nuovi sistemi di classificazione degli aspetti che vanno altamente salvaguardati; l’unicità della classificazione delle capacità Dal just in time alla produzione modulare 51 Da qui emerge che l’incompletezza contrattuale, derivante dalla inadeguatezza delle categorie di riconoscimento delle professionalità, lascia spazio, in assenza di una regolazione contrattata, alla gestione unilaterale del sapere organizzativo da parte del management aziendale, per la produzione continua di beni relazionali37 necessari al governo delle interdipendenze. La regolazione di questi beni collettivi non si svolge tuttavia all’interno di un “vuoto normativo”; via via che la prestazione incorpora esigenze di specificità difficilmente misurabili con parametri “oggettivi” di valutazione quantitativa, la produzione dei beni relazionali risulta svincolata dalla contrattazione collettiva. Si riaffaccia, così, la questione riguardante non tanto la garanzia di uno stato di “pace sociale in azienda”, ma più estesamente la concertazione delle regole di produzione di beni collettivi «senza pregiudicare il livello di coesione e di cooperazione (nell’ottica dell’impresa), o di solidarietà (nell’ottica del sindacato), senza il quale il sistema sociale dell’azienda rischia di disgregarsi e perdere in efficienza – e il sindacato di venire meno» (Regalia, 1996, 260). In altro termini l’inaridimento delle relazioni industriali a vantaggio di relazioni di impresa, fa venire meno i presupposti della “contrattazione partecipativa”, ma produce anche effetti negativi nel medio periodo per la coesione stessa delle imprese. Sul versante sindacale la questione della negoziazione individuale ha trovato uno sviluppo lungo due direzioni: di assorbimento e di contrattazione differenziata. La prima strategia regolativa è finalizzata a riportare sul terreno della contrattazione collettiva ogni iniziativa individuale di confronto con il management riguardo la definizione del sistema premiante nel suo professionali e gli aspetti retributivi connessi, il mantenimento di sistemi di classificazione delle competenze professionali possedute dal lavoratore e non dalle competenze richieste dalle diverse attività, ed infine la riaffermazione del salario professionale come forma di remunerazione delle capacità professionali. 37 Una delle caratteristiche principali di questi beni relazionali consiste nella sua “perifericità”; in questo modo si capovolge l’impostazione che aveva caratterizzato il modello keynesiano-fordista, secondo il quale il mercato, come forma di regolazione sociale incardinata sul principio della competitività dispersa degli attori, fosse incapace di garantire la produzione di quei beni collettivi, che invece venivano generati attraverso politiche pubbliche negoziate a livello centrale (Regini, 1994). Ora questi vengono riprodotti ad un livello decentrato, e soprattutto senza una rete di coordinamento che leghi i singoli processi periferici. Molteplici saperi interdisciplinari che garantiscono l’integrazione dei processi nella filiera e strutturano il patrimonio di conoscenze dei diversi profili di lavoratori della conoscenza trovano nell’impresa e nel suo tessuto di relazioni il terreno più appropriato di formazione, che è inseparabile da processi di learning by doing, ma soprattutto di learning by interacting 52 Dal just in time alla produzione modulare complesso, ovvero ogni contatto avente come posta in gioco la determinazione della relazione salario/prestazione. È evidente che questa prospettiva si muove su uno sfondo che vede l’azione collettiva contrapposta ed alternativa a quella individuale. Un secondo indirizzo, invece, ribalta questi presupposti individuando l’azione individuale come un’azione capace di essere complementare a quella collettiva. La scelta della negoziazione individuale da parte di alcune fasce professionali non è sempre una soluzione di ripiego in attesa di una più adeguata capacità di intervento dell’attore sindacale. Il problema della rappresentanza di questi “ceti organizzativi” esiste, ma la contrattazione individuale contiene anche una forte componente di intenzionalità, che si intreccia con la preservazione di uno status ed è anche alla base di un’autorappresentazione identitaria del singolo lavoratore (Regalia, 1988, Butera, 1997). Il problema, quindi, non riguarda l’asciugamento progressivo delle aree che trovano come modalità regolativa il “potere di mercato” dei singoli produttori di integrazione, per ritornare sul terreno specifico del contesto produttivo di partenza, ma la sua regolazione, non più unilateralmente manageriale. Sul filo di questo ragionamento, la contrattazione collettiva diventa il luogo privilegiato di formazione delle regole attraverso le quali avviene il gioco negoziale tra il singolo lavoratore ed il management. In altri termini, la contrattazione collettiva in azienda è la fonte normativa della contrattazione individuale. Sul terreno del salario professionale e più estesamente della contrattazione del sapere i fenomeni di outsourcing e filiera avanzata non arricchiscono di nuovi contenuti la questione delle relazioni industriali allargate alle varie articolazioni professionali; piuttosto ne accentua la condizione critica, via via che cresce l’importanza strategica di quei lavoratori non coinvolti dalla contrattazione collettiva. c) Coinvolgimento sindacale e terziarizzazione avanzata. Tutta la questione della contrattazione del sapere incrocia uno dei temi più classici delle relazioni industriali: la rappresentanza sindacale e le sue possibilità di incidere sui processi decisionali aziendali, o in questo caso inter-aziendali. Il tema del coinvolgimento delle rappresentanze sindacali fa riferimento a quegli strumenti di controllo che prevedono la trasmissione da parte dell’azienda delle informazioni sull’andamento e sulle prospettive aziendali e possono dare vita a commissioni bilaterali, talvolta paritetiche, che Dal just in time alla produzione modulare 53 vengono ad assumere la fisionomia di tavolo negoziale permanente di verifica e controllo nelle fasi di implementazione degli accordi38. La struttura della rappresentanza sindacale unitaria che emerge dal Protocollo del ’93 interviene su alcuni nodi problematici che avevano accompagnato il sindacato consiliare – ricordiamo tutto il complesso dibattito sul canale doppio o unico della rappresentanza; non ha solo proceduralizzato i meccanismi di selezione della rappresentanza, essa restringe anche quei margini di “informalità” che avevano caratterizzato il modello precedente (Regalia, 1995). Senza entrare nei dettaglio del ricco dibattito sulle forme di organizzazione sindacale, il tema della rappresentanza emerge prepotentemente nei sistemi di fornitura, soprattutto quelli integrati o legati a forme di outsourcing modulare. Viene in primo piano la questione della rappresentanza contrattuale, ovvero gli interessi vengono “coperti” dai processi negoziali tra le parti (Carrieri, 1995). Se la rappresentanza sociale trova un elemento di regolazione attraverso la verifica elettorale con procedure riconducibili a quelle della democrazia rappresentativa, che le consente di trovare un’ampia legittimazione, la sua rappresentanza contrattuale è l’esito della capacità dell’attore sindacale di negoziare un numero sempre più alto di contenuti, espressione di interessi eterogenei. La sua capacità inclusiva detta la misura della rappresentanza contrattuale del sindacato. È questa infatti l’arena dalla quale emergono i maggiori interrogativi quando il tema della rappresentanza incrocia i processi di terziarizzazione avanzata. Partendo proprio dalla trasformazione dei sistemi di fornitura emergono due fattori di difficoltà della rappresentanza riscontrabili sul terreno dell’estensione inter-aziendale e dell’estensione intra-aziendale della rappresentanza. Da un lato il ciclo di prodotto, che vede imprese coinvolte in una struttura reticolare dove la collaborazione richiede crescenti investimenti in risorse di integrazione e di interfacciamento delle attività fondate sulla centralità della singola impresa, vede la rappresentanza sindacale limitata nella sua attività di “contrattazione partecipativa” (tra cui 38 Occorre tenere presente che i “diritti di informazione”, vengono disciplinati dal contratto collettivo nazionale di lavoro e prevedono procedure di implementazione non omogenee che variano a seconda dei tipi di contratto; prevedendo talvolta procedure di implementazione di verifiche tecniche, informative, sui risultati o di valutazione preventiva. In altri termini il diritto di informazione è ugualmente riconosciuto, ciò che muta sono le procedure di implementazione che sono l’esito del potere negoziale delle parti in fase di stipulazione del contratto, e successivamente degli accordi aziendali. Per una ricostruzione di questa disciplina contrattuale e dei suoi risvolti sulle relazioni industriali: Negrelli S., Treu T (1985). 54 Dal just in time alla produzione modulare il salario variabile) ai confini giuridici dell’azienda, non a quelli organizzativi. Dall’altro lato, all’interno della singola impresa permane la difficoltà a spingere la rappresentanza oltre i confini consolidati ed estenderla a quei “ceti di fabbrica” qualificati, che svolgono compiti di integrazione organizzativa e presentano una maggiore propensione alla negoziazione individuale. La prassi degli attori è sempre in anticipo rispetto agli interventi di regolazione o al lavoro di osservazione ed analisi; non sono mancati tentativi di superamento di questi deficit di rappresentanza, di particolare interesse il caso del “comitato di sito” espresso dall’accordo del 1999 tra le rappresentanze sindacali unitarie e l’Iveco di Brescia. Qui l’Iveco decise di procedere con la cessione di un ramo di impresa, il reparto presse, ad un’impresa esterna (Magnetto); un caso che può rientrare nella categoria dell’outsourcing modulare del processo produttivo. Questo accordo, unico nel panorama delle relazioni industriali in Italia, prevede in primo luogo il mantenimento dell’unicità contrattuale delle attività cedute, ovvero lo stesso CCNL. È da sottolineare che l’unicità contrattuale è uno dei tratti fondanti le relazioni tra sindacato e management nell’area industriale di Melfi; un tratto comune di una certa rilevanza nonostante la diversità profonda dei siti produttivi, sito “storico” come quello di Brescia ed a “prato verde” come nel caso di Melfi39. Viene garantito il mantenimento degli accordi integrativi esistenti, estesi alle imprese che fanno parte del sito, ed inoltre nei casi di crisi occupazionali o in casi di singoli problemi di salute le imprese del sito si impegnano a definire delle strategie cooperative di assorbimento degli esuberi e di ricollocazione dei singoli lavoratori. Questi elementi vengono ulteriormente rafforzati dal riconoscimento di una rappresentanza sindacale di sito che ha la facoltà di negoziare le questioni comuni alla inprese facenti parte del sistema di fornitura di Iveco e di coordinare le strategie sindacali (traiettorie occupazionali, carichi di lavoro, gestione degli orari, premi di risultato), e per questo è nelle condizioni di occupare uno spazio di negoziazione nelle politiche industriali della filiera di prodotto. L’innovazione organizzativa del “comitato di sito” è fuori discussione, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per quanto concerne il percorso che ne ha consentito la formazione, tutto interno alla procedimentalizzazione delle regole di contrattazione aperte dal Protocollo del 1993; infatti più che introdurre un nuovo livello negoziale in competizione con quelli esistenti (settore, territoriale, aziendale), la rappresentanza sindacale di sito può 39 Per un confronto sulle applicazioni della lean production a Melfi e a Brescia si rimanda rispettivamente ai saggi di Fortunato (2000) e Marchetti (2000). Dal just in time alla produzione modulare 55 essere considerata come una forma estesa di rappresentanza aziendale, che si struttura sulla crescente interdipendenza che lega le imprese di fornitura al cliente finale. Riunifica ciò che la frammentazione proprietaria aveva separato, ricongiungendo anche altre imprese appartenenti al sito produttivo. È interessante notare che a fronte della strategia dualistica di Iveco (esternalizzazione proprietaria/internalizzazione operativa) la strategia sindacale sia tutta focalizzata sul terreno dell’organizzazione del processo produttivo, le sue caratteristiche e le sue interdipendenze, e con l’obiettivo di ridurre i margini di “extraterritorialità della rappresentanza”40. Rimangono tuttavia aperti alcuni interrogativi riguardanti le procedure di legittimazione del comitato di sito, e quindi la sua stabilizzazione quale corpo rappresentativo di una filiera inter-aziendale. Questo passaggio non è secondario. Infatti, il comitato di sito resta una “costruzione” in via di definizione visto che i suoi membri sono designati dal sindacato e non direttamente eletti dai lavoratori interessati; si ripropone quindi il problema della legittimazione sotto il profilo dei meccanismi di assegnazione della delega. Inoltre, l’insediamento del comitato è stato l’esito di un “effetto traino” attivato dalla forte sindacalizzazione interna agli stabilimenti Iveco che ha incluso le aziende minori, oltre all’impresa che ha acquistato nello specifico l’attività esternalizzato da Iveco. È stata il prodotto di un gioco negoziale in cui i settori più forti del sindacato hanno trainato quelli con minore potere contrattuale, ma pur sempre l’esito di rapporti di forza, per definizione variabili. I fattori che intervengono sullo stato delle relazioni industriali sono diversi: la struttura del mercato del lavoro, i livelli di sindacalizzazione, la tradizione negoziale. Non da ultimo la penetrazione della rappresentanza contrattuale anche in quei settori della forza lavoro più professionalizzati e 40 Per “extraterritorialità della rappresentanza” si intende un contesto lavorativo nel quale lavoratori dipendenti da imprese diverse a seguito di cessioni di ramo di impresa si trovino a condividere lo stesso spazio fisico, o cooperare stabilmente sugli stessi processi. In questo caso il rappresentante sindacale di una delle imprese non è legittimato ad intervenire per questioni riguardanti i lavoratori delle altre imprese, pur condividendo lo stesso contesto di lavoro. A questo proposito, riferendosi al caso di outsourcing tra Fiat e Magneti Marelli, Garetti, Rieser e Sartiano (2000) fanno l’esempio di un caso di infortunio incorso ad un addetto della Magneti Marelli che ha sollevato l’iniziativa dei delegati sindacali di Fiat. L’iniziativa si è sviluppata sino al blocco della produzione con perdite sul volume di vetture programmato. Fiat intima, prima alle RSU, poi a Magneti Marelli l’indennizzo delle perdite aziendali. Questo caso offre un esempio di relazioni industriali in un contesto di confini di impresa appannati dalla “co-localizzazione” derivanti da fenomeni di outsourcing. 56 Dal just in time alla produzione modulare meno esecutivi. Il comitato di sito resta un’esperienza inedita soprattutto sul terreno della estensione orizzontale della rappresentanza, rimane ancora debole la sperimentazione di soluzioni organizzative e negoziali riguardanti l’avvicinamento a quella gamma variegata di lavoratori della conoscenza che operano tra gli interstizi delle attività organizzative favorendone il coordinamento. Nelle esperienze di terziarizzazione avanzata queste due traiettorie della rappresentanza contrattuale si compenetrano, e costituiscono due condizioni inseparabili di un sistema di relazioni in presa diretta con il mutamento organizzativi dei confini delle imprese. Esse assorbono le questioni cruciali della “partecipazione”; nella determinazione del salario variabile espresso nella formula dei premi di risultato, ma anche in relazione alle modalità di contrattazione del salario professionale. Quella professionalità che nell’ottica del sindacato è una questione unificante, e costituisce il “collo di bottiglia” per ogni strategia collettiva di contrattazione del sapere, mentre nella prospettiva manageriale costituisce il terreno su cui negoziare la produzione di risorse che riescano ad arginare l’incompletezza strutturale dei contratti commerciali. Come si vede, per entrambi gli attori – manageriale e sindacale – la risorsa “sapere” (come articolazione di esperienza, competenza, professionalità) è di cruciale importanza. La sua rappresentanza, a partire dai sistemi premianti e di incentivazione, è ciò che può determinare l’esito di un gioco negoziale. e. Il contratto di prodotto una strategia di riunificazione contrattuale. a) Problemi e prospettive. Sin dalle prime esperienze di “decentramento produttivo” il dibattito sindacale è stato attraversato, con alterna intensità, dalla necessità di individuare forme di contrattazione in grado di comprendere la “rete” di imprese coinvolte nel ciclo di produzione di uno specifico prodotto. In quella fase la maggiore difficoltà non risiedeva tanto nella ricerca di strumenti adeguati ad estendere “verticalmente” la rappresentanza, quanto invece a promuoverne l’estensione orizzontale, cioè unire intorno ad uno stesso “luogo” negoziale imprese giuridicamente distinte. Senza mai trovare una esplicita formalizzazione, le ipotesi di “contratto di prodotto” emerse sin dagli anni ’70, oggi riscoprono nuove ragioni di riflessione. Questa ipotesi non costituisce solo la proposta più avanzata di dare una veste contrattuale al mutamento organizzativo intervenuto nella filiera di prodotti complessi, essa offre anche l’occasione per misurarsi con Dal just in time alla produzione modulare 57 le problematiche che intervengono nella regolazione delle relazioni di lavoro in un contesto di terziarizzazione avanzata. Sul versante delle relazioni industriali la proposta del “contratto di prodotto” trova, senza dubbio, elementi di collegamento con l’esperienza della rappresentanza di sito. La contiguità fisica delle imprese della filiera sia nelle versioni della ingenerizzazione congiunta sia nel caso dell’outsourcing modulare favoriscono la costruzione di relazioni industriali in grado di ricompattare sul terreno della rappresentanza ciò che la “disintegrazione” del ciclo produttivo ha frammentato. Come è stato detto in precedenza, la “contrattazione partecipativa” necessita di misurarsi in una prospettiva inter-aziendale; a partire proprio dalla specificità del contratto di fornitura. Particolarmente in riferimento al contratto commerciale di fornitura in outsourcing (processo/prodotto) si è sviluppato un filone della giurisprudenza lavorista che individua nel contratto commerciale di cessione di ramo di impresa il riferimento “datoriale” nella stipulazione dei contratti di impiego; in questo caso il datore di lavoro non è la singola impresa ma il contratto commerciale che lega l’impresa outsourcee a quella outsourcer (Corazza, 1999). Questa soluzione consente di lasciare invariato il riferimento allo stato giuridico del concetto di impresa e nello stesso tempo di ancorare lo stato giuridico del lavoratore all’organizzazione produttiva in caso di cambiamento del titolare di azienda41. Ricercare nel contratto commerciale tra le imprese l’origine della regolazione normativa dei rapporti di impiego, può consentire un primo passa verso l’allineamento dell’integrazione organizzativa con quella contrattuale, ed aprire uno spiraglio per un intervento estensivo della rappresentanza sindacale interorganizzativa. Questa soluzione costituisce senza dubbio un passo in avanti nel supporto normativo a soluzioni negoziali improntate al governo delle esternalità negative, soprattutto per le organizzazioni sindacali, che 41 Scrive Corazza (1999): «l’individuazione dell’organizzazione alla luce del contratto commerciale che lega le due imprese consente, pertanto, una lettura “leggera” dell’impresa, che ne valorizzi i profili di dematerializzazione, permettendo, tuttavia, di leggere i suoi requisiti (che restano quelli indicati all’art. 2082 c.c.) in base ad un dato giuridico dotato di un minimo di certezza» (400). Per quanto riguarda invece le condizioni giuridiche del lavoratore se l’organizzazione viene caratterizzata dal contratto commerciale nei fenomeni di integrazione contrattuale «consente di operare un controllo sulle operazioni di esternalizzazione poste in essere dal datore di lavoro, con la conseguenza di ricondurre tali modalità organizzative dell’impresa alla fisiologia dei rapporti economici e di impedire la “torsione” delle tecniche normative poste a tutela del lavoro subordinato» (404). 58 Dal just in time alla produzione modulare scaturisce dall’outsourcing modulare. Ma offre anche spunti di riflessione per la sperimentazione di una contrattazione estesa a quelle imprese appartenenti al primo livello di fornitura ma non coinvolte nella cessione di rami di impresa da parte dell’azienda finale. Con il “contratto di prodotto”, l’attore sindacale quindi si estende oltre i confini della singola imprese e definisce una rappresentanza sindacale di sito con la possibilità di individuare una “controparte” non più ristretta al management aziendale ma alle strutture manageriali delle diverse aziende tenute insieme dai contratti commerciali di fornitura. Con questo passaggio si determina anche un effetto aggregativo sotto il profilo della rappresentanza degli interessi datoriali. Sono diversi gli elementi che spingono l’attore sindacale verso questo tipo di soluzione inclusiva dell’azione, ed altrettante le difficoltà che l’accompagnano; ma soprattutto questa ipotesi di lavoro dà per acquisite le sue premesse, ovvero l’estensione orizzontale della rappresentanza e quella verticale. È proprio quest’ultima a rappresentare i maggiori problemi e difficoltà; non solo per ragioni interne al sindacato stesso, ma anche per le resistenze da parte manageriale. Resistenze che si coagulano intorno alla tendenza a riconoscere nell’attore sindacale il ruolo di co-regolatore del bene collettivo-competitività, ma confinato nella giurisdizione delle grandezze misurabili (i parametri del salario variabile), lasciando così fuori l’azione collettiva dalla contrattazione del sapere esperto, che viene invece sottoposto a relazioni negoziali lavoratore-management. Sul fronte opposto, è necessario un approfondimento del contratto di prodotto analizzato dal punto di vista degli attori datoriali. Nel corso di tutto questo lavoro l’analisi è stata focalizzata sul rapporto privilegiato tra l’impresa madre e le imprese appartenenti al primo livello di fornitura; un rapporto che è senza dubbio caratterizzato da una maggiore “intensità” nello scambio di informazioni per il coordinamento dei processi produttivi. Ma sono state escluse quelle imprese che invece si trovano nei livelli intermedi o più periferici della catena di fornitura. In termini più sociologici, sono state prese in considerazione solo le imprese la cui strategia è collocabile tra quelle che perseguono una “via alta alla flessibilità” (Regini, 2000; Trigilia, 1996), dove il problema della competitività è inseparabile da un’alta qualificazione e da un elevato grado di cooperazione. Mentre è stato riservato poco spazio alle imprese dislocate nella categoria della “via bassa alla flessibilità” dove la competitività è perseguita attraverso un impoverimento della prestazione e del suo costo orario. Certamente, questi due idealtipi vanno intesi in modo elastico rispetto alla complessità del fenomeno, ma ci possono comunque supportare Dal just in time alla produzione modulare 59 nella ricostruzione dei limiti che l’ipotesi del “contratto di prodotto” incrocia quando si passa dalla sua enunciazione alle potenzialità concrete di realizzazione. L’«impresa qualificata di qualità», soprattutto in un contesto di outsourcing modulare, e l’impresa labour-intensive che opera secondo un sistema just in time ma senza investimenti nella professionalità delle risorse umane, sono gli estremi di una casistica di configurazioni aziendali e di strategie di competitività; questa complessità interna al sistema della filiera non comporta solo uno scrupolo descrittivo, è cruciale per qualsiasi ipotesi di contrattazione estesa, di cui il “contratto di prodotto” è una possibile soluzione. Con la Fig. II si fornisce uno schema semplice delle problematiche che emergono dall’intersezione di diversi cicli di prodotto. Fig. II - Cicli di prodotto e contrattazione collettiva Ciclo di prodotto B Imprese di secondo livello di subfornitura Imprese di Primo livello di subfornitura Impresa outsourcee A Impresa co-design Impresa outsourcer Ciclo di prodotto C B Impresa codesign Ciclo di prodotto A Fonte: nostra elaborazione In essa sono rappresentati tre ipotetici cicli di prodotto non necessariamente collegati fra loro. In ciascuno di essi la catena di fornitura prevede un’impresa finale, un’impresa di fonitura collocata nel primo anello e due livelli successivi di subfornitura. Uno schema semplice che viene problematizzato attraverso due categorie: la contiguità fisica del rapporto 60 Dal just in time alla produzione modulare fornitore/cliente, ed il grado di dipendenza del fornitore dall’impresa committente. L’azienda di subfornitura dislocata negli anelli finali della catena, ha caratteristiche organizzative che non prevedono necessariamente la contiguità fisica della co-location “sulla linea” o in prossimità di essa, pur presentando un alto grado di dipendenza dall’impresa committente dipendenza da un cliente. In questo caso la dipendenza del fornitore tende ad essere unilaterale, e fortemente esposta alla variabilità delle scelte dell’impresa committente, la quale utilizza questa asimmetria come strumento di riduzione dei costi e selezione del proprio parco fornitori. Al contrario l’impresa “co-design” o outsourcee, collocate o in prossimità o “sulla linea” del cliente finale tendono verso un sistema bilaterale di dipendenza. L’impresa fornitrice partecipa a differenti “catene di fornitura”, come dimostra il caso dell’impresa di “co-design – A” collocata su due filiere tra loro non interagenti. Qui la pluricommittenza per le imprese del primo anello di fornitura è un un elemento di competitività assai rilevante; infatti l’impresa finale tende a costruire rapporti di collaborazione con imprese inseriti in più circuiti produttivi, e quindi maggiormente soggetta ad esternalità positive derivanti da economie di apprendimento. Questo discorso può essere parzialmente esteso a quelle imprese che si trovano a fornire prodotti, semilavorati, servizi alle imprese del primo anello (codesign e outsourcee) ma non sono collocate alla “periferia” della filiera, ed intrattengono a loro volta molteplici rapporti commerciali con altre filiere di prodotto. Ancora differente è il caso delle imprese legate da contratti di outsourcing; qui la dipendenza è bilaterale come nel caso dell’impresa codesign ma la contiguità fisica del fornitore si spinge “all’interno” dei processi produttivi dell’impresa finale. Da questa stilizzazione dei “tipi” di rapporti di di fornitura, nonostante la sua semplificazione, è possibile tracciare alcune considerazioni sulle problematiche legate ad un’ipotesi di relazioni industriali estese alla filiera. Ed emerge che la contrattazione si rivela più praticabile nelle modalità di fornitura che si trovano agli estremi di questi casistica; ovvero nell’impresa periferica e nell’impresa invece che opera “sulla linea” del cliente finale. La dipendenza unilaterale della prima e la contiguità fisica della seconda, e per entrambi la sostanziale esclusività del contratto di fornitura, sono condizioni che rendono possibile l’impostazione di relazioni industriali estese. Ad esempio la Mac impresa in outsourcing con l’Iveco opera su altri siti produttivi e stringe rapporti di fornitura con altre imprese finali, ma Dal just in time alla produzione modulare 61 all’interno di quel sito la preminenza va al rapporto di fornitura con Iveco, e questo disegna uno scenario più praticabile di rappresentanza e contrattazione sindacale allargata. I nodi più problematici emergono invece quando la contrattazione investe le imprese in “co-design”; qui il dato più rilevante è che la presenza in molteplici catene di fornitura all’interno dello stesso sito produttivo passa dall’essere un fattore di competitività nelle relazioni inter-aziendali a diventare un fattore frenante nelle relazioni industriali. Un’azienda con queste caratteristiche vedrebbe moltiplicare i costi di contrattazione, derivanti dal dover definire relazioni industriali per ogni filiera di prodotto a cui prende parte all’interno di uno stesso sito; sarebbe cioè parte di diversi momenti contrattuali quanti sono le catene di fornitura in cui offre prodotti o servizi. Già nella forma semplificata della Fig. II emergono degli ostacoli di non facile superamento che si moltiplicano in un confronto più puntuale con l’ecologia organizzativa dei sistemi complessi di fornitura; se pensiamo, ad esempio, che un sistema di fornitura come quello dello stabilimento torinese di Comau, nella produzione di sistemi di automazione industriale, ha una catena di fornitori che nel 1998 raggiungeva, secondo fonte aziendale, le 488 unità, la complessità del tessuto industriale rischia di paralizzare ogni ipotesi contrattazione decentrata di “seconda generazione”; con le imprese a committenza plurale che restano uno degli ostacoli principali alla estensione orizzontale della rappresentanza e della contrattazione. Le difficoltà così delineate alla praticabilità del “contratto di prodotto” presentano un’altra intonazione se alla filiera di prodotto si sostituisce il territorio; in questo caso non sono più le interdipendenze tra le imprese a costituire il fattore di riferimento, ma l’area o il distretto industriale. Questa traiettoria viene dal Protocollo del ’93 e da accordi successivi (1996, 1998) che ridisegnano le modalità di programmazione negoziata a livello territoriale (contratti d’area, patti territoriali). Assegnare quindi alla contrattazione territoriale il ruolo di supplire alle difficoltà di quella aziendale sostituendosi ad essa implica una revisione del ruolo dell’attore sindacale come agente di contrattazione delle condizioni di lavoro. Il primato della regolazione economica territoriale su quello inter-aziendale lascerebbe uno spazio residuale alla negoziazione delle condizioni in cui si svolge la prestazione lavorativa. Non c’è solo un mutamento di livello negoziale, questa diversa traiettoria verrebbe ad incidere anche, e soprattutto, sulla stessa qualità della rappresentanza degli interessi trasformando anche i presupposti di legittimazione di questa rappresentanza. 62 Dal just in time alla produzione modulare Non è questa la sede per addentrarci in considerazione di valore ed opportunità di questa soluzione, tuttavia il contratto di prodotto è un’ipotesi che si espone, in virtù dei suoi intrinsechi limiti, a critiche di varia natura, ma rappresenta un tentativo di salvaguardare l’impianto della contrattazione decentrata emersa dal Protocollo del 1993, come strumento di controllo organizzativo della prestazione, in “presa diretta” sui mutamenti organizzativi delle imprese senza alterare la natura dell’organizzazione sindacale come agente contrattuale. Tutta l’argomentazione di questo saggio verte, invece, sulla interaziendalità dei processi di trasformazione del sistema di fornitura che può coincidere con una specifica configurazione territoriale ma non si annulla in essa. Se non si abbandona la prospettiva della filiera di prodotto, la contrattazione estesa può prendere due direzioni. Una versione limitata viene circoscritta a strategie di contrattazione sindacale con l’impresa “madre” quando decide di esternalizzare proprie funzioni aziendali, allo scopo di garantire l’unicità di trattamento contrattuale; in questo caso l’obiettivo sembra essere quello di impedire forme di dumping contrattuale con imprese che diversificano i loro CCNL pur facendo parte di uno specifico settore, oltre che di ciclo di prodotto. Qui l’obiettivo concerne la definizione di un luogo comune di contrattazione (unico tavolo negoziale) per la definizione di regole condivise; il raggio di estensione della contrattazione non si spinge oltre i rapporti di outsourcing e quindi non comprende le imprese collocate ai livelli intermedi e periferici della filiera di prodotto. Una seconda soluzione, estesa, fa ruotare la contrattazione intorno alla impresa finale allo scopo di intercettare il maggior numero di imprese che concorrono alla produzione di un prodotto. In questo caso un eventuale “contratto di prodotto inter-aziendale” dovrebbe comunque sciogliere i nodi relativi ai luoghi ed ai contenuti di questa produzione normativa decentrata. Rimarrebbe in sospeso quell’equilibrio tra contrattazione decentrata e nazionale di categoria che costituisce una delle innovazioni più rilevanti del Protocollo del 1993; in ogni contratto collettivo di categoria sono state predisposte delle voci che disciplinano la contrattazione decentrata, ma non quella inter-aziendale di prodotto, che quindi richiederebbe interventi di modifica per il ripristino tra dell’equilibrio tra il livello centrale e quello periferico. Alla versione estesa può essere ricondotto il caso del “comitato di sito” bresciano; infatti superato il problema non irrilevante della rappresentanza, un eventuale accordo integrativo di sito non può eludere la Dal just in time alla produzione modulare 63 ricerca di questo equilibrio, originariamente calibrato sulla contrattazione aziendale circoscritta alla singola impresa. Ma al di là di elementi di natura giurisprudenziale, non secondari, permangono, soprattutto nella versione estesa vincoli di fattibilità. Le imprese pluricommittenti, infatti, sarebbero coinvolte in un numero di sedi contrattuali pari a quello delle catene di fornitura di appartenenza, con un incremento esponenziale dei costi di contrattazione per l’impresa, rafforzando le resistenze interne ed esterne all’impresa, a cui si aggiungono costi di coordinamento per le stesse rappresentanze sindacali che si troverebbero a governare una complessità rivendicativa eccessivamente onerosa. f. Conclusione. La contrattazione nella terziarizzazione avanzata: una sfida strategica del sindacato. La contrattazione è un processo regolativo che ha come esito la produzione di accordi finalizzati a definire il coordinamento dei rapporti tra gli attori, l’allocazione delle risorse e la strutturazione dei conflitti; in qusto contesto d’azione gli attori si fronteggiano in un gioco negoziale dove l’azione di ciascuno di essi è proporzione della capacità di controllare i margini di incertezza della controparte e di condizionarne i punti più vulnerabili. E questo vale ancor di più per le relazioni industriali dove un singolo accordo è un’azione di compromesso che si misura costantemente con il “potere sociale” degli attori. Per questo i due tipi di rappresentanza sindacale hanno trovato uno spazio cruciale nel ragionamento complessivo di questo lavoro. Sono due dimensioni dell’azione sindacale che possono essere disgiunti in un contesto industriale generico, e tra essi non esiste una relazioni di causalità, o almeno di stretta dipendenza. Nel contesto di una filiera di prodotto attraversata da un sistema integrato e modulare di organizzazione dei rapporti di fornitura emerge, se non un rapporto di dipendenza, certamente la centralità di un gruppo minoritario di lavoratori che si trova a svolgere compiti di governo dei gangli vitali della cooperazione tra le imprese, con effetti che vanno ben oltre le singole operazioni ed attività ed arginano i rischi provenienti dall’incompletezza dei contratti di fornitura. Dal punto di vista delle relazioni industriali la loro importanza cresce in due direzioni; da un lato sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, ma anche quanto più le loro modalità di contrattazione si allontanano dal ricorso all’azione collettiva, e quindi ai problemi di rappresentanza che pone all’attore sindacale. 64 Dal just in time alla produzione modulare La sindacalizzazione dei lavoratori non manuali (tecnici, supervisori, ricercatori, progettisti) costituisce da sempre un nodo problematico, non solo in termini di democrazia sindacale ma anche di strategia contrattuale; resiste dove sopravvivono nicchie di “subcultura” sindacale, dove esiste una tradizione di identità plurale nella prassi negoziale e nel gruppo dirigente del sindacato (Giaccone, 1999), ma non ha il peso di un obiettivo strategico. Proiettato in un contesto di filiera integrata e modulare, il ritardo nell’incorporazione di questi lavoratori nei processi di formazione della volontà collettiva del sindacato – un deficit di “multiculturalismo professionale” - non ha conseguenze sulla “partecipazione”, in quanto assetto normativo, ma sulla sua qualità ed articolazione. In questo senso il “testo” del Protocollo è un progetto incompiuto più che inadeguato. In primo luogo la loro esclusione comporta un impoverimento dei contenuti della contrattazione collettiva aziendale, ristretti al computo di parametri oggettivi, da cui viene esclusa la regolazione della risorsa sapere. È qui che appare sempre più evidente che la secca alternativa tra la negoziazione collettiva e quella individuale non riesce a cogliere la volontà dei lavoratori più qualificati, i produttori di integrazione, di preservare una quota del salario variabile alla contrattazione individuale, e che il problema si sposta sul terreno del controllo collettivo delle regole che informano proprio la contrattazione tra singolo lavoratore e management. In secondo luogo, considerata la crescente rilevanza dei produttori di integrazione nella gestione delle interdipendenze tra le imprese, il primato della componente manuale del lavoro nella costruzione delle istanze rivendicative condiziona fortemente il potere di influenza dell’attore sindacale sul processo regolativo. Infine, la delimitazione della rappresentanza a determinate fasce professionali di lavoratori può essere l’indicatore di una mutazione profonda dell’attività sindacale in una sorta di “organizzazione di avanguardia”, con i rischi di arroccamento corporativo di una parte che, in conseguenza delle profonde trasformazioni intervenute nei modelli di produzione, non è più nelle condizioni di rappresentare una strategia di contrattazione generalizzata. Prima di essere una questione organizzativa, la capacità di presa diretta sull’articolazione dei profili professionali che innervano i processi di produzione mette in discussione la concezione stessa del ruolo sindacale, la sperimentazione di ipotesi di “contrattazione partecipativa di sito”, ma piu estesamente il controllo sui processi di regolazione nelle situazioni di terziarizzazione avanzata. Dal just in time alla produzione modulare 65 Qui però l’elaborazione teorica si ferma; il compito di sollevare temi ed interrogativi si arresta sulla soglia del lavoro empirico di ricerca, a cui spetta il compito di verificare caso per caso quelle soluzioni che i diversi attori della contrattazione costruiscono nel corso della loro prassi quotidiana. Bibliografia “Analisi dei premi di risultato in alcune esperienze di contrattazione integrativa”, Quaderno 1/2000, Osservatorio sulla contrattazione aziendale, Ires Torino. AA.VV., L’inquadramento professionale nei nuovi modelli di impresa, Rapporti MonitorLavoro, 1/1997. Alchian A.A., Demsetz H., “Production, Information Costs and Economic Organization” in Alchian A.A. (ed.), Economic Forces at Work, Indianapolis, Liberty Press, 1972. Aoki M., Information, Incentives, and Bargaining in the Japanese Economy, Cambridge University Press, 1988. 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