Dal Just on time alla produzione modulare. Rapporti tra

Igor Piotto
DAL JUST IN TIME
ALLA PRODUZIONE MODULARE.
RAPPORTI TRA IMPRESE E
PROBLEMI DI RELAZIONI INDUSTRIALI
DSS PAPERS SOC 4-01
INDICE
Introduzione ............................................................................... Pag. 5
Parte Prima
a. Trasformazione del sistema di fornitura: dal just in time
alla produzione modulare ............................................................. 6
a) Filiera di prodotto organizzato secondo il modello
“Just in time” .............................................................................. 8
b) Filiera a “fornitura integrata” .................................................. 11
c) La produzione modulare e le sue implicazioni organizzative . 14
b. Traiettorie di sviluppo nella rete di fornitura industriale .. 21
c. Incompletezza contrattuale e competenze relazionali nel
sistema di fornitura .................................................................. 28
a) Incompletezza dei contratti tra imprese .................................. 29
b) Incompletezza e regolazione dei contratti di lavoro ............... 34
Parte Seconda
d. La ridefinizione dei confini d’impresa nella filiera di prodotto
mette in discussione l’attuale modello di relazioni industriali
alla produzione modulare ........................................................... 43
a) Confini di impresa e contrattazione aziendale ........................ 44
b) Parametri di contrattazione del salario variabile ..................... 48
c) Produttori di integrazione e salario professionale ................... 51
d) Coinvolgimento sindacale e terziarizzazione avanzata ........... 53
e. Il contratto di prodotto una strategia di riunificazione
contrattuale ................................................................................. 57
a) Problemi e prospettive ............................................................. 57
f. Conclusione. La contrattazione nella terziarizzazione avanzata:
una sfida strategica del sindacato ............................................. 64
Bibliografia ...................................................................................... 66
Introduzione
Dopo la lean production l’obiettivo strategico delle imprese si è
spostato sulle modalità di organizzazione del sistema di fornitura, che ha
visto mutare i rapporti tra le imprese e le caratteristiche delle loro
interazioni, prima con l’introduzione delle tecniche di just in time, sino alla
fornitura integrata per finire con le strategie di esternalizzazione calibrate
sull’outsourcing modulare. Una prima parte di questo lavoro sarà dunque
focalizzata sull’analisi organizzativa del profilo di questo cambiamento. Il
riferimento empirico va al sistema di fornitura della produzione
automobilistica; non tanto perché i fenomeni di esternalizzazione siano
inesistenti in altri settori, quanto invece perché questa rappresenta il terreno
più avanzato nella sperimentazione di nuovi modelli di organizzazione del
ciclo di prodotto.
Una seconda parte, verranno indagate le conseguenze che questa
tendenza strategica tende a produrre sul sistema di relazioni industriali
successive al Protocollo del 23 luglio 1993, ed in particolare sulla
contrattazione collettiva decentrata; si ridefinisce la posta in gioco della
negoziazione e con essi i vinvoli che si pongono di fronte a ciascun attore:
rappresentanza degli interessi, costi di contrattazione, regolazione dei
rapporti di lavoro. Benché il fenomeno dell’outsourcing ha una portata
internazionale, che supera le barriere nazionali e riconfigura il territorio
sulla base delle relazioni di scambio, il lavoro di ricerca sarà
contestualizzato al caso italiano e quindi indirettamente al suo sistema di
regolazione contrattuale di cui il Protocollo ne costituisce il “testo”
fondante.
In questo studio il ponte tematico che lega le trasformazioni del sistema
di fornitura alle relazioni industriali verrà ricercato sull’approfondimento
delle caratteristiche di due tipi di contratti: i contratti commerciali tra
imprese ed i contratti di lavoro all’interno della singola azienda. L’ipotesi
centrale è che l’incompletezza dei contratti di lavoro all’interno delle
imprese è una risorsa strategica, utilizzata dal management per fronteggiare i
fattori di incertezza che provengono dai rapporti di collaborazione con
imprese committenti e di fornitura.
L’approccio economico alla teoria dei contratti applicato ai processi di
outsourcing può essere una fertile lente di ingrandimento di alcune questioni
cruciali sul terreno della contrattazione decentrata. A fronte di una
trasformazione dei “confini” dell’impresa si generano delle conseguenze che
hanno un impatto diretto sulle modalità di “partecipazione” tra management
Dal just in time alla produzione modulare
5
e lavoratori (premi di risultato, strategie di contrattazione del salario
professionale).
Dopo aver sinteticamente messo in rilievo i punti critici della
contrattazione decentrata aziendale, lo sforzo dell’analisi sarà orientato e
mettere sotto osservazione critica alcune ipotesi “contrattazione di filiera o
di sito” comprendente non più la singola impresa ma la rete di imprese
coinvolte in un ciclo di prodotto.
Quest’ultima sezione di lavoro, prenderà in considerazione la
prospettiva del “contratto di prodotto”; più che un’esercizio di ingegneria
contrattuale, il contratto di prodotto è l’occasione per discutere criticamente
i dilemmi aperti dai tentativi di configurare la rappresentanza sindacale e la
contrattazione decentrata nei casi in cui sono radicalmente messi in
discussione i confini giuridici ed organizzativi dell’impresa.
a.
PRIMA PARTE
Trasformazione del sistema di fornitura: dal just in time alla
produzione modulare
L’esposizione dell’impresa su mercati internazionali e l’inasprimento
della competitività hanno contribuito ad assegnare ai fenomeni di
“terziarizzazione” un ruolo strategico crescente, imprimendo una duplice
svolta organizzativa sul versante interno dell’organizzazione del lavoro allo
scopo di ottimizzare i processi organizzativi attraverso lo “snellimento”
(streamlining), e sul versante delle relazioni tra cliente e fornitore.
I processi di esternalizzazione delle attività aziendali prima svolte
all’interno dell’impresa introducono nuove forme forme transazionali, non
riducibili alla rigida alternativa tra “gerarchia” e “mercato”, che si
sviluppano sia all’interno della singola impresa sia nei suoi rapporti con
l’ambiente esterno, in particolare con il suo parco fornitori.
L’aumento dei livelli di offerta di beni sul mercato, il recupero di
produttività, la riduzione dei costi sono obiettivi strategici perseguibili per
mezzo di interventi di snellimento volti ad assottigliare la struttura
dimensionale aziendale, restringendola al nucleo di attività che costituiscono
il core business dell’organizzazione, ed attraverso un intervento sui
meccanismi di governo delle relazioni con i partners esterni, improntate
sulla richiesta di una incrementale “responsabilizzazione” dei soggetti
coinvolti nella rete di fornitura.
Dove la rete di fornitura descrive quei casi di cooperazione tra imprese
appartenenti ad un comune filiera di produzione; non si tratta di una
6
Dal just in time alla produzione modulare
precisazione puramente accademica, essa consente di evitare
generalizzazioni indebite. La struttura di fornitura non coincide con un
generico sistema di relazioni tra imprese, essa ha della caratteristiche
distintive riconoscibili a partire dalla individuazione di una specifica
vocazione produttiva della struttura di filiera1.
Questa può essere ricondotta ad «un sistema di articolazione – delle
tecniche, dei mercati e dei capitali – tra le attività di produzione,
trasformazione, distribuzione; tiene conto dell’esistenza e delle direzioni di
complementarietà tra attività produttive; la sua unitarietà è determinata da
centri di gravità situati ad un livello variabile del processo produttivo che
individuano la densità massima di articolazioni (…) Queste articolazioni
fanno emergere relazioni di stretta complementarietà, opposizione ed anche
dominazione fra i diversi livelli» (Bellon, 1984, cit. in Enrietti, 1988).
Con il passaggio dalla produzione di massa ad economie di varietà, il
rapporto tra imprese committenti ed imprese di fornitura tende a
concentrarsi non solo sugli aspetti economici del rapporto ma anche sulle
attività di servizio (controlli di qualità, miglioramento continuo tramite
innovazione delle memorie organizzative, problem solving) che investono
direttamente la qualità della prestazione e la sua tempistica. Si addensano
intorno ai nuovi contratti di fornitura, ed in parte sono compresi da questo,
rapporti di collaborazione con nuovi contenuti che prevedono, oltre a
numerosi altri fattori, scambi incessanti di conoscenze tacite ed esplicite e di
trasferimento tecnologico.
L’instaurarsi di scambi a forte “intensità informativa” dà origine a
forme di interazione che non possono essere ricondotte, se non al rischio di
pericolosi riduzionismi, ai semplici rapporti di compra-vendita (Rullani,
1986); prendono consistenza “transazioni non codificate” che non possono
essere comprese nelle transazioni contrattuali formalmente organizzate.
Queste ultime non sono in grado di catturare, e quindi regolare, quella fitta
rete di scambi di codici, informazioni, saperi professionali e tecnologie, che
rendono altamente qualificante la commistione difficilmente separabile tra
conoscenza codificata e conoscenza tacita e localizzata, che costituisce,
quest’ultima, uno dei patrimoni più rilevanti dell’impresa stessa, necessari a
garantire la tempistica e la qualità della fornitura insieme alle attività di
“interfaccia” con l’ambiente esterno.
L’incalzare di tempi più ristretti di consegna del prodotto all’interno di
vincoli di costo e di qualità, cambia la struttura relazionale all’interno della
filiera e delle singole imprese, la cooperazione attiva tende a sostituire la
1
Per un ricognizione sul concetto di filiera e sulle implicazione concettuali rimandiamo a
Enrietti (1988).
Dal just in time alla produzione modulare
7
natura fortemente eterodiretta di un comportamento fondato sulla
“conformità alle regole”. Il rapporto di fornitura in un sistema ad
integrazione quasi verticale raramente prevede contratti spot occasionali,
adatti per uno scambio di prodotti standardizzati, che deve invece
rispondere continuamente a domande di differenziazione e specializzazione
dell’offerta di un’ampia gamma di prestazioni. La produzione viene
“trainata” dalle specificità del prodotto richiesto dal mercato finale
determinando quindi la diversificazione dei singoli contratti di fornitura, e
quindi la formalizzazione delle modalità di collaborazione.
Sul modello giapponese molto è stato scritto, ci si limiterà quindi a
sottolineare che la lean production non ha solo rappresentato una risposta
aziendale alla crisi strutturale del fordismo, ha anche definito l’infrastruttura
organizzativa sulla quale è stato possibile lo sviluppo di una nuova
architettura di relazioni tra imprese finali, di prima fornitura e subfornitura.
Dentro il riferimento a questo modello si annidano però alcuni problemi
di interpretazione. La produzione snella viene alternativamente ricondotta ad
un sistema di “tecniche organizzative” ed in questo caso l’attenzione si
sposta sul just in time (Ohno, 1990, Monden, 1983), oppure ad un paradigma
di produzione sostitutivo di quello fordista della produzione di massa. Ma se
è fuori discussione che tra di esse esista una relazione, la loro
sovrapposizione è altrettanto rischiosa; questo studio fa riferimento ad una
trasformazione della filiera tutta interna a relazioni di fornitura che si
svolgono nell’ambito della lean production, ed il just in time è una delle
configurazioni, insieme a quelle della fornitura integrata e della produzione
modulare, che la filiera può assumere. In altri termini, all’interno della
produzione snella si sono sviluppare relazioni tra imprese che si sono
innestate sulla matrice originaria del JIT e ne hanno ridefinito i confini
dando origine a forme diversificate di fornitura integrata e successivamente
di outsourcing modulare.
a) Filiera di prodotto organizzata secondo il modello “just in time”.
Il sistema just in time ha rappresentato nella trasformazione del sistema
di fornitura un punto di passaggio nel processo di razionalizzazione
produttiva intervenuta sul finire degli anni ’80. L’impresa finale fa
riferimento ad un parco fornitori piuttosto numeroso, in cui ciascuna
impresa si trova posizionata all’interno di configurazione gerarchica
piuttosto variabile. Il fornitore è localizzato in prossimità del cliente ma
questo non prevede necessariamente una stretta contiguità geografica; il
nodo fondamentale su cui ruota il sistema di fornitura JIT riguarda
essenzialmente l’integrazione di tipo logistico. La sincronizzazione dei
8
Dal just in time alla produzione modulare
processi obbliga le imprese fornitrici ad una drastica riduzione dei tempi di
consegna, con un abbattimento dei tempi nella movimentazione dei
semilavorati e dei materiali. I due pilastri della razionalizzazione produttiva
veicolata dal JIT sono l’ottimizzazione dell’interscambio e la riduzione dei
costi; due elementi che chiamano direttamente in causa le strategie di
innovazione logistica della produzione. Questo ha avuto come effetto
immediato la riduzione o il progressivo esaurimento degli stock di
magazzino del cliente finale, e con esso una riduzione rilevante dei costi di
gestione. Magazzini che si sono poi distribuiti lungo la filiera nelle officine
di fornitori e subfornitori, con l’esito di creare un sostanziale stato di
dipendenza dal cliente finale.
La centralità della dimensione logistica trova ulteriori conferme se
analizzata sotto il profilo dell’innovazione tecnologica introdotta in questa
fase di decollo dei nuovi modelli di produzione.
Dopo l’introduzione delle macchine a controllo numerico a cui è
seguita la robotizzazione di alcuni segmenti del ciclo di lavorazione grazie
all’impiego massiccio di tecnologie meccatroniche; sviluppatasi ancora nel
quadro organizzativo del paradigma fordista nonostante i suoi evidenti
segnali di crisi, l’innovazione tecnologica più consistente nella fase di just in
time ha riguardato software informatici di gestione delle informazioni
riguardanti lo stoccaggio dei materiali e la gestione delle consegne. Oltre ad
esperienze di kanban elettronico, i software più diffusi – Sigip e Sap –
riguardano l’informatizzazione delle procedure di gestione dei materiali, che
hanno reso possibile un ulteriore snellimento di moduli organizzativi (es.
Material Resource Planning), in particolare favorendo il controllo “in tempo
reale” dei processi di alimentazione del ciclo produttivo.
L’integrazione logistica è dunque il perno della trasformazione proprio
perché è l’esito di un’attività di cooperazione tra cliente e fornitore, assai
superiore a quella conosciuta in passato: da qui si può affermare che
l’integrazione dei processi interaziendali inizia a diventare un bene che
dipende dalla qualità della relazione2.
2
Con la produzione snella si apre una prospettiva nuova di sinergia tra il nucleo tecnico
dell’organizzazione, ovvero quegli elementi distintivi che l’organizzazione cerca di
preservare dalle turbolenze esterne e l’ambiente locale (task environment); l’impresa
sconfina nel territorio e l’ambiente locale entra nell’impresa. Nucleo tecnico e ambiente
locale conservano due logiche di azione differenziata ma non sotto il profilo spaziale, che
invece dà origine ad una sorta di “regionalizzazione della produzione”, che talvolta può
prendere la forma del distretto industriale. In altri termini il just in time riposiziona il
nucleo tecnico della singola organizzazione all’interno di una rete territoriale di imprese,
o di impresa rete (Pichierri, 1994).
Dal just in time alla produzione modulare
9
Un bene relazionale che può essere riprodotto attraverso relazioni
contrattuali ripetute ma anche discontinue, senza che questo metta in
discussione il permanere – e questo aspetto accomuna l’impresa JIT
all’impresa taylor-fordista - di una strategia aziendale ancora costruita sulla
corporate governance.
Da un lato i vincoli di reciprocità connessi alla logistica hanno richiesto
investimenti specifici soprattutto da parte dei fornitori (informatizzazione
dei piani di alimentazione e consegna, gestione di un volume considerevole
di stock di materiali all’interno di vincoli temporali assai stretti), con una
perdita di una parte consistente del potere negoziale nei confronti del cliente
finale, a vantaggio di quest’ultimo che ha potuto così sperimentare la portata
e gli effetti di una prima selezione del parco fornitori.
La gestione del cronometro si è esteso dalle “linee di produzione” alle
relazioni inter-aziendali, assumendo una connotazione sistemica; la
tempistica offre parametri certi ed oggettivi di definizione degli obblighi
reciproci riducendo ampi margini di aleatorietà anche in fase di stipulazione
ed implementazione del contratto di fornitura.
Il bene relazionale “integrazione” comporta che le attività di soggetti
economici giuridicamente autonomi vengano sincronizzate nei tempi di
consegna e acquisizione del materiale, demandando alla singola impresa
fornitrice il compito di attivare al proprio interno le risorse per adempiere
alle richieste del cliente. In questo quadro sono riconoscibili i confini
dell’impresa e le strategie di corporate governance riguardano al
mobilitazione di risorse interne, ma anche esterne attraverso relazioni con
imprese di subfonitura, alle quali si assegnano compiti di intervento nei
momenti di sovraccarico delle commesse (subfornitura di capacità).
Questo processo di razionalizzazione tempistica è stato ulteriormente
vincolato a parametri di controllo della qualità (coagulati intorno alle norme
ISO 9000), con ricadute sulla stessa organizzazione interna del lavoro. Lo
ricordiamo, l’introduzione del modello just in time non ha solo investito i
rapporti di fornitura ma anche la struttura aziendale nel suo insieme;
ricordiamo che l’introduzione della lean production è inseparabile da un
assottigliamento dei livelli gerarchici accompagnato da richieste di maggiore
polivalenza delle attività di tipo esecutivo.
Con il supporto di studi empirici (Esposito, Lo Storto, 1999 ; Raffa,
1998) è possibile ricostruire il profilo più rappresentativo delle imprese
fornitrici in un contesto organizzativo di just in time.
All’interno della filiera di fornitura troviamo imprese (chiuse) che
hanno scambi esclusivamente con le imprese committenti, e svolgono al loro
interno tutto il volume della commessa. Le modalità di coordinamento con il
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Dal just in time alla produzione modulare
cliente vengono veicolate essenzialmente da conoscenze codificate; in
questo caso le competenze tecniche dell’impresa prevalgono su quelle
relazionali, date le possibilità di codificazione della regolazione degli
scambi.
Alle imprese chiuse si affiancano imprese che esternalizzano a
subfornitori le parti meno importante del ciclo produttivo; questo
meccanismo riproduce una sostanziale debolezza dei subfornitori collocati
negli anelli finali della “catena” che unisce il ciclo di prodotto. Essi
ricalcano un profilo di impresa chiusa caratterizzata da un know how
essenzialmente tecnico e scarsamente rivolto verso skills relazionali.
Segue l’impresa semi-aperta che, pur collocandosi negli anelli finali
della catena di fornitura, si differenzia dal modello precedente perchè lo
scambio di informazioni prevede un aumento di intensità bidirezionale (in
entrata/in uscita).
Di minore rilevanza numerica sono quelle imprese – aperte - che
esternalizzano fasi complesse e rilevanti del ciclo produttivo, affidandole a
subfornitori complementari sotto il profilo tecnologico e professionale. La
loro posizione nel network di fornitura è intermedia e si contraddistingue per
la presenza, sia verso il cliente finale sia verso i subfornitori, di intensi flussi
di informazioni e di tecnologia (non solo materiali, attrezzature, disegni,
procedure, manuali, programmi di lavoro, ma anche know how trasmesso
attraverso l’interazione tra figure professionali specializzate). Questo terzo
tipo ha una minore consistenza numerica, ma risulta rilevante perché
costituisce la forma embrionale dell’impresa co-design, ovvero di quella
forma aziendale paradigmatica della filiera a struttura integrata.
b) Filiera a “fornitura integrata”.
La caratteristica principale della filiera di prodotto a fornitura integrata
riguarda essenzialmente l’ampliamento del raggio di prestazioni demandate
al fornitore, il cui ruolo «non è più quello di realizzare particolare su disegno
del cliente ma quello di fornire entità complesse, essendo responsabile dello
sviluppo, della progettazione, della qualità e dell’affidabilità degli stessi
sistemi» (Bianchi, Enrietti, 1999, 16-17). Il nuovo profilo dell’impresa di
fornitura si estrinseca su due differenti direzioni; da un lato l’impresa
fornitrice diventa un integratore di sistema, responsabile di sotto sistemi del
prodotto finale, della sua progettazione ed industrializzazione3,
3
L’industrializzazione è una fase solitamente dimenticata o assorbita dai termini della
produzione e della progettazione; essa descrive quell’insieme di attività specificatamente
dedicate a “tradurre” in forma fisica l’oggetto del disegno tecnico. Questo comporta una
disamina dettagliata di tecnologie e metodologie di processo più adatte alla fabbricazione
Dal just in time alla produzione modulare
11
dell’interscambio con i vari produttori specializzati nella produzione delle
singole parti e deve farsi carico di tutta la dimensione logistica di questa
gestione.
Dall’altro lato essa diventa una fornitrice di moduli, ovvero si impegna
a fornire all’impresa finale moduli “preassemblati” che verranno
successivamente inviati all’impresa finale ed assemblati nell’oggetto finale
dalla stessa (Bianchi, Enrietti, 1999). Questo nuovo modello di
organizzazione della filiera richiede un grado di integrazione dei processi
inter-aziendali superiore a quello incardinato sulla dimensione prettamente
logistica; la cooperazione tra impresa finale ed impresa di fornitura deve
dare luogo ad un bene relazionale che nasce dall’intersezione di specifiche
competenze tecniche e relazionali che si cementano nella fasi di codesign,
ovvero nella fase in cui il prodotto viene “ingegnerizzato”. Vengono
attenuati i confini di una rigida divisione tecnica del lavoro interna alla
filiera, che vedeva l’impresa finale al centro di tutto il lavoro di
progettazione, mentre si fa strada la strategia di esternalizzazione di funzioni
aziendali altamente specializzate come sono quelle del design e della
progettazione4. L’integrazione dei processi si muove lungo la direttiva
dell’ingegnerizzazione congiunta, con transazioni di lungo periodo che
sfociano nel consolidamento di meccanismi di governance inter-aziendali
incardinati sulla partnership. Con questo termine si intende descrivere un
rapporto di cooperazione tra imprese fornitrici ed impresa finale basati sulla
reciproca fiducia e sulle garanzia di un rapporto continuativo che produce
esternalità positive per entrambi i partner della relazione contrattuale;
partnership definisce dunque un contratto di associazione che si esprime
non solo nella dimensione logistica della fornitura ma anche nella
collaborazione nel design e nella progettazione.
Questo scenario di relazioni cooperative non si sviluppa su un livello
prevalentemente “orizzontale” di rapporti paritari, estranei a dinamiche di
dell’oggetto stesso. Il passaggio dei compiti di industrializzazione dal cliente finale
all’impresa di fornitura ha effetti non trascurabili nel carico di lavoro, e funge spesso da
incentivo alla promozione di innovazioni organizzative, tecnologiche e di know how
dell’impresa. Il prodotto va disegnato, industrializzato e fabbricato, con il risultato che il
monitoraggio sui test in fase di sperimentazione del prodotto sono a carico dell’impresa
di fornitura.
4
È da sottolineare che le stesse imprese di progettazione satelliti di grandi imprese finali,
specie nel settore automobilistico, sono state investite dello stesso processo di
razionalizzazione. Anche l’impresa fornitrice di progettazione non si limita ad “eseguire”
disegni su una matrice fornita dal cliente. L’impresa di progettazione in codesign
progetta l’oggetto avendo a disposizione solo i vincoli (tecnologie dei materiali, vincoli
normativi e temporali) che incanalano il lavoro di progettazione.
12
Dal just in time alla produzione modulare
potere di mercato; la cooperazione inter-aziendale non è incompatibile con
la presenza di asimmetrie di potere che esistono e sopravvivono nella filiera
di prodotto5.
Anche nella fornitura integrata si forma una struttura gerarchica che
ingloba tutta la filiera del ciclo di prodotto; anche se la molteplicità dei
fornitori presenti nel modello just in time viene considerevolmente ridotta
attraverso la selezione di un primo livello di fornitura a cui si aggiungono n
livelli di subfornitura dando origine ad una “piramide” più ristretta al vertice
e meno variabile per quanto riguarda il posizionamento delle singole aziende
ai differenti livelli di fornitura.
I fornitori di “ieri” che non entrano nella fascia di primo livello non
vengono espulsi dal mercato – se non in una minima parte – ma vengono
piuttosto ricollocati all’interno di una struttura fortemente gerarchica,
strutturata in base alla qualità della prestazione che riescono a fornire
all’impresa finale6. L’impresa codesign, dunque, è quell’impresa di primo
livello con la quale l’impresa finale stabilisce rapporti di partnership, ed alla
quale chiede prestazioni più qualificate, che scaturiscono da un impegno
finalizzato a garantire la produzione di un bene relazionale strategico quale
l’integrazione di attività sempre più interdipendenti.
La base della piramide gerarchica – strutturata secondo i canoni
dell’integrazione quasi verticale7 – che raccoglie le imprese subfornitrici
(dal secondo livello in poi) vede prevalere il profilo organizzativo delle
imprese che hanno caratterizzato il sistema just in time di fornitura, con una
variante. All’interno di questo modello relazionale, anche l’impresa di primo
5
Per una rassegna sulla distinzione tra le prospettive della partnership e della gerarchia
rimandiamo a Enrietti (1997).
6
Secondo Lamming (1993) nel settore automobilistico la tendenza nella selezione delle
imprese segue una configurazione piramidale che vede una drastica diminuzione delle
imprese di fornitura di primo livello, le quali sono anche imprese multinazionali che
riescono a seguire e supportare l’impresa finale nei processidi internazionalizzazione di
quest’ultima (global service). Questa impostazione analitica viene confermata da Bianchi
ed Enrietti (1999) nel corso della loro ricerca sul distretto tecnologico dell’auto.
7
La definizione di integrazione quasi verticale è di Aoki (1988). Essa si vuole
distinguere da un ciclo di prodotto verticalmente integrato all’interno di una impresa di
produzione, se un consistente numero di fasi del processo produttivo sono all’interno di
un'unica impresa, il ciclo di prodotto viene verticalmente integrato. Alla dimensione
gerarchica si unisce l’elemento di appartenenza ad una comune proprietà. L’integrazione
quasi verticale descrive un contesto in cui diverse fasi del ciclo di prodotto sono state
esternalizzate ed appartengono ad imprese differenti, ma la posizione di queste imprese
non è distribuita orizzontalmente ma all’interno di una struttura gerarchizzata su diversi
livelli. Del modello precedente sopravvive il criterio gerarchico come principio di
strutturazione dell’ambiente. Cfr. Aoki (1988).
Dal just in time alla produzione modulare
13
livello farà richieste alle imprese subfornitrici sempre più connotate da una
visione multidimensionale della collaborazione, non più circoscrivibile alla
gestione tempistica dei materiali, con casi di esternalizzazione ai
subfornitori di attività non più solo a bassa qualificazione che possono
investire fasi del processo particolarmente articolate, che richiedono
infrastrutture tecnologiche e skills professionali di crescente complessità, e
sempre più orientati a sviluppare competenze di “relazione” e di
interfacciamento con il cliente e con i subfornitori.
c) La produzione modulare e le sue implicazioni organizzative.
Il concetto di modulare necessita di una prima specificazione. Può
riguardare la configurazione interna dell’impresa, ovvero l’articolazione dei
suoi processi interni strutturata secondo moduli altamente flessibili, che
nella letteratura prendono il nome di “celle”. Il riferimento in questo caso è
alla cellular manufacturing. Questa innovazione organizzativa è largamente
presente nelle esperienze di implementazione del just in time sin dalle sue
prime applicazioni; un esempio di produzione a “celle” ampiamente
esplorato nella letteratura è quello sperimentato negli stabilimenti Fiat sotto
il nome di UTE (unità tecnologiche elementari). Queste sono unità
organizzative semi-autonome incaricate della gestione di interi segmenti di
processo produttivo, capaci di adattamento dinamico alle richieste mutevoli
del mercato e dei clienti interni. In altre parole, la modularizzazione
organizzativa è uno strumento di “assorbimento” delle incertezze. Questa
riconfigurazione dei gruppi di lavoro interni alla “cella” costituisce una delle
architravi del lean production, ne riassume la prospettiva culturale ed
evidenzia la distanza rispetto al tradizionale modello tayloriano di
organizzazione della produzione e delle risorse umane ad essa connesse.
Con un altro significato, la modularizzazione fa riferimento alle
caratteristiche del ciclo di un prodotto relativamente all’organizzazione delle
imprese che fanno parte della filiera di fornitura. In questo caso la
produzione modulare è un fenomeno esteso su un piano inter-aziendale, e
non più circoscritto alle dinamiche organizzative della singola impresa,
come nel caso della cellular manufacturing. I due fenomeni non sono
separati, anzi, tendono a sovrapporsi nei casi di outsourcing, nei casi cioè di
esternalizzazione di attività aziendali prima svolte all’interno di una singola
impresa.
Quello di outsourcing è un concetto problematico, non tanto per una
sua intrinseca complessità, quanto piuttosto per il fatto che comprende
fenomeni organizzativi tra loro diversificati. Genericamente, esso designa
«il processo attraverso il quale le aziende assegnano stabilmente la gestione
14
Dal just in time alla produzione modulare
operativa per la realizzazione di un prodotto o di un servizio, in precedenza
ottenuti all’interno di un’azienda» (Boin, Salvodelli, Merlino, 1998, 102).
Questo fenomeno non costituisce una novità nelle scelte strategiche del
management industriale. Già nella prima metà degli anni ’70 le strategie di
“decentramento produttivo” 8 nelle grandi imprese si erano caratterizzate
per la cessione di parti della proprietà e di segmenti del processo produttivo
ad imprese esterne in risposta a shock esogeni provenienti da un consistente
incremento dei prezzi delle materie prime, ed endogeni, conseguenza di un
aumento della conflittualità sociale (Barca, Magnani, 1989). La riedizione
del fenomeno di “esternalizzazione” ripropone ciò che Graziani (1977)
aveva definito come «ristrutturazione fuori della fabbrica», ma in una nuova
veste: le imprese prima tendono a trasferire all’esterno quelle attività che si
trovano in una posizione periferica dell’organizzazione, cioè quelle che
contribuiscono solo marginalmente alla catena del valore dell’azienda,
concentrando i propri investimenti su quei settori che più rispondono alla
sua vocazione produttiva, il suo core business. In questa fase le imprese
trasferiscono all’esterno la gestione operativa di servizi amministrativi
(attività di amministrazione e rendicontazione) o servizi di supporto
(gestione dei servizi informatici, formazione professionale e aziendale). Solo
successivamente l’outsourcing comprende attività, sempre più prossime al
8
Il modello strategico ed organizzativo della produzione di massa non si è mai
configurato come un blocco monolitico costante nel tempo ed impermeabile a tentativi di
trasformazione; senza mai mettere seriamente in discussione l’impianto organizzativo del
taylorismo; sin dalla prima metà degli anni ’70 le grandi imprese reagiscono a shock
esogeni ed endogeni attraverso strategie di “decentramento produttivo”, inteso in senso
difensivo come contenimento dei rischi di conflitto sociali contenuti in grandi e
congestionati impianti industriali, ed in senso aggressivo come politica di rilancio, basata
su un aumento dell’intensità di capitale, a fronte di un’accresciuta competizione
internazionale. Le strategie di riaggiustamento industriale intraprese dalle grandi imprese
che si apre a partire dalla prima metà degli anni ’80 si spostano sul terreno dell’efficienza
produttiva attraverso politiche di ristrutturazione del lavoro, distribuzione del reddito e
massicci investimenti in innovazione tecnologica di processo (sono questi gli anni
dell’euforia tecnocratica della unmanned factory). Tuttavia all’interno dell’intervallo
temporale che va dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’80, il modello fordista di
organizzazione del lavoro e dei rapporti di fornitura non subisce significativi mutamenti,
che restano ancora fortemente condizionati da una visione gerarchica delle relazioni.
L’aumento del grado di specializzazione e diversificazione della domanda e l’aumento
della flessibilità potenziale del capitale come conseguenza dell’innovazione tecnologica
(Barca, Magnani, 1989) modificano il quadro economico e fanno emergere un modello
produttivo di specializzazione flessibile. La produzione delle piccole imprese a ridosso
dei grandi gruppi industriali non solo assorbe la domanda di mercati di nicchia ma
consente una diversificazione dell’offerta che non è possibile realizzare su larga scala e
che richiede lavoro specializzato.
Dal just in time alla produzione modulare
15
core business, ad elevata complessità gestionale9. Specie nell’impresa
industriale, questi trasferimenti riguardano l’outsourcing di “sottosistemi di
prodotto” o di intere fasi del processo produttivo. In entrambi questi due casi
la modularizzazione consiste nell’intreccio di due indistinti fenomeni; da un
lato attraverso il trasferimento della proprietà, e dall’altro attraverso
l’internalizzazione (insourcing) delle attività produttive, e quindi delle
imprese a cui è stata ceduta la proprietà, sulle linee di produzione
dell’impresa finale.
L’outsourcing non consiste solo nella esternalizzazione di funzioni
aziendali (Durante, Gavitelli, 1997, Ichino, 2000), esso descrive dunque una
nuova architettura di progettazione del prodotto e del processo, dove accanto
alla “cessione della proprietà” - esternalizzazione proprietaria procede
parallelamente un fenomeno di internalizzazione operativa.
Questa simultaneità è la caratteristica principale dei nuovi processi
aziendali di outsourcing, e costituisce un elemento di distinzione non solo
verso l’esperienza del “decentramento produttivo”, ma anche rispetto alla
struttura della “filiera integrata”, in cui la fornitura viene regolata da un
contratto di partnership che non investe necessariamente la cessione di
proprietà aziendali.
Veniamo ora alle tipicità dell’outsourcing modulare ovvero alle
caratteristiche aziendali che presidiano il concetto di produzione modulare,
distinguendo in primo luogo tra modularità di processo e modularità di
prodotto.
Nel primo caso la produzione modulare riguarda la cessione di fasi del
processo produttivo, tecnologie e risorse umane. Un esempio in questa
direzione è il trasferimento promosso da costruttori finali di autoveicoli
come Fiat ed Iveco di interi reparti di stampaggio, che sono diventati
proprietà di imprese esterne che operano però negli stabilimenti Fiat di
Rivalta ed Iveco di Brescia. La modularizzazione non riguarda il prodotto
9
Ricciardi in un recente ed interessante studio sul fenomeno dell’outsourcing individua
due variabili, complessità gestionale (alta, bassa) ed attività da esternalizzare
(vicine/lontane dal core business), per costruire una tipologia di modalità di outsourcing:
outsourcing “tattico” per descrivere l’esternalizzazione di attività quali la formazione del
personale e lo sviluppo di sistemi informativi, “quello tradizionale” per attività di
supporto anch’esse distanti dal core business aziendale, quello “strategico” per attività
vicine al core business e ad elevata complessità gestionale, per concludere con
l’outsourcing “di soluzione” in merito ad attività a bassa complessità gestionale ma
contigue ai processi che strutturano iul core business dell’impresa. Dentro questa
tipologia l’outsourcing modulare rientra nella categoria delle attività strategiche, cioè
quelle che concorrono alla definizione del sistema finale del prodotto. Cfr. Ricciardi
(2000).
16
Dal just in time alla produzione modulare
ma la sincronizzazione dei segmenti di processo; il prodotto piuttosto non
presenta un’elevata complessità gestionale, non ha la struttura di un
subsistema autonomo del prodotto finale. La fabbrica modulare in questa
prospettiva diventa un’oganizzazione composta differenti imprese
giuridicamente autonome ma dislocate su un comune spazio operativo.
Lavoratoti appartenenti a imprese differenti operano sulla stessa linea, la
disomogeneità di “appartenenza contrattuale” viene riunificata da questa
nuova organizzazione produttiva che non si trova più perimetrata da confini
giuridici della singola impresa.
Nel secondo caso la produzione modulare invece riscrive l’architettura
di un prodotto attraverso la cessione della proprietà di interi moduli, ovvero
di sottosistemi del prodotto variabili nella loro combinazione su interfaccia
standardizzati: nell’industria automobilistica possono riguardare, la plancia,
il sistema frenante, ecc. Diversi componenti, a loro volta disaggregabili in
sub-componenti, con caratteristiche ed interfaccia standard possono essere
aggregati in molteplici combinazioni dando origine a prodotti differenti o a
variazioni dello stesso prodotto.
In questo caso la varietà del singolo prodotto è uno strumento di
competitività sul mercato, in quanto consente una riduzione dei costi pur
salvaguardando le garanzia di risposta alle richieste di customization. Da qui
si deduce che il nodo problematico non consiste tanto nella definizione di
queste “unità di componente” quanto nella gestione degli interfaccia che ne
consentono un’efficace combinazione; ne consegue che il grado di
modularizzazione è strettamente connesso con il numero di componenti ed i
vincoli di interfaccia richieste dalle specifiche combinazioni. La complessità
di una tale architettura può essere dunque ricondotta – oltre che alla
tecnologia, al know how della progettazione, ed alle professionalità in fase di
fabbricazione – alla gestione dell’impatto che ciascun componente ha
sull’altro in relazione alla funzionalità complessiva del prodotto ed alle
performance desiderate.
Seguendo questo ragionamento il prodotto “modularizzato” può essere
inteso come un “sistema di componenti che sono reciprocamente in
relazione, tenuti insieme dall’architettura complessiva del prodotto”
(Christensen, Rosembloom, 1995).
I vantaggi derivanti dall’organizzazione modulare del ciclo di prodotto
non investono solo la possibilità di fornire un ampio numero di variazioni,
ma riguardano anche la possibilità di instaurare percorsi di innovazione su
due fronti: da un lato, la divisione del lavoro interna alla filiera è organizzata
secondo una “rete” in cui, sulla base di standard di compatibilità “di incastro
delle unità elementari”, ciascun gruppo di progettazione e fabbricazione del
Dal just in time alla produzione modulare
17
componente può apportare innovazioni e modifiche in modo autonomo ma
all’interno di un framework comune (Hsuan, 1999). Dall’altro lato si
intensificano i circuiti di apprendimento soprattutto per quanto concerne lo
sviluppo di competenze di coordinamento che si collocano proprio nella
gestione delle zone di interfaccia tra i singoli processi (Sanchez, Mahoney,
1996).
Da questa prima descrizione l’outsourcing modulare delinea i tratti di
un sistema di produzione del ciclo di prodotto che riprende alcune delle
“tipicità” riscontrate nel sistema a “fornitura integrata”:
1. l’importanza del sistema informativo come infrastruttura cruciale
nel governo della rete su cui transitano le informazioni e le conoscenze
che l’impresa finale e quella di primo livello si scambiano
reciprocamente.
2. L’intensificazione degli scambi è stata una delle leve principali di
impiego intensivo di tecnologie informatiche all’interno della struttura
di fornitura; Il circuito CAD/CAM viene inserito in una rete telematica
che facilita la progettazione e l’ingegnerizzazione congiunta dei
prodotti e la loro scomposizione in unità modulari. Nella fase
successiva alla progettazione, i fornitori di primo livello assemblano il
prodotto in aree limitrofe (fornitura integrata) o all’interno degli
stabilimenti del produttore finale (outsourcing modulare)10.
3. In entrambe le strutture di filiera, il bene relazionale strategico
riguarda le attività di coordinamento e integrazione. Nel caso
dell’outsourcing la cessione della proprietà spinge i partner a
concordare un programma “aggressivo di miglioramenti” (Collins,
Bechler, Pires, 1997), orientato alla congiunzione di competenze
distintive; risorse, tecnologia e professionalità che vanno a strutturare le
competenze chiave delle singole imprese coinvolte nella relazione
devono trovare efficienti “punti di fusione”. Il precipitato di questa
collaborazione non si limita dunque alla cooperazione in fase di
progettazione e produzione ma riguarda la gestione congiunta
dell’assemblaggio dei sottosistemi modularizzati che compongono il
prodotto finale.
4. Prima con la fornitura integrata e successivamente con
l’outsourcing modulare cresce l’importanza della logistica nella
movimentazione dei materiali; anch’essa soggetta ad estrernalizzazione
10
Questa tendenza è stata recentemente riscontrata nell’ambito della componentistica
autoveicolare, non solo per quanto concerne il distretto tecnologico dell’auto torinese, ma
anche di altre imprese leader nel settore automotive (Opel, BMW, Renault).
(Osservatorio sulla componentistica autoveicolare, 1998).
18
Dal just in time alla produzione modulare
(pensiamo all’accordo tra Fiat e TNT Traco) ricopre un ruolo cruciale
nell’integrazione delle attività produttive oltre a garantire una rete di
supporto nella rete internazionale del cliente (global service)11.
5. Poi L’impresa “tipo” dell’outsourcing modulare rimane dunque
collocata al primo livello di fornitura, lasciando così invariata la
struttura gerarchica del modello integrato, pur modificando
radicalmente i confini operativi dell’impresa.
Imprese di logistica, modularizzazione dei sottosistemi che
compongono il prodotto, informatizzazione avanzata di comunicazione
inter-aziendale e co-localizzazione del fornitore (anche quello di logistica)
“sulla linea” dell’impresa finale sono i nodi tematici più rilevanti che
segnalano la presenza di innovazioni incrementali ma non radicali del
sistema di fornitura integrata.
L’aspetto più rilevante nel segnare la distanza dalla fornitura integrata è
costituito dal progressivo venir meno dei confini organizzativi dell’impresa,
come risultante dei due processi sincronici di outsourcing proprietario ed
insourcing operativo.
Questo passaggio può essere chiarito partendo dall’ordinamento
giuridico civile italiano; qui l’impresa viene definita come «il complesso di
beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa» (art. 2555
c.v.). L’impresa come entità economica organizzata si differenzia da
“azienda” che invece rimanda ad una complesso di beni e ad una struttura
socio-tecnica (Gallino, 1961). Con l’outsourcing modulare si assiste ad una
progressiva dissociazione della struttura organizzativa dalla sua condizione
“aziendale”; i suoi confini non rispondono più alla configurazione giuridica
dando origine ad una struttura ibrida, che richiama una forma reticolare;
l’efficienza delle sue attività produttive è sempre più vincolata alla qualità
delle sue zone di integrazione e coordinamento.
La produzione modulare - o terziarizzazione avanzata (Magnabosco,
1999) - mette radicalmente in discussione, più di quanto non sia avvenuto
con la fornitura integrata, i meccanismi di governo dell’impresa
11
In questo senso la terziarizzazione della logistica è una componente fondamentale non
solo nel supporto alla “modularizzazione della produzione” ma costituisce anche uno dei
fattori chiave nella internazionalizzazione dell’impresa stessa. Questo fenomeno è
particolarmente evidente negli impianti delle imprese multinazionali automobilistiche; i
casi di Volkswagen a Resende in Brasile (Woodruff, Katz, Naughton, 1996), della Skoda
(Collins, Bechler, Pires, 1997), gli stessi accordi tra Fiat e TNT lasciano intendere come
la rete logistica sia la dorsale di tutto il sistema di fornitura. La sua efficienza determina
le alleanze strategiche dell’impresa costruttrice e le sue prospettive di localizzazione
(Willcocks, Ju Choi, 1995).
Dal just in time alla produzione modulare
19
riconducibili al concetto di corporate governance, ovvero di quel sistema di
governo dell’impresa che descrive «l’insieme di incentivi, salvaguardie e
processi di risoluzione dei conflitti che ordina le attività degli stakeolder di
un’azienda» (Kester, 1991, 5). Il governo delle attività produttive di
un’azienda è la risultante della qualità della cooperazione con altre imprese.
Il riferimento nelle modalità di governo non è più la struttura della corporate
ma il contratto di fornitura; la formalizzazione delle reciproche
obbligazioni/prestazioni contenute nella transazione è parziale, infatti
rimangono in forma implicita, in continua definizione, quelle attività di
integrazione che oltre a potenziare il “nocciolo duro” delle competenze
aziendali (Quinn, 2000), fanno da supporto al contratto stesso e lo rendono
eseguibile.
Il contratto commerciale può essere inteso alla stregua di un “cantiere”
in perenne costruzione e ricerca di un punto di saldatura tra il requisito
organizzativo della filiera e l’attività economica della singola azienda.
La ricerca dei confini efficienti dell’impresa diventa così un problema
di governo dei contratti (contractual governance12) che regolano lo scambio
di risorse tra l’impresa outsourcer e quella outsourcee. I confini dell’azienda
sbiadiscono nella rete di cooperazione formale sancita contrattualmente ed
in quella informale caratterizzata da quelle attività che rendono possibile lo
scambio13. Non solo ma la qualità dell’integrazione organizzativa tra le due
imprese contraenti diventa la risorsa più rilevante per il raggiungimento di
livelli soddisfacenti di implementazione degli obblighi contrattuali.
12
Il concetto di contractual governance comprende quella attività volte ad «escogitare
metodi per accordi o relazioni fra compagnie che equilibrino in maniera ottimale i rischi
di negoziare sul mercato con quelli di controllare a livello amministrativo le stesse
attività all’interno di una gerarchia organizzativa» (Kester, 1996, 127). Questa
prospettiva interseca quella aperta dalla scuola dell’economia dei costi di transazione,
proprio a partire dal dilemma di origine relativo all’alternativa tra gerarchia e mercato. Il
dibattito intorno alla integrazione contrattuale, che ha origine non tanto dagli studi sulla
proprietà ma sulla esperienza di governance giapponese. Il concetto di corporate
governance, più focalizzato sui problemi di agenzia del management separato dai titolari
della proprietà dell’impresa, costituisce comunque il termine di paragone rispetto alle
trasformazioni delle relazioni di cooperazione inter-azidendale. Cfr. Per una rassegna
sulle problematiche della governance aziendale, Guelpa, 1995.
13
Per un approfondimento sul tema della ridefinizione dei confini di impresa rimandiamo
a due studi di rilevante interesse: Holmstrom, Roberts (1998), Colombo (1998).
20
Dal just in time alla produzione modulare
b.
Traiettorie di sviluppo nella rete di fornitura industriale
La sequenza con la quale è stata ricostruita tale trasformazione (ved.
Tav.I) non deve generare una illusione evolutiva dei singoli processi,
secondo la quale ciascun modello incorpora quello precedente ed al
contempo lo supera. L’esperienza empirica dimostra piuttosto la coesistenza di modelli diversi all’interno di una stessa filiera di prodotto.
L’outsourcing modulare che investe il primo anello di fornitura coabita con
imprese organizzate secondo le tecniche del just in time relative ad imprese
dislocate negli anelli inferiori della catena di fornitura. Le esperienze
soprattutto nel settore della produzione automobilistica, ma la tendenza si
ripropone nel settore del legno-arredo (Gargiulo, Mariotti, 1999),
dimostrano la natura fortemente ibrida di tale catena; si tratta di imprese
diversificate per strategie, competenze ed organizzazione14.
14
Su questo punto si può inserire la questione relativa alle diverse vie della flessibilità
per quanto concerne la strategia di sviluppo e le modalità di gestione delle risorse umane
interne; nella catena di fornitura possono convivere funzionalemnete una via alta alla
flessibilità ed una via bassa alla flessibilità, secondo una divisione tecnica del lavoro di
filiera, il cui principio regolatore concerne il livello di competenze che la singola impresa
è in grado di mobilitare per raggiungere un’alta qualità del prodotto, ovvero la qualità del
bene relazionale che è in grado di co-determinare con l’impresa finale.
Dal just in time alla produzione modulare
21
Tav. I – Fasi di trasformazione del sistema di fornitura
Just in Time
Parco fornitori Molti con una
gerarchia
variabili
nell’avvicendamento ai diversi
livelli che la
compongono
In prossimità del
cliente finale con
una separazione
dei confini
geografici
Grado
di Integrazione
integrazione dei logistica
processi
Localizzazione
dei fornitori
Fornitura
integrata
Consolidamento
della gerarchia e
riduzione dei
fornitori nel
primo anello.
Localizzazione
“fino alle linee”
di assemblaggio
del cliente finale
Outsourcing
modulare
Simultaneità di
processi di
esternalizzazione
proprietaria
(outsourcing) ed
internalizzazione
operativa
(insourcing)
“Sulla linea” del
cliente finale.
Ingegnerizzazion Modularizzazione
e congiunta
del ciclo di
prodotto e del
processo
produttivo
Tempistica nella Cooperazione in Congiunzione
Bene
movimentazione fase di
delle competenze
relazionale
dei semilavorati progettazione e
distintive
produzione
Transazioni
Transazioni
Cessione di ramo
Forma
continue di lungo di impresa:
contrattuale di ripetute e
periodo
collaborazione discontinue
Governance
Meccanismi di Governo interno Partnership
della strategia di
contrattuale
governance
impresa
(governo dei
(Corporate
contratti
commerciali di
governance)
fornitura)
Fonte: nostra elaborazione
22
Dal just in time alla produzione modulare
Dal JIT all’outsourcing modulare si assiste ad un progressivo
sbiadimento dei confini “efficienti” dell’impresa; seguitamente
all’intensificarsi degli scambi informativi (con media tecnologici e non) ed
all’impiego crescente di risorse di integrazione, la relazione di cooperazione
tra imprese si arricchisce di nuovi contenuti. Prima confinata alla
dimensione logistica e successivamente estesa a quella della progettazione,
l’outsourcing modulare accentua la multidisciplinarietà della relazione;
intervengono da parte del cliente finale richieste di interdipendenza
contrattuale, operativa, socio-culturale e tecnologica sino a quel momento
marginali e confinate a poche “nicchie” di mercato. La crescente
interdipendenza viene governata a livello operativo ed organizzativo
mobilitando ingenti risorse ed investimenti specifici di integrazione; ovvero
nella produzione di collettivi indispensabili nel raggiungimento degli
obiettivi aziendali di produzione. L’integrazione diventa un bene
marcatamente segnato da una particolarità, che è quella di essere sempre di
più il prodotto di una fusione di conoscenze tecniche e tecnologiche non
circoscrivibili a quelle racchiuse nel patrimonio cognitivo della singola
impresa.
Va detto però che la complessità delle attività di integrazione subisce
un notevole incremento parallelamente alla estensione dei processi di
esternalizzazione. In altri termini, il costo di coordinamento e gli
investimenti in risorse specifiche per sostenerlo si elevano quando le attività
da coordinare sono svolte da imprese autonome differenti. Questo passaggio
ci riporta al dilemma aperto da Coase (1937) e sviluppato successivamente
dalla scuola dell’economia dei costi di transazione (Williamson, 1986):
quando, in presenza di investimenti specifici15 promossi dalle singole
imprese (fonitrici e committenti finali) e di rischi crescenti di opportunismo
nell’appropriazione delle esternalità della relazione, le imprese trovano più
conveniente portare al proprio interno segmenti della produzione piuttosto
che esternalizzarli.
Ma, come abbiamo visto la tendenza non è questa e l’esternalizzazione
di funzioni è diventato un esplicito obiettivo aziendale. Infatti, c’è una
sostanziale convergenza nel valutare la scelta dell’outsourcing come
un’operazione volta ad incrementare il rendimento delle risorse interne
attraverso investimenti specifici nelle aree distintive, alleggerendosi di
quelle attività distanti o non comprese nel core business dell’organizzazione.
Questa tendenza può apparire antieconomica se la variabile del “prezzo della
15
Per investimenti specifici si intendono quegli investimenti che hanno valore nel
contesto di una particolare relazione ma lo perdono al di fuori di essa (Alchian, Demsetz,
1972; Williamson, 1986).
Dal just in time alla produzione modulare
23
relazione” viene letta nella prospettiva di uno scambio tra grandezze “certe”,
misurabili e quantificabili. Ma in un contesto di mercato in cui la
competitività di una proposta commerciale è sottoposta ad un insieme di
variabili non semrpe misurabili, ed una di queste è la competenza necessaria
a congiungere le differenti specializzazioni tecnologiche e professionali che
concorrono alla definizione ed alla produzione di un prodotto. Inoltre,
nessuna impresa finale produttrice di beni complessi è in grado di sopportare
il costo di acquisizione e di riproduzione di una gamma così ampia di
competenze chiave. Il fornitore al quale si esternalizzano attività prima
svolte all’interno
diventa un attore con il quale condividere il rischio di un investimento
progettuale, ma soprattutto le specificità professionali e tecnologiche di cui
questi è in possesso costituiscono una componente rilevante nel mettere in
moto economie di apprendimento. Ed una gestione efficiente di queste
competenze investe proprio la capacità di coordinamento nel favorire
economie di combinazione di saperi finalizzati ad un progetto comune.
La relazione dunque deve essere efficiente, deve produrre scambi di
informazioni e saperi in modo da invertire il rischio di impoverimento che
deriva dal trasferimento di funzioni aziendali. La relazione che presiede il
rapporto di collaborazione e fornitura è il luogo in cui
Si riproducono quelle esternalità positive (relational quasi rent16) che
concorrono a generare il bene collettivo di integrazione.
Tuttavia questo tipo di relazione che richiede investimenti specifici da
parte di tutte le imprese contraenti contiene in sé alcuni elementi di
destabilizzazione, riconducibili alla presenza di asimmetrie informative e
rischi di opportunismo post-contrattuale.
Questa asimmetria potrebbe indurre il committente ad espropriare quasi
completamente il fornitore di quelle quasi rendite – definito bene relazionale
di integrazione – che entrambi hanno congiuntamente prodotto, vale a dire
quei saperi e quelle informazioni che si sono generate dal contatto
collaborativo. Ma un comportamento aziendale di questo tipo produrrebbe
effetti negativi che, in ultima istanza, andrebbero a discapito del
committente stesso; il fornitore sarebbe così disincentivato dal destinare
parte delle sue risorse – non solo economiche – alla gestione specifica della
relazione, allo scopo di evitare rischi di opportunismo post-contrattuale del
committente (Esposito, 1999), inaridendo però in questo modo le capacità
generative di conoscenza ed innovazione incrementale che possono sorgere,
almeno potenzialmente, dalla relazione.
16
Aoki definisce le relational quasi rent il prodotto di una «efficienza informativa di
relazioni contrattuali all’interno dei raggruppamenti di subfornitura» (1988, 218, n.t.).
24
Dal just in time alla produzione modulare
A partire dall’accentuazione del suo profilo multidiscplinare, nella
struttura integrata di fornitura e nella produzione modulare, la relazione, che
si instaura tra le imprese, ha l’esplicito obiettivo di governare le richieste di
specializzazione e differenziazione del mercato; ad essa sono affidati
compiti di riduzione di quel margine di inefficienza – interfirm Xinefficiency17 - che separa la produttività reale dell’impresa dalla sua
potenziale massimizzazione. La relazione stessa è un investimento che deve
produrre conoscenza, normalizzare anomalie, alimentare innovazioni
incrementali. Un comportamento opportunistico di appropriazione
unilaterale delle “quasi rendite relazionali” finirebbe per prosciugare quel
bacino di risorse di conoscenza necessarie a garantire in modo continuativo
l’integrazione dei processi.
Impresa finale e fornitore si trovano così all’interno di un circuito in cui
si mescolano competizione ed cooperazione; competizione per appropriarsi
di una gamma crescente di esternalità positive senza che questo vada a
ledere i benefici derivanti da un comportamento cooperativo. L’equilibrio
tra competizione e cooperazione e l’efficienza della relazione scaturiscono
dalla capacità degli attori di assicurare le condizioni minime perché sia
garantita la riproduzione di questa conoscenza localizzata, ovvero che il
circuito delle economie di apprendimento fluisca senza soluzione di
continuità. In questa prospettiva i processi di apprendimento hanno sempre
una valenza sperimentale, di esplorazione di nuove vie e di sfruttamento
delle risorse possedute, non è semplice acquisizione, ma è piuttosto il
prodotto di un continuo monitoraggio18 con le esperienze dirette ed indirette
maturate all’esterno della singola impresa.
Il rapporto tra impresa committente ed impresa fornitore non è mai
privo di asimmetrie di potere, come tutte le relazioni; l’impresa finale
determina e coordina lo sviluppo aziendale delle imprese fornitrici,
17
Questa definizione di Sako (1992) è la rielaborazione ripresa da Leibenstein (1966)
della teoria della X-efficiency: con il concetto di X-inefficiency Leibenstein intendeva
indicare il differenziale che separa la produttività attuale dell’impresa da quella
massimizzata. Sako modifica il contesto organizzativo su cui si sviluppano i limiti
all’efficienza, non più la singola impresa ma un network di imprese. In questo modo la
inter-firm X-efficiency riguarda l’efficienza della relazione tra un gruppo di imprese, le
quali sono collegialmente accomunate dalla volontà di massimizzare la singola relazione.
18
L’apprendimento tramite monitoraggio, come ha sostenuto Sabel, è incarinato sul
carattere cumulativo degli scambi ed elaborazione di saperi ed informazione e deriva dal
fatto che il «sistema produttivo nel suo insieme oscilla tra la definizione di una divisione
del lavoro per se stesso [all’interno della singola impresa] e la riconsiderazione di tale
definizione alla luce di quanto appreso in fase esecutiva» (Sabel, 1998, 82).
Dal just in time alla produzione modulare
25
incidendo sulla natura e portata dei loro investimenti. Tuttavia anche
l’impresa finale, proprio in conseguenza di questo intensificarsi di
interdipendenze esperte si trova esposta ai rischi di opportunismo post
contrattuale.
Senza rinunciare ad esercitare pressioni sul terreno della riduzione dei
costi, l’impresa finale determina e coordina lo sviluppo aziendale delle
imprese fornitrici, incidendo sulla natura e portata dei loro investimenti.
Ciononostante si esce dal dilemma della scuola transazionale, da Coase
(1937) in poi, del make or buy per approdare ad una struttura ibrida di
relazioni contrattuali che vengono finalizzate alla produzione continua di
beni relazionali. Gli attori coinvolti nella relazione collaborativa non
potendo utilizzare la formula contrattuale come strumento di recupero dei
fattori di incertezza e conflittualità, ricorrono diffusamente alla formazione
di apposite strutture composte da manager e tecnici di entrambe le imprese
coinvolte nel contratto di outsourcing. Questa formula, che prende il nome
di piattaforma organizzativa, ha il compito attraverso il ricorso a
configurazioni matriciali di organizzazione, di definire luoghi e momenti
istituzionalizzati di scambio continuo di informazioni riducendo così i rischi
di opportunismo da parte dei contraenti. La piattaforma è strutturata su più
livelli, è strutturata intorno ad una serie di prodotti raggruppati sulla base
della loro reciproca e coerenza e comune matrice tecnica, allo scopo di
intervenire su uno dei nodi più critici delle attività di produzione, vale a dire
l’«interfacciamento tra attività di sviluppo del prodotto ed attività di
sviluppo del processo (Calabrese, 1997). Ciascun livello interno alla
piattaforma necessita di punti di raccordo, di figure di intermediazione.
Questi produttori di integrazione presentano due caratteristiche:
! la prima è quella di essere risorse di integrazione organizzativa
e la loro competenza risiede nella capacità di mettere in collegamento
studi progettuali, know how specialistici, risorse umane e finanziarie.
! La seconda è quella di costituire una risorsa di supporto alla
gestione dei contratti commerciali. Infatti, lo scambio di conoscenze
ed esperienze non è facilmente certificabile e la loro immaterialità
espande i rischi opportunistici; da qui emerge come l’unico strumento
di contenimento di tali rischi risieda nella possibilità di monitorare
continuativamente i risultati conseguiti in modo da valutarli step by
step in relazioni agli obiettivi (Ricciardi, 2000).
I confini organizzativi dell’impresa non sono più circoscrivibili al suo
perimetro giuridico, si verifica una separazione tra organizzazione ed
impresa che richiede la definizione – attraverso la partnership e
l’outsourcing modulare – di nuovi strumenti integrazione contrattuale,
26
Dal just in time alla produzione modulare
necessari ad un’efficiente regolazione dell’attività aziendale. Aumentano
così le variabili di integrazione a fronte di contratti che per quanto dettagliati
rimangono strutturalmente incompleti, a causa di limiti posti alla razionalità
nella fase di stipulazione del contratto e successivamente di
implementazione dello stesso.
In questo contesto, non sono sufficienti investimenti in tecnologie
informatiche quali supporto nella trasmissione di informazioni e nelle
attività di coordinamento, è necessario che la relazione, in virtù della mutua
dipendenza che si crea tra gli attori, preveda una disponibilità allo
«svolgimento di attività non prescritte per facilitare il raggiungimento di
obiettivi comuni» (Migliarese, Ferioli, 1997, 116). L’informatizzazione del
sistema informativo costituisce l’infrastruttura che sostiene la gestione degli
scambi (di prodotti, come nel caso dell’informatica applicata al settore
logistico, e di informazioni, come nel caso delle attività di design e
progettazione con l’utilizzo di comuni database e di comuni software CAD
di elaborazione dei dati) e fa da struttura portante della forma reticolare che
va assumendo la filiera di prodotto attraverso l’outsourcing modulare.
Utilizzando i paradossi argomentativi di un ossimoro, si potrebbe dire che
questa filiera prende la forma di una “gerarchia reticolare”, che ha il
problema di trovare meccanismi regolativi di governo che non possono più
appoggiarsi a risorse facilmente misurabili e formalizzabili per via
contrattuale.
La transazione viene considerata alla stregua di una “merce” ed il
coordinamento efficiente degli scambi nella transazione è un condizione
essenziale per il conseguimento della qualità del prodotto finale (Rullani,
1986), la quale può certo uscire rafforzata dall’impiego di un’agile
infrastruttura tecnologica, ma rimane fortemente condizionata dal sistema di
governo del contratto, a partire dai limiti imposti dalla sua incompletezza. In
questo senso la piattaforma è uno strumento di governance contrattuale; è in
essa, infatti, che le attività di coordinamento organizzativo si mescolano ad
attività di coordinamento degli obblighi contrattuali.
Ma è proprio l’incompletezza contrattuale a costituire il terreno fertile
per la gestazione delle relational quasi rent necessarie a rendere efficiente il
contratto di fornitura. Incompletezza contrattuale (interna, con le relazioni di
impiego, ed esterna con le relazioni commerciali) ed integrazione
organizzativa si trovano così parte di un circuito di reciproco rafforzamento.
Dal just in time alla produzione modulare
27
c.
Incompletezza contrattuale e competenze relazionali nel sistema di
fornitura.
Per poter argomentare questa relazione di reciproco rafforzamento è
opportuno passare ad un approccio di tipo “contrattualista”, come quello
elaborato dalla teoria economica dell’organizzazione,
Il contratto assume così il profilo di dispositivo di regolazione della
transazione, e questo costituisce il nucleo centrale di una prospettiva che
guarda all’impresa come ad una “connessione di contratti” (Reve, 1990);
l’attività economica altro non sarebbe che un intreccio di accordi
formalizzati che definiscono il raggio delle transazioni in cui è inserita
l’organizzazione aziendale.
L’analisi del contratto ha radici lontane, non di esclusiva pertinenza
delle discipline giuridiche o filosofiche; l’interesse per le sue implicazioni
ha contagiato l’analisi economica (in particolare la teoria economica
dell’organizzazione) e le scienze sociali a partire dalla seduzione che questo
concetto ha esercitato sulla ricerca durkeimiana in merito alle ragioni che
rendono possibile la coesione sociale.
«Non tutto nel contratto è contrattuale», scriveva Durkheim (1897); la
produzione contrattuale necessita per l’efficacia dei suoi contenuti di
agganciarsi ad elementi, valori, culture, modalità di interazione che sono
lasciati impliciti nel contratto o vengono demandati alla capacità degli attori
(impresa cliente/ impresa fornitrice) di produrre regole informali di gestione
delle contingenze imprevedibili (FalK-Moore, 1973; Serverin, 1996) o alla
capacità dell'ambiente istituzionale in cui operano di fornire/imporre norme
pertinenti. Un’analisi scrupolosa del contratto deve collocarsi all’interno di
un “sistema di azione storica”, di un contesto, soprattutto quando
l’attenzione si sposta sui termini della sua applicazione.
I contratti non sono un prodotto negoziale statico, hanno invece una
configurazione dinamica data dall’intersezione, continuamente mutevole, di
aspetti impliciti ed espliciti: «il silenzio o l’incompletezza della convenzione
esplicita non si presenta più, allora, come una lacuna o una patologia del
contratto, ma piuttosto come il fatto normale di una normatività contrattuale
in cui il detto si comprende solo in relazione necessaria con il non detto»
(Guy-Belley, 1996, 466, n.t.).
Essi presentano una intrinseca incompletezza dovuta a fattori di limitata
razionalità degli attori di definire anticipatamente le contingenze future ed il
comportamento dei contraenti nelle fasi di incertezza (Williamson, 1986;
Milgrom, Roberts, 1992). Sulla base di questi presupposti, l’incompletezza
28
Dal just in time alla produzione modulare
contrattuale costituisce un elemento insopprimibile di qualsiasi processo di
contrattazione.
a) Incompletezza dei contratti tra imprese.
Benché fertile e suggestiva l’applicazione della teoria dei contratti
all’analisi della fornitura integrata e dei contratti di outsourcing modulare,
rivela un’inquadratura ristretta che taglia fuori i meccanismi attraverso cui
avviene il coordinamento delle attività interne e di quelle esterne all’impresa
che sono lasciate implicite, o non regolate dal contenuto contrattuale. Non
“spiega”, cioè, come sia garantita l’efficienza del contratto stesso.
Fig. 1 – Teoria dei contratti: la trasformazione fondamentale
t0
t1
∆t a
Stipula
contratto
Valutazione
dei
contraenti
in ∆t a si verificano S stati del mondo
che inducono le parti ad attivare
investimenti specifici, non non
prevedibili nella fase definitoria del
contratto (t0).
∆t b
t2
Nuovo accordo/
interruzione della
collaborazione
∆t b apre la fase della revisione e/o
della rinegoziazione del contratto
Fonte: rielaborazione da Hart, Moore, 1988
La Figura I, propone uno dei problemi più rilevanti di incompletezza
contrattuale (nei casi contratti di lungo periodo non di quelli occasionali19)
in una relazione di scambio, e nello specifico degli accordi di fornitura.
19
Nel caso di contratti a pronti (spot markets contracts) - utilizzati prevalentemente nelle
borse merci - si può parlare di completezza contrattuale; qui «le condizioni alle quali
avviene lo scambio sono determinate simultaneamente allo scambio stesso» (Del Monte,
1994). I contratti spot configurano le modalità di scambio in un mercato perfettamente
concorrenziale; in esso ogni esternalità dell’agire sociale viene rimossa alla radice
attraverso il meccanismo del price-taking. In questa direzione la dispersione delle
informazioni,in un sistema di pianificazione, viene risolto: il prezzo di ogni bene
converge al suo valore minimo, e ciò garantisce che il soggetto che emerge come
produttore di ciascun bene è il produttore a minimo costo, ma è anche quello
“socialmente” più adatto a svolgere questo compito. Gli altri produttori possono
Dal just in time alla produzione modulare
29
Al momento della stipula del contratto (t0) l’impresa committente e
l’impresa di fornitura stipulano un accordo commerciale allo scopo di
“internalizzare” il maggior numero di possibili esternalità, ovvero
incorporare nel contratto la regolazione di tutti quegli effetti della
transazione non desiderabili. Malgrado ciò in questa fase i contraenti non
sono in grado di prefigurare comportamenti opportunistici da parte del
partner derivanti da asimmetrie informative.
Successivamente in fase di applicazione del contratto (t1) interviene una
sorta di “trasformazione fondamentale” (Williamson, 1986), e si verificano
delle contingenze inaspettate che richiedono nuovi investimenti specifici; la
distribuzione di questi investimenti e dei risultati che producono (esternalità
positive e negative) è il terreno su cui avviene la revisione o la
rinegoziazione di parti del contratto iniziale, ed anche il contesto in cui si
annidano i maggiori rischi di opportunismo post-contrattuale20. Se così non
fosse il contratto risulterebbe “completo”21; l’individuazione preventiva di
avvicinarsi a quel bene in qualità di consumatori e non produttori. Il meccanismo di
price-taking determina quindi un “ordine spontaneo” che nasce dall’estrema
competizione. Per un approfondimento, ved. Grillo (1994).
20
Concetto di opportunismo post-contrattuale: la possibilità che il valore degli
investimenti specifici fatti da un’impresa possa essere “espropriato” nella contrattazione
ex post produce un incentivo a non investire abbassando così il livello di competitività
generale acquisibile non solo dalla singola impresa ma dalla relazione stessa quindi
anche dal partner contrattuale. La cooperazione salta nel momento in cui uno dei
contraenti percepisce la possibilità di un dominio oltre la soglia da parte del partner,
attraverso l’instaurazione di forme di opportunismo post-contrattuale. L’opportunismo
post-contrattuale riguarda l’opportunismo di un contraente che si verifica
successivamente la stipulazione di un contratto. Le direzioni di questo opportunismo
possono riguardare problemi di hold up (una parte si vede forzata ad accettare delle
condizioni svantaggiose e quindi assiste ad una svalutazione del valore del proprio
investimento a causa delle azioni della controparte) e di moral hazard (quando le azioni
specificate in un contratto non sono perfettamente osservabili e quindi questo induce i
contraenti ad avere minor cura da parte dei contraenti per ridurre i rischi di danno).
Questo approccio di “teoria economica dell’organizzazione” occupa uno spazio rilevante
nella letteratura sociologica ed economica. Per un approfondimento rimandiamo a: Hart,
Holmstrom (1987); Milgrom, Roberts (1992); per quanto concerne la teoria dell’agenzia
come variante nei rapporti di impiego dell’opportunismo post-contrattuale a Coleman
(1990) e Hart, Holmstrom (1987).
21
Riportiamo qui da Grillo (1994) due concetti distinti di contratto completo: Milgrom,
Roberts (1992), definiscono il “contratto completo” quel contratto che emerge sempre
quando le possibilità di condizionamento reciproco sono illimitate; in questo senso in
assenza di costi di transazione vi è una piena internalizzazione delle esternalità – il
mercato secondo Coase (1937). L’incompletezza contrattuale però non implica che le
parti non arrivino ad un accordo per via contrattuale ma questa soluzione di scelta può
essere dominata da un’altra scelta che, in quanto sconosciuta alle parti, non può essere
30
Dal just in time alla produzione modulare
ogni fattori di incertezza insieme al suo assorbimento renderebbe l’attività
produttiva altamente programmabile ed i processi di problem solving
sarebbero sostituiti dalla pianificazione del comportamento organizzativo.
Posto che sia possibile, un simile contratto avrebbe costi di realizzazione
insostenibili.
Le due imprese si trovano, dunque, nella condizione di “internalizzare”
in fase di stipulazione del contratto tutti i possibili meccanismi di governo
delle incertezze, che concerne essenzialmente l’erogazione di un surplus
aggiuntivo e non previsto di interventi specifici.
La mobilitazione del surplus di investimenti specifici apre dunque la
fase della revisione del contratto o la sua rinegoziazione, portando così alla
configurazione di un nuovo “ordine relazionale” (accordo post-contrattuale)
o, ma sono casi rari nei contratti di lungo periodo, alla interruzione del
rapporto di collaborazione.
A questo punto sono necessarie due precisazioni: da un lato l’esito di
tale negoziazione può sfociare in un accordo ma non necessariamente nella
formalizzazione di esso, da un altro lato la rinegoziazione dei termini
contrattuali non può eludere la questione del potere negoziale degli attori.
Tuttavia sebbene le imprese clienti generino dei dispositivi di controllo
dell’impresa fornitrice, i rapporti di forza che si articolano all’ombra di
contratti di lungo periodo non devono superare una soglia di tolleranza, oltre
la quale viene messa a repentaglio la riproduzione dell’integrazione dei
processi.
Soprattutto nel quadro delle pratiche di ingegnerizzazione congiunta e
nell’outsourcing modulare si instaura tra le imprese una condizione di
dipendenza bilaterale (Williamson, 1986, 1996); entrambi i contraenti
hanno fatto investimenti specifici finalizzati al supporto della relazione, e
questo genera un interesse congiunto che arresta le tentazioni di soluzione
unilaterale del contratto.
La variabile coercitiva della relazione, che pur esiste, lascia spazio alla
dimensione cooperativa della relazione. In altri termini, le imprese
appartenenti al primo anello di fornitura, non sarebbero in grado di garantire
alti livelli di integrazione solamente con la “coazione al controllo” da parte
dell’impresa cliente.
soggetta a negoziazione, di conseguenza anche l’internalizzazione delle esternalità non è
completa, con conseguenze sulla stessa efficienza. Secondo Hart, Holmstrom (1987), un
contratto è completo quando l’accordo delle parti definisce in modo esauriente il profilo
di azioni congiuntamente selezionato, indipendente che esso conduca ad una situazione
efficiente. È questa seconda interpretazione il riferimento utilizzato in questo lavoro.
Dal just in time alla produzione modulare
31
La rinegoziazione dunque non si avvale solo di strumenti di
coercizione, ma privilegia la via consensuale quanto più il governo del
surplus di esternalità (eventi negativi, distribuzione benefici) è ricavabile
solo da un alto grado di cooperazione non contrattualizzabile a priori (t0).
Ecco che la posta in gioco nella fase di rinegoziazione del contratto
riguarda la struttura di governance del surplus di esternalità, vale a dire i
“diritti residuali di allocazione e controllo delle risorse”22 che non sono
«espressamente ceduti a qualche contraente per via contrattuale» (D’antoni,
1995, 487) ma che consentono all’impresa finale di intraprendere strategie
di adattamento continuo dei processi interni grazie alle conoscenze ed
informazioni che si scambiano nel corso della relazione di fornitura.
Nonostante il potere di mercato (strategie di pressione per la riduzione
del prezzo) dell’impresa finale sull’impresa fornitrice di primo livello
contribuisca a regolare la distribuzione dei “diritti residuali di controllo” ” di
risorse integrative nella produzione continua di beni relazionali, esso si
rivela comunque inadeguato nel limitare i rischi di “azzardo” nei momenti di
massima incertezza, cioè di opportunismo post-contrattuale da parte dei
contraenti. Più efficace è il ricorso a legami fiduciari generati da interazioni
ripetute e continuative nel quadro di contratti di fornitura di lungo periodo.
La fiducia23 intesa come “attendibilità” di un comportamento non
22
Il concetto di “diritti residuali di controllo” è stato impiegato prevalentemente
nell’ambito di un filone sviluppatosi nella teoria economica dell’organizzazione
(Grossman, Hart, 1986); partendo dai presupposti dell’incompletezza contrattuale i due
autori sostengono che i rischi di opportunismo, e nello specifico degli investimenti che
occorre aggiungere, rispetto a quelli preventivamente programmati, possono essere
superati se sin dalla fase di stipulazione del contratto sono definiti i diritti di proprietà
nell’allocazione delle risorse aggiuntive. In altri termini, l’efficienza ex ante (fase di
stipulazione del contratto) dipenderà da come sono allocati questi diritti residuali di
controllo. Da un punto di vista empirico, però, il fenomeno della fornitura integrata e
dell’outsourcing modulare mettono in discussione gli assunti di questa impostazione
basata sui diritti di proprietà; l’allocazione dei diritti residuali di controllo avviene sulla
base di una forza coercitiva dell’impresa committente, e su una via consensuale fondata
sullo sviluppo di relazioni fiduciarie rafforzate da ripetute occasioni di collaborazione
(contratti di lungo periodo). Il punto nodale che allontana questa prospettiva dalle più
avanzate forme di fornitura risiede nella scarsa importanza assegnata alla produzione di
beni relazionali, non necessariamente conseguibili per via proprietaria.
23
L’assunzione della fiducia come elemento generato da interazione ripetuta delle
relazioni contrattuali è un terreno impervio che si presta a molteplici interpretazioni, che
talvolta corre il rischio di fungere da concetto “pigliatutto” per spiegare tutte quelle
situazioni in la cooperazione nasce da interazioni non meramente coercitive. Qui ci si
limiterà a dire che la fiducia - intesa come impegno specifico nel mantenimento delle
promesse contrattuali emerse nella fase di stipulazione del contratto – presenta gradi
differenti di intensità (Sako, 1991): ad un primo livello Sako individua la “fiducia
32
Dal just in time alla produzione modulare
opportunistico (Sako, 1991) costituisce dunque uno di quegli elementi
“extra-contrattuali” che svolgono una funzione sociale di rafforzamento
delle relazioni tra imprese.
Il legame fiduciario – come emerge da uno studio sul caso anseatico –
non è una pre-condizione quanto piuttosto la risultante della “contiguità” e
della “frequenza dei contatti”; anche in un contesto caratterizzato dalla
presenza di “legami deboli” tra gli attori, da motivazioni strumentali e
comportamenti opportunistici, lunghi periodi di cooperazione monitorata tra
opportunisti può essere all’origine dell’instaurarsi di legami fiduciari
(Pichierri, 1998). Il monitoraggio diventa così uno strumento di controllo e
di apprendimento allo stesso tempo.
Il legame fiduciario non è omogeneo si distribuisce lunga una scala di
diversa intensità; la quale cresce parallelamente agli investimenti specifici
degli attori, via via che crescono le attività di integrazione, ovvero di
produzione di beni relazionali non contrattualizzabili.
La produzione delle norme sociali di rafforzamento (e l’instaurazione
del legame fiduciario è parte di essa) dell’efficienza del contratto di
fornitura mettono in discussione la tesi dell’impresa come connessione di
contratti (Hodgson, 1998), per lasciare spazio spazio ad una nozione di
impresa, di matrice neo-schumpeteriana, come “deposito di conoscenze” che
si riproducono attraverso la continua interazione, dentro e fuori l’impresa,
tra differenti di competenze tecnologiche e gestionali24.
La teoria dei contratti sin qui utilizzata è stata una leva efficace per
aprire un varco sulla questione dei confini di impresa e circa le conseguenze
che questo comporta nella gestione dei sistemi di fornitura; ma si tratta di un
contrattuale” che consiste nella sostanza nel mantenimento delle promesse definite in
fase di stipulazione del contratto, segue la “fiducia di competenza” che riguarda
essenzialmente un maggiore coinvolgimento tra cliente e fornitore anche sul terreno dello
scambio di competenze. Infine una terza forma definita goodwill trust che prevede
l’impegno implicito da parte del fornitore di prendere inziativa, introdurre innovazioni
(processo/prodotto), e determinare quindi un clima di cooperazione che si basa
sull’impegno implicito a svolgere attività di miglioramento in un contesto di assenza di
opportunismo.
24
Da qui emerge come, nel caso della fornitura la relazione contrattuale entra in
difficoltà quando non è in grado di affrontare compiti di “integrazione” (Richardson,
1972); questi infatti nel riconfigurare i confini dell’impresa al di fuori del suo perimetro
giuridico, richiedono investimenti sulle capacità di gestione delle interdipendenze che si
coagulano intorno al core business dell’impresa: «La cooperazione tra imprese risulta
piuttosto guidata dalla necessità di minimizzare i costi di apprendimento essendo questi i
costi maggiormente connessi con il governo delle complementarietà dinamiche relative
all’upgrading delle conoscenze e delle capacità dei partner» (Gargiulo, Mariotti, 1999,
267).
Dal just in time alla produzione modulare
33
“compagno di viaggio” che non è in grado di accompagnarci sino alla fine
del percorso. La teoria dei contratti risponde alle questioni riguardanti i
rischi di opportunismo che corrono le imprese in conseguenza della
strutturale incompletezza dei contratti; qui subentra invece un altro
interrogativo, nonostante l’incompletezza contrattuale dei contratti di
fornitura quali altri fattori intervengono nel determinare una strategia
efficiente dell’impresa?
Prende consistenza la prospettiva, che ritroviamo nel filone analitico
dell’economia dell’innovazione (Antonelli, 1999, Malerba, 2000) di analisi
orientata a vedere nelle imprese, ed in questo caso soprattutto quelle del
primo anello di fornitura, organizzazioni economiche sempre più
inseparabili dalla capabilities25 cognitive ed informative in loro possesso.
L’incompletezza contrattuale, in questo frangente non è più un elemento di
“disturbo” dell’attività organizzativa, quanto invece una condizione
“virtuosa” che richiede strumenti di rafforzamento del contratto informali
necessari per governare il surplus di investimenti necessari a fronteggiare le
contingenze impreviste, a generare “quasi-rendite” relazionali, ed
indirettamente salvaguardare il valore della relazione di fornitura (interfirm
–X efficiency).
Con un’espressione apparentemente paradossale, che ci riporta a
Durkheim, il governo dei contratti avviene non nonostante ma grazie al
ricorso ad elementi extracontrattuali.
Incompletezza e regolazione dei contratti di lavoro
Il processo di integrazione organizzativa e di coordinamento è possibile
grazie alla presenza di un altro tipo di incompletezza contrattuale, quella
relativa ai contratti di lavoro interni a ciascuna impresa.
Ripartendo dalla teoria dei contratti l’impresa si presenta anche al suo
interno come una connessione di contratti; in particolare contratti di impiego
che regolano l’erogazione delle prestazioni necessarie a garantire e
supportare l’attività economica dell’organizzazione. Tuttavia anche qui però
vengono in superficie i problemi legati all’incompletezza contrattuale, come
25
Sul concetto di apprendimento dinamico nelle imprese il riferimento va ad alcuni
autori I. Nonaka, T. Takeuchi – Knowledge Creating Company, Oxford University Press,
1995, Lundvall B.A., National Systems of Innovation, Pinter Publishers, 1992; N.J. Foss,
Capabilities and the Theory of Firm, Revue d’Economie Industrielle, vol.77, 1996; G.M.
Hodgson, Competence and Contract in the Theory of the Firm, Journal of Economic
Behavior and Organization, vol.35, 1998; R.N. Langlois, P.L. Robertson, Firms, Markets
and the EconomicChange: A Dynamic Theory of Business Institutions, Routledge
London, 1995; B. Loasby, Organizational Capabilities and the Interfirms Relations,
Metroeconomica, vol. 45, 1994
34
Dal just in time alla produzione modulare
fattore intrinseco ed inamovibile di ogni accordo tra soggetti portatori di
interessi differenti e talvolta conflittuali.
L’attenzione sui contratti incompleti e sui risvolti che questo comporta
nella struttura delle relazioni di lavoro, è una questione che percorre la
ricerca lavorista nelle sue diverse varianti (giuridica, economica e
sociologica)26. Il contratto si è costantemente presentato come uno
strumento incompleto anche nei rapporti di lavoro caratterizzati da una
pervasiva standardizzazione dei contenuti della prestazione; l’ideologia
razionalistica del taylorismo ha sempre dovuto fare i conti con la necessità,
imprescindibile, di azioni ed interventi del lavoro non esplicitamente
prescritti. La devianza dal territorio normativo formale ha puntellato in
modo costante l’organizzazione gerarchico-funzionale, costituendo un
elemento di garanzia del suo funzionamento (Crozier, 1969). Questo sotto il
profilo organizzativo.
Sul versante più giuridico il contratto di lavoro ha sancito la legittimità
di una asimmetria di poteri tra datore di lavoro e lavoratore; nella sua parte
esplicita il contratto sancisce dei vincoli all’arbitrio del datore di lavoro, il
quale però si riappropria di questo potere sul versante dell’organizzazione
del lavoro; nessun contratto si spinge sino alla descrizione delle mansioni,
con una legittimazione implicita delle figure datoriale e manageriali nel
determinare il contenuto della prestazione richiesta al singolo lavoratore27.
26
Già Marx metteva in rilievo come il contratto tra il datore di lavoro ed il lavoratore non
solo veniva stipulato all’interno di una relazione fortemente asimmetrica e diseguale, ma
lo stesso suo contenuto restava largamente indeterminato. Il contratto acquisiva in Marx,
così, lo strumento di istituzionalizzazione di un rapporto di autorità anche se il contraente
più debole veniva caratterizzato dallo status giuridico di una manodopera “formalmente
libera”.
27
La relazione per così dire dialettica tra l’organizzazione del lavoro e la struttura
autoritativa del rapporto di lavoro si svolgono, come ha scritto Perulli (1989), dentro un
vuoto normativo; esiste cioè una profonda separazione tra la zona del contratto e la zona
dell’impresa, intesa come potere direttivo; è la prassi sociale con la costruzione di norme
non esplicitate dal contratto a determinare “zone di accettazione” in cui specifici ordini
troveranno “obbedienza” senza resistenze (Perulli, 1989). Questo ha raccolto l’interesse
non solo di sociologi e giuristi, ma anche economisti: indicativo in questo senso il lavoro
pionieristico di Simon (1951) che mette in evidenza la discrasia tra il contratto di
impiego come scambio e la relazione autoritativa che scaturisce implicitamente dal
contratto. Ma questo non elimina il problema di fondo del «potere discrezionale del
“datore di lavoro” nel determinare l’oggetto del lavoro e le regole che di volta in volta
presiedono all’estrinsecazione del rapporto di subordinazione nella prestazione concreta
del lavoro» (Trentin, 1997, 226). Rimane cioè insoluta la contraddizione tra il benelavoro come bene scambiabile oggetto del diritto e la persona come soggetto del diritto.
Per un approfondimento su questi temi rinviamo a Supiot (1994), Trentin (1997).
Dal just in time alla produzione modulare
35
Nonostante l’ossessione prescrittiva del taylorismo inducesse ad una
produzione continua di norme di comportamento (regolamenti, accordi,
ecc.), costante è stata la separazione tra la dimensione economica
dell’impresa da quella organizzativa; il contratto di lavoro ha riguardato
prevalentemente la regolazione della contropartita alla prestazione insieme
ad una giurisprudenza sui diritti individuali del singolo lavoratore, ma ha
lasciato priva di copertura contrattuale l’organizzazione della prestazione.
Affidata, sempre da un punto di vista organizzativo, alla gerarchia aziendale.
La gerarchia è stato per lungo tempo il principale meccanismo di
gestione delle risorse umane interne all’impresa; cementata sul “principio di
eccezione”, essa è stata, ed in parte se pur ridimensionata costituisce ancora,
lo strumento di regolazione dei rapporti di lavoro.
Essa ha costituito un vincolo organizzativo finalizzato a canalizzare in
una sequenza predeterminata di fasi tutte le risorse organizzative (materie
prime, tecnologie, individui, saperi ed informazioni). Un vincolo giustificato
dalla ricerca del maggior controllo sui processi di lavoro e produzione, come
garanzia di efficienza organizzativa. A questi vincoli se ne sono opposti altri
provenienti dalle organizzazioni sindacali attraverso la contrattazione
collettiva: la negoziazione tra i diversi attori dell’impresa fordista aveva
come posta in gioco l’introduzione di limitazioni volte ad accrescere le
possibilità di condizionamento della controparte; ne scaturiva un potere
negoziale che nasceva dal controllo dei reciproci margini di incertezza
(Crozier, 1963), localizzati nelle aree a maggiore incompletezza
contrattuale, cioè quelle organizzative. Ad una configurazione aziendale
rigida si contrapponeva un orientamento sindacale altrettanto proteso alla
sedimentazione di rigidità incrementali.
Partendo da queste premesse l’obiettivo di questo paragrafo consiste
nell’analizzare come si trasformano i meccanismi di governance del
rapporto di lavoro, successivi al modello di matrice taylor-fordista, nella
divisione del lavoro all’interno di una filiera di prodotto, ed individuare in
questa trasformazione una tendenza allo slittamento verso forme di
regolazione improntate sullo status anziché sul contratto.
1. L’incompletezza contrattuale delle relazioni di lavoro è
particolarmente riconoscibile a partire da due variabili, recentemente
riproposte da Goldthorpe (2000):
a. Grado di difficoltà nel monitoraggio della prestazione di lavoro,
vale a dire il grado di difficoltà nel valutare la quantità di lavoro
erogato ed osservarne gli aspetti qualitativi.
36
Dal just in time alla produzione modulare
b. Grado di specificità delle risorse umane (capitale umano e
professionale) utilizzato dagli occupati nella loro performance di
lavoro, il grado di specificità misura il valore produttivo che andrebbe
perso se queste risorse venissero trasferite altrove.
Il passaggio dalla dimensione materiale alla dimensione processuale del
lavoro (Kern, 1991), propria di quei modelli di organizzazione del lavoro
successivi alla crisi del taylor-fordismo e raccolti intorno alla prospettiva
della lean production, ha determinato l’introduzione di forti elementi di
complessità nella prestazione e nel suo controllo. Le prestazioni industriali,
soprattutto, sono state investite di richieste sempre più orientate alla
manipolazione di simboli ed informazioni (Zuboff, 1988), unitamente allo
sforzo di tipo fisico-manuale, che invece è andato diminuendo.
I contenuti che presiedono il contratto di lavoro in un’impresa
fortemente caratterizzata dalla gestione di beni immateriali (simboli,
informazioni e saperi), più che focalizzati su uno scambio di certezze (gesti,
movimenti, operazioni, ritmi, orari), sono proiettati su uno scambio di
intenzionalità (impegno nel raggiungimento di obiettivi complessi,
interfacciamento tra più fonti informative, problem solving), difficilmente
riconducibili a grandezze quantificabili.
Questo genera un deficit di “misurabilità” che definisce anche la portata
della incompletezza dei contratti di lavoro; una quota consistente dei
contenuti della prestazione viene ulteriormente sottratta alla possibilità di
definirne in sede di stipulazione del contratto (il t0 nella Fig. I) i criteri di
regolazione.
Anzi l’avvicendarsi delle diverse forme di fornitura dal JIT e struttura
integrata sino all’outsourcing modulare può essere letta, sotto il profilo dei
contratti interni, come lo sviluppo di aree sempre più vaste di incompletezza
contrattuale. Questo procede parallelamente alla diffusione di sistemi
premianti differenziati, che contribuiscono a frammentare i mercati interni
del lavoro. Come ha sintetizzato Dore (1974), nella sua comparazione tra il
modello di produzione americano e quello giapponese, questo processo può
essere descritto come preminenza del rate for the job sul rate for the
person28.
28
Dore nel suo lavoro di ricerca, British Factory – Japanese Factory (1974), che può
essere considerato uno degli studi più ricchi e completi di sociologia industriale
comparata, mette in evidenza le profonde differenze tra il sistema organizzativo
aziendale nipponico e quello occidentale di tipo americano. Molti degli aspetti
considerati tipici del japanese system trovano ampio credito nella cultura manageriale
degli ultimi anni, a dimostrazione che l’importazione delle tecniche del just in time non
ha avuto solo conseguenze sul terreno della logistica ma aperto un varco nella
Dal just in time alla produzione modulare
37
Si sviluppano meccanismi di incentivazione29 all’interno di sistemi di
riconoscimento economico legati alla qualità della singola prestazione di
lavoro.
Viene così a configurarsi un intreccio tra indeterminatezza della
prestazione, sia in fase di stipulazione del contratto che in fase esecutiva, e
individualizzazione del sistema di incentivazione. Su questa relazione si
innesta un ulteriore elemento che riguarda le modalità di contrattazione del
rapporto prestazione/incentivi; se sono cioè l’esito di un’azione collettiva o
piuttosto il prodotto di una negoziazione individuale.
Però, l’alternativa tra azione individuale/azione collettiva non si è mai
proposta in una visione così netta e semplificata. Piuttosto il ricorso alla
contrattazione individuale ha ricoperto spesso un ruolo di complementarietà
all’azione collettiva; sin dall’esperienza del sindacalismo di mestiere, la
negoziazione individuale, strettamente connessa con il potere di mercato del
singolo lavoratore, si spingeva oltre l’azione collettiva per marcare una
differenza; quando cioè la contrattazione non riusciva ad incorporare
contenuti rivendicativi unitari partendo da interessi eterogenei.
In particolare sul fronte impiegatizio, Crozier (1963) ha sostenuto come
l’azione di ampie fasce del lavoro impiegatizio sia stata improntata ad una
sorta di “dualismo negoziale”, individuale in fase aggressiva e collettiva in
fase difensiva, quando cioè gli interventi del management costituivano una
minaccia a posizioni consolidate30. Azione individuale ed azione collettiva
sperimentazione “in terra straniera” di prospettive di gestione delle risorse umane,
consolidate da decenni in Giappone.
29
Questo elemento era già stato messo in evidenza da Max Weber quando ad una
situazione di lavoro affiancava una situazione di mercato; la loro compresenza non
aggiunge nulla di nuovo sul terreno degli strumenti di analisi; gli aspetti interessanti
vertono piuttosto sulla “combinazione” articolata e variabile di gerarchia e mercato.
30
Questa posizione è stata criticata da Chiesi (1988) soprattutto per la eccessiva
genericità con la quale si assumono concetti quali azione difensiva ed azione offensiva,
rimangono cioè indeterminati i contenuti che strutturano e presidiano gli obiettivi
dell’azione. Sotto il profilo metodologico questa critica è ineccepibile ma merita un
accenno quanto accaduto in Fiat circa trent’anni dopo il lavoro di ricerca di Crozier: qui
un ceto impiegatizio da sempre vicino alle posizioni manageriali e con un rapporto
difficile, talora di aperta ostilità con le organizzazioni sindacali, fu al centro di consistenti
interventi di prepensionamento, generando una frattura in quella “storica alleanza” che
aveva profondamente caratterizzato le relazioni industriali nella multinazionale torinese.
Leaders sindacali locali e nazionali assunsero presto il ruolo di interlocutori di quel
movimento, che sfociò nella dichiarazione di uno sciopero generale di quattro ore. Quella
forma embrionale di avvicinamento del ceto impiegatizio ancora oggi incontra ostacoli
nel trasformarsi in un rapporto reale di rappresentanza, ma il dato saliente è che in quella
vicenda, ed in quelle successive al febbraio 1994, si ripropose quel dualismo negoziale
38
Dal just in time alla produzione modulare
sono modalità costanti nelle relazioni di lavoro e nella loro gestione. Non
deve dunque sorprendere che in un sistema di produzione sempre più
caratterizzato dallo scambio di intenzionalità piuttosto che dallo scambio di
grandezze certe, il ricorso aziendale a forme sempre più individualizzate di
incentivazione della prestazione tenda non solo ad espandersi a danno delle
altre forme di contrattazione collettiva31, ma proceda anche secondo un
principio di sostituzione più che di complementarietà.
Questo fenomeno mostra tutta la sua evidenzia nelle occupazioni che
ruotano intorno alla figura del “lavoratore della conoscenza”, che, come
hanno evidenziato le più recenti ricerche (Bufera, Donati, Cesaria, 1997) in
merito, solo con una forzatura concettuale che ne snaturerebbe la specificità
è possibile far rientrare nella categoria del tecnico e dell’impiegato.
Appartiene alla categoria dei colletti bianchi ma con funzioni tecniche e con
un sostanziale ruolo di mediazione, prima di tutto cognitiva, essendo il
crocevia delle principali trasformazioni della conoscenza e del circuito di
trasmissione delle informazioni nell’impresa.
Sono knowledge workers i componenti di quella fascia di forza-lavoro
svolge un ruolo di “relè organizzativo” nel sistema integrato di fornitura e
nei casi di outsourcing modulare: coordinano attività, traghettano
informazioni lungo il sistema informativo inter-aziendale, elaborano nuove
conoscenze. Tali figure spesso non hanno una collocazione precisa, definita
da organigramma; sono piuttosto dislocate nelle aree dove maggiore è la
necessità di interventi di problem solving, possono così riguardare il tecnico
della progettazione come il professional in officina.
Queste sono collocate sui “bordi” dell’organizzazione, nei punti
nevralgici del sistema informativo che mette in connessione l’impresa di
che qualche decennio prima Crozier aveva rintracciato tra gli impiegati del Monopolio
industriale francese.
31
Nel suo saggio Goldthorpe definisce i contratti caratterizzati da un forte impiego di
risorse specifiche e da difficoltà di monitoraggio come “service relationship” – relativa
ad occupazioni collocate sulla parte alta della stratificazione sociale nel mercato del
lavoro – contrapposti ai “labour contract” - che invece descrivono prestazioni più povere
e più facilmente controolabili. Dentro questo continuum, Goldthorpe individua delle
forme miste, dove si ibridano i due “ideal-tipi” contrattuali. Lo scopo di Goldthorpe non
consiste solo nella mappatura delle occupazioni e della natura della loro differente
incompletezza contrattuale, il suo sforzo è anche diretto ad individuare il punto chiave
riguarda «come un contratto di lavoro può essere efficacemente elaborato, non solo per
quanto riguarda la sua configurazione ex ante, ma anche per quanto riguarda le
interpretazioni ex post che condizionano la sua implementazione quotidiana» (212).
Ripropone i temi chiave della teoria dei contratti, a partire dal fenomeno del
comportamento opportunistico nella relazione tra principale e agente (teoria
dell’agenzia). Cfr. Goldthorpe J., On Sociology, Oxford University Press, 2000.
Dal just in time alla produzione modulare
39
fornitura con quella finale; conoscono i segreti di quella “scatola nera” che è
la transazione commerciale di fornitura, sono in grado di orientarsi al suo
interno e di intervenire. Sia dal punto di vista operativo integrando attività e
fonti informative di diversa provieneza, sia sul terreno gestionale, di
supporto e mediazione nella gestione quotidiana e monitorata del contratto
stesso di fornitura, arginando i rischi di opportunismo post-contrattuale che
emerge quando intervengono eventi e criticità destabilizzanti le premesse
che hanno reso possibile l’accordo per la sua stipulazione.
Quanto più l’efficienza della relazione tra le imprese diventa
fondamentale per la qualità della cooperazione inter-aziendale tanto più la
loro specificità professionale cresce in importanza.
Ed è nel quadro di questa assunzione che diventa comprensibile
l’introduzione di sistemi premianti all’interno delle imprese. Il management
aziendale utilizza questi incentivi non solo nella logica di contenimento dei
rischi di “opportunismo post-contrattuale”, legati alla promessa di impegni
non direttamente osservabili nelle fasi successive alla stipulazione del
contratto di lavoro (un problema riconducibile al concetto di
“trasformazione fondamentale”, Fig. I), ma deve fare i conti con la crescente
esigenza di assicurare nell’organizzazione del lavoro l’impiego continuativo
di conoscenza tacita e l’impegno implicito di reimmetterla nel corso della
prestazione lavorativa soprattutto quando questa incontra delle anomalie che
la ostacolano (Giaccone, Piotto, 2000). La continuità nell’erogazione
dell’impegno non trova una regolazione contrattuale, o meglio più
precisamente non trova nella contrattazione collettiva e negli accordi che
questa esprime un riferimento normativo. La gestione di questo specifico
rapporto tra prestazione e sistema premiante si situa proprio laddove più
consistente è l’incompletezza contrattuale (Foss, 1999), cioè nella
definizione di condivisi schemi di riconoscimento di quel patrimonio di
sapere esperto che garantisce il governo delle criticità, estendendosi alla
produzione di quel bene relazionale costituito dalla integrazione interaziendale che presiede le forme più avanzate di fornitura industriale.
L’interazione tra gerarchia e mercato all’interno della relazione di
lavoro non costituisce, come è stato detto, un fattore originale nel governo
delle relazioni di lavoro; la strutturazione dei mercati del lavoro all’interno
dell’azione o tra imprese, come accade nei casi di cessione di ramo di
impresa o di partnership, era presente in forma più limitata e circoscritta ad
alcune fasce della forza lavoro aziendale. Ma comunque consisteva in un
fenomeno già presente nei modelli gerarchico funzionali di organizzazione
del lavoro.
40
Dal just in time alla produzione modulare
Il nodo del cambiamento risiede invece nel fatto che la natura
incompleta dei contratti di questi lavoratori diviene una risorsa
manageriale essenziale per gestire i rischi di un’altra incompletezza
contrattuale, quella che regola il rapporto di fornitura tra l’impresa finale e
le imprese appartenenti prevalentemente al primo livello di fornitura nelle
sue diverse forme (negli anelli successivi l’imprescindibilità del loro ruolo
andrà scemando perché diverso è il contenuto dell’impegno richiesto
all’impresa stessa).
Il vuoto lasciato dall’incompletezza contrattuale in queste relazioni di
lavoro viene riempito da forme sempre più estese di contrattazione
individuale sostitutiva, non più complementare, di quella collettiva.
Non rientrano in questo profilo lavorativo e professionale quei soggetti
della produzione il cui lavoro richiede una specificità minore di risorse e
comporta meno difficoltà nel monitoraggio della loro prestazione. Accanto
ad una core workforce chiamata a gestire i gangli vitali delle attività
organizzative dell’azienda si affianca invece una manodopera periferica
(peripheral workforce), in senso cognitivo e non spaziale, relativa a
professionalità più esecutive e con una minore porzione di sapere tacito
impiegabile nelle attività di assorbimento delle incertezze organizzative; non
solo, ma spesso caratterizzate da una maggiore “precarietà occupazionale”.
Questo dualismo di traiettorie lavorative e professionali ma anche di
“situazioni di mercato” (Cainarca, 1994, Cerruti, 1994) non deve trarre
nell’inganno della semplificazione eccessiva.
2. La proiezione di questi due tipi di forza lavoro non vuole riproporre
la tesi della “biforcazione” delle traiettorie di lavoro, e nemmeno assegnare
ai produttori di integrazione il ruolo di apripista nel formazione di una
“nuova classe operaia”, per riprendere un’espressione seguita agli studi e
ricerche di Touraine e Mallet; una creatura misteriosa formatasi sulle ceneri
del fordismo a cui passare il testimone della rappresentanza generale.
La frammentazione della forza lavoro industriale è un fenomeno
complesso ed articolato in molteplici specificità che cambiano al mutare
delle richieste organizzative rivolte alle prestazioni di lavoro, e questa
segmentazione ha delle conseguenze sulle risorse impiegate nella
contrattazione e quindi sul ricorso all’azione collettiva o allo status
individuale. Il dinamismo organizzativo porta con sé un’ampia variabilità
nella regolazioni delle transazioni, e quindi anche dei rapporti di lavoro.
Nella prospettiva taylor-fordista l’acquisizione di diritti contrattuali –
tramite l’introduzione crescente di vincoli attraverso la contrattazione
collettiva – assegnava al singolo lavoratore diritti civili e sociali di status;
Dal just in time alla produzione modulare
41
questo quadro normativo viene meno quando «il moderno status industriale
perde il carattere costitutivo di diritti civili e la funzione di meccanismo
politico di redistribuzione, diventando uno “stato” di possesso individuale
privato» (Streeck 1988, 713). La tendenza è quella che vede lo status
direttamente connesso con la posizione occupata dal singolo all’interno della
struttura del mercato interno dell’impresa di appartenenza, svincolata da
vincoli contrattuali che tendono ad indebolirisi quanto più la prestazione
diventa specifica ed immateriale: «ciò che qui sembra essere status, non si
basa sui diritti civili, ma su quelli di proprietà, e perciò non solo non è
trasferibile e generalizzabile mediante l’attività collettiva, ma non è neanche
utilizzabile come motore di redistribuzione e di giustizia egualitaria»
(Streeck, 1988, 717).
Questa situazione ridimensiona la portata dell’azione collettiva come
strumento di acquisizione di status attraverso il contratto o accordi di tipo
aziendale; cresce invece la contrattazione individuale che consegna la
negoziazione di tali sistemi di incentivazione alla distribuzione dei rapporti
di forza dell’impresa ed al potere di status del singolo lavoratore.
Questo dilata le prerogative del management nella regolazione di quelle
competenze che rendono possibile il governo delle interdipendenze
organizzative provenienti dai contratti di fornitura. La qualità della
transazione di fornitura non può fare a meno di considerare questo
spostamento dal contratto allo status; un processo che coinvolge non più
solo quelle figure professionali, storicamente sensibili agli obblighi di status
ed ostili all’azione collettiva, ma anche figure professionali emergenti, che
riconoscono nelle proprietà del proprio status individuale (capitale umano e
professionale) un canale privilegiato di regolazione del rapporto di lavoro.
I produttori di integrazione non sono rilevanti dal punto di vista
numerico, e nemmeno perché espressione di esperienze negoziali
storicamente sconosciute; la loro specificità consiste nella centralità
strategica della loro prestazione rispetto ai vincoli di competitività
dell’azienda stessa. Quanto più si centralizza il loro ruolo tanto più le
relazioni industriali perdono capacità di presa regolativa. Il dualismo non
comprime le differenze di “ceto” che si muovono all’interno dell’impresa in
una filiera di prodotto ma evidenzia due situazioni estreme in cui il risorso
allo status lancia una pesante sfida alle relazioni industriali
contrapponendosi ad esse nella regolazione dei rapporti di lavoro, e
confinando la contrattazione collettiva prevalentemente al ruolo di
rappresentanza e difesa di una forza lavoro che solo in alcuni rari casi opera
nel perimetro delle attività di core business.
42
Dal just in time alla produzione modulare
Il ricorso alla prospettiva dualistica viene giustificato dal fatto di
mettere in evidenza il legame profondo – intermediato dal peso delle
“incompletezze contrattuali” - che esiste tra le trasformazioni del sistema di
fornitura industriale e le modalità di regolazione dei mercati dei lavori,
quindi indirettamente dei limiti e delle potenzialità che si aprono sul terreno
delle relazioni industriali all’interno di una filiera di prodotto, soprattutto,
come vedremo nella seconda parte di questo lavoro, partendo
dall’architettura contrattuale successiva all’accordo del 23 luglio 1993.
d.
SECONDA PARTE
La ridefinizione dei confini d’impresa nella filiera di prodotto
mette in discussione l’attuale modello di relazioni industriali?
Il Protocollo del 1993 può essere considerato nelle relazioni industriali
italiane il testo “costitutivo” della concertazione; esso definisce le
coordinate della politica dei redditi e di un nuovo sistema contrattuale.
In questo lavoro il versante macroeconomica della politica dei redditi
verrà lasciata sullo sfondo, mentre l’attenzione sarà focalizzata sugli aspetti
di contrattazione collettiva aziendale, in particolare sul profilo delle
relazioni industriali all’interno di un una struttura modulare del ciclo di
prodotto.
Infatti, nella prima parte dedicata al percorso di approdo ad una nuova
configurazione del ciclo di prodotto, incardinata sulla produzione modulare
la quale trova come vincoli organizzativi la qualità della transazione
commerciale come terreno di gestazione e produzione di “beni relazionali”
(relational quasi rent). Questi beni sono “semilavorati cognitivi” (saperi,
professionalità, tecnologie di coordinamento, informazioni) che
intervengono nelle situazioni di criticità e supportano la gestione
dell’interdipendenza aziendale, e si addensano intorno al profilo
professionale di figure di interfaccia, non necessariamente collocate in una
specifica funziona aziendale, ma distribuiti lungo il processo produttivo,
anche in prossimità delle occupazioni a carattere più esecutivo.
Professionalità di “confine” che talvolta assumono la fisionomia del
“lavoratore della conoscenza” o più genericamente del lavoro come
permanente problem solving.
La regolazione di questa produzione di beni immateriali sfugge alla
capacità di “presa diretta” da parte dei contratti interni (rapporti di impiego)
ed dei contratti commerciali tra imprese. Anzi prima con la partnership e
successivamente con l’outsourcing modulare non solo il contratto si rivela
Dal just in time alla produzione modulare
43
uno strumento parziale nella determinazione della qualità dell’output finale,
ma è necessario ricorre a risorse extracontrattuali (legami fiduciari interorganizzativi, e gestione delle risorse umane improntate allo status
individuale) per garantire un’efficiente gestione dei rapporti commerciali.
Questo fenomeno non può essere letto come residuale o come
sopravvalutazione di una contingenza storica, ridimensionabile nel breve
periodo. Il governo delle incertezze è un vincolo organizzativo, che aumenta
di valore quanto più l’organizzazione si snellisce e riduce i tempi di risposta
alle richieste dei mercati.
Il filo dell’argomentazione che ispira questa riflessione va ricercato non
solo nel tentativo di cimentarsi con le problematiche che i processi avanzati
di terziarizzazione sollevano genericamente sulle relazioni industriali, ma
proprio partendo dal Protocollo e dalle sue intrinseche potenzialità.
Intrinseche, perchè la struttura contrattuale del 1993 definisce le coordinate
di un sistema di contrattazione da cui si possono sviluppare molteplici
possibilità di adattamento ai contesti organizzativi aziendali senza che
questo ne minacci l’orientamento regolativo.
Verranno dunque presi in considerazione tre aspetti della contrattazione
in relazione ai processi di outsourcing modulare e di fornitura integrata: il
mutamento dei confini dell’impresa, la struttura partecipativa veicolata dal
salario variabile, ed infine la rappresentanza sindacale.
a) Confini di impresa e contrattazione aziendale.
La vicenda storica del contratto collettivo aziendale trova nel
Protocollo del 23 luglio 1993 una coerenza giuridica di complementarietà
con il livello contrattuale nazionale e di categoria, non la sua origine. La
presenza della contrattazione decentrata nelle relazioni industriali italiane,
nonostante venga fatta formalmente risalire alla stipulazione nel 1962
dell’accordo tra le federazioni dei lavoratori metalmeccanici e le
associazioni Intersind ed Asap (Giugni, 1996), percorre la storia delle
organizzazioni sindacali ed è presente, come realtà fattuale, sin dalle
esperienze contrattuali degli anni ‘5032. Attraversa il ciclo di lotte ’68-’72
dell’autunno caldo e resiste nella prassi sindacale anche quando il baricentro
delle relazioni industriali si sposta sulla sponda della centralizzazione degli
istituti contrattuali (si pensi alla tematica del neo-corporativismo e dello
“scambio politico”) per assumere nella metà degli anni ’80 la configurazione
32
Per una ricostruzione del percorso giuridico dell’istituto del contratto collettivo
aziendale dagli anni ’50 agli anni ’80 rimandiamo al saggio di R. Del Punta, “Il contratto
collettivo aziendale”, M. D’Antona (a cura di), Letture di diritto sindacale, Napoli,
Jovene, 1990.
44
Dal just in time alla produzione modulare
di “micro-concertazione appartata” (Regini, 1991); una prassi di regolazione
del rapporto di lavoro che sfugge al controllo sindacale e talvolta è in
implicita polemica con esso, ma che si rivela essenziale nelle “strategie di
riaggiustamento industriale” (Regini, Sabel, 1989).
L’accordo del 1993 si colloca nel quadro di un tentativo ambizioso di
trovare un equilibrio dinamico tra una politica macroeconomica dei redditi
finalizzata al contenimento della dinamica salariale attraverso lo strumento
dell’inflazione programmata e gli istituti della contrattazione collettiva, ed in
particolare quella decentrata; la quale assume un ruolo complementare di
integrazione alle materie trattate esplicitamente dal contratto nazionale, e di
recupero del gap salariale non più erogabile attraverso gli automatismi della
indicizzazione dei salari nominali rispetto alle variazioni dei prezzi al
consumo (scala mobile).
I due livelli di contrattazione (centralizzata e aziendale) non si trovano
in una rapporto di competizione, quanto piuttosto di complementarietà: il
principio di “alternatività” tra i livelli negoziali viene finalizzato a stabilire
dei “raccordi oggettivi” tra le reciproche aree di competenza. Da un lato il
rapporto è gerarchico, con il contratto nazionale che definisce le materie di
competenza della contrattazione decentrata, e dall’altro è funzionale33 in
quanto viene riconosciuto a ciascun livello un’autonomia di
specializzazione, che assegna alla contrattazione decentrata competenze
riguardo la crescita retributiva e la definizione dei premi di produzione
(Bellardi, 1997, 1999).
Ciononostante, sarebbe limitativo leggere il profilo della contrattazione
decentrata secondo una prospettiva “salarialista”, ingenerosa verso le
intrinseche potenzialità dell’accordo interconfederale. Questa costituisce,
senza dubbio, una componente centrale. Il sindacato ha la responsabilità di
contrattare tutta la materia salariale», ma il suo ruolo non si esaurisce in
compiti di regolazione economica di mera redistribuzione economica.
33
Se seguiamo il contributo di Bellardi per funzionale si intende «la competenza in
materia di “erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella
realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di
produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati
all’andamento economico dell’impresa”, con l’unico vincolo – di tipo quantitativo – che
non vengano impiegati i margini di produttività già realizzati dal livello nazionale per gli
incrementi retributivi. La definizione della disciplina della contrattazione decentrata a
contenuto economico spetta comunque al contratto di categoria, al quale però, proprio in
applicazione del criterio della specializzazione, dovrebbe risultare inibita la possibilità di
dettare in materia una regolamentazione che in sostanza, se non formalmente, esautori o
limiti fortemente l’autonomia della contrattazione di secondo livello in materia»
(Bellardi, 1999, 130-131).
Dal just in time alla produzione modulare
45
La riforma delle relazioni industriali che esce dal Protocollo risponde
anche ad una esigenza, emersa con la prassi “nascosta” della microconcertazione verso la fine degli anni ’80 ed accelerata dalla crisi del
modello consiliare34 fondato sull’omogeneità dei rappresentati (il delegato
del “gruppo omogeneo”), di ridefinizione della rappresentanza sindacale che si conclude con il riconoscimento formale della rappresentanza
sindacale unitaria (RSU).
Può sembrare azzardato, ma è su questo secondo versante che è
possibile rintracciare il filo rosso che lega la prospettiva del “sindacato
consiliare”, uscito dall’autunno caldo del 1969, con le rappresentanze
sindacali unitarie: queste configurano il sindacato come agente contrattuale
impegnato nel conseguimento di strategie di controllo sull’organizzazione
della prestazione, non limitata alla sua componente salariale. Il sistema
contrattuale successivo al Protocollo non si limita quindi a regolare un
conflitto redistributivo ma si spinge, almeno potenzialmente, sulla soglia del
governo dell’impresa.
Accanto ad una proiezione del sindacato come regolatore di equità
sociale nella determinazione delle politiche redistributive viene riportata in
superficie la sua vocazione contrattuale in termini di attore di giustizia.
Come era accaduto con i “consigli dei delegati” l’organizzazione sindacale
decide di proiettarsi sul terreno della contrattazione con l’ambizione di
incidere sugli istituti salariali ma anche sulle condizioni di lavoro in cui si
svolge la prestazione lavorativa, le sue cadenze, i suoi ritmi, la sua
dimensione ergonomica e l’impatto sulla salute. La centralità dei Consigli, e
la sua parabola storica, tuttavia è inseparabile dallo scenario economico e
produttivo in cui essi hanno avuto origine e dalla mobilitazione collettiva
che ne ha reso possibile lo sviluppo.
Le differenze con il sistema contrattuale e con i modelli di
organizzazione della produzione che emergono dalla crisi del fordismo
proiettano l’organizzazione sindacale e la sua rappresentanza su uno
scenario radicalmente mutato, ma rimane inalterata quella doppia vocazione
contrattuale che percorre la storia del sindacalismo, in particolare quello
italiano, sin dalle sue origini; quella cioè di essere insieme regolatore
nell’allocazione delle risorse ed attore nella rappresentanza inclusiva di
interessi eterogenei. Due elementi che accompagnano l’evoluzione della
contrattazione
collettiva
da
una
configurazione
di
tipo
34
Per un approfondimento circa le ragioni di crisi del modello consiliare di
rappresentanza sindacale italiano rimandiamo alla ricerca empirica di I. Regalia (1984),
ed in una prospettiva comparata con il mondo industriale europeo e nordamericano al
volume curato da Streeck e Rogers nella metà degli anni ’90 (1995).
46
Dal just in time alla produzione modulare
redistributivo/normativo ad una invece incardinata su criteri di
“partecipazione” (Negrelli, 2000). Quest’ultimo rimane un concetto carico
di forti ambiguità, la ricchezza dei significati a cui rimanda non è solo un
fattore semantico, rimanda piuttosto a prospettive diverse di intendere le
modalità di cooperazione tra management e lavoratori. Tuttavia, l’indirizzo
partecipativo, al di là delle sue diverse connotazioni, descrive il passaggio
da un sistema negoziale fondato sullo scambio di grandezze certe (orari,
ritmi, controprestazioni, incentivi) ad un sistema che invece comprende in
modo esteso la contrattazione di volontà, di intenzionalità non facilmente
quantificabili.
È il processo parallelo a quanto avvenuto sul terreno delle relazioni tra
imprese all’interno di un sistema integrato o modulare di fornitura.
La rappresentanza sindacale unitaria nelle imprese si trova così
immersa in questa sorta di “ambivalenza virtuosa” tra l’essere il collettore di
interessi (sempre più articolati e frammentati) ed un produttore di “beni
collettivi” (come ad esempio la salvaguardia della cooperazione necessaria a
conseguire la competitività aziendale, o la continuità di immissione di
sapere tacito nella regolazione del processo produttivo e nelle attività di
problem solving). È dalle caratteristiche di questa “ambivalenza” che
l’azione sindacale in azienda emerge come un insieme di attività di
“contrattazione partecipativa” (Carrieri, 1996, 2001), in cui non solo si
alternano conflitto e cooperazione, questo con modalità variabili è sempre
avvenuto; il punto di svolta riguarda piuttosto la “posta in gioco” che genera
esiti negoziali con un’impronta cooperativa piuttosto che conflittuale. Nel
sistema fordista era rappresentata dal governo delle rigidità; ovvero da
quanto i vincoli imposti dalle rivendicazioni sindacali riuscivano a limitare
l’azione del management espressione di una struttura organizzativa
altrettanto rigida.
La nuova “costituzione” delle relazioni industriali pone al centro della
negoziazione aziendale il nodo della competitività aziendale, che costituisce
un obiettivo condiviso della rappresentanza dei lavoratori e del management
aziendale. Una sorta di “meta-vincolo” assunto dagli attori (management e
sindacato) quale limite invalicabile nella esplorazione delle soluzioni
negoziali. Una competitività resa instabile dalla internazionalizzazione dei
mercati, dall’accellerazione delle sue necessità di autocorrezione e
miglioramento, in un contesto di forte riduzione della ridondanza delle
risorse, che il fordismo invece utilizzava come polmone di assorbimento
delle istanze sindacali.
Questi elementi erano già venuti in superficie con la diffusione della
lean production e con essa la tendenza al decentramento della contrattazione
Dal just in time alla produzione modulare
47
collettiva; il profilo della fornitura integrata e quello dell’outsourcing
modulare non solo accentuano la centralità dei vincoli di competitività ma lo
fanno in un contesto che sbiadisce i confini organizzativi delle imprese.
La competitività non è governabile solo in termini di economia
aziendale, necessita invece di elementi che configurano una sorta di
“economia reticolare”; ovvero di efficienza nella gestione degli scambi e
delle transazioni che compongono la rete di fornitura, ma soprattutto nella
produzione di quel bene collettivo che riguarda l’integrazione delle attività
che concorrono allo sviluppo e produzione di un prodotto o di un servizio.
La competitività è dunque strettamente connesso alla qualità della relazione.
In questo scenario, l’assetto contrattuale formalizzato dal Protocollo del
23 luglio 1993 incontra alcune difficoltà, che emergono a partire da alcuni
interrogativi che strutturano un sistema di relazioni industriali: quali
contenuti assume la contrattazione a partire da uno dei fattori fondanti la
“partecipazione”, ovvero il salario variabile, quali risorse e modalità
vengono utilizzate in fase negoziale (azione collettiva e azione individuale),
ed infine la rappresentanza relativa a “chi rappresenta chi”. Interrogativi che
cercheremo di approfondire nei prossimi paragrafi.
a) Parametri di contrattazione del salario variabile.
Con il protocollo 1993 una quota degli incrementi salariali viene
agganciata alle variazioni della performance aziendale, attraverso l’utilizzo
di una gamma variegata di indicatori attraverso i quali viene misurato e
calcolato il “premio di risultato”. Questi possono essere raccolti in quattro
categorie: parametri tecnico-produttivi, o gestionali, finalizzati ad una
valorizzazione del fattore lavoro nel conseguimento di obiettivi produttivi
concordati nell’accordo integrativo (qualità, quantità, riduzione degli sprechi
e degli scarti); parametri economico-aziendali, o finanziari, legati alla
redditività dell’impresa (margine operativo lordo, profitto netto, reddito
operativo lordo, ecc.); parametri di presenza e parametri di sicurezza, questi
ultimi connessi con l’implementazione della normativa sulla sicurezza sul
lavoro. Se escludiamo gli ultimi due, i parametri finanziari e quelli tecnico
produttivi costituiscono il volume più rappresentativo ed esteso delle
materie di contrattazione aziendale.
L’obiettivo comune a questi parametri è quello di “incentivare lo sforzo
lavorativo”, con una redistribuzione degli incrementi di produttività, o
attraverso la suddivisione del “rischio di impresa” tra l’impresa ed i
lavoratori, o ancora attraverso meccanismi di partecipazione agli utili
dell’azienda (Auleta, Fabbri, Melotti, Pini, 1999). Questa tipologia può
essere ulteriormente semplificata, se si procede con una loro aggregazione
48
Dal just in time alla produzione modulare
sulla base della vicinanza o lontananza dalla prestazione: se i parametri sono
centralizzati il meccanismo del salario variabile avviene senza una rilevante
incidenza del singolo sulla regolazione della erogazione del premio, laddove
invece i parametri sono centralizzati sul luogo della prestazione l’incidenza
aumenta, e con essa si sviluppano possibilità di intervento, in sede
negoziale, sull’organizzazione del lavoro. In quest’ultimo caso il salario
variabile viene agganciato ad opportunità di contrattazione della
organizzazione della prestazione, ed indirettamente sulla qualità del lavoro.
Un altro aspetto comune è che i parametri che definiscono i criteri
redistributivi del premio di risultato sono calibrati sulla performance della
singola azienda, come soggetto economico autonomo: la sua redditività, la
sua produttività, la qualità di processo e di prodotto. Viene esclusa la
dimensione inter-aziendale che, come abbiamo visto emergere nel sistema di
fornitura di un ciclo di prodotto, condiziona fortemente la qualità delle
attività produttive, ed in ultima istanza l’andamento aziendale. La
reticolazione dei rapporti nella catena di fornitura, in particolare finale e
primo anello di fornitura, rende spesso indistinguibile il confine che separa il
valore aggiunto immesso nel ciclo di prodotto dalle singole organizzazioni.
In altri termini una parte consistente del valore aggiunto immesso da interi
gruppi di lavoratori non viene compreso dai parametri che definiscono il
premio di risultato nelle sue diverse forme35.
A questo si aggiunge un ulteriore elemento distorsivo: imprese finali e
del primo livello di fornitura pur partecipando ad un comune ciclo di
prodotto possono fare riferimento ad inquadramenti contrattuali distinti (con
imprese finali che implementano il CCNL di una categoria e l’impresa di
fornitura che fa riferimento ad un contratto differente). Accanto a questa
disomogeneità contrattuale, è particolarmente diffuso un secondo fattore di
distinzione e riguarda la disomogeneità dei sistemi premianti e di
35
Un approccio inter-aziendale spinge anche nella direzione di un aggiornamento delle
metodologie e degli schemi di analisi che si sono cimentati con il tema della
contrattazione. Un riferimento particolare va allo schema di H.A. Clegg (1976), ancora
recentemente utilizzato per inquadrare il fenomeno della contrattazione aziendale (Cella,
Treu, 1998) e per indagarne empiricamente la natura, l’estensione, la profondità, i
contenuti, le prerogative ed il grado di controllo sui meccanismi di implementazione
degli accordi (Bordogna, 1997). Uno strumento che mantiene la sua efficacia non solo
per inquadrare la contrattazione decentrata aziendale, ma che nei casi di filiera integrata o
di outsourcing consentirebbe, a partire dalle sue variabili costitutive (estensione,
coinvolgimento delle rappresentanze sindacali, grado di controllo, portata) di misurare il
discostamento, alla stregua di un “ideal-tipo” weberiano, tra la contrattazione
effettivamente svolta e le implicazioni problematiche che il mutamento dei confini di
impresa solleva sul terreno negoziale complessivo.
Dal just in time alla produzione modulare
49
incentivazione tra le imprese di fornitura. Tecnici e professionisti di due
imprese giuridicamente distinte possono lavorare quotidianamente ad un
progetto che prevede una interazione continua di condivisione non solo di
saperi ed informazioni ma anche dello stesso spazio fisico, con retribuzioni
variabili che fanno capo a premi di risultato misurati su parametri della
stessa categoria ma calcolati diversamente, o su categorie distinte
(gestionali, finanziari), o ancora uno dei due gruppi di lavoratori può non
fare riferimento ad alcun accordo “collettivo” che regoli l’incentivazione
dello sforzo lavorativo.
Nonostante la crescente interdipendenza tra le imprese della filiera di
fornitura renda indefiniti i confini organizzativi dell’azienda, la regolazione
collettiva del salario variabile continua a fare appello a parametri
rigidamente calcolata sulla prestazione della singola impresa. Con una
perdita di capacità di presa diretta sui mutamenti organizzativi e sulla
varaiabilità dei contributi che provengono dall’attività lavorativa. La
contrattazione collettiva del salario variabile, anche nelle sue versioni più
dinamiche ed ambiziose, si arresta sui confini giuridici dell’impresa.
Ma la contrattazione del salario variabile non è solo un fenomeno
collettivo, è anche il risultato di negoziazioni individuali; e la loro
disposizione è altamente variabile. Può comprendere la prassi diffusa di
un’integrazione salariale “fuori busta” soprattutto nel tessuto delle PMI, e
può riguardare operai specializzati o figure professionali altamente
qualificate, con compiti di elaborazione cognitiva di saperi ed informazioni,
all’interno di realtà industriali di dimensioni più consistenti. In questo senso,
la negoziazione individuale del salario variabile è un fenomeno trasversale
scarsamente correlato con condizione dimensionale dell’azienda. Nel caso
delle imprese di fornitura, specie quelle collocate nei primi anelli della
catena, riguarda proprio quei lavoratori della conoscenza che rientrano nella
categoria dei produttori di integrazione. Sono queste figure strategiche a
rappresentare le maggiori articolazioni di status e contratto; il loro salario
variabile per una parte viene regolato dagli accordi prodotti dalla
contrattazione collettiva in azienda, e per un’altra parte sono l’esito della
capacità del singolo lavoratore di utilizzare il proprio potere di mercato nel
gioco negoziale con il management. Un fenomeno ampiamente conosciuto
che ha riguardato tutta la storia della sindacalizzazione degli impiegati e dei
tecnici, e che ora si ripropone riportando all’attenzione la questione centrale
dei riconoscimenti di professionalità e le sue modalità di regolazione
economica.
50
Dal just in time alla produzione modulare
b) Produttori di integrazione e salario professionale
Una linea interpretativa che ha attraversato il dibattito sul salario
variabile, istituzionalizzato con il Protocollo del 1993, tendeva non solo a
riconoscere nel potere negoziale del sindacato uno strumento di
rafforzamento del potere d’acquisito delle retribuzioni, ma anche
un’opportunità per regolare collettivamente la frammentazione dei profili
professionali, individuando “regole certe” di corrispettivo economico e
sanando così la frattura prodotta negli anni precedenti dalla strategia
dell’egualitarismo salariale (Bellardi, 1999); che può essere, senza eccessive
forzature, assunta tra gli elementi che hanno concorso allo sviluppo di quella
“micro-concertazione appartata” che si svolgeva all’ombra della
contrattazione collettiva.
Nel panorama degli studi empirici che in questi anni hanno svolto
un’operazione di monitoraggio sulla contrattazione aziendale (Bellardi,
Bordogna, 1997), i temi riguardanti l’organizzazione del lavoro, ed in
particolare la ridefinizione dei parametri di valutazione dei profili
professionali presenti nell’organizzazione ricopre un peso residuale nel
panorama complessivo degli accordi integrativi. C’è un problema di
rappresentanza sindacale, come vedremo successivamente, ma sulla scarsa
“contrattazione del sapere” pesa l’obsolescenza delle declaratorie
dell’inquadramento professionale e della job evaluation, che vale non solo
per figure professionali altamente qualificate ma anche per tecnici ed operai;
in particolare, emerge con tutta la sua complessità, il ritardo nella
definizione di criteri di valutazione ed inquadramento del sapere
professionale dato dal rapporto tra le competenze professionali possedute
dal singolo, l’organizzazione del lavoro e l’oggetto della sua attività
lavorativa. La contrattazione del sapere professionale, di cui il suo
riconoscimento retributivo è una componente, non può dunque essere scisso
dai criteri di classificazione e sviluppo professionale36.
36
A questo proposito Butera (1997) mette in evidenza la necessita di riconfigurare tali
sistemi secondo la nozione di “ruolo”: il ruolo può essere atteso o agito. Nel primo caso
si tratta di un ruolo che deriva dall’assegnazione della gestione di uno specifico segmento
del processo produttivo; mentre nel secondo caso il ruolo rappresenta la “fenomenologia
della prestazione individuale”, e riguarda la prestazione contestualizzata
nell’organizzazione del lavoro insieme ai risultati conseguiti. Questa impostazione la
necessità di adeguare il sistema di classificazione alla natura dinamica del processo
produttivo in cui viene sviluppata la prestazione. Distanziandosi dal modello tayloristico,
invece imperniato su una logica statica di stabilità, regolarità e prevedibilità della
mansione che coincideva con il compito da svolgere. Una posizione complementare a
questa (Cerruti, 1997) è quella che vede nei nuovi sistemi di classificazione degli aspetti
che vanno altamente salvaguardati; l’unicità della classificazione delle capacità
Dal just in time alla produzione modulare
51
Da qui emerge che l’incompletezza contrattuale, derivante dalla
inadeguatezza delle categorie di riconoscimento delle professionalità, lascia
spazio, in assenza di una regolazione contrattata, alla gestione unilaterale del
sapere organizzativo da parte del management aziendale, per la produzione
continua di beni relazionali37 necessari al governo delle interdipendenze.
La regolazione di questi beni collettivi non si svolge tuttavia all’interno
di un “vuoto normativo”; via via che la prestazione incorpora esigenze di
specificità difficilmente misurabili con parametri “oggettivi” di valutazione
quantitativa, la produzione dei beni relazionali risulta svincolata dalla
contrattazione collettiva.
Si riaffaccia, così, la questione riguardante non tanto la garanzia di uno
stato di “pace sociale in azienda”, ma più estesamente la concertazione delle
regole di produzione di beni collettivi «senza pregiudicare il livello di
coesione e di cooperazione (nell’ottica dell’impresa), o di solidarietà
(nell’ottica del sindacato), senza il quale il sistema sociale dell’azienda
rischia di disgregarsi e perdere in efficienza – e il sindacato di venire meno»
(Regalia, 1996, 260). In altro termini l’inaridimento delle relazioni
industriali a vantaggio di relazioni di impresa, fa venire meno i presupposti
della “contrattazione partecipativa”, ma produce anche effetti negativi nel
medio periodo per la coesione stessa delle imprese.
Sul versante sindacale la questione della negoziazione individuale ha
trovato uno sviluppo lungo due direzioni: di assorbimento e di
contrattazione differenziata.
La prima strategia regolativa è finalizzata a riportare sul terreno della
contrattazione collettiva ogni iniziativa individuale di confronto con il
management riguardo la definizione del sistema premiante nel suo
professionali e gli aspetti retributivi connessi, il mantenimento di sistemi di
classificazione delle competenze professionali possedute dal lavoratore e non dalle
competenze richieste dalle diverse attività, ed infine la riaffermazione del salario
professionale come forma di remunerazione delle capacità professionali.
37
Una delle caratteristiche principali di questi beni relazionali consiste nella sua
“perifericità”; in questo modo si capovolge l’impostazione che aveva caratterizzato il
modello keynesiano-fordista, secondo il quale il mercato, come forma di regolazione
sociale incardinata sul principio della competitività dispersa degli attori, fosse incapace
di garantire la produzione di quei beni collettivi, che invece venivano generati attraverso
politiche pubbliche negoziate a livello centrale (Regini, 1994). Ora questi vengono
riprodotti ad un livello decentrato, e soprattutto senza una rete di coordinamento che
leghi i singoli processi periferici. Molteplici saperi interdisciplinari che garantiscono
l’integrazione dei processi nella filiera e strutturano il patrimonio di conoscenze dei
diversi profili di lavoratori della conoscenza trovano nell’impresa e nel suo tessuto di
relazioni il terreno più appropriato di formazione, che è inseparabile da processi di
learning by doing, ma soprattutto di learning by interacting
52
Dal just in time alla produzione modulare
complesso, ovvero ogni contatto avente come posta in gioco la
determinazione della relazione salario/prestazione. È evidente che questa
prospettiva si muove su uno sfondo che vede l’azione collettiva contrapposta
ed alternativa a quella individuale.
Un secondo indirizzo, invece, ribalta questi presupposti individuando
l’azione individuale come un’azione capace di essere complementare a
quella collettiva. La scelta della negoziazione individuale da parte di alcune
fasce professionali non è sempre una soluzione di ripiego in attesa di una più
adeguata capacità di intervento dell’attore sindacale. Il problema della
rappresentanza di questi “ceti organizzativi” esiste, ma la contrattazione
individuale contiene anche una forte componente di intenzionalità, che si
intreccia con la preservazione di uno status ed è anche alla base di
un’autorappresentazione identitaria del singolo lavoratore (Regalia, 1988,
Butera, 1997). Il problema, quindi, non riguarda l’asciugamento progressivo
delle aree che trovano come modalità regolativa il “potere di mercato” dei
singoli produttori di integrazione, per ritornare sul terreno specifico del
contesto produttivo di partenza, ma la sua regolazione, non più
unilateralmente manageriale.
Sul filo di questo ragionamento, la contrattazione collettiva diventa il
luogo privilegiato di formazione delle regole attraverso le quali avviene il
gioco negoziale tra il singolo lavoratore ed il management. In altri termini,
la contrattazione collettiva in azienda è la fonte normativa della
contrattazione individuale.
Sul terreno del salario professionale e più estesamente della
contrattazione del sapere i fenomeni di outsourcing e filiera avanzata non
arricchiscono di nuovi contenuti la questione delle relazioni industriali
allargate alle varie articolazioni professionali; piuttosto ne accentua la
condizione critica, via via che cresce l’importanza strategica di quei
lavoratori non coinvolti dalla contrattazione collettiva.
c) Coinvolgimento sindacale e terziarizzazione avanzata.
Tutta la questione della contrattazione del sapere incrocia uno dei temi
più classici delle relazioni industriali: la rappresentanza sindacale e le sue
possibilità di incidere sui processi decisionali aziendali, o in questo caso
inter-aziendali.
Il tema del coinvolgimento delle rappresentanze sindacali fa riferimento
a quegli strumenti di controllo che prevedono la trasmissione da parte
dell’azienda delle informazioni sull’andamento e sulle prospettive aziendali
e possono dare vita a commissioni bilaterali, talvolta paritetiche, che
Dal just in time alla produzione modulare
53
vengono ad assumere la fisionomia di tavolo negoziale permanente di
verifica e controllo nelle fasi di implementazione degli accordi38.
La struttura della rappresentanza sindacale unitaria che emerge dal
Protocollo del ’93 interviene su alcuni nodi problematici che avevano
accompagnato il sindacato consiliare – ricordiamo tutto il complesso
dibattito sul canale doppio o unico della rappresentanza; non ha solo
proceduralizzato i meccanismi di selezione della rappresentanza, essa
restringe anche quei margini di “informalità” che avevano caratterizzato il
modello precedente (Regalia, 1995).
Senza entrare nei dettaglio del ricco dibattito sulle forme di
organizzazione sindacale, il tema della rappresentanza emerge
prepotentemente nei sistemi di fornitura, soprattutto quelli integrati o legati
a forme di outsourcing modulare. Viene in primo piano la questione della
rappresentanza contrattuale, ovvero gli interessi vengono “coperti” dai
processi negoziali tra le parti (Carrieri, 1995). Se la rappresentanza sociale
trova un elemento di regolazione attraverso la verifica elettorale con
procedure riconducibili a quelle della democrazia rappresentativa, che le
consente di trovare un’ampia legittimazione, la sua rappresentanza
contrattuale è l’esito della capacità dell’attore sindacale di negoziare un
numero sempre più alto di contenuti, espressione di interessi eterogenei. La
sua capacità inclusiva detta la misura della rappresentanza contrattuale del
sindacato. È questa infatti l’arena dalla quale emergono i maggiori
interrogativi quando il tema della rappresentanza incrocia i processi di
terziarizzazione avanzata.
Partendo proprio dalla trasformazione dei sistemi di fornitura emergono
due fattori di difficoltà della rappresentanza riscontrabili sul terreno
dell’estensione inter-aziendale e dell’estensione intra-aziendale della
rappresentanza. Da un lato il ciclo di prodotto, che vede imprese coinvolte in
una struttura reticolare dove la collaborazione richiede crescenti
investimenti in risorse di integrazione e di interfacciamento delle attività
fondate sulla centralità della singola impresa, vede la rappresentanza
sindacale limitata nella sua attività di “contrattazione partecipativa” (tra cui
38
Occorre tenere presente che i “diritti di informazione”, vengono disciplinati dal
contratto collettivo nazionale di lavoro e prevedono procedure di implementazione non
omogenee che variano a seconda dei tipi di contratto; prevedendo talvolta procedure di
implementazione di verifiche tecniche, informative, sui risultati o di valutazione
preventiva. In altri termini il diritto di informazione è ugualmente riconosciuto, ciò che
muta sono le procedure di implementazione che sono l’esito del potere negoziale delle
parti in fase di stipulazione del contratto, e successivamente degli accordi aziendali. Per
una ricostruzione di questa disciplina contrattuale e dei suoi risvolti sulle relazioni
industriali: Negrelli S., Treu T (1985).
54
Dal just in time alla produzione modulare
il salario variabile) ai confini giuridici dell’azienda, non a quelli
organizzativi. Dall’altro lato, all’interno della singola impresa permane la
difficoltà a spingere la rappresentanza oltre i confini consolidati ed
estenderla a quei “ceti di fabbrica” qualificati, che svolgono compiti di
integrazione organizzativa e presentano una maggiore propensione alla
negoziazione individuale.
La prassi degli attori è sempre in anticipo rispetto agli interventi di
regolazione o al lavoro di osservazione ed analisi; non sono mancati
tentativi di superamento di questi deficit di rappresentanza, di particolare
interesse il caso del “comitato di sito” espresso dall’accordo del 1999 tra le
rappresentanze sindacali unitarie e l’Iveco di Brescia. Qui l’Iveco decise di
procedere con la cessione di un ramo di impresa, il reparto presse, ad
un’impresa esterna (Magnetto); un caso che può rientrare nella categoria
dell’outsourcing modulare del processo produttivo.
Questo accordo, unico nel panorama delle relazioni industriali in Italia,
prevede in primo luogo il mantenimento dell’unicità contrattuale delle
attività cedute, ovvero lo stesso CCNL. È da sottolineare che l’unicità
contrattuale è uno dei tratti fondanti le relazioni tra sindacato e management
nell’area industriale di Melfi; un tratto comune di una certa rilevanza
nonostante la diversità profonda dei siti produttivi, sito “storico” come
quello di Brescia ed a “prato verde” come nel caso di Melfi39.
Viene garantito il mantenimento degli accordi integrativi esistenti,
estesi alle imprese che fanno parte del sito, ed inoltre nei casi di crisi
occupazionali o in casi di singoli problemi di salute le imprese del sito si
impegnano a definire delle strategie cooperative di assorbimento degli
esuberi e di ricollocazione dei singoli lavoratori. Questi elementi vengono
ulteriormente rafforzati dal riconoscimento di una rappresentanza sindacale
di sito che ha la facoltà di negoziare le questioni comuni alla inprese facenti
parte del sistema di fornitura di Iveco e di coordinare le strategie sindacali
(traiettorie occupazionali, carichi di lavoro, gestione degli orari, premi di
risultato), e per questo è nelle condizioni di occupare uno spazio di
negoziazione nelle politiche industriali della filiera di prodotto.
L’innovazione organizzativa del “comitato di sito” è fuori discussione,
sia per quanto riguarda i contenuti, sia per quanto concerne il percorso che
ne ha consentito la formazione, tutto interno alla procedimentalizzazione
delle regole di contrattazione aperte dal Protocollo del 1993; infatti più che
introdurre un nuovo livello negoziale in competizione con quelli esistenti
(settore, territoriale, aziendale), la rappresentanza sindacale di sito può
39
Per un confronto sulle applicazioni della lean production a Melfi e a Brescia si
rimanda rispettivamente ai saggi di Fortunato (2000) e Marchetti (2000).
Dal just in time alla produzione modulare
55
essere considerata come una forma estesa di rappresentanza aziendale, che si
struttura sulla crescente interdipendenza che lega le imprese di fornitura al
cliente finale. Riunifica ciò che la frammentazione proprietaria aveva
separato, ricongiungendo anche altre imprese appartenenti al sito produttivo.
È interessante notare che a fronte della strategia dualistica di Iveco
(esternalizzazione proprietaria/internalizzazione operativa) la strategia
sindacale sia tutta focalizzata sul terreno dell’organizzazione del processo
produttivo, le sue caratteristiche e le sue interdipendenze, e con l’obiettivo
di ridurre i margini di “extraterritorialità della rappresentanza”40.
Rimangono tuttavia aperti alcuni interrogativi riguardanti le procedure
di legittimazione del comitato di sito, e quindi la sua stabilizzazione quale
corpo rappresentativo di una filiera inter-aziendale. Questo passaggio non è
secondario. Infatti, il comitato di sito resta una “costruzione” in via di
definizione visto che i suoi membri sono designati dal sindacato e non
direttamente eletti dai lavoratori interessati; si ripropone quindi il problema
della legittimazione sotto il profilo dei meccanismi di assegnazione della
delega.
Inoltre, l’insediamento del comitato è stato l’esito di un “effetto traino”
attivato dalla forte sindacalizzazione interna agli stabilimenti Iveco che ha
incluso le aziende minori, oltre all’impresa che ha acquistato nello specifico
l’attività esternalizzato da Iveco. È stata il prodotto di un gioco negoziale in
cui i settori più forti del sindacato hanno trainato quelli con minore potere
contrattuale, ma pur sempre l’esito di rapporti di forza, per definizione
variabili.
I fattori che intervengono sullo stato delle relazioni industriali sono
diversi: la struttura del mercato del lavoro, i livelli di sindacalizzazione, la
tradizione negoziale. Non da ultimo la penetrazione della rappresentanza
contrattuale anche in quei settori della forza lavoro più professionalizzati e
40
Per “extraterritorialità della rappresentanza” si intende un contesto lavorativo nel quale
lavoratori dipendenti da imprese diverse a seguito di cessioni di ramo di impresa si
trovino a condividere lo stesso spazio fisico, o cooperare stabilmente sugli stessi
processi. In questo caso il rappresentante sindacale di una delle imprese non è legittimato
ad intervenire per questioni riguardanti i lavoratori delle altre imprese, pur condividendo
lo stesso contesto di lavoro. A questo proposito, riferendosi al caso di outsourcing tra Fiat
e Magneti Marelli, Garetti, Rieser e Sartiano (2000) fanno l’esempio di un caso di
infortunio incorso ad un addetto della Magneti Marelli che ha sollevato l’iniziativa dei
delegati sindacali di Fiat. L’iniziativa si è sviluppata sino al blocco della produzione con
perdite sul volume di vetture programmato. Fiat intima, prima alle RSU, poi a Magneti
Marelli l’indennizzo delle perdite aziendali. Questo caso offre un esempio di relazioni
industriali in un contesto di confini di impresa appannati dalla “co-localizzazione”
derivanti da fenomeni di outsourcing.
56
Dal just in time alla produzione modulare
meno esecutivi. Il comitato di sito resta un’esperienza inedita soprattutto sul
terreno della estensione orizzontale della rappresentanza, rimane ancora
debole la sperimentazione di soluzioni organizzative e negoziali riguardanti
l’avvicinamento a quella gamma variegata di lavoratori della conoscenza
che operano tra gli interstizi delle attività organizzative favorendone il
coordinamento. Nelle esperienze di terziarizzazione avanzata queste due
traiettorie della rappresentanza contrattuale si compenetrano, e costituiscono
due condizioni inseparabili di un sistema di relazioni in presa diretta con il
mutamento organizzativi dei confini delle imprese. Esse assorbono le
questioni cruciali della “partecipazione”; nella determinazione del salario
variabile espresso nella formula dei premi di risultato, ma anche in relazione
alle modalità di contrattazione del salario professionale. Quella
professionalità che nell’ottica del sindacato è una questione unificante, e
costituisce il “collo di bottiglia” per ogni strategia collettiva di
contrattazione del sapere, mentre nella prospettiva manageriale costituisce il
terreno su cui negoziare la produzione di risorse che riescano ad arginare
l’incompletezza strutturale dei contratti commerciali. Come si vede, per
entrambi gli attori – manageriale e sindacale – la risorsa “sapere” (come
articolazione di esperienza, competenza, professionalità) è di cruciale
importanza. La sua rappresentanza, a partire dai sistemi premianti e di
incentivazione, è ciò che può determinare l’esito di un gioco negoziale.
e.
Il contratto di prodotto una strategia di riunificazione contrattuale.
a) Problemi e prospettive.
Sin dalle prime esperienze di “decentramento produttivo” il dibattito
sindacale è stato attraversato, con alterna intensità, dalla necessità di
individuare forme di contrattazione in grado di comprendere la “rete” di
imprese coinvolte nel ciclo di produzione di uno specifico prodotto. In
quella fase la maggiore difficoltà non risiedeva tanto nella ricerca di
strumenti adeguati ad estendere “verticalmente” la rappresentanza, quanto
invece a promuoverne l’estensione orizzontale, cioè unire intorno ad uno
stesso “luogo” negoziale imprese giuridicamente distinte.
Senza mai trovare una esplicita formalizzazione, le ipotesi di “contratto
di prodotto” emerse sin dagli anni ’70, oggi riscoprono nuove ragioni di
riflessione. Questa ipotesi non costituisce solo la proposta più avanzata di
dare una veste contrattuale al mutamento organizzativo intervenuto nella
filiera di prodotti complessi, essa offre anche l’occasione per misurarsi con
Dal just in time alla produzione modulare
57
le problematiche che intervengono nella regolazione delle relazioni di lavoro
in un contesto di terziarizzazione avanzata.
Sul versante delle relazioni industriali la proposta del “contratto di
prodotto” trova, senza dubbio, elementi di collegamento con l’esperienza
della rappresentanza di sito. La contiguità fisica delle imprese della filiera
sia nelle versioni della ingenerizzazione congiunta sia nel caso
dell’outsourcing modulare favoriscono la costruzione di relazioni industriali
in grado di ricompattare sul terreno della rappresentanza ciò che la “disintegrazione” del ciclo produttivo ha frammentato. Come è stato detto in
precedenza, la “contrattazione partecipativa” necessita di misurarsi in una
prospettiva inter-aziendale; a partire proprio dalla specificità del contratto di
fornitura.
Particolarmente in riferimento al contratto commerciale di fornitura in
outsourcing (processo/prodotto) si è sviluppato un filone della
giurisprudenza lavorista che individua nel contratto commerciale di cessione
di ramo di impresa il riferimento “datoriale” nella stipulazione dei contratti
di impiego; in questo caso il datore di lavoro non è la singola impresa ma il
contratto commerciale che lega l’impresa outsourcee a quella outsourcer
(Corazza, 1999). Questa soluzione consente di lasciare invariato il
riferimento allo stato giuridico del concetto di impresa e nello stesso tempo
di ancorare lo stato giuridico del lavoratore all’organizzazione produttiva in
caso di cambiamento del titolare di azienda41. Ricercare nel contratto
commerciale tra le imprese l’origine della regolazione normativa dei
rapporti di impiego, può consentire un primo passa verso l’allineamento
dell’integrazione organizzativa con quella contrattuale, ed aprire uno
spiraglio per un intervento estensivo della rappresentanza sindacale interorganizzativa.
Questa soluzione costituisce senza dubbio un passo in avanti nel
supporto normativo a soluzioni negoziali improntate al governo delle
esternalità negative, soprattutto per le organizzazioni sindacali, che
41
Scrive Corazza (1999): «l’individuazione dell’organizzazione alla luce del contratto
commerciale che lega le due imprese consente, pertanto, una lettura “leggera”
dell’impresa, che ne valorizzi i profili di dematerializzazione, permettendo, tuttavia, di
leggere i suoi requisiti (che restano quelli indicati all’art. 2082 c.c.) in base ad un dato
giuridico dotato di un minimo di certezza» (400). Per quanto riguarda invece le
condizioni giuridiche del lavoratore se l’organizzazione viene caratterizzata dal contratto
commerciale nei fenomeni di integrazione contrattuale «consente di operare un controllo
sulle operazioni di esternalizzazione poste in essere dal datore di lavoro, con la
conseguenza di ricondurre tali modalità organizzative dell’impresa alla fisiologia dei
rapporti economici e di impedire la “torsione” delle tecniche normative poste a tutela del
lavoro subordinato» (404).
58
Dal just in time alla produzione modulare
scaturisce dall’outsourcing modulare. Ma offre anche spunti di riflessione
per la sperimentazione di una contrattazione estesa a quelle imprese
appartenenti al primo livello di fornitura ma non coinvolte nella cessione di
rami di impresa da parte dell’azienda finale.
Con il “contratto di prodotto”, l’attore sindacale quindi si estende oltre i
confini della singola imprese e definisce una rappresentanza sindacale di sito
con la possibilità di individuare una “controparte” non più ristretta al
management aziendale ma alle strutture manageriali delle diverse aziende
tenute insieme dai contratti commerciali di fornitura. Con questo passaggio
si determina anche un effetto aggregativo sotto il profilo della
rappresentanza degli interessi datoriali.
Sono diversi gli elementi che spingono l’attore sindacale verso questo
tipo di soluzione inclusiva dell’azione, ed altrettante le difficoltà che
l’accompagnano; ma soprattutto questa ipotesi di lavoro dà per acquisite le
sue premesse, ovvero l’estensione orizzontale della rappresentanza e quella
verticale. È proprio quest’ultima a rappresentare i maggiori problemi e
difficoltà; non solo per ragioni interne al sindacato stesso, ma anche per le
resistenze da parte manageriale. Resistenze che si coagulano intorno alla
tendenza a riconoscere nell’attore sindacale il ruolo di co-regolatore del
bene collettivo-competitività, ma confinato nella giurisdizione delle
grandezze misurabili (i parametri del salario variabile), lasciando così fuori
l’azione collettiva dalla contrattazione del sapere esperto, che viene invece
sottoposto a relazioni negoziali lavoratore-management.
Sul fronte opposto, è necessario un approfondimento del contratto di
prodotto analizzato dal punto di vista degli attori datoriali.
Nel corso di tutto questo lavoro l’analisi è stata focalizzata sul rapporto
privilegiato tra l’impresa madre e le imprese appartenenti al primo livello di
fornitura; un rapporto che è senza dubbio caratterizzato da una maggiore
“intensità” nello scambio di informazioni per il coordinamento dei processi
produttivi. Ma sono state escluse quelle imprese che invece si trovano nei
livelli intermedi o più periferici della catena di fornitura. In termini più
sociologici, sono state prese in considerazione solo le imprese la cui
strategia è collocabile tra quelle che perseguono una “via alta alla
flessibilità” (Regini, 2000; Trigilia, 1996), dove il problema della
competitività è inseparabile da un’alta qualificazione e da un elevato grado
di cooperazione. Mentre è stato riservato poco spazio alle imprese dislocate
nella categoria della “via bassa alla flessibilità” dove la competitività è
perseguita attraverso un impoverimento della prestazione e del suo costo
orario. Certamente, questi due idealtipi vanno intesi in modo elastico
rispetto alla complessità del fenomeno, ma ci possono comunque supportare
Dal just in time alla produzione modulare
59
nella ricostruzione dei limiti che l’ipotesi del “contratto di prodotto” incrocia
quando si passa dalla sua enunciazione alle potenzialità concrete di
realizzazione.
L’«impresa qualificata di qualità», soprattutto in un contesto di
outsourcing modulare, e l’impresa labour-intensive che opera secondo un
sistema just in time ma senza investimenti nella professionalità delle risorse
umane, sono gli estremi di una casistica di configurazioni aziendali e di
strategie di competitività; questa complessità interna al sistema della filiera
non comporta solo uno scrupolo descrittivo, è cruciale per qualsiasi ipotesi
di contrattazione estesa, di cui il “contratto di prodotto” è una possibile
soluzione. Con la Fig. II si fornisce uno schema semplice delle
problematiche che emergono dall’intersezione di diversi cicli di prodotto.
Fig. II - Cicli di prodotto e contrattazione collettiva
Ciclo di
prodotto B
Imprese di
secondo livello di
subfornitura
Imprese di Primo
livello di
subfornitura
Impresa
outsourcee
A
Impresa co-design
Impresa
outsourcer
Ciclo di prodotto C
B
Impresa codesign
Ciclo di prodotto A
Fonte: nostra elaborazione
In essa sono rappresentati tre ipotetici cicli di prodotto non
necessariamente collegati fra loro. In ciascuno di essi la catena di fornitura
prevede un’impresa finale, un’impresa di fonitura collocata nel primo anello
e due livelli successivi di subfornitura. Uno schema semplice che viene
problematizzato attraverso due categorie: la contiguità fisica del rapporto
60
Dal just in time alla produzione modulare
fornitore/cliente, ed il grado di dipendenza del fornitore dall’impresa
committente.
L’azienda di subfornitura dislocata negli anelli finali della catena, ha
caratteristiche organizzative che non prevedono necessariamente la
contiguità fisica della co-location “sulla linea” o in prossimità di essa, pur
presentando un alto grado di dipendenza dall’impresa committente
dipendenza da un cliente. In questo caso la dipendenza del fornitore tende ad
essere unilaterale, e fortemente esposta alla variabilità delle scelte
dell’impresa committente, la quale utilizza questa asimmetria come
strumento di riduzione dei costi e selezione del proprio parco fornitori. Al
contrario l’impresa “co-design” o outsourcee, collocate o in prossimità o
“sulla linea” del cliente finale tendono verso un sistema bilaterale di
dipendenza.
L’impresa fornitrice partecipa a differenti “catene di fornitura”, come
dimostra il caso dell’impresa di “co-design – A” collocata su due filiere tra
loro non interagenti. Qui la pluricommittenza per le imprese del primo
anello di fornitura è un un elemento di competitività assai rilevante; infatti
l’impresa finale tende a costruire rapporti di collaborazione con imprese
inseriti in più circuiti produttivi, e quindi maggiormente soggetta ad
esternalità positive derivanti da economie di apprendimento. Questo
discorso può essere parzialmente esteso a quelle imprese che si trovano a
fornire prodotti, semilavorati, servizi alle imprese del primo anello
(codesign e outsourcee) ma non sono collocate alla “periferia” della filiera,
ed intrattengono a loro volta molteplici rapporti commerciali con altre filiere
di prodotto.
Ancora differente è il caso delle imprese legate da contratti di
outsourcing; qui la dipendenza è bilaterale come nel caso dell’impresa codesign ma la contiguità fisica del fornitore si spinge “all’interno” dei
processi produttivi dell’impresa finale.
Da questa stilizzazione dei “tipi” di rapporti di di fornitura, nonostante
la sua semplificazione, è possibile tracciare alcune considerazioni sulle
problematiche legate ad un’ipotesi di relazioni industriali estese alla filiera.
Ed emerge che la contrattazione si rivela più praticabile nelle modalità di
fornitura che si trovano agli estremi di questi casistica; ovvero nell’impresa
periferica e nell’impresa invece che opera “sulla linea” del cliente finale. La
dipendenza unilaterale della prima e la contiguità fisica della seconda, e per
entrambi la sostanziale esclusività del contratto di fornitura, sono condizioni
che rendono possibile l’impostazione di relazioni industriali estese. Ad
esempio la Mac impresa in outsourcing con l’Iveco opera su altri siti
produttivi e stringe rapporti di fornitura con altre imprese finali, ma
Dal just in time alla produzione modulare
61
all’interno di quel sito la preminenza va al rapporto di fornitura con Iveco, e
questo disegna uno scenario più praticabile di rappresentanza e
contrattazione sindacale allargata.
I nodi più problematici emergono invece quando la contrattazione
investe le imprese in “co-design”; qui il dato più rilevante è che la presenza
in molteplici catene di fornitura all’interno dello stesso sito produttivo passa
dall’essere un fattore di competitività nelle relazioni inter-aziendali a
diventare un fattore frenante nelle relazioni industriali. Un’azienda con
queste caratteristiche vedrebbe moltiplicare i costi di contrattazione,
derivanti dal dover definire relazioni industriali per ogni filiera di prodotto a
cui prende parte all’interno di uno stesso sito; sarebbe cioè parte di diversi
momenti contrattuali quanti sono le catene di fornitura in cui offre prodotti o
servizi.
Già nella forma semplificata della Fig. II emergono degli ostacoli di
non facile superamento che si moltiplicano in un confronto più puntuale con
l’ecologia organizzativa dei sistemi complessi di fornitura; se pensiamo, ad
esempio, che un sistema di fornitura come quello dello stabilimento torinese
di Comau, nella produzione di sistemi di automazione industriale, ha una
catena di fornitori che nel 1998 raggiungeva, secondo fonte aziendale, le
488 unità, la complessità del tessuto industriale rischia di paralizzare ogni
ipotesi contrattazione decentrata di “seconda generazione”; con le imprese a
committenza plurale che restano uno degli ostacoli principali alla estensione
orizzontale della rappresentanza e della contrattazione.
Le difficoltà così delineate alla praticabilità del “contratto di prodotto”
presentano un’altra intonazione se alla filiera di prodotto si sostituisce il
territorio; in questo caso non sono più le interdipendenze tra le imprese a
costituire il fattore di riferimento, ma l’area o il distretto industriale. Questa
traiettoria viene dal Protocollo del ’93 e da accordi successivi (1996, 1998)
che ridisegnano le modalità di programmazione negoziata a livello
territoriale (contratti d’area, patti territoriali). Assegnare quindi alla
contrattazione territoriale il ruolo di supplire alle difficoltà di quella
aziendale sostituendosi ad essa implica una revisione del ruolo dell’attore
sindacale come agente di contrattazione delle condizioni di lavoro. Il
primato della regolazione economica territoriale su quello inter-aziendale
lascerebbe uno spazio residuale alla negoziazione delle condizioni in cui si
svolge la prestazione lavorativa.
Non c’è solo un mutamento di livello negoziale, questa diversa
traiettoria verrebbe ad incidere anche, e soprattutto, sulla stessa qualità della
rappresentanza degli interessi trasformando anche i presupposti di
legittimazione di questa rappresentanza.
62
Dal just in time alla produzione modulare
Non è questa la sede per addentrarci in considerazione di valore ed
opportunità di questa soluzione, tuttavia il contratto di prodotto è un’ipotesi
che si espone, in virtù dei suoi intrinsechi limiti, a critiche di varia natura,
ma rappresenta un tentativo di salvaguardare l’impianto della contrattazione
decentrata emersa dal Protocollo del 1993, come strumento di controllo
organizzativo della prestazione, in “presa diretta” sui mutamenti
organizzativi delle imprese senza alterare la natura dell’organizzazione
sindacale come agente contrattuale.
Tutta l’argomentazione di questo saggio verte, invece, sulla interaziendalità dei processi di trasformazione del sistema di fornitura che può
coincidere con una specifica configurazione territoriale ma non si annulla in
essa.
Se non si abbandona la prospettiva della filiera di prodotto, la
contrattazione estesa può prendere due direzioni.
Una versione limitata viene circoscritta a strategie di contrattazione
sindacale con l’impresa “madre” quando decide di esternalizzare proprie
funzioni aziendali, allo scopo di garantire l’unicità di trattamento
contrattuale; in questo caso l’obiettivo sembra essere quello di impedire
forme di dumping contrattuale con imprese che diversificano i loro CCNL
pur facendo parte di uno specifico settore, oltre che di ciclo di prodotto. Qui
l’obiettivo concerne la definizione di un luogo comune di contrattazione
(unico tavolo negoziale) per la definizione di regole condivise; il raggio di
estensione della contrattazione non si spinge oltre i rapporti di outsourcing e
quindi non comprende le imprese collocate ai livelli intermedi e periferici
della filiera di prodotto.
Una seconda soluzione, estesa, fa ruotare la contrattazione intorno alla
impresa finale allo scopo di intercettare il maggior numero di imprese che
concorrono alla produzione di un prodotto. In questo caso un eventuale
“contratto di prodotto inter-aziendale” dovrebbe comunque sciogliere i nodi
relativi ai luoghi ed ai contenuti di questa produzione normativa decentrata.
Rimarrebbe in sospeso quell’equilibrio tra contrattazione decentrata e
nazionale di categoria che costituisce una delle innovazioni più rilevanti del
Protocollo del 1993; in ogni contratto collettivo di categoria sono state
predisposte delle voci che disciplinano la contrattazione decentrata, ma non
quella inter-aziendale di prodotto, che quindi richiederebbe interventi di
modifica per il ripristino tra dell’equilibrio tra il livello centrale e quello
periferico. Alla versione estesa può essere ricondotto il caso del “comitato di
sito” bresciano; infatti superato il problema non irrilevante della
rappresentanza, un eventuale accordo integrativo di sito non può eludere la
Dal just in time alla produzione modulare
63
ricerca di questo equilibrio, originariamente calibrato sulla contrattazione
aziendale circoscritta alla singola impresa.
Ma al di là di elementi di natura giurisprudenziale, non secondari,
permangono, soprattutto nella versione estesa vincoli di fattibilità. Le
imprese pluricommittenti, infatti, sarebbero coinvolte in un numero di sedi
contrattuali pari a quello delle catene di fornitura di appartenenza, con un
incremento esponenziale dei costi di contrattazione per l’impresa,
rafforzando le resistenze interne ed esterne all’impresa, a cui si aggiungono
costi di coordinamento per le stesse rappresentanze sindacali che si
troverebbero a governare una complessità rivendicativa eccessivamente
onerosa.
f.
Conclusione. La contrattazione nella terziarizzazione avanzata:
una sfida strategica del sindacato.
La contrattazione è un processo regolativo che ha come esito la
produzione di accordi finalizzati a definire il coordinamento dei rapporti tra
gli attori, l’allocazione delle risorse e la strutturazione dei conflitti; in qusto
contesto d’azione gli attori si fronteggiano in un gioco negoziale dove
l’azione di ciascuno di essi è proporzione della capacità di controllare i
margini di incertezza della controparte e di condizionarne i punti più
vulnerabili. E questo vale ancor di più per le relazioni industriali dove un
singolo accordo è un’azione di compromesso che si misura costantemente
con il “potere sociale” degli attori. Per questo i due tipi di rappresentanza
sindacale hanno trovato uno spazio cruciale nel ragionamento complessivo
di questo lavoro. Sono due dimensioni dell’azione sindacale che possono
essere disgiunti in un contesto industriale generico, e tra essi non esiste una
relazioni di causalità, o almeno di stretta dipendenza. Nel contesto di una
filiera di prodotto attraversata da un sistema integrato e modulare di
organizzazione dei rapporti di fornitura emerge, se non un rapporto di
dipendenza, certamente la centralità di un gruppo minoritario di lavoratori
che si trova a svolgere compiti di governo dei gangli vitali della
cooperazione tra le imprese, con effetti che vanno ben oltre le singole
operazioni ed attività ed arginano i rischi provenienti dall’incompletezza dei
contratti di fornitura.
Dal punto di vista delle relazioni industriali la loro importanza cresce in
due direzioni; da un lato sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, ma
anche quanto più le loro modalità di contrattazione si allontanano dal ricorso
all’azione collettiva, e quindi ai problemi di rappresentanza che pone
all’attore sindacale.
64
Dal just in time alla produzione modulare
La sindacalizzazione dei lavoratori non manuali (tecnici, supervisori,
ricercatori, progettisti) costituisce da sempre un nodo problematico, non solo
in termini di democrazia sindacale ma anche di strategia contrattuale; resiste
dove sopravvivono nicchie di “subcultura” sindacale, dove esiste una
tradizione di identità plurale nella prassi negoziale e nel gruppo dirigente del
sindacato (Giaccone, 1999), ma non ha il peso di un obiettivo strategico.
Proiettato in un contesto di filiera integrata e modulare, il ritardo
nell’incorporazione di questi lavoratori nei processi di formazione della
volontà collettiva del sindacato – un deficit di “multiculturalismo
professionale” - non ha conseguenze sulla “partecipazione”, in quanto
assetto normativo, ma sulla sua qualità ed articolazione. In questo senso il
“testo” del Protocollo è un progetto incompiuto più che inadeguato.
In primo luogo la loro esclusione comporta un impoverimento dei
contenuti della contrattazione collettiva aziendale, ristretti al computo di
parametri oggettivi, da cui viene esclusa la regolazione della risorsa sapere.
È qui che appare sempre più evidente che la secca alternativa tra la
negoziazione collettiva e quella individuale non riesce a cogliere la volontà
dei lavoratori più qualificati, i produttori di integrazione, di preservare una
quota del salario variabile alla contrattazione individuale, e che il problema
si sposta sul terreno del controllo collettivo delle regole che informano
proprio la contrattazione tra singolo lavoratore e management.
In secondo luogo, considerata la crescente rilevanza dei produttori di
integrazione nella gestione delle interdipendenze tra le imprese, il primato
della componente manuale del lavoro nella costruzione delle istanze
rivendicative condiziona fortemente il potere di influenza dell’attore
sindacale sul processo regolativo.
Infine, la delimitazione della rappresentanza a determinate fasce
professionali di lavoratori può essere l’indicatore di una mutazione profonda
dell’attività sindacale in una sorta di “organizzazione di avanguardia”, con i
rischi di arroccamento corporativo di una parte che, in conseguenza delle
profonde trasformazioni intervenute nei modelli di produzione, non è più
nelle condizioni di rappresentare una strategia di contrattazione
generalizzata.
Prima di essere una questione organizzativa, la capacità di presa diretta
sull’articolazione dei profili professionali che innervano i processi di
produzione mette in discussione la concezione stessa del ruolo sindacale, la
sperimentazione di ipotesi di “contrattazione partecipativa di sito”, ma piu
estesamente il controllo sui processi di regolazione nelle situazioni di
terziarizzazione avanzata.
Dal just in time alla produzione modulare
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Qui però l’elaborazione teorica si ferma; il compito di sollevare temi ed
interrogativi si arresta sulla soglia del lavoro empirico di ricerca, a cui spetta
il compito di verificare caso per caso quelle soluzioni che i diversi attori
della contrattazione costruiscono nel corso della loro prassi quotidiana.
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